Carcere, a gennaio non c’è stata la svolta promessa dalla Cartabia di Riccardo Polidoro Il Riformista, 12 febbraio 2022 Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel messaggio al Parlamento nel giorno del giuramento, ha dettato l’agenda politica per i prossimi anni ed ha disegnato un Paese che faccia della “dignità” la sua bussola. Con riferimento all’esecuzione della pena: “Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale dei detenuti. Questa è anche la migliore garanzia di sicurezza”. I numerosi applausi rivolti al Capo dello Stato da parte dei parlamentari, che hanno per ben 52 volte interrotto il suo discorso, non sono un buon segnale perché, evidentemente, non si è compreso che quelle parole erano un solenne rimprovero ad una politica inefficiente e autoreferenziale. Ci auguriamo che, applaudendo, onorevoli, senatori e ministri abbiano trovato il tempo di prendere appunti da utilizzare per il futuro. In tema di giustizia, la ministra Marta Cartabia ha, in più occasioni, affermato che il carcere è una delle priorità del Governo e che gennaio sarebbe stato il mese in cui vi sarebbero stati importanti provvedimenti. Ma gennaio è passato e non s’intravedono atti che possano apportare sostanziali modifiche ad un sistema da sempre al collasso. Lo stesso presidente del Consiglio Mario Draghi ha dichiarato che occorrono immediate riforme. Eppure ben tre commissioni ministeriali hanno già predisposto, da tempo, quanto occorre fare. A questi lavori, recentemente, si sono aggiunti quelli di altre due commissioni nominate dal ministro della Giustizia. La riforma è, dunque, pronta. Manca la volontà politica di attuarla. Tra l’applauso e il fare c’è di mezzo il mare e nel caso dell’esecuzione penale un oceano sempre agitato che miete costantemente vittime. Allo scorso 9 febbraio sono 29 i detenuti morti nel 2022. Tra questi 9 suicidi. Mentre scriviamo ci giunge notizia di un altro suicidio all’Ucciardone di Palermo. Il sovraffollamento cresce di giorno in giorno. Ci stiamo avvicinando a 10.000 presenze in più, rispetto alla capienza consentita. Vi sono circa 3.400 detenuti positivi. La maggior parte delle attività trattamentali, già insufficienti, sono sospese. In alcuni istituti sono riprese le proteste dei detenuti e la stessa polizia penitenziaria ha annunciato lo stato di agitazione. Nel carcere di Poggioreale, il 9 febbraio scorso, vi erano 2.258 detenuti mentre la capienza dichiarata è di 1.571 posti. Inoltre la distribuzione delle persone nei singoli padiglioni non è, per motivi di sicurezza, omogenea e così si hanno reparti per 29 detenuti dove ve ne sono 99. L’Unione camere penali ribadirà ancora una volta - nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti italiani che si terrà oggi e domani a Catanzaro - che vanno recuperati immediatamente i lavori della commissione per la riforma dell’ordinamento penitenziario e rispettate le pronunce della Corte Costituzionale. Non servono nuove strutture e più agenti. Occorrono amnistia e indulto, unitamente alla liberazione anticipata speciale, per abbattere il sovraffollamento e consentire l’effettiva svolta. Ci sono circa 7.000 persone che scontano una pena sotto i tre anni e circa 1.200 con pena al di sotto di un anno. Sono detenuti che a breve saranno liberi. È necessario poi fare ricorso alla pena detentiva solo in occasioni di concreto pericolo per la comunità e dare maggiore spazio alle misure alternative. Rivedere l’organizzazione dei Tribunali di Sorveglianza. Aumentare l’organico di operatori sociali, psicologi, mediatori culturali. Riorganizzare gli interventi sanitari. E soprattutto ripensare al carcere non solo come punizione, ma come opportunità di recupero sociale, nel rispetto del dettato costituzionale, come chiaramente indicato dal Presidente della Repubblica. Siamo alla vigilia della nomina di un nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, l’attuale si dimetterà il 1° marzo. Non si ripetano gli errori del passato. Si dia davvero un segnale di cambiamento, evitando la nomina dell’ennesimo magistrato, che non può avere l’attitudine a gestire un enorme apparato di circa 200 istituti penitenziari, 11 provveditorati regionali e la polizia penitenziaria. Una figura diversa - coerente con la funzione costituzionale della pena e non quale mero contrasto alla criminalità - garantirebbe la necessaria svolta che, salvaguardando la sicurezza, possa inserire tra i principali elementi della detenzione il lavoro, offrendo opportunità di recupero e, allo stesso tempo, risorse per una positiva gestione dell’amministrazione penitenziaria. Non più applausi, ma fatti! “Troppo carcere preventivo. Serve rispetto delle garanzie” di Valentina Stella Il Dubbio, 12 febbraio 2022 Al via l’inaugurazione dell’anno giudiziario dell’Ucpi a Catanzaro. Caiazza: “La riforma del Csm? Il sistema elettorale non cambia la cultura di un Paese”. “Tutelare la libertà del difensore per garantire l’indipendenza del giudice” è il tema al centro dell’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti italiani iniziata ieri a Catanzaro e che terminerà stamattina con l’intervento del presidente Gian Domenico Caiazza. Il segretario dell’Ucpi, Eriberto Rosso, aprendo i lavori, ha spiegato le ragioni sottese al luogo e al tema dell’evento: “La domanda di rigoroso rispetto delle garanzie è posta dall’avvocatura, in particolare in questi territori, che più volte hanno espresso forte disagio anche per le modalità di conduzione delle investigazioni e dei tempi dei procedimenti. C’è troppo ricorso al carcere come forma di cautela; la detenzione dell’assistito fuori dal distretto crea gravissime problematiche nel rapporto con il difensore; la difficoltà di costruire ragionevoli percorsi di habeas corpus, laddove si tratta di resistere a migliaia e migliaia di pagine in sede di rivisitazione delle ragioni della cautela; difensori, in questo come in altri territori, oggetto di intercettazioni telefoniche utilizzate nella fase delle indagini a fronte di una interpretazione della norma di garanzia secondo la quale questa troverebbe applicazione solo nella fase del processo e non nel procedimento. Ecco perché siamo qui”. Gli ha fatto eco il presidente Caiazza: “Naturalmente non sono scelte casuali: quando abbiamo deciso di parlare del problema della libertà del difensore come garanzia dell’indipendenza del giudice e quindi della giurisdizione, abbiamo pensato a Catanzaro e alla Calabria come uno dei luoghi dove questo tema è vissuto in modo più impegnativo e più estremo”. Una sua ampia considerazione è stata riservata anche alla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario: “Qui ci trastulliamo con le porte girevoli per quei 4- 5 magistrati che sono eletti parlamentari. Mi sembra una cosa francamente poco centrata. Così come il tema del sistema elettorale del Csm: a noi pare marginale l’illusione che modificando i sistemi elettorali si cambino la testa e le culture di un Paese”. Riguardo alle aspettative in vista del dibattito in Parlamento, Caiazza ha concluso: “Quando siamo stati chiamati a dare il nostro parere, come abbiamo fatto e ci è stato chiesto di fare con la riforma del processo penale, penso che abbiamo dato un buon contributo. Mi auguro che lo si possa dare anche su questo tema, anche se non so quale sarà il percorso parlamentare. Noi siamo sempre disponibili. Stiamo lavorando alle nostre leggi di iniziativa popolare sulla riforma dell’ordinamento giudiziario e presto parleremo attraverso quelle”. La polemica sollevata dall’Ucpi è nota da tempo: non sono stati chiamati né dai membri della Commissione Luciani né dalla ministra Cartabia a dare un loro contributo alla riforma appena varata in Cdm. E proprio Cartabia, nel suo intervento da remoto all’assise dei penalisti, è sembrata non riuscire ad affrontare con chiarezza la questione. Se è vero che ha detto che “il ruolo degli avvocati, anche su temi importanti come le valutazioni di professionalità o l’assegnazione degli incarichi apicali, sarà valorizzato da questa riforma”, dall’altra parte ha potuto solo aggiungere che “le fasi di attuazione delle riforme, che dovremmo concludere entro la fine dell’anno, vi vedono coinvolti come co- protagonisti, e saranno un terreno di confronto e di scambio”. Una sorta di contentino postumo che non avrà fatto piacere all’Unione. Tra i saluti istituzionali quello del presidente del Coa di Catanzaro, Antonello Talerico: “Questa due giorni è importante per lanciare proprio da Catanzaro un ulteriore sollecito allo Stato per adottare una vera riforma organica del processo, poiché siamo oramai abituati alle riforme del processo fondate e generate da compromessi politici per gli equilibri di coalizione o di partito, anziché a riforme organiche in risposta alle effettive esigenze della domanda di giustizia”. E poi la presidente del Cnf, Maria Masi, che ha ricordato una importante battaglia dell’organismo che presiede: “Il tema scelto ci è caro e rappresenta un principio che peraltro l’avvocatura istituzionale da un po’ di tempo insegue e persegue: il riconoscimento dell’avvocato in Costituzione. Il raggiungimento di tale obiettivo certificherebbe con ancora maggior forza l’avvocatura quale presidio dei diritti di tutti e in particolare dei più deboli. Inoltre, rafforzare la posizione dell’avvocato rappresenterebbe un beneficio per la magistratura perché consoliderebbe la complessiva autonomia della giurisdizione da ogni altro potere”. C’era molta attesa per l’intervento del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, con cui l’Ucpi si è spesso scontrata, seppur con uno spirito di confronto per superare le profonde diversità. Ma il magistrato ha deluso la platea perché si è limitato semplicemente a dire: “Sono qui per ascoltare le proposte di riforma viste dalla parte degli avvocati”. Carceri, undici suicidi in quaranta giorni di Valentina Ascione Il Riformista, 12 febbraio 2022 Mai così tanti tra gennaio e febbraio. L’ultimo a Messina, dove Manuela Agosta si è impiccata 48 ore dopo l’ingresso in prigione. Aveva 29 anni, era indagata per concorso in spaccio di stupefacenti. Manuela Agosta è la numero undici. L’undicesima persona a essersi tolta la vita in carcere nel 2021, e cioè in poco più di quaranta giorni. Si è uccisa giovedì scorso, impiccandosi con un lenzuolo nella sua cella nel carcere Gazzi di Messina, dove si trovava da sole 48 ore, in custodia cautelare nell’ambito di un’operazione antidroga condotta nei giorni precedenti a Catania. Aveva 29 anni. Era stata interrogata dal Gip per la convalida del provvedimento e aveva reso dichiarazioni spontanee. Pare che la donna avesse iniziato a piangere appena varcata la soglia della prigione. Era indagata per concorso in spaccio di sostanze stupefacenti: a quanto si apprende, per aver ceduto illecitamente marijuana e hashish. Sul suicidio di Manuela Agosta i pm di Messina hanno aperto un’inchiesta “per istigazione al suicidio contro ignoti”, riferiscono le agenzie di stampa, hanno disposto il sequestro della cella e l’autopsia sul corpo della giovane. I familiari di Manuela, assistiti dall’avvocato Vincenzo Mellia di Catania, hanno depositato un esposto ai carabinieri di Catania e alla Procura della Repubblica di Messina, chiedendo di chiarire i contorni della vicenda. Una vicenda molto dolorosa, su cui il professore Giovanni Fiandaca, illustre giurista che in Sicilia ricopre l’incarico di garante regionale delle persone private della libertà personale, ha chiesto una relazione alla direzione del carcere di Messina, fa sapere al Riformista. Solo poche ore prima era stato raggiunto dalla notizia di un altro tentativo di suicidio all’Ucciardone di Palermo. Martedì sera, nello stesso istituto, si era tolto la vita Francesco Merendino, appena 25 anni, uno dei detenuti cosiddetti “problematici” e “a rischio suicidiario”, a cui mancava poco per terminare la pena, come ha reso noto il garante nazionale dei detenuti. Mercoledì invece è stata la volta di un trentatreenne di origini tunisine recluso a Monza. Una serie drammatica di morti che impone di alzare il livello di attenzione. È necessario “attivare progetti di accoglienza alla vita carceraria”, ci spiega il professore Fiandaca, “soprattutto nei confronti di chi entra per la prima volta in un istituto di pena” e non è attrezzato ad affrontare un trauma simile, “coinvolgendo - previa adeguata formazione - anche gruppi di detenuti nell’attività di sostegno psicologico ai nuovi arrivati”. “Mancano le risorse umane, gli specialisti in psichiatria sono andati via via diminuendo”, denuncia Fiandaca. Intanto il disagio dilaga, anche a causa del Covid che ha prodotto angoscia e sofferenza particolarmente acute nelle prigioni: per la paura del contagio associata alla difficoltà di isolare i positivi in ambienti sovraffollati, ma anche per le restrizioni che hanno limitato i colloqui, allentando ulteriormente il filo delle relazioni affettive e i rapporti con l’esterno. “Si stima, ma non ci sono statistiche precise, che il disagio psichico riguardi più del 40 per cento dei detenuti, chiudiamo in carcere persone fragili sapendo che la detenzione non potrà che peggiorare la loro condizione. Prima di disporre le misure carcerarie, ogni magistrato dovrebbe valutare anche le condizioni psicologiche, ma chi ha la sensibilità per farlo?”, domanda Giovanni Fiandaca, che coglie così l’occasione per mandare un messaggio in vista della nomina del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dopo il pensionamento di Dino Petralia: “Non dovrebbe essere un pm, ma un giudice di sorveglianza con la sensibilità e la competenza per affrontare il tema del disagio psichico e delle patologie psichiatricamente rilevanti”. C’è però un altro aspetto da non trascurare quando si parla della piaga dei suicidi tra i detenuti, di fragilità e anche di sovraffollamento: le ragioni per le quali si finisce in galera. Oltre un terzo dei reclusi nelle carceri italiane è dentro per violazione della legge sulle droghe. Proprio come Manuela Agosta. In moltissimi hanno problemi di tossicodipendenza: il 38,6 per cento di coloro che hanno fatto ingresso in prigione nel 2020, si legge nell’ultimo “Libro bianco sulle droghe” curato da Forum droghe, Antigone e altre associazioni, una percentuale in aumento costante. Anche per questo da più parti si invoca una modifica del testo unico sugli stupefacenti che, attraverso un deciso intervento di depenalizzazione, consentirebbe di risolvere l’annoso problema del sovraffollamento in carcere, nuovamente in crescita dopo la flessione dovuta alle misure straordinarie anti Covid varate dal governo per prevenire il contagio tra i detenuti. Il 15 febbraio la Corte costituzionale è chiamata a giudicare l’ammissibilità del quesito referendario che punta, tra l’altro, a eliminare le pene carcerarie per tutte le condotte legate alla cannabis. Una riforma in senso antiproibizionista, che darebbe una boccata d’ossigeno al disastrato sistema penitenziario, risparmiando a tanti l’esperienza della galera. Il Garante nazionale Mauro Palma: “Il Covid ha tolto la vitalità in carcere” di Silvia Rocchi rainews.it, 12 febbraio 2022 Alti anche i numeri di autolesionismo. La pandemia ha accentuato la pressione sui detenuti e sugli agenti di Polizia Penitenziaria. Dall’inizio del 2022 in carcere dieci persone si sono tolte la vita, 4 sono i decessi per cause da accertare. I numeri li ha dati a Rainews.it Mauro Palma, Garante nazionale dei Diritti delle Persone Private della Libertà. “Il suicidio di ieri - dice Palma - è quello di una ragazza di 29 anni che si è impiccata poche ore dopo l’ingresso nel carcere di Messina”. Resta invece da accertare, spiega, la morte del detenuto tunisino di 33 anni, nella casa circondariale di San Quirico a Monza. Dalle prime ricostruzioni il detenuto avrebbe inalato il gas della bomboletta di un fornelletto da campeggio. La Procura ha aperto un’inchiesta e chiesto ha l’autopsia. Dubbi su quello che è stato definito nelle agenzie “suicidio” li ha anche la direttrice Maria Pitaniello parlando all’Agi: “Non mi sento di affermare che si sia trattato di un suicidio, la magistratura farà in ogni caso chiarezza”. Se gli accertamenti verificheranno che l’uomo si sia tolto veramente la vita, allora sarebbe il secondo dall’inizio dell’anno in questo carcere e il quarto nel giro di pochi mesi, a partire dal 30 ottobre a oggi. Il carcere è un non luogo, qualcosa che esiste ma non si vede, che non tocca chi è fuori dalle mura. La vita in carcere, con la pandemia, ha perso la “vitalità”. “Le restrizioni per il Covid - racconta Mauro Palma - hanno azzerato le attività dei volontari, i lavori teatrali fino all’incontro con i parenti. Questa è la vitalità che si è persa”. Accanto ai suicidi ci sono gli atti di autolesionismo. “I numeri - spiega - sono altissimi circa un centinaio”. Cosa raccontano questi atti? Raccontano la richiesta di attenzione, raccontano la difficoltà di comunicare perché ci sono persone che non conoscono l’italiano o un’altra lingua. Raccontano di persone che improvvisamente vengono catapultate in una cella e non riescono a comunicare. Una realtà che pressa anche gli Agenti della Polizia Penitenziaria perché, se ci si ferma a pensare, sono uomini che chiudono a chiave altri uomini. Anche qui il Covid ha ridotto l’organico con conseguenze sulla sicurezza per tutti. “Non si scarica sugli operatori - ha detto Domenico Benemia, segretario del sindacato di Polizia penitenziaria Uilpa - il male del sistema, c’è un allarme, tra suicidi e aggressioni, che non può più essere ignorato”. “Ci vuole più personale - conclude - che permetterebbe maggiori controlli”. “In Italia - dice Mauro Palma - i posti regolari nelle carceri sono 48mila rispetto ad una popolazione di circa 53mila persone. In tempo di Covid è una situazione che permette strette misure di manovra. È difficile garantire la regola di un detenuto in 9 metri quadrati o di 2 in 15 metri”. “La politica - conclude Palma - deve ripensare il carcere attraverso la sicurezza”. Un luogo che diventa sempre più un’assenza affollata. Antigone: “Giustizia minorile, serve un nuovo codice penale” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 febbraio 2022 Secondo il VI Rapporto sulla giustizia minorile sono sempre meno i minorenni nelle carceri italiane: poco sopra le 300 unità con solo 8 ragazze. Per l’associazione un minore “va educato fuori dalle galere”. “Serve un nuovo codice penale per i minorenni”, questa è la richiesta che Antigone ha avanzato ieri durante la presentazione di Keep it Trill, il sesto rapporto dell’associazione sulla giustizia minorile. “Il furto di un ragazzino in un supermercato - ha sottolineato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - non può essere paragonato a quello in appartamento di una persona adulta. Il primo potrebbe essere depenalizzato, trattato civilmente, o affidandosi alla giustizia riparativa. Ben potrebbe essere trattato fuori dal diritto penale”. Questo anche a fronte del ruolo fortunatamente sempre più residuale che la detenzione dei ragazzi e dei giovani adulti ha all’interno del sistema penale minorile. Nel rapporto sulla giustizia minorile, Antigone sviscera un po’ di dati. Al 15 gennaio 2020, subito prima dell’arrivo in Italia dell’emergenza sanitaria da Covid-19, i ragazzi negli istituti penitenziari minorili (Ipm) erano 375, il 19% in più delle presenze attuali. Le presenze hanno raggiunto in questa fase il dato più basso mai registrato dal 2007 e sembrano essersi stabilizzate poco sopra le 300 unità. Per questo, sottolinea il rapporto, c’è l’importanza che non riprendano a crescere. Si è registrato un calo del 24% dal 2016 al 2020 - Guardando al numero totale dei minorenni arrestati o fermati dalle forze di polizia, Antigone rivela che siamo passati dalle 34.366 segnalazioni del 2016 alle 26.271 del 2020, con un calo percentuale del 24%. Non tutto è esito della pandemia. Il calo, infatti, era già riscontrabile nel 2019 quando le segnalazioni erano state 29.544, con un calo rispetto al 2016 del 15%. Sono solo 885, di cui 298 bambine, in tutto il 2020 le segnalazioni di delitti commessi da minorenni con età inferiore a 14 anni. La metà circa è composta da stranieri. Loro sono non imputabili. Dal rapporto di Antigone: diminuiti del 66% gli omicidi commessi dai minori - Calano di tanto anche gli omicidi commessi dai minori. Il rapporto rivela che, sempre considerando il quinquennio 2016-2020, gli omicidi volontari consumati da minorenni si sono ridotti enormemente, diminuendo di ben il 66%: erano stati 33 nel 2016 e sono scesi a 11 nel 2020. Antigone specifica che va sicuramente tenuto presente che anche tra gli adulti è costante la riduzione del numero degli omicidi. È un trend positivo che è iniziato a partire dagli anni 90. Sono due nel 2020 gli omicidi commessi da ragazze, una percentuale di poco meno del 20%, enormemente più alta rispetto all’incidenza complessiva delle donne in tutti gli indici di delittuosità. Ma quando i numeri sono così bassi contano più i dati assoluti che quelli percentuali: guardando alla nazionalità dei minorenni autori di omicidio, 7 sono italiani e 4 stranieri. In termini percentuali, i ragazzi stranieri che hanno commesso un omicidio sono pari al 43% del totale. Una percentuale in linea con il tasso di delittuosità dei minori stranieri, che è pari al 44% del totale. Tendenzialmente, a mano a mano che i reati diventano meno gravi la percentuale degli stranieri cresce, fino a raggiungere il 50% del totale nel caso dei delitti di furto. Gli Istituti penitenziari minorili sono una tappa del percorso rieducativo - Il 52,5% è in Ipm senza una condanna definitiva, ma Antigone specifica che è un dato non allarmante. Perché? L’Ipm è una tappa generalmente breve di un percorso più lungo, che si svolge soprattutto altrove, nelle comunità e sul territorio. Per questo motivo, anche quando si finisce in Ipm, non è affatto detto che poi lì si sconti la pena o il resto della misura cautelare. Quando la condanna diventa definitiva, il sistema tende a trovare una diversa collocazione per il ragazzo, spiegando così l’alta incidenza percentuale delle custodie cautelari. Guardando ai dati di flusso, tante delle persone che entrano in Ipm ci entrano in custodia cautelare (il 75,8% nel corso del 2021), e molte meno (il 24,2% nel 2021) in esecuzione di una pena definitiva. Altro dato è che i minorenni reclusi negli Ipm sono una minoranza pari al 41,5%. Sì, perché se ospitassero solo ragazzi tra i 14 ed i 21 anni di età, come era prima dell’agosto 2014, i presenti sarebbero in tutto 259, ovvero 100 in meno del dato più basso mai registrato prima della pandemia. Solo da qualche anno è prevista la possibilità di presenze di giovani tra i 21 e i 25 anni. Ormai la maggior parte dei ragazzi ristretti negli Istituti Penali per Minorenni non è in effetti minorenne. Dal rapporto di Antigone risulta che i maggiorenni erano al 15 gennaio il 58,5% del totale, un po’ meno tra i soli stranieri, il 56,4%, e decisamente di più tra le sole ragazze, il 62,5%. Sono solo 8 le ragazze detenute, delle quali 3 in Ipm - Dato degno di nota è che sono solo 8 le ragazze detenute, di cui 3 nel solo Ipm esclusivamente femminile d’Italia, quello di Pontremoli. La metà sono straniere. Le ragazze entrate in Ipm nel 2021 sono state in tutto 64, il 7,9% degli ingressi. Di costoro 46 erano straniere, il 71,9% del totale, enormemente di più di quelle prese in carico agli Ussm, che erano per la maggioranza italiane, e più anche dei ragazzi stranieri, che erano il 42,1% dei ragazzi che entravano in Ipm. Antigone sottolinea che il dato mostra come, se tra chi entra in Ipm gli stranieri sono decisamente sovra-rappresentati rispetto al totale dei giovani in carico ai servizi, per le ragazze straniere questo è ancora più evidente. Lo storico delle presenze negli Ipm dal 2007 al 2021 restituisce un quadro di drastica flessione generalizzata che è confermato e anche più importante se ci si sofferma sul solo universo femminile. Dal 2012 infatti, anno con la presenza media più elevata negli ultimi anni, il calo è stato del 35% per i ragazzi e del 59% delle ragazze. Ma perché Antigone propone un nuovo codice penale per i minori? Perché - argomenta il rapporto - il sistema dei reati e delle pene per gli adulti, a maggior ragione vigente il codice Rocco, non soddisfa minimamente il principio, sancito nella Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia del 1989, del superiore interesse del minore. L’articolo 27 della Costituzione assegna alla pena una funzione rieducativa e pone limiti all’esercizio del potere di punire allo scopo di evitare trattamenti contrari al senso di umanità. Alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale costituzionale, significa che le pene devono essere dirette a favorire la reintegrazione sociale della persona condannata, la cui dignità umana non deve essere mai messa in discussione. Questi principi, per essere adattati a ragazzi e ragazze, richiedono una diversa elencazione di reati e un ben più vario pluralismo sanzionatorio. Un furto di un ragazzino in un supermercato non può essere paragonato a quello in appartamento di una persona adulta. Il primo potrebbe essere depenalizzato, trattato civilmente, o affidandosi alla giustizia riparativa. “Un minore va educato fuori dalle galere. Il rispetto degli altri non si insegna chiudendo un ragazzo dietro le sbarre. Così lo si incattivisce”, chiosa Antigone. Minori in carcere. Dati positivi sulle buone pratiche da incentivare di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 12 febbraio 2022 Vanno del tutto abbandonate pratiche meramente disciplinari, nonché l’uso dell’isolamento punitivo. Inoltre sarebbe importante se si affidasse il controllo interno agli istituti penali per minorenni non alla Polizia Penitenziaria ma a funzionari esperti in ambito pedagogico. Sono 131 i ragazzi con meno di diciotto anni ristretti nei diciassette istituti penali per minorenni (Ipm). A loro dobbiamo aggiungere altri 185 giovani che hanno un’età tra i diciotto e i venticinque anni. Dei 316 detenuti negli Ipm solo 8 sono ragazze, circa il 40% è composto da stranieri. Questa alta percentuale si deve alle minori opportunità di accedere alle misure diverse dal carcere, che spesso presuppongono una famiglia o una casa. Dunque possiamo dire che il sistema della giustizia penale minorile non è deflagrato così come quello degli adulti. Non c’è fortunatamente sovraffollamento. Questa è una bella notizia che arriva negli stessi giorni in cui contiamo nelle galere degli adulti, invece, il decimo morto suicida dall’inizio del 2022. I meccanismi procedurali non repressivi e le progettualità sociali alternative alla risposta carceraria hanno retto nonostante i tentativi diretti nel tempo a smantellarli. Essi non solo hanno residualizzato la risposta carceraria ma hanno sicuramente contribuito a ridurre tutti gli indici di delittuosità: se guardiamo infatti al numero totale dei minorenni arrestati o fermati dalle forze di polizia, siamo passati dalle 34.366 segnalazioni del 2016 alle 26.271 del 2020, con un calo percentuale del 24%. Non tutto è inoltre esito della pandemia. Il calo, infatti, era già riscontrabile nel 2019 quando le segnalazioni erano state 29.544 con un calo rispetto al 2016 del 15%. Sempre considerando il quinquennio 2016-2020, gli omicidi volontari consumati da minorenni si sono ridotti enormemente, diminuendo di ben il 66%: erano stati 33 nel 2016 e sono scesi a 11 nel 2020. È un trend positivo che è iniziato a partire dagli anni 90. I numeri sono così bassi che ben potrebbero suggerire l’adozione di modelli reclusivi molto avanzati che si distanzino significativamente dalla risposta carceraria tradizionale. Sarebbe infatti buona cosa, così come suggerito anche della Commissione Ruotolo per l’innovazione penitenziaria, se fosse approvato un nuovo regolamento penitenziario solo per i ragazzi e i giovani adulti, in modo da favorire una quotidianità detentiva ispirata a risposte educative personalizzate intorno ai bisogni adolescenziali e giovanili. Vanno del tutto abbandonate pratiche meramente disciplinari, nonché l’uso dell’isolamento punitivo. Inoltre sarebbe importante se si affidasse il controllo interno agli istituti penali per minorenni non alla Polizia Penitenziaria (lo ha suggerito il Garante Nazionale Mauro Palma in occasione della conferenza stampa organizzata da Antigone presso lo studio legale Legance) ma a funzionari esperti in ambito pedagogico. Bisogna con coraggio trasformare le carceri in custodie attenuate aperte al territorio, dove i ragazzi possano andare a frequentare le scuole del quartiere, rendendo il rapporto dentro-fuori meno traumatico. Il rapporto di Antigone sulle carceri minorili si intitola Keep it trill. Trill è una parola che nasce dall’unione di true e real. Nello slang hip hop rimanda a qualcosa di genuino. L’hip hop è un linguaggio che accomuna tanti ragazzi, fuori e dentro. Francesco “Kento” Carlo da anni tiene laboratori rap in numerose carceri minorili. Tra i ragazzi che ha incontrato c’è Roman, oggi in comunità. Scrive e canta testi importanti che raccontano la vita di strada. Con il rap i ragazzi non si autocommiserano, si emancipano, trovano una loro identità che non può essere quella di detenuto o di ex detenuto. L’Italia nel 1988, con il codice di procedura penali per minorenni, iniziò un percorso virtuoso. Bisogna insistere su quella strada affinché non possa più esservi un ragazzo ex detenuto. *Presidente di Antigone Carcere minorile, i dati dicono che non serve più di Massimo Razzi La Repubblica, 12 febbraio 2022 Il sesto rapporto biennale di Antigone mostra un quadro interessante: sono solo 316 i giovani reclusi su 13mila che vengono arrestati. Il sistema giudiziario sembra già avviato a superare la detenzione. Come sostituirla e salvare i sogni dei ragazzi. Ha ancora senso il carcere minorile in Italia? La risposta, stando ai dati raccolti da Antigone (l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti) nel suo sesto rapporto biennale, potrebbe ormai essere negativa. Perché lo stesso sistema giudiziario sembra aver imboccato la strada del superamento della detenzione come strumento di intervento contro la delinquenza dei giovani. Un po’ di dati aiutano a capire meglio: in Italia sono appena 316 i minori e i giovani adulti (fino a 25 anni) detenuti in 17 strutture. Di questi, 8 sono ragazze, 140 stranieri, 131 davvero “minori”, 128 hanno dai 18 ai 20 anni e 57 dai 21 ai 24. I detenuti, dunque, risultano appena il 2,3 per cento del totale dei 13.611 giovani che, a diverso titolo, hanno a che fare con la giustizia penale minorile. Altri (oltre 1.500) vengono accolti in una delle 637 comunità che garantiscono una risposta diversa dal carcere e oltre tremila usufruiscono della “messa alla prova” con cui il giudice ferma il processo e stabilisce un periodo in cui il giovane deve comportarsi bene e impegnarsi in attività di volontariato. Alla fine, se la valutazione è positiva, il reato viene del tutto cancellato. La “messa alla prova” rappresenta ormai circa il 20 per cento delle decisioni prese in procedimenti che riguardano i giovani. Anche il numero di 316 detenuti è frutto di un continuo calo che inizia e rimane costante dai primi anni 2000. Prima del Covid i detenuti erano 375. Gli altri giovani arrestati usufruiscono spesso di sospensioni condizionali della pena o la scontano ai domiciliari o vengono assolti. Per gli stranieri, il ricorso alla “messa alla prova” è meno frequente. Il motivo è semplice: avvocati meno bravi e impegnati, meno presenza delle famiglie alle spalle. Il rapporto di Antigone va sotto il suggestivo titolo di ‘Keep it trill’. Trill nello slang hip hop nasce dall’unione delle parole true (vero) e real (reale) e indica qualcosa di genuino e autentico. Antigone, in collaborazione con il rapper Kento sta producendo una serie di video che raccontano storie “Trill” sui ragazzi finiti nel circuito penale. Salvaguardare i sogni dei ragazzi e dare loro un’opportunità per il futuro dovrebbe essere l’obiettivo della Giustizia minorile. Si può dire (visti i dati appena citati) che il sistema italiano è tra i più avanzati e che, di sicuro, funziona molto meglio di quello per gli adulti proprio in termini di recupero di chi ha sbagliato. Il rapporto è frutto del lavoro di una ventina di volontari di Antigone che sono entrati negli Istituti penali per Minorenni verificando le situazioni e filmando i racconti dei giovani detenuti. Il testo è stato poi curato da Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone. Reati in calo - Dai numeri emerge anche che i reati commessi dai giovani (a differenza, forse, di una percezione che come altre sembra tanto generalizzata quanto fallace) sono in continuo e netto calo: nel 2016 furono arrestati 34.366 minorenni; nel 2020 solo 26.271. Una diminuzione che non deriva (se non in parte) dal fattore Covid. Già nel 2019, infatti, gli arresti erano scesi del 15% rispetto al 2016 stabilizzandosi sotto quota trentamila. Va nella stessa direzione il dato degli omicidi commessi da minori: nel 2016 furono 33 e nel 2020 sono scesi a 11 (due commessi da ragazze e 4 da stranieri). Nel 54% dei casi i ragazzi finiscono in carcere per reati contro il patrimonio (furti, rapine ecc.), il 20% per reati contro la persona. Mano a mano che la gravità del reato scende, sale la percentuale degli stranieri che l’hanno commesso. Come per gli adulti, nelle carceri minorili c’è un’alta percentuale di persone in attesa di giudizio. Nelle carceri per grandi la percentuale è del 30%, negli istituti per minori si sale al 52,5%. Ma secondo Antigone, il dato è meno preoccupante perché appena arriva una condanna definitiva si tende a trovare un percorso alternativo. Quindi, in carcere restano pochi condannati definitivi perché la maggior parte riceve pene alternative. Un codice penale per i minori e regole ad hoc - Insomma, anche secondo Antigone, la situazione della giustizia minorile in Italia è abbastanza incoraggiante: “Ma - dice Susanna Marietti - bisogna andare avanti e oltre. Perché se i numeri vanno nella giusta direzione, le strutture funzionano ancora troppo in base alla buona volontà dei singoli dirigenti. Poco, ad esempio, è stato fatto sulle aperture all’esterno sia al territorio che alle scuole e alle famiglie. E il sistema fatica ancora a trovare percorsi alternativi per gli stranieri e per chi non ha famiglie alle spalle”. Anche per questo Antigone lancia alcune proposte. La prima riguarda la necessità di un codice penale per i minori. Oggi, nel nostro ordinamento, c’è un solo codice penale che stabilisce reati e pene. Il tutto viene poi “adattato” alla situazione dei minori. Di certo, non vengono soddisfatte le indicazioni della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia che parla del “superiore interesse del minore”. Alcuni reati potrebbero essere ridimensionati e le pene, comunque, non dovrebbero partire dal carcere ma, al contrario di quel che succede, dalle misure alternative, dalla riparazione civile del danno e dall’educazione che serve al giovane a rendersi conto della gravità delle sue azioni. Da qui l’idea che, almeno per i minori di 16 anni, il carcere andrebbe definitivamente superato. Anche perché, la maggioranza dei detenuti negli Istituti minorili ha ormai più di 18/20 anni. È chiaro che un sedicenne, avrebbe bisogno di un altro ambiente e di altre frequentazioni per migliorare. Sarebbe dunque necessario definire per i più giovani percorsi in cui il carcere non viene neanche preso in considerazione. E oltre al codice penale apposito, i minori avrebbero necessità di un regolamento penitenziario ad hoc in cui si affrontino, finalmente, temi come socialità, contatti col mondo esterno, disciplina, isolamento, scuola, formazione, vita comune, affetti e tecnologie. In sintesi, il rapporto di Antigone sulla giustizia e sul carcere minorile ci mostra un quadro tutt’altro che disastroso. Ma, di certo, non ancora abbastanza “trill” per garantire i sogni e le opportunità dei nostri figli che sbagliano. È ora di ripensare il carcere per minorenni di Enrico Cicchetti Il Foglio, 12 febbraio 2022 I dati raccontano una realtà in discreto miglioramento, anche se riguardano situazioni difficili e storie individuali drammatiche. Quelle che l’associazione Antigone per i diritti delle persone private della libertà ha provato a raccontare con l’aiuto del rapper Kento - che da oltre dieci anni tiene laboratori di scrittura rap e poesia all’interno degli Istituti penali minorili (Ipm) - in una serie di video. Così quei numeri prendono un volto e una voce, dietro alle statistiche si intravedono le esperienze di ragazzi e ragazze detenuti e si può provare a immaginare, se non a capire, la ricerca del futuro, le speranze e le disillusioni, le casualità che a volte accompagnano quel ritorno alla vita libera che dovrebbe per tutti essere protetto come la cosa più cara di cui una società debba prendersi cura. L’Osservatorio di Antigone sulle carceri minorili, che coinvolge circa venti volontari dell’associazione, è autorizzato a visitare tutti gli Istituti penali per minorenni d’Italia. Nel suo sesto rapporto annuale fotografa la situazione degli Ipm e delle numerose comunità per l’accoglienza di ragazzi sottoposti a una misura penale. Il panorama, appunto, ha aspetti positivi: non ci sono mai stati così poche presenze in Ipm dal 2007 (316 detenuti tra minori e giovani adulti); i reati commessi da minori hanno subito una drastica riduzione; le ragazze detenute sono solo 8 e l’istituto della messa alla prova ha visto negli anni un forte incremento del suo utilizzo, passando da 788 a 3.043 tra il 1992 e il 2020 (+286,2 per cento). I minorenni reclusi negli Ipm sono una minoranza - In tutto ciò c’è un dato su cui però vale la pena riflettere. Ed è quello che ci dice che i minorenni reclusi negli Ipm sono in realtà una minoranza, pari al 41,5 per cento. Se gli Ipm ospitassero solo ragazzi tra i 14 ed i 21 anni di età, come era prima dell’agosto 2014 (oggi è prevista la possibilità di presenze di giovani tra i 21 e i 25 anni), i presenti sarebbero in tutto 259. Ormai la maggior parte dei ragazzi ristretti negli Istituti penali per minorenni non è in effetti minorenne. I maggiorenni erano al 15 gennaio il 58,5 per cento del totale, un po’ meno tra i soli stranieri, il 56,4 per cento, e decisamente di più tra le sole ragazze, il 62,5 per cento. E proprio a partire da queste cifre viene da chiedersi se non sarebbe il caso di pensare a un definitivo superamento del ricorso al carcere per i minori di 16 anni, o per i minorenni in generale. Non sono molti, sono in Ipm in larghissima maggioranza in misura cautelare, e si trovano a convivere con ragazzi che ormai sono per la maggior parte maggiorenni. Secondo Antigone Onlus “è evidente che il ricorso agli Ipm in Italia sta diventando sempre più marginale, il che è confortante, ma questo significa anche che i più giovani sono sempre meno, e la costruzione di percorsi e spazi riservati a loro in Ipm diventa sempre più difficile. Forse è tempo di fare un ulteriore passo avanti verso la residualizzazione del carcere escludendo del tutto i minori di una certa età, seppure imputabili, indipendentemente dal reato”. Il sesto rapporto Antigone sulla giustizia minorile - Al 15 gennaio 2022 erano 316 (di cui 140 stranieri e 8 ragazze) i minori e giovani adulti detenuti nelle carceri minorili italiane, a fronte di 13.611 ragazzi complessivamente in carico al Servizi della Giustizia minorile (il 2,3 per cento) e a oltre 54.300 detenuti nelle carceri per adulti. Il sistema della giustizia penale minorile riesce a residualizzare la detenzione, trovando per i ragazzi risposte alternative: in carcere si va poco e spesso per periodi brevi. Proprio per questo tuttavia, essendo contenitori dei casi più difficili (spesso valutati non solo in base alla gravità del reato bensì anche alla debolezza sociale del ragazzo, che rende più difficoltoso trovare percorsi alternativi), le carceri minorili hanno bisogno della massima attenzione. I 316 minori e giovani adulti detenuti erano distribuiti in 17 istituti, da Caltanissetta a Treviso, in strutture con caratteristiche e dimensioni anche molto diverse tra loro. Quello con più presenze era l’Ipm di Torino, che ospitava 38 detenuti, mentre alla stessa data a Pontremoli, unico istituto esclusivamente femminile in Italia, c’erano solo 3 ragazze. I reati commessi dai minorenni, un calo enorme negli ultimi 5 anni - Se guardiamo al numero totale dei minorenni arrestati o fermati dalle forze di polizia, siamo passati dalle 34.366 segnalazioni del 2016 alle 26.271 del 2020, con un calo percentuale del 24 per cento. Non tutto è esito della pandemia. Il calo, infatti, era già riscontrabile nel 2019 quando le segnalazioni erano state 29.544, con un calo rispetto al 2016 del 15 per cento. Sono solo 885, di cui 298 bambine, in tutto il 2020 le segnalazioni di delitti commessi da minorenni con età inferiore a 14 anni. La metà circa è composta da stranieri. Loro sono non imputabili. Nel 54 per cento dei casi i ragazzi sono entrati in istituto per avere commesso delitti contro il patrimonio, tra cui il furto e la rapina. Nel quinquennio 2016-2020, gli omicidi volontari consumati da minorenni si sono ridotti enormemente, diminuendo di ben il 66%: erano stati 33 nel 2016 e sono scesi a 11 nel 2020. L’Ipm come tappa di un percorso più lungo - Il 52,5 per cento è in Ipm senza una condanna definitiva. Se paragoniamo questo dato a quanto si registra nelle carceri per adulti, dove le persone senza una condanna definitiva sono poco più del 30 per cento, il dato degli Ipm dovrebbe allarmare. In effetti però questo dato va letto in modo parzialmente diverso. L’Ipm è una tappa generalmente breve di un percorso più lungo, che si svolge soprattutto altrove, nelle comunità e sul territorio. Per questo motivo, anche quando si finisce in Ipm, non è affatto detto che poi lì si sconti la pena o il resto della misura cautelare. Quando la condanna diventa definitiva, il sistema tende a trovare una diversa collocazione per il ragazzo, spiegando così l’alta incidenza percentuale delle custodie cautelari. A fronte dei 17 Istituti penali per minorenni presenti sul territorio nazionale, si contano in Italia ben 637 comunità residenziali disponibili all’accoglienza. Di queste, solo tre - a Bologna, Catanzaro e Reggio Calabria - sono gestite direttamente dal ministero della Giustizia. Le altre sono strutture private accreditate dal ministero. Il problema è che nelle carceri per minorenni, i minorenni sono la minoranza di Enrico Cicchetti Il Foglio, 12 febbraio 2022 I dati raccontano una realtà in miglioramento, anche se riguardano situazioni difficili e storie individuali drammatiche. Nel suo sesto report annuale, l’Osservatorio dell’associazione Antigone sulle carceri minorili, che è autorizzato a visitare tutti i 17 Istituti penali per minorenni (Ipm) d’Italia, prova a raccontarne alcune. Lo fa anche con una serie di video e con l’aiuto del rapper Kento, che da oltre dieci anni tiene laboratori di scrittura rap e poesia all’interno degli istituti. Così quei numeri prendono un volto e una voce. Dietro alle statistiche si intravedono le esperienze di giovani detenuti e si possono provare a capire la ricerca del futuro, le speranze, le disillusioni, le casualità che a volte accompagnano il ritorno alla vita libera. L’indagine illustra una situazione che ha anche aspetti positivi: non ci sono mai stati così poche presenze in Ipm dal 2007: sono 316 i detenuti tra minori e giovani adulti, il 2,3 per cento dei 13.611 ragazzi complessivamente in carico ai servizi non detentivi della Giustizia minorile, a fronte di oltre 54.300 detenuti nelle carceri per adulti. I reati commessi da minori hanno subìto una drastica riduzione: nel 54 per cento dei casi i ragazzi sono entrati in istituto per avere commesso delitti contro il patrimonio, tra cui il furto e la rapina. Nel quinquennio 2016-2020, gli omicidi volontari si sono ridotti del 66 per cento: da 33 sono scesi a 11. Le ragazze detenute sono solo 8. E anche l’istituto della “messa alla prova” - che prevede la sospensione del processo penale e l’imposizione di un programma con i servizi sociali e lavori di pubblica utilità - ha visto negli anni un forte incremento del suo utilizzo, passando da 788 a 3.043 tra il 1992 e il 2020 (più 286,2 per cento). C’è tuttavia un particolare, un piccolo cortocircuito che, come spesso accade, diventa chiarificatore. Il dato che vale la pena approfondire è quello dei maggiorenni reclusi negli Ipm, che oggi sono il 58,5 per cento, contro il 41,5 di minori (per legge gli Ipm possono ospitare ragazze e ragazzi tra i 14 e i 25 anni). In altre parole, e sembra uno scioglilingua, negli istituti penitenziari per minorenni, in realtà i minorenni sono la minoranza. A partire da queste cifre viene da chiedersi se non sarebbe il caso di pensare a un definitivo superamento del ricorso al carcere per i minori di 16 o addirittura di 18 anni. Questi giovani infatti non sono molti e sono in Ipm in larghissima parte in misura cautelare: il 52,5 per cento di loro non ha una condanna definitiva. Un dato che però non deve allarmare: l’Ipm è una tappa di solito breve di un percorso più lungo, che si svolge soprattutto altrove, nelle comunità e sul territorio. Il sistema della giustizia penale minorile in Italia riesce quindi a residualizzare la detenzione, trovando per i ragazzi risposte alternative: in carcere si va poco e spesso per periodi brevi. Proprio per questo tuttavia, essendo contenitori dei casi più difficili (spesso valutati non solo in base alla gravità del reato bensì anche alla debolezza sociale del ragazzo, che rende più difficoltoso trovare percorsi alternativi), serve la massima attenzione, Secondo Antigone, “è evidente che il ricorso agli Ipm in Italia sta diventando sempre più marginale, il che è confortante, ma questo significa anche che i più giovani sono sempre meno, e la costruzione di percorsi e spazi riservati a loro in Ipm diventa sempre più difficile. Forse è tempo di fare un ulteriore passo avanti escludendo del tutto i minori di una certa età, seppure imputabili, indipendentemente dal reato”. Riforma del sistema penitenziario. Non bastano le buone intenzioni di Florindo Oliverio* dimensioneinformazione.com, 12 febbraio 2022 Abbiamo accolto l’invito del Direttore di questa attenta ed attiva rivista, Dimensione Informazione, per condividere alcune riflessioni, che come Organizzazione sindacale abbiamo in diverse occasioni comunicato anche in documenti scritti sia ai vertici del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria che a quelli del Ministro della Giustizia. Nello scorso numero di questa rivista Ugo Utopia, nell’articolo “Marta Cartabia, una ministra dal volto umano”, commentava il lavoro svolto dalla “Commissione innovazione” (anche nota come Commissione Ruotolo) istituita nel settembre 2021, che ha consegnato la sua relazione nel dicembre 2021. La Fp Cgil fin dal 2019 sta avanzando proposte per una riforma del sistema penitenziario, inviando un progetto complessivo ai Ministri della Giustizia che si sono succeduti in questi anni e, di recente, alla stessa Commissione Ruotolo, senza però ricevere alcun riscontro. Sul tema penitenziario, ogni Ministro della Giustizia che ha lavorato a via Arenula non ha potuto evitare di occuparsi di carcere. Il tema è salito all’onore delle cronache con connotazioni emergenziali. Sempre e nonostante le buone intenzioni è stato difficile, spesso impossibile, sciogliere quei nodi gordiani che ostacolano la comprensione dei problemi e quindi l’individuazione della loro possibile soluzione. Nel rispetto e nella stima che rinnoviamo alla Ministra Cartabia anche in questa occasione, dobbiamo affermare che le soluzioni proposte, pure in questo lodevole esercizio, non sono sufficienti per aiutare il sistema penitenziario ad uscire dalla sua ormai congenita emergenza. Lo diciamo in ragione dei dati oggettivi dei quali disponiamo (piante organiche inadeguate, mancata immissione in ruolo di nuove professionalità, aumento dei carichi di lavoro). Non siamo certo noi che dobbiamo ricordare che ogni organizzazione per poter adempiere adeguatamente al suo mandato deve poter contare su una politica delle risorse umane aggiornata e coerente con gli obiettivi che quella organizzazione intende perseguire. Il modello organizzativo dell’esecuzione penale, di cui il carcere è parte, non è stato modernizzato. Non possiamo parlare di ammodernamento solo perché sono state introdotte nuove tecnologie per la sorveglianza/sicurezza e non possiamo certo dire che la video sorveglianza consente di diminuire il numero degli agenti impiegati all’interno delle sezioni. I numeri non devono diminuire e il servizio deve essere ancor più specializzato per riuscire sempre meglio ad intercettare i bisogni delle persone ristrette. La presenza all’interno delle sezioni detentive non può essere limitata a quella dei soli agenti di polizia penitenziaria, ma deve arricchirsi di funzionari pedagogici, di mediatori, di psicologi e di volontari. Su questo la Commissione innovazione non dice nulla. Cosa è necessario fare in carcere per rendere più umana la detenzione è tema che gli operatori penitenziari conoscono molto bene e ogni giorno vivono la frustrazione di non potere svolgere il proprio compito con efficienza, perché spesso si ritrovano da soli a dovere rispondere alle richieste quotidiane legittime di 50 o spesso anche di 100 detenuti in contemporanea. I bisogni sono i più diversi: dalla richiesta di una telefonata aggiuntiva alla famiglia, dall’aggiornamento della relazione da inviare al magistrato per ottenere un permesso premio o la liberazione anticipata, dalla richiesta di partecipare alle attività ricreative, alla necessità di poter essere ascoltato. Insieme a questo, ci sono le procedure burocratiche, che pure vanno assicurate (relazioni con la scuola, università, progetti da costruire con le associazioni di volontariato, monitoraggio di quelli in corso). La pianta organica dei funzionari giuridico pedagogici, incaricati di seguire le attività trattamentali in carcere, oggi è di 998 unità in servizio attivo nei 189 istituti penitenziari del territorio nazionale, ma ne risultano presenti 782 (con un disavanzo in negativo di 216 unità). È normale che in un istituto penitenziario risultino in servizio 1/2 unità soltanto, che spesso devono fare fronte ed assicurare accuratezza nell’azione trattamentale per 150/200 detenuti ciascuno! Nel 2021 è stato bandito (finalmente dopo 10 anni) un concorso che prevede l’assunzione di 210 unità (che non sono sufficienti a coprire l’attuale fabbisogno). Il concorso è in corso di svolgimento (si sono svolte le prove scritte e la commissione sta procedendo alla correzione dei compiti) e nella rosea previsione le assunzioni sono previste per gli inizi del 2023 all’esito di un corso di formazione di tre mesi. Nel frattempo, l’urgenza/emergenza continua a fare registrare episodi che denunciano l’inefficienza del sistema. Si è parlato già con legittimo allarme del numero dei suicidi registrati solo in questi primi giorni dell’anno. Per questo motivo la Fp Cgil ha chiesto lo scorrimento delle graduatorie degli idonei dei precedenti concorsi per accelerare il reclutamento ed evitare così le assunzioni tardive che non permettono lo scambio di esperienze tra pensionandi e neo assunti. Difficile poter pensare che, con le esigue unità di operatori presenti sia possibile prevedere e quindi prevenire il disagio e sostenere chi legittimamente lo manifesta, perché arrestato e tradotto in carcere o perché è stato raggiunto da una notizia ferale che lo abbandona all’angoscia, ovvero perché è a fine pena e non sa cosa succederà della sua vita fuori perché non ha affetti, ovvero non è stato possibile rintracciare un percorso trattamentale di reinserimento. Se l’esecuzione penale deve, come appare, restare appannaggio privilegiato del carcere, il carcere va qualificato attraverso una politica che volga lo sguardo alle risorse umane. Serve l’istituzione di nuove figure professionali, di nuovi concorsi e modalità innovative per il reclutamento, proprio per potere dare avvio a quel percorso riformatore che dovrebbe davvero e finalmente dare al carcere la connotazione di estrema ratio, privilegiando le misure alternative. Infine non possiamo non sottolineare come l’indicazione, sempre contenuta nella relazione della Commissione innovazione, di ristrutturare gli edifici penitenziari, con particolare riguardo ai servizi igienici all’interno delle camere detentive, ma anche le condizioni di quelli ubicati nelle caserme del personale (anche queste da ristrutturare), ci lasci perplessi. Per anni si è denunciata la carenza di fondi assegnati all’amministrazione penitenziaria per le manutenzioni ordinarie e straordinarie. Da tre anni il tema dei fondi appare superato, ma i programmi non paiono avviarsi. La carenza di personale riguarda anche i funzionari contabili incaricati di assicurare la gestione amministrativa e di istruire i procedimenti di gara per gli appalti dei lavori di ristrutturazione. Sono 952 i funzionari e contabili annoverati nella pianta organica. In servizio effettivo sono 711 e la carenza è determinata in 241 unità. Non è infrequente che in molti istituti il funzionario responsabile dell’area contabile, che è anche incaricato della rendicontazione, debba altresì fare il responsabile del materiale e responsabile della cassa (compiti questi che per la legge di contabilità penitenziaria del 1920 ancora in vigore non sono sovrapponibili). Anche in questo caso, nel corso dell’anno sarà bandito un concorso per 140 unità di funzionari contabili, che entreranno in servizio forse agli inizi del 2024. Quindi molto verosimilmente i fondi stanziati per le ristrutturazioni non potranno essere spesi, perché non ci sono le risorse umane in grado di assicurare lo svolgimento di gare e delle aggiudicazioni. Da ultimo non possiamo non ricordare la gravissima carenza che si registra nella pianta organica dei dirigenti penitenziari. L’ultima procedura concorsuale si è svolta nel 1997 e solo nel 2021 sono state avviate le procedure per l’assunzione di 46 dirigenti. Anche in questo caso è verosimile prevedere che l’immissione in ruolo avverrà non prima del primo semestre del 2024 (secondo la norma, l’immissione in ruolo deve essere preceduta da un corso di formazione della durata di 18 mesi). Nel frattempo, sono 76 i posti di dirigenza vacanti. Su un totale di 345 dirigenti in pianta organica solo 266 sono in servizio con la conseguenza di avere in alcune regioni del territorio nazionale dirigenti penitenziari responsabili di due, ma anche di tre istituti penitenziari in contemporanea. Il dirigente penitenziario è per mandato responsabile della sicurezza, del trattamento dei detenuti, della gestione del personale e della gestione finanziaria dell’istituto. La gestione contemporanea di due istituti e anche tre (come avviene in Sardegna dove sono in servizio 4 dirigenti per 11 istituti penitenziari, 4 dei quali destinati alla gestione di detenuti di alta sicurezza e sezione di 41 bis) rende complesso l’adempimento del mandato in tutte le sue diverse funzioni. Il rischio di errore è possibile. Una dirigenza, quella penitenziaria che, istituita nel 2006, risulta ancora essere l’unica categoria professionale non disciplinata da contratto! Non esiste tutela assicurativa per i rischi professionali, non esiste disciplina sulla reperibilità che di fatto è H24. Non esiste alcuna previsione contrattuale tale da definire i livelli di retribuzione in ragione delle funzioni svolte e responsabilità assunte. Potremmo andare avanti ancora descrivendo le discrasie di un sistema in affanno e che negli ultimi due anni ha fatto fronte anche all’emergenza pandemica. Le note vicende, che tanto sono risuonate nelle cronache, sono fatti gravissimi, riguardano comportamenti umani (giustamente oggi all’attenzione dell’Autorità Giudiziaria), che segnalano un profondo malessere dell’intero sistema dell’esecuzione penale intramuraria. Ma anche in tema di esecuzione penale esterna deve essere rivisto l’assetto organizzativo degli Uffici dell’esecuzione in comunità. Il servizio sociale registra una carenza di organico di mille unità. L’esecuzione in misura alternativa e la messa alla prova impegnano le assistenti sociali in lavoro di indagine sociale preventiva e di monitoraggio dell’esecuzione della misura che richiede accuratezza nei tempi e nella conoscenza delle persone e dei contesti dove la misura viene svolta. La rarefatta presenza all’interno degli istituti penitenziari delle assistenti sociali, impegnate prevalentemente sulle numerose pratiche di messa alla prova della libertà, ha contribuito ad alzare le tensioni tra i detenuti che, pur potendo essere nelle condizioni di fruire di misura alternativa, non riescono a costruire il programma di uscita. Apprezziamo le visioni, i programmi, ma le prospettive di attuazione devono essere concretizzate con azioni coraggiose e innovative che, a nostro avviso, sono necessarie per sostenere tutto il personale penitenziario nel complesso lavoro di garanzia e tutela delle persone private della libertà. L’umanizzazione della pena detentiva passa attraverso decisioni concrete, che devono tenere conto dei bisogni delle persone (di tutte quelle che fanno parte della comunità penitenziaria) in una prospettiva di equilibrio tra chi lavora per l’istituzione e chi invece ne è ospite temporaneo. *Segretario Nazionale Funzione Pubblica Cgil Riforma della giustizia, la paralisi si è interrotta di Carlo Bonini La Repubblica, 12 febbraio 2022 Sono condivisibili tanto le premesse (il recupero di fiducia e credibilità) che il principio che la ispira. Più problematico, al contrario, resta il nuovo meccanismo di elezione del Csm. Ha ragione la ministra Cartabia nel dire che la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm sia e resti “ineludibile” perché necessaria al “recupero di fiducia e credibilità da parte dei cittadini”. Ed è intellettualmente onesta nell’aggiungere che le leggi camminano sulle gambe degli uomini e dunque che non c’è riforma che tenga senza una magistratura capace di interpretare la propria autonomia e indipendenza innanzitutto come “forma mentale” e “coscienza”. Così come è onesto Mario Draghi nel riconoscere che l’unanimità con cui è stato licenziato in Consiglio dei ministri il testo di modifica delle norme sull’ordinamento giudiziario, sulla legge elettorale del Csm e sulle incompatibilità tra esercizio delle funzioni giurisdizionali e cariche elettive o incarichi politici, appartenga alla semplice categoria “dell’impegno corale” da parte della sua maggioranza. Perché le differenze - e che differenze - restano. Dando dunque per assodato che il testo della riforma cambierà nella discussione che affronterà il Parlamento di qui a maggio prossimo (ultima deadline utile prima dell’elezione del nuovo Csm). E per acquisito il ruolo tutt’altro che scontato che avrà nella discussione politica la decisione che di qui ai prossimi giorni prenderà la Consulta sull’ammissibilità dei referendum sulla giustizia e - in caso positivo - il loro esito. Ragioniamo dunque di una riforma che si muove su un terreno ancora piuttosto friabile. Di cui sono condivisibili tanto le premesse (il recupero di fiducia e credibilità, sia di fronte all’opinione pubblica che agli stessi appartenenti all’ordine giudiziario) che il principio che la ispira. Parliamo della rottura della commistione tra politica e magistratura nel senso più ampio del termine. Sia dunque della necessità di interrompere il meccanismo dei vasi comunicanti - o delle “porte girevoli” se si preferisce - che tutt’ora consente a un magistrato di vestire e svestire la toga senza soluzione di continuità nel passaggio da un’aula di tribunale a quella parlamentare, a un incarico di governo o sottogoverno, o, addirittura, di vestirla contestualmente a cariche elettive politiche in realtà amministrative locali. Sia della necessità di sottrarre l’equilibrio e il funzionamento dell’organo di autogoverno della magistratura, il Csm, all’abbraccio soffocante delle correnti nella loro contiguità (come il caso Palamara insegna) alla politica con la p minuscola. Quella del sottobosco e del mercato delle nomine negli uffici giudiziari che contano e a cui i partiti, da sempre, non riescono a restare mai indifferenti. Da questo punto di vista, il testo della riforma (per altro sollecitata nel tempo da ampi settori dalla stessa magistratura) va nella giusta direzione e sembra al riparo anche da possibili obiezioni di costituzionalità. E colgono nel segno la definizione delle modalità (in ordine di vacatio dell’incarico) e della gerarchia e natura dei criteri di scelta del Csm per i cosiddetti “incarichi direttivi” (i vertici degli uffici giudiziari). O, ancora, la dichiarazione di incompatibilità, all’interno del Consiglio Superiore, tra il ruolo di consigliere della sezione disciplinare e quello di membro della commissione destinata a istruire la scelta degli stessi incarichi apicali. C’è insomma, nelle norme del testo licenziato dal governo, un evidente e apprezzabile sforzo di introdurre meccanismi di trasparenza negli interna corporis della magistratura (come tali riconoscibili e conoscibili all’opinione pubblica), così come di rendere meno agevole il lavoro consociativo e correntizio tra le correnti nel definire la geografia degli incarichi dell’ordinamento giudiziario. Più problematico, al contrario, resta il nuovo meccanismo di elezione del Csm. La nuova legge elettorale, almeno nella formulazione uscita da Palazzo Chigi, continua a presentare notevoli criticità. Non certo sotto l’aspetto della legittimità, ma all’obiettivo che dichiara di prefiggersi. Se infatti lo scopo della riforma è sottrarre al peso e all’organizzazione delle correnti la scelta della componente togata del Consiglio, il sistema maggioritario (pur temperato da un recupero proporzionale) e la possibilità di candidature “terze” formalmente sganciate dalle correnti, ma potenzialmente in grado di essere proprio da loro sostenute (un po’ come accade con le liste civetta nelle elezioni politiche), rischiano di acuirne il peso. Soprattutto di correnti fortemente maggioritarie. Insomma, come ogni riforma, anche quella licenziata venerdì 11 febbraio è e sarà perfettibile. La buona notizia è che la paralisi si è interrotta. Ne aveva e ne ha bisogno soprattutto e innanzitutto la magistratura. Con l’augurio che, in Parlamento, nessuno la confonda per l’occasione di una vendetta. Perché il conto lo pagherebbe solo il Paese. Riforma della giustizia: Camere e toghe alla prova di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 12 febbraio 2022 Tocca al Parlamento discuterla e votarla in tempi rapidi. Per i magistrati è l’occasione per quel “recupero del profondo rigore” invocato da Sergio Mattarella. Al termine di una lunga gestazione, complice l’intermezzo quirinalizio, il governo ha partorito la riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario, terzo capitolo dopo quelle del processo penale e del processo civile. Un traguardo di cui la ministra della Giustizia Marta Cartabia può essere soddisfatta, e con lei il presidente del Consiglio Mario Draghi che le ha dato sostegno e copertura. Soprattutto in quest’ultima fatica, quando le difficoltà a tenere insieme una maggioranza tanto ampia quanto variegata al limite della contrapposizione, sembravano insuperabili. Invece proprio la tenacia della Guardasigilli e la determinazione del premier hanno avuto ragione su perplessità e contrasti. Anche attraverso interventi drastici rispetto a questioni sulle quali i partiti hanno battagliato fino all’ultimo: ad esempio l’equiparazione (a proposito di commistioni tra magistratura e politica) tra toghe elette in Parlamento o negli enti locali, o al vertice di qualche istituzione, e toghe chiamate a svolgere funzioni come quella di ministro, sottosegretario o assessore; a fine mandato varranno per tutti le stesse regole, niente più ritorno alle funzioni giurisdizionali. Ma non tutti i ministri erano d’accordo, perché c’era chi riteneva (e ritiene tuttora) che un conto è partecipare alle competizioni elettorali, magari sotto le insegne di un partito, e un conto è prestare la propria esperienza di tecnico in un ministero o in un assessorato. Alla fine è prevalsa la soluzione più radicale, e vedremo come andrà in Parlamento. Su questa e su altre questioni, che sono di sostanza ma pure d’immagine: il tema delle “porte girevoli”, al momento, riguarda pochissimi magistrati tra ordinari e amministrativi (due deputati nazionali, un eurodeputato, un presidente di Regione, più una ventina o poco più tra eletti nei consigli regionali o comunali e ruoli apicali in ministeri e enti locali). Dunque vale più il principio che la reale consistenza del problema. Ora la sfida diventa la discussione in aula. Ieri il maxi-emendamento è stato approvato all’unanimità dal Consiglio dei ministri con l’impegno di Draghi e Cartabia di rimanere aperti al contributo di Camera e Senato, dove il testo non arriva blindato e non dovrebbe calare la scure della “questione di fiducia” che interrompe ogni discussione mettendo in gioco il destino del governo. Una scelta significativa e coraggiosa, che risponde al monito del capo dello Stato al momento del suo reinsediamento: deputati e senatori devono avere la possibilità di intervenire sulle leggi, senza essere relegati al ruolo di chi appone un timbro su decisioni concordate a palazzo Chigi. È giusto, ma davanti al Parlamento in seduta comune Sergio Mattarella ha ricordato un’ulteriore esigenza: “È indispensabile che le riforme annunciate giungano con immediatezza a compimento”. Si riferiva esplicitamente al Csm, che di qui a sei mesi dovrà essere rinnovato attraverso nuove elezioni e sarebbe assurdo andare a votare con le vecchie regole (che hanno provocato le degenerazioni che tutti sappiamo, snaturando il Consiglio in carica travolto da scandali e dimissioni) perché non s’è fatto in tempo a varare le nuove. Ma anche il resto degli interventi non può tardare, per contribuire a dissipare la diffidenza dei cittadini verso la magistratura e farle riacquistare la credibilità perduta, come auspicato dal presidente della Repubblica. Dunque tocca al Parlamento fare in modo che il governo non sia costretto a ricorrere alla fiducia per condurre in porto la riforma, con una discussione approfondita e serrata quanto si vuole, che però non deve trascendere in un regolamento di conti tra forze politiche che da trent’anni battagliano sulla giustizia, o in qualche tentazione di rivalsa sulla magistratura. Che finirebbe per allungare i tempi e travisare (se non tradire) il senso della riforma. Tuttavia sarebbe opportuno che la stessa magistratura prendesse spunto dalla mossa del governo per trarne qualche conclusione rispetto al proprio assetto e ai propri comportamenti. Non sappiamo se le riforme elettorali e le nuove regole sulle nomine per i vertici di procure e tribunali, o sulla valutazione della professionalità dei giudici, saranno in grado di frenare le degenerazioni del correntismo e soprattutto del carrierismo dei singoli, fenomeno che negli ultimi tempi è diventato forse il più preoccupante. Si vedrà alla prova dei fatti. Sappiamo però che oltre alle riforme servirebbe un’autoriforma delle toghe, che passa per il “recupero del profondo rigore” invocato ancora da Mattarella. I magistrati lo proclamano a ogni occasione, ora è venuto il momento di farlo. Riforma del Csm. Anche chi ha ruoli di governo non potrà più indossare la toga di Conchita Sannino La Repubblica, 12 febbraio 2022 Novità per i magistrati: “porte girevoli” socchiuse solo per non eletti e capi di gabinetto. previsti tre anni di pausa per chi si è candidato ma non ce l’ha fatta e per chi ha ruolo tecnico nei Ministeri. Nel Consiglio stop alle correnti. Cartabia: “Magistrati più severi con se stessi per recuperare la fiducia dei cittadini”. Dalle macerie del sistema Palamara”, la prima legge (quasi) condivisa per rialzare la testa. Passa all’unanimità in Consiglio dei Ministri, ma tra non poche tensioni, la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Con un sistema elettorale misto per provare a svincolare da correnti e cordate il “nuovo” Consiglio della magistratura. Con regole più stringenti per il funzionamento delle commissioni del Csm. E, soprattutto, con l’impossibilità di tornare indietro, alle funzioni di pm o giudici, per quelle toghe che vengono elette in politica o solo nominate per incarichi di governo. Il divieto è invece solo temporaneo (tre anni di “pausa”) per i ruoli tecnici. Prima tappa di una corsa contro il tempo, ma l’asse Draghi-Cartabia sconfigge mal di pancia e dubbi montanti. In grado fino all’ultimo di minacciare un risultato che arriva esattamente otto giorni dopo i severi passaggi del Presidente Mattarella durante il suo discorso d’insediamento a Montecitorio. “Era una riforma ineludibile - sottolinea la ministra Marta Cartabia - per una ragione imminente, che è la scadenza del Consiglio superiore, a luglio. Ma che risponde anche ad un’esigenza, proveniente dalla stessa magistratura, di essere forse un po’ più severa con se stessa. Una richiesta di recupero di credibilità e autorevolezza che, ripeto, viene anzitutto dall’interno”. E Draghi, che con la Guardasigilli, ha fatto slittare di due ore il via ai lavori del Consiglio pur di superare le resistenze dei “perplessi” (capeggiati da Forza Italia), non può non registrare che il confronto è stato “non faticoso ma lungo”. Il premier spiega, in conferenza con Cartabia, che nella maggioranza restano le “differenze di opinioni”, per le quali “è stato possibile modificare molto marginalmente il testo”, ma precisa anche che c’è “l’impegno a superarle” e la determinazione “dei ministri a sostenere con i propri partiti questa riforma”. Ma cosa prevede, in estrema sintesi, il testo varato dal governo? Due livelli. Viene disegnato un diverso sistema elettorale, maggioritario binominale con quota proporzionale, per il nuovo Csm che torna alla vecchia composizione 30 membri: (20 togati e 10 laici) più i 3 di diritto (il Capo dello Stato che lo presiede, Primo presidente e Procuratore generale della Cassazione). L’impianto è su collegi binominali, che eleggono due componenti del Csm l’uno, e prevede una distribuzione proporzionale di 5 seggi a livello nazionale. Ma la novità vera riguarda la cancellazione delle liste: largo alle candidature individuali, senza “presentatori”, nei collegi binominali. E attenzione all’equilibrio di genere: su cui, nel caso di vuoti, si interviene con sorteggio. Ma è sull’altro livello, lo scandalo dei rapporti tra politica e magistratura che incide, in radice, la riforma. Arriva per la prima volta la parola fine sulle “porte girevoli”: sia i magistrati eletti, sia i nominati per incarichi di governo (locale, regionale, nazionale), al termine del mandato, non potranno più tornare a svolgere alcuna funzione giurisdizionale. Saranno collocati nei ruoli dell’amministrazione (norma che non può valere, ovviamente, per l’attuale sottosegretario alla Presidenza, Roberto Garofoli, che ieri, “per stile”, lascia i lavori). Restrizione non definitiva, invece, per chi ha svolto ruoli tecnici. È il caso delle toghe che sono state, per un anno o più, capi di gabinetto o di dipartimento: dovranno osservare tre anni di “pausa” prima di tornare alle funzioni giurisdizionali. Se quel lavoro è durato meno di 12 mesi, come ieri chiedevano Pd e Leu, non finiranno nella stretta. Si interviene anche sui casi clamorosi di doppio incarico (vedi solo l’ultimo di una serie, l’ex pm Catello Maresca: oggi consigliere comunale a Napoli e giudice in altra regione): sarà impossibile d’ora in poi. Varie e puntuali regole anche per arginare “vizi” o centri di potere in Csm. Più trasparenza e diversi criteri di merito per scegliere i vertici degli uffici, più pubblicità nelle valutazioni. O, anche, l’apertura ai dirigenti amministrativi degli uffici di segreteria del Consiglio. Il testo è atteso in commissione Giustizia alla Camera, mercoledì. Cartabia registra che “la Camera ha calendarizzato la discussione in aula verso la fine di marzo. Dovremmo farcela”. Previsione e auspicio insieme. Stop alle porte girevoli: “Niente toga per 3 anni per i candidati non eletti” di Davide Varì Il Dubbio, 12 febbraio 2022 Ecco la bozza di riforma approvata all’unanimità dal consiglio dei ministri. Riduzione del numero massimo dei magistrati fuori ruolo (oggi 200). Sì agli avvocati nei consigli giudiziari. Il Consiglio dei Ministri ha approvato gli emendamenti al disegno di legge in discussione in Parlamento per la riforma della giustizia. Gli emendamenti conterranno la separazione delle funzioni dei magistrati, la riforma del Csm e lo stop delle porte girevoli. Bozza Csm, “mai più magistrati in politica” - I magistrati che si sono candidati in competizioni elettorali e non sono stati eletti, per tre anni non possono svolgere funzioni giurisdizionali. La destinazione sarà individuata dai rispettivi organi di autogoverno. La stessa disciplina - il divieto di svolgere funzioni giurisdizionali per tre anni - si applica a chi ha rivestito incarichi di capo di gabinetto, segretario generale presso i ministeri o capo dipartimento. Riduzione del numero massimo dei magistrati fuori ruolo (oggi 200). È un principio di delega contenuto nella bozza di riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario: si stabilirà poi, con i decreti attuativi, il nuovo numero ridotto dei magistrati fuori ruolo e si dovranno determinare con chiarezza quali sono gli incarichi per cui è previsto il fuori ruolo e quali quelli per cui è prevista l’aspettativa. La bozza prevede inoltre che non si possa andare fuori ruolo non prima di 10 anni di effettivo esercizio delle funzioni giurisdizionali, o se c’è scopertura nell’ufficio di appartenenza. Deve poi intercorrere un periodo di tempo tra un incarico di fuori ruolo e l’altro. Il tempo passato fuori ruolo avrà come limite massimo 10 anni. “I magistrati che hanno ricoperto cariche elettive di qualunque tipo o incarichi di governo (nazionale, regionale o locale) al termine del mandato, non possono più tornare a svolgere alcuna funzione giurisdizionale”. I magistrati ordinari vengono collocati fuori ruolo presso il Ministero di appartenenza. I magistrati amministrativi e contabili vengono collocati fuori ruolo presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, l’Avvocatura dello Stato. Resta la possibilità di assumere altri incarichi fuori ruolo presso altre amministrazioni e di assumere funzioni non giurisdizionali presso le sezioni consultive del Consiglio di Stato, le sezioni di controllo della Corte dei Conti e l’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione. Il Consiglio superiore della magistratura torna a essere composto da 30 membri (3 di diritto: Presidente della Repubblica; Primo Presidente di Cassazione; procuratore generale Cassazione; 20 togati; 10 laici) 20 togati (2 legittimità; 5 pm; 13 giudicanti). I paletti sull’eleggibilità delle toghe - Per cariche elettive nazionali, regionali, province autonome di Trento e Bolzano, Parlamento Europeo, e per gli incarichi di assessore e sottosegretario regionale, si prevede che i magistrati non siano eleggibili nella regione in cui è compreso in tutto o in parte l’ufficio giudiziario in cui hanno prestato servizio negli ultimi tre anni. Lo si legge nella bozza di riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm, in cui si prevede inoltre che per le cariche di sindaco/consigliere/assessore comunale, non puoi candidarti se presti servizio o hai prestato servizio nei tre anni precedenti la data di accettazione della candidatura presso sedi o uffici giudiziari con competenza ricadente in tutto o in parte nel territorio della provincia in cui è compreso il comune o nelle province limitrofe. Il “nuovo” sistema elettorale per il Csm - Il sistema elettorale proposto è misto: si basa su collegi binominali, che eleggono due componenti del Csm l’uno, ma prevede una distribuzione proporzionale di 5 seggi a livello nazionale. Per le candidature non sono previste le liste: il sistema si basa su candidature individuali. Ciascun candidato presenta liberamente la sua candidatura individuale (senza necessità di presentatori) a livello di collegio binominale. Per le toghe candidate aspettativa senza assegno - Al momento dell’accettazione di una candidatura in politica i magistrati devono essere posti in aspettativa senza assegni, obbligatoria per l’intero periodo di svolgimento del mandato, con diritto alla conservazione del posto e computo a soli fini pensionistici del periodo trascorso in aspettativa. Lo prevede la bozza di riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, in cui vi è anche il divieto di cumulo del trattamento economico in godimento con l’indennità prevista per la carica. Nuove regole per gli incarichi direttivi - Per l’assegnazione degli incarichi direttivi da parte del Consiglio superiore della magistratura la bozza di riforma prevede la pubblicità degli atti (sul sito intranet del Csm, nel rispetto dei dati sensibili); definizione dei procedimenti, per l’assegnazione degli incarichi direttivi, in base all’ordine temporale di vacanza, salvo deroghe per gravi e giustificati motivi e ad eccezione dei posti di primo presidente e procuratore generale della Cassazione, di carattere prioritario. l’obiettivo dell’intervento è quello di impedire le nomine “a pacchetto”. Previsti anche la selezione di una rosa di candidati sulla base dei curricula seguita da una audizione obbligatoria dei candidati selezionati; il diritto di voto per avvocatura nei consigli giudiziari sulla base di una delibera del consiglio dell’ordine; l’obbligo di partecipazione a specifici corsi organizzati dalla Scuola Superiore della Magistratura, della durata minima di tre settimane anche non consecutive, quale requisito per l’ammissione alla procedura funzionale all’acquisizione di competente organizzative; l’individuazione di un contenuto minimo di criteri di valutazione, per verificare tra l’altro anche le capacità organizzative. L’anzianità sarà considerata un criterio residuale, e si introduce la valorizzazione delle pari opportunità a parità di merito. Come valutare i magistrati: le linee guida - Valorizzazione della “tenuta dei provvedimenti giuridisdizionali” attraverso l’acquisizione a campione della documentazione necessaria per accertare l’esito dei procedimenti nelle successive fasi di giudizio, articolazione del giudizio positivo relativo alla capacità di organizzazione del lavoro: discreto, buono o ottimo; non solo positivo o negativo. Nella bozza, è inoltre prevista la rilevanza, ai fini della successiva valutazione di professionalità, di condotte di natura disciplinare accertate in via definitiva, nonché il coinvolgimento nelle discussioni di avvocati e professori nei Consigli giudiziari e il voto unitario degli avvocati, in caso di segnalazione da parte del Consiglio dell’ordine degli avvocati in base alla norma contenuta nel decreto legislativo del 2006. Porte girevoli e Csm, una legge equilibrata di Armando Spataro La Stampa, 12 febbraio 2022 Il Consiglio dei ministri ha ieri approvato alcuni importanti emendamenti al disegno di legge Bonafede in tema di riforma dell’ordinamento giudiziario e, in particolare del Csm, destinatario - come è noto - di diffidenze non sempre giustificate a seguito del noto caso Palamara e delle conseguenti polemiche sul cosiddetto “correntismo”. Non è possibile qui commentare tutti gli emendamenti approvati, per cui ci si soffermerà sul sistema elettorale del Csm e sul cosiddetto divieto di “porte girevoli”. Va intanto dato atto al presidente Draghi e alla ministra Cartabia di avere operato un generale sforzo di sintesi, auspicato anche dal Capo dello Stato, per conciliare le diverse opzioni politiche e giuridiche possibili, attraverso plurime interlocuzioni e senza cedere a inaccettabili forme di populismo circolanti anche nel mondo della magistratura. Mi riferisco innanzitutto, per quanto riguarda il Csm, al rifiuto di qualsiasi forma di sorteggio, spesso “paludato” a mo’ di truffa costituzionale per tentare di salvaguardare il principio scritto nella Carta secondo cui i componenti togati del Csm vengono eletti dai magistrati: “Prima si sorteggino gli eleggibili” - sostengono alcuni - “e tra costoro si votino i componenti del Csm”, come se il meccanismo elettivo previsto dalla Costituzione possa essere alterato così da vanificare il diritto di elettorato passivo, in modo offensivo non solo per i candidati, ma anche per gli elettori, privandoli di quella dignità giustamente auspicata per tutti dal Presidente Mattarella. I componenti del Csm vengono portati a trenta, di cui venti togati, da eleggere con un sistema fondato su collegi binominali: un unico collegio nazionale per i due membri della Cassazione, e collegi territoriali, rispettivamente 2 e 4, per eleggere i 5 pm e i 13 giudici. Per attribuire i seggi è previsto il sistema maggioritario, temperato da quello proporzionale per i soli giudici. Non sono previste liste, ma candidature individuali nei vari collegi (almeno 6 per ciascuno, di cui almeno tre del genere meno rappresentato). Il sistema, come si può capire, tende a cancellare il potere delle correnti, pur se personalmente ritengo che sarebbe stato meglio prevedere un sistema di voto opposto, cioè proporzionale a liste contrapposte, con un limitato numero di collegi e con la previsione della parità di genere nelle liste. In ogni caso, qualsiasi riforma del sistema elettorale è sempre stata originata dallo scopo di marginalizzare il correntismo. Ma ciò che va combattuta è la degenerazione delle correnti, mentre non si può eliminare la necessità per chi vota di riconoscersi nel programma di un candidato. Si dovrà comunque aspettare il testo finale della nuova normativa, quando verrà votata in Parlamento, per formulare un giudizio tecnico completo, visto che ciò che oggi si conosce, pur se apprezzabile, configura un sistema di una notevole complessità i cui contorni non sono ancora del tutto chiari. Almeno per chi scrive. È auspicabile, però, che si adottino scelte coraggiose anche per meglio disciplinare la designazione dei componenti laici del Csm, per cui l’intervento dei partiti politici non è certo marginale. Per quanto riguarda invece il divieto di porte girevoli, condivido la scelta operata dal Cdm secondo cui, oltre al divieto di esercitare in contemporanea funzioni giurisdizionali e funzioni politiche, sia per incarichi elettivi (nazionali o locali) e governativi, si prevede che, terminato il mandato politico, il magistrato non cessa certo di essere tale (lo vieta l’articolo 51 della Costituzione, secondo cui chi è eletto a funzioni pubbliche elettive ha diritto di conservare il suo posto di lavoro) ma, senza poter più svolgere funzioni giurisdizionali o requirenti, sarà adibito a compiti di eguale alto livello, venendo collocato fuori ruolo per incarichi soprattutto ministeriale. Tale previsione riguarda anche i magistrati che si candidano in competizioni elettorali e non vengono eletti, ma - in tal caso - il divieto predetto durerà per tre anni. Si tratta di una soluzione accettabile perché, da un lato, non penalizza i magistrati con la perdita del posto di lavoro e, dall’altro, evita un danno di immagine per l’intera categoria. Sia ben chiaro che giudico priva di fondamento l’affermazione secondo cui il magistrato perderebbe la sua indipendenza dopo o durante lo svolgimento di un incarico politico: tanti sono gli esempi virtuosi che si potrebbero fare, ricordando anche l’assoluta esiguità numerica di questi casi. Ma il contesto in cui viviamo, aggravato da incredibili attacchi alla magistratura, da ultimo quello renziano alla procura fiorentina, impone una sorta di sacrificio alla categoria in nome della tutela dell’immagine e credibilità della giustizia. Non è però un problema soltanto per i magistrati: è normale che prefetti e questori tornino a svolgere i loro compiti dopo la carica politica? E come dimenticare che in un passato non lontano abbiamo conosciuti alcuni avvocati che, diventati parlamentari, si sono battuti per l’approvazione di leggi che sarebbero state utili ai loro assistiti in processi in corso? Certo non si può pensare di vietare loro l’esercizio della professione ma, insomma, anche questo è un argomento delicato da ulteriormente discutere in Parlamento. Vorrei chiudere con un’ultima riflessione: è giusto prevedere modifiche al sistema di funzionamento del Csm e delle sue commissioni, alle procedure e sequenze temporali per la nomina dei dirigenti che devono essere trasparenti al massimo, ai criteri di valutazione della professionalità, alla riduzione del numero dei magistrati fuori ruolo, ma proprio a proposito di costoro giudicherei inaccettabile qualsiasi forma di penalizzazione, quale l’impossibilità di accedere a un incarico direttivo per lungo periodo dopo l’esaurimento di quelli fuori ruolo: chi ha lavorato presso un ministero, un organismo internazionale o altra importante Istituzione non può solo per questo essere negativamente marchiato. Come tutti i suoi colleghi dovrà essere valutato per la professionalità con cui ha esercitato quel lavoro e per l’indipendenza che deve comunque preservare rispetto a ogni forma di possibile ingerenza politica. Compromesso su toghe e Csm e partita riaperta in parlamento di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 12 febbraio 2022 Cartabia: è una riforma esigente. Draghi: rimaste differenze di opinione, niente fiducia. Forza Italia: “Rivendichiamo il diritto di insistere sul sorteggio temperato e abbiamo l’impegno del governo a dare parere favorevole ai nostri emendamenti”. Il Pd: “Sosterremo il punto di equilibrio raggiunto, sapendo che questo è il contributo che daranno le camere al necessario percorso di rinnovamento”. “Rispetto al testo dal quale siamo partiti, abbiamo fatto una sola modifica”, dice la ministra della giustizia Cartabia commentando in conferenza stampa l’approvazione all’unanimità della riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. È andata così, ma solo perché le trattative e i compromessi tra i partiti di maggioranza sono andati avanti per settimane, se non per mesi, fino alla porta del Consiglio dei ministri di ieri mattina, non a caso slittato di tre ore. Alla fine si è firmato un armistizio su tutti i punti della riforma, un accordo di massima come ha riconosciuto Draghi: “Sono rimaste delle differenze di opinione, c’è però l’impegno e la disponibilità a superarle dando al disegno di legge priorità assoluta per approvarlo in tempo per le prossime elezioni del Csm”. Non sarà facile, soprattutto al senato che dovrebbe ricevere il provvedimento, se i tempi saranno rispettati, ad aprile. Le elezioni del Csm sono a luglio e prima il governo avrà bisogno di un mese per disegnare i nuovi collegi elettorali delle toghe. “Se non ci saranno intoppi non ci sarà necessità di prorogare il Csm in carica”, ha detto la ministra. Ma questa volta il governo non metterà la fiducia, almeno a voler prendere in parola il presidente del Consiglio che lo ha promesso in conferenza stampa. Fa parte dell’accordo di maggioranza, che evidentemente non poteva essere firmato senza questa clausola che ha consentito a quasi tutti i partiti di rilanciare un minuto dopo la conclusione del Consiglio dei ministri. Dietro il retorico richiamo al parlamento protagonista - quasi una dizione formulare dopo la rielezione di Mattarella - si nascondono infatti le tante spinte dei partiti che sono rimasti insoddisfatti o soddisfatti a metà. Se la leghista Bongiorno dice che “la vera riforma della giustizia si farà con i referendum”, Forza Italia annuncia l’intenzione di dare battaglia già da mercoledì prossimo quando comincerà l’esame in commissione giustizia alla camera (il giorno prima la ministra sarà ascoltata sul Pnrr ma naturalmente le chiederanno anche della riforma). “Rivendichiamo la libertà di sostenere la nostra idea di sorteggio temperato”, dice il partito di Berlusconi (i cui ministri sono arrivati in ritardo al Consiglio proprio per fare training al telefono con il Cavaliere), citando un documento che sostengono di aver allegato al verbale del Consiglio dei ministri. Anzi, garantiscono che il governo darà parere favorevole al loro emendamento che cristallizza le funzioni di pm e giudici concedendo una sola possibilità di cambiarle entro i primi cinque anni. Tajani si spinge a definire l’intero pacchetto di emendamenti approvato ieri “solo un testo base”. Il testo base in realtà è ancora quello che sta alla camera da un anno e mezzo, firmato dall’ex ministro della giustizia Bonafede. Al quale la guardasigilli Cartabia è sostanzialmente regredita, recuperando quel “ruolo speciale” per i magistrati che hanno svolto un mandato elettivo o al governo o nelle giunte locali e che non dovranno mai più tornare a funzioni giurisdizionali. Un limbo non ben definito (si conserveranno qualifica, anzianità e stipendio di magistrato) che andrà a ingrossare la pattuglia di toghe negli uffici ministeriali. La “sola modifica” arrivata ieri durante la cabina di regia a palazzo Chigi interviene su questo punto, prevedendo che per escludere definitivamente il magistrato dalle funzioni giurisdizionali questi debba aver svolto almeno un anno di mandato politico. La modifica, voluta dal ministro Pd Orlando (ex guardasigilli) e sostenuta da Speranza (Leu) è chiaramente pensata per limitare la “punizione” della toga che entra in politica e magari ne esce rapidamente. Ma potrebbe avere qualche effetto positivo anche per frenare un problema opposto, al quale si è pensato poco: magistrati attratti dal limbo ministeriale e in cerca di un mandato politico anche breve pur di lasciare per sempre le procure e i tribunali. Sul punto va segnalato che il sottosegretario Garofoli, consigliere di stato e per questo al centro di sospetti forse mal riposti visto che la norma, non retroattiva, non lo avrebbe escluso dal rientro nelle funzioni, ha lasciato “per sensibilità istituzionale” il Consiglio dei ministri (a Speranza il compito di stendere il verbale). Draghi lo ha ringraziato assai per il “lungo” lavoro di mediazione. Lavoro che evidentemente non è concluso. I 5 Stelle, che possono rivendicare il ritorno ai principi della Bonafede in materia di “porte girevoli”, annunciano battaglia sulla nuova legge elettorale per le toghe. Un sistema maggioritario (come quello attuale) binominale, quindi con buone probabilità di favorire il bipolarismo tra le correnti più forti, ma temperato con il recupero di sei seggi proporzionali (su 20). Almeno un pm e cinque giudici - è questo il tentativo - dovrebbero così sfuggire al controllo delle correnti. Anche perché non sono previste liste elettorali (ma nessuno potrà impedire il collegamento delle candidature) e i candidati meno forti saranno aiutati dallo scorporo. Ci sarà parità di genere almeno nella candidatura e per garantirla (e nel caso anche per garantire un numero sufficiente di candidati) ecco comparire il sorteggio. Il metodo di assai dubbia costituzionalità che ormai una parte maggioritaria delle forze politiche - centrodestra e centristi - apertamente appoggia. Forse proprio dell’essere riusciti a evitarlo si nutre la soddisfazione del Pd, il partito che con Leu si mostra più aperto verso il compromesso raggiunto. Anche perché, fanno notare la responsabile giustizia Rossomando e i deputati Bazoli e Verini, ha portato a casa “le norme sullo stop alle nomine a pacchetto e sulla presenza con diritto di voto di avvocati e docenti nei consigli giudiziari”. Separazione delle funzioni. L’altro giro di vite che evita il no di FI di Valentina Stella Il Dubbio, 12 febbraio 2022 Solo due passaggi da giudice a pm. “Grazie a noi il testo è migliorato”, dicono Tajani e Zanettin. Tra i protagonisti della convulsa giornata di ieri che ha portato al varo in Consiglio dei Ministri della riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm, c’è sicuramente Forza Italia, che ha fatto slittare l’inizio della riunione in virtù di una richiesta non banale: poter vagliare con attenzione gli emendamenti del Governo. “Abbiamo chiesto il rinvio del Cdm in modo da avere più tempo per leggere tutte le carte arrivate stamattina (ieri, ndr). Poi abbiamo messo a verbale i nostri punti. Ma si tratta di un testo base, non definitivo”, ha spiegato il coordinatore nazionale di FI, Antonio Tajani, in una conferenza convocata nel pomeriggio. Ieri mattina, ministri e parlamentari forzisti sono stati in riunione permanente nella sede del partito in piazza San Lorenzo in Lucina: collegato anche Silvio Berlusconi per confrontarsi sulle richieste di modifica al testo. “Siamo molto soddisfatti dei risultati ottenuti - ha proseguito Tajani abbiamo dato un contributo determinante a un vero cambio epocale nella magistratura del nostro Paese. Un segnale che permetterà alla magistratura di essere più indipendente e che rafforza la separazione dei poteri”. Si riferisce in particolare al tema più discusso e divisivo di questi ultimi giorni di trattativa politica: “Abbiamo messo fine al sistema delle porte girevoli tra politica e magistratura. Finisce l’epoca della commistione tra giudici e politica”, ha assicurato il numero due azzurro. E ha precisato: “Questa norma chiude una stagione buia e ne apre una positiva, che dà autorevolezza alla nostra magistratura. L’Italia ha sofferto a lungo per la presenza troppo politicizzata di alcuni magistrati”. “Nelle ultime ore - ha poi continuato il capogruppo in commissione Giustizia Pierantonio Zanettin - si era sparsa la notizia che il testo prevedesse una deroga per i magistrati - politici non eletti: ministri, assessori, sottosegretari. Noi abbiamo fatto valere fin dalle prime indiscrezioni il nostro modo di vedere, che era quello appunto di non ammettere deroghe, e in effetti il testo approvato dal Consiglio dei ministri prevede una parificazione assoluta tra magistrati- politici eletti e non eletti”. Un altro punto importante sottolineato in conferenza stampa riguarda il ruolo che avranno gli avvocati, che per la prima volta parteciperanno al giudizio sulla promozione dei magistrati, una battaglia condotta per anni dal Cnf. Se è vero che nella riforma Cartabia, è stata accolta la proposta tecnica del Partito democratico di spersonalizzare il voto dell’avvocato nel Consiglio giudiziario, in quanto diventerà portatore di un parere del Coa, è altresì vero al risultato ha contribuito anche il pressing di Forza Italia. Altro tema di grande rilievo, sottolineato da Zanettin, è “la separazione delle funzioni tra magistratura requirente e giudicante. Il testo Bonafede, riconfermato dal maxiemendamento Cartabia, prevede che il cambio di funzione da magistrato a giudice e viceversa possa essere fatto due volte, noi vogliamo che sia fatto una volta sola nei primi cinque anni di carriera. Abbiamo avuto delle rassicurazioni dal governo, quindi confidiamo che anche questo possa diventare legge”. Si tratta di un risultato che, se effettivamente raggiunto, vanificherebbe uno dei 6 quesiti del referendum giustizia promosso da Partito radicale e Lega, sempre che la Corte Costituzionale lo ammetta al termine della discussione del prossimo martedì. Dall’altra parte rappresenta un primo importante approdo, considerato che “per fare la riforma costituzionale della separazione delle carriere auspicata dall’Unione delle Camere penali - ha ammesso Zanettin - occorre una maggioranza che al momento non c’è”. Certo, su un elemento per qualcuno decisivo come la legge elettorale del Csm, Forza Italia è scontenta: “Ci sono degli aspetti critici”, e “di ritorno al passato. Ci riserviamo di presentare degli emendamenti proponendo il sistema del sorteggio temperato, storicamente parte del nostro bagaglio culturale, che consente di attenuare il peso delle correnti”, ha concluso Zanettin. Sulla questione di metodo, Forza Italia ha rivendicato il fatto che “il risultato politico importante è che il ruolo del Parlamento tornerà centrale per la riforma del Csm e della magistratura. Draghi ha detto che non porrà mai la fiducia. Queste riforme non si fanno a colpi di fiducia ma attraverso un confronto sereno e corretto all’interno del Parlamento”, ha terminato Tajani. Alla nostra domanda sui criteri delle valutazioni professionali dei magistrati, Zanettin ci ha risposto che “vengono introdotti elementi nuovi, non solo il ruolo degli avvocati ma anche gli esiti. Uno degli argomenti che abbiamo infatti trattato con la ministra Cartabia è stata la possibilità di inserire nei criteri il grado di resistibilità dei provvedimenti”. Riforma, l’Anm: dubbi di costituzionalità di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 12 febbraio 2022 Le prime reazioni della magistratura associata alla riforma Cartabia. Per il presidente Santalucia è troppo radicale l’intervento sulle toghe nelle amministrazioni locali. Per il segretario di Magistratura democratica Musolino la nuova legge elettorale del Csm rafforza i potentati locali. Per il segretario di Area Albamonte però è positivo che ci sia finalmente un limite al sistema maggioritario. “Si poteva fare meglio”, dice il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia commentando il sistema elettorale per la componente togata del Csm scelto dal governo con gli emendamenti alla riforma dell’ordinamento giudiziario. E non vorrebbe dire altro, anche perché la posizione della magistratura associata è assai articolata, un recente referendum consultivo ha visto prevalere l’opzione proporzionale ma con buoni consensi per il maggioritario e persino per il sorteggio. “È un intervento un po’ a metà”, dice Santalucia, “vedremo come andrà il dibattito parlamentare”. Ma è sulle cosiddette porte girevoli che ha da dire di più: “Il problema dei magistrati in parlamento è ormai minimale, l’Anm sollecita una soluzione da tempo, da quando i casi erano assai più dei tre, quattro di adesso. La necessità di garantire il ruolo indipendente e autonomo e non schierato del magistrato è sacrosanta - aggiunge - ma dal mio punto di vista allontanare per sempre dalle funzioni giurisdizionali chi ha fatto un’esperienza politica locale mi sembra assai radicale e penso che meriti un’attenzione del parlamento ai profili costituzionali”. L’articolo 51 della Costituzione recita che “chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro”. Il segretario di Area democratica per la giustizia Eugenio Albamonte è soddisfatto che abbia “in qualche modo pagato in la nostra lunga insistenza contro una legge elettorale per il Csm piegata solo sul maggioritario, come l’attuale. Il fatto che siano stati introdotti significativi correttivi proporzionali è sicuramente positivo”. Meno positivo il commento su altri aspetti, per esempio sul ritorno o non ritorno nelle funzioni dei magistrati dopo un mandato elettorale o di governo: “Le soluzioni che sono state trovate per i magistrati amministrativi sono molto più a fuoco del sistema nebuloso previsto per gli ordinari”, dice Albamonte. E aggiunge di non spiegarsi perché aver fatto parte come tecnico di un ministero, ad esempio come capo di gabinetto, debba comportare la collocazione in un ruolo “che non si capisce bene cos’è” quando “meglio sarebbe stato escludere questi magistrati dagli incarichi direttivi e semidirettivi per un periodo”. Secondo il segretario di Area bisognerebbe fare un censimento delle posizioni fuori ruolo, perché “ce ne sono alcune che sono prettamente collegate alla funzione giudiziaria, ma tante altre che servono da rifugio per i colleghi che si allontanano dal lavoro in procura e nei tribunali”. Molto negativo invece il giudizio di Stefano Musolino, segretario di Magistratura democratica, sul sistema elettorale indicato dal governo. “Non rispetta la chiarissima volontà dei magistrati che in netta maggioranza si sono espressi per il proporzionale”, spiega. “La politica non riesce a capire che è proprio nel sistema maggioritario che si annida il pericolo di favorire nuovi scandali, La moltiplicazione dei collegi - aggiunge - non avrà altro risultato che rafforzare i potentati locali che sono alla base della crisi che sta vivendo la magistratura”. “Sono deluso - dice Musolino - perché mi aspettavo uno sforzo in più contro il carrierismo. È giusto prevedere che chi ha un incarico direttivo deve garantirlo per sei anni, ma tutta la magistratura associata auspicava una moratoria di due anni tra un incarico semidirettivo e uno direttivo, per evitare quelle carriere costruite lontane dal lavoro di trincea che sono una delle cause della degenerazione che abbiamo vissuto. Dalla crisi non si esce senza rilanciare il ruolo vivo della giurisdizione”. Gli errori nella riforma della Giustizia secondo l’ex vicepresidente del Csm Michele Vietti di Annalisa Chirico Il Foglio, 12 febbraio 2022 “La montagna ha partorito il topolino”, dice l’ex vicepresidente del Csm Michele Vietti che negli emendamenti approvati dal governo in materia giudiziaria vede più ombre che luci. “Da due anni si fa un gran parlare di ‘sistema’ e ‘correntocrazia’, eppure si è atteso l’intervento del presidente della Repubblica Mattarella per dare un segnale, seppur timido, di cambiamento”. Presidente, il Cdm ha approvato le modifiche al ddl in discussione in Parlamento per la riforma della giustizia. Qual è il suo giudizio? “Lo strumento mi sembra inadeguato. Intervenendo a suon di emendamenti al ddl Bonafede, la capacità di azione è limitata e il percorso parlamentare si preannuncia travagliato. Capisco che l’adozione di un decreto legge in questa materia comporta una forzatura politica ma il veicolo utilizzato è una navicella molto fragile”. La prima novità per il Csm è che si torna a trenta componenti: venti togati scelti dai magistrati e dieci dal Parlamento, come era prima della riforma del 2002. “Aumentare il numero dei componenti mi sembra un assurdo, non se ne vede la ragione. Io che ho presieduto l’assemblea a ventiquattro posso assicurare che è veramente complicato, a trenta rischierebbe di essere un’assise ingestibile”. Cambiano le norme elettorali: quattordici consiglieri saranno eletti con il maggioritario basato su collegi binominali, il quindicesimo (un pm) sarà il terzo più votato da individuare attraverso un calcolo ponderato, i rimanenti cinque saranno scelti tra i giudici con un sistema di voto proporzionale su base nazionale... “La legge elettorale è un gran pasticcio, assomma i difetti dei due sistemi. Con un collegio nazionale per la quota proporzionale, è chiaro che solo il magistrato sostenuto dalle correnti potrà affrontare una campagna elettorale con chance di successo. Servirà l’appoggio delle correnti per competere. Io continuo a pensare che sarebbe meglio introdurre una forma di sorteggio almeno in seconda battuta. Si potrebbe far votare una platea pari al doppio dei componenti e poi estrarre tra costoro i componenti finali. Altrimenti tutti i discorsi sul ridimensionamento del ruolo delle correnti si riveleranno aria fritta”. Insomma, lei non è soddisfatto... “Si applica un pannicello caldo senza affrontare i nodi veri del Consiglio. Il primo problema è la durata: quattro anni sono pochi e la scadenza avviene per tutti nello stesso momento. Il mandato andrebbe esteso a cinque anni prevedendo, come per la Corte costituzionale, la decadenza dei consiglieri con tempi differenziati”. Il governo ha scelto la linea dura contro le cosiddette “porte girevoli”: chi viene eletto non potrà tornare alle funzioni giurisdizionali, per i non eletti ci sarà un limbo di tre anni prima di tornare a esercitarle... “Sul punto sono d’accordo, era tempo di fissare una netta demarcazione, tuttavia penso che non si possa equiparare un eletto in Parlamento o in un ente locale con il capo di gabinetto o dell’ufficio legislativo. Sono ruoli tecnici, non assimilabili a chi si candida a svolgere un ruolo politico. E poi, contrariamente a quanto si pensa, l’assegnazione al massimario della Cassazione comporta l’esercizio di funzioni giurisdizionali”. E’ d’accordo con la proposta del presidente della Fondazione Leonardo Luciano Violante volta ad assegnare il giudizio disciplinare ad un’alta corte esterna? “Sono totalmente d’accordo, aggiungo che a questa corte esterna andrebbe affidato il compito di gestire i procedimenti disciplinari per tutte le magistrature. Ci poniamo il problema degli ordinari ma quello degli amministrativi e dei contabili non è meno rilevante, è giustizia domestica anche la loro”. E per gli incarichi direttivi? “Le norme sulle nomine sono diventate ormai le munizioni per i ricorsi al Tar. Io penso che tali questioni non possano essere lasciate al Tar che decide come se si trattasse di delibere sull’acquedotto comunale. Le nomine dei direttivi andrebbero impugnate in unico grado davanti a una sezione a composizione speciale del Consiglio di stato, solo in questo modo si potrebbe avere sufficiente garanzia che sia apprezzato l’inevitabile margine di discrezionalità insito in questi atti che sono scelte anche politiche. L’organo costituzionale di governo della magistratura deve poter scegliere i propri direttivi: deve farlo bene, certo, ma è sacrosanto un margine di discrezionalità. S’illude chi pensa che si possa risolvere ogni controversia applicando il testo unico di cento articoli che, come prevedibile, ha aumentato spropositatamente il numero dei ricorsi al Tar”. Sarà almeno favorevole all’inclusione di avvocati e professori universitari nei consigli giudiziari... “Quando ho presieduto la commissione per la riforma dell’ordinamento giudiziario, anch’io ho proposto il loro coinvolgimento, tuttavia sarebbe sbagliato pensare che si possa scaricare soltanto sugli avvocati il problema delle valutazioni di professionalità di giudici e pm. Attendo di vedere un avvocato che mostra il pollice verso in un consiglio giudiziario. Devono essere i capi degli uffici giudiziari, che conoscono la qualità dei propri magistrati, a giudicarli con rigore e trasparenza”. Bonafede: “Chi va in politica perde l’immagine di terzietà, ma non vogliamo punizioni” di Liana Milella La Repubblica, 12 febbraio 2022 L’ex Guardasigilli grillino: “L’impianto è quello della mia riforma. La nuova legge elettorale, però, non limita le correnti. Da ex ministro so quanto è importante nei ministeri il contributo dei magistrati”. Leggo su Fb che lei, Alfonso Bonafede, parla di “svolta storica” sul Csm e di “tanto lavoro che continua a dare i suoi frutti”. Parla del suo da Guardasigilli per 3 anni? “Io e il M5S abbiamo lavorato tanto, e con determinazione, per arrivare a questo risultato perché abbiamo sempre pensato che il blocco delle “porte girevoli” fosse un principio di civiltà. Se ne parlava da decenni, e sono orgoglioso di aver inserito questa regola nella mia riforma del Csm, approvata nel governo Conte 1 e confermata in consiglio dei ministri anche nel Conte 2, in piena pandemia. Oggi, dopo qualche tentennamento, gli emendamenti del governo confermano l’impianto originario della mia riforma”. L’M5S è sempre stato dalla parte dei magistrati. Perché, per le “porte girevoli”, non vuole più fargli rimettere la toga? “La domanda è malposta. In realtà stiamo parlando di una regola che salvaguarda l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Un giudice che decide di dedicarsi alla politica può dare un grande contributo di esperienza e competenza, ma è evidente che a quel punto perde l’immagine di terzietà che è fondamentale nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali. Quindi è giusto che quella toga che entra in politica non possa più tornare indietro”. Voi siete stati sul punto di dichiarare guerra anche a questa riforma, dopo la vicenda dell’improcedibilità, perché volevate fuori anche chi assume ruoli di governo senza essere eletto. Una scelta che aveva nomi e cognomi, il caso Garofoli per intenderci. Non è una posizione troppo dura rispetto a chi non si candida con un partito? “Assolutamente no. Voglio chiarire che il M5S non fa mai questioni personali e la riforma si applicherà per i casi futuri, ma mi sembra chiaro che se stabiliamo, per esempio, che un magistrato eletto in Parlamento non possa più tornare a vestire la toga, allora è evidente che la stessa regola debba valere per il magistrato che abbia incarichi di governo e che, quindi, definisce la linea politica del potere esecutivo”. Nella tagliola cadono pure i capi di gabinetto. E c’è la stretta sui fuori ruolo. Volete escludere le toghe dal governo del Paese? “La riforma vuole ribadire la centralità della funzione giurisdizionale. Per raggiungere quest’obiettivo, vengono posti alcuni paletti, ma ci tengo a dire, da ex ministro, che sono testimone di quanto, in alcuni uffici, possa essere importante il contributo dei magistrati”. Non la preoccupa che anche Berlusconi, protagonista di una call prima del consiglio dei ministri con i suoi, nonché Salvini, da sempre anti-toghe, siano d’accordo su questa stretta? “Penso che nessuna forza politica possa sottrarsi a una regola di civiltà fortemente sentita da tutti i cittadini. Tutta la riforma è stata concepita a salvaguardia della credibilità e dell’autorevolezza della magistratura, messa in crisi dalle degenerazioni del correntismo. Quando ho lavorato alla stesura della prima versione della riforma nel 2019 ho pensato non solo agli italiani che hanno bisogno di una giustizia che funzioni bene, ma anche alla stragrande maggioranza dei magistrati che servono il nostro Paese, in alcuni casi anche rischiando la vita. Proprio loro sono indignati dalle manovre delle correnti”. Però i giudici già mugugnano per una legge elettorale “del tutto confusa e alla fine inutile”. “Gli emendamenti del governo, per tutta la riforma, lasciano inalterato il mio impianto originario. L’unica parte completamente stravolta è proprio quella del sistema elettorale. Analizzeremo il testo e ascolteremo le audizioni. Ma la mia impressione è che questa legge non sia sufficiente a limitare le logiche spartitorie”. È l’annuncio che l’M5S chiederà un’altra legge elettorale? “Lasci perdere gli annunci. La legge elettorale deve essere fatta subito perché a luglio vanno rieletti i togati. Va solo valutata con attenzione, ma senza cercare divisioni a tutti i costi. E dobbiamo anche ammettere che non esistono formule magiche per eliminare le distorsioni del passato. Adesso tocca al Parlamento lavorare con serietà e urgenza proprio come ci ha invitato a fare il presidente Mattarella. È il momento di essere coerenti con quegli applausi”. A tre anni dal caso Palamara la riforma non è solo punitiva? “Io ho cominciato a lavorare alla riforma prim’ancora che il caso scoppiasse. Quella gravissima e inaccettabile vicenda ha dimostrato solo l’urgenza di una legge di cui si parlava già da anni. Per me la credibilità della giustizia è un valore irrinunciabile per la nostra democrazia”. L’attuale Csm scade a luglio. La legge arriverà in tempo? “Io rispondo per l’M5S. E faremo la nostra parte. Spero che gli altri facciano altrettanto”. Interdittive: norma da cambiare e una sentenza lo dimostra di Giovanni Francesco Fidone Il Riformista, 12 febbraio 2022 Il recente intervento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 3 del 28/01/2022 ha aperto un importante dibattito sul tema delle interdittive antimafia, affrontando la questione della legittimazione di amministratori e soci di una persona giuridica a impugnare le misure prefettizie, ponendo una pietra tombale sulla vexata quaestio. La vicenda nasce, infatti, da un dibattito giurisprudenziale che ha visto, nel corso degli anni, contrapporsi due orientamenti. Da una parte, un primo orientamento “rigorista” ha ritenuto che soltanto l’impresa destinataria del decreto prefettizio abbia legittimazione attiva a impugnare un’interdittiva antimafia. Dall’altra parte, un secondo orientamento ha invece riconosciuto un interesse morale che si traduce nella legittimazione attiva al ricorso anche da parte di ex amministratori o parenti menzionati nel provvedimento come soggetti che, in qualche modo, hanno determinato l’emissione della misura antimafia. Oggi l’Adunanza Plenaria scioglie il nodo interpretativo aderendo alla tesi più severa: “Gli amministratori ed i soci di una persona giuridica destinataria di interdittiva antimafia non sono titolari di legittimazione attiva all’impugnazione di tale provvedimento”. Il ragionamento di Palazzo Spada è molto semplice: il provvedimento prefettizio può essere impugnato solo ed esclusivamente dal soggetto che ne patisce gli effetti diretti e, quindi, dal destinatario dell’atto, e cioè dalla società, in quanto solo il destinatario subirebbe la lesione immediata e diretta alla propria posizione giuridica soggettiva. Senza voler muovere alcuna critica alla sentenza che rappresenta, peraltro, la lettura più aderente al dato normativo della fattispecie, le conseguenze applicative di un simile orientamento meritano molto più di una riflessione. Solo chi non ha mai avuto a che fare con un’interdittiva, può pensare che l’istituto in alcuni casi non travolga, come la peste bubbonica, non soltanto l’impresa ma anche le vite di amministratori, soci, parenti e talvolta anche amici (si, è proprio così), con un meccanismo a cascata degno, per usare le parole di una celebre sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, di un “regime di polizia”. E allora, siano sufficienti due esempi, fra tutti, per comprendere la portata storica della pronunzia. È fatto notorio che, molto spesso, alla misura interdittiva segua il commissariamento dell’impresa: in questo caso, considerato che un commissario non avrebbe alcun interesse a impugnare un’interdittiva, il provvedimento diventerebbe definitivo e l’ex amministratore colpito, o anche i soci o parenti menzionati nell’atto prefettizio, sarebbero costretti a subire gli effetti devastanti dell’atto senza poter reagire in alcun modo, come un marchio a fuoco indelebile. In buona sostanza, una Pubblica Amministrazione può “demolire” un’impresa e, conseguentemente, diverse vite umane con un provvedimento che risulterà del tutto insindacabile in sede giurisdizionale. E nessuno mai potrà dirci se quel provvedimento fosse, o meno, illegittimo o se fosse giusto o sbagliato. Ma valga anche un altro esempio. Capita spesso che, in attesa della decisione giudiziale, le imprese colpite da interdittiva, costrette alla paralisi totale, falliscano. Non è chiaro quali siano gli effetti della portata dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato sulle domande risarcitorie, ma non sembra potersi escludere che, in questo caso, l’amministratore o i soci dell’azienda fallita non potranno neppure agire per il ristoro degli incommensurabili danni patiti. Il cortocircuito che ne deriva è pericolosissimo e pone a rischio le fondamenta del nostro Stato di Diritto. E allora, la coerente interpretazione fornita da Palazzo Spada non fa altro che dimostrare che il problema sta proprio nella normativa: se le interdittive hanno assunto i contorni delineati dal Consiglio di Stato, è perché l’istituto lo consente. La conclusione, a questo punto, non può che essere una e una soltanto: diviene impellente, oggi più che mai, una proposta di riforma dell’istituto, che elimini simili inaccettabili storture e che trasformi l’istituto da potenziale strumento di “inquisizione medievale” ad autentico presidio di legalità. La polizia e la tutela dei diritti del cittadino di Luigi Manconi La Repubblica, 12 febbraio 2022 Dal caso di Riccardo Magherini a quello di Cerciello Rega, la formazione degli uomini e delle donne titolari di compiti di controllo è essenziale. La prendo alla lontana, ma si tratta di una premessa che può essere utile per meglio spiegare fatti recenti. Il 30 gennaio del 2014, una circolare del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri raccomandava, nel caso di fermo di persone per strada, di evitare “i rischi derivanti da immobilizzazioni protratte, specie se a terra in posizione prona”. E si chiariva che “la compressione toracica può costituire causa di asfissia posturale”. Un mese dopo, la morte di Riccardo Magherini, fermato a Borgo San Frediano, a Firenze, con quella stessa tecnica e portato alla morte, così come altri prima e dopo di lui, esattamente nelle medesime circostanze. Nel 2016, la circolare venne sostituita da un altro testo nel quale venivano eliminate le avvertenze sul pericolo che può provocare “l’ammanettamento nella posizione prona a terra”. Questo episodio mi pare sommamente istruttivo per comprendere cosa significhi il discorso sulla “formazione”, sempre ricorrente quando ci si imbatta in comportamenti variamente illegali e in abusi e irregolarità da parte di membri degli apparati dello Stato. La formazione, nel caso di uomini e donne che sono titolari dell’uso legittimo della forza e di compiti di controllo e repressione, riguarda due ambiti decisivi. Quello da cui ho preso le mosse è relativo all’”istruzione tecnica”, ma altrettanto importante è la dimensione dell’educazione culturale. Il fatto, cioè, che primaria responsabilità degli appartenenti ai corpi di polizia è la tutela dei diritti del cittadino, che non cessa di essere tale - ovvero cittadino a pieno titolo - anche quando fosse “sospetto” o destinatario di un provvedimento di fermo. Invece, generalmente - è questo il dramma all’origine di tanti errori e ingiustizie - l’operatore di polizia tende a vedere, nell’individuo al quale si accosta, un possibile nemico, una potenziale minaccia, una insidia per l’incolumità propria e per quella pubblica. Il che, per certi versi, è inevitabile, considerato che quello stesso operatore può avere compiti di repressione: ed è il suo mestiere, di conseguenza, a produrre un determinato comportamento. Enorme, dunque, è la responsabilità e la difficoltà dell’impresa di fare di carabinieri, poliziotti, finanzieri e agenti penitenziari i tutori dei diritti degli individui, profondamente convinti dell’intangibilità di prerogative e garanzie degli stessi. Che questa impresa rischi costantemente il fallimento è dimostrato dalla trascrizione dei messaggi scambiati nelle chat tra i carabinieri dopo l’assassinio del loro collega Mario Cerciello Rega, avvenuto il 26 luglio del 2019. Eccone un orribile (e parziale) florilegio, pubblicato da Repubblica il 9 febbraio scorso: “devono prendere le mazzate. Bisogna chiuderli in una stanza e ammazzarli davvero”, “squagliateli nell’acido”, “ammazzateli di botte”. Di quelle frasi, la più eloquente è questa: “fategli fare la fine di Cucchi”. Dunque, quella che è per l’opinione pubblica democratica (e per i carabinieri democratici) una vicenda di cui provare vergogna, per altri (e per altri carabinieri) costituisce un modello di comportamento. Ora devo adempiere a un rito: quasi fosse necessario - e non una ovvia premessa - scrivo che quegli atti e quelle parole appartengono solo a una quota dei militari dell’Arma, quasi che qualcuno avesse mai detto il contrario. Ma fosse pure, come davvero è, una minoranza, non si può ignorare che si tratta di un fenomeno assai preoccupante, perché segnala un orientamento e, direi, un sentimento diffuso in una parte (nessuno può dire quanto ampia) degli operatori. Si tratta di un senso comune e di una cultura non solo tenaci come una gramigna, ma che non sembrano destinati a esaurirsi. Tutt’altro. Il Comando Generale dei Carabinieri ha definito quelle frasi “offensive” ed “esecrabili”, e si è impegnato ad avviare “con immediatezza i conseguenti procedimenti disciplinari per l’adozione di provvedimenti di assoluto rigore”. Giusto, ma ci aspettiamo che si comunichi anche quale programma di educazione alla legalità e di insegnamento dei principi costituzionali il Comando intenda promuovere - o comunque rafforzare - ancora “con immediatezza” a partire da oggi. Anzi, da ieri. Mafia e corruzione, la lezione dimenticata a 30 anni da Mani Pulite di Ilvo Diamanti La Repubblica, 12 febbraio 2022 Sondaggio Demos-Libera: gli italiani considerano l’illegalità diffusa una patologia inevitabile. La corruzione e l’infiltrazione mafiosa, tra le pieghe dell’economia e della finanza, continuano ad allargarsi. In particolare, attraverso il mondo dei professionisti e dei colletti bianchi. “So-spinte” dalle risorse “generate” dal Pnrr. Più in generale, dagli interventi e dei fondi trasferiti dall’Unione Europea. Tuttavia, questi problemi preoccupano di meno, rispetto al passato. Lontano e recente. Si tratta di tendenze rilevate da un recente sondaggio curato da Demos-Libera, che, domani verrà presentato sull’Espresso. Questa contraddizione, in effetti, è meno contraddittoria di quanto possa apparire. E ha due spiegazioni principali. La prima, richiama il diverso approccio assunto dal fenomeno mafioso. Per citare le parole di don Luigi Ciotti, nell’intervista pubblicata in queste pagine: “La mafia che uccide o esercita forme di violenza diretta oggi è residuale”. Perché prevale quella “imprenditoriale”, che usa il denaro per corrompere e agisce attraverso strategie che permettano di non apparire. Anzi: nascondersi. È una mafia che non fa più notizia come prima. Perché ha scelto metodi e strategie d’azione che attraggono meno l’attenzione dei media. E, si è inserita direttamente nei circuiti professionali e dei professionisti. In questo modo, opera “dentro” il sistema. Nei centri dell’economia e del mercato. Ma non appare. Si confonde con i luoghi e i soggetti che, comunque, agiscono in questa zona grigia del potere. In modo meno visibile ma non meno influente. Al contrario. Perché rende difficile districare l’illegalità “interna”, quasi fisiologica, da quella patologica, di origina mafiosa. La seconda ragione che rischia di ri-dimensionare la presenza mafiosa nel nostro ambiente e ai nostri occhi è conseguente. Coerente. Evoca un senso di abitudine, quasi assuefazione. La corruzione, infatti, sembra essere “compresa”, cioè: riassunta, come un “male italiano”. Che va oltre la mafia. Un vizio italiano. Inaccettabile, ma, in fondo, accettato. Non è un caso che, ormai, abbia perduto alcuni dei tratti che le fornivano identità. La geografia, anzitutto. Un tempo, la mafia appariva radicata soprattutto nel Mezzogiorno. Mentre oggi appare un fenomeno nazionale. Da Nord a Sud, passando per il Centro, la percezione del pericolo mafioso non mostra particolari differenze. Certo, c’è consapevolezza che si tratta di un problema molto serio. Tanto più in questi tempi. Quando l’aumento e la circolazione delle risorse “legali” attraggono l’attenzione dei “soggetti il-legali”. Infatti, se il Pnrr, presso gran parte dei cittadini, costituisce una sigla “oscura”, l’interesse cresce notevolmente fra coloro che vedono in questo “Piano” un motivo di profitto. Di guadagno. Non solo in modo legale e legittimo. Al contrario. Ma sulla tentazione di “ri-dimensionare” il fenomeno, oltre alla geografia, pesa la nostra “storia”. Nelle prossime settimane, infatti, ricorre il 30esimo anniversario di Tangentopoli. Lo “scandalo” della corruzione che, nel 1992, ha coinvolto e travolto gran parte del sistema politico e dei partiti, in Italia. Un evento “epocale”, che ha contribuito, in modo decisivo, alla fine della Prima Repubblica. Indebolita, dopo la caduta del Muro di Berlino, che le aveva fornito basi di identità e stabilità. Nel segno dell’anti-comunismo. Ma Tangentopoli ne ha sgretolato le fondamenta. La legittimità. E ha aperto la strada ai cambiamenti successivi. Alla Seconda Repubblica, nel segno di Berlusconi e dell’anti-berlusconismo. Alla Terza, dopo la caduta di Berlusconi e l’affermarsi dell’antipolitica, interpretata, anzitutto dal M5S. Fino ad oggi. A questa Repubblica difficile da definire. Dopo il declino del partito-non-partito. E dei partiti. Tuttavia, come ribadisce la ricerca di Demos-Libera, una larga maggioranza dei cittadini, circa 6 su 10, ritiene che non sia cambiato nulla da allora. Tangentopoli non è mai finita. E il 22% pensa che la corruzione, da allora, sia perfino cresciuta. Insomma, negli ultimi decenni, agli italiani pare che non sia cambiato nulla sul “fronte illegale”. È questo il vero “rischio”, in questa fase. Che le mafie e la corruzione, ai nostri occhi, diventino: “normali”. Quasi “banali”. Perché la “banalità del male”, per echeggiare le parole di Hannah Arendt, “rischia” di generare acquiescenza intorno a oggetti e soggetti tutt’altro che “banali”. Ma per allungare lo sguardo oltre l’ombra della mafia occorre riconoscerla. Individuarne le radici. E, ovviamente, contrastarla. Nella società e sul territorio. Infine e soprattutto: bisogna evitare che, per noi, divenga “normale”. Dunque: in-evitabile. Per questo non dobbiamo “rassegnarci”. Ma “indignarci”. Reagire. Per non perdere il rispetto di noi stessi. In definitiva: per non perderci. Inumana detenzione, l’indennizzo non scatta solo se la “compensazione” è piena di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 12 febbraio 2022 Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 4993 depositata oggi, affermando che dovevano coesistere la breve durata della detenzione, condizioni dignitose e libertà di movimento. Per negare l’indennizzo per inumana detenzione a causa della ristrettezza della cella non è sufficiente addurre, da parte del Ministero della Giustizia, l’esistenza di “misure compensative” da prendere in considerazione. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 4993 depositata oggi, che nel respingere il ricorso di Via Arenula ha affermato che tali misure - brevità, possibilità di uscire dalla cella ecc. - devono ricorrere tutte quante insieme ed essere dimostrate. Confermato dunque il provvedimento del Tribunale di sorveglianza di Perugia che aveva rigettato il reclamo proposto dalla Direzione dell’amministrazione penitenziaria contro il provvedimento del Magistrato di sorveglianza di Spoleto che aveva accolto la domanda di un uomo volta ad ottenere i rimedi previsti dall’art. 35-ter Ord. Pen. riconoscendogli in ragione del pregiudizio per le condizioni di detenzione, in violazione l’art. 3 CEDU, per 1.465 giorni negli Istituti di pena di Roma Regina Coeli, Roma-Rebibbia, Velletri e Spoleto, la riduzione della pena per 146 giorni e un ristoro dell’importo di 40,00 euro. Per la Suprema corte il ricorso del Ministero è infondato laddove - “pur a fronte di uno spazio nella cella computato nella misura inferiore a tre metri quadrati” - adduce l’esistenza di fattori compensativi idonei ad escludere la violazione dell’art. 3 Cedu. Tali doglianze, si legge nella decisione, non colgono nel segno “poiché i generici riferimenti ai fattori compensativi che le accompagnano”, non si uniformano - come in precedenza il reclamo secondo quanto già rilevato dal Tribunale - all’insegnamento delle Sezioni Unite (n. 6551/2000) “circa la necessità in tal caso di una presenza congiunta di tutti fattori compensativi, costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie e dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività”. Sicilia. “Due suicidi e uno tentato”, il Garante dei detenuti lancia l’allarme blogsicilia.it, 12 febbraio 2022 Due suicidi e un tentato suicidio a poca distanza di tempo in due carceri della Sicilia. Un detenuto morto e uno in gravi condizioni all’Ucciardone di Palermo e una detenuta suicida al Gazzi di Messina. Fatti che ripropongono il dramma degli atti autolesivi commessi da persone detenute, che tende purtroppo, sempre più ad aggravarsi. Lancia l’allarme il Garante dei diritti dei detenuti Giovanni Fiandaca. Il Garante interviene sui tragici fatti di cronaca degli ultimi giorni e invita tutti gli “organi preposti sul piano giudiziario, penitenziario e sanitario ad alzare l’attenzione sul fenomeno e i responsabili dei penitenziari ad attivare progetti di “accoglienza” alla vita carceraria, soprattutto nei confronti di chi fa il suo primo ingresso negli istituti di pena”. Un giovane detenuto di 25 anni è stato trovato impiccato nella sua cella al cercare dell’Ucciardone a Palermo. Il corpo è stato scoperto dagli agenti della polizia penitenziaria nel corso dei controlli. Una detenuta si è suicidata al Gazzi di Messina. Stamani l’altra tragedia che vede un detenuto trentenne in gravi condizioni dopo aver tentato l suicidio al carcere Ucciardone, impiccandosi. La situazione non è da sottovalutare - “Come ha messo in evidenza il Garante nazionale - spiega Fiandaca - negli ultimi anni non ci sono mai stati in Italia così tanti suicidi in carcere in così poco tempo: sono più di 10 dall’inizio dell’anno. Questo aumento di eventi suicidari suscita allarme e grande preoccupazione - dice Fiandaca - in considerazione anche del fatto che la perdurante emergenza sanitaria ha reso ancora più difficili le condizioni della vita detentiva pure sotto il profilo di un aumento dell’ansia e dello stress psicologico, sia nella popolazione detenuta, sia nel personale penitenziario”. Più psicologi e psichiatri in servizio negli istituti di pena - Secondo il Garante, inoltre, “va rivolta particolare attenzione ai soggetti particolarmente fragili, e tali sono non di rado - dice - persone giovani che fanno per la prima volta ingresso in carcere vivendo una frattura traumatica rispetto alla vita precedente, cui non sono preparati a reagire. Specie rispetto ai detenuti primari, occorre dunque incrementare l’attenzione da parte di tutti gli organi competenti, sui rispettivi piani giudiziario, penitenziario e sanitario: prima di disporre misure carcerarie, vigilando con attenzione su chi entra in carcere per la prima volta, e rafforzando la presenza di psicologi e psichiatri in servizio negli istituti di pena. È necessario anche rivedere e aggiornare senza indugio i protocolli per la prevenzione dei suicidi e degli atti autolesivi, come è opportuno che nei singoli penitenziari si promuovano progetti di cosiddetta prima accoglienza, coinvolgendo - previa adeguata formazione - anche gruppi di detenuti nell’attività di sostegno psicologico ai nuovi arrivati”. Sardegna. “Isola-carcere” del Mediterraneo? L’Unione Sarda, 12 febbraio 2022 Soltanto 1.014 sono i detenuti sardi su una popolazione carceraria di 1.968, l’analisi di Maria Grazia Caligaris di Socialismo Diritti Riforme. Nelle carceri isolane, su 1.968 detenuti, di cui 24 donne, 1.014 sono sardi. Per il resto si tratta di 411 persone di nazionalità straniera e 543 provenienti dalla Penisola. I dati del ministero - e relativi al 31 dicembre 2021 - restituiscono la fotografia di una Sardegna che “sembra confermare ancora una volta - commenta Maria Grazia Caligaris di Socialismo Diritti Riforme - la condizione di una Sardegna ‘isola carcere’ nel Mediterraneo”. “Nel 2021 - prosegue sono entrate nelle carceri sarde dalla libertà 674 persone, 109 straniere (44 donne - 14 straniere). Nei nostri Istituti Penitenziari ci sono prevalentemente detenuti celibi/nubili, sono infatti 732, mentre quelli che hanno contratto matrimonio sono 587 e i conviventi 189. Minore la presenza di separati (81), divorziati (63) e vedovi (12). Dai dati dello Stato Civile risulta altresì che 328 hanno 2 figli, 268 solo 1 ma 195 ben 3 figli. Soltanto 21 ne hanno 5 e hanno oltre 6 figli 4. Significativo il dato sui titoli di studio non rilevati per 781 persone. Risultano infatti 19 laureati a fronte di 20 analfabeti. 153 sono diplomati ma sono 947 quelli provvisti di licenza Media o Elementare”. Mentre, per quanto riguarda l’età dei detenuti, il quadro non è rasserenante: “Oltre il 50% (1013) ha un’età compresa tra i 45 e gli oltre 70 anni. Il 35 % invece dai 18 e i 44 anni. Lasciano perplessi i dati posti agli estremi. Sono infatti 4 (1 straniero) i giovani tra i 18 e i 20 anni nelle carceri sarde e 54 (2 stranieri) quelli che hanno superato i 70 anni. Situazioni limite - osserva Caligaris - che avrebbero necessità di un approfondimento che potrebbe chiarire le circostanze della loro permanenza dietro le sbarre”. Quelli in attesa di giudizio sono 234. “Il 2022 però - mette in guardia Caligaris - fa registrare fin dal primo mese un aumento di ristretti nelle carceri dell’Isola. In un mese sono passati da 1.968 a 2.000 con due strutture penitenziarie in sofferenza. Si tratta di Case di Reclusione destinate a detenuti dell’Alta Sicurezza prevalentemente ergastolani. Nello specifico Oristano-Massama (272 presenze per 259 posti) e Tempio Pausania (171 per 170) oltre il limite regolamentare. In un momento in cui il Covid continua a dilagare con quarantene per tutto il personale e chiusura delle attività trattamentali e in parte dei colloqui - conclude -, anche i numeri ‘piccoli’ non lasciano tranquilli”. Lazio. Rems, il Garante Anastasìa: “Ottime le indicazioni approvate dal Consiglio regionale” consiglio.regione.lazio.it, 12 febbraio 2022 Con la mozione approvata ieri s’impegna la Giunta a promuovere nuove iniziative volte a risolvere la problematica delle liste d’attesa per l’ingresso nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza dei malati di mente autori di reato, senza ampliarne ulteriormente la capienza. “Ottime le indicazioni approvate dal Consiglio regionale sulle Rems. Se vogliamo conservare lo spirito della riforma che ha abolito gli ospedali psichiatrici giudiziari, non possiamo rincorrere l’ansia custodialista di troppa parte della magistratura, con il rischio di riportare dentro il sistema sanitario nazionale i manicomi aboliti dalla legge Basaglia”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, ha commentato l’approvazione da parte dell’Aula consiliare della mozione 575 del 4 febbraio 2022, d’iniziativa del consigliere Alessandro Capriccioli (Più Europa Radicali), avente ad oggetto “Iniziative urgenti in materia di gestione e funzionamento delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) del Lazio”. Durante i lavori d’Aula, la mozione è stata sottoscritta anche dalle consigliere Marta Bonafoni (Lista civica Zingaretti), Francesca De Vito (Gruppo misto) e dai consiglieri Paolo Ciani (Centro solidale Demos), Simone Lupi (Pd), Loreto Marcelli (M5s) e Giuseppe Simeone (FI). “Le misure di internamento in Rems - prosegue Anastasìa - devono veramente essere l’extrema ratio e devono essere mantenute per il tempo strettamente necessario. Poi deve essere il territorio a farsi carico dell’accoglienza e della continuità terapeutica rivolta ai malati di mente autori di reato”. Con l’apertura della nuova Rems di Rieti, inaugurata lo scorso agosto, nel Lazio si è arrivati a 106 posti programmati e ad un rapporto di 18 posti per milione di abitanti, mentre la media nazionale risulta ad oggi di 12 per milione. A seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 22 del 27 gennaio scorso, si rende necessario giungere, come si legge nella mozione, “alla risoluzione della problematica delle liste d’attesa per l’ingresso nelle Rems, garantendo l’ingresso in tali strutture esclusivamente a pazienti che necessitano di un intervento contenitivo”. Il Consiglio regionale, con la mozione approvata ieri con 26 voti a favore, “impegna il Presidente della Regione e l’assessore competente in materia di sanità ad avviare ogni utile iniziativa al fine di: a) riconvocare il tavolo tecnico con la Procura generale e la Corte di Appello, per la valutazione delle criticità emerse e la definizione di nuovi percorsi congiunti tra amministrazione penitenziaria, autorità giudiziaria e autorità sanitaria; b) rivedere il protocollo di intesa esistente al fine di adeguarlo alle sopraggiunte esigenze di carattere organizzativo e strutturale; c) vincolare gli affidamenti alle strutture socio-sanitarie residenziali convenzionate alla disponibilità, da parte delle medesime, a ospitare persone in libertà vigilata”. Roma. Suicidio a Regina Coeli, 24enne marocchino si asfissia con il gas agenparl.eu, 12 febbraio 2022 “Il dodicesimo suicidio dall’inizio dell’anno nelle nostre carceri si è tragicamente realizzato iri sera, verso le 21.30, nel penitenziario romano di Regina Coeli. A decidere di farla finita è stato un detenuto originario del Marocco, di soli 24 anni, in carcere per rapina. Si è tolto la vita inalando il gas della bomboletta del fornello da campeggio comunemente usato per cucinare. La media si porta così a un suicidio ogni tre giorni e mezzo, cui vanno aggiunti anche i due appartenenti alla Polizia penitenziaria che si sono tolti la vita in questo 2022 ancora alle battute iniziali, ma funesto come non mai nelle prigioni”. Lo dichiara Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria, che poi rincara: “il sistema carcerario è letteralmente allo sbando, ma, quel che è più grave, è abbandonato a se stesso dalla politica, dalla Ministra della Giustizia e dal Governo. Abbiamo ragione di ritenere che la stessa Amministrazione penitenziaria non trovi le risposte politiche che auspica. Tuttavia, al di là delle disquisizioni teoriche e del chiacchiericcio della politica, quella cui stiamo assistendo è una carneficina che, in un paese che voglia dirsi civile, va immediatamente fermata. Se si continuasse con questa media, in un anno morirebbero ben oltre cento detenuti”. “Non è più il tempo di indugiare né delle passerelle - ammonisce il Segretario della Uil-Pa; il Governo vari immediatamente un decreto-legge per mettere in sicurezza le carceri, sia sotto il profilo di quella che è una vera e propria emergenza umanitaria, sia sotto l’aspetto della tenuta dell’intero sistema, il quale vede gli operatori di Polizia penitenziaria patire aggressioni alla media di oltre cento al mese, ormai allo stremo, e impossibilitati ad assolvere al proprio ruolo, come dimostrato anche dai suicidi. Servono, altresì, interventi urgentissimi per migliorare le strutture e le infrastrutture, ma soprattutto per potenziare gli organici della Polizia penitenziaria, mancanti di 18mila unità, e fornire gli equipaggiamenti”. “Parallelamente, il Parlamento dovrebbe approvare un decreto legislativo per delegare una riforma complessiva dell’esecuzione penale, che reingegnerizzi il carcere e riorganizzi compiutamente il Corpo di polizia penitenziaria. Non ce ne voglia nessuno, ma tutto questo, almeno per noi, - conclude De Fazio - sembra ancora più importante e urgente della carriera dei magistrati”. Torino. Carcere, si allarga l’inchiesta sul reparto psichiatrico Sestante di Giuseppe Legato La Stampa, 12 febbraio 2022 Sequestrate cartelle cliniche degli ultimi 4 anni. La magistratura ha deciso di verificare tutti i passaggi dei detenuti del “reparto della vergogna” chiuso per le condizioni umilianti in cui venivano tenuti i prigionieri. L’inchiesta sui presunti maltrattamenti avvenuti nel reparto psichiatrico del carcere di Torino Lorusso e Cutugno, conosciuto dagli addetti ai lavori come Sestante, fa un passo avanti ma andando all’indietro nel tempo. Nei giorni scorsi i carabinieri del Nas hanno acquisito numerosi documenti sui detenuti transitati dal reparto “della vergogna”. Identità, matricole, provvedimenti di assegnazione alla struttura, motivi, questioni relative alla loro salute mentale, diagnosi. Questo viaggio nel passato è stato giudicato necessario dai magistrati per fare chiarezza su eventuali condotte di maltrattamenti che potrebbero essere avvenute anche in periodi diversi dall’ultimo e cioè ben prima di novembre 2021, quando l’allora capo del Dap Bernardo Petralia decise d’imperio la chiusura del Sestante dopo aver accelerato sui lavori di ristrutturazione totale del reparto carcerario. Il 23 novembre fu siglato il contratto con la ditta aggiudicataria dell’appalto e contestualmente era intervenuta la durissima presa di posizione del garante nazionale dei detenuti Mauro Palma. Un attacco frontale “all’inerzia finora riscontrata nonostante i numerosi solleciti rispetto al tema della dignità di chi ha bisogno di cura”. L’ultima visita al Sestante di Torino datata giugno aveva “confermato le condizioni immutate in una considerevole parte del reparto”. Da quel giorno, sempre su richiesta di Petralia, la provveditrice regionale del Dap, Rita Russo, avocò a sé “tutte le dinamiche e le scelte in materia sanitaria sulle carceri piemontesi chiaramente in un’ottica torinocentrica”. L’inchiesta della procura è al momento contro ignoti, ipotizza i reati di maltrattamenti, ed è affidata ai pm Gianfranco Colace e Chiara Canepa coordinati dall’aggiunto Vincenzo Pacileo. Sulle condizioni a quanto pare “inumane a degradanti” nelle quali versavano fino a pochi mesi fa i detenuti rinchiusi al Sestante era intervenuta anche Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, associazione che si occupa del mondo carcerario. In una relazione a seguito di un’ispezione aveva scritto: “Al Sestante si trovano circa venti celle, dieci su ogni lato del corridoio. In ciascuna è reclusa una singola persona detenuta. La cella è piccola, sporca, quasi completamente vuota. Al centro vi è un letto in metallo scrostato e attaccato al pavimento con i chiodi. Sopra è buttato un materasso fetido, a volte con qualche coperta e a volte no. Qualcuno, ma non tutti, ha un piccolo cuscino di gommapiuma. Non vi è una sedia né un tavolino. Solo un piccolo cilindro che sembra di pietra dove ci si può sedere in posizione scomodissima. L’intera giornata viene trascorsa chiusi là dentro, senza nulla da fare e nessuno con cui parlare. Unico altro arredo, un orrendo bagno alla turca posizionato vicino alle sbarre, di fronte agli occhi di chiunque passi per il corridoio”. Roma. “Un permesso per partecipare al funerale della nonna?”. La giudice dice no al detenuto di Giulio Cavalli Il Riformista, 12 febbraio 2022 La motivazione è che “può coltivare il ricordo con il raccoglimento intimo”. Così la magistrata di Sorveglianza ha negato questo diritto a Lorenzo B. in carcere a Rebibbia. E il reinserimento? Un detenuto chiede di poter partecipare ai funerali della nonna morta il primo gennaio, l’unico affetto che gli è rimasto, ovviamente scortato come prevede la legge, ma la magistrata di sorveglianza Angela Salvio nega l’autorizzazione poiché “il ricordo della nonna - scrive - può essere coltivato con la preghiera e il raccoglimento intimo”. La notizia arriva dal carcere romano di Rebibbia, dal reparto G9 al primo piano dove sono rinchiusi i detenuti che si sono macchiati di reati particolarmente gravi e che non possono avere contatti con gli altri. Lorenzo B. ha 30 anni e un grave omicidio alle spalle, può interagire solo durante le messe, durante le feste e appunto durante gli incontri con i familiari. Evidentemente nemmeno la morte dell’unico rapporto con il mondo esterno è un buon motivo per godere del diritto del lutto. Non sono passati molti giorni da quando il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel discorso del suo insediamento bis al Quirinale aveva detto chiaramente che “dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale dei detenuti. Questa è anche la migliore garanzia di sicurezza”. Agli osservatori più attenti non è sfuggito che quel passaggio non fu applaudito all’unisono a differenza delle altre parole del Capo dello Stato: il carcere come strumento di vendetta continua ad essere un pregiudizio che non si riesce a scrollare. Nella normativa penitenziaria, almeno sulla carta, l’ordinamento penitenziario dovrebbe assegnare grande rilevanza al mantenimento delle relazioni familiari. La famiglia è presente nell’ordinamento penitenziario come “soggetto verso cui il detenuto ha diritto di rapportarsi”, e in questo senso è considerata una risorsa nel percorso di reinserimento sociale del detenuto. Per questo i rapporti con la famiglia sono uno degli elementi del trattamento individuati dall’art. 15 dell’Ordinamento Penitenziario ponendo l’attenzione sul difficile equilibrio tra l’esigenza punitiva dello Stato e la garanzia dei diritti fondamentali. Le regole penitenziarie europee all’art. 64 stabiliscono che “la detenzione, comportando la privazione della libertà, è punizione in quanto tale. La condizione della detenzione e i regimi di detenzione non devono quindi aggravare la sofferenza inerente ad essa, salvo come circostanza accidentale giustificata dalla necessità dell’isolamento o dalle esigenze della disciplina”. Le relazioni familiari sono considerate un elemento essenziale nel successivo art. 65, dove si legge che “ogni sforzo deve essere fatto per assicurarsi che i regimi degli istituti siano regolati e gestiti in maniera da: (...) lettera c) mantenere e rafforzare i legami dei detenuti con i membri della loro famiglia e con la comunità esterna, al fine di proteggere gli interessi dei detenuti e delle loro famiglie”. E non è un caso che i familiari dei detenuti siano spesso considerate “vittime dimenticate”. Esistono, è vero, esigenze di ordine pubblico e di tutela della collettività di cui il magistrato di sorveglianza deve farsi carico, ma la legittima aspettativa di un detenuto di partecipare a un grave evento familiare è sancito anche dalla Corte di Cassazione che già in una sentenza del 2015 insisteva sulla “umanizzazione della pena” soprattutto in caso di eventi che possano “incidere profondamente nella sua vicenda umana” e quindi “sul grado di umanità della detenzione” e “sul suo percorso di recupero”. La ministra della Giustizia Cartabia, nella sua veste di Giudice costituzionale, rivolgendosi ai detenuti del carcere romano di Rebibbia, in un incontro tenutosi il 4 ottobre 2018, affermava: “Incidere sui rapporti familiari significa spostare l’affettività della pena anche su persone che non hanno commesso reati”. A Rebibbia invece siamo arrivati all’obbligo di preghiera come sostitutivo dell’affettività, siamo oltre al semplice compito di sorveglianza della magistratura: si nega un diritto al lutto e addirittura si impone una modalità di elaborazione. Sicuri che vada bene così? Bologna. Detenuto ottiene affidamento ai servizi sociali ma è positivo al Covid: resta in carcere ansa.it, 12 febbraio 2022 La difesa: “Individuare una soluzione”. Ha ottenuto di uscire dal carcere grazie a un provvedimento di affidamento in prova ai servizi sociali, per svolgere un’attività lavorativa in una cooperativa della provincia. Ma, positivo al Covid, non può lasciare l’istituto penitenziario della Dozza fino a quando non sarà guarito. Succede a Bologna a un detenuto di 60 anni, italiano. Lo segnala il suo difensore, l’avvocato Piero Gennari: “Bisognerebbe - dice il legale - individuare una soluzione diversa per la quarantena”. Il provvedimento di scarcerazione è del magistrato di sorveglianza di Bologna che, dopo aver ricevuto le istanze del detenuto, in carcere dal 9 dicembre dopo una sentenza definitiva, ha valutato anche il pregiudizio che comporterebbe protrarre la detenzione, visto il rischio concreto di perdere il lavoro individuato. Ha quindi applicato la misura alternativa dell’affidamento in prova per tutta la durata della pena da espiare (fino ad aprile 2023), con liberazione, però, previa effettuazione di tampone. Mercoledì scorso il detenuto ha fatto il test ed è risultato positivo e finché non si sarà negativizzato non viene fatto uscire. Viterbo. Detenuto si impicca in cella, davanti al Gup i vertici del carcere di Silvana Cortignani tusciaweb.eu, 12 febbraio 2022 In quattro rischiano il rinvio a giudizio per omicidio colposo tra vertici di Mammagialla, sanitari e penitenziari. Ieri mattina in tribunale c’era una folla di familiari e rappresentanti di associazioni all’udienza preliminare davanti al Gup Giacomo Autizi, alcuni già costituiti parte civile e altri pronti a farlo, per la morte di Andrea Di Nino, il 36enne romano che la sera del 21 maggio 2018 si è tolto la vita impiccandosi in una cella d’isolamento. Due mesi dopo stessa sorte è toccata ad Hassan Sharaf, il 21enne egiziano per il quale è in corso un procedimento a carico di due agenti della polizia penitenziaria e c’è un’inchiesta ancora aperta per istigazione al suicidio, avocata a dicembre dalla procura generale di Roma dopo la richiesta di archiviazione della procura della repubblica di Viterbo. Di Nino, al momento in cui fu rinvenuto cadavere, verso le 22 del 21 maggio di quattro anni fa, era in carcere da due anni per possesso di stupefacenti. Ha lasciato una compagna e 5 figli. Il corpo senza vita dell’uomo venne rinvenuto attorno alle ore 22. Si è suicidato in cella di isolamento e dal penitenziario sarebbe uscito di lì a un anno. I familiari sono convinti che non si sarebbe mai potuto suicidare. In primis perché gli mancava un anno dalla fine della pena ed era convinto che sarebbe uscito anche prima. E poi perché dalle lettere che scriveva ai suoi cari, era evidente il desiderio di viversi appieno la famiglia una volta uscito dal carcere. “Ho voglia di spaccare il mondo” scriveva il 36enne. Titolari del fascicolo aperto dalla procura della repubblica di Viterbo sono i pubblici ministeri Stefano D’Arma e Michele Adragna. Alcuni degli indagati potrebbero ricorrere a riti alternativi. La prossima udienza si terrà il 21 marzo. Il 25 maggio 2019, per ricordare Andrea Di Nino e le altre vittime del carcere, c’è stato un presidio di fronte al palazzo di giustizia di via Falcone e Borsellino. Quattro le inchieste contro ignoti aperte dalla procura della repubblica di Viterbo per altrettanti casi sospetti di violenze e suicidi nel carcere sulla Teverina, tra cui la morte di Hassan Sharaf e Di Nino. “Aveva voglia di spaccare il mondo. Tutto poteva, tranne che togliersi la vita”, ha sottolineato il fratello di Andrea in un’intervista. “Il clima all’interno era teso, con gli agenti di polizia penitenziaria. Non accuso nessuno, ma conosco mio fratello”, ha detto. Nel frattempo è in corso il processo ai due agenti della polizia penitenziaria imputati di abuso di mezzi correzione in concorso, aggravato da abuso di potere, nell’ambito di uno stralcio dell’inchiesta per istigazione al suicidio, avocata dalla procura generale di Roma, per la morte di Hassan Sharaf, il detenuto egiziano che si è impiccato in cella d’isolamento il 23 luglio 2018, un mese prima della scarcerazione. Le indagini saranno passate nuovamente al setaccio dai magistrati della procura generale, tenendo conto anche delle ulteriori quattro persone indicate dalle parti civili come possibili responsabili di tortura, omicidio colposo, omissione di soccorso e falso ideologico. Di Nino si era tolto la vita due mesi prima, il 21 maggio 2018. Forlì. “Carcere, sempre peggio: meglio chiuderlo?” di Luca Bertaccini Il Resto del Carlino, 12 febbraio 2022 Grido d’allarme dei sindacati sulla situazione alla Rocca: “Grave carenza d’organico, di organizzazione e agenti aggrediti”. Carenza di personale. Agenti di polizia penitenziaria che soffrono d’ansia. Pause pranzo da consumare in 10 minuti. Turni di lavoro troppo lunghi. Aggressioni da parte dei carcerati. Detenuti con problemi psichiatrici portati a Forlì e non in istituti specializzati nelle loro cure. Sei sigle sindacali - Cgil, Uilpa, Sappe, Osapp, Uspp e Cnpp - lanciano l’allarme sulla struttura di via della Rocca. Partiamo dai numeri: nell’edificio dovrebbero lavorare 132 unità di polizia penitenziaria, comprensive di 16 ispettori, 20 sovrintendenti e 93 agentiassistenti. In organico ci sono all’oggi 118 unità (108 i poliziotti), di cui 28 amministrativi. La situazione, spiegano Daniele Avantaggiato (Funzione Pubblica-Cgil), Francesco Campobasso (segretario regionale Sappe) e Maurizio Magliarella (segretario provinciale Osapp), “è peggiorata giorno dopo giorno”. Il Covid ha avuto “un impatto lieve”, con solo un paio di contagi tra i detenuti e pochissimi (due in gennaio) tra gli agenti di polizia penitenziaria. Ma è la carenza d’organico la variabile più sentita: “La situazione è nel complesso insostenibile. Facciamo un appello all’amministrazione penitenziaria perché intervenga. Un appello - spiega Avantaggiato - esteso anche al Comune di Forlì, perché il carcere non è un corpo estraneo alla città”. In una recente riunione con la direttrice del carcere, i sindacati, racconta Magliarella, hanno chiesto “la chiusura della struttura”. Una provocazione - fino a un certo punto -, per rendere evidente che così non si può più andare avanti. E alla stessa amministrazione penitenziaria viene posta questa domanda: “Le interessa il carcere di Forlì o lo vuole chiudere?”. Inutile attendere che arrivi una boccata d’ossigeno dal carcere in costruzione al Quattro. “Andrò in pensione tra 8-9 anni, credo che non lo vedrò terminato”, ironizza Avantaggiato. L’attuale struttura in via della Rocca, aggiunge Campobasso, “è fatiscente. Sappiamo essere attenzionata periodicamente da personale dell’Ausl per verificarne le condizioni”. Tornando ai numeri della polizia penitenziaria, “con questa organizzazione non siamo più in grado di garantire il livello minimo di sicurezza”. Negli ultimi tempi sono arrivati tra i 3 e i 5 carcerati affetti da patologie psichiatriche, la cui situazione è incompatibile col carcere di Forlì (strutture adatte a loro sono a Reggio Emilia e Piacenza). Capita così, racconta un agente, “di dover accompagnare chi soffre di questa patologia al pronto soccorso e di doverci restare fino a quando non viene dimesso”. E così il limite del turno di 6 ore va a farsi benedire. “Si arriva anche a 12-13 ore di lavoro, quando per legge, in casi estremi, non dovremmo superare le nove”. All’Amministrazione penitenziaria viene contestata anche l’assegnazione del personale: le carenze d’organico riguardano gli uomini, e non le donne (30 le agenti, a fronte di una sezione femminile con 20 detenute). Ospiti del carcere sono 150-160 persone. “Per una volta non è questo il problema”, dicono i presenti. La domanda resta: il grido d’allarme dei sindacati resterà inascoltato? Padova. La lista dei mille cattivi ragazzi: “schedati” per fermare le baby gang di Marco Imarisio Corriere della Sera, 12 febbraio 2022 L’elenco del prefetto ai sindaci: “Si sfidano sui social per fare a botte”. Nimis (Coordinatore rete studenti): “Ci sono tanti miei coetanei delle scuole del centro”. Mobilitiamoci, dicono tutti. Come se fosse facile, e per fare cosa, poi. L’hanno definita la lista nera, oppure, in alternativa la lista dei cattivi ragazzi, ma sono astrazioni buone al massimo per un titolo di giornale o di notiziario. È il numero che colpisce. Sono mille, e poco importa se si tratta di una cifra tonda o meno. Qualche giorno fa il prefetto di Padova Raffaele Grassi, “vigile ma non preoccupato”, annuncia la nascita di un Osservatorio sul disagio giovanile, per contrastare il fenomeno delle mega risse tra ragazzi che sembrano diventate un appuntamento fisso del sabato cittadino. A margine, fornisce qualche numero. Polizia e Carabinieri hanno provveduto a identificare circa un migliaio di ragazzi tra i 14 e i 18 anni di età, con i loro nomi che Grassi ha segnalato ai rispettivi Comuni di residenza. “Quasi tutti provenienti dalla provincia, molti dei quali stranieri di seconda generazione, che nel fine settimana si danno appuntamento tramite i social per fare a botte”. I fatti - La prima volta fu il 15 gennaio, e non volò neppure uno schiaffo. L’evento e il luogo erano stati così annunciati sui social che a Prato della Valle, la piazza più grande della città, luogo di passeggio e di aperitivi, erano schierati reparti mobili giunti dall’intera regione. La replica avvenne sette giorni dopo, e si trasformò in un rimpiattino tra forze dell’ordine e ragazzi, concluso dietro il piazzale della stazione, tra via Trieste e la confinante piazza De Gasperi, nella zona fino a pochi anni fa più malfamata. Anche qui, solo qualche scaramuccia e un gran lavoro di individuazione da parte delle forze dell’ordine, all’altezza dei due capolinea del tram. Nome, cognome, e documento di identità, niente più di questo. Ragazzi senza alcun precedente penale nella stragrande maggioranza dei casi, che nelle settimane successive ci hanno riprovato, con scarso successo. Resta quella cifra, mille e non più mille, esorbitante anche per una città che è la tredicesima più grande d’Italia, ma con duecentomila abitanti non ha certo ritmi, tempi e alienazioni da metropoli. E soprattutto manca una vera causa, che certo non giustificherebbe, ma forse aiuterebbe a capire. All’inizio, ben prima del 15 gennaio, si è trattato dello scontro tra bande diverse, entrambe della zona dell’Arcella, il quartiere a ridosso della stazione. Era la Vigilia di Natale, c’era un discreto numero di coetanei estranei alla contesa ma muniti di telefonino per riprendere la scena. Ben presto si è persa la memoria del pretesto iniziale. “Solo i primi eventi sono riconducibili a dinamiche da gang. Poi è diventato altro, un appuntamento fisso che si è aperto a tutti i giovani della città. La rissa stessa ha perso ogni ragione di rivalsa, è diventata un semplice momento di aggregazione, chi vuole ci sta, chi vuole assiste, comunque l’importante è esserci”. Lo studente - Marco Nimis sa di cosa parla. Quei ragazzi li conosce, non fosse che per una semplice ragione anagrafica. Ha diciotto anni, lo scorso giugno si è diplomato al liceo Cornaro, dal 2019 è coordinatore regionale della rete degli studenti medi. Con il garbo che è proprio di chi è ormai abituato a fare politica, contraddice anche l’identikit rilasciato dal prefetto, e una strisciante distinzione tra alto e basso dei ceti sociali. “Non sono solo ragazzi del circondario, ci sono anche tanti miei coetanei che frequentano le scuole del centro, è diventata una moda quasi trasversale”. Certo, Padova non è il Bronx degli anni Settanta, e le risse non sono un fenomeno solo locale. Appena ieri, la notizia di undici ragazzi di Monselice, italiani di seconda o terza generazione, indagati per associazione a delinquere “finalizzata agli atti violenti”. Ma qui c’è una dimensione di massa e soprattutto non c’è un vero perché. È legittimo accontentarsi del bicchiere mezzo pieno, in fondo non è successo nulla, e le uniche denunce sono arrivate perché i ragazzi identificati erano privi di mascherina. “Questi eventi sono falliti” dice il sindaco Sergio Giordani, che guida una giunta di centrosinistra e a maggio sul tema della sicurezza reale o percepita si giocherà la rielezione. “Lo ritengo un fenomeno marginale, e passeggero. Con la fine del Covid, i ragazzi torneranno a fare altre attività, e questa rabbia che tentano di scaricare passerà”. Il prefetto - Anche il prefetto Grassi derubrica gli appuntamenti del sabato a effetti collaterali della pandemia. “Sono giovani che cercano lo scontro sulla base dell’appartenenza a un Comune, o a una singola scuola piuttosto che un’altra” aggiunge, lodando la virtù dell’intervento preventivo. Sostiene invece Nimis che il virus e i lockdown hanno senz’altro influito, ma non spiegano tutto. Anni fa, per arginare i fenomeni di spaccio e delinquenza, l’area dietro la stazione venne spianata per farci un piazzale con parcheggio. Adesso stanno per essere costruite in tutta la città una dozzina di spazi pubblici per l’attività ricreativa e sportiva. Chissà se serviranno. Non per buttarla in sociologia, ma davanti a quel numero così esorbitante, anche qualche domanda bisognerebbe pur farsela. Roma. Acqua sui marciapiedi per cacciare i clochard. “Pratica disumana di Grandi Stazioni” di Marina de Ghantuz Cubbe La Repubblica, 12 febbraio 2022 L’associazione Nonna Roma: “Un ennesimo esempio di architettura ostile, al pari delle panchine con i divisori. Tutti modi pensati per disperdere chi non ha una casa e renderli ancora più invisibili”. La replica: “Doveroso tenere l’ingresso pulito”. Tra le misure per allontanare i senzatetto dalla stazione Termini c’è anche quella di bagnare i pavimenti lungo l’entrata in piazza dei Cinquecento. “Un altro tassello della criminalizzazione dei poveri spacciata per decoro”, denuncia l’associazione Nonna Roma che ha pubblicato una foto, scattata la sera scorsa da un attivista, in cui si vede una gran quantità di acqua gettata a ridosso delle vetrate. Qui, come nella vicina via Marsala, si mettevano a dormire tra cartoni e coperte i clochard. Nonna Roma è un’associazione impegnata anche nell’apertura di strutture di accoglienza per chi non ha una casa e secondo il presidente Alberto Campailla quella dell’acqua “è una pratica disumana messa in campo da tempo da Grandi Stazioni che serve solo ad allontanare dagli occhi dei passanti la vista dei poveri”. Non solo, stando a quanto raccontato da un vigilantes di Grandi Stazioni, di fronte all’ingresso in Piazza dei Cinquecento si sono più volte piazzati anche gruppi di persone che magari sotto l’effetto dell’alcol, se la sono presa con i passanti. L’uso dell’acqua sarebbe dunque anche un modo per evitare che si creino tensioni in un punto di grande affluenza. “Queste modalità non solo la soluzione - continua Campailla - È l’ennesimo esempio di architettura ostile, al pari delle panchine con i divisori per non far stendere i clochard. Tutti modi pensati per disperderli con il rischio che diventino ancora più invisibili”. Di fronte a Termini sono stati comminati innumerevoli Daspo (tanto che un clochard bengalese ne ha accumulati 187 in 3 anni), mentre a Tiburtina si è assistito a continui sgomberi nei confronti del Baobab, associazione che aiuta i migranti. Per questo Nonna Roma parla di criminalizzazione dei poveri: “Sono tutte misure tese ad allontanare le persone in nome della tutela del decoro - continua il presidente di Nonna Roma - Nei loro confronti però la tutela non c’è: non vengono viste come persone in difficoltà di cui occuparsi e a cui proporre opportunità di inclusione sociale, ma solo come persone che sporcano e portano degrado. Questa ideologia del decoro a tutti i costi va avanti da anni e ha ispirato il regolamento di polizia urbana del 2019 del Comune di Roma”. Nel report sui senzatetto che l’associazione ha recentemente pubblicato, i dati parlano di 16 mila persone che non hanno una casa. E che faticano a ottenere la cittadinanza: “Un senzatetto per avere la residenza a Roma deve andare presso i servizi sociali e poi ci vogliono dai 6 mesi a un anno per ottenerla. In questo modo le persone più in difficoltà non possono accedere ai servizi sanitari e socio-assistenziali, né al reddito di cittadinanza che a molti permetterebbe di pagare l’affitto di una stanza”, conclude Campailla che con l’associazione chiede al Campidoglio interventi strutturali, a partire dall’aumento dei posti letto, non solo durante l’emergenza freddo ma durante tutto l’anno. “Gli interventi di cui si parla servono innanzitutto a mantenere l’ingresso in sicurezza e pulito. E ‘un luogo dove passano migliaia di persone al giorno, è quindi un’attività necessaria e doverosa. Come è necessario non si creino assembramenti che in passato hanno generato anche situazioni pericolose - ribattono da Grandi Stazioni - Ma nei confronti delle tante persone emarginate e senza dimora l’attenzione è sempre stata massima. L’impegno è costante, capillare e giornaliero. Abbiamo messo a disposizione 5.500 metri quadrati dove la Caritas, a Binario 95 e l’Help Center aiutano queste persone in difficoltà e ne curano i tanti bisogni, non solo alimentari”. Amato sostiene i referendum: “Non si cerchi il pelo nell’uovo” di Eleonora Martini Il Manifesto, 12 febbraio 2022 Corte costituzionale. Il presidente della Consulta: “Dobbiamo lavorare al massimo per consentire il voto popolare”. I giudici divisi sui quesiti per la cannabis e l’eutanasia. Il comitato promotore: “Rendere inaccessibile uno strumento come quello referendario avrebbe contraccolpi negativi su tutto il sistema istituzionale oggi in profonda crisi”. “È banale dirlo ma i referendum sono una cosa molto seria e perciò bisogna evitare di cercare ad ogni costo il pelo nell’uovo per buttarli nel cestino”. Il neo presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato la butta lì, in un passaggio della riunione settimanale con gli assistenti di studio in vista dell’udienza di martedì 15 febbraio in cui la Consulta discuterà l’ammissibilità di otto quesiti referendari. Ma è tutt’altro che una frase banale. Da giorni infatti c’è tensione, nei comitati promotori, soprattutto in quelli dei due referendum proposti su iniziativa popolare e sorretti, nell’insieme, da quasi due milioni di firme: eutanasia legale e cannabis. Quelli sui quali si sta facendo sentire più forte la pressione della politica contraria al loro svolgimento. Gli altri sei quesiti sulla giustizia, infatti, sono stati proposti da nove consigli regionali di centrodestra (Basilicata, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Umbria, Veneto), dopo una campagna di raccolta firme promossa dalla Lega e dal Partito Radicale. “Apprendiamo dai media che il referendum per la legalizzazione della cannabis rischia di essere cancellato dalla Corte costituzionale - scrive in una nota il comitato promotore dei referendum cannabis ed eutanasia - Le voci riprese dai giornali parlano di parere negativo per buona parte degli 8 quesiti proposti. Voci circolate addirittura prima del deposito dell’ultima memoria difensiva, quella del referendum cannabis, avvenuta stamattina (ieri, ndr) da parte degli avvocati Andrea Pertici e Giandomenico Caiazza, che difenderanno il quesito davanti alla Consulta. Vale la pena ricordare che la Costituzione prevede tre sole ragioni di esclusione: non è ammesso il referendum per leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e indulto e di ratifica di trattati internazionali”. Secondo gli estensori della nota, la Consulta ha “via via introdotto criteri aggiuntivi di inammissibilità che si prestano a interpretazioni più ampie. Che hanno reso la bocciatura dei quesiti una regola piuttosto che un’eccezione, come invece deve essere”. Eccezioni che Giuliano Amato conosce bene, visto che fu tra coloro che vollero bocciare il referendum sull’articolo 18. Eppure il presidente della Consulta ripete, anche in un tweet istituzionale, che “davanti ai quesiti referendari ci si può porre in due modi: o cercare qualunque pelo nell’uovo per buttarli nel cestino oppure cercare di vedere se ci sono ragionevoli argomenti per dichiarare ammissibili referendum che pure hanno qualche difetto. Noi dobbiamo lavorare al massimo in questa seconda direzione, perché il nostro punto di partenza è consentire, il più possibile, il voto popolare”. Nelle ultime ore la Corte costituzionale sembrerebbe tentata di invertire l’ordine del calendario dei lavori di martedì prossimo, per affrontare prima il quesito del referendum sull’eutanasia (che abroga parzialmente l’art. 579 c.p., “omicidio del consenziente”), poi quello sulla cannabis (abrogazione parziale degli articoli 73 e 75 del T.U. 309/90 nella parte riguardante le droghe leggere), e lasciando per ultimi i sei referendum sulla giustizia. Il leader della Lega Salvini ringrazia il presidente Amato “per il suo manifestato impegno a consentire il voto dei cittadini sui Referendum, a partire da quelli importantissimi sulla Giustizia, evitando scorciatoie tese a ostacolare questo percorso di democrazia. Sarebbe grave - sottolinea - se qualcuno pensasse di ostacolare o rallentare una urgente, necessaria e condivisa Riforma della Giustizia”. Anche Italia viva sottolinea l’importanza dei sei quesiti proposti da Salvini, mentre il Psi e +Europa sottolineano l’importanza di “garantire il voto popolare” anche e soprattutto su quei temi che hanno mobilitato tanta partecipazione. L’unico che si augura che “la Consulta bocci il quesito sulla cannabis riconoscendo l’incostituzionalità del referendum in quanto lesivo della salute e della vita” è il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli (Fd’I). Plaude alle parole di Amato il ministro per i rapporti col Parlamento Federico D’Incà (M5s), convinto della necessità di favorire “la partecipazione politica a tutti i livelli”. Perché, come evidenziano i promotori dei referendum eutanasia e cannabis, “in un momento di grande sfiducia verso le istituzioni”, “rendere inaccessibile uno strumento come quello del referendum avrebbe contraccolpi negativi su tutto il sistema istituzionale oggi in profonda crisi”. E il pelo nell’uovo potrebbe trasformarsi in un pericoloso boomerang. Amato si schiera con i referendum e trascina la Corte nella lotta politica di Giulia Merlo Il Domani, 12 febbraio 2022 Il neo presidente ha detto che “dobbiamo impegnarci per consentire il voto popolare” e “non cercare il pelo nell’uovo”. Parole che gli regalano il plauso della politica, ma il 15 febbraio la Corte deciderà sui referendum e i quesiti rischiano l’inammissibilità. Il riferimento è ai referendum - eutanasia, cannabis e giustizia - su cui la Corte il 15 febbraio si esprimerà per dichiararne o meno l’ammissibilità. “Non è mai successo prima che un presidente intervenga in questo modo su una questione così delicata, pochi giorni prima della decisione”, conferma un ex giudice costituzionale. Così facendo, però, Amato mette sotto pressione il collegio giudicante che presiede e che a breve si esprimerà: un conto è reggere la pressione esterna della politica; altro sarebbe dichiarare inammissibili i referendum per ragioni che lo stesso presidente ha appena definito un “pelo nell’uovo”. Giuliano Amato non è diventato presidente della Repubblica, ma a giudicare dalle sue parole non sembra essersene accorto. Il presidente della Corte costituzionale è intervenuto in modo irrituale per dettare se non un’agenda almeno un metodo interpretativo denso di significati in vista dei referendum su cui la Corte si esprimerà la settimana prossima. In un’occasione privata ha chiesto agli esperti della Corte di prestare più attenzione al peso della mobilitazione popolare referendaria che al rigido formalismo giuridico. La presa di posizione ha spiazzato due volte gli interna corporis della Corte costituzionale. La prima volta è stata quando, durante il suo saluto agli assistenti di studio (un evento riservato, a cui partecipano professori associati e giuristi che coadiuvano i giudici costituzionali nella preparazione delle decisioni), ha detto che “davanti ai quesiti referendari ci si può porre in due modi: o cercare qualunque pelo nell’uovo per buttarli nel cestino oppure cercare di vedere se ci sono ragionevoli argomenti per dichiarare ammissibili referendum che pure hanno qualche difetto. Noi dobbiamo lavorare al massimo in questa seconda direzione, perchè il nostro punto di partenza è consentire, il più possibile, il voto popolare”. Indicazione di lavoro inaspettata, per chi contribuisce a produrre la giurisprudenza della Consulta, che è giudice delle leggi ed è chiamata a orientarle alla luce dei principi costituzionali. La seconda volta, quando ieri queste frasi così dirompenti sono state pubblicate in un comunicato stampa e poi riprese anche dai social media della Consulta. La presa di posizione del presidente, infatti, rompe qualsiasi regola non scritta della Corte, che è e deve anche apparire come organo imparziale. Ma soprattutto, è stata volontariamente resa pubblica ed è suonata come una sorta di appello a soprassedere sui cavilli giuridici di merito, dando rilevanza alla grande mobilitazione referendaria dell’estate scorsa, che ha prodotto in totale più di 7milioni di firme raccolte anche grazie alla possibilità di sottoscrizione con la firma digitale. Il riferimento è ai referendum - eutanasia, cannabis e giustizia - su cui la Corte il 15 febbraio si esprimerà per dichiararne o meno l’ammissibilità. “Non è mai successo prima che un presidente intervenga in questo modo su una questione così delicata, pochi giorni prima della decisione”, conferma un ex giudice costituzionale. Le parole di Amato sono state immediatamente riprese dalla politica e il presidente ha incassato il plauso del leader della Lega, Matteo Salvini, che ha promosso i sei quesiti referendari sulla giustizia; del segretario di Più Europa, Benedetto Della Vedova, che ha appoggiato quelli sull’eutanasia e la cannabis e anche del ministro per i Rapporti con il parlamento, Federico d’Incà. Tuttavia, l’iniziativa del presidente ha lasciato sbalorditi alcuni giudici della Corte, che nulla sapevano del comunicato stampa, non solo per il peso della dichiarazione ma anche per il fatto che “normalmente” prima di rendere pubblica una dichiarazione del presidente i colleghi vengono avvertiti, spiega un giudice emerito. Anche perchè la materia referendaria è considerata dai giudici la più spinosa, che genera altissima tensione interna perchè porta la Corte in contatto diretto con la politica, potenzialmente inimicandosela. Difficile spiegarsi le ragioni dell’iniziativa. Un’ipotesi è che Amato, che conosce bene la politica, abbia voluto mettere le mani avanti: in passato la Consulta è stata spesso tacciata di essere troppo restrittiva in materia di referendum e di lavorare a servizio dei poteri costituiti e contro la volontà popolare. Eppure, il rischio di un’eterogenesi dei fini è forte. Le parole di Amato sono subito state riprese dai promotori del referendum sulla cannabis, che hanno usato le sue argomentazioni per “augurarsi” che i giudici “diano seguito alla richiesta dei cittadini espressa tramite referendum”. Dalla Consulta, infatti, circolano voci sulla quasi certa inammissibilità di tutti e otto i quesiti per ragioni formali legate alla loro formulazione e al rischio di aporie giuridiche, con in bilico solo quello sulla cannabis. Con la sua uscita inaspettata, Amato può condizionare il collegio giudicante che presiede e che a breve si esprimerà: un conto è reggere la pressione esterna della politica, che pure spesso è entrata in contrasto con la Corte, un altro sarebbe dichiarare inammissibili i referendum per ragioni che lo stesso presidente ha appena definito un “pelo nell’uovo”. Quei punti che restano da chiarire sul suicidio assistito di Maria Antonietta Farina Coscioni* La Stampa, 12 febbraio 2022 Per una sorta di coincidenza bizzarra (ma esistono le coincidenze?), questo nome, Mario mi suona come familiare. Non solo per la lucidità della scelta estrema che ripetutamente manifesta; penso piuttosto a quel “viaggio” intorno all’amore: all’amor proprio, che ha visto confermarsi a ridosso del giorno degli innamorati, a quel San Valentino da sempre dedicato agli innamorati. Il farmaco che procurerà la morte di Mario ha un nome astruso, di difficile pronuncia: il tiopental sodico. Una commissione della Asur della regione Marche ha valutato che sia quello “idoneo a garantire una morte rapida e indolore”. Per Mario si è anche definita la modalità di somministrazione (particolare non irrilevante che mancava): “Un’autosomministrazione mediante infusione endovenosa”; Mario dovrebbe avviarla con una parte del corpo che è ancora in grado di controllare. Quindi, ora che conosce il farmaco, Mario potrà procurarsi la morte che da tempo invoca? Non è l’unico interrogativo che la vicenda solleva. Per esempio: se confermerà di volersi suicidare, chi lo assisterà? Ci sarà uno o più operatori sanitari ad aiutarlo in quel difficile, estremo, momento? E dove? Nella sua abitazione, o in ospedale, in un hospice? Questi interrogativi non sono scontati, e tantomeno sono scontate le risposte. Vorrei che Mario si sentisse davvero libero di decidere di porre fine al suo dolore di vivere. Ora a maggior ragione. Al tempo stesso non vorrei mai che ci sia qualcuno, anche per il percorso accidentato fino ad ora compiuto, avesse deciso per lui. Mi chiedo: non sarebbe il caso, ora, di svelare la vera identità di Mario? Anche in solidarietà e in nome di quella libertà a cui hanno dato volto e corpo tanti malati e disabili a partire da Luca Coscioni. Ho parlato di coincidenze, che molto spesso sono incidenze. L’altro giorno il presidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato, durante la riunione settimanale con gli assistenti di studio in vista delle prossime udienze, tra cui quella di martedì 15 febbraio sull’ammissibilità o meno dei referendum, ha espresso un concetto importante: “È banale dirlo ma davanti ai quesiti referendari ci si può porre in due modi: cercare qualunque pelo nell’uovo per buttarli nel cestino oppure cercare di vedere se ci sono ragionevoli argomenti per dichiarare ammissibili referendum che pure hanno qualche difetto. Noi dobbiamo lavorare al massimo in questa seconda direzione perché il nostro punto di partenza e consentire il più possibile il voto popolare”. È ben vero che la forma è sostanza, e le due cose convivono. Però il richiamo del presidente Amato è importante e solleva questioni e implicazioni che inevitabilmente si intrecciano con vicende come quelle di Mario. Per questo è importante discuterne, confrontarsi, dibatterle. *Presidente Istituto Luca Coscioni Migranti. Navi quarantena, i casi dei ragazzi morti “non vanno chiusi” di Giansandro Merli Il Manifesto, 12 febbraio 2022 L’avvocato del diciassettenne Abdallah Said, deceduto a settembre 2020, chiede alla procura l’imputazione per i medici di bordo. Il legale di Abou Diakite, 15 anni: “Se sarà chiesta l’archiviazione ci opporremo”. Intanto l’ultimo bando per l’isolamento galleggiante scade il 31 marzo, con lo stato di emergenza. “Identificare il personale medico che ha avuto in cura il paziente durante la navigazione e formulare imputazione per le fattispecie di cui agli articoli 590 sexies e 591 del codice penale”. La richiesta al sostituto procuratore di Siracusa Marco Dragonetti è stata firmata il 4 febbraio scorso dall’avvocato Giuseppe Carnabuci e fa riferimento ai reati di “responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario” e “abbandono di persone minori o incapaci”. Il legale difende Antonia Borrello, la tutrice di Abdallah Said. Il diciassettenne somalo è morto il 14 settembre 2020 all’ospedale Cannizzaro di Catania, dove era arrivato in condizioni disperate dopo due settimane sulla nave quarantena Gnv Azzurra. “Da sotto il lenzuolo del letto di ospedale sporgevano le ossa del bacino. Era pelle e ossa. Una scena agghiacciante e disumana”, dichiarò Borrello dopo averlo visto. A seguito del decesso la procura siciliana ha aperto un’indagine contro ignoti per omicidio colposo e disposto una consulenza medico-legale per appurare causa del decesso ed eventuali responsabilità, anche colpose. La perizia è stata consegnata 11 mesi dopo, alla fine di agosto 2021, e ha stabilito che Said è morto per meningoencefalite, un’infiammazione di meningi e cervello. Non ha però chiarito eventuali responsabilità dei medici di bordo. Da un lato riconosce che il ragazzo doveva presentare qualche tipo di sintomi già all’imbarco sull’Azzurra e che la mancanza di un interprete che parlasse la sua lingua e il contesto assistenziale poco appropriato hanno ostacolato una diagnosi tempestiva. Dall’altro, però, afferma che se anche la causa della malattia fosse stata appurata velocemente il paziente avrebbe avuto poche probabilità di sopravvivere vista la gravità dell’infezione. Ambiguità sono rimaste anche in seguito agli ulteriori chiarimenti richiesti dal pm al team medico. Poche possibilità, però, non significa nessuna. Per questo l’avvocato Carnabuci ha redatto la memoria difensiva con cui sostiene la richiesta di imputazione del personale medico della Croce rossa italiana, presente a bordo della nave. Il legale ricostruisce come il minore fosse da subito in condizioni di salute critiche e dunque di dubbia compatibilità con la permanenza a bordo, durata due settimane. Sottolinea poi quanto accaduto tra il 5 settembre, con Said che appare alla psicologa in preda ad allucinazioni, e il 7 settembre, quando il ragazzo viene portato al pronto soccorso di Augusta da dove, il giorno seguente, sarà trasferito al Cannizzaro. Carnabuci vuole sia chiarito perché per 48 ore non è stata adottata una terapia di reidratazione vista l’ormai manifesta incapacità del minore di provvedere a se stesso e se ci sono responsabilità di chi aveva la competenza per lo sbarco. Il sostituto procuratore dovrà decidere se chiedere il rinvio a giudizio dei medici o avanzare domanda di archiviazione. Said è uno dei quattro morti delle navi quarantena. Gli altri sono: Bilal, un ragazzo tunisino di 22 anni che a maggio 2020 si è buttato dalla Moby Zaza; Abou Diakite, 15 anni, nato in Costa d’Avorio e deceduto il 5 ottobre 2020 in ospedale a Palermo; Giorgio Carducci, psicologo volontario di 47 anni stroncato da un arresto cardiaco il 24 aprile 2021. Sulla vicenda di Diakite la procura di Palermo ha aperto un’indagine contro ignoti per omicidio colposo. Anche in questo caso la perizia disposta dalla pm Giulia Beux ha chiarito la causa del decesso, setticemia, ma ha detto poco su eventuali responsabilità. L’avvocato Michele Calantropo, nominato dalla tutrice Alessandra Puccio, ha chiesto un supplemento di indagine di natura medica. “In caso di richiesta di archiviazione ci opporremo”, annuncia. A fine ottobre 2020, dopo le morti dei due minorenni e la campagna di una coalizione di 150 associazioni e del garante per l’infanzia di Palermo, il Viminale ha accettato di far trascorrere a terra l’isolamento sanitario ai minori non accompagnati. Sulla richiesta era d’accordo la stessa Croce rossa. il sistema delle navi quarantena nasce ad aprile 2020 in seguito al decreto interministeriale “porti chiusi” (Infrastrutture, Interno, Esteri, Salute). L’obiettivo era evitare possibili strumentalizzazioni degli sbarchi nella cornice dell’emergenza sanitaria. Il modello, però, è finito ripetutamente sotto accusa per i costi elevati, mai chiariti fino in fondo, le condizioni di impiego di volontari e lavoratori, i profili discriminatori verso gli ospiti. Solo i migranti e solo quelli sbarcati in Sicilia, infatti, sono costretti al periodo di quarantena in mare. Per i cittadini tunisini questa ha funzionato spesso come anticamera del rimpatrio, con le questure impegnate a far trovare in banchina i decreti di espulsione che aprono le porte del Cpr e poi del volo per Tunisini. il presidente della Croce rossa Francesco Rocca, intervistato da Valerio Nicolosi su MicroMega, ha definito le navi quarantena “un’operazione borderline” che spera “finisca il giorno dell’emergenza”, prorogata dal governo fino al prossimo 31 marzo. Quel giorno scadrà anche l’ultimo bando emesso dal ministero Infrastrutture e mobilità sostenibili per l’affidamento di cinque unità navali per il periodo gennaio-marzo 2022. È stato vinto, come in passato, dalle compagnie Gnv e Moby. Secondo il quotidiano on-line di settore Shipping Italy la prima ha ottenuto 16,1 milioni di euro per le navi Aurelia, Azzurra, Splendid e Rhapsody, la seconda 3,8 milioni per la Moby Dada. La Russia prepara la guerra in Ucraina, ma a Putin conviene negoziare di Stefano Stefanini La Stampa, 12 febbraio 2022 Le capitali occidentali allarmate dal blitz di Mosca nel mar Nero. Lavrov ha smorzato gli entusiasmi di Macron con richieste irricevibili. Ieri il barometro della crisi ucraina è precipitato bruscamente. Non era mai risalito dalla bassa pressione stabile ma una settimana di diplomazia intensiva faceva balenare quanto meno un assestamento senza tempesta. La tempesta può arrivare da un momento all’altro, ha avvisato la Casa Bianca. Allarme o allarmismo? Si può anche sperare nel secondo, ma Biden e i principali leader occidentali e europei, fra cui Mario Draghi, hanno avvertito la necessità di discuterne per un buon paio d’ore. Non è gente che spreca il proprio tempo. Mosca aveva immediatamente smentito. Non è bastato a tranquillizzare neanche gli europei che più si sono spesi per il dialogo e più sono esposti ai contraccolpi di un conflitto armato - sanzioni e contro-sanzioni. Ci sono molti motivi per prendere sul serio il rischio guerra in Ucraina. Intanto, anche dopo l’incontro con Macron, Putin ha continuato ad essere evasivo - sarebbero bastate due paroline a mettere il cuore in pace a tutti. La dinamica di accerchiamento militare di Kiev è continuata imperterrita. Ieri sono cominciate le esercitazioni militari congiunte russo-bielorusse su un confine che tiene a portata di tiro la capitale ucraina. Nel frattempo la flotta russa nel Mar Nero, rinforzata con navi arrivate in fretta e furia dall’Atlantico è pronta ad aprire il fronte marittimo su Odessa. Sono due opzioni militari per un conflitto con l’Ucraina non per il sostegno ai ribelli del Donbass. In pratica, nei giorni scorsi gli occidentali hanno parlato molto con i russi, i russi non hanno smesso di giocare alla guerra. E questo i leader lo sanno. Da settimane l’Occidente si interroga sulle intenzioni di Vladimir Putin. A questo punto le congetture servono a poco. Scientemente il presidente russo vuole lasciarle tali. Non resta che guardare ai fatti. I fatti sono i preparativi militari. L’allarme americano di imminente invasione russa in grande scala dell’Ucraina riflette essenzialmente gli sviluppi in corso sul terreno. Sono davanti agli occhi di tutti, anche senza il valore aggiunto della sofisticata intelligence Usa. Putin prepara la guerra. Non vuol dire che la farà ma è pronto a farla, anche domani senza attendere la fine dei Giochi Olimpici per compiacere l’amico Xi Jinping. Se non la farà non mancherà di irridere Joe Biden e i leader occidentali che hanno gridato al lupo. In questo caso sarebbe il male minore. Meglio un eccesso di allarme che una compiacente faciloneria. Il rischio è reale. Quali che siano le misteriose intenzioni del padrone del Cremlino, la macchina di minaccia militare che ha messo in moto finisce con l’acquistare una dinamica inerziale. Si può fermare? È quello che hanno cercato di fare ieri i leader. Non è un caso che il presidente del Consiglio abbia parlato di rafforzare le sanzioni e di dare attuazione all’accordo di Minsk 2. Il messaggio implicito è molto semplice: Putin ha più da guadagnare negoziando di quanto abbia da perdere invadendo. Se il Cremlino ascolta è ancora in tempo. L’Ue vuole presiedere con l’Egitto il Forum antiterrorismo. Perchè? di Riccardo Noury Corriere della Sera, 12 febbraio 2022 Quindici gruppi della società civile (l’elenco è alla fine di questo articolo) si sono dichiarati allarmati per la determinazione con cui l’Unione europea intende presiedere insieme all’Egitto il Forum sul contrasto al terrorismo e hanno sollecitato il ritiro della candidatura, alla luce delle gravi violazioni dei diritti umani in corso nel paese nordafricano, spesso “giustificate” in nome della lotta al terrorismo. Nel 2021 le Procedure delle Nazioni Unite hanno dichiarato che in Egitto “il continuo abuso dei poteri di contrasto al terrorismo non è coerente con gli obblighi internazionali dello stato e compromette i più ampi sforzi internazionali per combattere il terrorismo”. Le autorità egiziane (nella foto il presidente al-Sisi) stanno aggravando la già sistematica repressione dello stato di diritto e dei diritti umani, prendendo sempre più di mira i difensori dei diritti umani attraverso un’incessante campagna di arresti arbitrari e di procedimenti politicamente motivati per false accuse di terrorismo. Gli esperti delle Nazioni Unite hanno denunciato l’arbitrario inserimento, a partire dal 2020, dei difensori dei diritti umani egiziani nella lista ufficiale dei “terroristi”. In questa lista figurano Zyad el-Elaimy, Alaa Abdelfattah e Mohamed el-Baqer, condannati i primi due a cinque anni e il terzo a quattro anni di carcere al termine di processi iniqui da parte di tribunali di emergenza, le cui sentenze non possono essere oggetto di appello. Gli esperti delle Nazioni Unite, così come molte delle organizzazioni firmatarie, hanno sottolineato che queste vicende, tra molte altre, sono il segnale di “un sistematico problema relativo alla protezione dei diritti umani in Egitto” e di “un altrettanto sistematico problema circa l’abuso delle norme antiterrorismo”. Il sistema giudiziario egiziano criminalizza il legittimo esercizio di diritti e libertà fondamentali, come la libertà di manifestazione e di associazione, e minaccia l’azione delle organizzazioni indipendenti per i diritti umani. Gli esperti delle Nazioni Unite hanno confermato che la legge antiterrorismo “va oltre quanto necessario per contrastare il terrorismo e limita gravemente lo spazio per la società civile e l’esercizio delle libertà fondamentali in Egitto”. La Legge antiterrorismo 94/2015 e la Legge sui gruppi terroristi 8/2015 prevedono dure pene e definizioni estremamente generiche, ampliate da successivi emendamenti che hanno anche causato l’allungamento lista dei “terroristi”. In Egitto non ci sono più organi parlamentari o giudiziari che possano o vogliano chiamare l’esecutivo e i servizi di sicurezza a rendere conto del loro operato, circostanza tanto più preoccupante se si considera l’alta incidenza della tortura, delle sparizioni forzate e delle esecuzioni extragiudiziali. Oltre a ciò, l’Egitto cerca di indebolire le protezioni internazionali sui diritti umani usando costantemente la sua influenza per separare il tema dei diritti umani da quello del contrasto al terrorismo. In questo modo, indebolisce il Quarto pilastro della strategia antiterrorismo delle Nazioni Unite, ripetutamente ribadito dall’Assemblea generale sin dal 2006, che fa dei diritti umani e dello stato di diritto le basi fondamentali di ogni strategia di contrasto al terrorismo e riconosce la necessità del coinvolgimento della società civile al fine di adottare strategie antiterrorismo efficaci. L’Egitto sta anche cercando di distorcere e diluire il mandato degli esperti delle Nazioni Unite, tra i quali il Relatore speciale sulla promozione e la protezione dei diritti umani nell’ambito del contrasto al terrorismo. Di fronte a tutto questo, chiedono i gruppi firmatari, in che modo affidare alle autorità egiziane un ruolo guida nella formulazione di politiche globali di contrasto al terrorismo sosterrebbe l’impegno dell’Unione europea a promuovere il rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto come principi cardine in tali strategie? L’Unione europea è pienamente consapevole della gravità della crisi dei diritti umani in Egitto. Nel marzo 2021 diversi stati membri hanno sottoscritto una dichiarazione sull’Egitto e più volte il paese è stato incluso nelle comunicazioni dell’Unione europea al Consiglio Onu dei diritti umani. Se continuasse a portare avanti la candidatura a co-presiedere il Forum sul contrasto al terrorismo, l’Unione europea contribuirebbe all’obiettivo dell’Egitto di allontanare le critiche sulla situazione dei diritti umani. È davvero difficile immaginare come l’Egitto potrebbe collaborare all’individuazione delle migliori pratiche per contrastare il terrorismo. Pertanto, le organizzazioni firmatarie sollecitano l’Unione europea a ritirare la sua candidatura, a opporsi a ogni tentativo dell’Egitto di presiedere il Forum e ad aumentare gli sforzi, a livello bilaterale e multilaterale, le azioni per denunciare le violazioni dei diritti umani in Egitto, come peraltro richiesto dal Parlamento europeo nella sua ultima risoluzione d’urgenza sul paese africano. Cairo Institute for Human Rights Studies (CIHRS); Rights and Security International (RSI); Amnesty International; MENA Rights Group; Unidosc, Mexico; Human Rights Watch; World Organisation Against Torture (OMCT); Committee for Justice (CFJ); EuroMed Rights; International Federation for Human Rights (FIDH); Kenya Human Rights Commission; Charity & Security Network; Saferworld; Initiatives for International Dialogue (IID); The Tahrir Institute for Middle East Policy (TIMEP); Dignity - Danish Institute Against Torture; Mali. A Timbuctu sventola la bandiera russa. Ma i jihadisti hanno già vinto di Pietro Del Re La Repubblica, 12 febbraio 2022 Nel Paese del Sahel il regime lascia che il Gruppo Wagner, vicino al Cremlino, prenda il posto degli odiati francesi. Una svolta storica che avrà conseguenze anche sul flusso di chi emigra verso l’Occidente. E intanto gli islamisti sono sempre più potenti. E popolari. La sola traccia dei mercenari di Mosca in città è una bandiera russa issata di recente in cima a una bettola che vende carne di capra. E, salvo il corpo dilaniato da un ordigno che mostra in rete un video islamista, nessuno li ha ancora visti i paramilitari vicini al Cremlino del Gruppo Wagner sbarcati il mese scorso a Timbuctu. Non li hanno incrociati neanche i caschi blu della missione delle Nazioni Unite in Mali (Minusma) che giorno e notte pattugliano a bordo dei loro blindati bianchi questa regione assediata dai tagliagole di Al Qaeda nel Maghreb Islamico. Eppure, i miliziani di Mosca si sono acquartierati proprio accanto ai soldati Onu, nella base militare abbandonata dai francesi l’autunno scorso, dopo la decisione del presidente Emmanuel Macron di dimezzare il contingente dell’Operazione Barkhane. “Le poche decine di russi appena approdate mantengono ancora un profilo basso. Al momento, la loro è soltanto una presenza simbolica. Ma domani potrebbero arrivarne a centinaia, come a Bamako o Mopti. Dopo la Libia e il Centrafrica, Putin sta piantando una bandierina anche nel deserto del Sahel”, dice Almoustapha Konate, direttore del Centre Culturel di Timbuctu e autore di saggi sulla storia millenaria della sua città, dichiarata patrimonio dell’umanità dell’Unesco per le sue antiche moschee. Tra i vicoli malconci e polverosi del centro, dove soffia un vento caldo che tutto disidrata, non si percepisce il cambio degli equilibri geopolitici che rischia di stravolgere l’intera regione: con Parigi pronta a lasciare il Mali e a trasferirsi nel vicino Niger da dove proseguire la sua guerra contro gli islamisti; e con Mosca e Pechino che intendono occuparne il posto, sia pure con altri mezzi e soprattutto con tutt’altre priorità. L’ultima delle quali è ovviamente il tentativo di arginare i sempre più nutriti flussi migratori dall’Africa sub-sahariana verso il Mediterraneo. Dall’Onu agli europei: le forze in campo - L’attuale compresenza sul terreno di forze internazionali crea non poche difficoltà. Infatti, i soldati russi già operano al fianco dell’esercito maliano, soprattutto nelle zone dove i fondamentalisti sono più aggressivi. Ci sono poi i 600 uomini della task force europea Takuba e i 2.500 soldati francesi della Barkhane, che pure combattono al fianco delle forze di Bamako e che continuano a compiere attacchi mirati con i droni contro i capi delle fazioni islamiste. C’è infine la Minusma che con truppe di Paesi poveri, spesso male addestrate, cerca come può di stabilizzare le zone dov’è presente. “Fatto sta che da quando sono arrivati i mercenari della Wagner siamo diventati una sorta di Far West delle relazioni internazionali”, aggiunge Konate. Irritati dall’arrivo dei russi, i francesi hanno cominciato a spiarli sorvolando le loro basi. Il che ha provocato l’ira del governo di Bamako che il 14 gennaio scorso ha deciso di espellere l’ambasciatore di Parigi. Immediata la risposta del Quai d’Orsay, con il ministro degli Esteri, Jean-Yves Le Drian, che ha definito “illegittima” la giunta di Bamako. Lunedì il primo ministro Choguel Maïga ha quindi accusato i legionari che prestano servizio in seno all’operazione Barkhane di essere “i veri mercenari”. Peggio ancora, il premier maliano ha poi dichiarato che l’intervento militare francese iniziato nel 2013 per fermare l’offensiva jihadista s’è rivelata “un’operazione divisiva del Paese, perché ha permesso di creare un santuario dove i terroristi hanno potuto organizzarsi”. Il soft power degli islamisti - Ma secondo Aboubacrine Cissé, erudito locale e custode di una biblioteca che ospita alcuni dei preziosi manoscritti di Timbuctu, è un altro il problema che sovrasta questa querelle diplomatica dall’esito ancora incerto. “Mentre i potenti litigano tra loro, in Mali hanno stravinto gli islamisti. Il che spiega perché negli ultimi mesi siano diminuiti gli attentati. Salvo nella capitale Bamako e in poche altre città, sono loro che governano e non con le baionette inastate. Anche i jihadisti hanno imparato a manipolare un soft power fatto di tribunali che assicurano una giustizia sommaria ma immediata, di campagne contro la corruzione e di piccoli sussidi per i più poveri. In realtà è quello che chiede la maggior parte dei maliani, per la quale molti islamisti non sono terroristi ma solo fratelli un po’ troppo bigotti, e comunque migliori dei rapaci generali dell’esercito di Bamako”. Accade anche a Timbuctu dove, secondo Cissé, il governo ha stipulato un patto con i fondamentalisti per cui è tollerata la presenza di funzionari dello Stato, di poliziotti e di militari nel centro della città. Ma soltanto lì. “A pochi chilometri è già territorio loro. Eppure, negli ultimi decenni, Timbuctu era stata contaminata dalla cultura occidentale nell’accezione migliore del termine, anche grazie a un turismo colto e rispettoso. Qui è venuto a cantare perfino Bono degli U2. Ma tre anni fa i jihadisti hanno dato fuoco a tutti i bar che vendevano birra. Poco dopo è stata incendiata anche l’unica discoteca della città. Nessuno ha protestato perché a tutti andava bene così”. Quando gli chiediamo delle bambine cedute a dodici anni in cambio di una mucca, delle madrase che sostituiscono le scuole, dell’alto tasso di mutilazioni genitali femminili o di altre cruente derive di un esasperato modello patriarcale, Cissé imputa ogni colpa all’analfabetismo. “Al di fuori dei centri urbani, solo in pochi sanno leggere e scrivere. E nessuno parla arabo, compresi gli imam che leggono il Corano senza capire ciò che dicono”. La roccaforte italiana - Dalle torri di avvistamento della base della Minusma lo sguardo si perde tra le colline del Sahara, che qui è colonizzato da acacie e arbusti con spine taglienti come bisturi. I tartari di questo deserto sono ovviamente i miliziani delle bande jihadiste, nascosti chissà dove e che negli ultimi anni hanno bersagliato il campo con tre sanguinosi attacchi. Da allora, l’italiano Riccardo Maia, direttore di questa base che tra militari e civili conta 4mila uomini, è riuscito a sventare altri attentati cercando di costruire un’inespugnabile roccaforte grazie a un sofisticato sistema radar, a decine di telecamere per scrutare oltre le recinzioni e a centinaia di grossi container disposti uno a fianco all’altro lungo il suo perimetro. È qui che incontriamo Youba Traoré, ventinove anni, laureato in economia all’Università di Bamako ed esperto contabile. Non ama i colonnelli della giunta ma condivide parte di ciò che rinfacciano ai francesi. “L’arroganza dei militari di Parigi e la loro totale mancanza di empatia nei confronti dei maliani è il probabile retaggio del loro passato coloniale”, spiega il contabile. Il risultato è un vasto sentimento anti-francese, diventato ormai anche anti-europeo, che sta producendo un revisionismo culturale africano e un nuovo orgoglio identitario, contrario ai valori occidentali. “In altre parole, per meglio oppormi ai francesi sto con i jihadisti”, dice ancora Traoré, il quale spiega in questa chiave anche i colpi di Stato in Mali e Burkina Faso. “I militari di Bamako e Ouagadougou hanno destituito una classe politica che mandava a morire al fronte jihadista i propri soldati senza pallottole. Erano leader corrotti e violenti. Proprio come, prima di loro, lo erano stati gli ex coloni europei”. Messico. Assassinato un giornalista anti-corruzione. È il sesto da inizio anno di Guido Olimpio Corriere della Sera, 12 febbraio 2022 Heber Lopez Vazquez è stato sorpreso da due killer mentre entrava in casa, nello stato di Oaxaca. La polizia li ha arrestati subito. Ma in Messico sono morti, dal 2000, più di cento giornalisti. Heber Lopez Vazquez, giornalista, ucciso in Messico. Il sesto rappresentante dei media assassinato dall’inizio dell’anno. Un tiro a segno contro donne e uomini coraggiosi. Il reporter è stato sorpreso da due killer mentre stava per entrare nella sua abitazione a Salina Cruz, stato di Oaxaca. I sicari, arrivati con un pick up bianco, hanno aperto il fuoco e sono poi fuggiti. Ma, secondo le autorità, sarebbero stati catturati poco dopo dalla polizia intervenuta rapidamente. Vazquez lavorava per NCP Noticias e si occupava di casi di corruzione, un tema rischioso per chi vuole cercare verità, per chi fa domande. Ed è possibile che le sue inchieste abbiano spinto qualcuno a ordinarle l’eliminazione. Un destino tragico riservato ad altri colleghi messicani della vittima. I dati freddi segnalano che dal 2000 sono stati oltre 100 i giornalisti trucidati nel paese, uno dei più rischiosi al mondo per questa professione. Gli ultimi caduti, oltre Vazquez, sono Marcos Islas, Lourdes Maldonado e Margarito Martinez a Tijuana, Roberto Toledo a Zitacuaro, Joè Gamboa a Veracruz. Sono tanti i moventi. La vendetta per un articolo, la punizione ordinata da un politico corrotto, la pressione delle organizzazioni criminali scontente per una notizia o decise a imporre le loro “verità” (bugie). Non mancano, naturalmente, anche vicende personali ma che non cambiano il quadro generale: è un gigantesco campo di morte, dove si è presi di mira o fatti sparire. In Messico nel 2021 sono stati registrati 33.308 omicidi - e non è detto che il numero sia preciso -, un bilancio spaventoso che sottolinea non solo lo spargimento di sangue ma anche l’incapacità delle autorità di fronteggiare l’emergenza. Alla base c’è l’impunità. Non di rado gli accusati dei delitti sono solo delle pedine, i veri colpevoli e i mandanti restano liberi.