Perché la “certezza della pena” non coincide con l’andare in carcere di Gian Luigi Gatta* Il Sole 24 Ore, 9 dicembre 2022 La certezza della pena è sempre più spesso evocata nel dibattito pubblico sulla giustizia. Per la retorica populistica, altro non è che la certezza del carcere. Viene così travisato uno dei più nobili concetti del diritto penale liberale, al quale Cesare Beccaria, nel 1764, dedicò un fulminante paragrafo del suo “Dei delitti e delle pene”. La “certezza ed infallibilità delle pene” è così spiegata dall’illuminato marchese: “uno dei più grandi freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità. La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione, che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza della impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre più gli animi umani”. Bene hanno fatto allora gli ultimi due ministri della Giustizia, negli interventi con i quali hanno presentato al Parlamento le proprie linee programmatiche, a sottolineare che la certezza della pena non è la certezza del carcere. Marta Cartabia indicò la via del “superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato. La certezza della pena non è la certezza del carcere, che per gli effetti desocializzanti che comporta deve essere invocato quale extrema ratio. Occorre valorizzare piuttosto le alternative al carcere”. Carlo Nordio ha ribadito che “certezza e rapidità della pena non significano sempre e solo carcere” e che “per i reati minori... esistono sanzioni assai più efficaci di una detenzione puramente virtuale”, perché “è meglio la concreta esecuzione di una pena alternativa, che faccia comprendere al condannato il disvalore della sua condotta, piuttosto che la platonica irrogazione di una pena detentiva cui faccia seguito la sua immediata liberazione”. Nel discorso della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, pronunciato alla Camera in occasione del voto di fiducia, la certezza della pena sembra invece associata solo al carcere: “Lavoreremo per restituire ai cittadini la garanzia di vivere in una Nazione sicura, rimettendo al centro il principio fondamentale della certezza della pena, grazie anche a un nuovo piano carceri”. Cartabia e Nordio, due giuristi, si sono formati sulle pagine di Beccaria: certezza della pena è sinonimo di effettività; un concetto che prescinde dalla severità della sanzione. Il carcere non è l’unica pena; la Costituzione, nell’articolo 27, parla, al plurale, di pene che devono tendere alla rieducazione del condannato. Le pene, anche il carcere ma non solo, devo essere “certe”, cioè effettive, e “pronte”, ossia tempestive, come diceva più di due secoli e mezzo fa Beccaria. Non un populista, ma il campione dell’illuminismo penale. La minaccia della pena funziona, come controspinta all’azione criminale, non tanto per la severità delle conseguenze, ma per la percezione dell’effeffività e della prontezza della risposta punitiva. Un sistema efficiente, dove le pene, proporzionate alla gravità del fatto, non restano sulla carta, ma vengono inflitte quando si accertano le responsabilità, è il miglior deterrente nei confronti della criminalità. Non si tratta, allora, di invocare il carcere, più carcere. Si tratta piuttosto, con una visione moderna e internazionale, di favorire le alternative al carcere per le pene di breve durata. Il 30% dei detenuti è condannato a pene non superiori a quattro anni. È provato che le alternative al carcere riducono i tassi di recidiva. Il carcere è l’università del crimine, dove il ladruncolo esce rapinatore fatto e finito. Nell’interesse della sicurezza dei cittadini, la certezza della pena da invocare è allora non solo quella del carcere, ma anche delle sue alternative. La riforma Cartabia, seguendo una linea presente anche nel progetto di riforma del codice penale che porta il nome del ministro Nordio, e che risale al 2006, valorizza le pene sostitutive delle pene detentive brevi (semilibertà, detenzione domiciliare e lavoro di pubblica utilità), applicabili dal giudice di cognizione. Sono pene certe perché immediatamente esecutive dopo la condanna, che non lasciano “liberi sospesi”: condannati a piede libero, che si stimano oggi in numero non inferiore a 80mila. Le alternative al carcere favoriscono la certezza della pena. Oltre 70mila persone scontano oggi la pena con misure alternative. Un numero maggiore di quello dei detenuti, che le carceri sovraffollate non potrebbero certo contenere. Chi ha davvero a cuore la certezza della pena deve allora investire sulle alternative al carcere. Fare il contrario significa, paradossalmente, favorire l’incertezza della pena. *Ordinario di Diritto penale, Università degli studi Milano. Componente del comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura La raccomandazione dell’Europa: ridurre la custodia cautelare di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 9 dicembre 2022 Per la Commissione va considerata “una misura di ultima istanza”. Il ministro a Bruxelles: “Visto? ce lo chiedono loro”. Indicazioni anche sullo spazio vitale minimo nelle celle. Che l’Italia non rispetta. Un testo di venti pagine che arriva al termine di un lungo percorso partito da una richiesta dei ministri europei. La Commissione europea ha approvato ieri la “raccomandazione sui diritti procedurali delle persone indagate e sospettate tenute in custodia cautelare e sulle condizioni materiali della detenzione”. Nella quale è scritto a chiare lettere che gli stati membri devono “adottare misure effettive, adeguate e proporzionate, per rafforzare i diritti di tutti gli indagati e degli imputati in un procedimento penale che si trovano privati della libertà”. Gli stati devono “garantire alle persone oggetto di privazione della libertà di essere trattate con dignità e che i loro diritti fondamentali siano rispettati”. Soprattutto, la custodia cautelare deve essere considerata “misura da ultima istanza”. Arrivando ieri sera a Bruxelles per la riunione che si terrà oggi tra i ministri della giustizia, il Guardasigilli Carlo Nordio ha detto ai giornalisti: “Ridurre la custodia cautelare, come vedete ce lo chiede l’Europa”. Secondo il “non paper” istruttorio della raccomandazione, l’Italia tra i paesi Ue che indicano un limite di durata della custodia prima della condanna definitiva è quello che ha il più lungo, oltre cinque anni, a pari merito con la Romania. Mentre per le tabelle di durata media effettiva della pre-trial detention nel 2020 l’Italia ha superato la durata media europea di custodia cautelare che è di 4,5 mesi, attestandosi a 6,5 mesi, come o peggio di noi solo Bulgaria, Portogallo, Grecia, Ungheria e Slovenia. Il ministro Nordio martedì, presentando le sue linee programmatiche in parlamento, aveva detto che “il paradosso più lacerante è che, tanto è facile oggi entrare in prigione prima del processo da presunti innocenti, quanto è facile uscirne dopo la condanna, da colpevoli conclamati”. Nella raccomandazione approvata ieri, la Commissione ha previsto che l’applicazione della custodia cautelare debba essere accompagnata da revisioni periodiche dello strumento per confermare che il suo impiego sia giustificato. Applicando misure alternative alla detenzione appena possibile. La Commissione ha anche stabilito standard minimi di dimensioni per le celle: 6 mq in celle singole e 4 in celle comuni. Aggiungendo che “dove un detenuto abbia a disposizione meno di 3 mq c’è una forte presunzione di violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo”. Secondo l’ultimo rapporto di Antigone, nel 25% delle carceri italiane ispezionate lo spazio vitale è inferiore a 3 mq. Troppi detenuti senza processo, l’Ue ammonisce l’Italia: “Un abuso” di Tommaso Lecca europa.today.it, 9 dicembre 2022 Le carceri italiane nel mirino dell’Unione Europea. Nel nostro paese un detenuto su tre si trova in carcere in custodia cautelare da oltre 6 mesi. Ma per Bruxelles va usata solo come ultima istanza. Mettere dietro le sbarre una persona non condannata può essere l’eccezione, non la regola. Il richiamo ai Paesi che, come l’Italia, fanno largo uso della custodia cautelare, è contenuto nelle raccomandazioni sui diritti procedurali di indagati e imputati presentate dalla Commissione europea. Bruxelles, oltre a dire la sua su come andrebbe amministrato il sistema carcerario, ha diffuso le statistiche sulle condizioni dei detenuti nell’Ue. Com’è noto, le carceri italiane sono in ‘zona retrocessione’. In galera senza condanna - L’Italia è tra le ultime in Europa in tutte e quattro le classifiche diffuse dall’Ue. Si parte con la durata media della custodia cautelare dei detenuti che non hanno scontato una pena definitiva. Con una detenzione media di sei mesi e mezzo, l’Italia si colloca tra i Paesi che rinchiudono in prigione le persone sotto processo per un periodo più lungo. Solo quattro Paesi Ue hanno dichiarato custodie cautelari di durata superiore: Slovenia (12,9 mesi), Ungheria (12,3), Grecia (11,5) e Portogallo (11). Le analisi della Commissione sono però prive dei dati su diversi Paesi Ue, come Francia e Germania. Celle piene - Le prigioni del belpaese sono anche tra quelle che ospitano più detenuti sotto processo: il 31,5% del totale della popolazione carceraria a fronte di una media Ue inferiore al 25%. La terza classifica che vede l’Italia tra i peggiori della classe è quella sul sovraffollamento delle carceri che, in media, costringe oltre 105 detenuti a vivere nello spazio assegnato a 100 persone. L’Italia nel 2021 si è collocata tra gli otto Paesi Ue con una densità carceraria media superiore ai 100 detenuti ogni 100 posti. A farle compagnia ci sono la Romania (119,3), la Grecia (111,4), Cipro (110,5), il Belgio (108,4), la Francia (103,5), la Svezia (100,6) e l’Ungheria (100,5). Quanto costano i detenuti - L’ultimo ranking che evidenzia le difficoltà del sistema detentivo tricolore riguarda i costi. Nonostante il sovraffollamento carcerario, ogni detenuto costa allo Stato italiano 135,5 euro al giorno a fronte di una media Ue di poco superiore ai 125 euro giornalieri. I detenuti più ‘costosi’ sono quelli del Lussemburgo (332,6 euro), seguiti da quelli in Svezia (303 euro) e Olanda (284 euro). Il Paese che spende meno per i suoi detenuti è invece la Bulgaria, con un costo giornaliero per detenuto pari all’equivalente nella valuta locale di 6 euro e 50 centesimi.  Le richieste dell’Ue - Nel documento di raccomandazioni elaborato su richiesta dei ministri dell’Ue, la Commissione non solo ha chiesto che l’uso della custodia cautelare venga limitato come extrema ratio. Ha anche precisato che, se usato, il carcere preventivo va accompagnato da revisioni periodiche. Bruxelles ha inoltre stabilito standard minimi per le dimensioni delle celle: “Gli Stati membri dovrebbero assegnare a ciascun detenuto una superficie minima di almeno 6 m2 nelle celle a occupazione singola e 4 m2 nelle celle a più occupanti”. Ma attenzione: “Il calcolo dello spazio disponibile deve includere l’area occupata dagli arredi ma non quella occupata dai servizi igienici”. Carceri sovraffollate, la Danimarca manda i detenuti in Kosovo (ma solo i migranti) - “Gli Stati membri - si legge ancora - dovrebbero consentire ai detenuti di fare esercizio fisico all’aria aperta per almeno un’ora al giorno e dovrebbero fornire strutture e attrezzature spaziose e adeguate a tale scopo”. Le raccomandazioni introducono inoltre misure specifiche per affrontare la questione della radicalizzazione nelle carceri, come incoraggiare gli Stati membri a effettuare una valutazione iniziale del rischio per determinare il regime appropriato applicabile ai detenuti sospettati o condannati per reati di terrorismo ed estremismo violento. Ad esempio, le autorità potrebbero prendere la decisione di impedire a questi stessi sospetti di avere contatti diretti con detenuti particolarmente vulnerabili. Vengono infine proposte misure particolari per le donne e le ragazze, le persone Lgbtiq, i cittadini stranieri, le persone con disabilità e altri detenuti vulnerabili. L’allarme dei Garanti: “700 semiliberi rischiano di rientrare in carcere” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 dicembre 2022 Il 31 dicembre scade la normativa per l’emergenza Covid 19. Il Garante campano Ciambriello: “Da oltre due anni queste persone vivono libere e ora c’è il rischio che la politica le rimetta in cella”. “Da gennaio i semiliberi della Campania, e i complessivi 700 a livello nazionale, rischiano di tornare a dormire in carcere una volta terminato il lavoro all’esterno, qualora il Governo non dovesse adottare entro la fine dell’anno, provvedimenti di proroga”, lancia l’allarme il garante dei detenuti della regione Campania Samuele Ciambriello. Da più di due anni solo per quanto riguarda la Campania, sono 159 le persone sottoposte a regime di semilibertà, persone che lavorano fuori dal carcere e dormono presso le proprie abitazioni, grazie ai provvedimenti adottati dal governo per l’emergenza sanitaria da Covid-19. Il garante campano Ciambriello osserva che i “diversamente liberi”, italiani ed in particolare campani, hanno svolto la propria attività lavorativa senza mai incorrere in sanzioni penali o disciplinari. Da oltre due anni vivono libere - “Da oltre due anni queste persone vivono libere e ora c’è il rischio che la politica le rimetta in carcere. Mi auguro che il governo metta in campo una saggia misura per la continuità di questa esperienza. Invoco il coraggio di questa decisione giusta per una nuova proroga della licenza straordinaria. È sotto gli occhi di tutti la correttezza di uomini e donne campane che in semilibertà non hanno infranto le regole e stanno vivendo questa misura attraverso il reinserimento seppur parziale e controllato nell’ambiente libero”, conclude il garante campano. Un allarme che ha lanciato anche il garante del Lazio Stefano Anastasìa, il coordinatore dei garanti territoriali, sottolineando che farli rientrare in carcere, “sarebbe una evidente regressione nel percorso di reinserimento sociale prescritto dalla Costituzione come finalità della pena e il disconoscimento dell’impegno e della serietà con cui ciascuna di quelle settecento persone ha risposto all’opportunità che è stata offerta loro”. Il rilancio del regime penitenziario e del trattamento di Domenico Alessandro De Rossi* L’Opinione, 9 dicembre 2022 Con la circolare 3693/143 del luglio 2022 il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Carlo Renoldi, ha espresso le “direttive per il rilancio del regime penitenziario e del trattamento”. Con tale documento, tra le altre indicazioni riguardanti la complessa materia, ha voluto precisare che per “contrastare il fenomeno dell’ozio e della inoperosità” occorra coinvolgere “le persone detenute per molteplici attività valorizzando tutte le risorse umane disponibili per sollecitare l’autodeterminazione e auto-organizzazione sotto il sapiente indirizzo delle Direzioni”. È certamente molto apprezzabile il richiamo del Capo del Dap, al quale sommessamente ci permettiamo di inviare qualche commento, nel momento in cui sollecita iniziative volte a suscitare interesse all’impegno culturale e/o lavorativo che sia da parte dei detenuti. Sta di fatto però che l’attuale sistema direzionale del carcere sembra essere non soltanto carente di mezzi e spazi adeguati, ma sprovvisto soprattutto sul piano organizzativo del management interno alla struttura, quando non addirittura carenza di personale dirigenziale (direttori e provveditori). La perizia di saper integrare attorno ad un progetto comune (teatro, scuola, lavoro, ecc.) anche la realtà dedicata alle infrastrutture penitenziarie destinate alle diverse capacità ed interessi, necessiterebbe di una particolare esperienza per i rendimenti attesi, in grado di pianificare lo sviluppo proattivo nel carcere tenendo ben presente l’idea-progetto, basata su strategie destinate alla detenzione. Parrebbe auspicabile in tal senso definire per la gestione e la manutenzione dell’edilizia penitenziaria un’unica figura “commissariale” che concentri in sé i poteri di governance potendo decidere in piena autonomia, ma di concerto con chi il carcere lo conosce davvero, al di fuori di ogni logica emergenziale o correntizia, per chi deve realizzare il carcere, dove realizzarlo, come realizzarlo e come gestirlo o come ristrutturarlo se preesistente. In altre parole è auspicabile creare una specifica struttura collegata con il territorio operante in un nuovo clima culturale, amministrativo ed economico-finanziario, con l’obiettivo di assicurare agli edifici carcerari presenti e futuri tutte le qualità che come ambienti di vita e di lavoro sono dovuti, operando nel senso di un più attento e oculato uso delle risorse economiche pubbliche e private. Meglio ancora se sganciate da attribuzioni precedenti che a nulla di positivo hanno portato finora nella soluzione dei problemi delle carceri. A tal fine, anche in funzione di quanto ha affermato il ministro della Giustizia Carlo Nordio, non è più rinviabile promuovere un disegno strategico che punti per i prossimi anni ad un progressivo e costante abbassamento della popolazione carceraria, mediante un migliore utilizzo del lavoro come strumento alternativo alla detenzione destinato anche al recupero delle più qualificate preesistenze architettoniche destinate alla carcerazione. Un programma da attuare a seguito di uno specifico protocollo di responsabilizzazione e riqualificazione del detenuto, strappandolo alla noia, alla alienazione e, finalmente, alla depressione suicida, disponendo anche di un quadro organico di modalità diverse di scontare la pena concordato con gli enti locali e con le iniziative del terzo settore. Dietro il grande mondo dei servizi sociali sul territorio, c’è una realtà economica e produttiva che muove dal turismo alla produzione dell’intera filiera agroalimentare integrata, dall’industria manifatturiera, alla distribuzione e alla vendita, dall’assistenza presso i servizi territoriali sanitari, al sostegno sociale presso le Onlus e associazioni di volontariato, al variegato mondo delle costruzioni così ricco di tante diverse specialità lavorative. La “ripresa sociale” di cui molto si parla, insieme all’attesa riforma della giustizia in generale, potrebbe iniziare anche da qui. Dal momento che nessun singolo progettista od organizzazione può prendere in considerazione in modo adeguato tutte le molteplici esigenze della comunità nella pianificazione di un centro di detenzione, il ruolo del responsabile dello sviluppo progettuale durante questa prima fase deve essere come membro di un team specializzato sotto il presente coordinamento della struttura commissariale. *Vicepresidente Cesp (Centro Europeo Studi Penitenziari) Appello degli studenti della Sapienza: aboliamo 41 bis ed ergastolo ostativo Il Dubbio, 9 dicembre 2022 Dagli studenti dell’Università “Sapienza” al corpo accademico: vogliamo dare voce ad una questione di cui sembra non si possa né domandare né parlare e che ci preoccupa. Per farlo ci appelliamo al corpo accademico perché crediamo che specialmente nei momenti più bui, in quei chiaro- scuri dove nascono mostri, l’Università non possa rimanere passiva davanti all’incedere degli eventi, ma piuttosto debba prestarsi ad essere luogo della critica, il motore dello spirito dei nostri tempi. La “Sapienza” non è uno spazio neutro, non deve esserlo, e lo ha dimostrato la mobilitazione delle ultime settimane da parte del corpo studentesco. Una comunità che si è riscoperta tale per la prima volta da anni. Una comunità che ha invaso a migliaia il cortile di Scienze Politiche e che ha invocato a gran voce un’altra Università. Una comunità che si è interrogata circa il suo ruolo all’interno della società e che con questa lettera aperta tenta di rispondere al suo quesito. Il motivo per cui ci appelliamo a voi è il seguente: lo scorso 20 ottobre Alfredo Cospito, detenuto nel carcere di Sassari, ha incominciato uno sciopero della fame contro il regime di detenzione del 41- bis (al quale lui stesso è sottoposto) e contro l’ergastolo ostativo. Oltre ad Alfredo Cospito sono in sciopero della fame anche Anna Beniamino (detenuta in regime di alta sicurezza a Rebibbia) Juan Sorroche Fernandez (detenuto in regime di alta sicurezza nel penitenziario di Vocabolo Sabbione) e Ivan Alocco (detenuto nel carcere di Villepinte). Il 41- bis, nato come misura emergenziale nel ‘ 92, per poi subentrare a pieno titolo nel nostro ordinamento per mezzo della legge n. 279/ 2002, è diventato negli anni un mezzo indiscutibile di lotta alle organizzazioni criminali. Ed è questa dogmaticità che ci terrorizza, questa ineluttabilità che ha permesso allo Stato italiano di tenere su, negli ultimi trent’anni, un modello speciale di carcere, detto per l’appunto “duro”, mirato a “far crollare” il detenuto, puntando alla “redenzione” di questo, ovvero alla collaborazione con la giustizia, principale “criterio di accertamento della rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata” (cfr. sent. Corte Cost., n. 273/ 2001). Il 41-bis non è solo uno strumento preventivo, ma “vista la rigidità del suo contenuto è evidente che assuma anche un significato repressivo- punitivo ulteriore rispetto allo status di privazione della libertà” (cfr. XVIII report sulle condizioni di detenzione dell’Associazione Antigone). È difficile riuscire, da fuori, ad immergersi nella dimensione carceraria; per questo vorremmo riportare alcuni versi del poeta Sante Notarnicola, che ben riescono a veicolarci il senso di profondo isolamento e alienazione che il detenuto vive sulla sua pelle: “Il guardiano più giovane ha preso posto davanti alla mia cella. ‘Dietro quel muro’ - mi ha indicato - ‘il mare è azzurrissimo’. Per farmi morire un poco il guardiano più giovane mi ha detto questo”. Il detenuto in 41 bis passa la maggior parte della sua giornata all’interno di un cubicolo di cemento. Questo è lungo 1,53 metri e profondo 2 e mezzo. L’ordinamento penitenziario concede solo 2 ore di socialità al giorno, da svolgere in gruppi di massimo 4 persone. Le ore d’aria si svolgono in un riquadro troppo alto per permettere di dare orizzontalità allo sguardo e la visuale del cielo è comunque delimitata da una rete: tutti i giorni, per anni, gli occhi non guardano null’altro che il cemento, lo sguardo non va mai in profondità, la fantasia e la memoria vengono logorate. La legge stabilisce, poi, che i detenuti al 41- bis possano effettuare un colloquio al mese dietro ad un vetro divisorio (tranne che per i minori di 12 anni) della durata di un’ora (sei - fin troppo pochi - invece, sono i colloqui mensili concessi ai detenuti “comuni”, senza barriere divisorie) e videosorvegliati da un agente di polizia penitenziaria. La riflessione che ci siamo posti e che stiamo ponendo ora a voi è la seguente: nel momento in cui nella società in cui ci muoviamo ci viene proposta la narrazione per la quale il carcere esiste in quanto sistema rieducativo e di reintegrazione sociale, a dimostrare il fatto che questo non è il vero obiettivo dell’istituzione carceraria ritroviamo la presenza (tanto difesa e considerata necessaria) di un modello di reclusione come quello del 41-bis. Può mai essere inflitta ad un essere vivente una sorte tanto brutale, tesa a un’incivile retribuzione del dolore? La nostra riposta è quanto mai ferma e risoluta: no! Le istituzioni democratiche devono essere in grado di affrontare le situazioni di crisi con strumenti idonei e coerenti con quei principi, costituzionali e convenzionali, che hanno nel tempo abbracciato. Il nostro stesso ateneo si è sempre, e soprattutto recentemente, dichiarato forte sostenitore della nostra carta costituzionale che, ricordiamo, esplicita la “pari dignità sociale” di tutte le soggettività che attraversano il territorio italiano. La risposta non può mai essere ottenuta al ribasso, adottando misure autoritarie, repressive e lesive della dignità umana, ma deve essere sempre il frutto di una - faticosa, certo! - ricerca di alternativa. Chiediamo al corpo accademico di firmare questo comunicato affinché il Rettorato si spenda contro un’ingiustizia che si consuma all’interno dei confini del nostro Paese e l’affronti con la stessa fermezza con la quale in momenti precedenti ha affrontato altre situazioni (e ci riferiamo al caso Regeni e alla risoluzione pacifica del conflitto in Ucraina): prendendo posizione pubblicamente ed esponendo degli striscioni contro il 41-bis (prima del mese di dicembre durante il quale si esprime- ranno la Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo e il Tribunale di Sorveglianza sulla misura inflitta ad Alfredo Cospito). Firme: Massimo Cacciari, Donatella Di Cesare, Luca Alteri, Elena Gagliasso, Giorgio Mariani, Valerio Cordiner, Tessa Canella, Rita Cosma, Damiano Garofalo, Matteo Aria, Erri De Luca. Per aderire: student.controil41bis@gmail.com Mafia, il colpo di spugna di Nordio: benefici ai boss decisi da un solo giudice di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 9 dicembre 2022 L’emendamento dell’esecutivo sui permessi ai mafiosi: tutto in mano alle singole toghe che rischiano intimidazioni. Una riga scritta talmente in “giuridichese” da non capirne il significato: “Sopprimere le lettere b e c del comma 1”. Sembra una delle tante leggine innocue inserite nei decreti che passano per il Parlamento e invece non è così: l’emendamento approvato dalla maggioranza di centrodestra al decreto sull’ergastolo ostativo rischia di essere un colpo di spugna nella lotta alla mafia. O quantomeno di mettere in grossa difficoltà i giudici che si troveranno di fronte alla decisione di concedere o meno i benefici ai condannati per mafia e terrorismo. L’emendamento del governo prevede infatti che per concedere i benefici ai boss mafiosi - permessi premio e lavori esterni - non debba più decidere un tribunale collegiale ma un solo giudice monocratico. Così facendo però il rischio è che il giudice stesso subisca condizionamenti e intimidazioni in fase di decisione da parte della criminalità organizzata. Un emendamento scritto direttamente dal ministero della Giustizia di Carlo Nordio, che ha creato molti malumori nella maggioranza. Anche perché pochi minuti prima, in commissione Giustizia al Senato, era stato approvato un altro emendamento del senatore di Fratelli d’Italia, Alberto Balboni, che “induriva” il regime dell’ergastolo ostativo. Una contraddizione evidente. La norma voluta da Nordio quindi ha provocato la reazione stizzita di Pd, M5S e anche di Forza Italia. Tutto nasce nella scorsa legislatura quando la maggioranza che sosteneva il governo Draghi aveva approvato un disegno di legge per rimediare alla sentenza della Corte costituzionale che aveva definito in parte incostituzionale l’ergastolo ostativo - cioè quell’istituto secondo cui un condannato per mafia all’ergastolo non può accedere ai benefici penitenziari o alle misure alternative al carcere - perché in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione. Durante le audizioni preparatorie in commissione Giustizia alla Camera i magistrati avevano chiesto al Parlamento di far decidere sui benefici e i permessi premio proprio al Tribunale di Sorveglianza (quindi collegiale) e non solo al singolo giudice di sorveglianza, per evitare possibili condizionamenti o intimidazioni. Un consiglio che è stato recepito, grazie al M5S, nel disegno di legge approvato (in prima lettura alla Camera) nel marzo 2022 e poi “copiato” dal governo Meloni con decreto legge: dal 31 ottobre i giudici decidono collegialmente. La decisione sulla libertà condizionale invece resta in mano al singolo giudice, ma dopo il parere del pm che ha condannato il mafioso e del procuratore nazionale antimafia. Durante le audizioni in commissione Giustizia al Senato, però, alcuni esperti hanno posto il tema dell’ingolfamento dei tribunali di sorveglianza in tutta Italia: se tutte le decisioni saranno attribuite a noi, era il senso del ragionamento, rischiamo di bloccarci. Per questo, il compromesso trovato in maggioranza era stato chiaro: la prima decisione sulla concessione dei benefici sarebbe spettata al Tribunale di sorveglianza e poi i successivi rinnovi ai singoli giudici. Questo prevedeva un emendamento firmato dall’ex ministra leghista Erika Stefani. Peccato però che il governo abbia deciso di fare tabula rasa di tutto il lavoro e tornare alla vecchia legislazione: il ministero della Giustizia ha riformulato l’emendamento di Stefani abrogando la potestà del tribunale collegiale sui benefici. Ergo: ogni decisione spetterà al singolo giudice di sorveglianza. La norma però non è piaciuta all’opposizione. Durante la seduta di martedì, i senatori del Pd Anna Rossomando e Alfredo Bazoli hanno protestato ricordando l’importanza di “evitare il rischio di condizionamento del magistrato monocratico, in particolare quando la decisione riguarda figure criminali di grande rilevanza”. Anche la capogruppo del M5S, Ada Lopreiato, oggi conferma la contrarietà del suo partito perché “c’è il rischio di intimidazioni” nei confronti dei singoli giudici. Il senatore di Forza Italia Zanettin, pur votando a favore per disciplina di maggioranza, ha detto di “non comprendere le ragioni” dell’emendamento visto che la richiesta di decidere collegialmente “era giunta dagli stessi magistrati”. Il sottosegretario alla Giustizia leghista Andrea Ostellari non ha proferito parola. Quindi l’emendamento del governo è stato messo ai voti e approvato con il sostegno del centrodestra e la contrarietà di Pd e M5S. Carriere separate, meno potere, più responsabilità: ecco perché Nordio fa paura di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 9 dicembre 2022 Il momento storico è maturo per dare finalmente un corretto assetto al sistema giudiziario italiano. Dovrebbero essere, secondo l’ultima pianta organica voluta dall’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (M5S), circa 3000. Nei fatti sono poco più di 2600, con una scopertura del 14 percento. Stiamo parlando dei magistrati italiani che ricoprono il ruolo di pubblico ministero nelle varie Procure del Paese, ad iniziare da quella presso la Corte di Cassazione. I pm, dall’altro giorno, sono tornati nuovamente al centro dell’attenzione del dibattito politico a seguito dell’intervento programmatico in Parlamento del Guardasigilli Carlo Nordio che ha affermato, senza mezzi termini, di volerli “separare” dai colleghi che invece svolgono la funzione giudicante. La maggior parte dei pm presta servizio negli uffici giudiziari da Roma in giù. Solo alla Procura di Napoli, fra procuratore, aggiunti, sostituti e procuratori europei, sono più di centodieci. A Palermo, invece, sono settanta, quanti quelli in servizio presso tutte le Procure della Toscana. Come per i colleghi giudici, va però ricordato, la loro distribuzione negli uffici giudiziari non tiene minimamente conto del contesto socio economico del Paese. In Sicilia, ad esempio, con una popolazione di circa 5 milioni di abitanti, ci sono ben quattro Corti d’appello. In Lombardia, dove gli abitanti residenti sono più del doppio, le Corti d’appello sono solo due. Fra questi 2600 pm ci sono poi quelli in servizio presso la Procura generale della Cassazione, circa un centinaio. Alcuni di loro vengono impiegati per l’attività disciplinare nei confronti dei colleghi o come, utilizzando le parole pronunciate in un Plenum dal consigliere laico Stefano Cavanna, “serbatoio per incarichi fuori ruolo” presso ministeri, autorità indipendenti, e quant’altro. “L’anomalia italiana”, seguendo il ragionamento di Nordio, è dovuta al fatto che pur avendo il nostro Paese sposato dal 1989 un codice penale con rito accusatorio, quindi con la “parità’ fra accusa e difesa, il pm è rimasto un magistrato. Il pm, sottolinea Nordio, “sceglie” i procedimenti potendo trovare spunti per indagare nei confronti di tutti senza dover rispondere a nessuno. “Un tale sistema conferisce alle iniziative - e talvolta alle ambizioni - individuali di alcuni magistrati, per fortuna pochi, una egemonia resa più incisiva dall’assenza di responsabilità in caso di mala gestione”, ha allora puntualizzato Nordio che quando era in servizio ha fatto proprio il pm e quindi conosce bene vizi e virtù dei suoi colleghi. A difesa dello status quo, il richiamo alla comune cultura della giurisdizione che dovrebbe portare il pm ad effettuare accertamenti anche a favore dei suoi indagati. L’esperienza insegna che ciò accade molto raramente, non essendo previste sanzioni, disciplinari o penali, per il pm che non svolge tale compito. “Come capo della polizia giudiziaria il pm ha infatti una reale autorità esecutiva. Ma come magistrato gode delle garanzie dei giudici e quindi svincolato da quei controlli che, in ogni democrazia accompagnano e limitano l’esercizio di un potere”, ha chiosato il Guardasigilli. In pratica, oggi, il pm svolge un ruolo “diverso” da quello del giudice. Sempre Nordio ha infatti ricordato cosa accadeva prima dell’entrata in vigore del codice Vassalli: “Prima era la polizia giudiziaria che svolgeva le indagini con un margine di autonomia e consegnava gli esiti al pm. Il pm non era il coordinatore delle indagini bensì colui che a esse garantiva un filtro di giuridicità per trasmettere al giudice quel che meritava di essere sottoposto a giudizio”. Con il pm capo della polizia giudiziaria lo scenario è cambiato radicalmente. Perché, allora, questa ritrosia da parte dei pm a prendere atto che il quadro è mutato? Le ipotesi sono diverse. Un aspetto, indubbiamente, è il “potere”. I pm hanno molta visibilità grazie alle loro indagini. A differenza dei giudici, i loro nomi sono spesso conosciuti dal grande pubblico. Visibilità che è anche data dagli incarichi ricoperti nelle correnti e nella stessa Associazione nazionale magistrati. Scorrendo i nomi dei suoi presidenti negli ultimi decenni si scopre che nel 90 percento dei casi, vedasi Luca Palamara, si è trattato di pubblici ministeri, pur essendo essi un terzo dei colleghi giudici. La riforma che vuole Nordio dovrebbe prevedere due diversi organi di autogoverno, uno per i pm ed uno per i giudici. Questo non significherebbe sottoporre i pm al potere esecutivo bensì creare un loro ruolo autonomo, con un proprio Csm, e percorsi di accesso distinti con concorsi separati dai giudici. Nessun “condizionamento” da parte della politica ma sempre e comunque “soggezione” solo alla legge. Per realizzare tutto ciò serve una modifica della Costituzione. Operazione che necessita di tempo. Ma, come dice sempre Nordio, è un “vasto programma”. Il momento storico, comunque, è maturo ed anche i numeri in Parlamento ci sarebbero per dare finalmente un corretto assetto al sistema giudiziario italiano che non ha adesso equali, con l’unicità delle carriere, in nessuna altra parte d’Europa dove è stato adottato un codice di rito di tipo accusatorio. Quel sottinteso nel progetto Nordio di Stefano Folli La Repubblica, 9 dicembre 2022 Il governo punta molto sulla manovra della giustzia. Se si dimettesse il ministro voluto da Meloni, l’esecutivo farebbe altrettanto. C’era un sottinteso nel programma di riforme che il ministro Guardasigilli ha anticipato in commissione al Senato. Sottinteso che egli stesso ha svelato il giorno dopo, quando ha detto di essere “pronto anche alle dimissioni” per difendere il suo progetto. È un punto politico ricco di implicazioni da non sottovalutare. Si dirà che non c’è nulla di sorprendente: chi è impegnato a lanciare un disegno riformatore deve mettere sul tavolo anche la possibilità di lasciare. Tuttavia stavolta i tempi sono accelerati, dal momento che il piano deve ancora essere calato nei disegni di legge. Lo stesso ministro ha fatto una distinzione tra interventi in via ordinaria (ad esempio le intercettazioni) e altri che richiedono modifiche alla Costituzione, in primo luogo il tabù per eccellenza: la separazione delle carriere dei magistrati (c’è un pamphlet in uscita da lui scritto, titolo Giustizia, in cui è ben spiegata la sua visione circa il ruolo della magistratura in uno Stato moderno). Nordio ha fatto capire che le questioni più urgenti saranno trattate attraverso la procedura ordinaria, mentre ciò che ha rilievo costituzionale sarà affrontato in un secondo tempo. A leggere le cronache non sembra che tale slittamento dei tempi, adombrato al fine di rassicurare, abbia prodotto qualche risultato. Ma qui conta di più valutare l’accenno a eventuali dimissioni. Da un lato si dimostra la determinazione del ministro, il non voler lasciare dubbi circa la sua volontà. Dall’altro si può pensare a un’uscita un po’ impolitica: una maggiore esperienza parlamentare avrebbe consigliato di tenere nella manica questa estrema carta, da calare sul tavolo solo al momento opportuno. Ma c’è una terza spiegazione che coinvolge, oltre al ministro in carica, la presidente del Consiglio: colei che più di tutti e con una certa caparbietà lo ha voluto in via Arenula. Giorgia Meloni si è affrettata a dichiararsi del tutto d’accordo con la linea esposta da Nordio a Palazzo Madama. E si può pensare quel che si vuole di una riforma di cui conosciamo solo la cornice generale e che andrà analizzata con attenzione e spirito critico, ma è difficile negarne l’ispirazione liberale e garantista. Rispecchia la cultura giuridica del ministro, il che l’allontana di parecchio dal “giustizialismo di destra” tipico, fino a qualche tempo fa, del partito dell’attuale premier. La quale oggi sembra voler legare il suo destino a quello del ministro liberale da lei voluto. E c’è una logica. La riforma della giustizia diventa la discriminante che potrà decidere in futuro la legislatura. Giorgia Meloni vuole durare in carica, ma è senza dubbio consapevole che sul terreno dell’economia e delle politiche sociali, sia per la scarsità delle risorse sia per i vincoli europei, non avrà grandi spazi di manovra. Occorrono altri temi per dare un senso al governo di centro-destra. Uno riguarda la riforma in senso presidenziale della Repubblica; l’altro è una riforma radicale della giustizia. Tuttavia il primo non mobilita l’opinione pubblica, il secondo invece sì. Come è ovvio, tutti sono interessati al buon funzionamento della macchina giudiziaria e molti hanno qualche ingiustizia vera o presunta di cui lamentarsi. S’intende, Nordio dovrà impegnarsi, insieme alla sua presidente, a far camminare in Parlamento il progetto di cui ha fornito rapidi cenni. Ma se la matassa dovesse aggrovigliarsi oltre misura, ecco il “piano B”. A quel punto le dimissioni del ministro non sarebbero una questione personale, bensì un fatto politico di assoluta rilevanza. Non uscirebbe di scena il solo Nordio, ma la premier e la sua compagine. Sceglierebbe di cadere su un terreno propizio: la giustizia, appunto; e non su un tema scelto dall’opposizione. Dopodiché sarebbe difficile immaginare un governo tecnico o “del presidente”. Nuove elezioni sarebbero alle porte. Tanto tuonò che piovve: a proposito di alcune riforme annunciate di Francesco Palazzo sistemapenale.it, 9 dicembre 2022 Tanto tuonò che piovve (o, quantomeno, minacciò di piovere). Sono ormai anni che molti di coloro che, per formazione culturale e fedeltà costituzionale, nutrono un profondo senso della giurisdizione e una convinta consapevolezza del ruolo svolto dalla magistratura nella tutela dei diritti, nella difesa delle istituzioni, nell’attuazione della Costituzione, sono anni - dicevo - che costoro segnalano le crescenti esorbitanze della giustizia penale sulla scena politico-sociale italiana. Un’esorbitanza imputabile specie alla magistratura inquirente, spesso animata da intenti forse indotti dall’inerzia e dalle malefatte della politica ma oggettivamente a rischio di destabilizzazione del quadro delle garanzie e di civiltà giuridica. Così come non sono certo mancate, anche in sede scientifica ed accademica, le segnalazioni di certe forzature consumate talvolta dalla magistratura giudicante sul piano interpretativo allentando oltre misura il vincolo alla legge. A tutto ciò si aggiungeva una crescente sensazione diffusa, e che l’avvocatura non perdeva occasione di veicolare, di una certa qual riluttanza anche dei giudici - e dello stesso CSM - ad impegnarsi in modo radicale e concreto sul piano dell’efficienza e dell’organizzazione, pur dovendosi dare atto degli ostacoli frapposti su questa strada da un intrico normativo più complicatorio e farraginoso che effettivamente garantista. Per anni queste voci, tutt’altro che acrimoniose ma al contrario ispirate ad un convinto rispetto per la giurisdizione, non sono state ascoltate adeguatamente da quelle parti più mediaticamente “sensibili” della magistratura specie inquirente (che ha invece perseverato nella ricerca di una legittimazione extraistituzionale, spesso anche sugli schermi televisivi dei vari talk show o nelle pagine di libri di indubbio successo commerciale). Ma le nuvole continuavano ad addensarsi, il prestigio e la fiducia popolare continuavano a calare, le voci “amiche” che invitavano a recuperare un self restraint costituzionalmente doveroso continuavano a rimanere inascoltate. Diventava sempre più facile prevedere che il vento sarebbe prima o poi mutato e avrebbe potuto portare tempesta. E così puntualmente è stato. Non si può certo estremizzare con il classico imputet sibi, ma certo un difetto di lungimiranza c’è stato. Così come è mancata una reazione diffusa, uno scatto rigeneratore dopo scandali clamorosi. E ora? Ora le nuvole minacciano pioggia battente e forse qualche tsunami, anche costituzionale. Lo sforzo riformatore annunciato dal Ministro Carlo Nordio si proietta su vari fronti, ma un paio di questi, nel loro congiungersi pericolosamente, suscitano un allarme di cui devono farsi avvertiti anche i cittadini e non solo i “chierici”. La separazione delle carriere è tema in sé tutt’altro che scandaloso poiché in un processo realmente “di parti” la separazione si palesa addirittura come un logico corollario del principio della parità di quelle “parti” (salva poi la necessità di lavorare opportunamente su un terreno che unisca tutti gli attori processuali in un comune linguaggio e in un comune patrimonio di valori, ferma restando la salutare differenza di ruoli nel concreto esercizio delle rispettive funzioni nel processo). Ma se, accanto alla separazione delle carriere, si ipotizza anche di demolire l’obbligatorietà dell’azione penale si rischia di creare così un corto circuito costituzionale. Anche l’obbligatorietà dell’azione penale non può essere un tabù e certo occorre uscire dall’attuale ipocrisia di un’azione penale formalmente obbligatoria ma in realtà discrezionale. Andare oltre quanto ha oggi previsto la riforma Cartabia con i criteri di priorità “misti”, in parte elaborati dalla politica e in parte dalle procure, è possibile specie in chiave deflativa calibrando bene istituti a cavallo tra diritto sostanziale e processuale. Ma congiungere in un unitario progetto la dilatazione ulteriore della discrezionalità e la separazione delle carriere, lascia fatalmente intravedere all’orizzonte un pubblico ministero che, dovendo ineludibilmente rispondere della accresciuta discrezionalità, può diventare braccio esecutivo delle forze politiche di volta in volta (non si dimentichi che le maggioranze cambiano!) dominanti. Allora sì che la tenuta del quadro costituzionale sarebbe a rischio. Davvero non esistono altre strade per ricondurre il protagonismo della giurisdizione in più ragionevoli e costituzionalmente corretti limiti? Flick: “Nordio non mi piace più, in lui latente rivalsa contro gli ex colleghi” di Liana Milella La Repubblica, 9 dicembre 2022 “Nordio? Non mi piace più come ministro della Giustizia dopo i suoi discorsi in Parlamento”. L’ex Guardasigilli ed ex presidente della Consulta Giovanni Maria Flick ripercorre con Repubblica il Nordio pensiero che “rischia di non risolvere i tanti problemi della giustizia”. Tra Senato e Camera, in due audizioni, Nordio ha distrutto la magistratura. Reati inutili, ma comunque perseguiti per fare spettacolo, intercettazioni di fatto illegali, Csm “palamariano”, giudici e pm in combutta ai danni dell’indagato, inchieste inutili, presunzione d’innocenza volutamente violata. Che ne pensa di questa “tabula rasa”? “Mi lascia perplesso usare questa definizione per una realtà complessa che viene molto semplificata, da un lato con le parole di Nordio, e dall’altro con le critiche che gli si muovono. Preferisco vedere la magistratura nei termini in cui essa è stata richiamata dal presidente della Repubblica nel giorno del suo insediamento”. Perché, cosa disse che l’ha stupita? “Sono rimasto colpito dalla distanza tra l’elogio alla magistratura che il presidente aveva fatto nel 2018, nell’giorno del suo primo settennato, e la durezza del quadro che ne ha fatto invece quest’anno. Necessità di un profondo impegno riformatore, perplessità di fronte a un terreno di scontro che ha fatto perdere di vista gli interessi della collettività, necessità che l’ordinamento giudiziario e il Csm corrispondano alle pressanti esigenze di efficienza e credibilità”. Allora lei è un “nordiano”? “Proprio per niente. Condivido le censure pesanti che tanti, compreso Nordio, muovono alla dinamica delle intercettazioni e alla loro divulgazione. Non credo però che il rimedio possa essere quello che lui propone, intercettazioni riservate, segrete di competenza pressoché esclusiva della polizia, senza un controllo effettivo della magistratura e senza garanzie di conoscenza per chi ne è oggetto”. Ma Nordio ce l’ha con gli ex colleghi? “In alcuni passaggi ne parla troppo male per non ingenerare il sospetto di un inconscio freudiano e di una latente rivalsa”. Le intercettazioni, Nordio minaccia di dimettersi se non riesce a ridurle e a non farle più uscire. Ma queste registrazioni non sono forse atti del processo che, al pari degli altri, devono diventare pubblici? “Le registrazioni che stanno all’interno del processo e che sono “assolutamente indispensabili” per proseguire le indagini, sono già regolate da una legge precisa e valida, che proposi io venti anni fa e che ha attuato dopo molte discussioni il Guardasigilli Orlando nel 2017. Il problema è far rispettare questa legge e usare le intercettazioni quando ne ricorrono i presupposti. Ma non è logico contestare un reato con pene alte al solo fine di poter intercettare”. Come altri prima di lui, vedi Berlusconi e Renzi, Nordio agogna una riforma costituzionale. Che evidentemente colpisce l’immaginazione. Non le pare invece che la giustizia sia una macchina che ha bisogno, lasciando tutto com’è, solo di un buon manovratore? “Qualche modifica costituzionale può essere necessaria. La prima, per me, è riconoscere al capo dello Stato la nomina del suo vice presidente al Csm che oggi invece, come raccontano le cronache, appare oggetto di una trattativa tra correnti dei togati e laici indicati dalla politica. Le “porti girevoli” vanno chiuse non solo per chi entra ed esce dalla magistratura per fare politica, ma anche da chi esce dalla politica per andare al Csm. La Costituzione richiede, per i laici, non requisiti di rappresentanza politica, ma di preparazione tecnica”. Nel merito, un ministro dura in carica, se tutto va bene, 5 anni. Ha senso imbarcarsi in una riforma costituzionale? I precedenti di Berlusconi e Renzi sono stati fallimentari... “Se si vogliono separare le carriere, obiettivo mitico e storico del contrasto tra giudici e avvocati, e se si vuole eliminare l’obbligatorietà dell’azione penale che da principio di eguaglianza finisce per diventare foglia di fico di una discrezionalità abnorme, occorre una modifica costituzionale. Ma è proprio così necessaria e urgente? A me sembra che la concretezza dei problemi della giustizia richieda interventi immediatamente operativi e non anni di attese”. Ma che garanzie darebbe a tutti noi la discrezionalità dell’azione penale? Non è vero invece che tutti i reati, grandi e piccoli, ovviamente con pene diverse, vanno perseguiti? “Sì, ma solo se ciò è possibile. L’esperienza insegna che i reati sono tanti e per giunta si continuano a prevederne altri”. Sta pensando al decreto Rave? “Come ha fatto a indovinare?”. Nella sua esperienza di avvocato ha visto davvero questo connubio scandaloso tra pm e giudici? “Ho visto qualche episodio che mi ha lasciato perplesso ma non credo si possa generalizzare. Il problema non è tanto quello di separare le carriere, quanto di chiedere ai pm il rispetto rigoroso delle regole”. “Garantisti nel processo, giustizialisti nella pena” dice Meloni. “È un binomio contrario alla Costituzione, per me inaccettabile, che mi auguro il ministro della Giustizia rettifichi totalmente nel ‘suo vasto programma’“. L’apertura di Violante: “Bene il Guardasigilli. Problemi reali. Evitiamo le divisioni” di Alessandro Farruggia quotidiano.net, 9 dicembre 2022 “I magistrati discutano con freddezza e avanzino proposte. Non si può negare un certo arbitrio nell’esercizio dell’azione penale. Sì alla riforma delle intercettazioni. Le norme ci sono, applichiamole”. “L’analisi dei problemi fatta dal ministro Nordio è corretta ed è stata presentata con chiarezza; alcune delle proposte riprendono temi che sono già operativi con la riforma Cartabia e con la riforma Orlando. Bisogna applicare le norme che già esistono; sulle altre ipotesi bisogna discutere in un’ottica costruttiva, senza steccati pregiudiziali”. Così Luciano Violante, ex parlamentare Pci, Pds, Ds e Pd, ex presidente della Camera e dell’Antimafia, ed ex magistrato. Il Guardasigilli, ha detto che la sua sarà una riforma garantista e liberale, concorda? “Gli aggettivi di solito sono trappole. Il ministro ha indicato problemi che è difficile disconoscere: un certo arbitrio nell’esercizio dell’azione penale, la figura predominante dei pubblici ministeri, la questione dell’abuso d’ufficio, le intercettazioni. Sappiamo tutti che sono problemi veri. Per alcuni, le soluzioni ci sono già; le norme relative vanno applicate. Ad esempio, la riforma Cartabia prevede che dal primo gennaio 2023 sia il Parlamento a indicare le priorità nell’esercizio dell’azione penale. In questa direzione è opportuno andare. Per il resto, l’unica riforma proposta dal Guardasigilli che io ritengo sia inutile se non dannosa è quella della separazione delle carriere dei magistrati”. Come mai la definisce “inutile se non dannosa”? “Già oggi è possibile un solo passaggio da pm a giudice. Le due professioni sono molto diversificate, la ricerca della prova è tipica del pm, la valutazione della prova è tipica del giudice. In tutti gli altri Paesi europei il passaggio da una funzione all’altra è considerato un fatto positivo, non negativo: è visto come un arricchimento della professionalità. E questo è comprensibile perché se io ho fatto il pubblico ministero e ora faccio il giudice capisco meglio il processo di raccolta della prova e se io faccio il pm dopo aver fatto il giudice capisco meglio come verrà valutata la prova che sto raccogliendo e quindi decido se presentarla o meno. Su questo credo che sarebbe opportuna una riflessione. Inoltre un corpo di pm separato dai giudici o è una super-polizia indipendente e quindi pericolosa o è controllata dal governo, ma non credo sia questo l’obbiettivo del ministro”. Concorda sulla stretta per le intercettazioni? “Una riforma era opportuna. Molte norme penali elastiche e incerte funzionano come deleghe a conoscere, tramite le intercettazioni, la vita di una persona e le sue relazioni, specie se si tratta di persone note. Questo non può essere accettabile in democrazia. E quindi una riforma che ridefinisca l’uso delle intercettazioni nei casi in cui è realmente importante, credo sia una cosa giusta. Naturalmente non si toccano criminalità organizzate e terrorismo”. Che ne pensa dello spostamento dal Csm a una Alta colte del meccanismo disciplinare nei magistrati? “Una Alta Corte a mio avviso sarebbe opportuna per il ricorso, e non per il primo grado e per tutte le magistrature, non solo per quella ordinaria. Tenga presente che la sezione disciplinare del Csm è oggi abbastanza severa: non è una giustizia della corporazione”. È favorevole a demandare alla Corte d’Appello o non più al Gip la decisione di misure restrittive della libertà personale? “Ho qualche dubbio. Pensi a una regione che ha molti tribunali, come la Sicilia o il Piemonte. Ogni giorno ci saranno da valutare due o tre richieste che dovrebbero partire, poniamo da Cuneo o Asti per Torino. La corte d’appello di Torino dovrebbe leggersi tutti gli atti e decidere in poco tempo. Ora io non so se questo è praticamente possibile. Capisco l’esigenza di valutare bene le misure restrittive ma mi pare che spostare l’onere sulle Corti d’Appello porterebbe un aggravio rilevante con scarsi risultati pratici”. La magistratura associata è sul piede di guerra per le riforme Nordio. Vede le misure proposte da Nordio come punitive... “Non apprezzo l’atteggiamento di una parte della magistratura: cade nella trappola dello scontro frontale; invece per contare bisogna discutere con freddezza e competenza. La magistratura dovrebbe avanzare proprie proposte per rimediare ai difetti. Ho letto che Nello Rossi, magistrato molto serio, oggi in pensione, dice la stessa cosa: la magistratura non deve cadere nella trappola del conflitto perché così non è più credibile”. Riuscirà la maggioranza a stringersi sulla linea Nordio? Meloni ha detto che è garantista nel processo e giustizialista nell’esecuzione. Il che non pare esattamente la linea Nordio... “Penso che Giorgia Meloni volesse dire che la condanna va scontata. Ora, io il carcere lo conosco prima da volontario e poi da magistrato. La detenzione non è mai positiva, anche se è un male necessario. Penso che ci sia da riflettere sul sistema delle pene e la riforma Cartabia anche qui propone soluzioni positive. Credo che la maggioranza terrà e spero discuta senza chiusure pregiudiziali sull’intero pacchetto di riforme proposte da Nordio; spero che lo faccia anche l’opposizione senza frapporre steccati. La lotta politica è sacrosanta, ma quando c’è da costruire, se vogliamo un sistema giudiziario coerente con i valori di uno Stato democratico, allora è bene confrontarsi punto per punto. Le competenze ci sono tanto nella maggioranza quanto nell’opposizione. Una volta che si disinnescano i pregiudizi reciproci il risultato non può che essere migliore. Poi prevarrà una maggioranza, che a volte sul merito può essere mista, ma la discussione è essenziale”. Albamonte (Area): “Riforme di Nordio illiberali, mettono il potere giudiziario nelle mani della politica” di Giulia Merlo Il Domani, 9 dicembre 2022 Le linee guida del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che comprendono la separazione delle carriere, la discrezionalità dell’azione penale e la riduzione delle intercettazioni, sono state accolte con preoccupazione dalla magistratura associata, proprio nei giorni del rinvio dell’elezione dei laici del Csm da parte del parlamento. Con questi presupposti, il segretario del gruppo progressista di Area ed ex presidente dell’Anm, Eugenio Albamonte è chiaro: “Se il ministro procede in questa direzione lo scontro dialettico sarà forte”. Si torna alla guerra tra politica e giustizia? Non portiamo indietro le lancette dell’orologio. Tuttavia, se il ministro intende aprire un cantiere di riforme fatto di separazione delle carriere, discrezionalità dell’azione penale e riduzione delle intercettazioni, ci sarà di certo un confronto. Quanto ai toni, i magistrati sono abituati a confutare gli argomenti della politica e a reagire alle pressioni, sarà la politica a dettare il livello del dibattito. Cosa preoccupa di più? La separazione delle carriere è un tema che nel nostro sistema ha natali nella P2 di Licio Gelli, che lo considerava il modo per ridimensionare il ruolo del pm e sottoporlo al controllo dell’esecutivo. Se in più si propone anche la discrezionalità dell’azione penale, è evidente che lo sbocco è quello di far esercitare tutto questo potere alla politica. Questo connubio è un’operazione illiberale, perché l’obbligatorietà dell’azione penale è la traduzione nel mondo giudiziario del principio dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge previsto dalla Costituzione. Quale è il rischio? Che il potere inquirente, nelle mani di un soggetto non terzo e indipendente, venga usato in modo strumentale, per difendere gli amici e attaccare i nemici. Nordio ha stigmatizzato anche l’uso delle intercettazioni e la loro pubblicazione illegittima... Sulla pubblicazione illegittima ha già fatto una legge tre anni fa il ministro Andrea Orlando, prevedendo l’archivio riservato per le intercettazioni non utilizzabili. Quanto alla riduzione, mi chiedo dove Nordio voglia andare a parare. Non vorrei che le volesse toglierle solo per corruzione e concussione, reati che interessano la classe politica. Il ministro ha ventilato l’ipotesi di allargare invece l’utilizzo delle intercettazioni preventive, sotto l’assoluto controllo della polizia giudiziaria e quindi con un preciso referente in caso di divulgazione... E’ una enorme contraddizione rispetto all’identità liberale a cui Nordio dice di far riferimento. Il ragionamento andrebbe capovolto: le intercettazioni più garantite sono quelle sotto controllo del giudice, perchè hanno garanzie di verificabilità ex post e la legge Orlando serve proprio a prevenirne una divulgazione illecita. Le intercettazioni preventive, invece, non si sa che vengono fatte e non si saprà mai che sono state fatte, non è previsto un momento di discovery in cui l’interessato può conoscerne i contenuti o chiederne la distruzione. Si tratta di intercettazioni che rimangono in mano alla polizia giudiziaria e sono ben più pericolose per la garanzia dei diritti dei cittadini. La stupisce che lo proponga un ex magistrato? Sono anni che Nordio dice queste cose, il dirle lo ha portato a diventare ministro della Giustizia e mi sembra che il suo modo di proporre i temi sia tutto politico e si sia persa qualsiasi connotazione giudiziaria. Il ministro, però, ha accolto prontamente la richiesta dei procuratori generali di rinviare l’entrata in vigore della riforma Cartabia... Anche la sua relazione davanti alle commissioni Giustizia aveva dei punti che valuto con favore: l’efficientamento del settore giustizia, i riferimenti all’edilizia carceraria e spero anche a quella giudiziaria per esempio. Nel caso della sospensione di qualche mese dell’entrata in vigore, ho apprezzato soprattutto la prontezza con cui Nordio, che si era appena insediato, ha risposto: la breve sospensione per introdurre norme transitorie a cui non si era pensato è stata una scelta positiva. La nomina dei laici è slittata e tra gli autocandidati ci sono molti ex parlamentari. É un problema? Quando un organo di rilievo costituzionale va in prorgatio non è mai un segno di efficienza delle istituzioni. Quanto ai politici, non voglio fare alchimie. Tuttavia, se i candidati fossero ex parlamentari della precedente legislatura, l’idea che potrebbe venire a un osservatore prevenuto è che il Csm venga considerato un predellino per i non eletti. La politica dovrebbe selezionare i migliori, con titoli sia formali che sostanziali di esperto operatore del diritto o protagonista della cultura giuridica. Nordio ha parlato di un Csm ancora “correntizzato”. È così? Dire che il Csm è preda delle correnti è come dire che il parlamento è preda dei partiti. I magistrati hanno composto il nuovo Csm votando liberamente, in base alle proprie idealità. Il Csm uscente ha fatto molto in termini di recupero della credibilità della magistratura, anche sotto il profilo disciplinare. Ma forse gettare discredito fa comodo quando l’obiettivo è fare riforme come la separazione delle carriere e la discrezionalità dell’azione penale, in danno ai cittadini. C’è stato un percorso di autoriforma della categoria, quindi? Il Csm uscente ha promosso procedimenti disciplinari a carico dei vari soggetti coinvolti nello scandalo dell’Hotel Champagne, anche quelli coinvolti solo indirettamente attraverso la richiesta di favori attraverso le chat. Inoltre, sono state fatte modifiche alle regole di funzionamento del Consiglio per ridurre il peso delle correnti, per quanto è stato possibile farlo con le prerogative di autonormazione dell’organo. Certo la riforma dell’ordinamento giudiziario approvata dalla ministra Cartabia conteneva anche elementi ulteriori, alcuni dei quali molto positivi, altri meno. Il ministro Nordio, però, sta tenendo bloccati i decreti attuativi e dunque non può dire che sono i magistrati a non aver completato il loro percorso di riaggiustamento. Gogna o strumento d’indagine? È lite sulle intercettazioni di Valentina Stella Il Dubbio, 9 dicembre 2022 Il no dei magistrati al piano del guardasigilli: “Sono indispensabili”. Esultano i penalisti: “Finalmente se ne discute”. Il tema delle intercettazioni continua ad essere terreno di scontro tra una parte della politica e la magistratura. Abbiamo raccolto il parere di Rossella Marro, presidente di Unicost: “In materia di intercettazioni va sgomberato il campo da un primo equivoco, ossia che in Italia in modo ingiustificato se ne facciano molte di più che in altri Paesi. L’Italia infatti ha purtroppo il primato delle organizzazioni criminali di stampo mafioso (ndrangheta, sacra corona unita, camorra, mafia) ed il contrasto alle organizzazioni criminali, così come a qualunque altra forma di reato associativo, è possibile soprattutto grazie alle intercettazioni. Anche il fenomeno della concussione o corruzione assume contorni allarmanti ed anche in questi casi lo strumento delle intercettazioni è indispensabile”. Premesso ciò, Marro prosegue: “Condividiamo pienamente la preoccupazione del ministro per le indebite diffusioni di intercettazioni riguardanti anche aspetti di nessun interesse pubblico che tuttavia stravolgono la vita di persone che fino a prova giudiziaria contraria sono innocenti. La gogna mediatica è un fenomeno da contrastare e, sotto questo profilo, è meritorio mantenere sempre alta l’attenzione”. Ma si tratta “di un aspetto diverso che nulla ha a che vedere con la indispensabilità dello strumento investigativo. Sul tema della diffusione peraltro di recente è intervenuta una disciplina molto restrittiva in attuazione di una direttiva della Comunità europea, che ha proprio la finalità di assicurare la riservatezza e la tutela della dignità delle persone coinvolte a vario titolo nelle intercettazioni. Occorre verificare sul campo l’efficacia della nuova normativa”. È in ogni caso “ingeneroso” attribuire ai magistrati “la responsabilità della diffusione perché spesso proprio i magistrati “subiscono” le fughe di notizie da altri provocate. Le intercettazioni infatti sono necessariamente nella disponibilità di diverse persone che potrebbero avere interesse ad un eventuale uso strumentale delle stesse”. Altre riflessioni ci arrivano da Eugenio Albamonte, segretario di AreaDg, a partire dal sostegno di Nordio alle intercettazioni preventive: “Mi pare chiaramente contraddittorio con la sua reclamata appartenenza culturale di tipo liberale perché, in realtà, esse sono sostanzialmente fuori dal circuito giudiziario. Vengono sì autorizzate dal procuratore generale ma, innanzitutto, non c’è una autorizzazione di un giudice come quelle ordinarie. Poi, soprattutto, la grande differenza tra quelle ordinarie e quelle preventive è che queste ultime rimangono per sempre segrete. Neanche l’interessato, ex post, verrà mai a sapere di essere stato intercettato. E non verrà neanche a sapere che quelle intercettazioni contengono elementi della sua vita privata. Invece oggi, grazie alla legge Orlando, si può ottenere, a posteriori, la distruzione delle intercettazioni non rilevanti per le indagini. Mi sembra singolare che il ministro non colga la differenza tra questi due meccanismi, proprio sul piano delle garanzie”. Nordio ha riportato degli esempi di persone, anche magistrati, la cui vita è stata rovinata dalle intercettazioni. “Ma questi episodi fanno parte del secolo scorso”, ricorda Albamonte che continua: “Nel frattempo è cambiata la legge. La disciplina Orlando prevede che quelle non rilevanti vengano già controllate e custodite sotto la responsabilità anche disciplinare del procuratore della Repubblica. Quindi non capisco a cosa faccia riferimento Nordio”. Per il pubblico ministero, “questo tema, come diversi altri, è trattato dal ministro in modo pretestuoso per solleticare le aspettative di una certa parte della maggioranza politica - mi riferisco a Forza Italia che ne ha sempre fatto un cavallo di battaglia - e di un segmento di opinione pubblica, che teme le intercettazioni”. Anche perché, conclude Albamonte, “ho sentito esponenti del Governo sostenere in televisione che le intercettazioni non verranno toccate per i reati di mafia e terrorismo, pedopornografia, prostituzione e tratta di esseri umani. Stringi, stringi a me pare che non si abbia il coraggio di dire chiaramente quale sia l’obiettivo perseguito: eliminare le intercettazioni per i reati di concussione e corruzione”. È “importante” invece per Eriberto Rosso, segretario dell’Unione Camere penali, “che si torni a discutere della disciplina delle intercettazioni ed è un bene che il ministro Nordio abbia riconosciuto come il bilanciamento tra poteri di investigazione e diritti fondamentali della persona nel nostro sistema processuale sia pessimo”. Rosso ricorda che “nella scorsa Legislatura si è mandata al macero la riforma Orlando, che pure qualche freno alle intercettazioni e alla loro divulgazione aveva previsto, e si è adottata una disciplina ben poco garantista che prevede il sostanziale via libera all’uso del trojan”. Infine “è utile ricordare a coloro che ancora oggi - sempre con il solito refrain della lotta alla criminalità organizzata - paventano l’impunità per i criminali che, con la legge n. 7 del 2020 e con la foglia di fico di due aggettivi, si sono in un sol colpo superati gli stessi limiti che la Corte di Cassazione aveva individuato prima con le Sezioni Unite Scurato e poi con la sentenza Cavallo. La fotografia dell’oggi sono i fenomeni della cosiddetta “pesca a strascico” per la ricerca del reato e non della prova”. Mettere mano alle intercettazioni “servirà finalmente a ribadire che le comunicazioni tra difensore e indagato non debbono essere non solo utilizzate ma neppure ascoltate”. Da Togliatti a Saragat. Il garantismo appartiene al Dna della sinistra di Aldo Varano Il Dubbio, 9 dicembre 2022 Nordio sta tentando di spostare a destra una tradizione che, prima alla discesa in campo di Berlusconi, le era estranea. È un errore grave, sarebbe un errore grave, leggere le proposte sulla giustizia del ministro Nordio come lo schema di una strategia politica pronta a rilanciare e diffondere un messaggio di vicinanza alle culture della destra sovran-populista. Tradizioni e conoscenza della storia del nostro paese, casomai, fanno del “Pacchetto Nordio” un messaggio di senso opposto che non ha nulla a che vedere con quelle culture che, perfino nella loro componente liberal-liberista (mi riferisco alla concretezza della storia italiana), non hanno mai avuto cedimenti garantisti. Per quanto possa suonare curioso e paradossale, delle proposte di Nordio si può dire che sembrano voler recuperare, anche per i cittadini che non sono potenti, una giustizia mite che aiuta e sostiene le ragioni di tutti senza discriminare i più deboli. Con una piccola forzatura si potrebbe sostenere che Nordio sulla giustizia sta tentando di spingere e spostare a destra una tradizione che è stata di parte del centro e della sinistra che ha conosciuto il nostro paese. Nella storia dell’Italia repubblicana il garantismo, per un periodo lungo che va dalla sua nascita agli anni novanta del Novecento, fu infatti la marca esibita soprattutto dalle culture delle aree del centro e delle sinistre. La prima grande amnistia nell’Italia repubblicana, del resto, fu concepita e varata dall’onorevole Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia, ma prima di tutto, capo del Partito comunista. Non fu un gesto isolato. Con lui concordavano da Alcide De Gasperi (costretto negli anni precedenti a rifugiarsi in Vaticano per sottrarsi alle leggi fasciste che per quelli come De Gasperi prevedevano la galera) a Pietro Nenni, da Giuseppe Saragat a Vittorio Foa (che era finito in carcere perché studente torinese di sinistra e, pericolosa aggravante, ebreo). Per non dire del gruppo dei cattolici fiorentini, ma non solo, legati a Giorgio La Pira. Il garantismo ha accompagnato sempre le sinistre anche quelle radicali (con l’eccezione della rottura drammatica e feroce del terrorismo, che fu fenomeno anche di destra). Giorgio Amendola e Riccardo Lombardi, Emanuele Macaluso e l’ex “galeotto” Giancarlo Pajetta, fino all’ultima generazione in blocco dei socialisti, da Craxi a Mancini a Martelli, ai socialdemocratici e ai repubblicani di La Malfa, furono fieramente garantisti. Nessuno di loro ebbe cedimenti su questo fronte. E questa fu la cultura del cuore della Democrazia cristiana e della quasi totalità delle sue componenti. La svolta giustizialista nel nostro paese arrivò dopo. È la Lega a far pendolare il cappio in Parlamento senza che Forza Italia si opponga a quella barbarie a cui, anzi, ammicca. Del resto sarà proprio Forza Italia a unire in un unico schieramento sé stessa con la Lega che fa pendolare un cappio, e la destra fascista, fondata da Almirante e poi ereditata e rivisitata da Fini, dove crescerà e si formerà Giorgia Meloni, che ne dà conto diffusamente nel suo libro Io sono Giorgia. Debole è, e resterà, la reazione dei comunisti ex, alla svolta leghista. Tra loro giocherà molto la sensazione, che diventerà via via convincimento e poi certezza, che ci sia qualcosa di illegale e di marcio, un vero e proprio trucco nel successo di Berlusconi. Giocherà un peso determinante l’incomprensione del potere di convincimento di una televisione che opera senza alcun vincolo e concorrenti. Nel frattempo Craxi è stato costretto a fuggire in Africa per sottrarsi all’umiliazione, che di certo non merita, del carcere. I suoi amici e nemici non muoveranno un dito per difenderlo. Anche se è stato Craxi, incontrando nel suo camper D’Alema e Veltroni (siamo nel 1990) ad aprire la strada dell’Internazionale socialista agli eredi del Pci garantendo per il loro ingresso. Il nuovo eroe della politica italiana da lì a poco, per una parte ampia della sinistra, diventerà il magistrato Di Pietro che abbandona la toga per infilarsi in Parlamento con un partito tutto suo (fin dal nome). Ed è proprio per il convincimento del marcio nel successo berlusconiano (mai dimostrato) che una parte della sinistra italiana si convincerà ad appoggiare la ventata giustizialista, che in realtà saccheggerà a piene mani la tradizione antica e permanente dell’estrema destra italiana. Arriva l’apertura del Terzo polo: “Nordio condivisibile su intercettazioni” di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 9 dicembre 2022 Dopo Calenda e Renzi, anche il presidente di Iv Rosato e +Europa offrono una sponda al giro di vite annunciato dal Guardasigilli: “Speriamo porti a fatti concreti” Pd e M5s restano contrari. Le prime aperture del Terzo Polo, rispetto all’annuncio del Guardasigilli Carlo Nordio di voler attuare una “profonda revisione” dello strumento delle intercettazioni, erano arrivate già dopo l’illustrazione in Parlamento delle linee programmatiche del suo ministero. E ieri, alle valutazioni del leader di Azione Carlo Calenda (“Parole completamente condivisibili”) e di quello di Italia Viva Matteo Renzi (“Si passi dalle parole ai fatti”), ha fatto seguito l’endorsement esplicito del presidente di Iv, Ettore Rosato, quasi negli stessi termini lessicali: “Condivisibile, speriamo porti a fatti concreti”, ha detto dell’ipotesi riformista di Nordio, e nel caso anche “dall’opposizione noi la sosterremo con convinzione”. In pratica, se il ministro e l’esecutivo Meloni decidessero di procedere sulla rotta annunciata alle Camere (che non comporta solo un giro di vite sulla diffusione delle intercettazioni, ma anche una assoluta divisione delle carriere di giudice e pubblico ministero, modifiche alla fattispecie penale di abuso d’ufficio e altro ancora), una fetta delle opposizioni potrebbe essere pronta a sostenere l’impianto della riforma in Parlamento. Oltre ai terzopolisti, seppur con diverse sfumature, anche altri non alzano barricate: “Nelle parole di Nordio su intercettazioni, separazione delle carriere e ruolo dei Pm mi ci ritrovo - considera il segretario di +Europa, Benedetto Della Vedova - perché, da garantista, ritrovo una prospettiva di riforma liberale della giustizia”. Detto questo, prosegue Della Vedova, se “la forma e anche la sostanza fosse garantista, voterei a favore”, ma “mi allarma la firma di Nordio su una legge manettara, securitaria, sbagliata e ideologica che è la legge anti rave”. Contrari si dicono invece sia il Pd che il Movimento 5 Stelle. “Le intercettazioni sono uno strumento fondamentale per indagare sulla mafia, camorra, ‘ndrangheta - incalza il deputato 5s Federico Cafiero De Raho, già procuratore nazionale antimafia -. Non esiste indagine complessa sulla criminalità organizzata o sulla corruzione che non le abbia utilizzate”. Fuori dal Parlamento, si è già espressa in termini critici l’Associazione nazionale magistrati. E ieri i consiglieri della corrente togata di Area, con un’istanza, hanno chiesto al Csm di convocare un plenum col ministro per un “confronto istituzionale” sui possibili effetti delle riforme annunciate che - secondo la loro valutazione - potrebbero avere “un rilevante impatto sul funzionamento del sistema giudiziario, e in particolare sulla indipendenza dei magistrati del pubblico ministero e sulla efficacia delle attività di indagine”. A favore di una revisione, si dice invece una parte dell’avvocatura: “Assistiamo ogni giorno a un eccesso nell’uso di questo strumento investigativo - sostiene il presidente della Camera Penale di Roma, Gaetano Scalise - e contestualmente verifichiamo negli atti processuali che a fronte di innumerevoli intercettazioni inutili ed intrusive ve ne sono solo alcune di interesse processuale. Il sistema attuale è oramai al collasso”. Siamo ancora agli annunci, insomma, ma il dibattito politico è già rovente. Le parole di Nordio, sintetizza il viceministro di Fi alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, hanno “toccato un nervo scoperto. Nessuno mette in discussione l’utilità di questo strumento nei casi previsti dalla legge, ciò che non è accettabile è l’abuso, ossia l’abitudine a farne qualcosa che va al di là della funzione processuale ad esso attribuita dal codice”. © Intercettazioni: riforme ad alta tensione per evitare gli usi impropri di Sergio Lorusso Gazzetta del Mezzogiorno, 9 dicembre 2022 È possibile affrontare con un approccio scevro da condizionamenti politici e da logiche di schieramento i temi richiamati dal ministro Nordio? Può sembrare paradossale che un ex magistrato, per anni a capo di un’importante Procura, snoccioli nelle sue linee programmatiche - presentate in Parlamento in qualità di ministro della Giustizia - una serie di modifiche radicali all’attuale assetto (anche ordinamentale) del processo penale che investono proprio l’organo dell’accusa: dalle intercettazioni all’obbligatorietà dell’azione penale, per finire alla separazione delle carriere giudicanti e requirenti. Tuttavia, chi conosce la storia di Carlo Nordio sa che non è così, essendo da sempre la toga trevigiana un pubblico ministero “atipico”, un magistrato spesso “contro” i suoi stessi colleghi. Più in particolare, schierato contro le distorsioni legate all’uso non sempre corretto di taluni strumenti investigativi e alla deleteria influenza della politica su alcuni settori della magistratura e sulle relative rappresentanze istituzionali, a partire dal CSM (investito, come sappiamo, da scandali che ne hanno profondamente delegittimato l’immagine). Prevedibile e inevitabile - allora - la reazione dell’ANM, che per bocca del suo presidente Giuseppe Santalucia ha bollato come “vago e ingeneroso” il guardasigilli per quanto detto a proposito dell’uso concreto delle intercettazioni, paventando un colpo alla democrazia derivante dallo “stravolgimento” della Costituzione che l’attuazione delle altre riforme annunciate imporrebbe. È possibile affrontare con un approccio scevro da condizionamenti politici e da logiche di schieramento i temi richiamati dal ministro? L’arte di ascoltare è considerata il secondo mestiere più antico del mondo, ma con meno principi morali del primo (P. Szendy, Intercettare, 2008): esiste un vero e proprio piacere nell’attività dello spiare, nell’entrare nelle vite degli altri per carpirne i segreti (M. Filoni, Fenomenologia dello spione, 2008). Un’autentica pulsione primaria dell’uomo, come tale ineliminabile. Tutto ciò, trasfuso in ambito giudiziario, comporta innegabili vantaggi - specie in indagini relative a fenomeni criminali complessi - ma anche possibili derive. È di queste ultime che si occupa Nordio, proponendo di intervenire di fronte ad un “uso eccessivo e strumentale” delle captazioni ed alla “diffusione talvolta selezionata e pilotata” dei contenuti, con effetti non di rado devastanti per la sfera personale e lavorativa degli interessati (non sempre peraltro coinvolti in un procedimento penale). Insomma, non si tratta di delegittimare le intercettazioni - il cui uso, evidentemente, nessuno potrebbe mettere in discussione, tanto più oggi che l’evoluzione tecnologica ne ha accresciuto in maniera esponenziale le potenzialità e, dunque, l’efficacia investigativa - ma di contrastarne l’uso distorto, che le trasforma talvolta, come ha affermato il guardasigilli, in uno “strumento micidiale di delegittimazione personale e spesso politica”, oscurando l’inviolabilità della libertà e della segretezza di ogni forma di comunicazione sancita dall’art. 15 della Costituzione. Che la questione sia scottante lo dimostrano i reiterati interventi del legislatore sulla disciplina processuale delle intercettazioni nel corso degli anni, con l’intento - assai arduo - di conciliare esigenze investigative, riservatezza e diritto di cronaca. Esigenze agli antipodi, certo, ma la cui frizione diventa evidente quando non vengono rispettate le regole del gioco. Quando, cioè, il contenuto delle conversazioni e delle comunicazioni captate viene inopinatamente diffuso pur essendo coperto da segreto o, addirittura, estraneo alla vicenda giudiziaria per la quale l’intercettazione è stata disposta, alimentando un gossip giudiziario che soddisfa quella pulsione primaria di cui prima si diceva rispetto alle vicende private di personaggi pubblici, danneggiando spesso irrimediabilmente quest’ultimi anche quando magari, a distanza di anni, escono indenni dal processo. È questo il senso - al di là di ogni strumentalizzazione - delle dichiarazioni di Nordio quando promette di vigilare “in modo rigoroso su ogni diffusione che sia arbitraria e impropria” o ispezioni immediate e rigorose ogniqualvolta vi sarà una violazione del segreto investigativo con la diffusione dei contenuti delle intercettazioni. Restituire, insomma, lo strumento delle intercettazioni alla sua funzione naturale, tutelando i potenziali destinatari - specie ora che il progresso tecnologico consente di monitorare l’esistenza di ciascuno nelle sue varie espressioni - da invasioni indebite e nocive della sfera individuale. Intercettazioni usate come gossip e materiale scandalistico: la lapidazione vissuta sulla mia pelle di Luca Casarini Il Riformista, 9 dicembre 2022 Non so se alla fine Nordio potrà fare quello che dice. Non so quanto sia ostaggio o vera anomalia di questo governo. Da eretico fruitore di “Law and Order”, ho ben presente quale possa essere l’utilità, in termini di immagine e consenso, dei contrasti sbandierati che poi servono solo a “rafforzare” il sistema. La vecchia storia del poliziotto buono e di quello cattivo, insomma. Vedremo. Certo è che quando il neo ministro dichiara al Senato che le “intercettazioni sono utilizzate per delegittimare politicamente l’avversario”, dice una sacrosanta verità. Lui è al governo con quelli che proprio su questo hanno costruito la loro fortuna politica, con tanto di carriere folgoranti come quella del suo collega Salvini, passato direttamente dalla Ruota della Fortuna a un reddito di cittadinanza a molti zeri da più di vent’anni e a un futuro vitalizio per una serena vecchiaia. Da allora, da quando il suo partito, la Lega, faceva oscillare il cappio in Parlamento al grido di “Di Pietro coraggio c’è ancora il terzo raggio”, l’uso “politico” di spie, microspie, intercettazioni, telecamere nascoste e quant’altro, uso politico e non solo giudiziario, con processi celebrati sui media prima e a volte unicamente, non nei tribunali, ha avuto un crescendo esponenziale. Questo paese certo, ha conosciuto ben prima di Tangentopoli sia l’abuso del controllo, sia l’utilizzo della carcerazione preventiva come mezzo per far parlare l’indagato. Gli anni 70 e tutta la legislazione di emergenza non sono stati uno scherzo per lo “stato di diritto”. Ma oggi vi è un di più. La “Information Society”, la società dei media, “dello spettacolo” come la descriveva Guy Debord, ma moltiplicato mille. Le tendenze autoritarie, manettare, giustizialiste connaturate fisiologicamente ad ogni democrazia in crisi, si fondono con la mutazione antropologica che ha trasformato i “sapiens” in “Homo Social”. Ne esce un quadro che giustamente Nordio, parlando delle gogne mediatiche imbastite su conversazioni private, manipolate da sapienti “copia incolla” e utilizzate per sbattere il mostro in prima pagina, definisce “inquietante ed inaccettabile”. Certo, i travagliati apologeti del Minority Report dall’altra parte, dicono che senza intercettazioni a pioggia, non si sarebbero sconfitte mafie e terrorismi. E che questo abdicare al diritto di restare innocente finché un regolare processo non provi il contrario, è un “incidente collaterale” accettabile. Io penso invece a quella mattina, quando mi sono piombati in casa molti poliziotti di varie “specializzazioni”, con un mandato di perquisizione in mano. Mentre stavano facendo il loro lavoro, uscivano già le agenzie con gli stralci delle intercettazioni, che “sapientemente” il pm aveva trascritto sul provvedimento, in modo da non incorrere nel reato di divulgazione di notizie secretate. Non c’è stato bisogno nemmeno delle classiche “veline”: dalla Procura, non saprei dire da dove altro, qualcuno aveva inviato il tutto a giornalisti “amici”, che stavano scrivendo a nove colonne la sentenza. Io sono stato condannato, e con me i miei coindagati, mentre ancora la polizia stava “cercando”. Le intercettazioni inoltre, non possono certo restituire la complessità di un dialogo, il tono, il contesto, quello che si dice alla fine. Ci vorrebbero giornali di tremila pagine, e poi chi li leggerebbe? Ci vuole un titolo ad effetto, per vendere quella mercanzia. E quindi “frasi”, prese da trascrizioni di mesi (perché tanto durano le intercettazioni, mica due giorni) e se fai la cazzata di dire una parola sbagliata, o di scherzare troppo al telefono, sei morto. Marchiato dallo stigma. Perché quello che dovrebbe essere parte di una attenta e scrupolosa valutazione degli inquirenti nel segreto delle indagini, diventa gossip, materiale scandalistico, lapidazione pubblica. Il processo a quel punto a cosa serve? L’obiettivo è già stato raggiunto. Che era sicuramente altro dal “fare giustizia”. Lo so, il fatto che sia capitato a me, e oggi ne scriva, magari non c’entra con il dibattito che si è scatenato nei palazzi dopo le dichiarazioni del Ministro. E forse lui si riferiva ai danni patiti dai potenti, da Renzi, Berlusconi etc. Ma a me non cambia l’opinione questo. Come non sono mai stato un fan di Di Pietro e dei metodi del pool quando erano dei santi intoccabili, allo stesso modo credo che in un paese civile quello che hanno fatto con molti esponenti politici da me lontanissimi e di cui vado fiero di essere avversario radicale, sia vergognoso. E pericoloso per tutti. Nel frattempo, il solito collega di governo di Nordio, ha in questi giorni montato l’ennesima bufala contro le Ong, addirittura utilizzando “intercettazioni effettuate da un sommergibile”. L’uso politico delle intercettazioni non ha limiti, e chi dovrebbe inabissarsi per quello che ha fatto a donne, uomini e bambini da Ministro, invece emerge. Pressing dei media su Cospito… lo lasceranno al 41bis di Frank Cimini Il Riformista, 9 dicembre 2022 Un gruppo di anarchici greci “Nucleo di vendetta Carlo Giuliani” con un comunicato sul sito Indimedia Athens ha rivendicato l’incendio dell’auto il 2 dicembre scorso di Susanna Schlein, viceambasciatrice italiana e sorella di Elly candidata alla segreteria del Pd. Il gruppo anarchico afferma di aver agito in solidarietà con Alfredo Cospito ormai da 50 giorni in sciopero della fame nel carcere di Sassari Bancali per protestare contro l’articolo 41bis, blocco della corrispondenza e due sole ore d’aria al giorno in un cubicolo dal quale non si vede nulla di esterno alla prigione. Il 41bis per il gruppo dedicato a Carlo Giuliani “è un regime di sterminio politico, sociale sensoriale volto alla completa eliminazione di ogni contatto con il mondo esterno”. Il governo Meloni viene definito fascista e accusato di voler rendere l’Italia una fortezza con le sue leggi razziste anti immigrazione. “Per quanto vogliano seppellirti noi non ti dimenticheremo mai” sono le parole di solidarietà rivolte a Alfredo Cospito. Il problema intorno a Cospito però non è tanto quello che accade in Grecia ma quanto succede in Italia dove dal giorno dell’attentato politici di ogni colore e giornali importanti hanno cercato con grande determinazione davvero degna di miglior causa di addebitare l’azione al detenuto anarchico che si trova in pratica sotto tortura. La “campagna” non ha influenzato la corte d’Assise d’appello di Torino che rigettando la richiesta di ergastolo della procura generale ha mandato gli atti alla Corte costituzionale sulla possibilità o meno di concedere l’attenta te della lieve entità per i pacchi esplosivi ai carabinieri di Fossano che non provocarono morti e nemmeno feriti. Ma non è detto che questa sorta di accanimento politico mediatico non sortisca i suoi effetti sul Tribunale di Sorveglianza di Roma che sta decidendo sul reclamo contro il 41bis presentato dai difensori. Anzi. Sulla scelta della sorveglianza non c’è al momento che da essere pessimisti per la sorte di Alfredo Cospito. Dall’udienza romana sono trascorsi già sette giorni e essendo Cospito in sciopero della fame nel caso i giudici avessero voluto revocare le misure del 41bis con ogni probabilità lo avrebbero già fatto. Cospito in aula a Torino senza citare direttamente il fatto di Atene aveva detto di non essere “il capo di tutte le cose anarchiche che succedono nel mondo”. La speranza del detenuto è che i giudici della capitale ne tengano conto. Quando cedere droga è un “fatto lieve”? I nuovi limiti della Cassazione dopo lo studio di 398 sentenze di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 9 dicembre 2022 La Suprema Corte ha eseguito una verifica statistica tra il 2020 e il 2022 per decidere sul ricorso di un condannato in Appello per 100 grammi di hashish. Ora i giudici hanno dei numeri per orientarsi. Fino a che quantità la cessione di droga può essere considerata “fatto di lieve entità”? È una delle domande che ai giudici capita di doversi fare più spesso, perché nelle sentenze fa una enorme differenza in termini di pena per i condannati: se infatti viene riconosciuto il quinto comma dell’articolo 73 del Testo Unico sugli stupefacenti, che non distingue tra droghe leggere e droghe pesanti, la legge prevede che il giudice possa condannare a una pena compresa tra un minimo di 6 mesi e un massimo di 4 anni, mentre altrimenti la pena parte già da un minimo di ben 6 anni e arriva sino a un massimo di 20.  Droga, le (nuove) soglie massime - E storicamente l’incertezza applicativa (al pari quindi della imprevedibilità) è notevole, perché, nel silenzio della legge sul concetto di “lieve entità”, i giudici nel decidere risentono di forti disomogeneità, determinate non solo dalla propria sensibilità culturale ma anche dal contesto locale nel quale operano (in una grande città o in un piccolo centro non è raro vedere la medesima quantità giudicata in maniera opposta), nonché dalle proprie esperienze professionali. Ed è un tema gigantesco anche dal punto di vista penitenziario, in quanto quasi un terzo dei detenuti sono in carcere per violazione della legge sugli stupefacenti, e un quarto sono tossicodipendenti. Ecco allora che adesso una sezione della Cassazione, la VI, trovandosi a dover valutare il ricorso di un condannato (per 100 grammi lordi di hashish al 34% di purezza) al quale la Corte d’Appello non aveva riconosciuto la lieve entità, ha pensato “necessario tentare di compiere una verifica statistica della rilevanza che la giurisprudenza ha dato al quantitativo”: e a questo scopo (sulla vaga scia di quello che accadde nel 2012 con un monitoraggio del Massimario in vista di una sentenza delle Sezioni Unite), ha fatto studiare il tema sull’ultimo triennio al proprio “Ufficio per il Processo”, introdotto dalla legge Cartabia nei vari uffici giudicanti per farli assistere nei compiti di studio da uno staff di giovani giuristi. Arianna Lancia e Flavia Pacella hanno così trovato e spulciato ben 398 sentenze di Cassazione sull’argomento tra il 2020 e il 2022, e il primo dato che balza all’occhio è la davvero curiosa variabilità, posto che ci sono sentenze che hanno fatto rientrare nel concetto di “lieve entità” appena 0,97 grammi di hashish oppure anche 386 grammi dello stesso stupefacente, e persino un etto e mezzo di cocaina o un etto di eroina. Lo studio ha allora statisticamente raggruppato il numero di sentenze più significativo attorno a una soglia mediana di riconoscimento della “lieve entità”, e si è visto che questo parametro di massima (considerato in rapporto ovviamente alla media del principio attivo riscontrato dai verdetti) si attesta nella giurisprudenza maggioritaria della Suprema Corte intorno ai 25 grammi lordi di cocaina per una purezza media del 68% che fan 17 grammi di principio attivo; ai 30 grammi lordi di eroina che a una purezza media del 17% fa 5,1 grammi di principio attivo; ai 110 grammi lordi di marijuana che al 12% di purezza fa 12,1 grammi di principio attivo; e ai 102 grammi lordi di hashish che alla purezza media del 25% fa 25,5 grammi di principio attivo.  Ed è questa ricorrenza statistica che la VI sezione della Cassazione, presieduta da Giorgio Fidelbo, propone come possibile parametro: soglia del tutto indicativa non solo perché non può avere alcun effetto vincolante, ma anche perché la quantità è un elemento sempre importante ma a volte non l’unico in gioco, dovendosi considerare altre circostanze quali il grado di purezza della sostanza, il ritrovamento di bilancini o contabilità, l’incongruità del reddito a fronte di contanti sequestrati, la suddivisione in dosi.  E così nel processo in questione, “applicando il principio al caso”, il collegio presieduto da Pierluigi Di Stefano, con relatore Paolo Di Geronimo, valuta che “il quantitativo in sequestro, 100 grammi di hashish, rientri appieno in quel valore di soglia che, per giurisprudenza prevalente di questa Corte, è stato ricondotto all’ambito del fatto lieve”. Sentenza annullata. E rinvio a un nuovo Appello che ridetermini la pena. Macché rieducazione. Liberate subito quei vecchietti! di Fabio Falbo* Il Riformista, 9 dicembre 2022 Il rispetto della Costituzione italiana è di tenere in gattabuia dei “nonnetti”? Sono detenuto a Rebibbia da molti anni. Da un anno sono nel reparto G8 dove condivido il mio tempo e il mio spazio con persone molto anziane. Di nonni dietro le sbarre voglio segnalare solo tre casi, ma ce ne sono molti altri a Rebibbia e in altri luoghi di pena. Il primo è quello di Antonio Russo. È nato a Napoli il 7 luglio del 1938. Ha quindi 84 anni e un residuo pena di anni 10. Il secondo è quello di Enrico Mariotti. È nato a Roma il 19 dicembre del 1940. Ha perciò 82 anni, è detenuto dal 15 marzo del 2007 e un fine pena fra 7 anni. Il terzo è quello di Santo Barbino. È nato a Sinopoli il 13 dicembre del 1942. Ha quindi già vissuto 80 primavere, è detenuto dal 23 aprile del 2009 e il suo fine pena è “mai”. Che prospettiva di riabilitazione, percorso e senso di rieducazione potranno mai esserci su persone ultraottantenni? Se per il Russo la libertà sarà a 94 anni, per il Mariotti a 90 anni e per il Barbino mai? Dov’è il Diritto in questi casi? V’è la violazione del principio di proporzionalità affidato alla stessa pena e connesso alla funzione rieducativa insita nell’articolo 27, terzo comma, della Costituzione. V’è anche la violazione del principio di eguaglianza e ragionevolezza di cui all’articolo 3 della Costituzione. Vi è almeno una presunzione relativa di incompatibilità con il regime carcerario fondata su ragioni umanitarie oltre che sulla evidente inadeguatezza della gattabuia a svolgere pienamente la sua funzione costituzionale nei confronti di chi ha un’età così avanzata. Lo stesso legislatore ha presupposto la diminuzione della pericolosità sociale del condannato ultrasettantenne e il contenimento mediante l’obbligo di permanenza nel domicilio, con le prescrizioni e i controlli impartiti dal giudice. Il nostro legislatore ha posto l’attenzione sulla presunzione relativa di incompatibilità facendo capire che con l’avanzare dell’età cresce il carico di afflizione associato alla permanenza in gattabuia, considerate le grandi necessità di cura e assistenza personalizzate, che non possono essere assicurate nell’attuale contesto intramurario, contrassegnato dalla coabitazione forzata con persone di ogni età, con diverse patologie anche psichiatriche, con posizioni giuridiche e pene diverse. A tutto ciò sì aggiunge la mancanza dei cosiddetti “piantoni”, persone anch’esse detenute che si prendono cura di persone affette come nel caso di Antonio Russo da gravi malattie: ipertensione arteriosa; cardiopatia ipertensiva; episodi di extrasistole; esofagite; artrosi; insufficienza venosa con problemi agli arti inferiori. Stessa condizione sofferente riguarda i tanti ultrasettantenni per i quali anche statisticamente la sola età costituisce una patologia. I “piantoni” si prendono cura dei “nonnetti” facendo le pulizie della loro stanza, accompagnandoli a fare la doccia o in infermeria, lavando loro i panni e altro ancora. Purtroppo queste figure sono in via d’estinzione per mancanza di fondi e i “nonnetti” sono lasciati a perire e soffrire senza cura. Anche per una semplice operazione come il taglio delle unghie c’è chi è costretto ad affidarsi al buon cuore di un compagno di detenzione o per motivi di dignità a soprassedere. L’età avanzata della persona condannata e la conseguente sofferenza addizionale connessa alla permanenza in carcere devono essere considerazione preminente circa l’attualità e necessità della pena, di qualsiasi pena e regime detentivo. Ciò vale anche per i detenuti ultrasettantenni in regime di 41 bis, perché la morte per vecchiaia di un detenuto rappresenta una grave sconfitta per lo Stato di diritto. Il giudizio sulla pericolosità ritenuta nel passato è superato e neutralizzato nel presente di “nonnetti” che sono ormai ben lontani nel tempo e nello spazio da contesti, ambienti, occasioni, relazioni, capacità al delitto, tant’è che alcuni usufruiscono di permessi premio, sono stati ai domiciliari o hanno avuto accesso al lavoro esterno. È ora che questa realtà sia considerata non solo dalla società civile, ma dal legislatore perché emani norme definitive che stabiliscano un automatismo della scarcerazione non più affidata al potere discrezionale del Giudice che, purtroppo, finisce per creare discriminazione tra casi analoghi. Intanto spero che ai miei “nonnetti’ del reparto G8 di Rebibbia sia concessa una misura alternativa ispirata al principio di umanità della pena. Ho raccontato di loro perché la Costituzione si capisce meglio se la mettiamo a confronto con i casi concreti. Come i personaggi del romanzo di Victor Hugo sono persone cadute in una condizione di miseria umana che non è personalmente la loro, ma quella che connota il loro stato di detenzione in luoghi detti di privazione della libertà ma che sono - non solo per loro, ormai “vecchi”, ma anche per quelli ancora “giovani” - divenuti di privazione anche della salute e della vita. Della dignità di esseri umani. *Detenuto a Rebibbia Emilia Romagna. “Detenuti senza servizi essenziali causa mancanza di residenza” ravennanotizie.it, 9 dicembre 2022 Il Garante regionale al lavoro per risolvere il problema. Sono 3.390, di cui 150 donne, le persone detenute nei dieci istituti di pena emiliano-romagnoli. Fra i tanti problemi con i quali convivono quotidianamente, “uno è certamente quello della residenza anagrafica: un diritto che dovrebbe riguardare tutti i cittadini, compreso chi è costretto a un periodo di detenzione. Ma così non è”. A lanciare l’allarme e il garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri, che spiega come l’assenza di questo diritto “può determinare il mancato accesso a specifici servizi, come, ad esempio, quelli sociali erogati sui territori e rivolti ai soli residenti, i servizi sanitari, l’accesso ai servizi anagrafici, ecc.”. Quando una persona entra in carcere, solitamente lascia un’abitazione dove era residente, perdendo dunque la residenza ma senza acquisirne una nuova. Questo crea a catena una serie di problemi per il detenuto ai quali vuole porre rimedio il garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna. Non da solo. Per questo Cavalieri, assieme al garante nazionale Mauro Palma, sta ricercando soluzioni al problema: “Ci troviamo di fronte a una normativa particolarmente intricata. Abbiamo ascoltato nei giorni scorsi gli organi competenti in materia, compresa l’Associazione nazionale ufficiali di stato civile e anagrafe (Anusca)”. Il Garante regionale spiega, quindi, cosa verrà fatto: “Stiamo lavorando a linee guida che presenteremo anche alla presidente dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna Emma Petitti, la quale ci ha già fatto sapere che le condividerà con i colleghi consiglieri, a partire dal presidente della commissione Parità e diritti, Federico Amico”. Un primo passo verso un diritto che è di tutti: “L’auspicio -conclude Cavalieri- è quello di trovare una soluzione a questo problema che tocca maggiormente le persone più fragili (a partire da quelle con poche possibilità economiche). La residenza è un diritto che non può essere negato ad alcun cittadino”. Piemonte. Minori detenuti, la Regione senza comunità rieducative di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 9 dicembre 2022 Alla “Generala”, oggi l’Istituto penale minorile (Ipm) Ferrante Aporti, don Bosco inventò il suo sistema preventivo andando a visitare i ragazzi “discoli e pericolanti” della Torino di allora. “Se questi giovanetti avessero fuori un amico che si prendesse cura di loro chissà che non possano tenersi lontani dalla rovina o al meno diminuire il numero di coloro che ritornano in carcere?”, scriveva il santo dei giovani nel 1855 nelle sue “Memorie dell’oratorio”. Parole che calzano perfettamente ai 32 giovani “pericolanti” detenuti oggi al “Ferrante”, di cui due italiani e 30 stranieri dai 13 ai 21 anni, per la maggior parte di origine magrebina e tunisina, alcuni figli di immigrati di seconda generazione, altri non accompagnati cioè soli. Come ai tempi di don Bosco, le presenze nel carcere minorile sono lo specchio del disagio giovanile. I più fragili sono gli stranieri sbarcati in Italia senza famiglia e alla ricerca di una vita migliore che spesso incappano nelle reti dell’illegalità. Ma come nell’Ottocento la soluzione all’emarginazione e alla recidiva anche oggi sono le opportunità di reinserimento nella società “sana” dopo aver scontato la pena. Sulla situazione dei giovani ristretti al “Ferrante” (la permanenza media nell’Ipm è di 100 giorni) hanno riferito, giovedì 1° dicembre, il vicepresidente del Consiglio Regionale del Piemonte Daniele Valle (Pd) e Igor Boni (presidente dei Radicali italiani) al termine della visita all’Istituto minorile per verificare “il clima” dopo alcune risse e episodi di violenza (ora rientrate) causate dalla fragilità dei nuovi arrivati, spesso in condizioni sanitarie e psichiche critiche. La situazione al “Ferrante” non è certamente paragonabile al “Lorusso e Cutugno” che i due politici hanno visitato nelle scorse settimane dove sovraffollamento (1.440 i detenuti per una capienza di 1100), strutture obsolete, carenza di personale educativo e sanitario, oltre al dramma di 4 suicidi nell’anno in corso, rendono il penitenziario tra i più problematici della Penisola. All’Ipm torinese la capienza è per 46 ristretti e per fortuna molte celle sono vuote. Non mancano però i problemi sebbene, come hanno confermato Valle e Boni, accompagnati dalla vicedirettrice Gabriella Picco (la direttrice è in comune con l’Ipm di Bari ed è presente solo una settimana al mese), “abbiamo potuto constatare l’impegno, l’attenzione e l’umanità degli operatori, dagli insegnati ai vertici dirigenziali. Un esempio sono gli sforzi per promuovere attività teatrali e sportive. Positiva inoltre la presenza sanitaria di un dottore per quattro ore al giorno e di un laboratorio odontoiatrico, una rarità nelle carceri”. Il problema più grave è tuttavia è l’assenza in tutto il Piemonte di posti nelle comunità terapeutiche ed educative per garantire percorsi in uscita ai giovani ristretti che rischiano oggi di dover essere trasferiti per la riabilitazione e la formazione in comunità anche nel sud Italia con costi di trasferimento e disagi inaccettabili. Per questo Valle e Boni chiedono urgentemente alla Regione di investire risorse in comunità e personale. Pordenone. Morì in carcere per polmonite. “Aveva dolori al petto, non è stato chiamato il 118” Il Gazzettino, 9 dicembre 2022 Nemmeno la super-perizia disposta dal giudice Piera Binotto dice con chiarezza che Stefano Borriello, il 29enne di Portogruaro morto di polmonite mentre era in carcere a Pordenone, poteva essere salvato. Non vi è certezza che una terapia antibiotica tempestivamente somministrata avrebbe evitato la morte, ma i due consulenti hanno evidenziato che la difficoltà di respiro comparsa alle sette del mattino avrebbe dovuto allertare il medico del carcere, Giovanni Capovilla, chiamato a difendersi da un’ipotesi di omicidio colposo. Mercoledì n Tribunale sono stati sentiti i due periti nominati dal giudice a istruttoria ormai finita: il medico legale Stefano D’Errico di Trieste e il professor Andrea Vianello, pneumologo di Padova. “Se negligenza c’è stata - rimarca l’avvocato di parte civile Daniela Lizzi - secondo i due consulenti riguarda la mancata attivazione del 118”. Il giudice ha aggiornato l’udienza al 13 gennaio, quando le parti saranno invitate a discutere. Ai due consulenti era stato chiesto di valutare la documentazione e riferire se vi fosse un nesso di causa tra la morte di Borriello, avvenuta il 7 agosto 2015, mentre era in misura cautelare, e la mancata diagnosi da parte del medico della casa circondariale difeso dagli avvocati Manlio Contento e Nicoletta Sette. A Borriello, dopo vari accessi in infermeria, era stato diagnosticato un herpes cervicale. Lamentava anche dolori al petto ed era stato curato con antibiotici e paracetamolo per contenere la febbre. Secondo l’accusa (l’imputazione è coatta dopo che la Procura aveva chiesto per due volte l’archiviazione), il medico non avrebbe rilevato i parametri vitali ed eseguito l’esame toracico che avrebbe potuto far emergere i sintomi della polmonite che ha causato il decesso. È stata una battaglia di perizie: da un lato la parte civile (oltre all’avvocato Lizzi per la madre, anche Simona Filippi per l’associazione Antigone), dall’altro quella della Procura. Il capo di imputazione distingue le condotte del medico e individua dei momenti precisi. A cominciare dal 6 agosto, quando non fu diagnosticata un’infezione polmonare. A causa della mancata diagnosi, al giovane non furono somministrati antibiotici e le sue condizioni peggiorarono. Il 7 agosto si aggravò e verso sera fu ricoverato. Morì un’ora dopo. Secondo l’imputazione, se la polmonite fosse stata individuata tempestivamente, il 29enne non sarebbe deceduto, circostanza che, secondo la super-perizia, non è possibile stabilire. Torino. Su il sipario, se l’arte educa al “Ferrante” di Pietro Caccavo La Voce e il Tempo, 9 dicembre 2022 “EcoAgorà”, è un progetto di arte, teatro, danza e musica, una creazione di Hiroshima Mon Amour, Assemblea Teatro, Pav e Cap10110/Associazione teatrale Orfeo che dal 4 novembre ha già girato con successo, per tre tappe, nella Circoscrizione 8 (alla Bela Rosin, agli ex Mercati Generali, tra le case popolari di via Arquata), presentandosi così alla città. Ora conclude il suo percorso con una sua quarta ed ultima, particolarissima, speciale e preziosa performance, il 9 dicembre (non aperta al pubblico esterno) nel ristrutturato teatro all’interno dell’Istituto penale minorile “Ferrante Aporti”. Per arrivare all’appuntamento, in questi giorni, per i ragazzi detenuti ci sono stati gli appuntamenti del laboratorio tenuto da Assemblea Teatro, condotti dal suo direttore Renzo Sicco e da alcuni attori della compagnia. I temi, quelli presentati dallo spettacolo: il cambiamento climatico, il mondo è uno e prezioso (“La nostra casa comune…”, Papa Francesco), l’arte, la poesia, la bellezza che nasce dalla creatività. Perché “EcoAgorà” deve il suo nome all’installazione omonima di Gilardi, allestita per la prima volta nel 2015, era formata da un piccolo anfiteatro ottagonale di legno che ospitava, oltre alle persone, oggetti simbolici della riconversione ecologica, attrezzi e dispositivi tecnologici per l’agricoltura biologica e per le energie alternative. Una minicavea teatrale lignea, al centro della scena, attorno al quale agiscono gli attori di Assemblea Teatrale, i ballerini diretti da Valentina Gallo. Poi le canzoni di Eugenio Cesaro (il frontman degli “Eugenio in Via Di Gioia”), le poesie di Viola Nocenzi, i versi dalle “Nuvole” di De André… Il laboratorio è servito a preparare i ragazzi del Ferrante ad essere un pubblico, per quanto possibile, ancora più consapevole ai temi dello spettacolo. Per fornire loro chiavi di lettura autonome. La risposta è stata entusiastica ed attenta. Un flusso di energia buona, good vibrations. Per provare a pensare che oltre il portone del Ferrante, lì fuori, per ognuno la luce della speranza continua a risplendere. Queste le parole di Renzo Sicco, curatore della drammaturgia e della regia di “EcoAgorà”, a proposito della conclusione di questo laboratorio: “Come entri e li vedi, ti impressionano i loro corpi carichi di una vitalità giovane, travolgente, compressi tra cancellate di ferro e pareti di cemento. Sono corpi esplosivi e spesso martoriati di ferite o da tagli che si sono procurati. Segnalano il campo di violenza in cui sono costretti a crescere. Ramon (nome di fantasia) gira abbracciato alla fotocopia della sentenza del tribunale che lo riguarda. Alberto (nome di fantasia) con il suo bellissimo sorriso, dice “una mattinata come questa ti cambia il senso della giornata”. “Osservi questi ragazzi e pensi”, conclude, “per l’ennesima volta, che sei nato nel posto giusto, al momento giusto, nella famiglia giusta, e hai avuto le tue buone opportunità. Loro no, hanno incontrato il momento sbagliato, dentro al luogo sbagliato, che li ha portati infine in questo luogo inquietante, quanto impervio, per chiunque. Tanto più se giovane”. Il teatro come strumento per educare ed educarsi, per fornire luci dove tutto sembra farsi scuro. Sembra perfino banale ricordarlo. Il teatro è questo, dalla notte dei tempi. E il cambiamento climatico, purtroppo, preme. L’arte è una delle nostre ancore di salvezza, non bisogna imbrattarla. “EcoAgorà” ci ricorda tutto questo. Anche al Ferrante Aporti. Milano. A San Vittore la platea dei detenuti è tutta per Liliana Segre di Paola Rizzi metronews.it, 9 dicembre 2022 Quelli che applaudono con più convinzione e sempre al momento giusto sono loro, i detenuti. Del resto prima di assistere al Boris Godunov scaligero nella rotonda di San Vittore, sono stati istruiti, in un incontro con gli inviati della Scala, all’ascolto del drammone russo di Musorgskij che ha inaugurato la stagione della Piermarini. Non è scontato però l’applauso forte e prolungato che parte proprio da loro quando sullo schermo viene inquadrata in un palco la senatrice Liliana Segre, un simbolo di riscatto e di rinascita evidentemente anche per chi sta dietro le sbarre. Prima diffusa a San Vittore - Il 7 dicembre a San Vittore, ormai tradizione fissa, è sempre un’occasione emozionante e unica di incontro, quel momento osmotico tra la città e il carcere che in una serata così simbolica per Milano vuole essere davvero “uno dei quartieri della città dove si può assistere alla prima diffusa”, come ripete sempre il direttore Giacinto Siciliano: “Il carcere pur con tutti i suoi problemi, le sue criticità, il sovraffollamento non vuole essere da meno. E c’è molta vita, molto fermento nella preparazione di questo evento, dal catering che assaggerete dopo, alle sedie su cui siete seduti realizzate dal laboratorio con materiale di riciclo. Ai quadri che avete visto esposti entrando nella rotonda, realizzati in un laboratorio artistico”. Che ci sia fermento che attraversa tutti i raggi e le sezioni lo si avverte fin dall’ingresso, con gli agenti della polizia penitenziaria in alta uniforme ad accogliere gli ospiti. Il ministro Nordio in carcere - Un centinaio gli invitati tra autorità cittadine e associazioni, che si mescolano a una cinquantina tra detenuti e detenute durante gli intervalli e alla fine per il tradizionale, buonissimo, risotto preparato dalla “Libera scuola di cucine” della sezione femminile. Risotto giallo al quale ha rinunciato il ministro della Giustizia Carlo Nordio alla sua prima uscita pubblica, andato via dopo l’intervallo non prima di essersi impegnato a “migliorare la situazione della polizia penitenziaria e di chi versa in questa situazione di dolore” anche se”le risorse sono poche”. Nordio ci ha tenuto a dire che in carcere sarebbe stato più adatto ascoltare non un’opera così difficile come il Boris, ma il Fidelio di Beethoven dove si parla appunto di carcerati. Forse non sapeva che nel 2014 la Scala ha inaugurato la stagione appunto con il Fidelio, trasmesso anche a San Vittore. I detenuti di san Vittore - Di diverso avviso Dejan, detenuto serbo che si vanta di aver girato tutte le carceri della Lombardia, apprezza questa iniziativa di San Vittore e dell’opera dice che si è complessa ma si segue bene e che a lui sono piaciuti soprattutto i costumi perché lui “fuori” tale altre cose “si occupa di moda”. Fabricio, ecuadoriano, 34 anni mentre si chiacchiera, mangiando il risotto, dei mille lavori che ha fatto, delle due figlie che lo aspettano, del fatto che è la sua prima volta in carcere, fa il bibliotecario, legge tanto ed è da oltre un anno a San Vittore in attesa di processo, si interroga sul finale dell’opera che gli ha lasciato qualche dubbio. Prima della diretta dalla Scala a raccontare del rapporto tra arte e riscatto era stato Gaspare Costa, 41 anni, uno dei sette detenuti e dei quattro agenti di polizia penitenziaria che assieme hanno partecipato ad un laboratorio di pittura promosso dalla Fondazione Maimeri, che prevedeva la copia del dipinto di Caravaggio “la testa di Golia”. “È stata una bella esperienza - dice con semplicità-mi ha dato fiducia nei miei mezzi. Bisognerebbe ripeterla”. Gaspare, di mestiere panettiere, una vita complicata dentro e fuori, uscirà nel 2026. Guardando il suo Golia particolarmente espressivo dice: “Ci ho messo 8 ore a farlo, non avevo mai disegnato e guarda cosa ho fatto. Di sicuro quando uscirò non so cosa farò ma mi iscriverò ad un corso di pittura”. Verona. I detenuti in sella imparano cura e autostima. Così diventano stallieri e attori di Lorenza Cerbini Corriere Veneto, 9 dicembre 2022 Un progetto di teatro equestre nel carcere di Montorio (Vr) sotto la guida del maestro Rudj Bellini. Grazie alla scuderia dell’istituto si può lavorare sulle emozioni e preparare gli spettacoli. “Devo migliorare nella posta ungherese quell’esercizio in cui si cavalca con i piedi sul dorso di due cavalli diversi”, dice Marco. Era l’autunno del 2021 quando si è esibito a Fieracavalli Verona, la sua prima apparizione in uno spettacolo di teatro equestre davanti a un pubblico numeroso ed esperto. Con lui altri quattro giovani, tutti provenienti dalla Casa circondariale di Montorio (Verona). Oggi, Marco Bellardi si occupa dei cavalli della scuderia trevigiana “Free Horses” e con lui Alex Bortanoiu. Il primo ha già scontato la sua pena, il secondo uscirà tra poche settimane. Entrambi sono stati affidati a Rudj Bellini, un nome di spicco a livello internazionale nella scena degli spettacoli equestri. Racconta storie cavalcando, scalzo, senza sella né morsi. “I cavalli salvano. Costringono a mettersi in discussione ogni giorno e a crescere basandosi sulla fiducia reciproca”, dice Bellini. Per un’intera estate il “maestro” ha lavorato accanto ai detenuti nel primo progetto di teatro equestre sostenuto da Mariagrazia Bregoli direttrice del carcere veronese. “All’interno dell’istituto - dice - abbiamo una scuderia con quattro cavalli provenienti da sequestri. Nel 2021, con Fise, abbiamo proposto ai detenuti un corso di teatro equestre, alcuni erano già inseriti nel progetto formativo “home groom” in cui si apprendono le operazioni necessarie alla cura ordinaria del box e del cavallo”. “Quando ho iniziato il corso con Bellini non avevo idea a cosa sarei andato incontro, non avevo dimestichezza con i cavalli e neppure col teatro. Si è aperto un mondo di sensazioni ed emozioni nuove”, dice Bortanoiu. Detenuti e “maestro” hanno lavorato insieme un’intera estate per allestire lo show “Oltre il limite”. “Ho lavorato duro e in pochi mesi ho imparato a cavalcare bene, ma nel teatro equestre questo non basta. Si lavora sulle proprie emozioni e ho scoperto aspetti inediti della mia personalità. Oggi, sono più consapevole degli errori commessi”, dice Bortanoiu. “Il cavallo- sottolinea Bellini - insegna il rispetto e l’autostima. Durante uno spettacolo, non bisogna dimostrare quanto l’animale sia bravo. Comunica con il corpo, gli sguardi, i nitriti, instaurando un rapporto sottile con chi si prende cura di lui e con il pubblico. Il cavallo insegna ad essere responsabili”. L’impegno costante - Oggi Bortanoiu e Bellardi accudiscono circa venticinque cavalli. “Da Bellini stiamo imparando il mestiere di stalliere e di attore equestre. Ogni cavallo ha le sue esigenze e caratteristiche e vanno conosciuti uno ad uno. Ci siamo autogestiti, iniziamo al mattino presto e proseguiamo fino a sera, tutti i giorni della settimana”, dice Bellardi. “Provengo da una famiglia borghese, madre professionista, padre vigile del fuoco. Sono entrato in carcere giovane. Ho preso il diploma di scuola alberghiera, ho iniziato Giurisprudenza, ma avevo poco tempo per studiare. Lavoravo al bar interno, mi alzavo alle sei del mattino fino a mezzanotte. Quando Bregoli mi ha proposto il corso di teatro equestre, ho subito accettato pur non avendo mai avuto a che fare con i cavalli. E quando ho conosciuto Rudj c’è stata immediata simpatia. Nel maneggio ci sono regole da rispettare, un impegno costante e necessario per il benessere degli animali”. “I cavalli ci riconoscono e ci aspettano, sono abitudinari e non giudicano. Sperimentiamo una relazione senza pregiudizi, senza etichette. Chiedono di essere amati e tutelati”, dice Bortanoiu. Intanto, nel carcere di Montorio è iniziato un nuovo corso “home groom”, ma questa volta in scuderia ci sono le ragazze. “Qui in Veneto - conclude Bregoli - abbiamo molti maneggi e manca personale qualificato Si tratta di un mondo pieno di opportunità. E speriamo di poter ripetere anche il corso di teatro equestre”. Ancona. Corto Dorico, i film in carcere per scommettere sul futuro di Silvia Veroli Il Manifesto, 9 dicembre 2022 Festival. Una giuria di detenuti consegna il premio ai sette titoli in gara, il racconto della visione “oltre le mura”. Nel progetto anche la realizzazione dello short movie “Firmamento”. Corto Dorico Film Festival, organizzato nelle Marche dall’Associazione di promozione sociale Nie Wiem, ha una speciale categoria di premio per i film di piccolo formato che da vent’anni arrivano ad Ancona da tutto il mondo. È quello assegnato dalla giuria composta da reclusi presso i penitenziari della regione. Sono stati gli istituti di Pesaro, Ancona, Ascoli Piceno, Fermo in questa edizione del festival ad ospitare la valutazione e il dibattito attorno ai sette lavori finalisti tra cui il 10 dicembre sarà premiato il vincitore; sono When you wish upon a star di Domenico Modaffari, Old Tricks di Edoardo Pasquini e Viktor Ivanov, Tria di Giulia Grandinetti, Le Variabili Dipendenti di Lorenzo Tardella, Camerieri di Adriano Giotti, So what did we learn today, Georgina? di Franco Volpi, Il Barbiere complottista di Valerio Ferrara. L’iniziativa che coinvolge i detenuti è stata avviata cinque anni fa e nelle precedenti edizioni è stata ospitata anche nella Casa di Reclusione di Fossombrone e nella Casa Circondariale di Ancona - Montacuto. Il nuovo Garante regionale dei Diritti della Persona della regione al plurale che offre quel che chiamano modello Marche oggi in continuità politica col Governo centrale, ha recepito il testimone del suo predecessore con soddisfazione di organizzatori e partecipanti. Luca Caprara, direttore artistico del festival, racconta come negli anni il giudizio dei carcerati sia risultato puntualmente allineato con quello dei giurati critici, piuttosto che con le preferenze espresse dal voto del pubblico. Sarà che da ristretti oltre le mura (che è pure titolo della rassegna), aumentano profondità di analisi e concentrazione, il tempo si dilata sgombro di distrazioni, in primis quelle fornite dai device che normalmente si consultano per ogni aspetto del vivere quotidiano, dall’ora, alla critica di un film, al meteo. Gli stessi telefoni che, accolti per la proiezione al carcere Barcaglione di Ancona, lasciamo all’ingresso per raggiungere, percorsa una sequenza di corridoi, la biblioteca, accompagnati dal personale di polizia penitanziaria e da uno schiavardare sonoro e antico a ogni passaggio. Ci sono ancora, in carcere, mazzi enormi di chiavi infilati in un anello alla cintura delle guardie, a presidio di ogni varco e cella. Oggi i reclusi che hanno aderito alla proposta del Festival e dell’Ufficio del Garante sono giudici. Sono una decina, qualcuno impegnato in altre attività ci raggiunge a lavori iniziati, altri già in sala lettura si aggregano incuriositi. È una commissione partecipe quella composta dai detenuti, assorta; quando viene mostrato Old Tricks, storia di humor nero dove una coppia di anziani coniugi gioca a chi meglio inscena la propria morte per spaventare l’altro, scappa qualche risata liberatoria. Claudio, che da dentro le mura ha conseguito diploma e due lauree, commenta: “Hanno trovato un modo per capovolgere la noia”. La noia in carcere, aggiunge poi, raddoppia la pena. Per questo le offerte ricreative, anche culturali, sono perlopiù accolte con entusiasmo. Almeno così è per Chakir che, ci racconta, in carcere ha frequentato corsi di poesia e teatro, e ora partecipa al progetto cinematografico. “A volte quel che si impara ai corsi lo proseguiamo insieme” e così è stato che la sua pratica letteraria e quella musicale di un altro compagno li hanno portati a trovarsi, in momenti autogestiti, a fare insieme rap. Chakir è stato coinvolto anche in una seconda progettualità legata a Corto Dorico e condotta con lo Iulm di Milano che entrerà nel vivo i primi mesi del 2023 e ha già visto la realizzazione di uno short movie di presentazione. Il titolo dell’audiovisivo è Firmamento, Caprara lo mostra prima della visione dei corti in gara, Chakir ha prestato la sua voce per parlare di un cielo che da qui si vede a scampoli “Sì, ma è pur sempre cielo e quando sarò fuori ricorderò quanto era importante”. A votazioni ultimate parliamo con Andrea che si è divertito a fare il critico cinematografico, il cinema gli piace sia in sala che in piattaforma, specie i thriller. Nella Casa di Reclusione però la sua specialità è l’orto sociale che gli è affidato. Il raccolto di è di legumi, cipolle, carote, i prodotti di stagione che poi può prepararsi in cella e condividere, cosa importantissima e riuscita sembra, almeno qui, e confermata da Andrea che spiega “I domiciliari sono peggio del carcere, qua non si è soli”. Chi è detenuto dispone del necessario per cucinare, e posate in plastica. Parliamo della condizione di reclusione in lockdown “la cosa peggiore è stato non poter abbracciarsi durante i colloqui”. L’ attività più bella per lui però è quella che coinvolge i figli dei detenuti che ad Ancona si svolge in collaborazione con il Polo 9, impresa sociale che opera nelle Marche, sotto la sigla “Bambini senza sbarre”. Pensare a chi sta peggio: è questo il compito della nuova sinistra di Giorgio Vittadini La Repubblica, 9 dicembre 2022 Nel dibattito sulla rinascita dei progressisti interviene il presidente della Fondazione per la sussidiarietà. Dove sono finite le realtà popolari, di ispirazione laica e cattolica, che hanno fatto grande l’Italia? Non credo si possa pensare al futuro del nostro Paese senza porsi questa domanda. Soprattutto guardando alla crescita di povertà e disuguaglianza. In Italia circa un quarto (25,4%) della popolazione è a rischio di povertà o esclusione sociale, una quota fra le più elevate in Europa. Nella penisola la povertà assoluta affligge già 1,7 milioni di famiglie, per lo più nel Mezzogiorno. Il neoliberismo selvaggio non produce solo scarti ambientali, ma anche scarti umani, come non smette di ripetere papa Francesco. A livello globale, l’1% delle persone possiede oltre metà dell’intero patrimonio planetario e ogni giorno un milione e mezzo di esseri umani rischiano di cadere nella miseria. La crescita di povertà e ineguaglianza degli ultimi 30 anni non è solo un problema di welfare, ma anche conseguenza di un modello di sviluppo che ha perso di vista la centralità dell’economia reale rispetto alla finanza. Da questo punto di vista, come afferma l’ex governatore della banca centrale indiana Raghuram Rajan nel libro Il terzo pilastro, Stato e mercato non riescono da soli ad affrontare questi problemi sociali. Sono le comunità locali a essere indispensabili. Insieme a un mercato regolato e a un sistema politico-istituzionale democratico ed efficiente, va messa in circolo in modo diffuso la cultura della sussidiarietà. “Sussidiarietà” è una parola decisiva in questo momento storico perché parla di una cosa semplicissima: il valore del contributo di tutti, delle relazioni, della convivenza, in un’epoca di individualismo e disintermediazione. E parla della ricerca della migliore soluzione possibile ai problemi della convivenza, contro massimalismo e incompetenza. Il potenziale rivoluzionario della sussidiarietà consiste nel mettere in moto il dinamismo della coesione, della fiducia, dell’iniziativa costruttiva, solidale, in tempi post ideologici. Mette al centro la persona come obiettivo e come attore dello sviluppo, tramite il lavoro, la cui la dignità deve essere tutelata, insieme all’obiettivo della piena occupazione. Sussidiarietà vuole dire riattivare il desiderio di pensare al bene degli altri, non solo al proprio, e nel riattivare canali di comunicazione e di ascolto aperti, possibilisti, non autoreferenziali. Consiste nel rinunciare all’atteggiamento muscolare e difensivo per intraprendere un più coraggioso percorso che affronti la complessità del reale. Pezzi di società, di istituzioni e cittadini, che sono come monadi, persi nei loro mondi, devono potersi sentire parte di un progetto di rinascita, devono continuare a parlarsi, a comprendersi, a valutare le migliori soluzioni concrete possibili ai problemi e poi applicarle. Ma perché questo accada bisogna andare a rintracciare quello che resta dell’esperienza di un popolo. Che ha tante differenze e contraddizioni, ma ha un punto di forza: una ricca storia di realtà sociali di diversa ispirazione ideale, che hanno agito per il bene della collettività. Quando ero bambino, la parrocchia del quartiere periferico di Baggio Forze Armate a Milano in cui vivevo, era un vero e proprio luogo di “welfare sussidiario”, oltre a svolgere la sua funzione di culto: aiuto gratuito per i poveri, servizi ai lavoratori e a chi aveva bisogno di una casa, sport e doposcuola gratuiti per i bambini. Tutto ciò avveniva anche in realtà di diversa ispirazione ideale, come i circoli socialisti e comunisti. Oggi questo mondo popolare ha cambiato pelle, ed è fortemente impegnato nel non profit e nel Terzo settore e aiuta le tante necessità dei più bisognosi. Il problema è che questa presenza copre il territorio a macchia di leopardo e dove non c’è lascia elevati livelli di ineguaglianza e povertà. In Italia, come mostra il Rapporto 2022 della Fondazione per la Sussidiarietà, quando è minore la presenza di attività sociali e di volontariato, diminuiscono le possibilità di trovare lavoro, di avere stipendi adeguati e aumentano gli abbandoni scolastici e la povertà. L’osservazione della realtà conferma questa tesi: basti pensare agli straordinari risultati che genera, per esempio, l’attività di padre Loffredo nel Rione Sanità a Napoli e che cosa accade invece laddove non c’è nessuno che rimetta in gioco capacità e spirito d’iniziativa a difesa dei più deboli. La cultura della sussidiarietà, in sintesi, spinge tutti a dare il meglio: lo Stato a sostenere la società nel dare risposte e a intervenire laddove non emergano; la società ad auto-organizzarsi, grazie al ricostituirsi di luoghi di partecipazione, confronto, apprendimento; i cittadini a concepirsi come “comunitari” e non solo come consumatori. Da questo dipende la tenuta e il rinnovamento del sistema democratico. Ma c’è un punto da cui può ripartire tutto questo circolo virtuoso: la ricostruzione di luoghi di partecipazione della società civile. Comunicazione e furori contraddittori di Nuccio Ordine Corriere della Sera, 9 dicembre 2022 A dispetto dei tanti “Cristi di carne” che affollano le cronache quotidiane, il cristianesimo evocato da alcuni politici, con pubbliche esibizioni di rosari e crocifissi. “O lettori, e lettrici, cui fortuna sorrise, lasciate di contemplare le piaghe di un Cristo di legno: io vi prèdico la vera religione, e vi mostro un Cristo di carne, il bracciante”: il 6 luglio del 1894, sul periodico bisettimanale “Il Bruzio”, Vicenzo Padula offriva un commovente ritratto dei poveri braccianti calabresi. E sempre lui, da buon prete letterato vicino alle sofferenze degli umili, aveva scritto che in “questo misero mondo chi à è, e chi non à non è”, a tal punto che coloro che non hanno costituiscono la massa delle consonanti “perché consuonano alla voce del ricco e si conformano agli atti di lui, il quale è la vocale, senza di cui sfido io a fare che la consonante abbia suono”. In queste pagine di Padula emerge un cristianesimo molto distante da quello evocato, ai nostri giorni, da alcuni politici, i cui furori religiosi si manifestano nelle pubbliche esibizioni di rosari e crocifissi, in disegni di legge che stanziano denaro per incoraggiare i matrimoni nelle Chiese e finanche nelle reiterate campagne contro qualsiasi forma di unione che non coincida con la cosiddetta “famiglia naturale” (papà e mamma con relativa prole). Così, mentre l’attenzione si concentra su strumentali interpretazioni di riti e aspetti della vita religiosa, si aggrediscono i sacrosanti diritti dei tanti “Cristi di carne” che affollano le cronache quotidiane: quei disperati che, a rischio della propria vita e di quella dei loro figli, cercano di fuggire la fame, la violenza delle guerre, la follia dei fondamentalismi, la barbarie delle dittature. A loro non è concesso avere un porto sicuro o una nuova patria per aspirare a una dignità negata. Può essere credibile lo zelo manifestato per alcuni aspetti della religione se, mortificando la solidarietà umana, non si tende la mano a chi soffre? L’esortazione di Padula resta ancora attuale: è sufficiente omaggiare i Cristi di legno quando si oltraggiano i Cristi di carne? I migranti vengono picchiati alle frontiere. E l’Europa tace di Sara Creta Il Domani, 9 dicembre 2022 Sul confine tra Bulgaria e Turchia ci sono rifugiati che vengono imprigionati e maltrattati, obbligati a spogliarsi prima di essere respinti in modo illegale. Lo raccontano video e testimonianze che vengono sempre ignorati. Sul confine tra la Bulgaria e la Turchia ci sono rifugiati che vengono imprigionati e maltrattati, obbligati a spogliarsi prima di essere respinti. E ancora, vengono trattenuti durante la notte in container senza cibo né acqua in Ungheria o schiacciati in furgoni della polizia croata e lasciati a cuocere al sole prima di essere respinti in Bosnia. Le testimonianze e i video raccolti da Domani, in partnership con il collettivo d’inchiesta Lighthouse Reports, mostrano le prassi diffuse e sistematiche con cui le forze di sicurezza europee effettuano violente espulsioni collettive ai confini dell’Unione europea, in violazione del diritto internazionale. Secondo Frontex, l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere, sulla rotta balcanica sono passate 128.430 persone nei primi dieci mesi del 2022, il 168 per cento in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Percossi - Nelle foreste della montagna Strandja, ultimo lembo di terra bulgara prima del confine con la Turchia, i camion militari dell’esercito bulgaro trasportano rifugiati afghani fino al confine. Vengono imprigionati e maltrattati, prima di essere espulsi nella foresta di latifoglie del mar Nero orientale. Un gruppo di ragazzi afghani racconta l’ennesimo respingimento dell’esercito bulgaro. Sono laceri e sono stati derubati di tutto. “I cani delle guardie di frontiera ci hanno morso”, racconta Hameed, di Nangarhar, provincia del nord ovest dell’Afghanistan. “Ci hanno imprigionato e torturato brutalmente. Ci hanno lasciato per nove ore senza né cibo né acqua”. Mostrano i segni delle percosse e i morsi dei cani. Un altro ragazzo afghano, di nome Javed, continua: “Ci hanno rinchiuso in una baracca fatiscente per 12 ore, prima di riportarci al confine”. Imprigionati e maltrattati - Domani, con un’inchiesta guidata da Lighthouse Reports insieme a Ard monitor, Der Spiegel, Sky News, Le Monde, SRF e RFE/RL Bulgaria è in grado di svelare per la prima volta dove vengono tenuti prigionieri e maltrattati i richiedenti asilo prima di essere respinti al confine bulgaro-turco. Un altro video mostra agenti della polizia di frontiera bulgara che picchiano persone sdraiate a terra con manganelli. È stato registrato lo scorso ottobre al confine tra la Bulgaria e la Turchia. A Sredets, una cittadina bulgara a 30 chilometri dal confine bulgaro-turco, in una baracca sbarrata e fatiscente, nei locali di una stazione di polizia di frontiera vengono sistematicamente trattenuti i rifugiati prima di essere respinti. Documenti interni dell’agenzia di frontiera Ue dimostrano che almeno 10 ufficiali di Frontex sono presenti nella stessa Sredets, nell’ambito dell’Operazione Terra. Il ruolo dell’Agenzia è sempre più problematico dopo il rapporto dell’Ufficio Ue anti frode sulle violazioni dei diritti umani da parte di Frontex. In una nota condivisa dall’agenzia si specifica che “dal 2021, l’Ufficio per i diritti fondamentali ha registrato 10 incidenti gravi segnalati al confine tra Bulgaria e Turchia. Uno si riferisce all’area di Sredets ma non è correlato alle condizioni di detenzione della stazione di frontiera bulgara”. Obiettivo: respingere - Nelle immagini si vedono i veicoli contrassegnati con il logo di Frontex e circa 25 migranti trattenuti in una baracca sbarrata e fatiscente, sorvegliata da un agente di polizia bulgaro. Secondo diverse testimonianze, raccolte fra ottobre e novembre in Turchia, le persone vengono trattenute diverse ore prima di essere respinte oltre il confine bulgaro-turco. Ufficiali turchi confermano questa pratica. “Quando la polizia bulgara ci ha catturato ci hanno picchiato violentemente, ci hanno tolto i vestiti e ci hanno rasato le sopracciglia. Ci hanno trattenuto per diverse ore, ci hanno trattato come animali”, racconta Nackman, 28 anni, anche lui di Nangarhar. Secondo Georgi Voynov, avvocato in Bulgaria del Comitato Helsinki, programma di protezione legale per rifugiati e migranti, la detenzione illegale di rifugiati ne facilita l’espulsione: “Non si vogliono lasciare tracce, documenti, così si può semplicemente respingere”. Detenzioni illegali - Lo stesso avviene alla frontiera tra Ungheria e Serbia, ad Ásotthalom, un villaggio ungherese a 5 chilometri dalla frontiera serba. Nelle immagini si vede un gruppo di persone trattenute nel parcheggio di una stazione di servizio. Guardie civili volontarie - note come Polgár?rség - trattengono per diverse ore i migranti prima di respingerli oltre il confine nei pressi di Röszke. Nelle foto si vedono uomini in divisa blu trattenere un gruppo di persone prima di respingerli verso il confine a bordo di camion bianchi della polizia ungherese. Varie cause alla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo sono riuscite a condannare l’Ungheria per detenzioni illegali nelle zone di transito di Röszke e Tompa. L’ultima in ordine di tempo è stata emessa lo scorso 2 giugno. La Corte di giustizia ha ribadito che le autorità ungheresi hanno istituito “un sistema di trattenimento generalizzato dei richiedenti protezione internazionale nelle zone di transito”. Fingere che non succeda - E mentre le persone sono ricacciate indietro a forza, Frontex finge che tutto questo non succeda, equivocando e riducendo in qualche misura il proprio ruolo di mero partner tecnico nei rimpatri “assistiti”, e dicendosi semplicemente “consapevole” di quelli che ha definito “rischi potenziali” per i richiedenti asilo. La violenza al confine tra Ungheria e Serbia è “metodica e sistematica”, denuncia Medici senza frontiere, che accusa le autorità ungheresi di percosse, manganellate, calci, pugni, e varie forme di umiliazione. Dal gennaio 2021, le équipe mediche mobili hanno curato 500 vittime della violenza di confine. La maggior parte di queste testimonianze descrive uno schema simile di percosse, negazione dell’accesso ai bisogni primari e molestie, spesso accompagnate da umiliazioni a sfondo razziale. Il governo ungherese respinge in toto le accuse: “l’Ungheria è stata uno dei primi Stati membri ad applicare le norme dell’Unione europea”. Pratiche comuni - La logica europea si evince dai documenti: “Sosterremo i partner dei Balcani occidentali con l’azione dell’Ue per intensificare i rimpatri nella regione, rafforzando le capacità operative attraverso Frontex e convocando comitati congiunti di riammissione”, come si legge nel documento in cui si annuncia per il 2023 un nuovo programma per i rimpatri nella regione, rafforzando la collaborazione anche con i paesi di origine dei migranti. Già nel settembre 2020, la Commissione aveva ignorato le denunce di violazioni dei diritti umani da parte della polizia croata e aveva evitato di istituire un meccanismo indipendente di monitoraggio che avesse lo scopo di garantire che le misure adottate dalla Croazia lungo i propri confini, in larga parte finanziate dai fondi di emergenza all’assistenza dell’Unione europea, rispettassero i diritti umani. Solo recentemente il governo di Zagabria ha firmato un accordo con la Commissione europea per istituirlo, ma secondo le organizzazioni di difesa dei diritti umani il meccanismo non è né trasparente né indipendente e quindi estremamente inefficace. Un’indagine pubblicata lo scorso febbraio dell’ombudsman europeo aveva infatti rilevato che la Commissione europea non era riuscita a garantire il rispetto dei diritti fondamentali nelle operazioni di frontiera finanziate dall’Unione europea a partire dal 2018. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti aveva ricevuto numerose accuse di migranti trasportati in furgoni della polizia croata in pessime condizioni. “Fino a 26 persone stipate in un’area progettata per trasportare un massimo di otto persone in viaggi che possono superare diverse ore”, si legge nel rapporto condiviso con il Consiglio d’Europa. Altre testimonianze hanno dimostrato che non si tratta di una pratica isolata, ma regolare. Diana, una donna afghana di etnia hazara di 22 anni, ora rifugiata in Svizzera racconta come lo scorso settembre è stata trattenuta in un piccolo furgone dalla polizia di frontiera croata per più di otto ore con più di altre 20 persone, senza acqua e nel veicolo chiuso in condizioni di caldo estremo. L’inventore della Cannabis light: “Io alla sbarra, ma così si vuole spazzare via tutto il settore” di Viola Giannoli La Repubblica, 9 dicembre 2022 Intervista a Luca Marola, ideatore del business dei fiori di canapa, che rischia sei anni di carcere: “Ho sempre venduto prodotti con un Thc inferiore allo 0,2%, ampiamente entro i limiti di legge”. “Il processo è contro di me, ma sul banco degli imputati in realtà c’è tutta la cannabis light”. Luca Marola, 45 anni, parmigiano, della cannabis light in Italia è stato l’inventore. Il primo a dare un nome commerciale per le infiorescenze essiccate di piante con quantità estremamente basse di Thc (il tetraidrocannabinolo, responsabile dell’effetto psicoattivo) e ricche di Cbd (il cannabidiolo, dall’effetto rilassante simile alla camomilla). Dal 3 novembre è alla sbarra al tribunale di Parma; un processo simbolo che rischia di cambiare, sia che Marola vinca sia che perda, la storia della cannabis light. Una filiera che, ricorda Antonella Soldo di Meglio Legale (che sostiene Marola insieme a +Europa, Possibile, Radicali e Volt), vale 10 mila posti di lavoro, mille negozi e 150 milioni di euro potenziali e ha diminuito del 12% gli introiti criminali. Marola, lei di cosa è accusato? “Spaccio”. Quanto rischia? “Sei anni di reclusione”. Quando ha iniziato a vendere cannabis light? “Nel 2017. Presentammo il prodotto a una fiera di settore e vincemmo il premio come prodotto innovativo. Erano barattolini di infiorescenze coltivati da altri, lavorati, confezionati e venduti da me. C’era la fila”. Erano illegali? “I fiori di canapa che ho sempre venduto hanno un Thc inferiore allo 0,2%, ampiamente entro i limiti della legge, e un alto livello di Cbd, tra il 5 e il 15%. Ma la mia fu una provocazione giuridica, un atto di disobbedienza civile”. Perché? “Perché la legge 242 del 2016 sulla canapa, nata per incentivarne la filiera, ha una lacuna: non vengono citate le infiorescenze, il prodotto più importante. Per segnalare l’errore al legislatore, e con la certezza che nulla di penale potesse accadermi, ho iniziato a vendere il fiore di canapa industriale, la cui coltivazione è tuttora lecita. In pratica vendevo un prodotto non vietato, ma ignorato dalla legge, che non è esplicitamente illegale e al tempo stesso non è chiaramente lecito”. Cos’è accaduto invece? “Nel gennaio 2019 partirono le indagini. Io me ne accorsi mesi più tardi quando 34 funzionari della Guardia di finanza fecero un’irruzione stile narcos in casa, nel negozio e nel magazzino e sequestrarono documenti, il deposito, 649 chili di infiorescenze per un valore commerciale di 2 milioni di euro e la società Easyjoint che non potrò mai più utilizzare anche fossi innocente. Dopo 7000 pagine di inchiesta e 3 anni è arrivato il processo”. Come mai ci si è accorti così in ritardo di un’attività considerata illecita? “La guerra alla cannabis light è iniziata nel 2019. Matteo Salvini era ministro dell’Interno e disse: “i negozi di cannabis vanno sigillati uno a uno”. Due mesi più tardi arrivò la sentenza della Cassazione a sezioni unite che bandiva i derivati della cannabis “a meno che non siano privi di efficacia drogante” Così si sono mosse le procure nella loro caccia agli unicorni”. Cosa intende? “Dimostrare che una sostanza che non droga come la cannabis light sia droga è come voler dimostrare l’esistenza degli unicorni”.  La procura di Parma le contesta però la destinazione d’uso delle sue infiorescenze... “E’ il tentativo di interpretare la legge in senso restrittivo bypassando la capacità drogante e concentrandosi su destinazioni d’uso che non sono scudate dalle legge 242 del 2016 sulla canapa industriale e dunque ricadono nel testo unico sulle droghe. Ma torniamo al cortocircuito precedente: se la cannabis light non droga e il Thc è nei limiti di legge come può essere regolata da una legge sulle droghe?”. Marola, se vince che succede? “Qualcosa di agrodolce. Farò quello che 5 governi e 4 maggioranze non hanno saputo o voluto fare, ossia dare certezza al mercato della cannabis light. Ma nessuno mi risarcirà dei sequestri e della società che mi hanno scassato e non posso più usare perché sulla Easyjoint pesa un’inibizione perpetua. Oltre a dover sostenere ingenti spese legali per le quali ho attivato un crowdfunding che scade il 19 dicembre”.  E se perde? “Andrò in appello, in Cassazione e alla Corte di giustizia europea. Se perdo definitivamente verrà individuata la ricetta per spazzare via l’intero settore della cannabis e si muoveranno decine di altre procure finora immobili”. Gasparri ha già presentato una proposta di legge per vietare la cannabis light tout court. Se la destra giocasse d’anticipo per chiudere la partita con una nuova legge? “È un rischio. Ma davvero si vuole creare un altro mercato nero per tutto il canapone? Finirebbe come con i rave party: un mucchio selvaggio che fa ancora più confusione”. Iran. Un regime impaurito e spietato di Mara Gergolet Corriere della Sera, 9 dicembre 2022 Il potere dei senza-potere è nella parola, anche in Iran com’era nell’Est europeo. All’opposto, il silenzio permette di nascondere la più feroce determinazione di ogni regime. Come promesso, e con un rito macabro che segna l’avvio dell’età del terrore, il regime degli ayatollah comincia le sue esecuzioni. Si chiamava Mohsen Shekari, 23 anni. Lo accusano di avere bloccato il traffico il 25 settembre scorso durante le manifestazioni e ferito con un coltello un paramilitare basiji. Passerà nei libri di storia come il primo dissidente impiccato di questa nuova, spietata repressione iraniana: colpevole di “inimicizia contro Dio”. Uccidere apertamente, e annunciare quello che finora le milizie compivano “in segreto” - o nelle celle di Evin - rappresenta il segnale che il confronto è diventato esistenziale. Di qua i ragazzi, che non vogliono più sottomettersi, con un coraggio e una radicalità incomprensibile per le generazioni appena più grandi. Di là il regime uscito dalla rivoluzione khomeinista, a cui quei ragazzi non riconoscono più né legittimità, né autorità, né futuro. Ma i suoi capi non hanno nessuna intenzione di lasciare la scena. Che tutto questo si svolga attorno all’hijab non è accidentale. È il regime stesso che ha messo l’hijab al centro della propria ideologia e del proprio ordinamento statale. Ma non siamo nel 1979, neppure nei primi anni 2000. Dice la scrittrice Roya Hakakian, che era una teenager negli anni della rivoluzione, che “quando le donne nel 1979 manifestavano contro l’imposizione del velo erano da sole. Ora la marea è drammaticamente girata”. E poi Hakakian argomenta: “Gli uomini riconoscono la leadership delle donne e sono dalla loro parte. È chiaro che i manifestanti hanno forgiato un’identità collettiva, che è contraria a quella del regime. E contrastano la misoginia dei mullah con un egalitarismo senza precedenti”. Tendiamo ad avere grande considerazione della solidità dei regimi, non rendendoci conto di quanto dalle loro azioni traspiri la paura e l’angoscia per il futuro. Li riteniamo compatti, granitici, anche quando, come è appena successo in Iran, non c’è nessuno che sappia spiegare se la polizia morale sia sciolta o no, o peggio - come in una commedia surreale - se esista qualche Ente superiore (ma chi?) che abbia il potere di dissolverla. In realtà, come scrivono gli studiosi più aggiornati dei sistemi autoritari, come Timothy D. Snyder, i Paesi autocratici non operano come un blocco, ma come un agglomerato. Anne Applebaum li chiama l’Autocracy Inc., cioè società per azioni. Garantiscono denaro e sicurezza ai loro membri, ma anche qualcosa di più prezioso: l’impunità. Sono agglomerati che si sostengono verso l’interno e verso l’esterno: l’Iran è il primo alleato di Putin nella guerra contro Zelensky, il fornitore dei micidiali droni Shahed. Ma se la lezione ucraina dimostra qualcosa, è che - in controluce - il blocco democratico può trovare modi di coordinarsi ben più efficaci. Che fare, allora, per l’Iran? Innanzitutto, non è vero che nulla serva o nulla conti. Anche in Italia, per esempio, potrebbe essere approvata una risoluzione (il parlamento francese e quello olandese lo hanno già fatto) con cui i pasdaran vengano dichiarati un gruppo terroristico e si chieda l’espulsione dell’Iran dalla Commissione Onu per i diritti delle donne (dove la Repubblica Islamica siede, chissà per proteggere quali diritti). Prima ancora bisogna difendere e comprendere il valore della parola: capire il suo ruolo riparatorio, e il manto protettivo che può stendere - come un potere magico - contro l’abuso più stritolante e la violenza fisica, semplicemente svelandoli. Quando i grandi avvocati per i diritti umani dell’Iran, donne straordinarie come la Nobel Shirin Ebadi o Nasrin Sotoudeh, finiscono in carcere ad Evin, o difendono i loro assistiti che in quella terribile prigione sono stati rinchiusi, chiedono alle redazioni dei giornali occidentali una sola cosa: “Scrivete la loro storia, perché gli salverete la vita”. Per Václav Havel e i più coraggiosi dissidenti dell’Est europeo, il potere dei senza-potere era proprio nella parola (finché nel 1989, usandola come un cuneo nel Muro, sono riusciti a fare la rivoluzione). All’opposto, il silenzio permette di nascondere la più feroce determinazione di ogni regime. Ben deciso, come quello iraniano, a preservarsi. Iran. Nasrin Sotoudeh: “La rivolta è irreversibile, gli iraniani sono stufi dei dogmi di un’oligarchia” di Simona Musco Il Dubbio, 9 dicembre 2022 Parla l’avvocata per i diritti umani condannata a 38 anni di carcere e 148 frustate: “Il mondo non può sedersi a negoziare con la Repubblica islamica, ignorando le sofferenze del popolo iraniano”. Donna, avvocata e coraggiosa come pochi. Nasrin Sotoudeh, attivista iraniana condannata a 38 anni di carcere e 148 frustate per aver difeso le ragazze della via della Rivoluzione, salite su dei cubi di cemento in segno di protesta togliendosi il velo, parla dalla sua casa a Teheran, dove si trova da metà novembre grazie ad un congedo sanitario. Una “concessione” che è frutto dell’attenzione internazionale sul suo caso e neanche lontanamente sintomo di uno Stato di diritto, in un Paese dove violenze e vessazioni sono all’ordine del giorno e dove i diritti umani sono solo un miraggio. E pur rischiando di subire nuove brutalità, non rinuncia a raccontarci la battaglia del suo popolo e quanto sia importante il coraggio di donne e uomini scesi in strada con lo slogan “Donna, Vita e Libertà” per protestare contro il regime. “La pace e la sicurezza del mondo si basano esplicitamente sul rispetto per i diritti umani - ci ha raccontato -. Il mondo non può sedersi a negoziare con la Repubblica islamica, ignorando le sofferenze del popolo iraniano”. Lei si trova in permesso sanitario da metà novembre, dopo aver trascorso diverso tempo in carcere a seguito di una condanna iniqua. Quali sono, attualmente, le sue condizioni di salute? Al momento, la mia salute fisica non è male. In verità, i 16 mesi in cui sono stata fuori di prigione hanno favorito il mio recupero. Ma vedere le condizioni in cui versa il mio Paese è insopportabile per me. Condizioni che, come vedete, hanno portato alla morte dei nostri giovani per qualcosa di veramente insignificante come il velo, per poi vederli ancora una volta uccisi e gettati in prigione per essersi sostenuti a vicenda, che è un naturale impulso umano. L’ondata di violenze non accenna ad arrestarsi, poiché i vuoti legislativi nel diritto internazionale permettono ai governi di chiudere un occhio sulle violazioni dei diritti umani in ogni angolo del mondo e a un governo di continuare in maniera spudorata a violare i diritti umani impunemente. Questo permesso fa spesso il paio col silenzio o la negligenza rispetto alle azioni di tali governi, ma il vero incubo che si abbatte sui cittadini è quando questi vuoti concedono a chi viola i diritti umani opportunità d’investimento che si trasformano nel loro paradiso. Non è forse giunto il momento che i politici siano un po’ più sinceri con la loro gente? Crede che sia possibile prolungare il suo permesso? Sinceramente, riguardo alla proroga del mio congedo, non so se verrà approvata o meno. Comunque, nel corso di questi mesi, il permesso è stato ripetutamente prorogato e le mie condizioni, rispetto l’anno scorso, non sono cambiate. Ma naturalmente tutte le raccomandazioni mediche e le decisioni legate alla proroga sono influenzate da questioni di sicurezza difficili da prevedere. Che situazione ha trovato in prigione? Negli ultimi 12 anni, a causa della mia decisione di rappresentare gli imputati per crimini politici così come le “Girls of Revolution Street” (in protesta per lo hijab obbligatorio), sono stata in prigione per un totale di sei anni, cinque dei quali trascorsi nel carcere di Evin e uno a Qarchak. In entrambe, le condizioni erano disumane. Il regime nella prigione di Evin è di alta sicurezza, il che la rende un ambiente davvero soffocante per i carcerati. Gli inquisitori entravano nel reparto femminile a loro piacimento, convocavano le prigioniere nell’ufficio del reparto e si rivolgevano a loro in tono minaccioso. D’altro canto, le prigioniere spesso s’incontravano con gli inquisitori nella speranza di trovare un modo per essere rilasciate. Ha subito violenze durante la sua detenzione? In carcere ho sperimentato la violenza molte volte. Quando mi rifiutai di partecipare ai processi farsa dei tribunali rivoluzionari, mi portarono in aula con la violenza. Quando mi rifiutai d’indossare il velo per le visite coi miei bambini e indossai gli indumenti carcerari, decisero di sospendere le visite coi miei figli piccoli. Quando hanno preso mio marito, quando hanno preso mia figlia, hanno bloccato i miei conti bancari e quelli di mio marito, o vietato a mia figlia di uscire, e un elenco infinito di altre molestie, tutto aveva le caratteristiche della tortura. Crede che raccontare quanto sta accadendo e continuare a difendere i diritti violati dal regime le si ritorcerà contro una volta che sarà costretta a tornare in carcere. Naturalmente, quando ritornerò in carcere dovrò affrontare tali forme di violenza. In ogni caso, a causa del mancato rinnovo della mia licenza a esercitare la professione di avvocato, non posso difendere i manifestanti in Iran, un fatto che mi addolora. La mia più grande preoccupazione è l’emissione di condanne a morte nei confronti dei manifestanti in modo illegale e a scopo intimidatorio. Ovunque io sia, la mia priorità assoluta è prevenire l’emissione e l’esecuzione di condanne a morte. Perché ha deciso di non impugnare l’ingiusta sentenza con la quale era stata condannata a una pena assurda e violenta? La ragione per cui non volli impugnare la mia sentenza, che all’epoca prevedeva un totale di 38 anni di carcere e 148 frustate, fu la dimestichezza con le operazioni del tribunale e il completo disprezzo per i giudici rivoluzionari. Non volevo che la mia partecipazione in tribunale e le mie contestazioni legali alle sentenze emesse, con accuse assurde, creassero la percezione che i giudici di questi tribunali si considerassero legittimi. Volevo urlare, il più forte possibile, affinché la mia voce fosse udita da tutti, e smascherare i tribunali rivoluzionari e i loro giudici giurati che farebbero qualsiasi cosa a qualsiasi costo per proteggere il sistema. Naturalmente, come avvocato che rappresenta i prigionieri politici davanti ai tribunali rivoluzionari, non potevo usare un approccio di questo tipo: si trattava di approcci che dovevano scegliere gli stessi imputati. Ma per quanto mi riguarda, ho deciso di procedere in questo modo. Cosa accadrà in futuro? Pensa di poter essere rilasciata, nonostante le pesanti (e false) accuse che le vengono mosse? Considerando che il sistema politico in Iran è una dittatura, che il sistema giudiziario non è indipendente e che nessuno agisce secondo la legge, è difficile per me prevedere cosa succederà col mio caso. Ma una cosa la so: il mondo è cambiato grazie alla disobbedienza civile, e la resistenza opposta da altri prima di noi ci ha dimostrato che questi metodi funzionano; quindi, non c’è motivo per cui non possano servire al nostro scopo. Ho scelto una strada che credo sia quella giusta e quindi, prima di pensare a come il governo potrebbe reagire al mio caso, penso a ciò che devo fare io. Quanto è importante il suo ruolo di avvocato e di donna nella tua battaglia per i diritti? Di sicuro sa che ci sono state altre donne giuriste e avvocate che si sono dedicate all’aggiornamento della giustizia e ai diritti delle donne, tra loro Shireen Ebadi e Mehrangiz Kar, entrambe costrette all’esilio. Ora è il mio turno. Credo che la conseguenza più importante della presenza di donne specializzate in campi come la sociologia, legge, economia, medicina e altri ancora, in realtà più di ogni altra cosa, sia lo sbarazzarsi di quella fantasia che la donna valga la metà di un uomo. Gli sforzi di tutti i giuristi, donne o uomini che siano, sono incentrati sull’uguaglianza dei diritti, a prescindere da sesso, razza, etnia e lingua. La realizzazione di questi valori richiede un sistema giudiziario con avvocati indipendenti e giudici neutrali. Credo che alcuni legali siano stati capaci di onorare il proprio ruolo di figure indipendenti e non arrendersi di fronte alla paura e alle minacce. Ma in tutti questi anni, i nostri sforzi per istituire un sistema giudiziario sano e neutrale non hanno prodotto i risultati desiderati. In che condizione lavorano gli avvocati nel suo Paese? Gli avvocati in Iran devono affrontare molti pericoli, pericoli che spesso li conducono all’arresto. Nelle recenti proteste, non appena gli avvocati si fanno avanti per rappresentare un cliente, vengono arrestati insieme a quest’ultimo. In Iran è in corso una battaglia per i diritti: ci sono differenze con le proteste che si sono tenute in passato? Credo che questa volta ci sia una volontà nazionale di cambiare il regime, una situazione che non è in alcun modo reversibile. Una protesta che nasce dall’esperienza vissuta dal popolo iraniano, dalla pressione quotidiana, che ha radici profonde. Gli iraniani stanno combattendo per poter vivere una vita normale, l’hijab obbligatorio è solo un aspetto di questa battaglia. Allo stesso modo, ci opponiamo alle esecuzioni capitali, a un sistema giudiziario ingiusto, al potere illimitato e incontrollato delle guardie rivoluzionarie che, come forza armata, intervengono in tutte le questioni, dall’economia all’ambiente, e alle condanne nei confronti dei ragazzi più brillanti di questo Paese a “corruzione in Terra” (ndr: traduzione letterale di “mofsed-e-filarz”, titolo per i crimini capitali in Iran o per coloro che li perpetrano) che li sottopongono a lunghe pene detentive. Noi protestiamo contro tutto questo. Non vogliamo che i nostri stili di vita siano determinati dagli interessi dogmatici e predatori di una ristretta fazione della società. Quali sono le sue maggiori preoccupazioni riguardo alle proteste? E quale appello rivolge alle istituzioni internazionali per aiutare il suo popolo a far valere i propri diritti? La mia più grande preoccupazione per questa rivolta sarebbe la disintegrazione dell’Iran, della quale non vediamo alcuna traccia, ma alcuni di noi, pur comprendendo il linguaggio della protesta e come il Paese sia stufo di tutte queste pressioni, sono concentrati e sensibili all’integrità territoriale della nazione e la proteggono. La mia seconda preoccupazione è che se mai arriverà il giorno in cui il governo iraniano si dichiarerà pronto per i negoziati sul nucleare, il mondo si dimenticherà ancora una volta di tutta la nostra sofferenza e si siederà a negoziare con l’Iran. In merito a queste difficoltà, posso dire che se guardiamo alla Carta delle Nazioni unite e alla Dichiarazione universale dei diritti umani, due documenti emanati dopo la Seconda guerra mondiale con il consenso della comunità internazionale, la pace e la sicurezza del mondo si basano esplicitamente sul rispetto per i diritti umani. Il mondo non può sedersi a negoziare con la Repubblica islamica, ignorando le sofferenze del popolo iraniano. Russia. Mosca rilascia Brittney Griner dopo 294 giorni di carcere di Marina Catucci Il Manifesto, 9 dicembre 2022 Scambio di prigionieri con gli Usa, la cestista in cambio del contrabbandiere russo Viktor Bout. 294 giorni dopo l’inizio della sua detenzione in Russia, la campionessa americana di basket Brittney Griner è stata liberata, in uno scambio di prigionieri con il trafficante d’armi russo Viktor Bout, a sua volta detenuto negli Usa da 10 anni dopo una travagliata estradizione dalla Thailandia. Il 17 febbraio, durante un controllo all’aeroporto di Mosca, nel bagaglio di Griner era stato trovato dell’olio di cannabis e l’atleta era stata condannata a 9 anni di carcere per possesso e contrabbando di droga, dopo che lei stessa si era dichiarata colpevole, specificando di avere il permesso per usare la cannabis a scopo terapeutico. Campionessa delle Phoenix Mercury, Wnba nel 2014 e 2 volte oro olimpico con Team Usa, da mesi Griner era al centro di un’intensa attività diplomatica del governo americano con la controparte russa. Tre settimane fa la pena di Griner era stata intensificata ed era stata trasferita nella colonia penale femminile IK-2 di Yavas in Mordovia, la stessa regione dove è ancora detenuto Paul Whelan, l’ex marine arrestato a Mosca nel dicembre 2018 e condannato a 16 anni per spionaggio. Di un possibile scambio tra Griner e Bout si era già parlato questa estate, e la Casa bianca aveva chiesto il silenzio stampa, in modo da non compromettere la trattativa. Ieri questo scambio è realmente avvenuto e si è svolto all’aeroporto di Abu Dhabi. Ad accreditarsi il merito della mediazione sono stati, in una nota congiunta, sia gli Emirati Arabi Uniti che l’Arabia Saudita, sottolineando i buoni rapporti che entrambi i governi riescono a mantenere tanto con gli Usa che con la Federazione Russa. Nella sua dichiarazione però la Casa bianca ha citato solo gli Emirati Arabi Uniti, e Biden si è concentrato più che altro sul dare la notizia. Su Twitter il presidente ha scritto di aver sentito Griner al telefono e di attendere il suo ritorno a breve, accompagnando il tweet con una sua foto insieme alla moglie dell’atleta, Cherelle, che in questi mesi si era detta fortemente preoccupata per la salute fisica e mentale della compagna, e aveva più volte dichiarato che la pena inflitta a Brittney era “politica”, derivata dalle tensioni tra Russia e Stati Uniti. “Questo è un giorno per il quale abbiamo lavorato a lungo - ha detto Biden durante la conferenza stampa per l’annuncio del rilascio di Griner - Non abbiamo mai smesso di spingere per la sua liberazione. Ci sono volute trattative scrupolose e intense. Le persone di questo Paese hanno imparato a conoscere la storia di Brittney e so che per tanti di voi è importante sapere che ora lei è di nuovo qui”. “Mi aveva scritto ad agosto pregandomi di non dimenticarci di lei. Non lo abbiamo fatto”. “Oggi la mia famiglia è di nuovo al completo - ha aggiunto Cherelle Griner - ma ce ne sono tante altre in attesa di tornare unite”. In Russia la madre di Viktor Bout, Raisa Bout, ha invece ringraziato Putin ma si è detta anche grata per “le persone gentili negli Usa” che hanno liberato il figlio: “Non si può dire che siano tutti malvagi”. Durante la conferenza Biden ha sottolineato: “Non ci siamo dimenticati di Paul Whelan. Continueremo a negoziare per il suo rilascio. Lo garantisco ai suoi familiari”. Questa negoziazione, però, sembra ancora più complicata: Mosca considera il caso Whelan differente da quello di Griner. Come ha spiegato un membro dell’amministrazione Biden alla Nbc, i russi “stanno trattando Whelan in maniera diversa. Ripetono che è un caso di spionaggio e che la scelta era tra la liberazione di Griner o nessuna”.