Carcere: via chiara, inerzia colpevole. Gli applausi non bastano di Glauco Giostra* Avvenire, 11 febbraio 2022 Rileggendo il discorso di insediamento del presidente Mattarella con ancora nell’aria l’eco dei ripetuti applausi, vien subito fatto di pensare che, certo, l’eccezionale standing ovation si spiega con il sincero sollievo per una soluzione che garantisce stabilità al Paese in un periodo in cui ne ha vitale bisogno; che, certo, si voleva anche esprimere gratitudine per lo spirito di servizio con cui il Capo dello Stato non si è sottratto al SOS che veniva dai rappresentanti del suo popolo. Ripercorrendo, però, i passaggi di quel denso e alto discorso sul dover essere di un Paese civile, affiora un sospetto: non è che il battimano serviva a coprire le voci interiori, che, almeno nei migliori tra i plaudenti, sussurravano se non un rimorso, un rammarico per tutto ciò che si sarebbe dovuto fare e non si è fatto; per tutto ciò che non si sarebbe dovuto fare e invece si è fatto? Prendiamo un passaggio di quel memento presidenziale: “Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale del detenuto. Questa è anche la migliore garanzia di sicurezza”. Ad applaudire c’erano anche le stesse persone fisiche e gli stessi leader politici, che al tramonto della precedente legislatura, dopo aver promosso la più imponente mobilitazione culturale di riflessione e di proposta sul tema - gli Stati generali dell’esecuzione penale - hanno ritenuto, per miopi calcoli elettoralistici, poco redditizio portare a termine il progetto di riforma penitenziaria che ne era scaturito. Ad applaudire c’erano coloro che, all’alba della presente legislatura, hanno con accuratezza chirurgica asportato dal testo di quella riforma tutte le misure di modulazione della risposta penale volte ad accompagnare gli eventuali progressi individuali in vista di un graduale reinserimento sociale, se meritato. Ad applaudire, anche da casa per Covid, c’erano quanti andavano raccomandando di “gettare via le chiavi” e lasciare che i condannati “marcissero in galera”. Ad applaudire c’erano i tanti don Abbondio che hanno taciuto per non contraddire il sentire comune di una popolazione che, ormai cronicamente affetta dalla grave pandemia dell’insicurezza, pensa che tanto più si punisce con cieco rigore, tanto più ci si mette al riparo dal pericolo criminale. Le parole presidenziali, in due righe, hanno riaffermato provocatoriamente da che parte sta la civiltà, la Costituzione e il buon senso. Meglio coprire con un imbarazzato e imbarazzante applauso l’inaccettabile distanza tra quel dover essere e la voce di una cattiva coscienza politica. La civiltà: ‘Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate’. Sono passati appena otto anni da quando la Corte europea dei diritti dell’uomo, a causa dello strutturale sovraffollamento penitenziario, ha condannato l’Italia per violazione dell’art.3 Cedu, cioè per aver inflitto ai propri detenuti un “trattamento inumano o degradante”. Senza le scarcerazioni e le ridotte incarcerazioni per il Covid probabilmente saremmo già tornati nell’umiliante condizione di farci ancora additare come uno Stato che illegittimamente umilia la dignità degli uomini a cui toglie legittimamente la libertà. La Costituzione: la pena detentiva ‘assicuri il reinserimento sociale del detenuto’. È significativo che il Presidente abbia avvertito la necessità di rammentarci che la pena detentiva, come ogni altra pena, deve garantire le condizioni per il recupero sociale del condannato (art. 27 comma 3 Cost.). Ciò significa che la sua esecuzione non può restare indifferente rispetto al percorso compiuto dalla persona che è stata punita. Lo Stato ha il dovere costituzionale di promuovere, accompagnare e valorizzare la difficile risalita dal baratro del delitto. Il buon senso: assicurare il reinserimento sociale costituisce “la migliore garanzia di sicurezza”. La segregazione senza speranza, infatti, mette a grave rischio la tranquillità sociale. I detenuti, prima o poi, tornano in libertà e, molto spesso, a delinquere. Questa inclinazione a ri-delinquere subisce sempre una drastica riduzione, come inequivoche esperienze nazionali e straniere dimostrano e come il Presidente si è sentito costretto a ricordare, quando il condannato ha scontato la pena in un regime carcerario che ne abbia rispettato la dignità, lo abbia responsabilizzato e gli abbia offerto la possibilità di guadagnarsi - anche adoperandosi in favore della collettività e delle vittime dei reati - un graduale, controllato reinserimento sociale. Anche papa Francesco è tornato più volte accoratamente sulla intollerabile disumanità di un carcere sovraffollato (“è un muro, non è umano!”) e ha reiteratamente ammonito che “qualsiasi condanna per un delitto commesso deve avere una speranza, una finestra”, denunciando senza mezzi termini come “sotto la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, di alcuni politici senza scrupoli e delle pulsioni di vendetta che serpeggiano nella società” si sia “affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con altre sanzioni penali alternative”. Un nuovo, grande applauso anche per il Papa, e non pensiamoci più. *Giurista, Università di Roma La Sapienza già coordinatore del Comitato tecnico degli Stati Generali sull’esecuzione penale Ora c’è un educatore ogni 65 detenuti, grazie a 210 nuovi funzionari di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 febbraio 2022 Nel 2003 risultavano 474 educatori professionali rispetto ai 55.682 detenuti presenti nelle carceri con una proporzione, quindi, di 1 a 117. Al primo novembre 2021 il rapporto rispetto alla presenza media dei detenuti nell’ultimo quinquennio è di 1 funzionario ogni 84 detenuti. Con l’immissione in ruolo di 210 funzionari, tenuto conto della medesima presenza media dei detenuti sopra calcolata, il rapporto si attesterà sulla proporzione di circa 1 funzionario ogni 65 detenuti. Questo è ciò che ha notiziato il Dap, in particolar modo la Direzione Generale del Personale e delle Risorse, tramite una nota inviata ai direttori delle carceri e rappresentanze sindacali. La nota ha come oggetto l’incremento della pianta organica Funzionario Giuridico Pedagogico e valorizzazione del ruolo e della figura professionale nei penitenziari. Dall’istituzione della figura dell’educatore per adulti negli Istituti penitenziari (artt. 80 e 82 dell’ordinamento penitenziario) e dalla successiva immissione in ruolo di tali operatori (avvenuto nel 1979), l’Amministrazione penitenziaria ha dato indicazioni sulla gestione del ruolo, di una figura del tutto nuova, evidenziando di volta in volta il focus operativo dell’educatore. Negli anni, oltre all’attenzione sulla figura, si è andata delineando una struttura organizzativa di tutti i profili deputati al trattamento, con la costituzione dell’area educativa. La nota del Dap, ricorda che nelle prime circolari chiarificatrici della funzione del nuovo ruolo, n. 2598/ 5051 del 13 aprile 1979 (Attività di osservazione e trattamento dei condannati e degli internati) e n. 2625/ 5078 di agosto 1979 (Competenze operative degli educatori per adulti Iniziative di coordinamento e di sostegno da parte del direttore di istituto per un efficiente impiego degli educatori) si sottolineava l’importanza di “un’autentica armonizzazione dei vari tratti dell’intervento” e che “le attività di osservazione per raggiungere un risultato veramente significativo presuppongono la volontaria collaborazione del soggetto considerato” per chiarire l’impossibilità di imposizione del trattamento educativo. . La successiva circolare n. 3196/ 5446 del 3 febbraio 1987 (Collaborazione fra gli istituti penitenziari ed i centri di servizio sociale negli interventi relativi ai detenuti ed agli internati. Attività del gruppo di osservazione e trattamento) disciplinava la collaborazione con i Centri di servizio sociale. Un caposaldo nella definizione dell’assetto degli istituti penitenziari e dei relativi ruoli è costituito dalla circolare n. 3337- 5787 del 7 Febbraio 1992 (Istituti penitenziari e centri di servizio sociale costituzione funzionamento delle aree) che istituisce le Aree negli istituti, segnando una svolta, in termini di cultura organizzativa e di rinnovamento dell’Amministrazione penitenziaria e, indicando con estrema esattezza ruoli e funzioni di ognuno dei settori che compongono l’Istituto penitenziario e degli operatori ad essi- rispettivamente assegnati, ponendo soprattutto in evidenza - l’assoluta importanza Dell’unitarietà nella multidisciplinarietà dell’azione amministrativa. La peculiarità della figura dell’educatore viene ribadita nella circolare n. 3554/ 6004 del 2 maggio 2001 con la costituzione, assetto organizzativo e funzionalità delle aree educative nei Provveditorati e negli Istituti. Con la circolare 3593/ 6043 del 9 ottobre 2003 viene nuovamente disciplinata la competenza delle aree educative degli istituti con un intervento che intende rilanciare il settore dell’osservazione e del trattamento, operando su tre linee fondamentali: il livello della pianificazione (Direzione dell’Istituto), il livello dell’organizzazione, gestione e del coordinamento operativo (Area educativa), il livello operativo del trattamento individualizzato (Educatore GOT - équipe). Ed ecco che la figura dell’educatore diventa centrale. Con la circolare 0438879 del 27 ottobre del 2010 si delinea l’immagine attuale della figura dell’educatore, definendolo funzionario giuridico pedagogico tecnico del comportamento. Oltre alla formale presa in carico dei casi, queste figure professionali assumono il compito - in ragione delle particolari competenze possedute - di programmazione, congiuntamente alle altre aree concorrenti alla definizione multidisciplinare del Progetto di Istituto, di coordinamento della rete interna ed esterna possibile, tanto rispetto al caso individuale quanto rispetto alla più ampia attività di relazione con il territorio. Dalla circolare del 9 ottobre 2003 si evince che gli educatori effettivamente presenti in Istituto erano 474 rispetto ai 55.682 detenuti presenti e quindi con una proporzione di 1 a 117. La nota del Dap sottolinea che era evidentemente inadeguata se si pensa che la previsione dell’organico nazionale prevedeva il numero di 1376 unità. Al primo novembre 2021, invece, erano presenti sull’intero territorio nazionale 789 funzionari giuridico pedagogici; tenuto conto di quanti in servizio presso sedi dell’Amministrazione diverse dagli Istituti (Dap, Prap, Scuole di Formazione) il rapporto rispetto alla presenza media dei detenuti nell’ultimo quinquennio è di 1 funzionario ogni 84 detenuti. Tale rapporto è tuttavia calcolato in termini nazionali ed occorre considerare che vi sono situazioni locali con forte diversificazione. Con l’immissione in ruolo di 210 funzionari, tenuto conto della medesima presenza media dei detenuti sopra calcolata, il rapporto si attesterà sulla proporzione di circa 1 funzionario ogni 65 detenuti. “L’incremento dei funzionari giuridico pedagogici appare, pertanto, un importante messaggio da parte di questa Amministrazione finalizzato ad attribuire maggior slancio, alla funzione rieducativa della pena”, chiosa la nota del Dap. Non c’è solo Pittelli: migliaia di detenuti nell’inferno del carcere preventivo di Simona Musco Il Dubbio, 11 febbraio 2022 Un detenuto su tre aspetta il processo in cella. Ieri il suicidio di una giovane in carcere, 48 ore dopo l’arresto. Ora tocca alla politica parlarne. Manuela Agosta aveva solo 29 anni. E ieri la sua vita è terminata in una cella del carcere di Messina/Gazzi, dove si è impiccata a meno di 48 ore dall’arresto, avvenuto nell’ambito di un blitz antidroga. Era accusata di concorso in spaccio e ieri, dopo l’interrogatorio di garanzia, ha arrotolato le lenzuola della sua branda e messo fine alla propria vita. Il suo è solo l’ultimo di una serie di casi che certificano l’urgenza di affrontare una discussione seria sulle misure cautelari, che in alcuni casi si trasformano in un’anticipazione ingiusta di una pena che tante volte non sarà inflitta. Col paradosso di averla scontata ancor prima che il processo possa escluderne la necessità. La storia di Manuela si intreccia a quella di Giancarlo Pittelli, ex deputato di Forza Italia, imputato per concorso esterno nel maxiprocesso Rinascita-Scott, che proprio ieri ha lasciato il carcere di Melfi, dove era tornato a seguito della lettera scritta dai domiciliari alla ministra Mara Carfagna e dopo aver trascorso, in precedenza, un lungo periodo dietro le sbarre. Per lui, la politica e la società civile si sono mobilitate in massa, riaprendo il dibattito sull’abuso delle misure cautelari ed evidenziando una sproporzione tra le condizioni di salute del penalista e la misura adottata. Un dibattito che il Parlamento dovrebbe però affrontare in maniera seria, se non vuole apparire come un corpo che difende solo se stesso, perché sono migliaia i Pittelli dimenticati sui quali nessuno si interroga. I dati alla mano sono chiari: l’Italia è il quinto Paese in Europa per tasso di detenuti in custodia cautelare. Un detenuto ogni tre, dunque, aspetta il processo privato della libertà, nella maggior parte dei casi in carcere. E come testimonia l’ultima relazione annuale del ministero della Giustizia sulle misure cautelari, tale scelta risulta ingiusta una volta su 10. Dato che raddoppia se alle assoluzioni si sommano i casi in cui, a prescindere dall’esito del processo, le misure cautelari potevano essere evitate, essendo facilmente prevedibile, sin dalla genesi dell’inchiesta, la concessione della sospensione condizionale: è capitato in 4.548 casi. “Se a questo dato si aggiunge quello delle ingiuste detenzioni - l’ultima statistica fa riferimento a circa 1.000 in un anno, quindi circa 3 al giorno, tenendo conto solo di coloro che hanno chiesto il risarcimento - si comprende che il ricorso alla custodia cautelare, molte volte rappresenta un vero e proprio abuso”, ha sottolineato dalle colonne di questo giornale Riccardo Polidoro, co-responsabile Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali italiane. A sostenere questa tesi non ci sono, però, soltanto gli avvocati: “Purtroppo è vero, in Italia si abusa della custodia cautelare, spesso al di fuori del dettame costituzionale degli articoli 13 e 27 della nostra Carta fondamentale, quelli che parlano dell’inviolabilità della libertà personale e della non colpevolezza fino a sentenza definitiva”, disse pubblicamente, tempo fa, Gherardo Colombo, ex pm del pool di Mani Pulite, oggi convinto pure che il carcere vada abolito. E anche secondo l’ex giudice della Consulta Sabino Cassese, “se ne fa un uso eccessivo, e questo è un sintomo di un possibile uso abusivo o distorto”. Di diverso parere, invece, il consigliere togato del Csm Sebastiano Ardita, secondo cui “se teniamo conto della pericolosità media delle persone che vi sono sottoposte - spiega al Dubbio - non vedo abusi nell’utilizzo della custodia cautelare nel nostro paese. D’altra parte la percentuale così alta di detenuti non definitivi è dovuta a due fattori. Da un lato vi sono i tempi del processo: se fossero più brevi li porterebbero ad assumere prima la veste di condannato (da noi sono considerati in attesa di giudizio anche i condannati in appello fino al giudizio di Cassazione). Dall’altra parte vi è la oggettiva necessità di impedire la commissione di nuovi reati che - delle tre ipotesi che legittimano la custodia cautelare - è quella più rilevante. Dunque trovo molto improbabile che anche in caso di vittoria del referendum si possa rinunciare alla custodia cautelare senza provocare una grave reazione dei cittadini, che verrebbero privati di ogni difesa sociale anche rispetto a reati gravi e di elevato motivo di allarme”. In attesa di un serio dibattito politico, infatti, il tema è al centro di uno dei quesiti referendari presentati dal Partito radicale insieme con la Lega, quesiti che martedì 15 febbraio arriveranno al plenum della Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi, come sempre, sulla ammissibilità. Quello relativo alla custodia cautelare non intaccherebbe la carcerazione preventiva per chi commette reati gravi, ma abolirebbe la possibilità di procedere alla privazione della libertà in ragione di una possibile “reiterazione del medesimo reato”, la motivazione utilizzata più di frequente e “molto spesso senza che questo rischio esista veramente”. Insomma, il momento è arrivato. Ma la politica dovrebbe superare il timore del populismo e assumersi la responsabilità di fare il proprio mestiere. Carcere, già dieci suicidi da inizio 2022 redattoresociale.it, 11 febbraio 2022 Gonnella (Atigone): “La pandemia ha acuito sofferenza e disagio psichico”. L’ultimo caso a Monza, dove un uomo tunisino si è tolto la vita inalando gas da un fornelletto. Gonnella (Antigone): “l’Istituzione deve preoccuparsi perché ci sono di certo anche concause di tipo sistemico”. L’ultimo caso è avvenuto nel carcere di Monza: un detenuto di origine tunisina di trentatré anni si è suicidato nella notte. Secondo le prime ricostruzioni avrebbe inalato il gas del fornelletto che aveva in cella. Un altro suicidio era avvenuto il giorno precedente nel carcere dell’Ucciardone di Palermo. In tutto dall’inizio del 2022 sono dieci i suicidi avvenuti in carcere. A questi vanno aggiunti anche i casi di due appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita. Numeri allarmanti che sottolineano la sofferenza che si vive nei penitenziari italiani, aggravata negli ultimi due anni dalle restrizioni legate alla pandemia da Covid 19. Una situazione che, sottolineano le associazioni, va presa in seria considerazione. “Dieci suicidi in quaranta giorni significano una morte ogni quattro giorni, una sequenza che speriamo non duri tutto l’anno, ma che deve farci riflettere. Non è facile individuare le cause, che non possono essere uguali per tutti: ogni storia è diversa. Ma se i numeri crescono così tanto l’Istituzione deve preoccuparsi perché ci sono di certo anche concause di tipo sistemico - sottolinea Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone. La pandemia ha raddoppiato la fatica delle persone detenute, l’isolamento e le distanze con l’esterno. Questo è un aspetto che va considerato: negli ultimi due anni c’è stato un aumento del disagio e della sofferenza psichica. È un problema serissimo e va affrontato”. Secondo Gonnella tra le priorità c’è quella di mettere mano alla riforma penitenziaria. E poi di ripartire con i colloqui, le telefonate e le videochiamate. Anche i rappresentati della Polizia penitenziaria denunciano la situazione. Secondo Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, “nelle prigioni sono ancora in uso i fornelletti da campo, quasi a confermare che si tratti di veri e propri campi di battaglia da condurre, soprattutto, contro le storture del sistema e l’inefficienza di una macchina amministrativa trascurata, se non del tutto abbandonata, dalla politica”. “Noi - conclude - continuiamo a dire che bisogna smetterla con le chiacchiere e le passerelle e dare segno di sé con provvedimenti concreti ed emergenziali che si pongano l’obiettivo di rifondare il modello d’esecuzione penale, reingegnerizzare le carceri e riorganizzare, potenziandolo, il Corpo di polizia penitenziaria”. Il Garante: “Negli ultimi anni mai così tanti suicidi in carcere tra gennaio e inizio febbraio” agenpress.it, 11 febbraio 2022 Nei primi 40 giorni dell’anno negli Istituti penitenziari si contano già dieci suicidi. L’ultima è una giovane donna ristretta nel carcere di Messina che si è tolta la vita ieri sera. Ai dieci suicidi si devono aggiungere quattro decessi classificati come “per cause ancora da accertare”. Sono numeri che non possono non allarmare e che evidenziano una netta crescita rispetto agli ultimi anni. Il Garante nazionale esprime forte preoccupazione per tale situazione e ribadisce l’urgenza di garantire alle persone detenute, e al personale penitenziario chiamato a fare fronte a una situazione particolarmente difficile, un più efficace supporto, sia in termini qualitativi che quantitativi. Le Istituzioni dello Stato, compreso il Garante nazionale, hanno il dovere di dare una risposta tempestiva alle esigenze specifiche e alle vulnerabilità delle persone private della libertà. Per questo occorre con urgenza riavviare un dialogo produttivo sull’esecuzione penale detentiva e trovare soluzioni alle tante difficoltà che vivono le persone ristrette e chi negli Istituti penitenziari opera. Così come occorre trovare risposte effettive alla criticità dell’affollamento, situazione accentuata dalla pandemia. È solo a partire da tale ampio confronto che si può arrivare a trovare un percorso comune volto a ridurre le tensioni e a ridefinire un modello detentivo nel solco tracciato dalla Costituzione, dando così un segnale di svolta di cui il sistema penitenziario ha bisogno. Intesa Cnf - Garante su esecuzione pena e tutela diritti detenuti consiglionazionaleforense.it, 11 febbraio 2022 Siglato protocollo triennale. L’esecuzione della pena alla luce delle novità introdotte dalla riforma Cartabia, il ruolo di magistratura di sorveglianza, amministrazione penitenziaria e avvocatura istituzionale nell’ordine di esecuzione delle pene carcerarie e alternative, la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti. Sono queste le linee di intervento alla base del nuovo protocollo di intesa, con durata triennale, tra il Consiglio nazionale forense e il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. L’intesa, sottoscritta questa mattina presso la sede del Cnf, dalla presidente Maria Masi e dal Garante delle persone private della libertà Mauro Palma, intende rinnovare la collaborazione istituzionale già avviata nel 2017 e stabilire la programmazione di azioni congiunte per tutelare la dignità dell’essere umano e garantire il principio rieducativo e riabilitativo della pena. È prevista la creazione di una rete informativa e l’avvio di una interlocuzione costante tra le due istituzioni, anche con la diffusione, tramite il Cnf, delle iniziative del Garante delle persone private della libertà a tutti i Consigli dell’Ordine degli avvocati sul territorio italiano. Inoltre, il protocollo prevede una formazione giuridica congiunta del personale addetto agli uffici del Garante nazionale e degli avvocati sull’esecuzione della sanzione penale e il coinvolgimento degli Ordini forensi nella designazione del Garante comunale. Tutte le attività saranno condivise con i soggetti istituzionali interessati, a partire dal ministero della Giustizia con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità (Dgmc). “L’accordo siglato oggi - dichiara la presidente Cnf Maria Masi - si pone tra gli obiettivi, oltre alla formazione e informazione su tutto ciò che attiene al sistema carcerario e al ruolo degli operatori del diritto nell’esercizio dell’esecuzione della pena e delle misure alternative, anche e soprattutto una sensibilizzazione culturale sulla fondamentale tutela dei diritti e della dignità delle persone private della libertà personale”. “Il protocollo di intesa - afferma il Garante Mauro Palma - non vuole essere una formale dichiarazione di intenti ma la base per un piano di azioni concrete da portare avanti insieme sul piano formativo e sul piano informativo. Il protocollo si inserisce nelle relazioni che il Garante intrattiene con tutti gli operatori del diritto, nell’ambito delle quali una particolare rilevanza rivestono le strutture dell’avvocatura, rappresentate dal Cnf. La tutela dei diritti delle persone vulnerabili richiede infatti un approccio multiforme, che ogni attore coinvolto è chiamato a svolgere nel proprio ambito di competenza. In questo quadro, il dialogo con l’avvocatura è fondamentale.” È il giorno della riforma della giustizia. Ecco come sarà il nuovo Csm di Draghi di Carmelo Caruso Il Foglio, 11 febbraio 2022 Nuove norme per evitare il conflitto politica-magistratura. Stop alle porte girevoli ma distinguendo e tre anni di decantazione. Le toghe impegnate in politica vengono distinte in 4 categorie. Le norme non saranno retroattive. Al contrario. Mario Draghi non si sta “montizzando” la testa. Si sta facendo ancora più tecnico. Non si è innamorato della politica, ma della fisica. Il suo potere è possedere adesso “il tempo” del comando. Quando ai suoi collaboratori viene chiesto quale sia l’agenda di governo, la risposta data è che il “tempo” lo scandisce il presidente e che l’agenda è la testa del presidente. Insieme a Marta Cartabia, e al suo staff, passa la sera a Palazzo Chigi a ragionare di “fattispecie per magistrati” e “liste binominali” perché, questa volta, come ha garantito, “il Csm si proverà a riformarlo e lo faremo con il Parlamento”. E dunque, con il ministro Daniele Franco cerca i miliardi per stemperare il caro bollette, ma “in maniera articolata” e nulla ci impedisce, questa è la bis risposta, “di arrivarci la prossima settimana”. Il Cdm di oggi avrà quindi come argomento la giustizia. Per risolvere il fenomeno delle “porte girevoli” la soluzione potrebbe essere separare i magistrati “politici” in quattro grandi categorie, anzi, “fattispecie” e prevedere un tempo di decantazione dalla carica di tre anni. Per riformare il Csm, ma garantendo la rappresentanza delle minoranze, la via è invece il sistema proporzionale che resta la scorciatoia-autobiografia, quella che ci permette di saldare il nostro debito con la complessità. Ebbene, non solo il comando di Draghi si affina ma anche i dossier si fanno più “raffinati”. E infatti, insieme alla Guardasigilli, è come se Draghi volesse appropriarsi della “materia giustizia” un po’ come l’economia che è la sua proprietà, la sua competenza, la sua “expertise”. Ecco perché, per regolamentare il guasto dei magistrati in politica, l’uscita di sicurezza su cui lavora Palazzo Chigi sembra essere la catalogazione in magistrato eletto; magistrato candidato ma non eletto; magistrato impegnato in cariche amministrative; magistrato impegnato in cariche amministrative di indirizzo politico. Sarebbe il modo, il migliore, per non perdere alcune competenze giuridiche che nei ministeri sono necessarie per redigere i testi di legge. E deve essere davvero in crisi non tanto e solo la magistratura ma l’idea che ormai si ha dei magistrati se si può pensare che un funzionario come Roberto Garofoli, il “soprasegretario”, possa essere uno di quelli colpiti dalle nuove norme della riforma o peggio ancora credere che Draghi stia cercando di proteggere lui e formulare una norma ad hoc. Agli amici, con la serenità di chi ha sempre respirato aria di Grecia, lui che è di Taranto, Garofoli avrebbe risposto: “Sono sempre stato chiamato e non ho mai cercato una chiamata. Faccio quello che mi dicono di fare”. È un qualcosa che non esiste. Le norme non saranno retroattive. Nella fumeria d’oppio ideologico qualcuno ha suggerito (ascoltato da qualcun altro) che il tempo che Draghi si sta prendendo sulla riforma della giustizia, il suo zelo, si debba a quest’uomo che il premier vuole tutelare a tutti i costi. C’è insomma chi desidera una riforma e chi si vuole servire della riforma per regolare qualche conto. Ieri, il Foglio.it, ha raccontato che per Matteo Salvini, ad esempio, le incompatibilità possono essere un grimaldello per aprire il suo portone preferito: il Viminale. Pochi lo ricordano ma Luciana Lamorgese oltre che prefetto è anche consigliere di stato. Ancora meno sono quelli che ricordano che a nominarla è stato il governo gialloverde di cui Salvini era vicepremier. È accaduto di nuovo. Come per le concessioni balneari (norma che oggi sembra non entrare in Cdm) anche questa riforma del Csm, non ancora discussa e non ancora approvata, rischia di essere un piacere ma che scontenta. Fino a quando si scrive, il governo ha voluto tenere il riserbo. Anche da Via Arenula si ripeteva: “Ci lavorano a Chigi”. Antonio Tajani, che è sempre più leader di Fi, era costretto a chiedere il testo perché “pur essendo favorevoli all’impostazione della riforma Cartabia, i nostri ministri non lo possono votare senza prima approfondire”. Si è voluta evitare la fuga di notizie perché come si vede la mezza notizia serve a sporcare. Al momento è dato per abbastanza sicuro che sei saranno i giudici del nuovo Csm scelti con il metodo proporzionale e che tre saranno gli anni di decantazione per chi ha deciso di correre in politica. Draghi, dopo il Quirinale, non si è dunque ammalato di politica. È über tecnico come il battelliere che in “I tempi del potere” di Christopher Clark (Laterza) si disarmava per armarsi: “L’uomo non può indirizzare il fiume del tempo, ma può tuttavia viaggiarci con esperienza e perizia”. Sprint sulla giustizia. Oggi la riforma in Cdm. Stop porte girevoli anche per i “tecnici” di Liana Milella e Conchita Sannino La Repubblica, 11 febbraio 2022 I partiti la spuntano sul nuovo Csm: i magistrati in politica dovranno per sempre rinunciare alla toga. “Pausa” di 2 anni per chi lavora nei ministeri”. Tutti i magistrati che scendono, o anche solo entrano in contatto con la politica perché cooptati in ruoli di governo, dovranno rinunciare alla toga. E lavorare nei ministeri, da Palazzo Chigi, alla Giustizia, a tutti gli altri. Nella riforma del Csm targata Marta Cartabia non ci saranno più eccezioni. E perfino i capi di gabinetto - proprio come chiedeva la legge dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede - potranno sì continuare a fare i magistrati, ma solo dopo essere rimasti nel “congelatore” per due anni. Non c’è da temere, tuttavia, per i giudici che oggi sono coinvolti nel governo, perché per loro - come indicava la stessa Bonafede - interviene una norma transitoria che li “salva”. La legge, com’è ovvio, riguarderà il futuro. Nel quale le “porte girevoli” tra magistratura e politica si chiuderanno definitivamente. Tranne per chi si candida e non viene eletto: in quel caso, manterrà la funzione, ma in un’area diversa rispetto a quella in cui è sceso nell’agone. Sono ormai passate le 20 quando, a Palazzo Chigi, dopo una giornata di grande tensione, in attesa di un pre-Consiglio dei ministri che anticiperà, stamattina, la riunione del governo, il premier Mario Draghi affronta quello che montava già come possibile terremoto per il governo su Giustizia e riforma Csm. Perché tutti i partiti, a partire da Azione, che con Enrico Costa ha agitato le acque e messo in allarme anche il M5s - sul fatto che la Bonafede stava per essere stravolta - e poi Lega e Forza Italia, si erano messi contro una riforma che avrebbe presentato una falla. Mentre i magistrati eletti in Parlamento avrebbero dovuto rinunciare definitivamente alla funzione giurisdizionale, non potendo più tornare a fare né i giudici né i pm, quelli cooptati politicamente - un ministro o un sottosegretario - sarebbero potuti tornare indietro, rivestendo la toga. Il caso ha pure un nome e un cognome. È quello del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli, consigliere di Stato, alle spalle già una lunga carriera fuori ruolo come capo di gabinetto (a Palazzo Chigi, e anche al Mef). Ed è proprio colui che - sia per questa riforma, sia per quelle precedenti del penale e del civile - ha rappresentato l’interfaccia tra il premier e la ministra Cartabia. La nuova legge lo avrebbe avvantaggiato consentendogli di restare nei suoi panni professionali, tant’è che tra i partiti contrari - M5S, Lega, Forza Italia, Azione - risuonava l’antico lessico dell’era berlusconiana, “lodo” Garofoli. Invece non sarà così. A differenza dello scontro sull’improcedibilità dei processi penali, che ha visto in prima linea il M5S, su questo punto quasi tutti erano contrari. “Se resta così il nostro voto non è scontato” avverte subito Costa. E Giulia Sarti, responsabile Giustizia del M5S, fedelissima di Bonafede, è nettissima: “Non esistono motivazioni giuridicamente e politicamente valide per queste esenzioni. Si tratterebbe solo di norme ad personam, e ne abbiamo già avute abbastanza in passato”. È di poche parole ma affilate anche Giulia Bongiorno, la senatrice longa manus di Salvini per la giustizia, che non lascia spazi di trattativa. “Noi vogliamo lo stop per tutti”. E aggiunge: “La Lega vuole chiudere le porte girevoli: una volta che un magistrato decida di entrare in politica non può più ritornare a vestire la toga”. Il Pd, anche se non si appassiona allo scontro sul sottosegretario, condivide tutto l’assunto della proposta Cartabia. E chiede comunque “paletti severi”. Boccia la contemporaneità tra carica elettiva e funzione giudiziaria, dice no alle candidature nello stesso distretto in cui si è svolta la funzione di giudice. Ma al contempo consiglia di non violare l’articolo 51 della Costituzione che garantisce il posto di lavoro. Sul destino dei “Garofoli” ricorda che “necessariamente la legge dovrà avere una norma transitoria”. Quella che appunto viene prevista a Palazzo Chigi. E qui la memoria non può che andare al recente passato: quando, a fare una mossa sulla faccenda, è stato proprio l’attuale vice presidente del Csm David Ermini, allora nella veste di deputato e responsabile Giustizia del Pd. Fu lui a firmare un emendamento che nella scorsa legislatura, nel tentativo (fallito) di approvare una legge sulle porte girevoli, chiedeva di equiparare tutte le figure, sia quelle elette, sia quelle scelte, sia i capi di gabinetto. Tutti comunque impossibilitati a tornare indietro, dopo il contatto con la politica. Arriva la riforma Cartabia sul nodo toghe in politica. Draghi cerca il compromesso di Francesco Grignetti e Ilario Lombardo La Stampa, 11 febbraio 2022 Dopo le polemiche, il premier è pronto a cambiare il testo. Stop al rientro in magistratura anche per ministri e assessori. Sarebbe stata una clamorosa sconfessione. Più della metà dei ministri presenti aveva ricevuto l’ordine di astenersi su un punto qualificante della cruciale riforma del Csm; la quasi totalità dei partiti della maggioranza, tolto il Pd, aveva dichiarato di essere contraria alle indiscrezioni su un blocco solo parziale per le “porte girevoli” tra politica e magistratura. In queste condizioni le probabilità di una drammatica spaccatura nel Consiglio dei ministri di oggi sulla riforma del Consiglio superiore della magistratura sono state, per tutta la giornata di ieri, altissime. Nel calcolo dei costi-benefici Mario Draghi ha capito che lo scontro avrebbe avuto un prezzo politicamente troppo alto, e così ha preferito cedere su quel punto della riforma che non metteva d’accordo nessuno nella coalizione. Almeno così sembrava ieri sera quando è stato annunciato che il pre-consiglio dei ministri previsto per le nove di sera sarebbe slittato a questa mattina alle 8.30. Segno che le complicazioni sono ancora tante e un accordo blindato non c’è. Ma se le anticipazioni verranno confermate, ministri, sottosegretari e assessori non saranno più esentati dalla tagliola che prevede di bloccare le “porte girevoli”. Cariche elettive e incarichi di governo saranno equiparati. Significa che qualunque toga accetti di entrare a far parte di una giunta o di un governo, anche senza passare da una candidatura e un’elezione, una volta conclusa l’esperienza politica, non potrà tornare in servizio dove era prima. Previsto un limbo di 3 anni per quelli che si candidano ma non vengono eletti. Fino a ieri mattina, la formulazione concordata dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia con il presidente del Consiglio Mario Draghi prevedeva il divieto per i soli deputati, senatori e consiglieri regionali e comunali. Non per quelle toghe chiamate “figure tecniche”, anche se avessero rivestito cariche da ministro, o di assessori chiamati da un sindaco o da un presidente di Regione. Secondo un primo giudizio della ministra, non ci sarebbero stati vincoli al rientro in toga perché formalmente non eletti. Una differenziazione che ha subito scatenato nei partiti le peggiori malignità su tutti i “tecnici” che ruotano attorno al governo. Qualcuno ha avanzato persino il sospetto che si nascondesse una norma ad personam, volta a tutelare la carriera del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Roberto Garofoli, giudice amministrativo. Palazzo Chigi rifiuta però questa interpretazione della norma che La Stampa ha raccontato ieri in un articolo, ricostruendo i dubbi e la forte contrarietà del M5S, di Forza Italia e della Lega, e anche del deputato di Azione Enrico Costa, il più battagliero di tutti: “Si tratta di una palese contraddizione che va sanata”. Pure Giulia Bongiorno, a nome della Lega, aveva detto il suo “no”. La modifica del testo dovrebbe avvenire oggi in pre-consiglio, dove finalmente i partiti potranno avere sotto gli occhi un testo della riforma. Altro motivo di rabbia tra gli azionisti della maggioranza. Lo prova l’avvertimento esplicito di Antonio Tajani, coordinatore di Fi: “I nostri ministri non voteranno se non ci sarà un testo scritto che possa essere esaminato in maniera approfondita. Non si può votare una riforma così delicata senza avere il testo legislativo di fronte”. Una richiesta che è arrivata identica da tutti i partiti e che ha costretto il governo a intervenire sul testo, facendo così slittare per ben due volte il pre-consiglio. Forza Italia e la Lega vogliono capire anche come sarà definita l’altra grande questione che agita i rapporti tra magistrati e politica: la legge elettorale con cui si sceglierà la futura composizione del Csm e che negli ultimi anni è stato il veicolo dello strapotere delle correnti. Forza Italia insiste per il sorteggio. E anche il M5S è tentato. Contrario invece il Pd. Secondo la ministra, il sistema che è stato proposto (maggioritario binominale, con forte attenzione a garantire la parità di genere, e con correttivo proporzionale) dovrebbe scompaginare i giochi delle correnti. Giornata di tensioni, insomma. Nella fotografia di Draghi alla plancia di comando della pilotina della Guardia Costiera, mercoledì a Genova, c’era il desiderio di mostrare saldamente la guida del governo. Ma sulla giustizia, sulle concessioni ai balneari, persino sul decreto che proroga lo stato di emergenza per il Covid, dove il governo è andato sotto per ben due volte, la barca resta esposta alle tempeste dei partiti. Toghe in politica, il muro si alza per tutti di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 11 febbraio 2022 Oggi in Consiglio dei ministri la tanto attesa riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Polemiche nella maggioranza perché Draghi e Cartabia tengono nascosti i testi degli emendamenti. Mediazioni fino alla fine, poi nel preconsiglio la novità che lo stop alle funzioni giurisdizionali varrà non solo per i magistrati eletti ma anche per quelli con incarichi politici di governo o nelle giunte. Appuntamento al buio, ma di buon mattino. Oggi il Consiglio dei ministri, convocato insolitamente di venerdì e molto insolitamente alle 9.30, dovrà dare il via libera agli emendamenti della ministra Cartabia, la famosa e tanto attesa riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario. Un via libera politico, perché non ci sarebbe alcun bisogno di un’approvazione tecnica da parte del consesso di governo trattandosi di emendamenti ministeriali, che infatti in tutti gli altri casi passano direttamente dagli uffici dei dicasteri alle commissioni parlamentari. Con questa scusa ufficiale, perché non si tratta di un passaggio formale, palazzo Chigi ha potuto lasciare al buio i partiti di maggioranza, non trasmettendo fino a tarda sera i testi sui quali i ministri sono chiamati a esprimersi stamattina. Ma la vera ragione è che le mediazioni sono state tante e la ministra, che si è guadagnata la stima dei vari responsabili giustizia “anche per la pazienza”, è dovuta intervenire sui commi fino all’ultimo. La riunione del preconsiglio si è tenuta così fuori dall’orario utile per i tg e i giornali, ma ai ministri e per quella via alle forze politiche è arrivata comunque la notizia di un ulteriore e finale inasprimento delle regole per il ritorno in magistratura. Ricapitoliamo. I partiti conoscevano da qualche giorno le intenzioni di Marta Cartabia, che li aveva incontrati martedì sera per riferire oralmente quello che era stato deciso negli incontri tra lei, Draghi e il sottosegretario Garofoli. Stop alle cosiddette “porte girevoli” nel senso che un magistrato eletto (al parlamento o al consiglio regionale o comunale) oltre alla naturale incompatibilità durante il mandato non sarebbe mai più potuto tornare nelle funzioni giurisdizionali, ma avrebbe mantenuto la qualifica di magistrato a disposizione però della pubblica amministrazione. Da questo regime fino a ieri sera erano esclusi i magistrati chiamati a svolgere incarichi politici non elettivi come ministri, sottosegretari, assessori, capi di gabinetto e i magistrati candidati alle elezioni ma non eletti. Troppo poco per i 5 Stelle (il cui ex ministro Bonafede è l’inventore di questo “ruolo speciale” per magistrati fuori dalla giurisdizione, non ben definito) e per il centrodestra. Il Pd fino all’ultimo ha chiesto regole stringenti e paletti severi, del resto previsti anche nella proposta che la ministra aveva ricavato dal lavoro della commissione Luciani (da 3 a 5 anni di stop alla carriera), ricordando però la necessità di rispettare l’articolo 51 della Costituzione: “Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro”. Ieri sera tardi, invece, ecco la notizia che il muro sarà alzato anche per i magistrati chiamati in incarichi politici, “salvando” solo quelli che si candidano senza risultare eletti. Resta da vedere l’effetto concreto di questa norma che potrebbe tanto scoraggiare i magistrati dal collaborare con le amministrazioni, tanto al contrario - se il ruolo speciale dovesse rivelarsi un comodo limbo - incoraggiarli eccessivamente. Nessuna novità invece, rispetto alle anticipazioni orali della ministra, per quanto riguarda la nuova legge elettorale per la componente togata del Csm, che salirà a 20 consiglieri (più dieci laici e primo presidente e pg della Cassazione). Il sistema sarà ancora il maggioritario (quello attuale) con due posti per le toghe di Cassazione, 4 per i pm e 14 per i giudici, categoria all’interno della quale 6 posti saranno assegnati (novità) con un recupero proporzionale. Con voto singolo, sperando così di consentire l’elezione anche di candidati autorevoli e conosciuti sul territorio ma al di fuori delle correnti. Nel pomeriggio tanto Forza Italia, quanto la Lega, Azione e i 5 Stelle avevano protestato per la mancata condivisione dei testi definitivi. Arrivando a minacciare le mani libere. Tutto questo dovrebbe rientrare stamattina davanti a Draghi, anche se in passato Cartabia aveva detto che nemmeno questi emendamenti così faticosamente mediati sarebbero stati considerati blindati nei loro passaggi in parlamento. Il tempo è poco, a luglio sono previste le elezioni del nuovo Csm, da mercoledì prossimo la commissione giustizia comincerà l’esame degli emendamenti. In attesa di quelli del governo ce ne sono già quattrocento, trecento dei quali di maggioranza. La riforma del Csm all’ombra dello scontro Renzi-pm di Giulia Merlo Il Domani, 11 febbraio 2022 Lo scontro tra magistratura e politica ha un nuovo epicentro ed è Firenze, proprio alla vigilia del consiglio dei ministri per il via libera alla riforma dell’ordinamento giudiziario. Ad incendiare il clima è stata la richiesta di rinvio a giudizio per undici indagati tra cui Matteo Renzi, Maria Elena Boschi e Luca Lotti, nell’inchiesta per finanziamento illecito ai partiti della fondazione Open. Il leader di Italia Viva ha considerato l’iniziativa dei magistrati come un attacco personale da parte della magistratura fiorentina che già ha indagato sulla sua famiglia nel caso Consip e poi false fatturazioni. La reazione è stata immediata e inattesa: Renzi ha denunciato i magistrati per abuso d’ufficio, di cui si occuperà la procura di Genova per competenza sui magistrati fiorentini. Anche se lui spiega che il suo “non è un fallo di reazione”, ma un modo per “ottenere giustizia” perché “io mi fido dei giudici, non di tutti”. In realtà, gli attacchi ai magistrati che su di lui hanno indagato non riguardano l’inchiesta Open. Scrive l’ufficio stampa di Renzi che la richiesta di rinvio a giudizio di Open è “stata firmata dal procuratore Creazzo, sanzionato per molestie sessuali dal Csm; dal procuratore aggiunto Turco, che volle l’arresto dei genitori di Renzi poi annullato dal Tribunale della libertà e dal procuratore Nastasi, accusato da un ufficiale dell’Arma dei carabinieri di aver inquinato la scena criminis nell’ambito della morte del dirigente Mps David Rossi. Questi sono gli accusatori”. Le parole hanno immediatamente suscitato le reazioni dell’Associazione nazionale magistrati, che ha definito le parole di Renzi oltre “i confini della legittima critica e mirano a delegittimare agli occhi della pubblica opinione i magistrati”, “non è tollerabile che siano screditati sul piano personale soltanto per aver esercitato il loro ruolo”. Immediata anche in questo caso la controreplica di Renzi, che ha accusato l’Anm di silenzio, mentre “la mia vita è stata pubblicata e data in pasto sui giornali, è stata scardinata in violazione del segreto bancario, del segreto istruttorio e nel silenzio dell’Anm”. Il clima di scontro - È in questo clima di scontro, che inizia il cdm che contiene la riforma dell’ordinamento giudiziario. Il testo è stato il prodotto di paziente limatura da parte della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che ha dovuto trovare un punto di equilibrio tra le resistenze dentro la magistratura e le istanze dei partiti di maggioranza. Il risultato, però, rimane ancora non condiviso: se il centrosinistra sostiene il lavoro di Cartabia, il centrodestra è deciso a proporre una legge elettorale con sorteggio per i candidati del Csm e anche solo questo rischia di inceppare il percorso della riforma. In questo quadro e contemporaneamente all’infuriare dello scontro tra Renzi e i magistrati fiorentini, l’ago della bilancia potrebbe diventare proprio Italia Viva. Nel corso dei mesi, il partito si è tenuto prudentemente a distanza, senza mai prendere posizione netta sulle anticipazioni alla riforma. “Non abbiamo ancora avuto un testo da poter leggere, per valutare con compiutezza tutte le previsioni”, spiega la responsabile Giustizia, Lucia Annibali, che non si sbilancia sulla legge elettorale ma parla di “passo avanti” sulla questione delle porte girevoli, su cui però IV chiede paletti ancora più rigidi. “Aspettiamo comunque un testo per poterci pronunciare”, dice. Italia Viva allontana qualsiasi ipotesi di ripicca come conseguenza dello scontro sulle inchieste di Firenze. “Gli emendamenti sono stati depositati l’anno scorso”, precisa Annibali. L’interrogativo, però, è tutto politico: posto che l’emendamento ministeriale di fatto riscriverà il testo base della riforma, si aprirà necessariamente un nuovo confronto parlamentare e Italia Viva negli ultimi passaggi parlamentari si è schierata quasi sempre con il centrodestra. Dalle regole sulle intercettazioni alla proposta di commissione d’inchiesta sulla magistratura, infatti, l’asse potrebbe consolidarsi anche sulla riforma del Csm. Dalle file di Iv assicurano che ogni decisione verrà presa valutando il merito del testo che verrà depositato in parlamento e che nessun condizionamento verrà dalle vicende personali del leader. Oltre alla legge elettorale del Csm, alle regole per evitare le “porte girevoli” tra magistrati e politica, la riforma contiene anche nuove norme sulla valutazione di professionalità dei magistrati. Proprio quella che Renzi sembra mettere in dubbio nel caso specifico dei pm che su di lui hanno indagato, citando anche il caso di Enzo Tortora, “i cui persecutori hanno fatto carriera”. Certo è che, a prescindere dal possibile condizionamento concreto, lo scontro a colpi di dichiarazioni e atti giudiziari tra toghe e politica torna ad inasprire il clima intorno alla riforma. Nessun partito ha interesse a fermarla, cristallizzando così un sistema che è stato da tutti condannato, ma alla luce di questo nuovo cortocircuito il testo prodotto da Cartabia rischia di essere considerato troppo poco incisivo. E una maggioranza parlamentare potrebbe avere la forza numerica di inasprirlo, magari proprio nel meccanismo delle nomine. Riforma Csm: l’ipocrisia è inevitabile ma tocca a noi scegliere quanta ne vogliamo di Daniela Mainenti* Il Fatto Quotidiano, 11 febbraio 2022 Osservava François La Rochefoucauld che “L’ipocrisia è un omaggio che il vizio rende alla virtù”. Ed è già atto ipocrita disprezzarla, perché essa è ciò che rende la vita e la convivenza possibili non ferendo inutilmente l’altro e dicendo qualche bugia per evitare conflitti. Nella vita privata, poi, un po’ di tacita ipocrisia è elemento di valore morale e buone maniere. Nella vita pubblica, nelle funzioni di rilievo pubblico e in politica, invece, è un’altra faccenda. Di chi ricopre un ruolo pubblico si vuol conoscere tutto, il vero dietro la maschera del potere, al di là del cliché sui vizi privati e sulle pubbliche virtù. Non si scomodino, però, La Rochefoucald, o l’Ambiguity of Hypocrisis di Simone De Beauvoir o il Political Hypocrisy: The Mask of Power di David Runciman per giungere a elogiare l’ipocrisia nella sua forma meno distruttiva. In un’epoca in cui inneggiamo alla trasparenza dei sistemi cosiddetti democratici, solo chi governa con pugno totalitario è davvero sincero nell’affermare la supremazia del potere. Perché, come diceva Thomas Hobbes, la politica è necessariamente un sipario di maschere, e, purtroppo, di parecchi autoinganni. Ma se la politica è la più complessa delle attività dell’uomo, nell’intricata danza fra ipocrisia e anti-ipocrisia, a noi spetta scegliere quali ipocriti vogliamo al potere e stabilire noi stessi fino a che punto l’ipocrisia deve preoccupare, o meno, e quando supera il limite. Per esempio, non c’è maggiore ipocrisia dell’impegno a ridurre l’emissione di carbonio mentre allo stesso tempo si lasciano libere le lobby di incrementarla. È nel teatro greco che nasce l’ipocrisia (gli ipocriti erano attori classici, il termine hypokrisis significava “interpretare una parte”) ma se, dal punto di vista della religione, è considerata un peccato capitale, le menzogne, le mezze verità, i double standard permettono alla democrazia di funzionare. Insomma, la politica, così come qualsiasi ribalta pubblica, anche quella che sembra la più integra, è un mestiere che non pratica ciò che predica. Da qui il destro al giornalismo investigativo, o bigotto, o giustizialista, o al contrario garantista, ossequioso o servente perché il pubblico, grazie all’informazione, deve aver fiducia in chi regge il timone del Paese. Nella storia non esistono prove concrete di un governo che ha potuto governare senza straordinari esercizi di ipocrisia. O si opera sulla base del compromesso o si precipita nell’anarchia, e il compromesso basilare è la finzione dei governanti di essere in accordo con l’opinione dei governati. In ciò riposa l’equilibrio dei poteri. In questo senso occorre essere “sinceramente falsi” e, tra tante ipocrisie mascherate da verità, bisogna però imparare a distinguere perché, come dichiarava George Orwell: “Fin che la spada è nel fodero la corruzione non può superare un certo limite… E l’ipocrisia è una potente salvaguardia, è un simbolo di quel misto di realtà e illusione, democrazia e privilegio… è la rete sottile di compromessi che tiene intimamente unita la nazione”. Non a caso, chi abbia tentato o anche solo provato a scalfire tale forma di salvaguardia si ritrova oggi curiosamente indagato. Ma è proprio Hobbes che ci spiega come affrontare il vizio moderno, questa sorta di “ipocrisia al potere”. Per Hobbes i governanti non dovevano credere in nient’altro che nell’idea che la politica, come i suoi sottogoverni e altri poteri, debba essere organizzata su basi razionali senza mai offuscare la distinzione fra la maschera e la persona dietro la maschera, altrimenti è un’ipocrisia colpevole, anzi, la più sciocca, perché si specchia, come Narciso, nell’autoinganno. Oggi si sente il bisogno di politici sinceri, di magistrati sinceri, di dirigenti sinceri, di giornalisti sinceri, ma solo in rapporto al sistema di potere in cui vengono a trovarsi, sinceri ma solo nel desiderio di mantenere la stabilità e la durabilità del sistema, anche al prezzo della loro abilità di dire ciò che intendono e intendere ciò che dicono. Questo vale sia per la politica democratica sia per ogni altra. I politici, i magistrati, le classi dirigenti devono recitare una parte, ma una parte che rispecchi le esigenze del sistema. Purché non si sfiori l’ipocrisia individuale, quella privata, che non deve contare, perché una certa dose di ipocrisia personale è inevitabile. Eppure, guarda caso, a volte essa si scopre parecchio rilevante, anzi quasi la ragione determinante, quando scoppia il bubbone. Dopotutto, per Hobbes, in democrazia bisogna diffidare di coloro che scambiano la sincerità personale a scapito della sincerità circa il potere stesso. Quella sarebbe appunto l’origine del peggiore autoinganno: arrivare perfino a credersi sincero. E allora, per esempio, dice forse bene il Prof. Giorgio Spangher, a proposito dei mali del Consiglio Superiore della Magistratura e dell’invadenza delle correnti, quando afferma: “Resti consolidato che stante un corpus di magistrati numericamente non elevato, la capacità di controllo delle appartenenze, anche in sede distrettuale, non presenta particolari difficoltà, con conseguente scarsa incidenza sui sistemi elettorali che si volessero introdurre”. Con buona pace dell’affannoso e articolato dibattito nella magistratura italiana tra referendum, interni ed esterni, e veti di tutti i tipi e di tutte le maniere. *Professore Straordinario in Diritto Processuale Penale Comparato Ma il Csm di Palamara già 7 anni fa gridava “basta porte girevoli” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 11 febbraio 2022 Arriveranno oggi in Consiglio dei ministri gli emendamenti alla riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm. Lo hanno stabilito il premier Mario Draghi la ministra della Giustizia Marta Cartabia dopo aver effettuato nei giorni scorsi un ultimo giro di consultazioni con i rappresentanti dei partiti che sostengono il governo. Uno dei temi maggiormente dibattuti è il rapporto fra toghe e politica. Lo slogan più gettonato di queste settimane è stato, infatti, “mai più un caso Maresca”, riferendosi all’ex pm anticamorra della Dda di Napoli che si era candidato a sindaco, non venendo eletto, del capoluogo campano. Terminata l’aspettativa per la campagna elettorale, Maresca era tornato in servizio pur essendo il capo dell’opposizione a Palazzo San Giacomo. Va detto che da oltre venti anni il Parlamento cerca di regolamentare le “porte girevoli” fra l’attività giurisdizionale e quella politica. È importante ricordare che, a parte i vari disegni di legge che sono stati presentati in questo ventennio e che non hanno mai visto la luce, il Csm aveva, nel lontano 2015, approvato all’unanimità un parere molto chiaro al riguardo. Come spesso capita ai pareri del Csm, però, non era stato preso in considerazione, rimanendo una interessante dichiarazione d’intenti. La Costituzione, ricordava il Csm, riconosce la particolarità del ruolo istituzionale dei magistrati, affidando alla legge la possibilità di limitarne il diritto di iscrizione ai partiti politici, ma nulla dice circa la possibilità di limitarne il diritto di partecipare, come candidati, alle elezioni politiche e/ o amministrative, o di assumere incarichi di governo a livello nazionale o locale. Né si esprime in merito alla possibilità di limitare o vietare per legge il rientro in ruolo dei magistrati che abbiano ricoperto cariche elettive. In altri termini, il magistrato gode, come cittadino, di tutti i diritti politici. Fatta questa premessa, il punto dolente era il non aver mai previsto una aspettativa obbligatoria per la toga che avesse assunto incarichi politico- amministrativo elettivi presso gli enti locali territoriali quali quelli di sindaco, presidente della provincia o della regione, consigliere comunale, provinciale e regionale, presidente o consigliere circoscrizionale, o l’incarico di assessore. Il magistrato poteva e può, ad oggi, proseguire contemporaneamente nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali con il solo limite della diversità degli ambiti territoriali. Come per Maresca che è adesso in servizio a Campobasso. Tale contestualità funzionale, proseguiva il Csm “è sicuramente in grado di inquinare l’immagine del magistrato che operi contemporaneamente in due settori della vita pubblica tanto diversi e ontologicamente alternativi”. I ‘ suggerimenti’ del Csm erano chiari: aspettativa obbligatoria per i magistrati che si fossero trovati nelle predette condizioni e divieto di accettare la candidatura nel posto dove avessero esercitato le funzioni prima che fosse trascorso un congruo periodo di tempo. Il parere, poi, indicava come non inconcepibile un divieto di ritorno alle funzioni giurisdizionali per gli eletti, sia al Parlamento sia a un Consiglio comunale. E, ancora, metteva paletti molti stringenti per agli assessori cosiddetti ‘ esterni’, cooptati dal leader regionale o locale di turno, nel momento dell’assunzione dell’incarico, prevedendo cautele temporali più robuste per fugare il sospetto che funzioni giudiziarie precedentemente svolte avessero determinato la ‘ chiamata’ da parte di titolari di cariche politiche. Un aspetto, da quanto è dato sapere, non affrontato dalla riforma Cartabia e stigmatizzato dal deputato Enrico Costa (Azione) che ha già annunciato propri emendamenti. “E non dimentichiamo le toghe che svolgono incarichi fiduciari, tecnicamente si definiscono di diretta collaborazione, con esponenti politici di primo piano, come ad esempio i capi di gabinetto ed i capi degli uffici legislativi nei ministeri o nelle Regioni. Vengono scelti dal politico di turno, vanno fuori ruolo per il periodo del mandato, poi tornano serenamente nei Tribunali”, ha anche ricordato Costa. Il parere del Csm terminava suggerendo la soluzione a tutti i problemi: “Il transito, alla fine della esperienza politica, nei ranghi dell’Avvocatura dello Stato o della dirigenza pubblica” o al più “l’esercizio delle funzioni giudicanti, con la previsione dell’obbligo di degnazione a funzioni collegiali”. Il Csm di Luca Palamara aveva visto lungo. Chissà perché la politica ci arriva 7 anni dopo. Mattarella, la giustizia e lo “strabismo” politico di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 11 febbraio 2022 Il discorso ecumenico di Sergio Mattarella, in occasione del suo nuovo insediamento alla Presidenza della Repubblica, ha colpito non solo per i suoi contenuti, ma anche per la mole imponente di applausi rovesciata su di lui dal Parlamento in seduta comune che lo aveva appena rieletto. Le interruzioni per “acclamazione” sono state oltre 50, con una serie di prolungate ed entusiastiche standing ovation in piedi. La sfrenata - si può dire? - esultanza dei nostri politici lascia trasparire con tutta evidenza stati d’animo singolari. Nel senso che sembrano essere stati più che altro comodi applausi di autoassoluzione e autoassicurazione, una sorta di deresponsabilizzazione di sé con contestuale scarico di ogni responsabilità sulle spalle larghe del neoeletto. Con il pericolo, rilevato da alcuni acuti osservatori, che in questo modo si finisca per dar vita a una pericolosa “politicizzazione” del ruolo del capo dello Stato, a scapito delle sue peculiari funzioni di garanzia. La più clamorosa, pressoché interminabile standing ovation si è avuta quando il presidente (secondo alcuni cronisti) ha preso a schiaffi la giustizia italiana. Ora, è vero che Mattarella ha detto al riguardo cose anche giuste e certamente forti (tra l’altro riprendendo alcuni concetti già esposti, per esempio al Csm), ma è non meno vero che si è determinata una situazione quasi surreale: nel senso che ad applaudire senza freni Mattarella, mentre parlava di degenerazione e perdita di credibilità della magistratura per la diffusione delle “appartenenze”, causa delle degenerazioni correntizie, c’erano anche i moltissimi politici che non hanno avuto mai nulla da ridire dei loro colleghi che hanno svolto un ruolo attivo nella riunione all’Hotel Champagne con Palamara. Per cui, va bene (si fa per dire) lapidare la magistratura, ma anche in questo caso dovrebbe valere il detto evangelico “chi è senza peccato scagli la prima pietra” (o il primo applauso…). Più in generale non si può fare a meno di osservare che la sacrosanta richiesta di riforma del sistema elettorale del Csm dovrebbe - per coerenza logica e buon senso comune - investire non soltanto la componente togata (i magistrati) ma anche la componente laica (avvocati e professori universitari, talora politici e persino parlamentari in carica), eletta dal Parlamento con puntigliosa e unanime applicazione della spartizione prevista dall’intramontabile manuale Cencelli. Anche questa “appartenenza”, in un organo di “governo autonomo” della magistratura, dovrebbe preoccupare, o no? Invece nessuno ne parla: men che mai i politici che si spellano le mani se a essere attaccati sono quegli antipatici dei magistrati. Figuriamoci poi gli epigoni di Berlusconi, da sempre all’avanguardia nella delegittimazione pregiudiziale dei giudici, soprattutto quelli che abbiano avuto la cattiva sorte di doversi occupare professionalmente di Lui o di suoi sodali. Del resto, gli attacchi alla magistratura ordinaria e in particolare al suo Csm (per le cui innegabili gravi disfunzioni ci vorrebbero vere riforme e non blitz punitivi o l’incostituzionale sorteggio) possono persino risultare, in buona sostanza, discriminatori e strumentali: se si pensa a quanto denunziato da Sergio Rizzo a proposito della magistratura amministrativa (Tar e Consiglio di stato) nel saggio Potere assoluto edito da “Solferino”. Dove, tra l’altro, si legge che - le citazioni sono tratte da una recensione di Luca Fazzo - i giudici amministrativi “da una parte si muovono al di fuori di ogni controllo, rendendo conto solo a se stessi; dall’altra sono però legati da un cordone ombelicale al mondo della politica”. Perché i giudici amministrativi sono “in buona parte dei ministeri e del governo”. Sono “dentro gli uffici legislativi dei ministeri, scrivono le norme che essi stessi sono poi chiamati ad applicare; le loro carriere incrociano quelle della politica e ovviamente ne vengono condizionate”. Anche qui con tanto di “porte girevoli”, cioè di giudici amministrativi che vanno in politica e poi tornano a rimettersi la toga. Con il tocco finale di un Csm dei giudici amministrativi (il Consiglio di presidenza) che presenta storture molto simili a quelle del Csm ordinario. Eppure tutto questo non allarma nessuno. Fulmini e saette sulla giustizia ordinaria e silenzio assoluto invece sui problemi che pone quella amministrativa. Altro che la classica pagliuzza contrapposta alla trave. Qui le travi sono due e meriterebbero di essere denunziate entrambe: senza strabismi. “Non è l’appello il buco nero della prescrizione: serviva una riforma penale diversa” di Valentina Stella Il Dubbio, 11 febbraio 2022 “Note in tema di prescrizione e di efficienza del processo”, a cura di Francesco Trapella, avvocato e titolare di un laboratorio sulla violenza di genere all’Università di Chieti-Pescara, è la seconda puntata - dopo quella intitolata “Riforme, statistiche e altri demoni” con una intervista alla professoressa Cristiana Valentini di un approfondimento che la rivista giuridica Archivio penale sta portando avanti in tema di riforme. Se, numeri alla mano, la maggioranza delle prescrizioni arriva davanti ai gip e ai gup perché la riforma Cartabia ha toccato l’appello? La recente riforma del processo penale ha messo mano all’appello, come se il problema delle prescrizioni alloggiasse in quella fase. Lei ritiene che non sia così. Perché? La riforma Cartabia, come le precedenti Bonafede e Orlando, punta l’accento sui tempi dei giudizi di appello. Leggendo le dichiarazioni di chi, in Parlamento, promuoveva quegli interventi normativi viene esaltato il dato che, in un caso su quattro, le corti di secondo grado dichiarano la prescrizione e che tanto favorisce l’impunità di chi tenta di guadagnare un proscioglimento sfruttando l’affanno degli uffici distrettuali, a discapito dei più elevati principi di giustizia consacrati nella Costituzione. Eppure, se confrontiamo i numeri delle prescrizioni dichiarate nelle varie fasi del rito penale, ci si accorge che il fenomeno si presenta in modo senz’altro maggiore durante le indagini o nel corso del primo grado. Ci può spiegare bene: in quale fasi avvengono le maggiori prescrizioni? Esaminando il periodo tra il 2014 e il 2020, le sezioni Gip/ Gup dei tribunali hanno dichiarato una percentuale oscillante tra il 46% del 2019 e il 62% del 2014 di tutte le prescrizioni pronunciate nel Paese; per le sezioni dibattimentali del primo grado il valore è compreso tra il 19% del 2014 e il 27% del 2020; la restante parte - più o meno il 25% - spetta alle corti d’appello. E il dato conferma il trend del periodo precedente: basti pensare che nel 2004 l’ 87% delle prescrizioni fu dichiarato dalle sezioni Gip/ Gup e solo il 4% dalle corti di secondo grado. Insomma, è da vent’anni almeno che la maggioranza delle prescrizioni occorre davanti ai giudici delle indagini o dell’udienza preliminare. Questi dati come si spiegano e cosa ci dicono? Questi dati riflettono un quadro di sostanziale inefficienza che deriva dalla gestione delle indagini; è lì che si registrano ritardi importanti, che poi vengono ereditati dalle sezioni Gip/ Gup e dibattimentali, aggiungendosi alle criticità da cui, a propria volta, sono afflitte. L’obbligatorietà dell’azione penale impone di perseguire tutto; esistono, poi, prassi capaci di allungare i tempi: se una notizia di reato viene iscritta a mod. 45, può rimanere lì a tempo indeterminato e i termini per il compimento delle indagini iniziano a decorrere se e quando la notizia passa a mod. 21; trasferimenti, aspettative e collocamenti fuori ruolo dei magistrati, poi, riducono gli organici senza la certezza di un immediato turnover. Quindi non è colpa degli avvocati presunti azzeccagarbugli se i processi sono lenti? Direi di no. Nel 2019 una ricerca Ucpi rilevava come una delle più frequenti cause di rinvio fossero i vizi di notifica. Se lei immagina un procedimento in cui ad un paio di difetti di questo tipo, magari occorsi in udienza preliminare, si aggiungono due o tre congedi dei giudici dibattimentali affidatari del fascicolo, la prescrizione occorre senza che il difensore abbia assunto iniziativa di sorta. I rinvii e le lungaggini determinate dall’inefficienza degli uffici non sono mai addebitabili all’imputato. Peraltro non si dimentichi che la richiesta di un rinvio proveniente dalla difesa sospende il termine prescrizionale, quindi direi che le iniziative difensive hanno pochissima parte nel fenomeno di cui stiamo parlando. In base a quello che lei ci sta dicendo, abbiamo fatto una riforma partendo dal presupposto sbagliato. Come è possibile? Non una, ma almeno tre. E mi fermo agli ultimi cinque anni. Quel che è mancato è stata una visione organica del fenomeno processuale; si sono preferiti piccoli ritocchi e si è diffusa l’illusione che efficienza significhi tempi brevi a tutti i costi, anche a detrimento delle difese. Si è fatto leva su un sentimento “di pancia”, dell’uomo qualunque che vuole la testa del colpevole, sempre e comunque. Perché un colpevole deve esserci. Salvo rendersi conto di quanti e quali siano i problemi non appena, per ventura, sia coinvolto nel complicato meccanismo della giustizia penale, sia come accusato che come vittima. Qual è la lezione che l’equivoco delle ultime riforme dovrebbe lasciare alla politica? Probabilmente sarebbe stato bene, anzi sarà bene in futuro, rivedere l’obbligatorietà dell’azione penale, responsabilizzare la vittima estendendo i reati perseguibili a querela, depenalizzare e decriminalizzare, finalmente prendendo coscienza che non tutto può essere penale, e incentivare la mediazione attraverso la formazione di personale adeguatamente addestrato. Tutto questo richiede risorse che sarà indispensabile investire. Così come altrettanto pressante è il richiamo che giunge dai concorsi per l’accesso alla magistratura o dagli esami per l’abilitazione forense, che evidenziano diffuse carenze nella preparazione dei più giovani. Come vede, le questioni sono tante e tutte necessarie a garantire una giustizia di qualità. Ma quest’ultima riforma penale migliorerà o no il sistema giustizia? Sicuramente ci sono degli spunti interessanti, ma la sensazione è che si fraintenda ancora il concetto di efficienza. Anche l’improcedibilità in appello, al di là del dibattito sulla sua legittimità costituzionale, è una sorta di resa dello Stato dinanzi ad un processo inefficiente. Penso che sarebbe meglio indagare realmente le criticità del sistema e intervenire su di esse. Per esempio, nella riforma non c’è nulla che possa arginare le prassi di cui parlavamo, dell’iscrizione a mod. 45 o dell’avvio dell’inchiesta contro ignoti, magari per compiere attività che richiederebbero l’intervento delle difese senza, però, coinvolgerle. La riforma tace poi sull’organizzazione degli uffici dibattimentali: la soluzione ai frequenti cambi di giudice in corso di processo è stata individuata dalla giurisprudenza nel permettere al giudizio di proseguire indisturbato, senza permettere al nuovo giudice di acquisire le prove, con l’idea che debba accontentarsi dell’attività svolta dal predecessore. Ma io, come difensore, vorrei che a decidere fosse chi avesse seguito tutto il processo: è il principio di immediatezza, molto banalmente. Come vede, i temi sono tanti e sono tutti collegati: per dare risposta alla domanda di efficienza e di qualità nella giustizia bisogna prenderli tutti in considerazione, senza piccoli interventi qua e là, ma con una visione di insieme del procedimento penale, delle sue funzioni e delle sue attuali debolezze. Magistratura: più donne che uomini. I dirigenti però sono in maggioranza maschi di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 11 febbraio 2022 La fotografia del Dipartimento dell’Organizzazione giudiziaria arriva nell’anniversario del diritto a diventare magistrate per le donne, era il 1963. Le donne sono ora la maggioranza in magistratura. Su un totale di 9.624 magistrati in servizio, 5308 sono donne contro i 4316 ruoli ricoperti da uomini. Una percentuale pari al 55%. Il sorpasso viene segnalato dal Ministero della Giustizia sul proprio sito istituzionale. Il comparto “femminile” tuttavia resta al palo negli incarichi direttivi. Nei ruoli giudicanti (totale 247), per esempio, solo il 32% ricopre posizioni apicali contro il 68% degli uomini. Valori simili si trovano anche nel ‘semidirettivo’ dove la percentuale sale fino al 48% ma resta sempre sotto il 52% raggiunto dai colleghi maschi. Se guardiamo però ai magistrati ordinari i numeri cambiano: su 5.959 toghe 2.396 sono uomini e 3.563 donne, e cioè i maschi si fermano al 40% mentre le femmine salgono al 60%. Ugualmente per quanto riguarda gli incarichi direttivi dei magistrati requirenti (totale 176): a rivestire posizioni apicali è solo il 22% delle donne contro il 78% degli uomini. Mentre negli incarichi semidirettivi la percentuale delle donne cresce un pochino sino ad arrivare al 28%. Negli ordinari invece le donne tornano nuovamente in vantaggio sugli uomini: sono 1.000 contro 971, il 51% contro il 49%. Per quanto riguarda invece la distribuzione geografica il numero più alto di donne si registra al Nord dove sono 1.724 contro 1.259 uomini, pari cioè al 58% del totale. Segue il Sud con 2.093 donne e 1.607 uomini, pari al 57%. La percentuale invece è praticamente uguale al Centro dove le donne sono 1.180 e gli uomini sono 1.194, con un saldo minimo dunque a favore dei colleghi maschi. La fotografia stilata dal Dipartimento dell’Organizzazione giudiziaria arriva nel giorno in cui ricorre l’anniversario del diritto a diventare magistrate per le donne. Con la legge n. 66 approvata il 9 febbraio del 1963, infatti, venne stabilito anche per le donne il diritto di indossare la toga. A scandire la svolta è l’articolo 1 della legge che recita: “La donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la Magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge”. Lazio. Affettività nelle carceri, il Consiglio regionale approva presentazione proposta di legge consiglio.regione.lazio.it, 11 febbraio 2022 Il Garante dei detenuti della Regione Lazio, Anastasìa: “Le relazioni affettive delle persone detenute costituiscono un sostegno fondamentale nell’affrontare l’esperienza della carcerazione. Questa proposta di legge interviene su tare storiche del nostro sistema penitenziario” “Si tratta di una iniziativa legislativa importante, indicativa della attenzione istituzionale del Consiglio e della Regione Lazio alle condizioni di detenzione e ai diritti delle persone private della libertà”. Così Stefano Anastasìa, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, sulla mozione 552 del 17 dicembre 2021 approvata oggi dal Consiglio regionale, avente ad oggetto la presentazione al Parlamento di una proposta di legge sulla “Tutela delle relazioni affettive e della genitorialità delle persone ristrette”. La mozione, d’iniziativa del presidente, Marco Vincenzi, e dei vicepresidenti Devid Porrello e Giuseppe Emanuele Cangemi, è stata sottoscritta durante i lavori dell’Aula anche dalle consigliere Marta Bonafoni, Marietta Tidei, Michela Califano, Marta Leonori e dai consiglieri Alessandro Capriccioli, Loreto Marcelli, Giuseppe Simeone, Mauro Buschini, Orlando Tripodi, Valerio Novelli è stata approvata con 24 voti a favore un astenuto. La proposta di legge allegata alla mozione prende le mosse dalla ricerca dell’Università di Cassino e del Lazio meridionale, realizzata con la condivisione e il supporto del Garante dei detenuti e della Presidenza del Consiglio regionale, “Affettività e carcere. Un progetto di riforma tra esigenze di tutela contrapposte”, presentata in sala Mechelli lo scorso 30 novembre. “Le relazioni affettive delle persone detenute - prosegue il Garante Anastasìa -, che costituiscono sostegno fondamentale nell’affrontare l’esperienza della carcerazione e il principale tramite con il mondo esterno e per il reinserimento sociale a fine pena, sono state messe a dura prova da questi due anni di pandemia. La proposta di legge indirizzata oggi dal Consiglio regionale del Lazio al Parlamento nazionale - grazie al prezioso contributo dell’Università di Cassino e della dottoressa Sarah Grieco, che ne ha coordinato il gruppo di lavoro dedicato - interviene su tare storiche del nostro sistema penitenziario (l’impossibilità di coltivare relazioni intime e sessuali, la limitatezza dei tempi di comunicazione telefonica, l’impossibilità per i detenuti di partecipare a momenti importanti della vita familiare, come una laurea o un matrimonio di un figlio o di un nipote) e assume la lezione della pandemia prevedendo la possibilità di sostituire alle telefonate i video-colloqui sperimentati in questi mesi. Si tratta di proposte in linea con quanto indicato dalla Commissione ministeriale per l’innovazione del sistema penitenziario e che si andranno ad aggiungere a quelle avanzate tempo fa dal Consiglio regionale della Toscana e già all’ordine del giorno del Senato. L’auspicio - conclude Il Garante Anastasìa - che possano essere esaminate e discusse in questa fine legislatura, anche come segno di attenzione alle persone detenute e alle gravissime condizioni di sofferenza a cui sono stati costrette da questi due anni di pandemia”. La mozione del Consiglio regionale Come previsto dall’articolo 121 della Costituzione e dall’articolo 23 dello Statuto della Regione Lazio, il Consiglio regionale ha così deliberato di presentare al Parlamento una proposta di riforma della normativa in materia di rapporti tra le persone detenute e i propri affetti. “Insufficienti sono considerati gli spazi verdi dotati di attrezzatura per bambini e i colloqui telefonici, di soli dieci minuti ciascuno, con costi sproporzionati e in assenza di privacy”, è quanto si legge mozione nella quale sono ricordati i risultati della ricerca svolta dall’Università di Cassino e del Lazio meridionale, in quattro istituti penitenziari del Lazio con interviste a oltre 200 detenuti e operatori penitenziari. “Inadeguati gli spazi per l’affettività - si legge ancora nella mozione -, inesistenti quelli per l’intimità, considerata dalle persone detenute fondamentale per preservare il rapporto con il proprio partner. Gestite da operatori esterni, sono a pagamento le email sia in uscita sia in entrata. Le restrizioni e i contatti con il mondo esterno sono considerati inadeguati dalla maggior parte delle persone detenute intervistate”. Il testo della proposta di legge La proposta di legge del Consiglio regionale, “Tutela delle relazioni affettive e della genitorialità delle persone ristrette”, si compone di cinque articoli ed è destinata a riformare le principali modalità di contatto dei ristretti con i propri affetti, intervenendo sulle norme della legge 354 del 26 luglio 1975 sull’ordinamento penitenziario e su quelle del relativo regolamento. Tra le modifiche che si vogliono introdurre, si disciplina innanzi tutto l’istituto della “visita”, in modo da garantire ai detenuti relazioni affettive intime e riservate, stabilendo che - si legge all’articolo 1, “i detenuti e gli internati hanno diritto ad una visita al mese, della durata minima di sei ore e massima di ventiquattro ore, delle persone autorizzate ai colloqui”. Pertanto, si propone l’allestimento di “apposite unità abitative, appositamente attrezzate all’interno degli istituti penitenziari, con percorsi dedicati ed esterni alle sezioni, senza controlli visivi e auditivi”, come si legge nella proposta di legge, in cui i detenuti possano coltivare il loro diritto all’affettività e alla sessualità, così come avviene in molti paesi europei, come Norvegia, Danimarca, Germania, Olanda, Francia, Spagna, Croazia e Albania. La proposta di legge del Consiglio regionale interviene anche sull’istituto del “permesso di necessità”, ripensando il beneficio, oggi previsto “per eventi di particolare gravità”, anche per circostanze importanti della vita familiare e quindi come mezzo trattamentale, per “favorire il mantenimento dei rapporti con la famiglia”, e introduce ex novo il “permesso familiare”, della durata non superiore a dieci giorni per semestre di carcerazione, che il magistrato di sorveglianza può concedere al condannato, per “coltivare specificamente interessi affettivi e da trascorrere con i soggetti autorizzati al colloquio”. Altra novità la uniformazione a 14 anni della soglia dell’età minorile massima per l’accesso a particolari facilitazioni nelle relazioni con i genitori detenuti, attualmente oggetto di una disomogeneità normativa che genera confusione. In materia di comunicazioni con l’esterno, s’intende estendere dagli attuali dieci a venti minuti il tempo massimo di durata delle telefonate, con frequenza non inferiore a tre volte a settimana e stabilire che il costo delle telefonate non siano più a carico delle persone detenute ma dell’amministrazione penitenziaria, oltre che ci siano una o più linee dedicate ai soli minori di anni 14 che vogliono mettersi in contatto con i propri genitori. Si mira infine all’istituzione in via definitiva del collegamento audiovisivo con tecnologia digitale, ampiamente utilizzato in via eccezionale durante la crisi sanitaria determinata dall’emergenza Covid-19, come modalità alternativa alla corrispondenza telefonica e di pari durata. Messina. Detenuta si uccide in cella dopo l’interrogatorio, inchiesta per istigazione al suicidio di Salvo Buttitta Corriere del Mezzogiorno, 11 febbraio 2022 La donna di 29 anni detenuta al carcere di Gazzi a Messina era coinvolta nell’inchiesta sullo spaccio di droga a Catania. Una donna di 29 anni si è suicidata nella sua cella del carcere di Gazzi, a Messina, dove era in custodia cautelare nell’ambito di un’operazione antidroga eseguita nei giorni scorsi a Catania. Per togliersi la vita ha usato le lenzuola. Era indagata per concorso in spaccio di sostanze stupefacenti. La 29enne era stata interrogata dal Gip per la convalida del provvedimento e aveva reso dichiarazioni spontanee. La Procura di Messina ha aperto un’inchiesta per istigazione al suicidio contro ignoti e disposto il sequestro della cella. I familiari della vittima sono assistiti dall’avvocato Enzo Mellia del foro di Catania. Un precedente: per un suicidio in cella nel 2001, sempre al carcere di Gazzi, c’è stata recentemente una sentenza della Corte di Strasburgo a favore dei familiari della vittima, benché la giustizia ordinaria italiana avesse scagionato da ogni responsabilità il penitenziario. Il blitz - E’ recente l’operazione antidroga tra Catania e Mascalucia. l carabinieri del Comando Provinciale di Catania hanno eseguito un’ordinanza nei confronti di 13 persone accusati a vario titolo di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti e spaccio. L’indagine ha riguardato il periodo da ottobre 2020 a maggio 2021. Tra i dodici soggetti colpiti dall’ordinanza cautelare, anche un’unica donna assieme al fidanzato, solo uno degli arrestati è stato sottoposto alla misura coercitiva degli arresti domiciliari. Quattro tra gli accusati sono risultati essere percettori del reddito di cittadinanza. Messina. Si impicca in cella il giorno dopo l’arresto, la famiglia chiede di indagare livesicilia.it, 11 febbraio 2022 Si è impiccata. Nella sua cella. Non aveva ancora 30 anni Manuela Agosta. Martedì notte è stata arrestata per spaccio nell’ambito di un blitz antidroga. È durata meno di quarantotto ore la sua vita da detenuta. L’estremo gesto è arrivato dopo l’interrogatorio di garanzia davanti al gip avvenuto - visto la pandemia- con collegamento da remoto. Pare che la giovane donna piangesse in continuazione, sin dal suo ingresso nella sezione femminile dellistituto penitenziario di Messina/Gazzi. Ieri sera è arrivata la telefonata dai vertici del carcere: “Sua figlia è deceduta, è stata trovata impiccata nella sua cella”. Un dolore infuocato per i genitori che questa mattina hanno depositato un esposto ai carabinieri di Catania e alla Procura della Repubblica di Messina chiedendo che “siano espletate indagini approfondite su tutti contorni della dolorosa vicenda”. La mamma e papà di Manuela hanno affidato l’incarico all’avvocato Vincenzo Mellia del foro di Catania. Qualora emergessero profili di reato i familiari chiedono di essere informati “di ogni attività istruttoria per l’esercizio dei nostri diritti”. La prima cosa da verificare è se la ragazza ha svolto il previsto colloquio psicologico di primo ingresso. Ma inoltre dietro questa vicenda ci sarebbero stati evidenti e documentati problemi di sofferenza psicologica della ventinovenne. Questa storia merita di essere approfondita. E la famiglia pretende giustizia. Il caso, intanto, ha sollevato il dibattito sulle scelte di applicazione della custodia cautelare in carcere per determinate posizioni e reati. Quello accaduto a Gazzi è il secondo suicidio avvenuto nelle carceri siciliane in pochi giorni. L’altro è avvenuto all’Ucciardone. Forse è tempo di rialzare le antenne sulla vita dietro le sbarre. Monza. Suicidio in cella, è giallo. I dubbi della direttrice sulla morte di un detenuto di Marco Galvani Il Giorno, 11 febbraio 2022 Un tunisino si sarebbe ucciso inalando il gas del suo fornelletto da campo Il sindacato di polizia penitenziaria denuncia: “Preoccupati dal disinteresse”. Si sarebbe tolto la vita nel bagno della sua cella, inalando il gas di un fornelletto. Quando il suo compagno di cella lo ha trovato riverso sul pavimento, ormai non c’era più nulla da fare. In ogni caso la Procura di Monza ha disposto l’autopsia per non lasciare dubbi sulla morte di un detenuto tunisino di 33 anni avvenuta la notte scorsa nella casa circondariale di via Sanquirico. “Non mi sento di affermare che si sia trattato di un suicidio, la magistratura farà in ogni caso chiarezza” dice però all’Agi la direttrice Maria Pitaniello. Secondo le prime indagini, coordinate dal pm Stefania Di Tullio, l’uomo - che avrebbe finito di scontare la sua condanna per omicidio nel dicembre del 2024 - è stato trovato riverso nel bagno della cella, il suo compagno di detenzione non si sarebbe accorto di nulla. Nel cestino accanto al corpo è stata ritrovata una bomboletta di gas vuota. “È il secondo suicidio di un detenuto dall’inizio dell’anno a Monza, il decimo in Italia, e tutto questo nell’indifferenza sostanziale della politica, del ministero della Giustizia e del Governo - denuncia Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil Pa Polizia Penitenziaria. Mentre al Ministero si istituiscono commissioni dalla denominazione altisonante, i cui lavori spesso si perdono nei cassetti e di cui sarebbe interessante conoscere anche i costi, nelle prigioni sono ancora in uso i fornelletti da campo, quasi a confermare che si tratti di veri e propri campi di battaglia”. “Noi agenti siamo preoccupati dal disinteresse verso quello che accade ogni giorno all’interno del carcere - lamenta Domenico Benemia della segreteria regionale della Uil. Tra suicidi, anche tentati, e aggressioni verso il personale in divisa, c’è un allarme sociale che non vogliamo venga scaricato esclusivamente sulle spalle della polizia penitenziaria”. “Noi - conclude De Fazio - continuiamo a dire che bisogna smetterla con le chiacchiere e le passerelle e dare segno di presenza dello Stato con provvedimenti concreti ed emergenziali che si pongano l’obiettivo di rifondare il modello d’esecuzione penale, e riorganizzare, potenziandolo, il corpo di polizia penitenziaria”. E probabilmente, “più personale permetterebbe maggiori controlli”. In via Sanquirico sono in servizio 320 agenti. Certo, “con qualche sacrificio possiamo anche dire di non essere sotto organico, ma con una sezione in più da gestire (l’ex detentivo femminile che dovrebbe ospitare circa 90 persone a ‘custodia attenuata’) è necessario l’arrivo di almeno altri 30 agenti”. Partendo dal fatto che oggi nelle 16 sezioni del carcere di Monza ci sono oltre 600 detenuti, la metà stranieri. Duecento in più rispetto alla capienza regolamentare prevista dal Ministero. Palermo. Nuovo dramma all’Ucciardone: detenuto tenta il suicidio, è grave in ospedale Giornale di Sicilia, 11 febbraio 2022 Un altro detenuto del carcere Ucciardone trovato in cella con la corda attorno al collo, a distanza di 3 giorni dal suicidio del giovane di 25 anni. Ha tentato di togliersi la vita, ma gli agenti della polizia penitenziaria e i medici del carcere sono riusciti a togliergli il lenzuolo attorno al collo. L’uomo, 31 anni, è stato portato d’urgenza dal 118 all’ospedale Villa Sofia dove si trova intubato in condizioni critiche. Martedì scorso invece la tragedia in carcere non era stata evitata. Il giovane avrebbe scelto il momento del cambio turno degli agenti della polizia penitenziaria per compiere il suicidio. Il personale montante si è accordo di quel che era successo quando ha distribuito il cibo. Dall’Ucciardone hanno fatto sapere che si trattava di un ragazzo psicologicamente provato che era già seguito da figure professionali specifiche. L’inchiesta sul detenuto morto suicida martedì scorso - Sul caso del ragazzo morto suicida intanto è stata aperta un’inchiesta, come ha scritto ieri il Giornale di Sicilia, ma è al momento contro ignoti. Il pubblico ministero Vittorio Coppola darà incarico al medico legale di eseguire l’autopsia. Il giovane era in carcere per un cumulo pene, furti e rapine che gli erano costati una condanna che sarebbe terminata fra due anni e 8 mesi. Il legale dei suoi familiari ha fatto sapere come i parenti avessero da tempo lanciato l’allarme sulle sue condizioni. È emersa, infatti, la relazione di uno psicologo che aveva rilevato una “difficoltà psico-emotiva” e un “disturbo del comportamento”. A febbraio del 2020 era stato necessario un ricovero in ospedale, mentre il 28 aprile era partita un’istanza al giudice di sorveglianza per segnalare “condizioni di salute incompatibili col regime carcerario”. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha sottolineato che si trattasse di un detenuto a rischio ricordando che è il “nono suicidio del 2022. Faceva parte di quei detenuti cosiddetti problematici e a rischio suicidario a cui mancava poco per terminare la pena. Misure per il carcere e misure distensive per ridurre il sovraffollamento non sono più rinviabili”. Vibo Valentia. Focolaio Covid nel carcere, più di 80 detenuti positivi quicosenza.it, 11 febbraio 2022 Continuano ad aumentare i casi di contagio nel carcere di Vibo dove è attivo un focolaio di “vastissime proporzioni”. La moglie di un detenuto: “sono preoccupata e non posso neanche incontrarlo”. Sono più di 80, i casi di positività accertati nel carcere di Vibo Valentia dove è in atto focolaio da Covid-19. Molti di meno risulterebbero gli affetti da Coronavirus fra gli operatori. A segnalarlo è la segretaria regionale del sindacato UilPa, Francesca Bernardi, che ha scritto al direttore del carcere Angela Marcello, al direttore generale del Personale e delle Risorse del Dap Massimo Parisi, e al provveditore regionale Liberato Guerriero. “Si ha il forte timore - scrive - che i positivi al virus fra il personale potrebbero risultare molti di più se ci si sottoponesse al tampone, al pari di quanto si è fatto con i ristretti, non tanto e non solo ai fini diagnostici, ma soprattutto come misura di profilassi. È ormai risaputo, difatti, che il Covid-19, e particolarmente la variante Omicron, non produce sintomi o li produce in forma lieve in coloro che, come gli operatori penitenziari, abbiano completato il ciclo vaccinale”. “Ne consegue - riporta la nota - che eventuali positivi asintomatici potrebbero essere, loro malgrado, diffusori del virus con potenziali tragiche conseguenze sia per l’ulteriore espandersi della pandemia, anche in ambiente penitenziario, sia nel caso in cui dovessero infettarsi soggetti fragili o non vaccinati, come ad esempio gli stessi figli in tenera età degli operatori”. In questi casi la sottoposizione a tampone per accertare la negatività al Covid - sostiene la segretaria regionale Bernardi - rappresenta anche una misura utile al perseguimento della sicurezza e della salubrità sul luogo di lavoro e, come tale, non può certo essere ascritta a carico degli operatori”. “Chiediamo per queste ragioni - conclude Berbardi - eventuali interlocuzioni con le altre autorità competenti, sanitarie e non, affinché tutto il personale dipendente del carcere venga sottoposto a tampone per accertarne la negatività o meno al Coronavirus”. Il racconto della moglie di un detenuto - A scrivere alla nostra redazione per chiedere che vengano presi provvedimenti è la moglie di un detenuto: “i casi di positività continuano a salire velocemente, e ora ai detenuti starebbero facendo solo tamponi rapidi e non molecolari. Sono due mesi che i colloqui sono chiusi o che avvengono dietro ad un vetro”. “La situazione peggiora di giorno in giorno e mio marito ha un problema congenito al cuore. Nonostante abbia fatto richiesta di vaccino non gli è stato fatto ed ora é positivo. Eppure erano pochi i casi da inizio dicembre e avrebbero potuto fare qualcosa per evitare i contagi”. Referendum, alla Consulta il Risiko degli otto quesiti su eutanasia, fine vita e cannabis di Liana Milella La Repubblica, 11 febbraio 2022 Alla Consulta si sono già divisi i ‘compiti’. Gli otto referendum che martedì 15 febbraio approderanno al plenum dei 15 giudici costituzionali, sotto la nuova presidenza di Giuliano Amato, per deciderne il destino - ammissibili, in parte ammissibili, oppure del tutto da bocciare - hanno già un relatore. Uno per ciascun quesito, tranne in un caso. Dunque 7 relatori per 8 referendum. Al momento questa è l’unica certezza in una Corte blindata dove non trapela un fiato sui possibili esiti. “Saprete quando decideranno” è la secca risposta al tentativo di cavare qualche indiscrezione. E le decisioni, com’è ormai regola, saranno diffuse alla fine del conclave, ma non è detto che ciò avvenga nella stessa giornata. Dunque, a partire da martedì. La “squadra” - Cominciamo dall’unica certezza, i ‘padri’ e le ‘madri’ di ciascun referendum. Vediamo quelli che hanno la matrice Radical-leghista, riguardano la giustizia e rappresentano la sfida del duo Salvini-Bongiorno contro lo status quo. Il quesito sulla separazione delle carriere - ma meglio sarebbe dire sulla la separazione delle funzioni - è stato affidato al costituzionalista e appena nominato vice presidente Nicolò Zanon. Che ha in carico anche il referendum sull’elezione dei componenti del Csm. Mentre sarà il costituzionalista bolognese Augusto Barbera a occuparsi della responsabilità civile dei magistrati. Tocca alla lavorista e fresca vice presidente Silvana Sciarra la questione dei consigli giudiziari. Mentre l’altra vice presidente, l’amministrativista Daria de Pretis, affronterà il quesito sull’abolizione della legge Severino, lei che proprio su questa legge ha già scritto due sentenze confermandone la costituzionalità. Sarà il civilista in arrivo dalla Cassazione, Stefano Petitti, a trattare il tema dei limiti alla custodia cautelare. Mentre il lavorista della Suprema corte, Giovanni Amoroso, sarà il relatore sulla droga. E infine il referendum su cui c’è il maggior rumore mediatico - quello sull’eutanasia, ma vedremo che alla Consulta si viene bacchettati subito a chiamarlo così perché la sua definizione deve essere “omicidio del consenziente” come ha ordinato la stessa Cassazione dopo il vaglio di legittimità sulle firme - è affidato al costituzionalista della Sapienza Franco Modugno. “L’omicidio del consenziente” - L’Associazione Luca Coscioni di Filomena Gallo e Marco Cappato propone di ‘ritagliare’ l’articolo 579 del codice penale. Dedicato, appunto, al fine vita. Minuscoli interventi. Da un testo che dice: “Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni. Non si applicano le aggravanti. Si applicano le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: 1. contro una persona minore degli anni diciotto; 2. contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti;3. contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno”. Si passa a un testo che cambia solo nelle prime righe: “Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con le disposizioni relative all’omicidio”, mentre restano le indicazioni sulle possibili vittime. Scompare dunque la pena - da 6 a 15 anni - e il riferimento alle circostanze aggravanti. Come scrive la Coscioni “l’abrogazione dell’omicidio del consenziente non esplicherà effetti di depenalizzazione per fatti commessi contro persone che non abbiano piena coscienza della propria richiesta. La giurisprudenza sull’articolo 579 del codice penale è sempre stata univoca su questo punto, che dunque non può e non deve essere strumentalizzato dai detrattori del referendum. Infatti viene sempre applicato il reato di omicidio doloso nelle ipotesi in cui il fatto sia commesso nei confronti di una persona inferma di mente o in condizioni di deficienza psichica per altra infermità. A viziare il consenso è sufficiente anche una momentanea diminuzione della capacità psichica che renda il soggetto non pienamente consapevole delle conseguenze del suo atto, come appunto uno stato depressivo o una nevrosi momentanea”. Ma chi è contrario al referendum sostiene che un intervento sull’articolo 579, eliminando qualsiasi cautela, possa portare a una dilatazione eccessiva dell’aiuto al suicidio attraverso l’intervento di una terza persona. L’aiuto, in questo caso, potrebbe trasformarsi in una vera e propria iniziativa del terzo, seppure con il consenso della persona che vuole morire. La Corte riconosce la non punibilità dell’aiuto al suicidio solo quando chi lo chiede è in condizioni di salute particolarmente gravi e ormai vicino alla morte. Mentre - sostengono gli avversari del referendum - modificando l’articolo 579 solo con un taglio, si rischia di estendere la possibilità di una richiesta a una terza perdona di uccidere solo in base a un consenso e non alle condizioni in cui mi trovo. Ma come le pensano i giuristi? Ha degli evidenti dubbi il costituzionalista ed ex presidente della Consulta Giovanni Maria Flick che dice a Repubblica: “Non faccio previsioni sull’ammissibilità o meno di questo referendum perché non rientra nelle mie competenze, e per il rispetto che devo alla Corte, ma rilevo solo che c’è una contrapposizione estremamente negativa tra chi vuole eliminare le restrizioni che la Corte ha introdotto per le ipotesi di aiuto al suicidio e chi invece chiede di ritornare a un divieto totale di aiuto al suicidio. Con il referendum, a mio avviso, si apre la via a una facilitazione dell’eutanasia senza limiti tranne quello del consenso valido della persona. Perché le ipotesi di aiuto sono previste dalla Corte solo nei famosi quattro casi. E non basta semplicemente il valido consenso da parte di chi chiede a una terza persona di ucciderlo. Per intenderci, aiutare colui che vuole uccidersi rimane, anche per la Corte, un reato. Che non viene punito solo in certi casi particolarmente gravi. Invece il taglia e cuci proposto con il referendum all’articolo 579 esclude la possibilità di ricorrere ai paletti previsti dalla Corte. Il referendum propone in sostanza di sostituire i quattro paletti con il solo consenso del paziente al suo omicidio da parte di un terzo. A meno di ricorrere a interpretazioni molto problematiche e discutibili di estensione di quei paletti anche per l’articolo 579”. Non la pensa diversamente Nello Rossi, per anni pubblico ministero a Roma, oggi in pensione e direttore di Questione giustizia, la rivista giuridica online di Magistratura democratica, che ha appena riproposto tre articoli dedicati a un’analisi dettagliata dei referendum e delle conseguenze sul quadro giuridico qualora venissero approvati, e in particolare a quesito sull’omicidio del consenziente. Come scrive lo stesso Rossi “l’orgogliosa riaffermazione del principio di piena disponibilità della propria vita e di un diritto a morire non può rispondere da sola alla reale aspettativa dei cittadini: ricevere dalle istituzioni un’effettiva e tempestiva assistenza medica che sollevi la libera e consapevole decisione di porre termine all’esistenza da un carico di sofferenze ulteriori rispetto a quelle derivanti da malattie inguaribili”. Scrive ancora Rossi: “La lettura del quesito referendario e la constatazione dei suoi potenziali effetti rivela il solco profondo che esiste tra la rappresentazione mediatica dell’iniziativa e la sua effettiva portata, e dunque tra ‘desiderio politico e razionalità sociale e giuridica”. Alla fine la Consulta dovrà decidere se l’articolo tagliato “liberalizza” oltre misura l’aiuto al suicidio al punto da rendere la norma incostituzionale e quindi il quesito inammissibile. I referendum radical-leghisti sulla giustizia - Matteo Salvini e Giulia Bongiorno presentano i sei referendum condivisi con il Partito Radicale come la chiave di volta per cambiare la faccia della giustizia. Appena una settimana fa Salvini ne parlava così: “Se ci sarà l’ok della Corte costituzionale sui quesiti referendari si andrà a votare, credo in primavera. E sarà un banco di prova per una riforma della giustizia che ci porta sul modello occidentale con la responsabilità civile diretta dei magistrati e con la separazione delle carriere”. La stessa Bongiorno, con Repubblica, ha parlato di referendum che possono garantire “il recupero di credibilità del sistema passando attraverso svolte coraggiose”. Il quesito sulla separazione delle carriere è molto lungo e interviene su ben cinque differenti leggi, con l’obiettivo di cancellare del tutto la possibilità per i magistrati di passare dalla carriera di giudice a quella di pm e viceversa. Oggi questo è possibile per quattro volte, ma già con la prossima riforma del Csm della Guardasigilli Marta Cartabia, che interviene con emendamenti sul ddl del suo predecessore Alfonso Bonafede, il passaggio possibile diventa uno solo, mentre Bonafede ne prevedeva due. Sulla responsabilità civile “diretta” per i giudici, il referendum vuole cancellare l’attuale responsabilità civile “indiretta”, in cui a pagare per eventuali errori giudiziari delle toghe è lo Stato, per addossarla economicamente sulle spalle del giudice che sbaglia. È un tratto di penna invece il quesito referendario sulla legge Severino - approvata dal governo Monti, con la Guardasigilli Paola Severino e il ministro per la Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi - cioè sulle incandidabilità e decadenze degli esponenti politici impegnati nelle istituzioni. Il quesito però non vuole cancellare del tutto il decreto legislativo della ex ministra della Giustizia del 31 dicembre 2012. Via dunque l’incandidabilità e la decadenza per i parlamentari nazionali ed europei e per gli uomini di governo in caso di condanna a più di due anni. Ma via anche l’obbligatoria sospensione per gli amministratori locali anche di fronte alla sola condanna in primo grado. In controtendenza con la linea leghista del “tutti in galera”, sulla custodia cautelare qui prevale l’imprinting dei Radicali. Tant’è che il quesito limita la possibilità di ottenere la custodia cautelare ed elimina quella per i delitti puniti nel massimo a 4 anni, e fino a 5 anni nel caso ci sia il ricorso al carcere. Niente custodia cautelare, guarda caso, anche per il delitto di finanziamento illecito dei partiti. Gli avvocati spuntano una vittoria per loro molto importante. Libertà di presenza, e anche di voto, nei consigli giudiziari per gli avvocati, che oggi godono del solo “diritto di tribuna” e quindi non possono intervenire e votare anche sulle valutazioni di professionalità dei magistrati in vista della loro carriera e dei futuri incarichi al Csm Infine viene presentata, come una proposta anti-decisamente correnti, il mini quesito sull’obbligo di raccogliere le firme per la norma della legge elettorale del Csm del 1958. L’incertezza che consente di presentare le candidature per diventare consigliere del Csm raccogliendo le firme dei colleghi da un minimo di 25 a un massimo di 50. La cannabis in giardino - Infine l’ultimo referendum, quello sulla coltivazione della cannabis, depenalizzato ma solo a patto che la sostanza non sia destinata allo spaccio. Promosso dall’Associazione Coscioni, dai radicali e da Meglio legale, il quesito cancella il reato di coltivazione della cannabis, di conseguenza sopprime le pene detentive, da due a sei anni, ed elimina anche il ritiro della patente, ma ovviamente solo per chi coltiva le pianticelle. Se la Corte dovesse accettare i tre punti la conseguenza sarebbe quella che non ci saranno pene per chi coltiva la cannabis, mentre tutti gli spacciatori saranno sempre perseguibili. La posta in gioco dei referendum di Francesco Bei La Repubblica, 11 febbraio 2022 La Consulta e gli otto quesiti su diritti e giustizia. Superata la boa del Quirinale, con l’amministrazione del Pnrr lasciata nelle mani di Mario Draghi, le forze politiche hanno concentrato l’attenzione su un appuntamento decisivo ma quasi scomparso dal dibattito quotidiano. Martedì prossimo, infatti, i 15 giudici della Corte costituzionale, guidati ora da Giuliano Amato, dovranno vagliare l’ammissibilità di 8 quesiti referendari. Una riunione che tiene tutta la politica e i vertici istituzionali con il fiato sospeso perché, da quella decisione, potranno derivare a caduta conseguenze molto rilevanti. Parliamo anzitutto del tema della giustizia, oggetto di sei quesiti su otto, quelli presentati dal partito radicale e dalla Lega. Proprio oggi la ministra Cartabia porterà in Consiglio dei ministri la versione definitiva degli emendamenti al ddl di riforma del Csm incagliato in Parlamento dal 2019. Basta leggere le anticipazioni per capire quanto la “riforma” Cartabia sia ben poca cosa rispetto allo tsunami che investirebbe la magistratura con l’approvazione dei sei quesiti, primi fra tutti quelli sulla separazione delle carriere, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alla custodia cautelare, l’abrogazione della legge Severino. Tuttavia, al di là del merito dei quesiti, la questione più importante da sollevare alla vigilia della riunione della Consulta è un’altra. E ha a che vedere con quella crisi della democrazia così acutamente analizzata di recente dall’Economist. Anche in Italia i segnali di una crescente disaffezione verso la rappresentanza democratica abbondano da anni, solo a volerli vedere. Ci eravamo quasi dimenticati della scarsa partecipazione al voto nelle ultime amministrative di ottobre, che è arrivata la gelata delle suppletive nel centralissimo collegio elettorale della Capitale, dove ha votato soltanto l’11 per cento degli aventi diritto. Se i giudici costituzionali consentissero al popolo di esprimersi sui referendum, si aprirebbe nel Paese un vivace dibattito pubblico, le forze politiche si dividerebbero, com’è normale che sia, anche al loro interno; sarebbe una grande festa di democrazia e partecipazione. Pensiamo ai due referendum sui “diritti”: il primo prevede la depenalizzazione della coltivazione e del consumo personale della cannabis (resterebbe punito lo spaccio), il secondo legalizzerebbe in Italia l’eutanasia a tre anni dal caso di dj Fabo. Sono quesiti che hanno ricevuto un importante sostegno tra i più giovani, corsi in massa a firmare anche online: il referendum sull’eutanasia è stato sottoscritto da un milione e duecentomila persone, quello sulla cannabis da 630 mila. In tempo di disimpegno dei giovani, di chiusura “causa Covid” delle piazze, salvo la recente mobilitazione studentesca, sarebbe davvero uno spettacolo assistere a un risveglio democratico di ragazze e ragazzi rimasti da anni in una sorta di ibernazione civile. Se ammessi i referendum sarebbero votati in primavera, in una domenica tra il 15 aprile e il 15 giugno. Sarebbe ragionevole prevedere a quel punto un election day per abbinare i quesiti alle amministrative che coinvolgono un migliaio di Comuni. E sarebbe divertente scommettere se, una volta tanto, fossero i referendum a trainare l’affluenza alle urne per le amministrative, anziché il contrario come vuole la vulgata. E veniamo alle possibili conseguenze politiche, quelle che interessano di più i partiti. Certo, è prevedibile che il risultato referendario abbia l’effetto di uno scossone su tutto il sistema. Ma si sbaglierebbe a dare per scontata una crisi della maggioranza e quindi un pericolo per il governo Draghi. L’esecutivo è neutrale, non è affatto coinvolto nella campagna, nessuno degli otto referendum cancella una legge dell’agenda Draghi, nessuno conosce il pensiero del presidente del Consiglio sui singoli quesiti. Se sui diritti civili e sulla giustizia le forze politiche sono paralizzate dai veti reciproci - come si è visto sul disegno di legge Zan - perché dovrebbe essere visto come un pericolo lasciare che a sciogliere questioni di coscienza siano finalmente i cittadini? Al contrario, il sistema si riconnetterebbe con la base e la democrazia farebbe un passo in avanti. Sperare che in questo Parlamento accada il miracolo è una pia illusione. Lo abbiamo appena constatato con l’ennesimo rinvio sulla legge per il “suicidio assistito”, che vede gli stessi numeri di blocco del ddl Zan. Dunque auguri ai giudici che martedì si chiuderanno in camera di consiglio. Ricordando a noi stessi che l’articolo 75 della Costituzione dice che sono inammissibili soltanto i referendum “per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”. Altro la Carta non aggiunge. Per citare il Vangelo di Matteo, “il di più viene dal Maligno”. Eutanasia legale e non solo. Quesiti per la vita del Paese di Filomena Gallo Il Manifesto, 11 febbraio 2022 La Carta costituzionale ricorda che l’inammissibilità dei referendum è l’eccezione che conferma la regola. Il “popolo sovrano” può farsi legislatore, uno dei lasciti più politicamente significativi della nostra Costituzione che fu pensato per creare un contrappeso all’iperazione - o inazione - di Parlamento o Governo su determinate questioni. L’aver previsto questo istituto di democrazia diretta ha posto l’Italia all’avanguardia tre le democrazie nella partecipazione popolare del governo del Paese, la storia della Repubblica ci ricorda che importanti conquiste sociali e di libertà come divorzio e aborto sono state confermate per via referendaria, mentre altre riforme strutturali, quasi sempre grazie alla leadership di Marco Pannella, sono state conseguite grazie al ricorso referendario. Una, nel 1993, anche sugli stupefacenti. Il referendum è fondamentale per esercitare la nostra sovranità, la sua natura di attivatore della democrazia è annunciata già dall’articolo 1 della Costituzione che stabilisce che “la sovranità appartiene al popolo che la esercita nei modi e nei limiti della Costituzione”. L’esordio della nostra Carta è la lente attraverso cui va letta la portata dello strumento referendario codificato poi all’articolo 75. Tra gli otto quesiti su cui la Corte costituzionale si pronuncerà a seguito di udienza del 15 febbraio ce n’è uno che riguarda una parziale modifica dell’articolo 579 del codice penale, il cosiddetto “omicidio del consenziente”, promosso dall’Associazione Luca Coscioni. In quello stesso giorno, dopo anni di tentennamenti, false partenze, rinvii, polemiche o ingerenze di ogni tipo, l’Aula della Camera discuterà una norma sul fine vita. Una legge che però non affronta quanto previsto dal referendum e che, allo stato attuale, non rispecchia neanche quanto previsto dalla sentenza Cappato-Antoniani emanata dalla Consulta nel 2019. La forza modificativa del referendum si esplica tramite l’abrogazione di una o più disposizioni vigenti escludendo “creazione” normativa. Il quesito che abbiamo chiamato “Eutanasia legale” su cui sono state raccolte oltre 1.240.000 firme è stato predisposto tenendo conto dei rilievi della Corte costituzionale sul tema del fine vita e mantenendo tutte le tutele verso le persone vulnerabili, lasciando intatta quella che alcuni hanno chiamato “tutela minima” della vita che deve essere tutela massima se non è scelta consapevole della persona. Si abroga solo parzialmente l’articolo 579 del codice penale. Da quando ormai quattro anni fa Marco Cappato accompagnò Fabiano Antoniani in Svizzera per ottenere il suicidio assistito, l’Italia ha finalmente affrontato il tema del fine vita che per anni era restato un tabù, anche grazie a lui abbiamo una legge sul cosiddetto “testamento biologico”. Il clamore della richiesta di eutanasia di Piergiorgio Welby, che tanto mosse anche il Presidente Napolitano nel 2006, fu velocemente silenziato anche a causa della scarsa propensione dei media, in particolare della TV, ad affrontare laicamente i temi che attengono all’autoderminazione personale in momenti drammatici delle nostre esistenze. Si spettacolarizza il dolore fine a se stesso per commuovere l’audience senza approfondire cause o rimedi che potrebbero suscitare reazioni civiche riformatrici. Il referendum ha la funzione di garantire la costante rispondenza della legislazione nazionale agli interessi e alle necessità della collettività - fungendo da strumento di controllo sulle disfunzioni legislative del Parlamento e da contrappeso all’arbitrio delle maggioranze - e di tutelare il pluralismo di forze politiche e sociali che si adoperano per non convivere con decisioni spesso liberticide. Nel 2021, caso pressoché unico nel mondo democratico, l’Italia ha consentito anche la raccolta di firme per via digitale; la prima raccolta è avvenuta per il referendum sull’eutanasia e, anche se lanciata il 12 agosto e senza particolare visibilità, sono arrivate oltre 400.000 firme in un paio di settimane! Parte della dottrina costituzionalistica sostiene che l’esito del referendum dovrebbe avere garanzie che tutelino la volontà popolare, quantomeno in merito all’oggetto del quesito, tenendo al riparo il risultato da interventi volti ad annullarlo. La Costituzione ricorda che l’inammissibilità dei referendum è l’eccezione che conferma la regola. Le dinamiche parlamentari relative alla legge Zan, al suicidio assistito e da ultimo le schermaglie sull’elezione del Presidente della Repubblica segnalano una crisi istituzionale che ha messo in dubbio la credibilità delle Camere. La stagione referendaria diventa quindi centrale per riaccendere il dibattito pubblico e la partecipazione popolare alla vita del Paese. Partire dalla possibilità di scegliere di porre fine alla propria vita non è necessariamente incoerente con questo stato di cose. Democrazia digitale, online il referendum sulla cannabis. Rivoluzione o no? di Chiara Palumbo Corriere della Sera, 11 febbraio 2022 Alla prima raccolta online della storia italiana raggiunte 630mila firme (al 70% di persone sotto i 35 anni) in una settimana, già validate dalla Cassazione. Soldo (Meglio legale): “Troppo facile partecipare? Era ingiustamente difficile prima”. E Bonino: “Questa è una nuova stagione politica, se i partiti sapranno coglierla”. Seicento trentamila firme in una settimana, il 70% di persone sotto i 35 anni. Sono i numeri della risposta alla prima chiamata online di sempre per indire il referendum sulla legalizzazione della cannabis. Cifre di cui “si meraviglia, relegandolo a un fenomeno spiegabile solo con la tecnologia, solo chi questo Paese non è più capace di ascoltarlo, chi ha smesso di tendere l’orecchio”. Concordano Antonella Soldo, portavoce della campagna Meglio Legale, ed Emma Bonino. Lo scorso 12 gennaio la Cassazione ha validato le firme: il referendum può essere convocato. Di consultazioni dirette parla la senatrice, volto simbolo della stagione che ha consegnato all’Italia il diritto al divorzio e all’aborto sanciti per legge, anche allora attraverso questo strumento. Conquiste impensabili per molti, eppure risultato di una presa di parola collettiva che segnalava un cambiamento di sentire già avvenuto. Passato e presente - “L’impressione” dice Emma Bonino “è che i timori dei partiti per la democrazia diretta del referendum siano rimasti gli stessi da quarant’anni: disturba il manovratore, che ripete “questa non è la priorità, non adesso”, mentre i numeri da soli raccontano un’urgenza da cui nemmeno la pandemia ha spostato l’attenzione”. Si è aperta, a quarant’anni dalla prima, una nuova stagione politica? “Se i partiti saranno in grado di coglierla”, risponde Bonino. Il risultato ottenuto da Meglio Legale segnala un cambiamento nel modo in cui si esprime la partecipazione collettiva. In attesa della Corte Costituzionale, chiamata entro il 15 febbraio al pronunciamento che permetterà di fissare la data del voto, secondo Soldo “si è creata una sorprendente convergenza superando le distinzioni partitiche”. Si sono unite ai proponenti oltre sessanta tra associazioni e rappresentanti di un arco parlamentare che va dai liberali alla sinistra. Bonino e Soldo sintetizzano con le stesse parole: “Si tratta di raccontare ai grandi partiti che c’è un modo nuovo di fare politica, a cui dovrebbero guardare. La disaffezione dei più giovani esiste. Ma oggi abbiamo messo uno strumento costituzionalmente previsto nelle loro mani e abbiamo spiegato loro come possono utilizzarlo”. Piazza online - Trovano così una nuova possibilità di essere protagonisti, che fa eco a quella di quarant’anni fa, in cui sono stati soprattutto loro, i ragazzi e le ragazze, a riempire le piazze. Ad aiutarli, oggi, è stata la possibilità di votare online, “che ha messo l’abitante del centro di Milano e quello del paesino di mille abitanti nella stessa condizione di agire la propria partecipazione”, rivendica Soldo. Una modalità più vicina a una generazione abituata a sentirsi poco o nulla coinvolta dalla politica, ma che ne ha fatto, dicono i proponenti, la prima consultazione inclusiva. Ad aprire il varco un ricorso presentato all’Onu e accolto dal Comitato per i diritti umani, che ha ingiunto all’Italia di “rimuovere gli irragionevoli ostacoli che impediscono ai malati intrasportabili di esercitare i propri diritti di cittadini”. La spaccatura sulla cannabis - Dar forma a un referendum, prosegue Soldo, “non è diventato troppo facile: era ingiustamente difficile prima”. Dagli anni Settanta, dice Bonino, “sono cambiate le modalità, perché è cambiata la società, e gli strumenti con cui si vive la quotidianità”. D’altro canto, però, “resta identica la narrazione, il tentativo di contrapporre i bisogni dei lavoratori ai diritti civili, come se non avessero anche loro una vita fuori dalla fabbrica!”. Bonino ha l’amarezza di chi da quarant’anni ripete: “Mi sforzavo e continuo a sforzarmi di ricordare che la negazione dei diritti civili colpisce sempre i meno abbienti. Allora, se potevi permettertelo andavi ad abortire al sicuro, a Londra; se non avevi abbastanza denaro non ti restava che esporti ai ferri delle mammane”. Oggi come allora, i referendum sono diventati “uno strumento contro il dolore”. Di Mario, tetraplegico a cui l’Asl delle Marche ha riconosciuto il diritto di morire affermando - nella sintesi di Bonino - di non avere “il dovere” di ratificarlo. O di Walter De Benedetto, che ha diritto alla cannabis terapeutica (può essere prescritta legalmente dal 2006, ma la domanda supera di molto l’offerta) ma è stato processato (e assolto) per aver coltivato cannabis. Non voleva, ha spiegato, rivolgersi allo spacciatore. “È una tortura dissimulata” chiosa Bonino “obbligare le persone a un dolore che, lo disse il professor Veronesi, clinicamente non serve”. Il giro di affari - Inoltre l’industria della cannabis light è in enorme crescita, con oltre 200 milioni di utili nel solo 2020 e gli imprenditori temono di vedersi sequestrare il proprio sostentamento. Una legge del 2016 infatti, ha introdotto la cosiddetta cannabis legale, ma non disciplina la vendita di infiorescenza creando, secondo Soldo un “vuoto normativo in cui si inserisce la valutazione individuale delle singole forze dell’ordine”. La lezione dei primi referendum, secondo Bonino, avrebbe dovuto essere d’insegnamento: “Spesso si dimentica che sancire un diritto non obbliga nessuno a farne uso. E c’è ancora in molti l’idea che basti proibire perché il proibito non esista, nell’illusione di rimuoverlo negandolo anziché fare la fatica della legalizzazione”. Bonino e Soldo non hanno dubbi: “L’errore è il proibizionismo. Regolamentare permette da quarant’anni di affrontare i benefici ma anche i rischi di temi complessi come quelli oggetto di referendum, su cui la paura delle persone, i dubbi e le incertezze, vanno accolti, rispettati e spiegati”. Facendo tesoro dei precedenti. Aprire a qualcosa di più grave “è l’accusa che veniva mossa a divorzio e aborto” spiega la senatrice “e oggi lo si dice della cannabis”. Filiera controllata - Invece, insiste Meglio Legale, “quell’accusa va mossa al proibizionismo, perché lo spacciatore può vendere l’eroina insieme alla cannabis e certo non garantirà una informazione scientificamente valida”. Questo il punto centrale della campagna: dare anche alla cannabis, come all’alcool, una filiera controllata, permetterebbe di togliere risorse alle mafie. Dove la legge è più punitiva, infatti, i giovani che consumano cannabis acquistata al mercato nero - tagliata con piombo, lacca o lana di vetro - sono il doppio che in Paesi, come il Portogallo, in cui si sono aperte strade diverse: 14%, contro il nostro 33%. Sono ancora i ragazzi, i protagonisti. Oggi la loro voce corre in rete, e passa dagli influencer. “Se ne chiacchiera senza limiti, tra convegni del sabato sera e fake news”, dice Bonino. “Dove non se ne parla è invece in Parlamento”. Eppure, auspicano Bonino e Sordo “domani potremo guardare al presente che si esprime su cannabis, eutanasia e lotta alle discriminazioni, come a una nuova epoca di conquiste. Nel passato, i cambiamenti nel nostro Paese sono stati resi possibili da grandi movimenti di cittadini fuori da un Parlamento, allora come ora, altrettanto immobile e timido su temi avvertiti come prioritari. E cos’è la politica se non occuparsi dei diritti delle persone, della loro vita di ogni giorno?”. Cannabis. Le ragioni che il Parlamento non vuole ascoltare di Grazia Zuffa Il Manifesto, 11 febbraio 2022 Il referendum sulla cannabis si avvale della forte spinta sociale per un nuovo approccio di politica delle droghe: con buona pace di chi ha criticato la “democrazia del click”, il raggiungimento del quorum delle 500 mila firme in pochi giorni testimonia da sé la sensibilità politica sul tema. L’urgenza di una modifica legislativa scaturisce dal contrasto fra la crescente accettazione sociale dell’uso di cannabis (legata alla percezione diffusa di poter adottare modelli “controllati” d’uso) da un lato, e dall’altro la penalità forte e indiscriminata della normativa antidroga che il referendum del 1993 ha mitigato solo in parte. Quanto all’intervento della Corte Costituzionale del 2014 che ha abrogato buona parte della Fini-Giovanardi, esso ha fortunatamente ristabilito la distinzione nel trattamento penale fra droghe pesanti e leggere: un buon auspicio per il referendum oggi in campo, che si colloca sulla scia di quel pronunciamento, per distinguere ulteriormente i rischi delle diverse sostanze psicoattive. Alla base delle modifiche referendarie è il bilanciamento fra il (basso) rischio per la salute della cannabis e i danni acclarati di una penalità forte e indiscriminata, che nasce dall’impianto stesso della legge. Questa accomuna una pluralità di condotte illecite di diverso rilievo che si “appoggiano” sul semplice possesso di sostanza. Con ciò la repressione punta “al basso”: consumatori e piccoli spacciatori (perlopiù della sostanza meno pericolosa, la cannabis) sono i soggetti privilegiati nel mirino dei tutori della legge: per loro la giustizia è veloce, con condanne sicure e il carcere come destinazione preferita. Tale giudizio si basa sul monitoraggio della legislazione antidroga, condotto da un pull di Ong che ogni anno redigono i Libri Bianchi. Il XII Libro Bianco 2021 bene documenta la centralità della droga nell’attività della giustizia e delle forze dell’ordine: 235.174 procedimenti penali pendenti nel 2020, il dato più alto da 15 anni a questa parte; il 30, 8% degli ingressi in carcere avviene per violazione dell’art. 73 del Testo Unico sulle droghe. Non possiamo sapere quanti di questi ingressi riguardino la cannabis poiché i dati ufficiali non registrano le differenze fra le sostanze: questa assenza è di per sé sintomo di un preciso approccio ideologico e culturale, di indistinta “lotta alla droga”, al singolare. Un indizio della sproporzionata pressione sulla cannabis proviene dai dati circa le segnalazioni e le sanzioni amministrative: delle 31.000 segnalazioni nel 2020 - cifra ragguardevole specie se si considera che il 2020 è stato l’anno del lockdown - il 74,4% ha riguardato la cannabis. Dal 1990, un milione e trecentomila persone sono state segnalate per possesso di sostanze a uso personale, di cui quasi un milione (il 73,2%) per cannabis. Un bell’esempio di repressione verso i “pesci piccoli” è rappresentato dall’incriminazione di molti cannabisti “del balcone di casa”. La maturazione sociale sulla questione cannabis è stata accompagnata da un vasto movimento, di portata internazionale. Il conflitto fra i tough on drugs e i sostenitori delle mild policies si è consumato principalmente sul trattamento penale e sulla visione culturale della cannabis, negando da parte dei primi che si potesse parlare di “droghe leggere”. Non a caso l’allora vice premier Giancarlo Fini, nel 2003, scelse Vienna, sede del governo Onu delle droghe, per annunciare la svolta repressiva al grido di “la droga è droga”. In seguito, i referendum in 19 stati Usa hanno invertita la rotta, la cannabis è depenalizzata in molti stati europei e legalizzata in Canada e Uruguay. In Italia, la battaglia per decriminalizzare la cannabis (e depenalizzare il consumo di tutte le droghe) è stata condotta avendo come primo interlocutore il parlamento: una larga coalizione di Ong, fra cui quelle promotrici del referendum, si è cimentata nella stesura di proposte di legge in accordo con parlamentari disponibili a presentarle. Sono state raccolte le firme anche per una legge di iniziativa popolare. Solo che il parlamento non ha dato risposte. Se è vero che il referendum nasce in sinergia con l’iniziativa verso il parlamento, la vittoria potrebbe essere decisiva anche per vincere l’inerzia parlamentare. Cannabis. L’Onu: “Niente carcere per i reati senza vittime” di Leonardo Fiorentini e Marco Perduca Il Manifesto, 11 febbraio 2022 Dal 2016 l’Italia è rimasta al palo punizionista. Dei tre principi cardine, Roma ha praticato solo la flessibilità. La decisione della Corte costituzionale sul referendum cannabis cade in un momento storico in cui in seno alle Nazioni Unite, e a livello nazionale dentro e fuori l’Europa, l’approccio al controllo delle sostanze psicoattive illegali è in costante mutamento. Iniziato con la stagione referendaria che negli ultimi 10 anni ha portato 19 Stati Usa a legalizzare produzione, consumo e commercio della cannabis e derivati e proseguito con la regolamentazione legale in Uruguay nel 2014, in Canada nel 2018 fino a Malta all’inizio del 2022 il cambiamento è irreversibile. Il vero punto di svolta di questo processo riformatore è la seconda Sessione speciale dell’Assemblea Generale sulle droghe (Ungass) convocata dell’Onu nell’aprile del 2016. Nel documento finale del summit si riconosce che le Convenzioni internazionali “consentono agli Stati una flessibilità sufficiente per progettare e attuare politiche nazionali in materia di droga in base alle loro priorità e necessità”. La riunione Ungass doveva tenersi nel 2019; grazie all’insistenza di alcuni dei Paesi maggiormente colpiti dalla war on drugs l’Onu fu costretta ad anticiparla di tre anni. Oltre a lamentare la mancanza di risultati, Guatemala, Colombia e Messico ritenevano drammaticamente onerose, dal punto di vista umanitario ed economico, le politiche antidroga proposte da Pino Arlacchi all’Ungass del ‘98. Un cambiamento sostenuto anche dal Governo italiano di allora che chiedeva politiche basate su evidenze scientifiche. Questo mutato clima internazionale ha consentito l’accelerazione del lavoro del gruppo di esperti dell’Organizzazione mondiale della Sanità per rivedere la collocazione di alcune sostanze nelle tabelle delle Convenzioni. Dopo consultazioni pubbliche e un’attenta analisi dei più recenti studi, il 2 dicembre 2020 la Commissione droghe dell’Onu ha votato per cancellare la cannabis dalla Tabella IV della prima Convenzione, riconoscendone l’efficacia dell’impiego terapeutico e rimuovendola da quelle sostanze che in ragione delle “proprietà particolarmente nocive” devono essere sottoposte a “misure di controllo speciali”. La decisione, adottata a stretta maggioranza con il voto favorevole dell’Italia, rappresenta il primo caso di esclusione di una pianta dalle tabelle. “Alcuni Stati sono andati oltre quanto richiesto dai trattati sul controllo delle droghe in termini di criminalizzazione e sanzioni associate, mentre altri hanno dimostrato uno zelo eccessivo nell’applicare le previsioni di criminalizzazione”. Non è un’autocitazione ma quanto affermato dal gruppo di lavoro dell’Onu sulla detenzione arbitraria nel rapporto relativo alle politiche sulle droghe che pone l’accento sul bilanciamento tra il controllo internazionale delle droghe e il rispetto dei diritti umani. Mentre la media mondiale di detenuti per “droga” è del 21,65%, in Italia è quasi 36%. Un dato doppio della media europea (18%) e superiore a Messico (9,7%), Usa (20%), Colombia (20,7%) e Russia (28,6%). Lo scorso 10 dicembre, in occasione della giornata mondiale per i diritti umani, Jagjit Pavadia, Presidente dell’International Narcotics Control Board (Incb) ha chiarito che le Convenzioni sulle droghe non possono esser utilizzate come giustificazione del ricorso al diritto penale per governare “azioni che non hanno vittime”. La dichiarazione dei vertici dell’Incb conferma il cambio di rotta anche del più conservatore tra gli organi internazionali in materia di stupefacenti illeciti. In una nota per il rapporto sulla detenzione arbitraria, il Board ha inoltre specificato che “i trattati sul controllo delle droghe non richiedono che le persone che usano droghe, o quelle che commettono reati minori droga correlati, debbano essere incarcerati”. L’Incb sostiene infine che “un’infrazione punibile non necessita tuttavia (per gli obblighi derivanti dai trattati, ndr) di essere definita come reato e gli Stati possono adottare misure alternative alla detenzione. Ciononostante, l’ampio uso della carcerazione per reati di droga di basso livello persiste in molti Stati. Anche se secondo le convenzioni sul controllo delle droghe solo i reati “gravi” dovrebbero essere passibili della pena dell’incarcerazione, la scelta della punizione in risposta ai reati legati alla droga - conclude l’Incb - dovrebbe essere adeguata e direttamente proporzionata alla gravità del reato commesso”. Flessibilità, proporzionalità e rispetto dei diritti umani. Paradossalmente, di questi principi cardine forse il solo praticato in Italia nel 1990 è stato la flessibilità che fece collocare la cannabis nella tabella II (con pene e sanzioni notevolmente più basse) nel Testo Unico sulle droghe, nonostante fosse allora ancora fra le sostanze “particolarmente nocive” della tabella IV della Convenzione del 1961. Il contesto politico generale è cambiato, la cannabis più di ogni altra coltivazione illecita fa parte della cultura del nostro Paese, cancellare le sanzioni più pesanti che ancora sono previste per condotte che non recano alcuna vittima è in linea con quanto raccomandato dall’Onu negli ultimi anni. Se il malessere dei più giovani viene cancellato dai bilanci di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 11 febbraio 2022 A proposito di Next Generation Eu. I tagli al “bonus psicologo” sono una promessa tradita. Con la pandemia il disagio di una generazione cresce, si ramifica, poi si annoda e nasconde, affolla le agende degli psicoterapeuti. Gli indigeni australiani dicono che, sì, i bambini e i ragazzi hanno bisogno della Terra. Ma che pure la Terra ha bisogno dei bambini e dei ragazzi. Perché sentire le loro voci - i loro passi, salti, canti - trasmette il messaggio che quella non è una Terra abbandonata. E che non sarà, domani, una Terra desolata. Che cosa è successo in questi due anni, due anni che si avviano ad aggiungere al conto pandemico almeno un’altra stagione, un altro inverno intero? È successo che i nostri bambini e ragazzi, le nostre bambine e ragazze, sono rimasti e rimaste dentro. Dentro casa, dentro le famiglie, dentro di sé. Meno viaggi al mattino su tram e biciclette, meno viaggi oltreconfine, meno incontri, meno rischi di farsi male cadendo sui sassi o tra le cose della vita, meno baci, meno di tutto. Da marzo 2020 una moltitudine di pre adolescenti e adolescenti non è uscita allo scoperto. “È fuori che si studiano le materie fondamentali” ha scritto su 7 del 14 gennaio Gustavo Pietropolli Charmet (leggi qui l’articolo), psichiatra e direttore del consultorio gratuito Il Minotauro “perché dentro si corre il rischio di sprecare tempo per fare quei compiti scolastici che non possono garantire certo le competenze per smettere di essere solo figlio-studente e diventare sempre più soggetto sociale e sessuale”. La scuola di colpo rarefatta, bidimensionale, lo sport a singhiozzo, i concerti cancellati, le conversazioni affidate a un vocale, l’identità di corpi mutanti chiusa da un orlo imbastito di filtri per i social: la contrazione dell’energia è davanti, intorno a noi. Il disagio di una generazione - che abbiamo visto mettersi responsabilmente in coda per i vaccini - cresce, si ramifica, poi si annoda e nasconde, affolla le agende degli psicoterapeuti quando riesce a trovare la strada, quando può permettersi di imboccarla. Anche in tempi di pace, metà dei casi di malessere mentale - secondo l’Oms - si genera prima dei 15 anni, fino al 75% entro i 18. Dal 2020 i casi di sofferenza tra i minori sono aumentati a doppia cifra per ogni fascia di età. Ed è a questo punto che non possiamo non chiederci come sia stato possibile cancellare dalla legge di Bilancio il “bonus psicologo” (50 milioni). E come sia stato possibile tagliare (da 120 a 20 milioni) i fondi per il sostegno psicologico nelle scuole, dove è più semplice raggiungere i vulnerabili. La classe politica ha forse dimenticato la promessa di un’innovazione del “sistema” che guardasse avanti, che guardasse fuori: a quella Next Generation che ispirò alla fonte gli investimenti europei. E ha perso l’occasione di dimostrarsi pronta a rimediare alla nostra incapacità storica di comprendere il valore della salute mentale, partendo dai più giovani. Nella puntata dell’inchiesta Adolescenti, anno III sul prossimo numero di 7 interverrà Stefania Andreoli, psicoterapeuta e presidente di Alice Onlus, osservando come nella sua stanza delle parole i ragazzi e le ragazze non si soffermino poi tanto sul Covid. Quello che li ha schiantati è la credibilità compromessa degli adulti. Ai loro occhi le istituzioni e le figure di riferimento, tutte, continuano a gestire l’emergenza in modo sgangherato: il vuoto di fiducia - più della catena dei contagi - accende l’ansia e lascia che dilaghi lungo strade svuotate non solo dall’imprevedibilità delle varianti. Ci sono anche le buche scavate dalle nostre risposte mancate alla loro chiamata, a quel loro malessere che è un’affermazione di esistenza: di rabbia e, insieme, di desiderio. Studenti ancora in piazza: “Stop all’alternanza scuola-lavoro” di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 11 febbraio 2022 Fuoriclasse. Oggi manifestazioni in una decina di città. Maturità 2022, nuovi punteggi: “Troppo poco, revocare la seconda prova”. Da Torino la risposta alla ricostruzione della repressione fatta dalla ministra degli Interni Lamorgese: “Inaccettabile la retorica sugli infiltrati. Si prenda le sue responsabilità e si dimetta. Vogliamo risposte non provocazioni”. Nuove occupazioni anche a Milano. A Torino, Milano, Roma e in altre dieci città oggi tornano in piazza gli studenti che, opo la morte di Lorenzo Parelli (18 anni) in fabbrica, chiedono di fermare l’alternanza scuola lavoro considerata il simbolo del ruolo passivo della scuola nei confronti del mercato; ripensare le regole dell’esame di maturità dopo due anni di pandemia; ritirare la direttiva Lamorgese che limita il diritto costituzionale a manifestare e che è stata usata a giustificazione delle manganellate agli studenti il 23 e il 28 gennaio a Roma, Torino, Milano e Napoli. Inoltre il movimento chiede l’introduzione dei codici identificativi per dissuadere da comportamenti repressivi e denuncia i comportamenti repressivi dei presidi che in questi ultimi mesi di mobilitazione molecolare in moltissimi istituti del paese hanno comminato agli studenti le sospensioni per le occupazioni. L’onda studentesca contro il fortino del governo ieri ha portato a un insoddisfacente risultato. Dopo un incontro con le consulte studentesche, ma non con le associazioni e le reti in mobilitazione, il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha concesso il cambio della valutazione della maturità 2022: 50 punti per il triennio e 50 per le prove, 15 per ciascuno scritto e 20 per l’orale. E poi ha confermato la seconda prova dell’esame contro la quale si oppongono gli studenti e ha previsto che i docenti della disciplina proporranno tre tracce sulla base dei documenti consegnati a maggio dai consigli di classe. “Sono modifiche troppo piccole che non mettono in discussione la struttura della prova e non contemplano la condizione reale degli studenti dopo due anni di pandemia” sostiene la rete degli studenti medi. “Non è esattamente ciò che chiedevamo. Vogliamo considerarlo un inizio” ha detto Marco Scognamillo (Consulte provinciali studentesche). “È un primissimo passo avanti ma noi chiediamo molto di più: una revisione complessiva dell’esame di stato” sostiene Luca Redolfi (Unione Degli Studenti). Dopo l’inconcludente intervento della ministra degli Interni Luciana Lamorgese al Senato la risposta degli studenti torinesi ieri è stata dura: “Sono parole provocatorie. A Torino la retorica dell’infiltrato non funziona e non l’accettiamo. Siamo tutti uniti nella stessa lotta - sostengono - Gli studenti si incontrano anche nei centri sociali, hanno collettivi o altre forme di organizzazione e questo non è un crimine, né significa essere infiltrati”. “Tutte quelle dichiarazioni fatte sono unico strumento che hanno per giustificare le vergognose violenze sugli studenti”. “Abbiamo chiesto le dimissioni del ministro per decenza, è la cosa più corretta che in questo momento potrebbe fare”, Lamorgese “doveva prendersi la responsabilità pubblicamente per le teste degli studenti spaccate dalla polizia”. Sono nove le scuole occupate a Torino e la mobilitazione si è estesa a Moncalieri e a Nichelino. A Milanodopo il Carducci e il Vittorio Veneto e il Boccioni ieri è stato occupato il liceo Beccaria. Dal 18 al 20 febbraio si svolgeranno a Roma gli “Stati generali della scuola” promossi dall’Uds. Venerdì 18 è stata annunciata una manifestazione del movimento della Lupa. Bosnia, nella prigione di Lipa di Mattia Marinolli La Stampa, 11 febbraio 2022 Tra i dannati del nuovo campo profughi, limbo senza via d’uscita per tremila migranti: “La polizia ci insegue coi cani”. Una struttura pensata come centro di accoglienza e passaggio per migranti rende il confine verso la Croazia sempre più distante. Un luogo asettico fatto di bianchi container e capannoni che si confondono tra foschia e neve; recinzioni all’esterno e all’interno in una conca desolata raggiungibile da una strada sterrata a 26 km a Est di Bihac, capoluogo del cantone di Una-Sana in Bosnia Erzegovina. Il campo Lipa assomiglia molto di più a una prigione che a un centro temporaneo di accoglienza. Il 19 novembre 2021 è stata “inaugurata” la nuova struttura che può ospitare 1500 persone, attualmente ci sono 400 persone. Va a rimpiazzare i tendoni della vecchia, bruciata nell’incendio scoppiato in pieno inverno lo scorso anno che ha catalizzato i media di tutto il mondo. Il progetto finanziato dall’Unione Europea insieme ad alcuni partner tra cui il ministero degli Esteri italiano è gestito da Iom, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni delle Nazioni Unite. Rispetto al vecchio campo, le condizioni sono migliorate; ora gli ambienti sono riscaldati e c’è persino l’acqua calda. Sicuramente una non prospettiva per tutte quelle persone che, vedendosi negato l’accesso in Europa, si sono trovate bloccate per mesi o per anni in questo angolo della Bosnia Erzegovina lasciato solo dal governo centrale e dall’Europa tutta. Dal check-point d’ingresso la strada scende verso il refettorio, un capannone diviso al suo interno in due parti che separano minorenni e maggiorenni. Sono le 11 e un’ottantina di migranti stanno consumando la colazione. Le persone entrando percorrono il corridoio ricavato dalle reti metalliche che fanno da divisorio per raggiungere la fila per prendere il vassoio. Nella sala c’è quasi silenzio, ai tavoli sono perlopiù sedute quattro persone, alcuni parlano. I visi spenti guardano davanti a loro, tra i molti ragazzi provenienti dal Pakistan c’è anche un gruppetto di tre cubani, sono dieci in tutto a Lipa. Sono atterrati in Russia con la speranza di raggiungere la Spagna. Anche loro si sono trovati bloccati in questo limbo dimenticato ai confini della Bosnia. Molte delle persone in cammino verso l’Europa avrebbero il diritto di richiedere lo status di rifugiato, garantito dall’articolo 1A della Convenzione di Ginevra del 1951, e invece si trovano assoggettate alle regole del “game” ovvero il tentativo di entrare in Europa passando per i vari stati balcanici. Un gioco fatto di respingimenti illeciti, violenze e lunghe camminate nei boschi in balia del freddo. Non si vince facilmente, i più sono costretti a tornare sui loro passi e preparare nuovamente il viaggio, per alcuni il gioco è fatale. Il 29 dicembre scorso 4 ragazzi pakistani stavano guadando un fiume che li avrebbe portati in Croazia. Haq Ljaz Ul, ventiquattro anni, affoga e viene portato via dalla corrente davanti all’impotenza dei compagni. I tre si dirigono dalla polizia croata per chiedere di recuperare il corpo. Ad oggi il corpo di Haq non è ancora stato trovato e i tre sono stati deportati in Bosnia. Questo è solo uno dei numerosi incidenti mortali che fanno parte di questo macabro gioco. Negli ultimi mesi i flussi verso Bihac e Velika Kladuša, una cittadina situata nell’estremo Nord-ovest del Paese, sono diminuiti; lo scorso novembre erano bloccati in Bosnia Erzegovina circa tremila migranti, rispetto ai diecimila dell’anno prima. Sembra che la rotta stia cambiando, complice probabilmente la difficile situazione che in questi anni si è respirata al confine croato. Quelli conosciuti come pushbacks, i respingimenti della polizia croata, rendono impossibile il tragitto verso l’Europa. Numerosi sono stati i casi di violenze perpetrate a danni dei migranti. Il pattern descritto è sempre lo stesso: “La polizia ferma il gruppetto, chiede chi possa parlare inglese, umiliazioni verbali, violenze fisiche con teasers e aggressioni corporali, in alcuni casi i cani vengono utilizzati per la partita di caccia tra i monti che dividono il confine”, raccontano i migranti. Alcuni vengono privati delle scarpe; cellulari e soldi vengono rubati e vengono poi rispediti oltre il confine. In molti casi al di qua del confine i furgoni dello Iom sono lì pronti ad aspettare i respinti e portarli a Lipa. Con l’emergenza Covid le regole sono cambiate. Chi entra a Lipa viene tenuto due giorni in una parte del campo. Dopo il tampone vengono rinchiusi nei container per un’ulteriore quarantena dove resteranno cinque giorni, al termine dei quali potranno decidere se restare o tornare a piedi verso Bihac percorrendo la lunga statale che porta alla cittadina. Molti migranti preferiscono evitare Lipa, troppo distante dal confine, la mensa è poco apprezzata e sembra di stare in galera. Altri, mossi dal freddo, telefonano in struttura per farsi venire a prendere e passare l’inverno lì per poi provare il “game” con condizioni climatiche migliori. Sembra paradossale che un Paese come la Bosnia Erzegovina che vive in una perenne crisi politica e sociale, fuori dall’Europa, ma nel cuore della stessa, si trovi a gestire da sola un dramma che dovrebbe coinvolgere tutti. Se con i primi flussi del 2017 la popolazione aveva empatizzato con i migranti, oggi non è più così. Nella maggior parte dei negozi i migranti non sono ben accetti, a volte è loro negato l’accesso, altre volte vengono lasciati fuori con la scusa del Green Pass in un Paese dove la percentuale dei vaccinati è la più bassa d’Europa. Stati Uniti. Carcere di San Quintino: via tutti dal braccio della morte di Valerio Fioravanti e Giovanni Francesco Il Riformista, 11 febbraio 2022 Il governatore Newsom ha disposto il trasferimento di tutti i condannati (circa 700) nelle altre carceri dello Stato nelle quali sia possibile farli lavorare. L’ha fatto cogliendo il lato positivo della norma sui “lavoratori forzati” introdotta da un referendum “forcaiolo”. E così li ha anche tolti dall’isolamento. Gran cosa quando sulla scena politica irrompe il coraggio, e perché no, anche la fantasia. In California, un bel governatore, Gavin Newsom, che sembra preso da un film, con una bella moglie, che sembra ancora più hollywoodiana di lui, e non si lascia chiamare “First Lady” bensì “First Partner”, prende una proposta di legge che voleva essere forcaiola, ne individua una piccola parte, applica solo quella, e svuota il braccio della morte. Che non è un braccio della morte qualsiasi, è il più grande degli Stati Uniti, con 673 uomini e 21 donne. Quasi 700 persone, 72 delle quali hanno superato i 40 anni di permanenza, e 43 avevano solo 18 anni al momento del reato ascritto. Sono così tanti perché la California è lo Stato più popoloso degli Usa (40 milioni) ma è anche uno Stato che non compie esecuzioni da 16 anni, e che anche nel trentennio precedente ne aveva compiute “solo” 13. Deve avere anche un buon ufficio stampa questo Newsom, perché la notizia dello “svuotamento” del braccio della morte è passata su tutti i principali media del mondo. Ma a leggere meglio, la notizia è un po’ gonfiata. Sarebbe stato più corretto definirlo “spostamento”. Andiamo con ordine. In California si è cercato due volte di abolire la pena di morte per via referendaria, nel 2012 e nel 2016. Entrambe le volte, per tre punti, la proposta non è passata. Nel 2016 è invece passato un altro referendum, denominato “pena di morte più veloce”, che avrebbe voluto diminuire il numero di ricorsi della difesa. Il referendum “forcaiolo” era passato con solo mezzo punto di vantaggio, ma poi con una serie di sentenze la Corte Suprema di Stato lo aveva dichiarato inapplicabile, perché l’idea di ridurre le garanzie legali fornite a un cittadino (per quanto criminale) è stata considerata incostituzionale. Siccome i forcaioli si assomigliano un po’ in tutto il mondo, il “referendum 66”, oltre a volerli uccidere più velocemente, voleva anche che lo Stato spendesse di meno per dar loro da mangiare, che li costringesse a lavorare e gli sequestrasse il 70% della magrissima paga (in alcune carceri non supera i 5 dollari al mese) per devolverla alle vittime. Le quali non erano particolarmente impressionate dal proposto risarcimento che si aggirava sui 3 dollari al mese, ma in alcune dichiarazioni avevano asserito di “apprezzare la simbolicità del provvedimento”. Alla fine neanche la parte del risarcimento è andata davvero in porto, perché la procedura burocratica necessaria sarebbe costata più dei 3 dollari al mese ricavati, tanto è vero che dal 2016 a oggi per le vittime sono stati accantonati, ma non spartiti, solo 49.000 dollari. Newsom però ha colto il lato positivo della proposta di “lavori forzati”: siccome era impossibile far lavorare 700 persone che vivevano praticamente in isolamento, il referendum 66 aveva “concesso” che i condannati a morte potessero essere trasferiti in altre carceri “con adeguato livello di sicurezza”, e lì partecipassero alle attività lavorative già esistenti. Ed è quello che Newsom ha fatto: tutti via da San Quintino, tutti sparsi per le 7 diverse carceri di massima sicurezza dello Stato, e praticamente tutti tolti dallo Stato di decennale isolamento per essere inseriti in un “progetto innovativo ancorato alla riabilitazione”. Certo dovranno lavorare, e del lavoro svolto lo Stato gli lascerà in tasca forse meno di 2 dollari, ma nessuno degli ex detenuti di San Quintino si è fin qui lamentato. Anche perché Newsom, come stanno facendo altri Governatori democratici negli Stati Uniti, già dal discorso di insediamento ha avvertito che non firmerà nessun mandato di esecuzione. Semplici ma inconfutabili le parole con cui oggi Newsom ha annunciato lo svuotamento/spostamento: “Penso che l’omicidio premeditato sia sbagliato, in tutte le sue forme e manifestazioni, compreso l’omicidio premeditato sponsorizzato dal governo. Non sostengo la pena di morte, non l’ho mai fatto. La prospettiva di finire nel braccio della morte ha più a che fare con la tua ricchezza e razza che con la tua colpa o innocenza”, ha detto Newsom. “Parliamo di giustizia, predichiamo la giustizia, ma come nazione non la pratichiamo nel braccio della morte”. Come i lettori del Riformista sanno, Nessuno tocchi Caino ritiene che alcuni regimi detentivi in Italia non siano poi molto diversi dai bracci della morte. Abbiamo anche noi chi crede fermamente che i cittadini “caini” vadano trattati molto duramente, magari anche un po’ torturati, e possibilmente per tutta la vita. Quello che ci manca, rispetto a questa storia californiana, sono i politici fantasiosi e, ancor di più, quelli coraggiosi. Turchia. “La prigionia di Ocalan è una finzione giuridica” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 11 febbraio 2022 Europa/Kurdistan. Sulla detenzione in totale isolamento del leader curdo e sull’inserimento del Pkk nella lista del terrorismo esistono sentenze avanzatissime, in Italia e in Europa. Ma la politica non interviene. I contenuti della conferenza stampa di Roma in vista delle manifestazioni italiane di domani. In Italia e in Europa sentenze intorno alla questione curda esistono. Come spesso accade, sono i tribunali a segnare la via verso decisioni politiche scomode. E che per questo restano incompiute. Il caso della detenzione in totale isolamento nell’isola-prigione turca di Imrali del fondatore e leader del Pkk, Abdullah Ocalan, è una di queste. Lo è anche quello dello stesso Partito dei Lavoratori del Kurdistan, inserito dall’Unione europea nella lista delle organizzazioni terroristiche. Sono queste le due battaglie, tra loro legate e interdipendenti, da anni portate avanti da movimenti e associazioni di giuristi e per i diritti umani in tutto il mondo: far uscire Ocalan dalla sua cella e il Pkk dalla black list. Ieri a Roma è stato ribadito in una conferenza stampa organizzata dall’Ufficio d’Informazione del Kurdistan in Italia (Uiki) e da Rete Kurdistan, in vista delle manifestazioni di domani a Roma (alle 14.30 in Piazza dell’Esquilino) e a Milano (alle 14 a Largo Cairoli). Per l’occasione è stato presentato il sito freeapo.org, aggregatore di materiali in costante aggiornamento sulla storia e l’attualità del Kurdistan. Dalle parole dei partecipanti è emerso subito il retroterra politico ma anche legale delle due questioni. Di “finzione giuridica” parla Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, in passato presidente del Cpt, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura. È in questa veste che per tre volte ha raggiunto l’isola di Imrali, nel mar di Marmara, per incontrare Ocalan: “La sua prigionia è l’emblema della finzione giuridica: una persona che ha ottenuto l’asilo politico in Italia dopo essere stato cacciato dal nostro paese. Intorno a lui la Turchia ha costruito una prigione mandandoci altri detenuti così che l’Europa non potesse più parlare di isolamento”. Palma cita la sentenza della seconda sezione civile del Tribunale di Roma, primo ottobre 1999: Ocalan era stato catturato dieci mesi prima dai servizi turchi in Kenya. “Il tribunale ha riconosciuto il diritto all’asilo - aggiunge Giovanni Russo Spena, di Giuristi democratici e portavoce del Comitato per la liberazione di Ocalan - La sentenza contiene un riconoscimento dei diritti dei curdi negati dalla Turchia e a Ocalan la sua attività costante a tutela di quei diritti. Ci scandalizza che governo e parlamento italiani non la facciano rispettare”. Non mancano sentenze nemmeno in Europa. Una in particolare, spiega l’avvocata Simonetta Crisci, anche lei membro del Comitato: è quella emessa nel 2018 dalla Corte di Giustizia dell’Ue, in Lussemburgo, secondo cui l’inserimento del Pkk nella black list è ingiusto: “Non è ancora definitiva perché è stato mosso appello, ma ha un forte significato. La Corte di Lussemburgo può intervenire anche per violazioni commesse da paesi terzi. Se si giungesse a togliere il Pkk dalla lista del terrorismo, cambierebbero molte cose. Un esempio: oggi Ankara bombarda il campo di Makhmour nel Kurdistan iracheno a fronte di un accordo con Erbil e giustificandosi con la lotta a un gruppo terrorista”. Di sentenze ce n’è anche un’altra, stavolta definitiva, della Corte suprema belga: il Pkk non è terrorista ma parte in un conflitto interno. Che la questione vada fuori dai confini nazionali lo ha ricordato in apertura Michele Rech, il fumettista Zerocalcare: “In Europa va riconosciuto il ruolo di Ocalan e del Pkk nella democratizzazione delle società in Medio Oriente e nell’individuazione di una soluzione che superi la dicotomia della scelta: regimi autoritari o barbarie jihadista”. “Ocalan va liberato - aggiunge Ibrahim Bilmez, avvocato di Ocalan (qui l’intervista de il manifesto pubblicata ieri) - Per motivi giuridici, per motivi etici visto il suo sforzo per la pace e per motivi politici: la soluzione della questione curda è fondamentale per l’intera regione”. Yemen, solo a gennaio 43 attacchi. L’appello di Papa Francesco servirà a rompere il silenzio? di Paolo Pezzati* Il Fatto Quotidiano, 11 febbraio 2022 “Abbiamo paura che la guerra arrivi fin qui, dentro il campo, ma anche andarsene non è per niente sicuro. Di notte sento i miei figli gridare nel sonno, parlare di guerra. A volte il terrore li travolge al punto che istintivamente si alzano e cercano di fuggire dalla tenda”. Così Salem (nome di fantasia), padre di 4 figli dai 4 ai 10 anni, sulla quotidianità vissuta nelle ultime settimane nel campo profughi di Alswidan, alla periferia di Marib, in Yemen. La città capoluogo di uno dei governatorati più ricchi del Paese, da un anno è divenuto terreno di un sanguinoso scontro tra la coalizione a guida saudita e i ribelli Houthi che si contendono il controllo del Paese. Qui si cerca di sopravvivere alla minaccia di bombe e missili sparati da terra lungo la linea del fronte, senza quasi distinzione tra obiettivi militari e civili. Solo a gennaio 43 attacchi indiscriminati hanno distrutto case, fattorie, infrastrutture essenziali e campi profughi, uccidendo bambini che badavano agli animali o raccoglievano la legna. Nelle ultime settimane 8 civili sono esplosi su mine anti-uomo illegali, disseminate ovunque lungo le strade o i binari percorsi dagli sfollati che si spostano di continuo attraverso il paese. “Ogni giorno i miei figli mi chiedono per quanto tempo avranno così poco da mangiare, niente da mettere per coprirsi dal freddo - continua Salem - Non so cosa rispondere, anche perché i pochi soldi a disposizione servono per comprare le medicine di mia moglie”. Come Salem e la sua famiglia, in questo momento, almeno 1 milione di sfollati a Marib e più di 4 milioni in tutto il Paese vivono in condizioni di estrema privazione. Centinaia di migliaia di famiglie solo a Marib sono costrette a vivere in oltre 120 campi; l’85% delle famiglie sfollate non riesce a far fronte alle spese quotidiane o pagarsi una casa, perché trovare un lavoro è impossibile. In molti anzi vivono con la costante paura di essere sfrattati dai terreni privati, dove vengono allestiti campi di fortuna in 9 casi su 10. Svalutazione della moneta yemenita e carenza di carburante hanno fatto il resto, con i prezzi di cibo e medicinali più che raddoppiati e famiglie costrette a indebitarsi per far fronte ai bisogni essenziali di ogni giorno. In piena quarta ondata di contagi da Covid-19 gran parte degli sfollati non ha accesso ad acqua pulita, servizi igienico-sanitari, strumenti di protezione, cure, né tantomeno vaccini. Con solo metà delle strutture sanitarie in funzione 2 yemeniti su 3 - oltre 20 milioni di persone - non può contare su nessun servizio sanitario. Con altre organizzazioni che operano nel paese, Oxfam nell’ultimo anno ha soccorso 95mila persone a Marib, ma settimana dopo settimana, i bisogni continuano a crescere. L’indifferenza della comunità internazionale e gli interessi dietro al conflitto - La comunità internazionale, di fronte a questo Paese lacerato, tace. Il commercio internazionale di armi continua ad alimentare il conflitto, mentre gli appelli ai donatori per arginare la crisi umanitaria più grande dei nostri tempi rimangono sotto finanziati. L’Italia - dopo aver venduto centinaia di milioni di armamenti nei primi anni di conflitto agli stati della coalizione saudita - ha sì smesso di farlo in seguito alla mobilitazione della società civile nel 2019, ma ha continuato a stanziare in aiuti l’irrisoria cifra di 5 milioni l’anno fino al 2020. L’anno scorso invece gli aiuti italiani sono stati del tutto azzerati. Le stesse Nazioni Unite, solo pochi mesi fa hanno sospeso il monitoraggio sulle violazioni dei diritti umani nel Paese, che proseguono indisturbate sulla pelle della popolazione civile inerme. A fronte di un numero imprecisato di vittime totali (nell’ordine delle centinaia di migliaia), sono oltre 18mila i morti e feriti civili dall’inizio del conflitto, oltre 24mila i raid aerei che dal 2015 hanno colpito più di 7 mila volte obiettivi non militari. L’ultimo appello per la pace prima che sia troppo tardi - Papa Francesco solo pochi giorni fa ha ricordato l’indifferenza della comunità internazionale per la tragedia dello Yemen, lanciando un nuovo appello per la pace. Servirà a rompere il silenzio? *Policy Advisor Oxfam Honduras. Sentenza oltraggiosa: colpevoli sei degli “otto del Guapinol” difensori dell’ambiente di Riccardo Noury Corriere della Sera, 11 febbraio 2022 Un “oltraggio alla giustizia”: così, senza mezzi termini, Amnesty International ha commentato il verdetto di colpevolezza emesso il 9 febbraio da un tribunale dell’Honduras nei confronti di sei degli otto difensori dell’ambiente (conosciuti come “gli otto del Guapinol”) sotto processo dal 1° dicembre 2021. José Daniel Márquez, Kelvin Alejandro Romero, José Abelino Cedillo, Porfirio Sorto Cedillo, Ewer Alexander Cedillo e Orbin Nahún Hernández sono stati giudicati colpevoli di privazione illegale della libertà e danno aggravato nei confronti di un funzionario dell’impresa Inversiones Los Pinares e di danno semplice nei confronti della stessa impresa. L’entità della condanna sarà determinata in una successiva udienza, prevista il 21 febbraio. Gli altri due imputati, Arnol Javier Alemán e Jeremías Martínez Díaz, sono stati assolti. Gli “otto del Guapinol” fanno parte del Comitato locale in difesa dei beni comuni e pubblici, un’organizzazione nata nel 2015 per contestare pacificamente la legalità delle concessioni delle miniere di ferro attribuite a Inversiones Los Pinares in un parco nazionale dichiarato zona protetta. Nel 2018, quando le opere di costruzione della miniera iniziarono a minacciare le acque dei fiumi Guapinol e San Pedro, di fronte all’indifferenza delle autorità rispetto alle denunce, il Comitato eresse un accampamento sulla strada che conduce alla miniera. La protesta pacifica resistette 88 giorni, poi la polizia e l’esercito vi posero fine con grande violenza. Il 7 settembre 2018 un impiegato dell’impresa aprì il fuoco contro un manifestante. In reazione, i manifestanti fermarono un altro impiegato e lo consegnarono alla polizia, poi diedero alle fiamme un camion dell’azienda. Sullo sparo non venne mai aperta un’inchiesta, sul “rapimento” dell’impiegato e sull’incendio si è fatto un processo che è terminato come abbiamo visto.