Aspettando il capo del Dap: l’identikit del candidato ideale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 febbraio 2022 Tanti i nomi per ricoprire il ruolo: dal Garante Mauro Palma, ai magistrati di sorveglianza Marcello Bortolato, Giovanna Di Rosa a Fabio Gianfilippi. Fino al presidente del tribunale dei Minorenni di Trento Giovanni Spadaro. Da una settimana, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) è senza capo in un momento difficile per le carceri italiane. C’è la nuova variante del Covid che, come conseguenza, in alcuni istituti penitenziari sono nuovamente sospese le attività trattamentali. La tensione cresce e il sovraffollamento rimane tuttora un cancro. Il Dap ha dunque un ruolo strategico, tanto più in una fase critica come quella attuale. Deve avere un progetto, una mission chiara. Pochi tra coloro che sono stati al vertice del Dap sono stati scelti per le loro competenze specifiche in ambito penitenziario. Abbiamo pochissimi esempi di persone che hanno avuto idee chiare, ben prima di occupare il posto da capo. Un esempio su tutti è l’allora magistrato di sorveglianza Sandro Margara, il quale aveva idee chiare, nel senso dì proporsi quale garante di una pena rispettosa dei vincoli e delle finalità costituzionali. Margara, però, al vertice del Dap c’è stato poco meno di due anni. Fu mandato via dall’allora ministro della Giustizia Oliviero Diliberto che lo definì troppo poco incline alla sicurezza e troppo incline al trattamento. La scelta migliore sarebbe quella del Garante nazionale dei detenuti - Su queste stesse pagine de Il Dubbio si è scritto che, con la sensibilità dell’attuale ministra della Giustizia, forse è arrivato il momento giusto per cambiare la tradizione che vuole necessariamente un magistrato al vertice dell’amministrazione penitenziaria. Per questo, la nomina di Mauro Palma, attuale garante nazionale delle persone private della libertà, sarebbe la scelta migliore. Quella che rappresenta il vero cambiamento. A pensare che, data la sua età, per la Legge Madia potrebbe svolgere tale funzione senza percepire emolumenti. La gestione di tipo trattamentale dovrebbe prevalere - Ma se la scelta rimane orientata come da tradizione, ci si augura che non debba per forza ricadere a uno che abbia una visione limitata con la sola esperienza antimafia. I detenuti sottoposti al regime del 41 bis e quelli ristretti in sezioni di alta sicurezza sono una percentuale da prefisso telefonico rispetto a tutti gli altri detenuti comuni molti dei quali privi di una particolare statura criminale. Nei confronti di tutti i detenuti deve comunque prevalere una gestione di tipo trattamentale, come vuole la legge. Per questo sarebbe più che giusto collocare al vertice del Dap chi crede fermamente al trattamento e a una gestione umano-centrica. D’altronde, è proprio per colpa di chi ha una visione fortemente punitivista che le carceri risultano strapiene e prive di umanità, quest’ultima componente fondamentale per il recupero di chi ha sbagliato. Si potrebbe scegliere tra i magistrati di sorveglianza - In campo non mancano personalità che possono ricoprire tale ruolo. Si pensi a Marcello Bortolato, magistrato dal 1990, e che dal 2017 presiede il Tribunale di sorveglianza di Firenze. È stato componente nel 2013 e nel 2017 di due commissioni di riforma dell’ordinamento penitenziario istituite presso il ministero della Giustizia. È autore di numerose pubblicazioni in materia penitenziaria. La sua visione principe è che il sistema penitenziario debba incarnare l’articolo 27 della nostra costituzione, mentre nei fatti si è trasformato in una vendetta di Stato. C’è anche Giovanna Di Rosa, Presidente del tribunale di Sorveglianza di Milano. Dal 2010 al 2014, è stata eletta componente togata del Consiglio Superiore della Magistratura. Autrice di numerosi articoli sui temi della detenzione, è stata nominata relatrice alla Scuola Superiore della Magistratura. Si è distinta, durante l’imperversare della pandemia in carcere, nel chiedere all’allora guardasigilli Alfonso Bonafede un meccanismo automatico per la concessione dei domiciliari per far fronte al sovraffollamento che non garantiva - e non garantisce tuttora - posti per garantire l’isolamento sanitario. Ma non mancano altri magistrati di sorveglianza di valore che dimostrano di avere una conoscenza approfondita della complessità penitenziaria. Pensiamo a Fabio Gianfilippi. Classe 1977, dal 2006 magistrato di sorveglianza di Spoleto e componente del Tribunale di sorveglianza di Perugia. È stato componente degli Stati Generali dell’esecuzione penale e della Commissione Ministeriale per la riforma dell’ordinamento penitenziario nel suo complesso presieduta dal professor Glauco Giostra, componente della Commissione Mista per i problemi della magistratura di sorveglianza e dell’esecuzione penale istituita presso il Consiglio Superiore della Magistratura dal luglio 2019 e di recente ha fatto parte della Commissione Ruotolo instituita dalla ministra Marta Cartabia. Al solo sentire questi nomi, diverse personalità della politica storcerebbero il naso. A quel punto, potrebbe rimanere in campo un compromesso, ovvero un magistrato che sia una via di mezzo tra Pm e sorveglianza. Una figura che potrebbe essere la giusta mediazione - Ancora meglio chi ha avuto un percorso che lo ha portato ad attraversare ogni aspetto della questione penale. Dalla criminalità organizzata, fino alla devianza minorile. Un percorso del genere lo ha attraversato il magistrato calabrese Giovanni Spadaro, attualmente presidente del tribunale per i Minorenni di Trento. Per sette anni ha svolto l’identica funzione a quello di Bologna, ma ancor prima era impegnato nella lotta contro la ‘ndrangheta. Come definito dalla proposta della commissione incarichi direttivi del Consiglio al plenum, si tratta di “magistrato di grande esperienza, maturata prevalentemente nella materia penale, ma arricchitasi anche di profili civilistici connessi allo specifico settore minorile”. Ha dimostrato di avere capacità organizzative (fondamentali per chi vuole dirigere il Dap), tanto da aver innalzato la produttività eliminando arretrato, nonostante carenza di personale amministrativo e sottodimensionamento dell’organico dei giudici. Ma si è distinto anche per lo spessore culturale dei provvedimenti che ha poi il suo corrispondente in una ampia attività di studio che ha prodotto varie pubblicazioni scientifiche e la partecipazione anche come relatore a numerosi incontri di studio. Durante un convegno del 2019 organizzato dalla redazione di Ristretti Orizzonti nel carcere di Padova, dove hanno partecipato varie personalità, tra le quali Fiammetta Borsellino, figlia del giudice ucciso a Via D’Amelio, il giudice Spadaro ha spiegato che la fase esecutiva della pena va completamente rivisitata, perché se il tasso di recidiva non diminuisce, vuol dire che il carcere ha fallito. Ma soprattutto, ha aggiunto che tutti hanno il diritto al cambiamento, nessuno escluso. Il tema principale del convegno, non a caso, era dedicato all’ergastolo ostativo. Resta il fatto che, essere a capo del Dap, vuol dire dirigere, su tutto il territorio nazionale, un complicatissimo mondo in cui conta non solo la sicurezza, ma soprattutto il recupero sociale dei detenuti, le condizioni igienico-sanitarie degli istituti, il lavoro retribuito, l’uso delle misure alternative al carcere propedeutiche al ritorno in libertà. La sfida è importante, perché dovrà fare i conti con un clima perennemente sfavorevole per il raggiungimento di tali obiettivi. Ergastolo ostativo, si attende risposta del ministero alle richieste dei partiti di Salvatore Frequente Il Fatto Quotidiano, 10 febbraio 2022 La votazione della nuova legge slitta alla prossima settimana. Riunione della maggioranza con la sottosegretaria Macina: la votazione degli emendamenti slitta alla prossima settimana. “Oggi avremmo dovuto iniziare i voti ma alcuni gruppi hanno chiesto una dilazione per esaminare meglio i dettagli del testo. Tra l’altro è emersa la volontà unanime di attribuire ad un tribunale collegiale la competenza per decidere sulle richieste di un detenuto per mafia”, dice Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia. Slitta alla prossima settimana la votazione degli emendamenti alla riforma dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario. La norma è quella dell’ergastolo ostativo, che vieta di concedere la libertà condizionale ai detenuti condannati all’ergastolo per reati di tipo mafioso o terrorismo che non abbiano collaborato con la magistratura. La riforma di quella norma deve essere approvata entro i prossimi tre mesi. Nell’aprile 2021, infatti, la Consulta ha bocciato il divieto di liberazione condizionale dei detenuti per reati di tipo mafioso, dando al Parlamento un anno di tempo per riscrivere la norma. Quel termine scade il 10 maggio prossimo. La commissione Giustizia della Camera ha adottato un testo base di riforma, che ora deve essere esaminato e votato. “La riforma dell’articolo 4/bis dell’ordinamento penitenziario sarà votata la prossima settimana. Oggi avremmo dovuto iniziare i voti ma alcuni gruppi hanno chiesto una dilazione per esaminare meglio i dettagli del testo. Tra l’altro è emersa la volontà unanime di attribuire ad un tribunale collegiale la competenza per decidere sulle richieste di un detenuto per mafia”, dice Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia, spiegando che “la prossima settimana il testo dovrà essere chiuso”. Tutti i gruppi parlamentari, infatti, hanno chiesto che a pronunciarsi sulla richiesta di libertà condizionale per chi è condannato all’ergastolo sia un Tribunale e non un giudice monocratico. In questo modo, dunque, si eviterebbe di sovraesporre il singolo giudice affidandogli decisioni delicate come la liberazione di boss irriducibili. È il caso dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, autori delle stragi degli anni 90, che non hanno mai collaborato con la magistratura ma hanno maturato i requisiti per chiedere la liberazione condizionale: hanno infatti scontato più di 26 anni di carcere. La richiesta di affidare a un tribunale una simile decisione è emersa in una riunione dei rappresentanti di tutti i gruppi in Commissione Giustizia della Camera. Al termine della riunione si è deciso di attendere la risposta del ministero a tale richiesta prima di iniziare a votare gli emendamenti. Alla riunione ha partecipato la sottosegretaria Anna Macina, che si è impegnata a riferire alla ministra Marta Cartabia, l’esito della riunione. Quando si avrà una risposta del ministero, il presidente della Commissione Perantoni convocherà la seduta per avviare il voto degli emendamenti al testo unificato. Polizia Penitenziaria, fondo da un milione di euro per il supporto psicologico di Antonella Barone gnewsonline.it, 10 febbraio 2022 Sono state definite nella recente direttiva (4 febbraio 2022) del Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) Bernardo Petralia, le linee guida per l’utilizzo di circa un milione di euro previsti nel documento di programmazione generale dell’11 gennaio 2022, per realizzare progetti destinati supporto psicologico del personale di Polizia Penitenziaria. Le risorse per questi interventi, espressamente previste nell’atto di indirizzo politico-gestionale per l’anno 2022 della Ministra Marta Cartabia, consentiranno di istituire un fondo per sostenere, in modo strutturato e permanente, iniziative per contrastare situazioni di disagio maturate in ambito lavorativo. I provveditorati individueranno i professionisti da coinvolgere e potranno avviare interlocuzioni con osservatori e associazioni che si si sono occupati delle problematiche specifiche. Gli interventi di supporto saranno elaborati in collaborazione con i singoli istituti dopo aver rilevato, anche con la consulenza di esperti e tramite focus group, i principali bisogni emergenti che possono riguardare una vasta gamma di espressioni del disagio lavorativo legato alla peculiarità dell’istituzione carcere. I progetti saranno accompagnati da attività formative e seminariali utili anche per divulgare le iniziative e per promuovere una nuova cultura del benessere organizzativo e personale e potranno comprendere anche percorsi più articolati come iniziative sulla resilienza, sul benessere organizzativo e sulla mindfulness. Giustizia, oggi cabina di regia. Accelerazione sulla riforma di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2022 Verso il Cdm di domani. Nuovo incontro tecnico sui testi. Dallo stop alle porte girevoli tra politica e magistratura al nuovo sistema elettorale per il Csm, intesa ampia e trasversale in arrivo. Si limano i testi in vista della presentazione in consiglio dei ministri della riforma di Csm e ordinamento giudiziario. L’intervento dovrebbe essere inserito nell’ordine del giorno di domani, in modo da assicurarne, tra l’altro, il deposito alla Camera già la prossima settimana quando è in calendario la ripresa della discussione sul disegno di legge Bonafede. Oggi, al più tardi domani prima del consiglio dei ministri, potrebbe svolgersi una cabina di regia in maniera da assicurarne un passaggio più tranquillo della riforma. Tuttavia tra le forze politiche di maggioranza, dopo la presentazione delle linee guida dell’intervento fatta dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia martedì sera alle delegazioni dei partiti, le tensioni sembrano essersi attenuate. Sul blocco al reingresso in magistratura dopo lo svolgimento di una carica elettiva, sulla impossibilità di fare coesistere funzioni giurisdizionali e mandato politico, su una rigida predeterminazione delle condizioni per la presentazione delle candidature da parte dei magistrati, il consenso è ampio e trasversale (i 5 Stelle vi vedono ribadita la linea cristallizzata nel ddl Bonafede, il Pd si preoccupa della tenuta costituzionale delle misure, ma non ha obiezioni di fondo, come pure la Lega). Per quanto riguarda il sistema elettorale, il fatto che il sistema che si sta profilando sia in larga parte maggioritario, sia pure con correttivi, il meno gradito alla magistratura (almeno a quella che si è espressa nel referendum di pochi giorni fa indetto dall’Anm) è un elemento per farlo invece apprezzare dalla politica. Da valutare sarà naturalmente la sua efficacia nel limitare le intese dei gruppi organizzati nel selezionare le candidature. Il sorteggio, che pure una quota assai significativa (circa il 40%) dei votanti al referendum Anm ha dimostrato di preferire, sarà verosimilmente previsto solo nel caso di mancato raggiungimento di un numero minimo di candidati e per assicurare la rappresentanza di genere. A questo proposito ieri il ministero della Giustizia, in occasione dell’anniversario, 9 febbraio 1963, dell’ingresso delle donne in magistratura ha diffuso una serie di dati dai quali emerge come le donne sono ora la maggioranza. Su un totale di 9.624 magistrati in servizio, 5.308, il 55%, sono donne contro i 4.316 ruoli ricoperti da uomini. Una prevalenza che non si riflette però sulla presenza ai vertici degli uffici giudiziari. Nei ruoli giudicanti (totale 247) solo il 32% ricopre posizioni apicali contro il 68% degli uomini. Stessi risultati nel semi-direttivo dove la percentuale è pari al 48% dei ruoli occupati da donne contro il 52% di quelli maschili. Stesso discorso vale per i magistrati requirenti (totale 176): solo il 22% delle donne ha posizioni di vertice contro il 78% degli uomini. Sulla riforma le acque restano però agitate all’interno della magistratura. Con l’Anm messa sotto accusa da Magistratura Democratica per l’inerzia nel non avere proposto alla ministra soluzioni alternative a quella che sta prendendo piede, valorizzando invece l’esito del referendum che aveva visto una larghissima maggioranza esprimersi per il proporzionale. Md scrive espressamente di “crisi dei sistemi di rappresentanza” che rischia di travolgere anche l’Associazione magistrati. A luglio sono in programma le elezioni perii rinnovo del Csm, ma a rendere ulteriormente straordinaria questa stagione di nomine ai vertici delle Procure in carico a questa consiliatura ieri si è aggiunta l’apertura della procedura per la sostituzione del Procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, in pensione dal io luglio. Va ad aggiungersi all’individuazione del nuovo Procuratore antimafia e dei nuovi capi delle Procure di Milano e Palermo. Giustizia, scontro totale tra politici e tecnici di Francesco Grignetti e Ilario Lombardo La Stampa, 10 febbraio 2022 I partiti contro Draghi e Cartabia sulle porte girevoli toghe-politica: “Norma ad personam per salvare il sottosegretario Garofoli”. C’è una grana clamorosa, nascosta tra le righe della riforma dell’ordinamento giudiziario. E potrebbe rivelarsi deflagrante. Riguarda le famose “porte girevoli”, ovvero il divieto per un magistrato di scendere in politica e poi tornare indietro alla toga. Sulla carta, tutti d’accordo. Ma il diavolo si nasconde nei dettagli, come ha scoperto il deputato Enrico Costa, di Azione: il blocco delle porte girevoli funzionerebbe per i magistrati che si candidano e ancor di più per quelli che vengono eletti, non per quelli che sono “prestati alla politica” in quanto tecnici, anche se poi diventano ministri o sottosegretari. Una grossa grana perché stavolta i partiti sono messi di fronte a una scelta che viene ricondotta al presidente del Consiglio in persona. “È una decisione di Draghi”, così Costa s’è sentito dire quando, martedì sera, seduto di fronte alla ministra Marta Cartabia e al capo di gabinetto del premier, Antonio Funiciello, ha chiesto lumi sul perché di questo divieto dimezzato. “Il divieto vale solo per gli eletti” è la spiegazione che gli fornito la Guardasigilli. E dunque, al momento, nel testo della riforma del Consiglio superiore della magistratura ritoccato da Cartabia l’interdizione non varrebbe per quei profili più tecnici che, senza passare dal voto, pure partecipino attivamente a governi politici e a giunte regionali o comunali. Un distinguo che non piace ai partiti perché si renderebbe impossibile tornare in magistratura ad un semplice consigliere di opposizione, ma non a chi ha costruito una carriera nelle istituzioni all’ombra della politica e magari occupa posizioni di primissimo piano. “La commistione esce dalla porta e rientra dalla finestra”, protesta Costa. A sentire le ricostruzioni di queste ore, insomma, sarebbe stato Draghi a decidere così. Il che ha alimentato un sospetto che circolava già da tre giorni tra i partiti, ovvero da quando, lunedì, arrivata a Palazzo Chigi, e prima di vedere il premier, Cartabia si è a lungo soffermata con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Roberto Garofoli per studiare le modifiche alla riforma del Csm. Il sottosegretario Garofoli ha infatti un curriculum lunghissimo di esperienze nei ministeri, ma è anche un prestigioso giudice amministrativo. Un classico caso di tecnico che attraversa la porta girevole. Ai tempi del governo gialloverde, dopo la campagna che M5S e Lega scatenarono contro di lui a fine 2018, quando si dimise da capo di gabinetto del ministero dell’Economia, non a caso tornò al Consiglio di Stato a ricoprire il ruolo di presidente di sezione. E lì è rimasto fino al 13 febbraio 2021, quando Draghi lo ha chiamato accanto a sé a Palazzo Chigi con il ruolo di sottosegretario alla Presidenza. Le malignità girano, dunque. E fonti di palazzo Chigi smentiscono seccamente che ci sia stato un interesse particolare a favorire il sottosegretario: lo proverebbe il fatto che la legge non ha effetti retroattivi. Eppure il sospetto dilaga tra le forze politiche che sostengono la maggioranza. Dentro la Lega, il M5S, Azione e Forza Italia si sono convinti che così facendo Draghi asseconderebbe una difesa corporativa. “Ma come può essere accettabile che il potere giudiziario stia dentro il potere esecutivo con capacità legislative?” si chiede Costa. Il silenzio sui ministri o sottosegretari o assessori regionali “tecnici” è un passaggio che durante i colloqui con Cartabia era sfuggito al M5S, nonostante fosse stato proprio Alfonso Bonafede, quando era al posto di Cartabia, a rendere vincolante la regola dell’incompatibilità, anche per gli alti burocrati. I grillini sono soddisfatti che sulle porte girevoli la ministra abbia confermato l’impianto della “loro” riforma, ma su questo punto vogliono vederci chiaro e potrebbero convergere nella battaglia dei sub-emendamenti. Le stesse preoccupazioni agitano Forza Italia. “Condivido totalmente l’appunto dei colleghi - spiega il capogruppo di Fi in commissione Giustizia, Pierantonio Zanettin. Si può discutere dei capi di gabinetto, ma do per scontato che chi fa il ministro o sottosegretario sia da trattare come un politico che è stato eletto. Anzi, ha ancora più peso”. Per i berlusconiani va anche rivista la parte che riguarda la legge elettorale, un altro capitolo sul Csm che non soddisfa quasi nessuno, con l’eccezione del Pd, perché non frena lo strapotere delle correnti: “Di fatto, il sistema del maggioritario con recuperi proporzionali reintrodurrebbe le liste dei candidati collegate. Per questo - avverte ancora Zanettin - finché non vedremo un testo scritto, non autorizzeremo la delegazione dei nostri ministri a votare la riforma”. Ecco la riforma Cartabia, ma è già allarme numeri: “Non avrà maggioranza” di Anna Maria Greco Il Giornale, 10 febbraio 2022 Domani il testo in Cdm, però manca l’intesa sull’elezione del Csm e sulle “porte girevoli”. Il testo ancora non c’è, ma Marta Cartabia cerca di mettere tutti d’accordo e portare la sua riforma della giustizia domani in Consiglio dei ministri. Teme, però, che gli emendamenti al disegno di legge del suo predecessore Alfonso Bonafede si impantanino nei lavori parlamentari. Per questo, la Cartabia ha incontrato i rappresentanti dei partiti e illustrato soprattutto le proposte sui due punti più delicati: riforma elettorale del Csm e “porte girevoli” tra magistratura e politica. Sull’iter incombe il referendum di Radicali e Lega che, se il 15 avrà l’ok della Consulta, potrebbe tenersi in primavera. Ed Emma Bonino di +Europa avverte: “Non penso che con tutta la sua buona volontà la ministra Cartabia troverà in Parlamento una maggioranza sulla riforma”. A settembre scade l’attuale Csm, investito dallo scandalo Palamara, e le elezioni dovrebbero tenersi a luglio al massimo a fine estate, ma è urgente farle con le nuove regole. Il 16 febbraio la Commissione giustizia della Camera ha già fissato un confronto sulla riforma della giustizia e attende gli emendamenti della Guardasigilli. Dalle anticipazioni si sa che la Cartabia punta per il sistema elettorale dei togati del Csm su un maggioritario binominale con una quota proporzionale, per assicurare seggi a candidati fuori dalle correnti. Lega e Forza Italia sostengono invece il sorteggio “temperato”: l’estrazione di una rosa di candidati tra i quali eleggere i consiglieri. Ma la ministra lo considera in contrasto con la Costituzione e con la sua soluzione viene incontro ai magistrati che, nel referendum consultivo dell’Anm, si sono espressi in maggioranza contro il proporzionale. Dopo l’incontro con la Guardasigilli, il vicepresidente di Forza Italia Antonio Tajani però ribadisce: “Chiediamo il sorteggio, stiamo ancora discutendo e ci auguriamo che il governo adotti le soluzioni da noi richieste, per avere una magistratura più indipendente e un Csm che tuteli la magistratura senza eccessiva politicizzazione”. Perplesso anche Pierantonio Zanettin, capogruppo di Fi in Commissione Giustizia della Camera: “Mi sembra un sistema che di fatto ripropone le liste. Sulle porte girevoli la ministra ci ha detto che è contraria a che i magistrati eletti tornino nella giurisdizione, che era una delle cose che chiedevamo ed è disponibile a ragionare sul nostro emendamento sulla separazione delle funzioni, per il passaggio tra giudici e pm una volta nella carriera”. I dubbi ci sono anche nella Lega. Stefano Cavanna, laico del Csm in quota Carroccio spiega al Giornale: “Non esiste sistema elettorale che smantelli davvero le correnti se non il sorteggio temperato. Affidare al caso la scelta dei togati è triste e forse pericoloso, ma siamo in emergenza. Per una riforma vera e non di facciata ci vogliono coraggio e risorse per personale e mezzi”. Enrico Costa, spiega che Azione “ha detto alla Cartabia che non è scontato il sì”. Più del sistema elettorale, dice al Giornale, sono “importanti valutazioni professionali oggettive, per impedire il potere correntizio sulle nomine”. Quanto alle “porte girevoli”, cavallo di battaglia dei 5S, nota: “La chiusura vale solo per gli eletti, ma un magistrato potrà fare l’assessore regionale o il ministro e tornare a fare il pm”. Proposte strong per onorare l’invito di Mattarella sulla giustizia di Giuliano Pisapia Il Foglio, 10 febbraio 2022 Sergio Mattarella è stato chiarissimo: la riforma della giustizia è urgente e necessaria. Lo ha detto da presidente della Repubblica rieletto e da presidente del Csm e lo ha detto davanti al Parlamento a Camere riunite in modo che non potessero essere equivoci sui destinatari del suo messaggio. La riforma, o meglio le riforme, sono urgenti non solo per gli scandali, le inchieste, le accuse reciproche tra magistrati che hanno caratterizzato gli ultimi anni, ma anche perché i cittadini, come ha spiegato Mattarella “non devono avere il timore di decisioni arbitrarie che, in contrasto con la doverosa certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone”. Il Capo dello Stato ha rotto un tabù, ha detto che i cittadini non hanno la certezza del diritto che è la base di una convivenza civile e democratica. Il primo passo da fare - che però senza le altre riforme finirebbe con essere insufficiente - è quello di cambiare la legge elettorale per la composizione del Csm. Una riforma che sarà attuata già concretamente il prossimo luglio quando sarà rinnovato l’attuale Consiglio dopo quattro anni di mandato che hanno visto la caduta della credibilità di un organo costituzionale fondamentale per l’esercizio della giurisdizione che è una delle basi della nostra democrazia. Un obiettivo condivisibile ma non credo che possa bastare un intervento ‘tecnico’ sulla legge elettorale per ottenere questo risultato finché la stessa magistratura organizzata non sceglierà di operare una vera rivoluzione interna ponendo fine alle ingerenze sui candidati da eleggere e abbandonando le logiche pseudo partitiche. Occorrono personalità che una volta elette siano veramente autonome e indipendenti sia dalla politica che dalle stesse correnti. Sarebbe utile prevedere collegi elettorali piccoli in modo che i singoli magistrati votino i colleghi di cui possono conoscere direttamente la serietà, la credibilità e la professionalità. Un altro punto controverso è quello delle nomine a “pacchetto”, una prassi diventata regola che ha permesso di dividersi tra le correnti i ruoli dirigenti negli uffici giudiziari. Un sistema che non sempre ha premiato il merito, ma spesso la fedeltà correntizia. È evidente, oltre che giusto, che solo scelte basate sulle qualità dei candidati può superare un’impasse che attualmente danneggia gravemente la credibilità della magistratura. Il ‘bilancino’ tra le correnti non può più essere il criterio per la scelta dei magistrati che devono guidare tribunali, procure, Corti d’appello o per la Corte di Cassazione. Ruoli peraltro diventati ancora più importanti rispetto al passato dopo la riforma che ha rafforzato i poteri di chi guida gli uffici giudiziari. Un aspetto sempre più importante è poi quello relativo alla funzione del Csm di “giudice” dei magistrati creando una situazione per cui i controllori sono votati da chi deve essere controllato e, in alcuni casi, sanzionato. Da tempo sono convinto della necessità di trovare una soluzione innovativa che preveda un diverso organo che valuti le eventuali sanzioni disciplinari. È una soluzione complicata ma indispensabile che deve avere come presupposto una totale autonomia e indipendenza. Per questo è del tutto condivisibile la proposta avanzata da Luciano Violante perché venga introdotta un’Alta Corte delle Magistrature costituita con criteri analoghi a quelli della Consulta. Sarebbe quello il giudice per le decisioni amministrative e disciplinari. Quanto ai magistrati che si candidano a ruoli pubblici, debbono essere posti limiti chiari sia rispetto alla candidatura nel Distretto in cui operano sia sul rientro in ruolo al termine del proprio mandato. Per chi invece è stato eletto è necessario evitare una volta per tutte il sistema delle “porte girevoli”. Chi ha deciso, del tutto legittimamente, di iniziare un’esperienza politica non può poi riprendere il ruolo “super partes” di chi fa parte della magistratura. Sul principio in Parlamento c’è una ampia maggioranza ma poi le stesse forze politiche si indignano quando questi casi riguardano altri partiti ma finiscono a loro volta per candidare magistrati, più o meno conosciuti, nella speranza, spesso dimostratasi errata, che possano riportare grandi consensi. Mattarella è stato applaudito da tutto il Parlamento quando ha sottolineato che la giustizia è un “elemento fondamentale del sistema costituzionale e della vita della vita della nostra società’. Ulteriori ritardi sarebbero quindi inaccettabili, non solo rispetto all’Europa ma anche verso i nostri concittadini. *Europarlamentare e vicepresidente commissione Affari costituzionali del Parlamento europeo Giustizia, non bastano dei ritocchi di Alessandra Ricciardi Italia Oggi, 10 febbraio 2022 Intervista a Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto di Venezia. Le correnti continueranno a condizionare il Csm con qualsiasi sistema elettorale venga fuori dal cilindro della ministra della giustizia, “l’unica è il sorteggio. Ma per farlo serve una modifica costituzionale”. L’avviso ai naviganti, alla vigilia del consiglio dei ministri che dovrebbe licenziare la discussa proposta del governo di riforma del Consiglio superiore della magistratura, è di Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto di Venezia, protagonista di inchieste storiche dalle Brigate rosse venete a Tangentopoli. “Ma ormai tutto il nostro sistema giuridico pone problemi di costituzionalità”, dice Nordio, “per esempio il nuovo processo penale, introdotto nel 1989 con il Codice Vassalli, per funzionare richiede la separazione delle carriere tra pm e giudice, la discrezionalità dell’azione penale, l’eleggibilità dei pubblici ministeri. Tutte cose in contrasto con la Costituzione. E questo spiega perché quel codice è stato demolito e ha fallito”. Del resto, problemi di costituzionalità, dice Nordio, “si potrebbero porre anche per il divieto al magistrato che ha fatto politica di ritornare a indossare la toga”, altro pilastro della riforma Cartabia. E allora? “C’è proprio bisogno di un’Assemblea Costituente che ci dia una Costituzione nuova”. Domanda. A tre anni dallo scoppio del caso Palamara, il governo ha stretto i ranghi e ha deciso di portare al prossimo consiglio dei ministri la riforma del Csm. Come spiega questa accelerazione? Risposta. L’accelerazione è dovuta al discredito nel quale è caduto l’organo di autogoverno dei magistrati, e alla percezione da parte dei cittadini che vi sia del marcio, per citare Shakespeare, nel regno delle toghe. L’appello e il monito di Sergio Mattarella hanno certamente contribuito a serrare i tempi. D. C’è ancora tensione sull’elezione dei consiglieri togati. L’ipotesi di un’elezione con un sistema maggioritario servirebbe a liberare il Csm dal potere delle correnti? R. Qualsiasi soluzione al di fuori del sorteggio lascerebbe le cose come sono. Il sistema delle correnti è così radicato soprattutto tra i magistrati meno giovani che i capicorrente si accorderebbero tra di loro per distribuirsi le candidature anche attraverso le desistenze, come avvenne per le elezioni politiche nel ‘94 con i collegi uninominali. È vero però che il sorteggio può porre problemi di costituzionalità. Ma ormai tutto il nostro sistema giuridico pone problemi di costituzionalità. D. Perché? R. Perché nel 1989 abbiamo introdotto il codice Vassalli, cosiddetto alla Perry Mason, recepito dalla cultura anglosassone. Ma quel sistema presuppone la separazione delle carriere, la discrezionalità dell’azione penale, la differenza tra il verdetto della giuria popolare e la sentenza del giudice togato, la ricusabilità dei giurati, e persino l’eleggibilità dei pubblici ministeri. Tutte cose in contrasto con la Costituzione. E infatti il codice del professor Giuliano Vassalli, un antifascista decorato, è stato demolito ed è fallito, mentre il codice penale, firmato da Benito Mussolini è ancora in vigore, e gode di buona salute. D. Intanto l’Associazione nazionale magistrati a maggioranza si è espressa contro il sorteggio, le toghe propendono per il proporzionale. R. Intanto hanno votato metà degli iscritti, poco più di quattromila su ottomila, il che dimostra una disaffezione verso questo sindacato. E poi il 42 per cento si è dichiarato favorevole al sorteggio. Una percentuale inimmaginabile fino a qualche anno fa, dove chi auspicava questo sistema veniva considerato sacrilego. Quando io lo scrissi, nel 1997, fui chiamato dai probiviri dell’Anm per renderne conto. Naturalmente li mandai al diavolo, ma ci provarono. D. E quindi? R. E quindi con i sistemi di cui si dibatte le correnti continueranno a controllare l’organo di autogoverno della magistratura. Solo il sorteggio può eliminare il rapporto clientelare tra elettore ed eletto. D. La maggioranza di governo è decisa anche a non consentire più il rientro in magistratura di chi fa politica. Cosa ne pensa? R. Io penso che un magistrato non dovrebbe nemmeno entrare in politica, soprattutto se ha acquisito visibilità e consensi con indagini che hanno coinvolto personaggi politici. Il divieto di rientro è il minimo sindacale per affermare la separazione dei poteri. Ma anche qui potrebbero porsi problemi di costituzionalità. D. E dei magistrati fuori ruolo, impegnati ai vertici dei ministeri? R. Alcuni posti è bene che vengano coperti da magistrati esperti, perché son quelli che conoscono meglio il sistema e le sue criticità. Ma sono numeri limitati. Il 90 per cento dei magistrati distaccati dovrebbe ritornare a fare il proprio lavoro. D. Altro tema sul tavolo del consiglio dei ministri è la separazione delle carriere. Manca un anno alle elezioni, è un tema alla portata di questo Parlamento che poi dovrebbe approvare la legge? R. Assolutamente no. La separazione delle carriere tra Pm e Giudice è necessaria, perché è consustanziale al processo accusatorio, e spero che il referendum sul punto sia giudicato ammissibile dalla Corte costituzionale e che i cittadini diano un messaggio forte sulla necessità di una riforma radicale. Ma questo Parlamento non ha né la volontà ne la forza politica per un provvedimento che incontra ancora oggi l’ostilità dell’associazione magistrati. D. Perché tanta ostilità? R. Ufficialmente perché, secondo l’Anm, questa separazione infrangerebbe la cosiddetta “cultura della giurisdizione”, che vorrebbe accomunati Pm e Giudici nello stesso ambito. In realtà si tratta di una formula vuota che non significa nulla, uno slogan ripetuto come un chiacchiericcio infantile. La ragione vera è che chi entra in magistratura sa di avere questo benefit, che gli consente di cambiare ruolo e sede quando vuole. Toglierlo senza compensi è come cambiare le regole contrattuali, e sotto questo profilo la protesta è giustificata. Ma se il governo dicesse “vi aumentiamo di un terzo lo stipendio” per ripagarvi di questa sottrazione, credo che la gran parte accetterebbe, ovviamente se l’offerta fosse avanzata con eleganza e discrezione. D. Luciano Violante ha proposta un’Alta corte, con funzioni di appello sulle sanzioni disciplinari del Csm e per i ricorsi contro le nomine. Favorevole? R. Certamente sì. È un’idea idea già proposta più di vent’anni fa con la bozza Boato, nell’ambito della Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema. Ma si trattava appunto di una riforma costituzionale. Come si vede, c’è proprio bisogno di un’Assemblea Costituente che ci dia una Costituzione nuova. Allarme dei 5S sulle “porte girevoli”: i giudici che diventano ministri possono rimettersi la toga di Liana Milella e Conchita Sannino La Repubblica, 10 febbraio 2022 La riforma del Csm e il tweet di Costa (Azione): a differenza dei parlamentari “lo stop alle sliding doors promesso dalla ministra Cartabia non riguarda i pm che hanno fatto parte del governo”. I casi Gratteri e Manzione. Brutto risveglio, e subitanea delusione, per M5S sulla riforma della giustizia. Di mezzo ci sono le toghe in politica e lo stop alle cosiddette “porte girevoli”. Dalla stanza di Marta Cartabia, alle sette di sera, erano usciti soddisfatti l’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede e il capogruppo in commissione Giustizia, nonché relatore sulla riforma del Csm, Eugenio Saitta, entrambi convinti che la ministra era intenzionata a riprendere integralmente il testo dello stesso Bonafede sulle toghe in politica. Che contiene uno stop netto alle cosiddette “porte girevoli”, per cui non si sarebbero più verificati in futuro i casi Maresca. Stiamo parlando di quel Catello Maresca, toga anticamorra, ex pm a Napoli e poi sostituto procuratore generale, candidato sindaco, sconfitto dall’attuale sindaco Gaetano Manfredi, e che all’indomani del voto è stato assegnato dal Csm come giudice alle Corte d’Appello di Campobasso, anche se siede nel consiglio comunale di Napoli nelle file del centrodestra. Mai più casi Maresca? La Cartabia lo aveva garantito anche alla festa di Atreju, con Giorgia Meloni seduta in prima fila. Se per l’attuale doppia veste di Maresca l’incompatibilità diventa effettivamente definitiva, nel testo che potrebbe passare venerdì in Consiglio dei ministri, s’innesta un’altra sorpresa, e il conseguente allarme di M5S. Succede che alle 7 e 54 il mattutino Bonafede legge sul suo cellulare un tweet di Enrico Costa di Azione che suona così: “Tutti i giornali titolano che non ritorneranno in toga i magistrati che hanno fatto politica. M5S esulta. Ma basta scavare un po’ e si scopre che un magistrato potrà tranquillamente fare l’assessore regionale, il ministro o il sottosegretario e tornare a fare il Pm (dopo 5 anni)”. Sorpresa. Ma di chi parla Costa? Che la sera prima, ultimo dei convocati davanti alla Cartabia e al capo di gabinetto di Draghi Antonio Funiciello, sul punto ha minacciato addirittura di votare contro la riforma del Csm? Alle nove di sera Costa scopre che se un giudice entra a far parte del governo può tranquillamente tornare a mettersi la toga. Per lui, a differenza dei parlamentari, non varrà la regola dello stop alle “porte girevoli”. Un’eccezione che lo stesso premier Mario Draghi avrebbe chiesto espressamente. Per capire le conseguenze facciamo degli esempi. Se, nel 2014, l’attuale procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri fosse diventato ministro della Giustizia come l’allora premier Matteo Renzi chiese a Giorgio Napolitano, con la futura legge sarebbe tornato a vestire la toga. Proprio come ha fatto, diventando procuratore di Lucca a settembre dell’anno scorso, l’ex sottosegretario all’Interno Nicola Manzione, non senza dure polemiche all’interno del Csm, dove c’era chi sosteneva che un incarico “politico” come il suo avesse comunque già appannato la sua immagine di indipendenza. Ovviamente Manzione non la pensava così, e comunque dopo due rinvii nella commissione per gli incarichi direttivi la sua nomina è passata. Poiché il destino delle toghe in politica riguarda non solo i magistrati ordinari, ma anche quelli amministrativi, contabili, militari e gli avvocati e i procuratori dello Stato, una “liberatoria” che esclude i ruoli di governo dalla strettoia delle “porte girevoli” salverebbe anche i consiglieri di Stato, a partire dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Roberto Garofoli, eminenza grigia di palazzo Spada, che due giorni fa ha discusso proprio con Marta Cartabia il testo della riforma. Ma sulla faccenda M5S fa trapelare un sentito “allarme”, convinto com’è, e come già aveva previsto Bonafede nel suo disegno di legge, che anche chi ricopre incarichi politici di governo debba poi rinunciare a rientrare nei palazzi di giustizia, ma accettare la collocazione a via Arenula, a palazzo Chigi, oppure in altri dicasteri. Ad agitarsi sulla questione sarebbe anche il ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta, nonché la responsabile Giustizia della Lega Giulia Bongiorno, in frenetica attesa che arrivino i testi scritti della riforma. Stessa attesa per Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia alla Camera, che non nasconde i dubbi sulla legge elettorale, un maggioritario binominale con il recupero dei terzi migliori con il proporzionale, perché “sembra un sistema che ripropone le liste”. Più che un’Alta Corte è un “giudice misto” che può risolvere le liti di Raffaele Greco* Il Dubbio, 10 febbraio 2022 Il recente rilancio, nel dibattito politico sulla riforma della giustizia, della proposta di istituzione di un’Alta Corte competente a conoscere delle controversie relative agli atti del Csm e degli organi di autogoverno delle altre magistrature, oltre che dei ricorsi contro le sanzioni disciplinari irrogate dagli stessi ai magistrati, coincide curiosamente con l’uscita di un saggio di Sergio Rizzo specificamente dedicato al Consiglio di Stato e alla giustizia amministrativa, nelle cui conclusioni, dopo aver rilevato che buona parte dei mali che affliggono la giustizia italiana dipende dalla sua autoreferenzialità, l’Autore esamina proprio la detta proposta mostrandosi pessimista sulla sua idoneità a costituire una soluzione all’annoso problema. In effetti, come è stato osservato anche su queste pagine, per il modo stesso in cui è formulata, l’ipotesi dell’Alta Corte appare velleitaria e con ben poche probabilità di trovare attuazione nel residuo scorcio di legislatura. Ciò non toglie però che essa nasca dalla diagnosi di criticità realmente esistenti nell’ordinamento, riconducibili al difficile equilibrio tra l’esigenza di garantire il diritto dei singoli alla tutela giurisdizionale e il rispetto della legalità anche nei confronti degli organi di vertice delle magistrature, da una parte, e la necessità di rispettare le prerogative di autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario, dall’altra. Il problema emerge soprattutto con le tensioni che sempre insorgono tra la magistratura ordinaria e quella amministrativa ogni qual volta quest’ultima interviene sui più rilevanti provvedimenti del Csm, come da ultimo avvenuto per le nomine dei vertici della Cassazione. Ma non può sottacersi che anche all’interno della stessa magistratura amministrativa, come attestato da specifiche vicende riferite nel volume citato, emergono con sempre maggiore evidenza le difficolta del Tar del Lazio e del Consiglio di Stato a porsi quali giudici davvero sereni e obiettivi di atti e questioni che li riguardano più o meno direttamente. È però pericoloso pensare di risolvere tali problemi devolvendoli a un organo i cui componenti, pur autorevoli, siano selezionati - come si vorrebbe - con criteri analoghi a quelli stabiliti per la Corte costituzionale. Tale opzione presenta evidenti aspetti di incostituzionalità non solo per contrasto col divieto di istituzione di nuovi giudici speciali (art. 102 Cost.), ma anche per la “inedita” attribuzione di funzioni giurisdizionali (tali essendo quelle relative all’impugnazione dei provvedimenti disciplinari e degli altri atti di autogoverno) a soggetti estrani all’ordine giudiziario, designati in maggioranza a livello politico e per il resto eletti dalle stesse magistrature, modalità di accesso all’ordine giudiziario a sua volta ignota al nostro ordinamento. Ma al di là di ciò, che comunque evidenzia la necessità di una revisione costituzionale, il rischio è che in un tale organo, proprio per la sua genesi, si riproducano a livello più elevato quelle stesse logiche di contiguità politico- corporativa che in teoria si vorrebbero eliminare. In realtà, è chiaro che per le controversie riguardanti i magistrati c’è bisogno non di una “stanza di compensazione” politica, ma di un Giudice: un Giudice non solo terzo e imparziale, ma immune anche solo da sospetti di permeabilità a pressioni e condizionamenti correntizi o corporativi. Non è un obiettivo facile, ma si potrebbe provare a raggiungerlo attraverso l’introduzione di un organo misto, composto da giudici provenienti dalla Corte di cassazione, dal Consiglio di Stato e dalla Corte dei conti, in possesso di determinati requisiti di esperienza e sorteggiati periodicamente dai rispettivi organi di autogoverno; un tale organo potrebbe occuparsi, in forme tutte da definire, dei ricorsi contro i provvedimenti del Csm e degli organi analoghi in modo più efficace e senza dar luogo a polemiche, in quanto nell’osmosi tra i diversi componenti si “dissolverebbero” le spinte corporative legate all’estrazione di ciascuno di essi. Una tale ipotesi potrebbe forse essere percorribile a Costituzione invariata, modellando il nuovo organo giurisdizionale sullo schema del Tribunale superiore delle acque pubbliche (già a composizione mista e che la giurisprudenza tende oggi a inquadrare come Sezione specializzata della Corte di cassazione, anziché come giudice speciale). Che perciò solo si tratti di ipotesi effettivamente praticabile è però tutt’altro discorso, dipendendo da fin troppo note e imprevedibili variabili politiche. *Presidente di Sezione del Consiglio di Stato “Nell’accusa di concorso esterno è difficile capire da cosa ci si debba difendere” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 10 febbraio 2022 “Non esistono processi che richiedono poco impegno”. Il professor Vincenzo Maiello (ordinario di Diritto penale nell’Università degli Studi di Napoli “Federico II) e l’avvocata Maria Licata del Foro di Catania parlano della loro attività difensiva in favore di Raffaele Lombardo, ex presidente della Regione Siciliana, assolto dalla Corte d’appello di Catania dalle accuse di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale. “Nel processo Lombardo - dicono al Dubbio - la complessità del lavoro è dipesa dall’imponenza del materiale probatorio e da una imputazione che ha inteso ricondurre a un’unica ipotesi di reato un decennio di competizioni elettorali amministrative e di impegno politico. Essendo entrambi intervenuti solo in questo grado di giudizio, abbiamo avuto il vantaggio, sopportandone tuttavia anche il peso e la responsabilità, di poter riorganizzare l’enorme mole delle evidenze secondo criteri di selezione coerenti con la tipicità del reato contestato, nei termini sagomati con rigore dalla sentenza rescindente della Corte di Cassazione. La maggiore difficoltà, forse, è stata la grande quantità di prove dichiarative e documentali da riesaminare, confrontare e collocare in una corretta dimensione spazio- temporale, uscendo dalle logiche anarchiche dei precedenti gradi del giudizio di merito che avevano alternato ratio decidendi tra loro asimmetriche, entrambe, a nostro avviso, non condivisibili”. Nei confronti di Raffaele Lombardo si è verificata una “contestazione alluvionale”. Il compito della difesa è stato quello di eliminare il “troppo” e il “vano” per richiamare l’attenzione della Corte d’appello di Catania affinché le prove potessero essere messe al centro di ogni argomentazione. “Per quanto sembri paradossale - evidenziano Maiello e Licata - buona parte delle migliaia di pagine che compongono il processo e delle prove assunte erano del tutto estranee al thema probandum. Va riconosciuto alla sentenza di rinvio della Cassazione il merito di avere perimetrato in termini assai chiari l’oggetto della prova, in relazione all’accusa di concorso esterno mediante patto politico mafioso. Il processo è stato riportato alla sua fisiologica dimensione, la stessa, del resto, già individuata con estremo rigore esegetico nella prima richiesta di archiviazione avanzata della Procura della Repubblica di Catania”. L’odissea giudiziaria di Lombardo ha riproposto l’esigenza di un processo penale fondato sul primato delle garanzie. “Dopo le stratificazioni novellistiche dell’emergenza e la creazione di un doppio livello di legalità processuale - commentano i due legali -, il nostro processo è alla ricerca di una sua identità. Sarebbe, però, ingeneroso non riconoscerne una chiara ispirazione alla cultura delle garanzie individuali. Piuttosto, quel che non sempre si riscontra nella prassi è l’adeguatezza dei livelli di professionalità dei suoi attori, avvocati compresi. L’esperienza insegna che non bastano le garanzie proclamate dalle norme, ma è necessaria la capacità dei soggetti del processo di trasformarle in diritto che vive. Spesso dietro vicende di malagiustizia si nascondono difetti di approfondimento di vario genere e scarsa sensibilità ai valori di civiltà della giurisdizione. Resta, tuttavia, indubbio che molti aspetti della vigente normativa processuale reclamano riforme nell’ottica di un pieno recupero dei caratteri del modello accusatorio, che sono stati oscurati dagli innesti del doppio binario nei quali sembra di cogliere la logica medioevale dell’accertamento semplificato per i reati di maggiore gravità, i cosiddetti crimina extraordinaria. Nel processo Lombardo non vi sono state compressioni di garanzie difensive determinate da violazioni della legge processuale. Semmai, la vicenda ha scontato i limiti interni alla fattispecie del concorso esterno in scambio politico- elettorale, la cui porosità e incertezza di confini spianano la strada a mega inchieste e gigantismi probatori innanzi ai quali l’imputato è portato a chiedersi: “ma io di cosa sono accusato e come devo difendermi?”“. Spesso, per usare due felici definizioni di Luigi Ferrajoli, il processo penale diventa “storia di errori” e il diritto penale “storia di orrori”. “Tali espressioni - aggiungono gli avvocati di Lombardo - sottolineano il carattere storicamente determinato delle istituzioni penali, intrinseche alla loro natura di pratiche sociali governate dagli uomini. Da esse l’errore non è, perciò, eliminabile, può solo essere ridimensionato migliorando la qualità delle norme e dei comportamenti di chi è chiamato ad applicarle. Occorre avere consapevolezza che il processo non obbedisce alla logica formale degli algoritmi, ma è il luogo ove si confrontano dialetticamente ricostruzioni di fatti e tesi giuridiche ciascuna delle quali aperta alla smentita e alle obiezioni confutatorie. Il contributo della difesa, specie quando è portatrice di buone ragioni e si veste di forza argomentativa, può risultare quindi decisivo per la formazione di decisioni giuste”. Il sistema di Common Law è stato messo al centro delle tesi difensive degli avvocati Maiello e Licata. L’osservazione della realtà spesso viene sacrificata in nome di proiezioni cervellotiche sganciate dalla stessa realtà e i danni che ne derivano non sono di poco conto. “Il concorso esterno in associazione mafiosa - concludono - è, nella sua sostanza precettiva, fattispecie di creazione giurisprudenziale. Ciò che occorre decisamente combattere è la tendenza a costruire i presupposti della punibilità a partire dai risultati della prova, anziché ricavarli dalla struttura della fattispecie, quale che sia la fonte, pur ribadendo che il nostro sistema di civil law non tollera congegni punitivi di judge made law. Nel processo a carico del presidente Lombardo ci siamo sentiti impegnati a rivendicare la primazia del diritto penale del fatto nel governo delle dinamiche probatorie”. Via D’Amelio: un complotto lungo trent’anni di Tiziana Maiolo Il Riformista, 10 febbraio 2022 Tutte le tappe, dal bluff Scarantino all’ammuina del Csm. Il più grande complotto di Stato mai avvenuto nella storia d’Italia e che si è svolto nell’arco di trent’anni porta il nome glorioso di Paolo Borsellino, e insieme quello del “pentito” costruito in vitro di Enzo Scarantino. Quanti magistrati, pubblici ministeri, giudici togati e popolari, membri del Csm e procuratori generali, e poi questori, prefetti e poliziotti sono i colpevoli per aver preso parte al complotto? E quanti di loro -a parte tre agenti che rischiano di finire allo spiedo come unici capri espiatori- risponderanno, oltre che per la violazione della memoria di un grande magistrato, per aver truccato le carte, nascosto carte, nastri registrati e testimonianze, mandato in galera gli innocenti? Dobbiamo ancora una volta dire grazie a Luca Palamara, ben sollecitato da Sandro Sallusti nella seconda puntata sulla vera e unica Casta, quella delle toghe, per averci dato sul fattaccio qualche illuminazione in più, pure a noi che su questo scandalo di Stato credevamo di sapere tutto. Ci fa anche sentire un po’ come quelli che hanno continuato a guardare il dito senza vedere la luna, questa parte del libro, diciamo la verità. Perché, partendo dai primi passi con cui il picciotto Enzino fu preso per mano e accompagnato a suon di botte, sputi, vermi e vetro nella minestra, ricatti, suggerimenti e promesse a dire il falso per depistare dalle ragioni vere per cui Borsellino fu assassinato, si arriva fino al coinvolgimento del Csm e del procuratore generale Fuzio, invano coinvolto dalle figlie del magistrato ucciso. Dal 1994 al 2018, e poi 2019, l’anno del pensionamento del vertice della magistratura. Ecco il trentennio del complotto, se prendiamo come punto di riferimento il 1992 come anno della strage di via D’Amelio e il 2022 con le ultime rivelazioni del magistrato Luca Palamara, che non è innocente in questa storia, come lui stesso racconta. Sono numerosi i passaggi attraverso i quali il bluff Scarantino avrebbe potuto essere disvelato. Si sarebbe potuto fare giustizia. Non solo individuando gli autori del delitto, ma anche il movente. Si è voluto perdere tempo e sviare l’attenzione. Il che significa depistare. Facciamo finta per un attimo di essere noi i pubblici ministeri e mettiamo insieme i capi d’accusa. Primo: le torture nel carcere di Pianosa (e Asinara), che non hanno riguardato solo Scarantino, ma una serie di detenuti trasferiti d’improvviso di notte da tutte le prigioni del sud. Segnale forte di governi deboli nella lotta alla mafia, con i boss che ordinavano le stragi dalla latitanza. Le denunce di quel che avveniva in quelle prigioni speciali riaperte per l’occasione erano state oggetto di interrogazioni parlamentari, di proteste degli avvocati e dei parenti dei detenuti, diventati il bersaglio di una vendetta dello Stato che non riusciva a trovare e punire i colpevoli. La moglie di Scarantino aveva reso pubblica una lettera con accuse precise nei confronti del questore di Palermo Arnaldo La Barbera, denunciando la costruzione del “pentitificio” attraverso le torture. E il procuratore di Palermo Giancarlo Caselli si era presentato in conferenza stampa, con al fianco il procuratore generale e il questore, per scagionare La Barbera e confermare l’attendibilità di Scarantino. Punto secondo: fin dal 1994 era agli atti una relazione dei pubblici ministeri Ilda Boccassini e Roberto Saieva al procuratore capo di Caltanissetta Tinebra in cui documentavano l’inattendibilità del collaboratore di giustizia. Lo avevano messo alle strette sulle sue deposizioni e avevano capito che, nel riferire di fatti e persone, straparlava di soggetti che neanche conosceva. Boccassini, che era stata applicata da Milano nella città nissena nel 1992 in seguito all’uccisione di Giovanni Falcone e nel 1994 era in partenza per tornare nella sua città, ma si era detta disponibile a rinunciare alle ferie per poter continuare a interrogare Scarantino. Niente da fare. Così, con il collega, aveva lasciato la sua relazione. Che però è sparita. E ovviamente non è stata mai messa a disposizione dei giudici degli undici processi che si sono occupati della morte di Paolo Borsellino. La sua testimonianza verrà utilizzata solo una quindicina di anni dopo, al Borsellino-quater, quando l’imbroglio verrà svelato. Ma l’anno scorso quando è stata chiamata anche al processo contro i tre agenti accusati del depistaggio, non solo ha raccontato che il procuratore Tinebra si chiudeva per ore in una stanza con Scarantino prima di ogni sua deposizione, ma si è riscontrata violentemente con il pm di udienza che non voleva fosse lasciata parlare. A proposito di atti spariti, arriviamo al punto terzo, sulla base del quale il castello delle dichiarazioni di Enzino sarebbe crollato, se qualcuno avesse voluto indagare secondo le regole. Il 13 gennaio del 1995 c’era stato il confronto tra il finto pentito e tre collaboratori doc, Gioacchino La Barbera, Totò Cancemi e Santino Di Matteo. Le deposizioni erano state registrate in 19 bobine. Un confronto importante, nella fase precedente al primo processo Borsellino, la cui sentenza è datata a un anno dopo, nel gennaio del 1996. Da quei verbali, come già dalla relazione dei pm Boccassini e Saieva, emergeva il fatto che, messo davanti a tre boss di un certo rilievo, Scarantino era in seria difficoltà, perché neppure lo conoscevano. Era caduto continuamente in contraddizione, non sapeva neppure dove fosse quella via D’Amelio in cui diceva di aver portato l’auto imbottita di tritolo. Bene, anche quei verbali erano spariti, e all’avvocato Rosalba Di Gregorio, che difendeva alcuni imputati accusati ingiustamente, che ne chiedeva copia, i procuratori di Palermo e Caltanissetta rispondevano con un assurdo ping-pong rimbalzandone la custodia e la responsabilità l’un l’altro. Solo al Borsellino-ter le carte sono ricomparse, quando forse era tardi. Quindi: le torture che hanno creato il “pentito”, la relazione sparita dei pm come Boccassini e Saieva che avevano denunciato l’imbroglio, il confronto con tre boss che l’avevano smascherato. Tutto questo dimostra che fin dal 1994-95 le indagini avrebbero potuto prendere un’altra strada. E avremmo potuto mettere insieme già un bel numero di nomi di magistrati, Tinebra, Lo Forte, Petralia, Palma, Di Matteo, Caselli, quelli che hanno voluto credere al fatto che per uccidere Borsellino fosse sufficiente assoldare un piccolo spacciatore del quartiere della Guadagna di Palermo. E che questa testimonianza, ottenuta con le torture, bastasse a costruire processi, a mostrare all’opinione pubblica la verità sulla strage di via D’Amelio. Del resto hanno avuto ragione. E ai loro nomi occorre aggiungere tutti quelli di pm e pg e giudici togati e popolari che hanno seguito lo stesso percorso. Fino al Borsellino-quater e la deposizione di Gaspare Spatuzza. Possiamo tralasciare il fatto che lo stesso Scarantino, da un certo momento in avanti, cominciò a ritrattare e a raccontare chi gli dava i suggerimenti alla vigilia di ogni interrogatorio. Perché nel frattempo dei pm che gestirono le deposizioni di Scarantino e che sono stati indagati per i depistaggi, Petralia e Palma hanno avuto la soddisfazione di veder archiviata la propria posizione, mentre Di Matteo è rimasto sempre solo testimone. Era giovane, si sa. Ma l’assassinio di mio padre era così poco importante da esser affidato a un pm ragazzino, si è domandata Fiammetta, l’indomita figlia del magistrato assassinato. È grazie alle iniziative sue e di sua sorella Lucia, che apprendiamo l’ultimo passaggio del Complotto di Stato, che coinvolge quello che fu un vertice della magistratura, il procuratore generale Riccardo Fuzio, poi costretto alle dimissioni in seguito alla vicenda Palamara e la riunione all’hotel Champagne. Nel 2018 le due sorelle avevano inviato all’alto magistrato tutta la documentazione (quel che abbiamo finora raccontato e magari molto altro), nella speranza che esercitasse il suo potere di iniziativa disciplinare. Che cosa ha fatto l’impavido magistrato? Prima il nulla, per un intero anno, e poi il peggio, con una lettera ipocrita, mentre aveva già un piede fuori dal palazzo. Avrei voluto (ma ahimè ora non posso più) parlarne all’inaugurazione dell’anno giudiziario, scrive. E loro gli rispondono no grazie, non di celebrazioni ha bisogno la memoria di nostro padre, ma di assunzioni di responsabilità. E del resto, che cosa ha fatto il Csm nel 2017, quando lo imponeva la vergogna di quel che era emerso nel processo Borsellino-quater con la sua verità? Ammuina, racconta con un po’ di vergogna Luca Palamara nel libro. Perché? Perché aleggiava il nome di Di Matteo. Che era ed è molto potente. Ecco come vanno le cose, da trent’anni a questa parte. Ecco perché, tutto sommato, temiamo che non cambierà mai niente anche se, oltre al dito, ora noi, ma anche l’attuale Csm o il Pg in carica, abbiamo guardato anche la luna. Cioè il Complotto di Stato. Caso Cerciello Rega, umiliazioni e botte nella caserma degli orrori di Valentina Stella Il Dubbio, 10 febbraio 2022 Dopo le foto del ragazzo americano bendato, ora spuntano le chat tra i militari: ci sono riferimenti a Stefano Cucchi e “promesse” di pestaggi. Si apre domani a Roma il processo di appello per la morte del vice brigadiere Mario Cerciello Rega. I due imputati, Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth, vi arrivano con una pesante condanna all’ergastolo perché i giudici hanno creduto alla versione del collega di Cerciello Rega, Andrea Varriale, il quale ha sostenuto che lui e Mario si erano qualificati come carabinieri e poi erano stati assaliti dai due americani. Ma è andata davvero così? I dubbi sono molti, data la controversa condotta di alcuni esponenti dell’Arma, emersa durante il dibattimento di primo grado. Basti pensare al fatto che Varriale, l’unico vero testimone dei fatti, per timore di una punizione aveva mentito ai suoi superiori dicendo di aver avuto con sé la pistola d’ordinanza, circostanza poi smentita. Le nostre perplessità sull’operato di alcuni carabinieri si rafforzano alla luce di quanto sta emergendo nel processo costola riguardante il bendaggio dell’imputato Gabriel Natale nella caserma di via In Selci. Come già raccontato, infatti, nel processo sono state acquisite come prove documentali alcune scioccanti conversazioni tratte da chat whatsapp tra diversi militari dell’Arma. Esse sono altresì contenute nel fascicolo di un altro processo a carico del carabiniere che scattò e diffuse la foto di Gabriel. Ma pende anche un terzo procedimento a carico dell’ex comandante della stazione di Piazza Farnese, a cui viene contestato il reato di falso. Ricapitolando: sono in corso un processo principale e tre satelliti. Domanda: perché non accorpare gli ultimi tre in un unico procedimento? Per non ricostruire un quadro preoccupante della condotta dei carabinieri, una sorta di “dividi e sminuisci”? Tornando alle chat, le abbiamo lette ma, per coerenza con la posizione di questo giornale, ve le racconteremo e non faremo i nomi delle persone coinvolte, in quanto anche per loro vale la presunzione di innocenza, o il diritto a non essere dileggiate se non coinvolte in prima persona nel procedimento. Però non possiamo sottrarci dal giudicarle stupefacenti per la loro gravità, essendo state pronunciate da chi dovrebbe rispettare le regole, garantire il rispetto dei principi dello Stato di Diritto, custodire responsabilmente cittadini privati della libertà personale. Vi abbiamo già raccontato che Gabriel viene bendato e ammanettato dietro la schiena; subisce poi una sorta di interrogatorio in assenza del suo avvocato. E non sappiamo per quanto sia andato avanti tutto questo. Prima, durante e dopo questi momenti concitati nelle chat si scatena la peggiore violenza verbale che inneggia anche a quella fisica, verso entrambi gli indagati. Ci si augura che vengano ammazzati, oppure sciolti nell’acido, insomma che gli venga fatta fare la fine di Cucchi. E ad un carabiniere che accenna all’intervento eventuale di un rappresentante Cobar che aveva detto che i due ragazzi non si dovevano toccare, gli viene addirittura risposto di ammazzare pure il sindacalista. Un altro poi, con un pizzico di lucidità, suggerisce che dovrebbe essere un’altra la stazione dei carabinieri a prenderli in custodia, non quella di appartenenza della vittima, perché sostiene che è facile che ci scappi un pestaggio. Però qualche mazzata e un taglio ai genitali se li devono prendere, dice un altro, mica possono solo essere arrestati, prosegue il collega. La preoccupazione dei militari è che con le leggi che abbiamo escano subito dal carcere per buona condotta e poi gli si dedichino film e speciali tv. Tutto questo è già scandaloso ma non finisce qui perché poi arriva l’ammissione anche della violenza fisica, in nome dell’occhio per occhio e con l’invocazione della pena di morte: uno racconta che appena il sospettato è arrivato in caserma gli ha dato uno schiaffo, mentre altri gli davano ginocchiate sul petto, ‘rassicurando’ tuttavia che non avevano alzato troppo le mani. Oltre questo quadro allucinante di violenza verbale e fisica ce n’è un altro non meno importante e che riguarda da vicino il processo principale. È davvero chiaro quello che è accaduto quella calda e tragica notte di luglio? Sono gli stessi carabinieri a sollevare dei dubbi nelle chat, quando sostengono che gli avvocati difensori si appelleranno a qualcosa, anche perché - aggiungono - non c’è chiarezza dei fatti, tanto è vero che ammettono che tra colleghi della caserma ci si stanno scambiando opinioni perché le cose non sono chiare a nessuno, e non credono molto alla versione data da un altro collega. Probabilmente si stanno riferendo al compagno di Cerciello Rega, Andrea Varriale, che secondo loro sta nascondendo qualcosa, forse anche per paura. L’Arma, stigmatizzando questi “toni offensivi ed esecrabili”, sta valutando azioni nei confronti degli autori di quelle affermazioni: “non appena gli atti con i nominativi dei militari coinvolti saranno resi disponibili, l’Arma - si legge nel comunicato diffuso dal Comando generale - avvierà con immediatezza i conseguenti procedimenti disciplinari per l’adozione di provvedimenti di assoluto rigore”. E però questo quadro allarmante ci pone un grande interrogativo: possiamo fidarci, o meglio, la Corte di Assise di Appello di Roma può fidarsi delle dichiarazioni già rese o che verranno rese dai carabinieri in aula, considerato il rispetto che nutrono per le nostre leggi e tutta la cortina di fumo che aleggia su quella notte e sui giorni successivi? Tutto questo scenario non dovrebbe sollevare un ragionevole dubbio a favore degli imputati che hanno sempre dichiarato che Cerciello Rega e Varriale non si sono qualificati quando sono intervenuti? Caso Cerciello Rega, le frasi shock dei carabinieri: “Bisogna scioglierli nell’acido” di Marina Della Croce Il Manifesto, 10 febbraio 2022 Cerciello, i commenti sui due giovani americani arrestati per l’omicidio. Le espressioni violente sono apparse in una chat privata dei militari. “Squagliateli nell’acido”, “Fategli fare la fine di Cucchi”. Frasi scioccanti, che sono apparse nella chat privata di alcuni carabinieri, uomini che dovrebbero garantire il rispetto della legge. E invece no. Le esternazioni risalgono al 26 luglio 2019, giorno dell’arresto di Gabriel Natale Hjorth e Finnegan Lee Elder, i due giovani turisti americani condannati in primo grado all’ergastolo il 6 maggio dello scorso anni per l’omicidio avvenuto a Roma del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, e il cui processo di appello comincia proprio oggi nella capitale. Frasi sulle quali il Comando generale dell’Arma ha aperto un’indagine con la promessa di punire i responsabili. La trascrizione della chat che inchioda i militari si trova tra gli atti del processo a carico di Fabio Manganaro, il militare indagato di misura di rigore non prevista dalla legge per aver bendato Hjorth mentre si trovava in una stanza del comando di via In Selci. La foto del ragazzo, seduto su una sedia con le mani ammanettate dietro la schiena, la testa china e la benda sugli occhi ha fatto il giro del mondo suscitando numerose critiche sul comportamento avuto in quell’occasione dai militari. Adesso il contenuto della chat apre un nuovo capitolo nero per l’Arma. Lo sfogo dei carabinieri comincia subito dopo l’arresto, mentre i due americani si trovavano in macchina per essere condotti nella caserma di via In Selci. “Li abbiamo presi, stiamo venendo al reparto”, comunica un militare. I commenti alla notizia sono una violenza estrema: “Ammazzateli di botte”, oppure: “Speriamo che gli fanno fare la fine di Cucchi”, riferendosi al giovane geometra romano morto nel 2009 dopo essere stato arrestato per possesso di droga. E ancora: “Bisogna squagliarli nell’acido”, mentre un carabiniere scrive: “Non mi venite a dire arrestiamoli e basta. Devono prendere le mazzate. Bisogna chiuderli in una stanza e ammazzarli davvero”. Per il Comando generale quelli usati dai carabinieri sono “toni offensivi ed esecrabili”, come si legge in una nota nella quale si annuncia che “non appena gli atti con i nominativi dei militari coinvolti saranno resi disponibili, l’Arma avvierà con immediatezza i conseguenti procedimenti disciplinari per l’adozione di provvedimenti di assoluto rigore. L’omicidio di Mario Cerciello Rega risale alla notte del 26 luglio 2019: dopo un tentato acquisto di droga, non andato a buon fine, i due americani, all’epoca diciannovenni, rubarono lo zaino di Sergio Brugiatelli, che aveva indicato loro il pusher. Brugiatelli (teste chiave della vicenda, deceduto qualche mese fa per un male incurabile) chiese aiuto al 112, e Cerciello con un collega venne inviato in soccorso per fermare la tentata estorsione messa in atto dai due giovani, che pretendevano 100 euro e della cocaina, per restituire il maltolto. Quando i militari cercarono di bloccarli, Elder reagì colpendo a morte Cerciello, prima di darsi alla fuga con l’amico. La mattina dopo, i due vennero fermati in un albergo del quartiere Prati, poco distante dal luogo dell’omicidio. Erano pronti a lasciare l’Italia e avevano nascosto in un controsoffitto il coltello, con lama da 18 centimetri, usato nell’agguato, che Elder aveva portato con sé dagli Stati uniti. Pittelli finalmente fuori dal carcere: “Può tornare ai domiciliari” di Simona Musco Il Dubbio, 10 febbraio 2022 Accolta la richiesta di scarcerazione dell’ex parlamentare di Forza Italia, rispedito in cella dopo la lettera appello a Mara Carfagna. Torna a casa Giancarlo Pittelli, ex deputato di Forza Italia e penalista, imputato per concorso esterno in associazione mafiosa nel processo Rinascita-Scott. Pittelli si trovava da oltre due mesi in carcere, dopo aver scritto una lettera indirizzata alla ministra per il Sud Mara Carfagna, alla quale chiedeva aiuto. Un appello fuori dalle regole, disperato, che si era rivelato un boomerang, data la scelta della ministra di consegnare la missiva all’Ispettorato di Pubblica sicurezza di Palazzo Chigi, che ha dunque inviato il tutto alla Questura di Catanzaro. Da lì l’intervento della Dda guidata da Nicola Gratteri, che aveva chiesto e ottenuto una misura più dura, rafforzando la propria idea di avere a che fare con un uomo che agisce consapevolmente al di fuori delle regole. Le giudici del Tribunale di Vibo Valentia Gilda Danila Romano, Germana Radice e Francesca Loffredo hanno accolto la richiesta dei difensori dell’ex parlamentare, Guido Contestabile e Salvatore Staiano, che hanno evidenziato le precarie condizioni di salute del penalista, da giorni in sciopero della fame contro accuse da lui definite “folli”. Nella decisione, le giudici hanno evidenziato che “il tempo trascorso dal momento della riapplicazione della massima misura custodiale nonché il complessivo comportamento dell’imputato possono far esprimere, allo stato, un giudizio prognostico favorevole di resipiscenza del Pittelli in punto di futuro rispetto delle prescrizioni sullo stesso gravanti”, motivo per cui può “ritenersi che le esigenze cautelari derivanti dalle contestazioni formulate nei confronti dell’imputato possono essere utilmente fronteggiate con la misura cautelare degli arresti domiciliari”. Rimane il divieto di comunicazione “con alcun mezzo, anche telefonico o telematico con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono”. Pittelli potrà comunque partecipare alle udienze del processo Rinascita-Scott “libero e senza scorta”. L’ex parlamentare era stato arrestato il 19 dicembre 2019, misura poi sostituita dagli arresti domiciliari dal Riesame. Una nuova ordinanza di custodia cautelare nell’ambito dell’inchiesta “Mala Pigna” lo fece però finire nuovamente in carcere il 15 novembre scorso, salvo poi la revoca della misura il successivo 7 dicembre. Ma la lettera indirizzata alla ministra lo aveva fatto finire di nuovo a Melfi, dove aveva dunque iniziato la sua protesta. Al suo fianco si sono schierate centinaia di persone, che hanno aderito all’iniziativa lanciata dal “Comitato promotore dell’appello per Giancarlo Pittelli”, presieduto dell’ex penalista Enrico Seta. L’appello aveva superato le 1500 firme, tra le quali si contano anche quelle di 25 parlamentari. Nei giorni scorsi, inoltre, il penalista aveva ricevuto in carcere la visita del Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, che lo aveva invitato a interrompere la sua protesta. Pedopornografia, le S.U. delimitano il concetto di “utilizzazione” del minore di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2022 Per la Cassazione, sentenza n. 4616 depositata ieri, restano escluse dalla rilevanza penale solo condotte realmente prive di offensività rispetto all’integrità psico-fisica. Focus delle Sezioni unite sul concetto di “utilizzazione” del minore nella realizzazione di materiale pedopornografico. Secondo la sentenza n. 4616 depositata oggi “si ha utilizzazione del minore allorquando, all’esito di un accertamento complessivo che tenga conto del contesto di riferimento, dell’età, maturità, esperienza, stato di dipendenza del minore, si appalesino forme di coercizione o di condizionamento della volontà del minore stesso, restando escluse dalla rilevanza penale solo condotte realmente prive di offensività rispetto all’integrità psico-fisica dello stesso”. Sulla base di questo principio di diritto la Suprema corte ha assolto un uomo condannato ex articolo 600-ter (Pornografia minorile), primo comma n. 1, cod. pen. ritenendo che il fatto non sussiste. L’articolo così recita: “È punito con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da euro 24.000 a euro 240.000 chiunque: 1) utilizzando minori di anni diciotto, realizza esibizioni o spettacoli pornografici ovvero produce materiale pornografico; [...]”. La condanna era derivata dal fatto che l’imputato, maggiorenne, era stato ritenuto colpevole di aver utilizzato la minore, all’epoca quindicenne, con la quale aveva una relazione intima, per la produzione di materiale pornografico. Secondo il G.u.p. di Roma tali condotte integravano anche i reati di cui all’art. 600-ter, quarto comma e 600-quater, cod. pen., a causa dell’invio del materiale nuovo fidanzato della ragazza ma li aveva ritenuti assorbiti nell’art. 600-ter, primo comma, cod. pen. La Corte di appello aveva poi confermato la decisione considerando non rilevante, e comunque non scriminante, che la minore, secondo quanto dalla stessa dichiarato innanzi al G.U.P., avesse acconsentito sia alla realizzazione delle immagini sia all’invio. Di diverso avviso le S.U. che al termine di una lunga disamina affermano che la sentenza del G.U.P. si è limitata ad escludere “in via di principio l’efficacia scriminante o esimente del consenso della minore alla realizzazione del materiale in contestazione senza, quindi, alcun ulteriore approfondimento sulle modalità di esso e sul contesto in cui è maturato”. La Corte di appello, nel rigettare l’impugnazione, ha continuato “a non confrontarsi con le deduzioni del ricorrente che facevano leva sulla assenza di fattori condizionanti la volontà della minore, sicuramente consenziente alla realizzazione del materiale; con la riconducibilità del fatto all’autonomia sessuale della coppia; con il fatto che il materiale era stato realizzato nell’ambito di un rapporto sentimentale ancora perdurante”. La Corte di merito, prosegue la sentenza, non ha neppure ritenuto necessario procedere all’audizione della giovane “per chiarire le circostanze in cui è maturata la decisione di realizzare il materiale erotico”. Ma si è limitata a svolgere “considerazioni di principio” e a richiamare decisioni di legittimità “sulla mancanza di efficacia scriminante del consenso della minore”, al contrario “ritenendo di per sé sintomo di fragilità della minore la predisposizione alla realizzazione e divulgazione del materiale pornografico”. Per la Suprema corte, dunque, la sentenza si pone in evidente contrasto con i principi già affermati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 52815 del 2018 e con quelli in precedenza sviluppati non avendo proceduto a verifiche di sorta, in ordine ai profili indicati. In quella decisione le S.U. hanno infatti affermato che: “Il discrimine fra il penalmente rilevante e il penalmente irrilevante … non è il consenso del minore in quanto tale, ma la configurabilità dell’utilizzazione”. Ed il termine - “utilizzando” - contenuto nell’articolo 600 ter comma 1 codice penale che ha sostituito il termine “sfruttare” chiarisce che l’assoggettamento del minore non deve essere necessariamente determinato da finalità di lucro, tuttavia richiede pur sempre piano concettuale la verifica condizione di asservimento per un vantaggio altrui. Mentre per quanto riguarda l’invio dei file al nuovo fidanzato, la Corte ha ribadito che “la diffusione verso terzi del materiale pornografico realizzato con un minore degli anni diciotto integra il reato di cui all’art. 600-ter, terzo e quarto comma, cod. pen. ed il minore non può prestare consenso ad essa”. Ma in questo caso il reato è stato giudicato prescritto. Monza. Detenuto di 33 anni suicida in carcere con la bomboletta del gas ansa.it, 10 febbraio 2022 Un uomo di 33 anni, tunisino, si è tolto la vita ieri sera nel carcere di Monza, dove era detenuto. Lo ha reso noto il sindacato di Polizia penitenziaria Uilpa. “Questa notte è accaduto nel carcere di Monza. Un detenuto tunisino di 33 anni, avrebbe finito di scontare la pena nel dicembre del 2024, si è tolto la vita inalando il gas del fornelletto che aveva in cella. È il decimo suicidio di un detenuto, uno ogni quattro giorni, dall’inizio dell’anno. Il secondo a Monza. A questo vanno aggiunti due appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria che si sono uccisi, per un istituto che è indubbiamente portatore di morte nell’indifferenza sostanziale della politica, del Ministero della Giustizia e del Governo che si trincerano dietro mere dichiarazioni di facciata, ma poi mancano negli atti concreti”. La denuncia è di Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria. “La Ministra Cartabia aveva annunciato che a gennaio il sistema penitenziario sarebbe stato la sua priorità - continua il sindacalista - gennaio è passato ed è stato, per le carceri, peggiore del già pessimo gennaio 2021; forse non abbiamo ben capito cosa volesse dire la Ministra. Mentre dal ministero s’istituiscono commissioni dalla denominazione altisonante, i cui lavori spesso si perdono nei cassetti ministeriali e di cui sarebbe interessante conoscere anche i costi, nelle prigioni sono ancora in uso i fornelletti da campo, quasi a confermare che si tratti di veri e propri campi di battaglia da condurre, soprattutto, contro le storture del sistema e l’inefficienza di una macchina amministrativa trascurata, se non del tutto abbandonata, dalla politica”. Pescara. Due indagati per il suicidio in carcere di Sabatino Trotta di Maurizio Cirillo e Paola Calvano Il Centro, 10 febbraio 2022 Chiusa l’inchiesta sulla morte del dirigente del Dipartimento salute mentale della Asl di Pescara. Per il pm, la tragedia poteva essere evitata se lo psichiatra arrestato fosse stato sorvegliato a vista. Il suicidio in carcere, a Vasto, di Sabatino Trotta, lo psichiatra e dirigente della Asl di Pescara arrestato il 7 aprile dello scorso anno nell’ambito di una inchiesta della procura pescarese, poteva essere evitato. A questa conclusione è giunto il sostituto procuratore di Vasto, Michele Pecoraro che, prima di lasciare il suo incarico, ha firmato l’avviso di conclusione delle indagini con il quale, per quella morte, punta il dito sulla direttrice del carcere di Torre Sinello, Giuseppina Ruggero, e su un suo agente addetto alla sorveglianza dei detenuti, Antonio Caiazza, accusati di concorso in omicidio colposo, per una serie di omissioni, anche clamorose, che avrebbero permesso al detenuto eccellente di superare il rigido protocollo che si applica ai detenuti al loro ingresso in carcere. La Ruggero, in particolare, “dopo la prima visita di medicina generale, richiedeva un colloquio immediato del detenuto presso di sé, inducendo in tal modo il Trotta a chiedere il differimento del colloquio psicologico” e tutti gli altri passaggi obbligati. E il clamore della vicenda emerge soprattutto dal fatto che nessuno sottopose Trotta a una accurata perquisizione, tanto che gli venne lasciato il laccio del pantalone della propria tuta con il quale lo psichiatra si impiccò: morte che, secondo l’autopsia, avvenne per “asfissia meccanica violenta da impiccamento”. E non meno grave è il fatto che il detenuto aveva con sé della sostanza stupefacente. Nell’imputazione, infatti, si contestano alla direttrice una serie di omissioni legate al fatto che, dopo la visita medica, la Ruggero fece saltare a Trotta tutto l’iter procedurale che lo avrebbe dovuto portare alla visita dello psicologo, e a quella dello psichiatra che avrebbe individuato i fattori di rischio: addirittura al detenuto sarebbe stato concesso di tenere in cella un televisore funzionante che trasmetteva tutte le notizie sul suo arresto, con tutti i particolari. “Omettendo”, si legge nel capo di imputazione, “di accertarsi che il detenuto nuovo giunto avesse completato il previsto percorso di accoglienza e sostegno, interrompendo in tal modo l’espletamento del preliminare colloquio di Trotta con lo psicologo presente in quel momento in istituto, che si sarebbe dovuto svolgere nel più breve tempo possibile, impedendo pertanto il ritiro di oggetti pericolosi nella disponibilità del Trotta, tra cui il laccio dei pantaloni della tuta, utilizzato dal predetto per compiere il gesto suicidario, nonché impedendo la perquisizione accurata del Trotta e la sua sottoposizione al regime di “grande sorveglianza” o di “sorveglianza a vista”, tenuto anche conto del fatto che il Trotta assumeva cocaina all’interno della propria cella poco prima di togliersi la vita”. E questa ultima circostanza venne fuori dall’esame tossicologico, che è stato coperto sempre da massimo riserbo, fatto in sede di autopsia. Ma nonostante tutto, il suicidio poteva ancora essere evitato, soltanto se ci fosse stata quella sorveglianza a vista prevista in casi del genere. Mentre invece l’inchiesta avrebbe accertato che l’agente addetto alla sorveglianza “dalle ore 20,43 alle ore 23,34 ometteva di fare ingresso nella predetta sezione a lui assegnata dove era ubicata anche la cella n. 8 del Trotta, e ometteva pertanto di provvedere attentamente alla sorveglianza del detenuto, attività facilmente esperibile, anche mediante l’apposito spioncino insistente sulla parete della cella del Trotta, che avrebbe potuto prevenire il suicidio, atteso che Trotta aveva avuto il tempo di porre lo sgabello sotto la finestra, di legare il laccio del proprio pantalone al gancio della finestra, nonché di assumere cocaina poco prima di compiere il gesto suicidario”. Violando così ogni regola del “piano locale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti”. L’avvocatessa Marisa Berarducci di Vasto, che assiste con il collega Cristiano Bertoncini gli indagati, contesta l’accusa. La difesa parla di condotta rispettosa del detenuto e condizionata dalle norme anti-Covid. Adesso i legali avranno 20 giorni di tempo per presentare memorie o chiedere l’interrogatorio. Lecce. Detenuto suicida in cella a 31 anni: carcere condannato per omessa vigilanza corrieresalentino.it, 10 febbraio 2022 Si tolse la vita impiccandosi all’interno del carcere di Teramo dove Cosimo Intrepido, un 31enne di Trepuzzi, si trovava detenuto. Quella morte, però, non è andata ad infoltire la fredda e cruda casistica dei suicidi avvenuti nei penitenziari italiani. La Corte d’Appello del Tribunale di L’Aquila ha infatti condannato il Ministero di Grazia e Giustizia e quindi il carcere al risarcimento del danno in favore del giovane per omessa vigilanza. Per ricostruire l’intera vicenda bisogna fare un passo indietro negli anni. Al 2009, per l’esattezza quando il salentino si trovava in carcere per una rapina, (compiuta con un’arma giocattolo), ai danni di una donna in via Dalmazia Birago, a Lecce. Condannato in primo grado ad otto anni e mezzo di carcere, il giovane, in Appello, il 9 luglio del 2010, ottenne uno sconto di pena “alleggerita” a 4 anni. La tragedia si verificò nel carcere di “Castrogno” il 29 giugno del 2011 quando Intrepido si impiccò all’interno della propria cella. Sin da subito le circostanze di quel suicidio apparvero poco chiare. Affetto da una “psicosi maniacale” e da un disturbo bipolare della personalità così come evidenziato in un verbale dell’Asl del 7 dicembre 2010, Intrepido aveva già tentato il suicidio un anno prima tentando di tagliarsi le vene. Secondo i suoi familiari assistiti dagli avvocati Giuseppe Rampino e Antonio Savoia, proprio in virtù di questo primo campanello d’allarme, non sarebbe stata predisposta un’adeguata vigilanza o un trasferimento in una comunità terapeutica del loro consanguineo. Avvisaglie di una tragedia annunciata, verrebbe da dire, e l’impiccagione del detenuto, seguendo tale ragionamento, sarebbe stata figlia di una combinazione di fattori: successiva mancanza di una idonea sorveglianza e totale inadeguatezza nelle cure prestate al 31enne. Lo stato di insofferenza di Intrepido al regime carcerario sarebbe stato poi confermato da una lettera con cui lo stesso giovane chiedeva di essere trasferito presso il Cim di Squinzano per poter curare la patologia e avvicinarsi così ai suoi figlioletti. Ci sarebbe anche una seconda missiva scritta di proprio pugno da Intrepido per descrivere la sua insofferenza in cui sottolineava che “non fa niente che sono lontano dalla mia regione ma vi prego di farmi partire da questo carcere”. E per i giudici della Corte d’Appello sarebbe venuto meno il rispetto della frequenza temporale minima dei controlli cui sottoporre il detenuto anche al fine “di prevenire atti di autolesionismo e gesti autosoppressivi in considerazione del suo stato psicologico. Il rispetto delle prescrizioni - si legge sempre nelle motivazioni - avrebbe invece più probabilmente che non, se non reso impossibile l’attuazione della condotta autosoppressiva evitato che essa sfociasse nell’esito letale purtroppo verificatosi”. Napoli. Poggioreale nel caos tra celle strapiene, agenti in sciopero e risorse scarse di Viviana Lanza Il Riformista, 10 febbraio 2022 Il sovraffollamento aumenta, gli atti di autolesionismo fra i detenuti sono sempre più frequenti, le criticità strutturali e relative alle risorse non vengono risolte, le tensioni crescono. A Poggioreale, poi, sembrano destinate a diventare insostenibili. Il numero dei detenuti continua ad aumentare: secondo il report ministeriale, ai dati aggiornati al 31 gennaio scorso, nelle carceri della Campania si è arrivati a quota 6.702 detenuti, a fronte di una capienza di 6.113 posti, un dato che fa registrare un trend in crescita considerato che negli ultimi mesi il numero dei reclusi in Campania è mediamente aumentato (a gennaio dello scorso anno si registravano circa 6400 detenuti). A Poggioreale, nel più grande carcere della regione e di tutta Italia, si è ormai a quota 2.229 reclusi e se si considera che la capienza è di 1.571 posti, basta un rapido calcolo matematico per capire che stiamo parlando di 658 persone in più, per le quali uno spazio lo si può trovare solo limitando gli spazi già limitati a disposizione di tutti gli altri. E di questo passo una cella per quattro diventa una cella per sei e poi per otto e per dodici detenuti. Se non ci fosse un soffitto umido di muffa a stabilire un limite oggettivo si innalzerebbero letti a castello all’infinito. Una condizione che da tempo viene definita invivibile. E ora a mettere il carico su tutto ci si mette anche la polizia penitenziaria. I sindacati hanno annunciato uno stato di agitazione che durerà sessanta giorni. Visto che in questo caso la protesta non riguarda i detenuti considerati “scarto” della società, forse la situazione potrebbe anche essere affrontata con tempi meno biblici. Chissà! Ma perché protestano gli agenti della polizia penitenziaria a Poggioreale? Il motivo è sintetizzato in una nota Il motivo è sintetizzato nella nota dei sindacati Osapp, Uil Papp, Sinappe, Uspp, Fns Cisl, Cnpp e FP Cgil che denuncia problemi da risolvere in tempi brevi e relativi in particolare alla necessità di adeguare la pianta organica e garantire un servizio “fluido, efficace e soprattutto in piena sicurezza”. Dopo un confronto con il direttore di Poggioreale Carlo Berdini e il comandante di reparto Gaetano Diglio, i sindacati hanno annunciato lo stato di agitazione “nei confronti dell’amministrazione centrale e regionale” dicono, “per giorni 60”, “sensibilizzando tali autorità a prendere provvedimenti”. Alla base ci sono problemi storici, potremmo dire endemici, che riguardano “posizioni già assunte nel corso delle riunioni sindacali con le strutture penitenziarie di Salerno, Santa Maria Capua Vetere, Carinola e Ariano Irpino”. Si fa riferimento a questioni di mobilità interna ordinaria, di organizzazione dei turni di lavoro e di quelli notturni in particolar modo, di gestione dei congedi, e di qualche altra criticità varia. “La direzione - aggiungono i sindacati - ci ha assicurato che è stata ripristinata l’erogazione dell’acqua calda nella caserma degli agenti, tramite sostituzione del boiler”. Il carcere continua a confermarsi microcosmo critico incastonato nel macrocosmo sociale. Dal punto di vista della pandemia, almeno la situazione è in miglioramento. “Scendono a 239 i contagiati da Covid nelle carceri campane - specifica il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello - Questi numeri consentono di far ripartire le attività, oltre che autorizzare nuovamente l’ingresso in carcere del mondo del volontariato”. Nello specifico, oltre ai 136 agenti contagiati, i detenuti positivi sono diventati solo cinque nel carcere di Poggioreale, di cui due ricoverati al Cotugno. A Secondigliano risultano contagiati 36 detenuti, a Santa Maria Capua Vetere 41, ad Avellino 43, a Carinola 56, ad Airola 19, a Pozzuoli 36, a Salerno tre. Roma. Linkem, a Rebibbia il laboratorio che dà lavoro alle detenute ilgiornaleditalia.it, 10 febbraio 2022 In visita la Ministra Cartabia e il Ministro Colao. Si è svolta ieri la visita della Ministra della Giustizia Marta Cartabia e del Ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale Vittorio Colao presso il “Laboratorio Rework” di Linkem, all’interno della Casa Circondariale Femminile di Roma Rebibbia “Germana Stefanini”. Ad accogliere i Ministri c’erano il direttore del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Bernardo Petralia, il Provveditore Carmelo Cantone, la Vicedirettrice dell’Istituto, Anna Del Villano, il Comandante Dario Pulsinelli, e l’Amministratore Delegato di Linkem, Davide Rota, che hanno illustrato le finalità del progetto voluto dalla Direttrice Alessia Rampazzi nell’ottica della rieducazione e reinserimento dei detenuti nella società. I Ministri hanno visitato gli spazi dove lavorano dodici detenute assunte lo scorso novembre dall’Operatore 5G. L’inserimento è avvenuto al termine di uno specifico programma di formazione finalizzato al trasferimento delle competenze tecniche necessarie a realizzare la rigenerazione degli apparati terminali di rete installati presso le case degli utenti. Il progetto di Rebibbia segue l’esperienza maturata da Linkem nella Casa Circondariale di Lecce, dove Linkem aveva già assunto dieci detenuti nella sezione maschile e realizzato il progetto di trasformazione digitale UNiO, la piattaforma di trasformazione digitale e gestione dei video colloqui con i familiari che consente ai detenuti di usufruire di postazioni dedicate e progettate ad hoc. Pesaro. Carcere: ogni sbaglio si può riparare di Laila Simoncelli semprenews.it, 10 febbraio 2022 Esperti a confronto per garantire la certezza del recupero. Come lo immaginiamo un carcere? E cosa intendiamo per giustizia e pena riparativa? Se ne è discusso il 5 febbraio all’incontro webinar della Scuola di Pace “P. Panzieri” di Pesaro. Il 5 febbraio si è tenuto il primo incontro webinar - molto partecipato - della Scuola di Pace “P. Panzieri” di Pesaro su un tema di grande attenzione ancora poco conosciuto dalla cittadinanza, e che ha posto profondi interrogativi sul Carcere e sull’idea che abbiamo di Giustizia. Hanno dialogato con i partecipanti Silvia Cecchi, magistrata e Sostituto procuratore presso il Tribunale di Pesaro e Giorgio Pieri, coordinatore nazionale del progetto CEC-Comunità educanti coi Carcerati della Comunità Papa Giovanni XXIII. Come si concilia una Giustizia che vuole rieducare e riparare con l’obbligatorietà dell’azione penale, cioè l’obbligo di sanzionare con una pena? Silvia Cecchi: “L’obbligatorietà dell’azione penale è certamente compatibile con la riparazione. L’obbligatorietà, che è posta a garanzia dell’uguaglianza di fronte alla legge, riguarda l’attivazione del processo penale, dalla fase delle indagini fino all’affermazione (o esclusione) della responsabilità. La rieducazione mediante riparazione, condotte impegnative, responsabilizzazione e altre modalità di recupero, riguarda invece la risposta sanzionatoria alla accertata responsabilità, una volta che il procedimento abbia compiuto il suo percorso. Semmai è la mediazione penale (pratica diversa dalla sanzione riparativa) che può interferire con il processo, in vario modo, ma anch’essa non esclude l’obbligatorietà dell’azione penale, salvo in casi di procedibilità a querela di parte. Compito della giustizia è quello di dare contenuti alla pena, offrire percorsi fortemente impegnativi, dare l’opportunità di sostituire la passività del carcere tradizionale con attività lavorative, relazioni significative, presa in carico di bisogni sociali e delle vittime”. Giorgio Pieri: “Nelle nostre Comunità coi carcerati (CEC) quando le persone entrano si sottopongono a patto educativo volontario sulla rieducazione, compiono un atto di responsabilità che supera, nel senso che si va oltre, l’obbligatorietà dell’azione penale. Con la scelta del patto si riassume la propria libertà. L’obbligo che noi come comunità chiediamo è il lavoro interiore. Se non vuoi farlo torni in carcere: la libertà è decidere di entrare o non entrare in un percorso educativo. Dobbiamo inoltre tenere presente che nello sbaglio di uno c’è lo sbaglio di tutti e tutti sono necessari in questo percorso perché chi educa nella società non è solo la famiglia, anzi siamo molti, c’è la scuola, il vicinato, il quartiere, la parrocchia etc. etc. Le vittime dovrebbero poi avere un posto d’onore nella riparazione. Abbiamo visto che fare incontrare il reo con la sua vittima è molto difficile, ma ad esempio già questo incontro avviene con i reati derivanti dalla tossicodipendenza, nelle nostre comunità terapeutiche facciamo incontrare i figli rei coi genitori feriti. È molto più impegnativo del carcere optare per il percorso che proponiamo, ci sono strumenti stringenti (regole e resoconti etc) affinché i detenuti rivedano i loro vissuti e decodifichino i loro mali, le loro emozioni, i loro sentimenti e attuino il cambiamento. Si rende la pena utile. Come Paese e come cittadini dobbiamo decidere se la sofferenza della pena sia utile o un inutile passatempo”. Il carcere come deve evolvere? È davvero necessario? Dobbiamo “buttare la chiave”? Silvia Cecchi: “Sono convinta che occorra una nuova filosofia e una nuova politica della sanzione penale, banco di prova della democraticità di un ordinamento. Un carcere che calpesta o non rispetta la dignità umana e diritti primari di ogni detenuto contraddice i presupposti di un ordinamento democratico. La pericolosità sociale, che deve essere dimostrata in concreto, in un sistema di giustizia costituzionalmente orientato, è a mio avviso l’unica legittimazione della restrizione carceraria, fermo restando che un carcere deve avere comunque e sempre dei requisiti strutturali e regolamentari rispettosi dei diritti della persona. Verso questa filosofia delle sanzioni alternative e dunque di una sanzione carceraria non più primaria, si muove la “riforma Cartabia” che, sia pure con gradualità, prevede l’applicazione, già da parte del giudice della cognizione, di sanzioni non carcerarie, derogando alla tuttora vigente logica della unicità della pena della reclusione. Per quanto riguarda l’ammirevole lavoro realizzato, anche in misura imponente, da comunità come quella di Giorgio Pieri, ritengo che tuttavia le istanze di recupero e la profonda carità umana ad esse sottesa non possano bastare e debbano diventare diritti. Occorrono finanziamenti pubblici, investimenti dello Stato, capitoli dedicati di bilancio”. Giorgio Pieri: “Nelle carceri italiane 10 detenuti su 7 tornano in carcere, qualcuno dice che 8 su 10 tornano a delinquere, abbiamo l’80% di recidiva. Il personale degli istituti penitenziari, direttori polizia, tutti loro si impegnano e fanno grandi sforzi e alcuni di loro sono veri eroi, ma questo non toglie che l’istituzione carcere abbia oggettivamente fallito il suo mandato costituzionale. Col buttare la chiave non si va da nessuna parte. Bisognerebbe, se fosse un’azienda, scrivere chiuso per fallimento; e ci vogliono 3 mld per tenerla in piedi. Fuori abbiamo una guerra a bassa tensione; le persone che escono dal carcere più che redente, sono più arrabbiate di prima e secondo alcuni studi commettono reati ancora più gravi di prima. Se accettiamo questo carcere e diciamo che non c’è alternativa, accettiamo una guerra silenziosa. Vi assicuro che molti detenuti dicono: “Esco e stavolta farò bene”, c’ è questo movimento dentro di loro, c’è il principio della lotta verso il bene, ma una volta usciti in questa lotta perdono, non ce la fanno e bastano pochi minuti e tutto si perde. Le persone vivono forti passioni di rabbia, ira, cose che da soli non riescono gestire. Alla radice del male c’è un mistero, ma nelle piaghe di un cuore ferito è lì che nasce il male. Anche il lavoro in sé per sé non è rieducativo, il lavoro è educativo solo se è inserito in contesto educativo. Noi tutti nella comunità esterna dovremmo sentire il compito di abbassare la recidiva. L’amico psichiatra Vittorino Andreoli disse che “il carcere è una costosa inutilità! Il male non si vince con il male”. Istintivamente ci vien da dire butta la chiave ma dobbiamo rielaborare questo impulso vendicativo ed essere umani, diventare umani”. In conclusione quindi cosa fare? Giorgio Pieri: “Ho provato a scrivere qualcosa nel mio libro Carcere: l’alternativa è possibile, Sempre Editore, di tutta la nostra esperienza con le Comunità Educanti. Siamo stati ispirati dal modello di carcere senza guardie dell’APAC brasiliano e abbiamo avviato la nostra esperienza alternativa adattandola al nostro contesto italiano. Abbiamo diverse case ma nonostante i risultati evidenti sotto il profilo anche della recidiva, non abbiamo sostegno istituzionale concreto anche economico; purtroppo questo, a nostro vedere, resta un grosso limite ed una grossa ingiustizia perché il valore di certe esperienze consolidate secondo il principio di sussidiarietà dovrebbe essere riconosciuto dallo Stato. Nel nostro metodo abbiamo il coinvolgimento della comunità esterna ed i volontari sono veri “apostoli di pace”. Conoscono i detenuti entrano nelle loro ferite. I recuperati educano i recuperandi, c’è formazione lavorativa, umana e spirituale, insomma è una grande scuola di pace con i familiari, i detenuti e la comunità esterna. Abbiamo visto grandi miracoli”. Silvia Cecchi: L’idea-guida è quella della eccedenza, della ulteriorità della persona rispetto all’atto criminale commesso: su questa non coincidenza fa leva la scommessa rieducativa degli autori di crimini, lievi o gravi che essi siano, fatta propria dalla Costituzione. Vi è poi l’idea della corresponsabilità sociale, della profonda iniquità di punire, con il condannato, anche la sua famiglia, i suoi figli, anche minori. La transizione ad una concezione diversa della pena deve passare per una concezione relazionale della responsabilità, l’unica compatibile con un diritto penale dei beni e dell’offesa. Il carcere è invece una sanzione che esprime una diversa forma-pensiero, difficile da estirpare culturalmente, per la quale all’offesa si risponde con un male di ritorno, con la punizione afflittiva, con la deprivazione, la retribuzione, la pena corporale (il carcere attuale è anche una pena corporale), la pena morale. Per questo anche in molte proposte di riforma il carcere resta il convitato di pietra, a cui si deve fare ritorno ogni qualvolta il trattamento rieducativo fallisca o sembri fallire. Dobbiamo prendere atto che una visione alternativa della sanzione penale fatica tuttavia ad attecchire nella cultura e coscienza sociale. La questione culturale va messa dunque al primo posto. Del resto la sicurezza sociale non può che essere maggiormente tutelata da sanzioni rieducative, dall’idea che il detenuto uscirà dal percorso sanzionatorio migliore e non peggiore di come è entrato”. Milano. La forma del tempo, la mostra di Nadia Nespoli e dei detenuti di Bollate di Davide Landoni artslife.com, 10 febbraio 2022 Intensa, simbolica e dalle mille sfaccettature. La mostra di Nadia Nespoli, Offerte di tempo, è un progetto artistico dalla forte connotazione umana. Prende avvio dal carcere di Bollate, dove l’artista ha coinvolto donne e uomini detenuti, e si conclude allo Spazio Aperto San Fedele di Milano. Qui sono esposte, dal 14 gennaio al 15 febbraio 2022, una serie di opere di fiber art realizzate dai detenuti, che hanno offerto il loro tempo concretizzandolo in un lavoro manuale visibile e tangibile. Un processo dagli spiccati attributi simbolici, in grado di distillare i secondi, i minuti, le ore, i giorni, le settimane trascorse in carcere in fili di cotone intrecciati, allacciati, annodati fino a confondersi. Proprio come la percezione di un detenuto, terribilmente anestetizzata dallo scorrere ripetitivo dell’esistenza. Tutto ha inizio nel 2019, quando Nadia Nespoli ha affidato a persone detenute di età, grado di istruzione ed esperienza di vita diverse delle matasse di filo di cotone, chiedendo a ciascuna di realizzare con il punto alto una tela, senza mai disfarla durante l’esecuzione. Il filo con cui le tele sono realizzate è di colori diversi: bianco, rosso, arancione, viola, giallo, verde, rosa, blu. Anche le dimensioni variano, così come le forme: rettangoli ma anche poligoni irregolari, con punti interrotti e ripresi, intervallati da nodi a vista. L’invito dell’artista ha stimolato una vera e propria performance collettiva, dove il valore dell’opera risiede più nel processo che nel risultato. Risultato che pur rimane gradevole e suggestivo, dal momento che le opere si presentano come monocromi. Essenziali, privi di figura ma densi di significato. Come quello generato dall’investimento temporale ed emotivo dei detenuti, disposti a convogliare il loro perpetuo dialogo interiore sulla tela. Su di essa si sono raccolti i rimpianti e le ambizioni, i ricordi e i desideri, gli slanci di entusiasmo e il richiamo dell’abisso. Una miscela di sentimenti che accomuna ogni detenuto, che d’altra parte, in ultima istanza, è poi chiamato a farci i conti nella solitudine del proprio spirito. É per questo che ogni opera è intitolata con il nome di chi l’ha realizzata, come se immediatamente volesse evocare le mani e le dita - ma anche i pieni e i vuoti, i momenti di dialogo e quelli di estrema chiusura - che le hanno realizzate. Un lavorio di pazienza e riflessione, che assorbe lo scorrere del tempo insieme alle speranze dei detenuti di costruire una nuova identità, una nuova vita. L’iniziativa ha giovato della partecipazione di Sesta Opera San Fedele, Associazione di Volontariato Penitenziario che opera a Milano dal 1923. Le esistenze dei volontari si sono così intrecciate a quelle dei detenuti, in un dialogo tra interno ed esterno. Il filo dell’opera è diventato quindi “quel filo esile che poco può se tale resta. É come il singolo volontario che da solo può fare poco di fronte ai problemi immani del carcere”. Giustizia, eutanasia e cannabis: la spinta di +Europa sui referendum di Valentina Stella Il Dubbio, 10 febbraio 2022 Chiarezza sui referendum, i partiti non si nascondano. È l’incalzante appello rivolto alle forze politiche in Parlamento da + Europa, nel corso di una conferenza stampa indetta ieri dal partito alla Camera, alla quale hanno partecipato il presidente e deputato Riccardo Magi, la senatrice Emma Bonino e il segretario di + Europa Benedetto Della Vedova. Durante l’incontro è stato lanciato il Comitato “Tutti Sì” per sostenere i referendum su cannabis, eutanasia e giustizia, in attesa che la Corte costituzionale si esprima sull’ammissibilità degli otto quesiti il 15 febbraio, e che gli altri partiti facciano sapere qual è la loro posizione. “Ci aspettiamo - ha detto Della Vedova - che i giudici costituzionali decidano secondo legge e giurisprudenza, riconoscendo il diritto di partecipazione diretta, e ci farebbe piacere che anche le altre forze politiche esprimessero la loro posizione sui referendum. Immagino - ha proseguito - che ci siano forze che voteranno sì a quelli sulla giustizia e no sugli altri, ma mi piacerebbe sapere cosa pensano Pd e Movimento 5 Stelle”. Un auspicio condiviso da Emma Bonino, secondo cui “con tutta la sua buona volontà, la ministra Cartabia non troverà la maggioranza in Parlamento per la riforma della giustizia. È un buon segno - ha aggiunto - che il governo non si sia costituito davanti alla Corte, come invece avveniva sempre. Conferma quello che ci disse Draghi, ossia che il programma dell’Esecutivo, in questa emergenza, sono vaccinazioni e Pnrr, e che tutto il resto spetta al Parlamento”. “Noi - ha sottolineato Magi, presidente di +Europa esprimiamo con forza e convinzione un doppio sì: sì ai referendum nel merito, sulla depenalizzazione della cannabis, sulla legalizzazione dell’eutanasia e sulla giustizia giusta. Sono temi e battaglie che mi hanno portato ad avvicinarmi alla politica e alla politica radicale. Sì ai referendum anche come strumento di riattivazione della vita democratica in questo Paese attraverso la partecipazione popolare. La spinta che arriva dalle piazze fisiche e virtuali di questi mesi è la risposta più potente al silenzio letargico della politica parlamentare degli ultimi anni”. Magi ha poi fatto riferimento anche alle parole del Capo dello Stato nel giorno del suo giuramento: “Il presidente Sergio Mattarella nel suo discorso di insediamento, sul quale molti si sono spellati le mani con 50 e più applausi, ha detto che la democrazia va costantemente inverata, e ha auspicato una nuova stagione di partecipazione dei cittadini. Noi pensiamo che con i referendum e con le modifiche nella raccolta digitale delle firme, + Europa abbia dato il proprio contributo, seppure con un peso parlamentare molto ridotto”. Intanto si conoscono già i giudici relatori degli otto referendum: tutti e tre i vicepresidenti appena nominati da Giuliano Amato e altri quattro giudici costituzionali, in tutto cinque uomini e due donne. Nicolò Zanon, uno dei tre vicepresidenti, si occuperà di due quesiti: sulla separazione delle funzioni in magistratura e sull’elezione dei togati del Csm. Le altre due vicepresidenti, Daria De Petris e Silvana Sciarra, saranno relatrici rispettivamente del quesito sulla legge Severino e di quello sulla partecipazione degli avvocati alle delibere dei Consigli giudiziari sulle valutazioni di professionalità dei magistrati. Il giudice Stefano Petitti è il titolare del referendum sulla carcerazione preventiva. Mentre l’ultimo quesito sulla giustizia, che riguarda la responsabilità civile dei magistrati, è nelle mani di Augusto Barbera. Franco Modugno sarà relatore invece del referendum sull’eutanasia, mentre il collega Giovanni Amoroso si occuperà del referendum sulla cannabis. Suicidio assistito, no del Papa. La Camera rinvia la discussione di Eleonora Martini Il Manifesto, 10 febbraio 2022 Torna in Aula la pdl sul fine vita ma il voto sugli emendamenti slitta. Forse a marzo. Bergoglio: “La morte non è un diritto, principio che vale anche per i non credenti”. Nel giorno in cui la legge sul fine vita torna in Aula alla Camera con l’ambizione di affrontare la discussione - subito affossata appena in un paio d’ore e rinviata probabilmente a marzo - sugli oltre 200 emendamenti presentati al testo base, Papa Francesco pronuncia parole dure contro il suicidio medicalmente assistito nell’Udienza generale a San Pietro. “La vita è un diritto, non la morte, la quale va accolta, non somministrata”, afferma il pontefice nella catechesi dedicata a San Giuseppe, patrono della “buona morte”. Un monito canonico, ma questa volta il capo di Stato vaticano si spinge sulla stessa strada biopolitica già battuta da tutti i suoi precedessori: “Questo principio etico - sottolinea Bergoglio - riguarda tutti, non solo i cristiani o i credenti”. Parole che danno sostegno a quanti - dalla Lega all’Udc, dal neonato comitato #NoEutanasiaLegale all’Osservatore romano - lavorano per una legge che sia in grado di fermare il referendum sull’eutanasia legale, e allo stesso tempo restringa il campo del diritto delineato dalla Corte costituzionale nella sentenza del 2019. Bergoglio indica la via delle “cure palliative” come l’unica percorribile per morire “nella maniera più umana possibile”, e ribadisce, come fece per ultimo anche Benedetto XVI, che “risulta immorale l’accanimento terapeutico”. E infine torna sulla cosiddetta cultura dello scarto che ha dato il titolo a tanti recentissimi convegni: “Va sempre privilegiato il diritto alla cura e alla cura per tutti, affinché i più deboli, in particolare gli anziani e i malati, non siano mai scartati”. Parole che, sottolinea la senatrice Udc Paola Binetti, membro della commissione Sanità e molto attiva in queste ultime settimane con seminari e confronti tra cattolici, “non possono essere ignorate e soprattutto sono inequivocabili, sia per l’autorevolezza di chi le propone che per il generale consenso di cui dispone, anche dopo la sua ultima intervista da Fazio”. E in effetti, l’analisi della gran mole di emendamenti alle “Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita” - che avrebbero potuto essere in parte accolti e raggruppati in un maxi emendamento, nell’intenzione dei due relatori Alfredo Bazoli (Pd) e Nicola Provenza (M5S) - si è esaurita ieri in appena un paio d’ore. Il testo era arrivato per la prima volta in Aula alla Camera a metà dicembre, ma la discussione generale si era consumata in un lasso di tempo altrettanto breve e davanti a scranni semi deserti. Ieri, con 196 voti di differenza, la maggioranza dei deputati ha rinviato l’esame alla prossima settimana, ma non prima di martedì 15 febbraio e dopo che sarà terminato l’esame del dl Covid sullo stato di emergenza. “Neanche questa settimana si comincerà a votare sul testo e questo significa - fa notare il presidente di + Europa, Riccardo Magi, la cui firma compare su una ventina di emendamenti - che se ne riparlerà a marzo perché nelle prossime settimane ci sono decreti in scadenza che sorpassano questo testo di legge, che sono solo 40 anni che aspetta di essere approvato”. La Lega (50 emendamenti depositati) però annuncia l’astensione sulla richiesta di rinvio della discussione a marzo avanzata dai relatori: “Prendiamoci 15 giorni per verificare le condizioni per poter ulteriormente migliorare la legge”, chiede in Aula Alessandro Pagano. Insomma, l’accordo di maggioranza non c’è e non sembra neppure all’orizzonte. Ma a premere affinché si arrivi ad un’intesa c’è la sentenza della Consulta e tra poco - se, il 15 febbraio, la Corte costituzionale lo ammetterà - anche il referendum sull’eutanasia legale che molti vorrebbero fermare. A questo punto tanto vale attendere la decisione dei giudici costituzionali per capire in che direzione debba muoversi il parlamento. Il Pd non ha presentato emendamenti, e Italia Viva ha lasciato libertà di coscienza sul voto. Il centrodestra e i cattolici considerano invece “inaccettabile” qualsiasi azione che renda effettiva la sentenza della Consulta Cappato/Dj Fabo del 2019, come la bozza del decreto ministeriale sui comitati etici territoriali preparata da Roberto Speranza e inviata alla Conferenza Stato-Regioni. Secondo la Consulta infatti (e anche secondo il testo di legge in discussione) spetta al comitato etico territorialmente competente verificare che sussistano le condizioni fisiche e mentali del paziente per ottenere l’accesso al suicidio medicalmente assistito. “I referendum non sono mai piaciuti ai grandi partiti - commenta Emma Bonino, di + Europa - Li abbiamo sempre dovuti tirare con la gru. Ogni volta la scusa è sempre la stessa: non è il momento, le priorità sono altre e così via. In 30 anni ne ho viste di tutti i colori”. Mentre il dem Walter Verini si augura “a nome del Pd, che si arrivi a un voto finale sul provvedimento che dia risposte alla sofferenza di tante persone che non meritano di essere lasciate sole”. Studenti picchiati dalla polizia, su Lamorgese le critiche di Camera e Senato di Daniela Preziosi Il Domani, 10 febbraio 2022 Abbiamo tutti il dovere “di disporci all’ascolto di fronte a una realtà, quella giovanile, divenuta ancora più complessa a causa degli inediti problemi che l’emergenza sanitaria ha portato con sé”, come ha ricordato il presidente della Repubblica nel discorso del giuramento, “la via maestra è il confronto”, lo sforzo “che occorre fare, soprattutto quando le cose non vanno per il meglio, è cercare di individuare modalità più idonee per contemperare il diritto a manifestare con il dovere delle Forze di polizia di far rispettare la legge”. Ieri, durante le informative di Senato e Camera “sui fatti occorsi in recenti manifestazioni di studenti”, hanno parlato due ministre dell’Interno. Da un lato Luciana Lamorgese che distilla moderazione e prudenza, a parole, sull’imperativo di ascoltare gli studenti che manifestano. Dall’altro Luciana Lamorgese che ricostruisce le giornate del 23 e del 28 gennaio scorso, con il loro carico di manganellate ai ragazzi e teste spaccate, rispolverando accuse vintage agli “anarchici e agli esponenti dell’area antagonistica”, quelli legati “ai centri sociali”. A un certo punto, parlando dei fatti di Torino, spiega che il centro sociale “Askatasuna”, noto per l’attivismo No Tav, è “espressione locale del movimento di Autonomia operaia”, lettura un bel po’ scolastica, di probabile derivazione da qualche funzionario solerte, ma soprattutto nostalgico. E c’è anche l’apposito allarme preventivo: la ministra informa che per il primo appuntamento di Roma, organizzato dai movimenti Lupa, Osa e Fronte della gioventù comunista, c’erano “attività informative di polizia” che riferivano della “precisa intenzione di alcuni partecipanti appartenenti ai centri sociali capitolini e aderenti a gruppi di matrice anarchica di trasformare la stessa manifestazione in un’occasione di scontro fisico con la polizia”. Dunque i poliziotti erano preparati: perché la situazione è sfuggita di mano? La risposta non è arrivata. Le forze dell’ordine che il 9 ottobre 2021 a Roma avevano visto bene chi dovevano lasciare andare fino alla sede della Cgil, per poi lasciargliela assaltare e devastare, qui, benché preparate, non sono state in grado di contenere. Che è poi la principale accusa che arriva dal centrosinistra. Ma la parola accusa è forte. Bisogna tenere conto che da destra, da Fratelli d’Italia, è arrivata la richiesta di dimissioni per la ministra: nostalgia canaglia di un uomo forte, a difesa delle forze dell’ordine sempre e a prescindere (ma rigorosamente non contro i No-vax). E che dalla Lega, orfana di Matteo Salvini al Viminale - voleva tornarci, lo ha chiesto a Mario Draghi - è arrivato l’attacco per lo stile troppo poco muscolare con “i professionisti degli scontri”, e soprattutto con gli immigrati, che qui non c’entrano niente ma per la Lega c’entrano sempre. Lamorgese ha un altro stile rispetto al predecessore. In aula non ha ripetuto l’ambigua formula del “cortocircuito” che sarebbe successo in queste piazze, che di fatto ammette che qualcosa è sfuggito dal lato forze dell’ordine. Non ha detto apertamente che qualcosa è andato troppo storto contro “i nostri ragazzi” (copy M5s). Se ha un dubbio che qualcuno in piazza abbia calcato la mano, cioè il manganello, si affida alla giustizia come alla provvidenza: “L’intera documentazione visiva, sia quella ripresa dalla Polizia scientifica, sia quella acquisibile da fonti aperte”, dice, è a disposizione della magistratura che “è nelle piene condizioni di accertare la dinamica dei fatti e le responsabilità, comprese quelle eventualmente riconducibili alla condotta degli operatori di Polizia”. Presto in piazza dalla parte delle forze dell’ordine ci saranno “telecamere” e bodycam, dice, ma non i numeri identificativi degli agenti, come chiede Loredana De Petris (Leu). Alla Camera la ministra insiste più sulla necessità della “flessibilità ed equilibrio” di come si amministra l’ordine pubblico, “sono certa che le forze dell’ordine ne sapranno fare uso”: ad ascoltarla bene sembra un messaggio ai suoi sottoposti. Quanto alle botte, la ministra sa che le manifestazioni nascono per una “morte in fabbrica”, così la definisce, dello studente Lorenzo Parrelli, il giovane udinese ucciso sul colpo da una trave d’acciaio a forma di T del peso di 150 chili precipitata su di lui dall’alto, alla Burimec di Lauzacco (Udine). Che però non è una “morte in fabbrica” - alla Camera opportunamente dirà “in una fabbrica” - perché se la morte sul lavoro è “inaccettabile” comunque, in questo caso Lorenzo era in pieno orario scolastico, in una alternanza scuola-lavoro. I ragazzi hanno protestato (“una carezza” ha definito queste manifestazioni la mamma di Lorenzo) anche e soprattutto per questo. Nei cortei si grida anche il no al ripristino dell’esame di maturità con le prove scritte, ma è chiaro che non è questo che infiamma gli animi in piazza. La ministra rivendica che le forze dell’ordine non hanno usato solo i manganelli, “delle 5.000 manifestazioni svoltesi l’anno scorso contro il green pass e le misure restrittive anti Covid” solo 115 “hanno registrato turbative”, dice. Anche il 28 gennaio del resto gli studenti sono scesi in piazza in 35 città. E poi anche il 4 febbraio. E allora cos’è successo a Milano, Torino, Roma e Napoli il 28 gennaio? Lamorgese distingue: a Milano dal corteo “è partito il lancio di uova contenenti vernice rossa” quindi dalla polizia sono partite “due brevi azioni di alleggerimento”; a Torino “un consistente gruppo di partecipanti muoveva in corteo contro lo schieramento delle Forze dell’ordine, cercando più volte di rompere lo sbarramento”. A Roma sarebbe successo come a Milano, “un fitto lancio di pietre e bottiglie fumogeni e altri oggetti contundenti contro le Forze di polizia” ma stavolta le cariche non arrivano, essendo “mancato ogni contatto fisico tra le forze dell’ordine e i facinorosi”. Infine Napoli: a fumogeni e “palloncini di vernice colorata” si è risposto con “un’azione di alleggerimento”, una carica insomma. La gestione della piazza “è la cartina di tornasole della qualità della democrazia”, dice Enrico Borghi, deputato del Pd. “Gli infiltrati si cacciano”, non si può rischiare “il derby poliziotti-studenti, l’immagine dell’Italia non può essere l’impunità per chi assale la Cgil e le manganellate per chi manifesta in piazza. Un’immagine che noi non possiamo permetterci, incontri gli studenti”, le chiede Federico Fornaro (Leu). La ministra resta in bilico fra le critiche del centrosinistra e gli attacchi della destra, anche della Lega. La somma è praticamente zero: dalle informative non si capisce fino in fondo, neanche si può indovinare, cosa concretamente la ministra farà perché effettivamente i fatti di cui ha riferito non risuccedano. Giornalisti e attivisti, difendetevi da Pegasus di Arturo Di Corinto Il Manifesto, 10 febbraio 2022 Dal 2016 sono stati 30 mila gli avvocati, i difensori dei diritti umani e giornalisti sorvegliati con lo spyware Pegasus. Ma il software israeliano non è l’unico usato per entrare nelle organizzazioni mediatiche. Ecco i consigli per proteggersi. I giornalisti di Times, Sun, Wall Street Journal e New York Post sono stati hackerati. La casa madre, la NewsCorp di Rupert Murdoch, ritiene che tale attacco sia parte di un’operazione di spionaggio collegata a una nazione estera, presumibilmente la Cina, ed esprime la propria preoccupazione per la sicurezza dei suoi giornalisti. Secondo Toby Lewis, direttore Threat Analysis di Darktrace: “Quando gli attacchi avvengono contro i media, hanno un puro scopo di spionaggio, il vero obiettivo non sono i giornalisti, ma le loro fonti”. Hanno pensato questo i giornalisti ungheresi che chiedono al proprio governo di non essere spiati da Pegasus, lo spyware milionario più famoso al mondo e al centro di un’aspra querelle giudiziaria in Israele per essere stato usato contro alti funzionari statali. Il fatto è che troppo spesso giornalisti, politici, difensori dei diritti umani e attivisti sono vittime di spyware come Pegasus (30 mila dal 2016), Chrysaor, Phantom e i cosiddetti “software di sorveglianza legale”. Costin Raiu, direttore del Kaspersky’s Global Research and Analysis Team, ha raccolto una serie di suggerimenti per insegnare ai giornalisti come proteggere i propri dispositivi. 1) Prima di tutto è importante riavviare quotidianamente i dispositivi mobili. I riavvii aiutano a “pulire” il dispositivo, e gli attaccanti dovranno continuamente reinstallare Pegasus sul dispositivo, rendendo più probabile il rilevamento del virus da parte dei sistemi di sicurezza. 2) Mantenere il dispositivo aggiornato e installare le ultime patch non appena escono. In realtà, molti dei kit di exploit prendono di mira vulnerabilità che hanno già installato le patch, ma rappresentano comunque un pericolo per coloro che usano telefoni più vecchi e rimandano gli aggiornamenti. 3) Non cliccare mai sui link ricevuti via messaggio. Alcuni clienti di Pegasus si affidano agli exploit 1-click più che a quelli zero-click. Questi arrivano sotto forma di messaggio, a volte via Sms, ma a volte anche tramite altre applicazioni o addirittura via e-mail. Se ricevete un SMS ambiguo (da chiunque) contenente un link, apritelo su un computer, preferibilmente utilizzando Tor Browser, o meglio ancora utilizzando un sistema operativo sicuro non residente come Tails. 4) Inoltre è importante non dimenticare di utilizzare un browser alternativo per la ricerca sul web. Alcuni exploit infatti non funzionano così bene su browser come Firefox Focus (o altri) rispetto a browser più tradizionali come Safari o Google Chrome. 5) Usare sempre una VPN. Con la Virtual Private Network sarà più difficile per gli attaccanti colpire gli utenti in base al loro traffico Internet. Sceglie bene la Vpn da un’azienda nota, che accetti pagamenti con criptovalute e che non richieda di fornire alcuna informazione di registrazione. 6) Installare un’applicazione di sicurezza che controlli e avvisi se il dispositivo è jailbroken. Per fare presa su un device, gli attaccanti che usano Pegasus spesso ricorrono al jailbreak del dispositivo preso di mira. Il jailbreak permette di installare software e pacchetti di terze parti, non firmati e autorizzati dal venditore. Se un utente ha un sistema di sicurezza installato, può essere avvisato dell’attacco. 7) Gli esperti di Kaspersky raccomandano agli utenti iOS a rischio anche di disabilitare FaceTime e iMessage: trattandosi di servizi abilitati di default, sono meccanismi di diffusione per gli attacchi zero-click, quelli che per essere efficaci non richiedono alcuna azione da parte del bersaglio, nemmeno un semplice “click”. Cyberbullismo, i rischi in Rete: vittime sei ragazzi su 10 di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 10 febbraio 2022 Sono in aumento i casi di molestie e persecuzioni online: non diffondere dati personali e denunciare. Le truffe da evitare con l’e-commerce.1 di 9 I pericoli della Rete: cyberbullismo e truffe - La Rete cresce. E su Internet sono in esponenziale aumento i contatti, gli incontri, gli scambi e gli acquisti. Ma di pari passo si estendono anche i pericoli e rischi: come le truffe o le violenze verbali, le molestie, le persecuzioni. Soprattutto tra i più giovani. Martedì 8 febbraio viene celebrata in oltre cento Paesi la 19esima edizione del Safer Internet Day, giornata dedicata alla sensibilizzazione sul tema della sicurezza in rete. E in concomitanza con la ricorrenza il Centro Europeo Consumatori Italia ha fornito alcuni consigli utili per la tutela dei più giovani dal cyberbullismo e per fare acquisti online senza rischiare di incappare in truffe Sei giovani su 10 vittime di cyberbullismo - Preoccupa, e molto, il fenomeno del cyberbullismo, che sta registrando una progressiva crescita. Secondo una rilevazione dello scorso anno, ne sono stati vittime ben 6 giovani su 10 e altrettanti hanno dichiarato di non sentirsi sicuri online. Nove giovani su 10 hanno affermato di sentirsi soli, uno su 2 di provare molto spesso questa sensazione. Allarme accresciuto dal massiccio uso dei social media. Aumentano così anche gli episodi di bullismo cibernetico e revenge porn. Evitare di pubblicare dati personali - Un fenomeno quindi che diventa allarmante. Ma come difendersi o come difendere i nostri figli? È necessario evitare di mettere online informazioni personali: in modo particolare foto private, video, dati anagrafici, di residenza o numero di cellulare. In questo modo diventa difficile per i cyberbulli di individuare e contattare una vittima, mettendo al sicuro l’utente da comportamenti molesti o violenti. Non rispondere a email e messaggi sospetti - Attenzione a come si risponde in caso di contatto. Evitare di dare un seguito a messaggi via chat, email, commenti provocatori e sospetti. Inoltre bloccare immediatamente il mittente molesto. Nel caso fare anche una segnalazione all’autorità competente. Non avere sensi di colpa e denunciare - Altra regola importante è non cadere nel rischio di sensi di colpa se si diventa vittime di cyberbullismo. Si deve avere la consapevolezza che non dipende da voi. Non avere poi paura di denunciare o chiedere aiuto. L’e-commerce e i pericoli delle truffe, cosa fare - E veniamo agli acquisti online e ai rischi di truffe. Il settore dell’e-commerce è in continua crescita: nel 2021 gli acquisti online in Italia hanno raggiunto quota 39,4 miliardi di euro. Rispetto al 2020, anno in cui si era già assistito a un incremento netto degli acquisti online a causa della pandemia, si è avuto un incremento del +21 per cento. Come comportarsi nel caso di shopping online? E a cosa prestare attenzione? Informarsi bene sul venditore - Nel caso di acquisti online evitare di fornire dati personali e cercare di informarsi adeguatamente sul venditore, sia che si tratti di un’azienda o di un privato. In quest’ultimo caso va tenuto presente che viene applicata la disciplina a tutela del consumatore e dunque, non sarà possibile esercitare il diritto di recesso o avvalersi degli specifici rimedi della garanzia legale di conformità. Pagamenti sicuri e tracciabili - È meglio evitare di fare pagamenti anticipati, se non si è assolutamente sicuri del venditore. Vanno sempre preferiti i metodi di pagamento sicuri e tracciabili, come PayPal e/o carta di credito. Il pagamento con carta di credito consente, laddove si verificassero problemi nella consegna o con il prodotto, di richiedere il chargeback e ottenere lo storno della transazione. L’Ucraina come la Bosnia, e la storia non aiuta di Massimo Nava Corriere della Sera, 10 febbraio 2022 Putin non ha (ancora) varcato la linea rossa, ma il “format” è lo stesso che portò alla disastrosa guerra nelle ex Jugoslavia. Si spera ancora che non sia irrimediabile, ma la crisi in Ucraina - pur con specifiche differenze - riproduce il meccanismo infernale che innescò la guerra in Bosnia e le logiche che alimentano conflitti a ogni latitudine. È uno scontro fra ragioni opposte: integrità nazionale e diritti delle minoranze che vivono nello stesso Paese. Ragioni opposte, eppure legittime, fino a quando propaganda e interessi in gioco non le stravolgono con i germi del nazionalismo da un lato e delle ambizioni separatiste dall’altro. Così, il senso di appartenenza diventa odio identitario. Così fu lacerata la Bosnia. Il croato Tudjman e il serbo Milosevic esercitarono una cinica influenza sulle minoranze dell’Erzegovina e della Bosnia che presero le armi contro la presunta egemonia della maggioranza musulmana, fino alla guerra totale. L’argomento più abusato fu, appunto, la difesa delle minoranze linguistiche e religiose. Dovunque vivono i serbi, è terra serba, si sentiva dire. Dopo la Bosnia, fu la volta del Kosovo, che rivendicò il diritto al separatismo dalla Serbia. E il Kosovo fu il pretesto per legittimare l’annessione della Crimea: dove vivono i russi, è terra russa... Putin non ha ancora passato la linea rossa, ma le motivazioni dell’offensiva militare ai confini dell’Ucraina sono le stesse. La storia non aiuta. La cultura nemmeno, se solo si ricorda che la letteratura russa ha radici anche in Ucraina, come il Kosovo è la culla della storia nazionale serba. Tolstoj, che di guerra se ne intendeva, disse che stabilire quale delle parti in conflitto si comporti peggio non significa che le responsabilità stiano da una parte sola. Quando mi dicono che dello scoppio di una qualche guerra è colpevole in maniera esclusiva una delle due parti, non posso mai trovarmi d’accordo. Si può ammettere che una delle parti agisca con maggiore cattiveria, ma stabilire quale delle due si comporta peggio non aiuta a chiarire neanche la più immediata delle cause per cui si verifica un fenomeno così terribile, crudele e disumano qual è la guerra. Congo. Caso Attanasio, indagati i funzionari Onu. La procura: mentirono sulla missione di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci La Repubblica, 10 febbraio 2022 “Dissero bugie sulla scorta per non perdere i finanziamenti al progetto”. In due sono accusati di omicidio colposo. Ma il Pam oppone l’immunità diplomatica e la crisi in Congo complica tutto. Il padre dell’ambasciatore: “Primo passo”. L’inchiesta è chiusa. E le conclusioni alle quali è arrivata la procura di Roma sono, se possibile, ancora più tristi di quanto era lecito aspettarsi: l’ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere della sua scorta Vittorio Iacovacci sono stati uccisi in Congo, il 22 febbraio del 2021, in un agguato di predoni sulla strada verso la città di Rutshuru, perché chi doveva garantire la loro sicurezza non l’ha fatto. Non erano stati infatti predisposti i sistemi di sicurezza obbligatori per quel tipo di spedizione, a maggior ragione su una strada classificata ad alto rischio come quella che stavano percorrendo. Chi doveva occuparsi della loro sicurezza ha invece truccato e falsificato i documenti di viaggio, in modo da far svolgere a ogni costo la spedizione. Non soltanto per negligenza: temevano infatti che, applicando i protocolli previsti per la trasferta di un ambasciatore, la visita potesse saltare. E con essa i finanziamenti che Attanasio avrebbe potuto garantire. Per tutto questo il procuratore aggiunto di Roma, Sergio Colaiocco, ha notificato ieri due avvisi di chiusura indagini ai dirigenti del Pam, il Programma alimentare mondiale dell’Onu, che avevano organizzato la spedizione. Sono Rocco Leone e Mansour Luguru Rwagaza. Per loro l’accusa è di omicidio colposo. Gli ostacoli lungo il percorso che porta alla verità e alla giustizia sono ancora moltissimi. Il primo: le Nazioni unite potrebbero cercare di non far celebrare il processo. In alcune interlocuzioni avvenute nel corso delle indagini, l’ufficio legale del Pam ha fatto presente agli inquirenti che i suoi funzionari - avendo l’agenzia la sede a Roma - godrebbero, sulla base di un vecchio accordo con il governo italiano, di un’immunità come quella del personale diplomatico. Vero. Ma secondo l’interpretazione che la procura di Roma fa della norma, quel tipo di immunità può essere opposta soltanto dai dirigenti del Pam accreditati in Italia, cosa che né Leone né Luguru Rwagaza sono. È pur vero, però, che il rischio di un braccio di ferro giuridico con le Nazioni unite esiste. Lo sa anche la Farnesina che sin dal principio ha sposato la tesi dei pm di Roma. Davanti alla notizia della chiusura delle indagini, ieri, non a caso ha immediatamente fatto sapere di aspettarsi “la massima collaborazione del Pam”. L’obiettivo è evitare che possa essere messo sul tavolo l’argomento dell’immunità. L’idea che la giustizia non possa fare il suo corso è anche il grande timore dei familiari dell’ambasciatore Attanasio. Sia il padre sia la moglie, nel ringraziare i magistrati che si stanno occupando del caso, si sono augurati “che il Pam non ostacoli il processo”. “Questo - ha detto Salvatore Attanasio - è soltanto il primo passo verso la verità, perché senza verità non c’è giustizia”. A rendere ancor più complessa la storia è anche la situazione in Congo. Nelle scorse settimane il governo del Paese africano ha annunciato l’arresto dei presunti killer dell’ambasciatore: predoni che avevano commesso attentati già nei mesi precedenti lungo la stessa strada. Secondo le informazioni arrivate dall’Africa, che in queste ore i carabinieri del Ros e gli uomini dell’intelligence stanno verificando, i predoni avevano intenzione di sequestrare la carovana a fini di estorsione. Non sapevano che a bordo ci fosse l’ambasciatore italiano ma erano a conoscenza che sarebbe passato da lì un convoglio, poco protetto, di europei. La collaborazione delle autorità congolesi è stata fino a questo momento sufficiente, ma l’interlocutore sinora degli italiani, il ministro dell’Interno congolese, non c’è più. È stato arrestato sabato perché sospettato di aver complottato contro il capo del governo. I due indagati sono stati ascoltati, nelle scorse settimane, dal pm Colaiocco senza offrire spunti di rilievo. Hanno venti giorni di tempo per chiedere di essere nuovamente sentiti nel tentativo di evitare il processo. Agli atti, oltre alla relazione dell’Onu con la ricostruzione dell’incidente, ci sono le modifiche imposte dalle Nazioni unite ai protocolli di sicurezza dopo gli omicidi di Attanasio e Iacovacci. Perché uno scempio del genere non possa accadere mai più. Birmania, i figli rinnegati sui giornali dai genitori per salvarsi dalle punizioni di Paolo Salom Corriere della Sera, 10 febbraio 2022 Il terrore imposto dai generali: 600 famiglie costrette al ripudio. Nel Paese vige ancora un’antica tradizione: la responsabilità non è del singolo ma del clan. “Dichiaro che da questo momento in avanti ripudio mio figlio So Pyay Aung perché ha fatto cose imperdonabili contro la volontà dei suoi genitori. Non sono più responsabile delle sue azioni”. Firmato: Tin Aung Ko, il papà. Queste parole sono state pubblicate sul giornale di regime Myanma Alinn: un messaggio che si aggiunge a centinaia simili nel contenuto che da mesi escono quotidianamente sulle pubblicazioni fedeli alla giunta militare del Myanmar (ex Birmania). Un fenomeno che riflette una realtà sconfortante: la repressione, a un anno dal colpo di Stato del generale Min Aung Hlaing che ha posto fine alla stagione democratica birmana, è ancora nel pieno della sua forza. Tanto che le famiglie dei giovani che continuano a opporsi all’inevitabile sono costrette a tagliare i ponti con i loro stessi figli per evitare disastri ancora maggiori. Perché nel Paese del Sud-Est asiatico vige ancora una tradizione legata a un passato lontano: la responsabilità non è del singolo ma del clan. E non si tratta semplicemente di estendere lo stigma della “vergogna” ai parenti nel caso si commetta un reato o un’azione (come nel caso dei ribelli anti-giunta militare) considerata tale. In Birmania le famiglie dei dissidenti vanno incontro, oltre alla pubblica disgrazia, a punizioni concrete come pene detentive, sequestri e confische di beni. La Reuters ha contato, dallo scorso novembre, quasi seicento annunci di questo tenore. “Quando ho letto le parole con le quali mio padre dichiarava di voler tagliare ogni legame con me - ha raccontato il giornalista dissidente So Pyay Aung dal suo rifugio al confine tra Thailandia e Birmania - mi sono sentito molto triste. Ma capisco che lo abbia fatto per evitare l’arresto o, peggio, di perdere la casa”. Altri hanno reagito con minore comprensione. Come Lin Lin Bo Bo, un commerciante ora parte di un gruppo armato che, spiega sempre alla Reuters, è scoppiato in lacrime leggendo sul quotidiano The Mirror le parole firmate dalla sua famiglia dopo una “visita” da parte dei soldati: “Dichiariamo di ripudiare Lin Lin Bo Bo perché non ascolta quello che i suoi genitori gli dicono”. Firmato: San Win e Tin Tin Soe. Lin Lin Bo Bo sapeva che sarebbe successo perché la madre gli aveva raccontato dell’irruzione da parte dei soldati. Ciononostante si è sentito tagliato fuori dalla sua esistenza. “I miei compagni hanno cercato di consolarmi, mi hanno spiegato che le famiglie sono costrette ad agire in questo modo per evitare guai peggiori. Ma io mi sono sentito devastato”. E questo, oltre agli effetti di propaganda, è probabilmente lo scopo dei generali, ancora alle prese con una resistenza al rovesciamento delle istituzioni democratiche che forse immaginavano di stroncare prima. Non che costringere le famiglie a pubbliche e umilianti dichiarazioni sia una novità. In occasione di altre rivolte, in passato, i militari hanno spesso usato simili tattiche. La differenza, in questa occasione, è l’ampiezza del fenomeno e la risonanza amplificata dalla pervasività di Internet. La disperazione del momento è ben fotografata dalle parole di Zaw Min Tun, un portavoce militare che, rispondendo a una domanda sul tema, ha candidamente ammesso come gli autori di questi messaggi, se implicati in “azioni sovversive”, potrebbero comunque subirne le conseguenze. Come dire che, vista l’arbitrarietà di accuse e arresti, nessuna presa di distanza, per quanto netta e dolorosa, basta a garantire la famiglia dei dissidenti. Tiri un sasso? Sappi che tuo padre, tua madre o anche tuo nonno ne pagheranno le conseguenze.