Nordio fra i detenuti a San Vittore: “Migliorerò il carcere con arte e lavoro” di Mario Consani Il Giorno, 8 dicembre 2022 Il neoministro della Giustizia arriva per assistere alla proiezione dell’opera seduto in prima fila. Dopo un saluto a Letizia Moratti, candidata del Terzo polo, parla delle condizioni dietro le sbarre. “Il carcere è un luogo di dolore. Sono venuto qui tante volte quando esercitavo le funzioni di procuratore, e ogni volta che entravo in un carcere sentivo l’angoscia della limitazione della libertà” racconta al gruppetto di detenuti che lo ascolta in religioso silenzio. Quest’anno, non c’è dubbio, il vero protagonista della Prima vista dalla rotonda di San Vittore non è Boris Godunov ma il neo ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Arriva quando persino Bruno Vespa, dal maxi schermo, si è zittito perché l’opera sta per iniziare e si accomoda ovviamente in prima fila, dopo un veloce saluto a Letizia Moratti, altra presenza appena più defilata. Il ministro prenderà poi il microfono durante l’intervallo, e infine dopo un breve colloquio con la candidata alla Regione per Calenda & Renzi, entrambi lasceranno il carcere prima del secondo tempo, forse per non assistere ai sanguinosi deliri dello zar. Prima di salutare, però, il nuovo responsabile della Giustizia assicura che farà di tutto “per migliorare la situazione della polizia penitenziaria e di chi versa in questa situazione di dolore”. Anche se il compito non sarà facile, ammette, “perché le risorse a disposizione sono poche, e ci stiamo battendo perché i tagli al bilancio siano ridotti” e le risorse aumentate. Ma non c’è da temere che il governo voglia annacquare la riforma Cartabia. “Noi siamo molto attenti alla giustizia riparativa - spiega Nordio - la pena non è e non può essere solo sofferenza ed espiazione ma, come suggeriscono l’etica, la Costituzione, la cristianità e la convenienza, deve mirare a reinserire chi sta espiando la sanzione e, nei limiti del possibile, renderlo migliore. Questo si può fare con il lavoro e con l’arte”. L’arte c’entra perché lungo il corridoio del carcere Nordio ha visto esposti quadri di vari artisti che hanno dato vita ad “Accademia in carcere” un workshop tra detenuti, agenti di polizia penitenziaria, allievi e docenti della Milano Painting Academy a cura di Angelo Crespi. “È difficile parlare di arte quando si è tra le sbarre - ammette il ministro - ma è importante sapere che anche chi controlla questa situazione dal ministero non è vostro nemico ma cerca di migliorare la vostra situazione nell’interesse di tutti”. Nordio a parte, introdotto e presentato dal padrone di casa Giacinto Siciliano, il direttore di San Vittore, quest’anno presenze “esterne” in calo e limitate per lo più agli habitué come la presidente del tribunale di sorveglianza Giovanna Di Rosa, alcuni avvocati tra cui la vice presidente della camera penale milanese Valentina Alberta, qualche magistrato, pochi giornalisti. Una cinquantina i detenuti (3-4 donne) seduti in rotonda con gli occhi al maxi schermo. Se un anno fa i presenti si erano spellati le mani al solo apparire del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, stavolta l’applauso scatta un po’ in ritardo, dopo l’inquadratura tivù della senatrice a vita Liliana Segre che dal palco a sua volta sta applaudendo. Poi tutti in piedi per gli inni, quest’anno c’è anche quello d’Europa sotto gli occhi della presidente Ursula von der Leyen. Alla fine dell’opera, applausi convinti. “Nei giorni scorsi il direttore scientifico della Scala è venuto in carcere a raccontare la storia di Boris Godunov atto per atto, spiegando il contesto e aiutandosi anche con le immagini. Non è facile da capire un’opera di questo genere” racconta l’educatrice Laura Formigoni. Ma per chi è costretto in cella, è pur sempre un diversivo formidabile. Per Nordio percorso a ostacoli. Ok il miglioramento delle carceri, ma ci vogliono i soldi di Massimo Solari Italia Oggi, 8 dicembre 2022 Il guardasigilli Carlo Nordio ha preannunciato le linee guida della sua riforma della giustizia. L’idea di intervenire sul sistema carcerario non può che essere encomiabile: da anni è evidente la loro spaventosa situazione tra sovraffollamento, carenza di personale ed eccessivo numero di suicidi. Il problema è che riformare le carceri costa molto e porta pochi voti. Vedremo se l’intenzione del ministro riuscirà a realizzarsi, anche perché proporre nuove depenalizzazioni andrebbe nella direzione inversa rispetto alle idee del governo Meloni. La separazione delle carriere, purtroppo, è una pia illusione. Certo, dipende da come Nordio vorrà declinarla e che risultati si aspetta. I motivi principali che militano a favore della separazione delle carriere sono la abbastanza evidente dipendenza dei giudici dai pubblici ministeri, a svantaggio della difesa. Se nel nostro sistema processuale le due parti - (accusa e difesa) devono essere sullo stesso piano (uguali per dignità, differenti per funzioni), dice Nordio, che i pm siano parte dello stesso sistema dei giudici è inaccettabile. L’altro motivo è l’eccessivo scambio di ruoli tra pm e giudici. Nordio afferma che le due funzioni sono talmente differenti che questa commistione non ha senso. Ma se anche le carriere verranno divise, anche se dovessero formarsi addirittura due Csm, uno per le procure e uno per i giudici, se anche facessimo studiare i pm in Svizzera in modo che i due settori non si potessero incontrare neppure all’università, il rapporto privilegiato tra giudici e Pm non verrebbe scalfito. Per una serie di motivi strutturali di tutta evidenza. Spesso per il giudice (non tutti, non bisogna generalizzare) il difensore è un impiccio: solleva eccezioni che ritardano il processo, mette in discussione l’impianto accusatorio, ha spesso rapporti di amicizia e comunque di simpatia umana con l’imputato che lo portano a difenderlo anche contro l’evidenza. In più, secondo alcuni magistrati, il difensore è comunque portatore di un interesse personale (economico) nel processo. Invece il pm è solo portatore dell’interesse pubblico a far trionfare la giustizia. In sostanza, il pm rappresenta l’Ordine e l’avvocato difensore rappresenta il Disordine e l’Anarchia. Ma esistono anche giudici che arrivano al processo con la mente completamente libera da ogni pregiudizio e giudicano “iuxta alligata et probata”, cioè sulla base delle prove e dei documenti, senza lasciarsi influenzare dall’accusa e dalla difesa. Se il passaggio di un bravo pubblico ministero al settore giudicante può essere positivo, perché avrà appreso come si svolgono le indagini e qual è l’ambiente nel quale è nato il delitto, il passaggio di un bravo giudice dalla giudicante alla Procura dovrebbe essere altrettanto positivo: è portatore della cultura del contraddittorio e sarà più garantista. Sulle intercettazioni le opinioni divergono: c’è chi afferma (come il Guardasigilli) che l’Italia spende troppo in intercettazioni e chi dice che siamo in linea con il resto dell’Europa. Il grave difetto delle intercettazioni, sempre secondo Nordio, è che spesso infangano persone estranee all’inchiesta e che sono pubblicate sui giornali senza nessun rispetto per la privacy e la loro onorabilità. Va ricordato che, diversamente da molti paesi europei, qualunque intercettazione deve essere autorizzata da un giudice, il Gip, che non fa parte della Procura. Di conseguenza abbiamo già un controllo di merito che dovrebbe garantire tutti, e abbiamo norme che puniscono la pubblicazione di intercettazioni che possano ledere l’onorabilità di terzi estranei, mentre quando riguardano gli indagati prevale - com’è ovvio - il diritto di cronaca. Nonostante provenga dalle file della magistratura, quello di Nordio sarà un percorso a ostacoli. La rivolta delle toghe contro la riforma Nordio su intercettazioni e pm di Liana Milella La Repubblica, 8 dicembre 2022 Dopo il Senato, il Guardasigilli alla Camera difende la sua proposta: “Più limiti o mi dimetto”. E sugli ascolti insiste: “Diffonderli è una porcheria”. La Anm: “La legge che li regola c’è già”. Chat dei magistrati bollenti contro il loro ormai ex collega Carlo Nordio. Che vuole demolire l’assetto costituzionale della magistratura. Messaggi e scambi di battute al vetriolo che attraversano tutte le toghe, da destra a sinistra. Perché la sola idea che vengano separate le carriere dei giudici e dei pm, che si chiuda per sempre la stagione dell’obbligatorietà dell’azione penale, che nasca un’Alta corte disciplinare irrita profondamente una magistratura che già era stata critica con le riforme della ex Guardasigilli Marta Cartabia, soprattutto quando ha ridotto i passaggi da pm a giudice, e viceversa, a uno solo. La protesta corre dalla mattina, prim’ancora che Nordio approdi alla Camera per il secondo tempo delle sue prime audizioni istituzionali. Martedì il Senato. Ieri la Camera. Ma il filo rosso è lo stesso. Identiche le bacchettate ai magistrati. Colpevoli di non rispettare la legge sulla presunzione d’innocenza e di utilizzare in maniera disinvolta le intercettazioni, diffondendone il contenuto. E qui tocca al presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia mettere allo scoperto il pieno disagio: “Ho trovato le sue parole dure e ingenerose. A noi non piace intercettare la gente, violare la privacy e la riservatezza delle persone, ma come lo rompi il patto tra corruttore e corrotto?”. E poi una bacchettata d’incompetenza: “C’è stata la riforma del ministro Andrea Orlando per evitare la diffusione indebita delle intercettazioni: perché il ministro, prima di mettere qualcuno sul banco degli imputati, non va a vedere se la legge ha prodotto effetti positivi o no?”. Ricordate l’armadio blindato la cui chiave è solo in mano al capo della procura? E la distinzione tra intercettazioni “rilevanti e irrilevanti”, queste ultime destinate a finire nell’armadio segreto? Per la seconda volta in pochi giorni Nordio “toppa” su una legge. S’era scordato la Spazzacorrotti sui corrotti pentiti, e Raffaele Cantone gliel’ha ricordata. Adesso glissa sulla stretta di Orlando che pure ha tenuto banco a lungo sui giornali. Ma non manca di autocitarsi: “Nell’indagine sul Mose c’erano migliaia di intercettazioni, ma non è uscita una parola sui giornali. Se avviene vuol dire che c’è una culpa in vigilando”. E proprio sul suo essere una ex toga provoca le reazioni più critiche. L’ironia si mescola alle accuse. Perché tra gli ex colleghi nessuno si meraviglia che Nordio sostenga queste idee: “Ma ve lo ricordate Nordio quando era magistrato? È una vita che dice le stesse cose con l’obiettivo di diventare ministro, cose che piacciono a una certa politica che attacca noi magistrati e ci accusa di fare inchieste pilotate”. La protesta si accentua dopo la nuova esternazione di Nordio alla Camera. Che certo non fa sconti ai suoi ex colleghi. “Fa il primo della classe, ma ve le ricordate le sue inchieste? Migliaia di intercettazioni per il Mose”. E ancora. “Inchieste che duravano anni e non finivano mai. E adesso vuole smontare il nostro lavoro”. Ma c’è pure chi sminuisce le sue parole: “Non è mai stato un gran lavoratore, parla ma non porterà a casa nulla”. Certo Nordio sulle intercettazioni non si risparmia. Alza la voce su registrazioni “arbitrariamente” diffuse che avrebbero fatto morire suoi amici. Li elenca, Loris D’Ambrosio “deceduto di crepacuore”, Ciccio Misiani idem, Michele Coiro “annichilito dai pettegolezzi”. Storie diverse e complesse, che di certo non possono risolversi in poche righe. Ma lui non fa marcia indietro quando parla “della porcheria di una diffusione pilotata e arbitraria”. E ancora: “Questa è una deviazione dai principi minimi di civiltà giuridica sulla quale questo ministro è disposto a battersi fino alle dimissioni”. Il centrodestra lo applaude. I magistrati sono convinti che in via Arenula sia arrivato il loro peggiore nemico. Ma c’è chi ironizza sulla sua capacità di lavoro: “Vedrai che anche da lì si dedicherà soprattutto a scrivere altri libri”. Nordio: “Intercettazioni, pronto a battermi fino alle dimissioni” di Valentina Stella Il Dubbio, 8 dicembre 2022 “Non è vero che ho accusato i pm, ma c’è stato un difetto di vigilanza”. Il guardasigilli replica alle critiche sul piano per la giustizia illustrato ieri in Senato. Ha sbagliato chi ha pensato che il Ministro Nordio sarebbe andato in Commissione Giustizia della Camera a ripetere solo ciò che aveva illustrato il giorno prima in Senato. Perché, dopo aver letto la rassegna stampa del mattino con i bilanci positivi e negativi sul suo programma di Governo, ha approfittato per replicare ad alcune critiche. Partendo dal dire che “un altro elemento che ha vulnerato la presunzione di innocenza è stato l’uso strumentale dell”informazione di garanzia’ che come disse Flick è diventata ‘garanzia di informazione’”, si è poi largamente soffermato sul tema delle intercettazioni. “Non è vero che ho accusato i pm di aver diffuso le intercettazioni” ma “c’è stato un difetto di vigilanza”, “quando, usando questo strumento delicatissimo che vulnera, non vigili abbastanza per evitare che persone, che non c’entrano nulla con le indagini, vengano delegittimate”. “Il vulnus non ha colpito solo politici, ministri e amministratori, ma anche magistrati. Oggi ho letto sempre con interesse e grande rispetto il fondo di un importante giornale dove sono stato paragonato a Nerone (Repubblica, Carlo Bonini: Un Nerone si aggira a Palazzo Madama, ndr). Quello stesso giornalista - old men forget dice Shakespeare ma io non dimentico - 25 anni fa pubblicò il libro ‘La toga rossa’ dedicato ad un magistrato che io conoscevo, Ciccio Misiani, tra l’altro fondatore di Magistratura Democratica, quindi non un estremista di destra, che fu letteralmente schiacciato da una indagine illegittima. Un maresciallo di polizia aveva origliato una conversazione da un tavolo all’altro tra Misiani e un’altra persona e aveva trascritto su un tovagliolo le conversazioni. Sono finite negli atti giudiziari e sono state spacciate e contrabbandate come intercettazioni”. “Il povero Misiani è morto di crepacuore - ha ricordato Nordio - Vorrei anche ricordare Michele Coiro, altro esponente importante di MD che è stato annichilito da tutta una serie di pettegolezzi sul suo conto. Vorrei ricordare la ministra Guidi, sulla quale sono state diffuse delle assurdità che hanno vulnerato il suo onore e ne hanno determinato le dimissioni. E vorrei ricordare alla fine il mio amico Loris D’Ambrosio, magistrato importante, consigliere del Presidente della Repubblica, deceduto anche lui di crepacuore forse perché coinvolto in questa porcheria di diffusione pilotata e arbitraria di intercettazioni”. “Questa - ha detto Nordio con tono severo - non è civiltà, questa non è libertà, questa è una deviazione dei principi minimi di civiltà giuridica per la quale questo ministro è disposto a battersi fino alle dimissioni”. Infine l’omaggio all’avvocatura: “La giurisdizione ha tre gambe: il giudice, il pm ma anche l’avvocato…”. Giustizia: ricetta Nordio, boomerang sulle intercettazioni di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 8 dicembre 2022 Il ministro propone di usare le preventive “curate dalla polizia con l’avallo del magistrato, segretissime e solo spunto d’indagine”, ma salta il vaglio dei magistrati e la conoscenza dell’imputato che gli consente di difendersi. Non ho mai detto che le intercettazioni devono essere eliminate, ma che vanno regolamentate”, cerca ieri di spiegarsi alla Camera il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, anzi “a me piace mettere sotto controllo chiunque, anche il mio telefono, ma non é tollerabile finiscano sui giornali e distruggano la reputazione delle persone. Un rimedio c’è: le intercettazioni preventive, curate dalla polizia con l’avallo del magistrato, segretissime e solo spunto d’indagine”. Sicuri che nel baratto i cittadini ci guadagnino in garanzie e riservatezza? Mentre le intercettazioni giudiziarie sono chieste da un pm in base a precisi parametri di legge, autorizzate dal controllo di un giudice e infine depositate tutte all’imputato per consentirgli di difendersi, le “preventive” caldeggiate invece da Nordio (che non valgono nei processi, non sono menzionabili in atti, vengono distrutte, e restano dunque patrimonio conoscitivo della catena gerarchica della cerchia di “iniziati” a un formidabile serbatoio di potenziali ricatti) hanno due grosse differenze. La prima é la vaghezza del parametro-soglia, “quando siano necessarie per l’acquisizione di notizie concernenti la prevenzione” di taluni delitti: il che di fatto vanifica il vaglio del magistrato chiamato a concederle, peraltro qui non un giudice (come nelle intercettazioni giudiziarie) ma il capo dei pm del distretto. La seconda é che chi sceglie il cittadino-bersaglio da intercettare in via preventiva é il Ministro dell’Interno o su sua delega alcuni vertici di polizie (più la Presidenza del Consiglio solo per quelle dei servizi segreti per “sicurezza nazionale”). Dunque é il governo. Oggi le preventive sono poche centinaia l’anno: praticarle su larga scala, addirittura sempre, farebbe andare il pensiero ben poco ai “fari” dell’Illuminismo sempre evocati dal ministro, e molto più a quei giuristi che anni fa già vi coglievano “la regressione della procedura penale ad arnese poliziesco (sia pure tecnologico)”. Intercettazioni. Anche il quarto potere è un potere di Michele Serra La Repubblica, 8 dicembre 2022 Sarebbe bene che sulla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche, spesso di persone non indagate, anche il mondo del giornalismo discutesse con la stessa franchezza del ministro Nordio, che le definisce “una porcheria”. Personalmente tendo a dare ragione al ministro. Ma capisco che il giornalismo d’inchiesta abbia le sue brave riserve da esprimere. Proprio per questo (perché la questione è seria, e rilevante) sarebbe importante non dare per scontata una pratica carica di evidenti e violenti effetti collaterali, con pesanti conseguenze sui diritti della persona. Per giustificarla, per considerarla etica e per considerarla utile, bisogna avere solidissime ragioni, e motivarle bene, in modo che sia chiaro a tutti perché la chiacchierata tra Tizio e Caio è di stringente interesse pubblico. Altrimenti il sospetto è che si tratti solo di una comodità professionale alla quale si ricorre perché, come dire, l’articolo è già scritto, basta ricopiare le carte giudiziarie. L’appiattimento di molti media (carta, televisione, web) sul lavoro inquirente è, da un certo punto di vista, inevitabile: se il lavoro del giornalismo dev’essere di scavo e di denuncia, è inevitabile il rischio di accanimento contro chi è indagato, e tutto ciò che gli sta attorno. Di qui a giustificare come un “diritto professionale” lo sputtanamento indiscriminato e leggero degli esseri umani, ce ne corre. È la stessa distanza che corre tra il dubbio e la spocchia. E riguarda nello stesso preciso modo magistrati, avvocati e giornalisti. Categorie di potere che tendono a non riflettere mai abbastanza sul proprio. Nello Rossi: Nordio cerca la rissa, la magistratura non cada nella trappola di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 8 dicembre 2022 Nello Rossi, ex giudice di Cassazione e direttore di Questione giustizia, la rivista di Md, lei ha una lunga esperienza in magistratura ed è stato tra l’altro segretario dell’Associazione nazionale magistrati e consigliere del Csm. A suo giudizio bisogna preoccuparsi delle intenzioni del ministro della giustizia Nordio? O bisogna preoccuparsi di più del fatto che siano sono solo intenzioni, di difficile realizzazione considerate le reali inclinazioni della maggioranza di governo? Ho trovati sconcertanti soprattutto il tono e lo stile con cui è stato enunciato il “vastissimo” programma riformatore del neo ministro. Leggendo le sue dichiarazioni si ha l’impressione che Carlo Nordio non abbia ancora dismesso i panni dell’editorialista indossati negli ultimi anni e che sia convinto che un mix di giudizi tranchant, qualche brillante paradosso, alcune antiche verità e molti luoghi comuni possa bastare a dar vita ad un programma politico valido e realistico per la giustizia. Non è così e l’approccio di Nordio lo separa dalla parte migliore della magistratura e della cultura giuridica che non vuole rimanere stretta nella tenaglia tra l’atteggiamento fortemente polemico del neo ministro e una reazione di segno eguale e contrario che contrasti in toto la sua politica, coinvolgendo nel giudizio negativo anche i suoi tratti di garantismo. Il punto è che magistrati e giuristi non vogliono essere ridotti a tifoserie e se i giocatori in campo non ecciteranno gli animi con atteggiamenti eclatanti sarà un guadagno per una seria politica della giustizia. Sulle intercettazioni, Nordio non ha ragione a parlare di abusi e a promettere rigore nel perseguire la fuga di notizie? L’esperienza dimostra che le intercettazioni disposte dal giudice come mezzi di ricerca della prova restano uno strumento indispensabile per contrastare le forme più insidiose di criminalità organizzata ed i fatti di corruzione. A meno che il ministro non nutra troppa e sconsiderata fiducia nella sua proposta di impunità (assoluta?) per il corruttore che denuncia il corrotto o viceversa. Per altro verso si deve certamente rafforzare ulteriormente la tutela della riservatezza degli intercettati. Ma su questo terreno si sono fatti progressi e processi che Nordio dovrebbe conoscere. La separazione delle carriere tra giudici e pm può essere una battaglia garantista? Oggi sono molti i pubblici ministeri che interpretano il loro ruolo in termini garantisti. Temo che la separazione del pubblico ministero dal giudice e dalla sua cultura favorirebbe la prevalenza, in particolare tra i giovani, di un altro modello professionale più vicino alla cultura delle forze di polizia. Senza considerare che al primo contrasto con la politica, sarebbe fortissima la tentazione - e più agevole la strada - per ricondurre questo corpo di duemila samurai senza padrone nella sfera della responsabilità dell’esecutivo. Ma è possibile riconoscere una patente di garantismo al ministro? Nelle dichiarazioni di esordio del ministro c’è di tutto. E quindi, accanto a intollerabili semplificazioni e artifici polemici, anche intenti e progetti lodevoli e condivisibili come quelli sul carcere, sulla depenalizzazione, sulla politica della pena. Osservo solo che alla prima prova concreta, il decreto sui rave, Nordio si era espresso in senso adesivo sia sull’introduzione del nuovo reato, sia sull’alto livello delle pene previste, sia sul possibile ricorso alle intercettazioni. Con buona pace delle sue affermazioni di principio e senza nessuna osservazione critica o perplessa sul ruolo assunto in ambito penale dal ministro dell’interno. “L’obbligatorietà dell’azione penale è diventata arbitrio”, dice Nordio. L’Anm reagisce alzando un muro e gridando all’attentato. Non è un tema che andrebbe affrontato? Ancora una volta Nordio parla come se si fosse all’alba del mondo. Ricordo che la recente riforma della giustizia penale ha previsto che sia “Il parlamento con legge” a determinare i criteri generali di esercizio dell’azione penale e che nell’ambito di tale legge cornice siano gli uffici di procura ad individuare gli specifici criteri di priorità. È stata dunque tracciata la strada per un esercizio responsabile e trasparente della discrezionalità del pubblico ministero da attuare in termini compatibili con il dettato costituzionale. Per il resto è meglio sorvolare sulla disinvoltura con cui il ministro parla della Costituzione repubblicana e sulla grossolanità con cui rappresenta i pubblici ministeri come un corpo di pubblici ufficiali propensi a deviazioni ed abusi. Nordio dice di voler togliere il giudizio disciplinare “alle correnti” e dunque al Csm. Cosa c’è di sbagliato in questa intenzione? Anche alla luce della prima prova della nuova legge elettorale per la componente togata... È una proposta non nuova, del resto nessuna delle proposte di Nordio lo è, a suo tempo formulata da Luciano Violante. Se ne può discutere senza pregiudizi soprattutto dopo l’introduzione del codice disciplinare dei magistrati. Naturalmente se si vorrà perseguirla occorrerà cambiare la Costituzione, il che per il ministro non sembra essere un problema. La maggioranza ha votato per togliere i reati contro la pubblica amministrazione dalla lista degli ostativi. Il ministro immagina la non punibilità del corruttore che confessa (misura, entro certi limiti, già prevista). C’è poi l’annuncio di un’ennesima riforma dell’abuso d’ufficio. Lei come valuta i propositi sulla lotta alla corruzione? Su questo come su altri terreni occorrerà aspettare che il magma fluido delle dichiarazioni di Nordio, nel quale le contraddizioni tendono ad essere occultate, si solidifichi negli stampi di iniziative legislative ed amministrative. Per ora abbiamo ascoltato solo il Nordio pubblicista immaginifico e torrenziale. Aspettiamo ancora il ministro serio e responsabile. Le procure insorgono: segno che la strada è giusta di Tiziana Maiolo Il Riformista, 8 dicembre 2022 L’Anm, Caselli e altri attaccano il Guardasigilli che vuol limitare le intercettazioni ed è intenzionato a separare le carriere di giudici e accusatori. Non se lo aspettavano, che dal bozzolo sarebbe uscita la farfalla. Nella prima riunione del Consiglio di ministri, il neo-guardasigilli Carlo Nordio pareva chiuso in se stesso, passivo, mentre si decidevano cose - il rinvio della riforma Cartabia, il peggioramento della norma sull’ergastolo ostativo, un decreto frettoloso e male scritto sui rave party - che rappresentavano il contrario di quel che lui negli anni aveva detto e scritto. Si erano rilassati, dalle toghe militanti fino all’avvocato del popolo che sta girando l’Italia, soprattutto del sud, per difendere lo stipendio di Stato a chi non lavora, e anche il suo quotidiano di partito. Ma è stata sufficiente un’audizione in commissione Giustizia del Senato perché saltasse per aria il tavolo del conformismo giudiziario, appiattito da trent’anni sulla sub-cultura di Mani Pulite, nonostante gli sforzi di tanti ministri, ultima Marta Cartabia. Dal bozzolo in cui stava rinchiusa quel 31 ottobre è uscita poco più di un mese dopo la farfalla-Nordio con il suo programma, i suoi cavalli di battaglia, la sua storia. E pareva stesse leggendo uno dei suoi libri, uno dei suoi tanti articoli. Non ha ceduto su nulla. Ha evocato lo spirito di Vassalli e la sua riforma del processo del 1989 con l’introduzione del sistema “tendenzialmente” accusatorio. Ma ha anche annunciato implicitamente che quell’avverbio che aveva denotato un coraggio a metà, andrebbe abolito per sposare il sistema del common law, che prevede la discrezionalità dell’azione penale e la separazione delle carriere fino a portare il pubblico ministero fuori dallo stesso alveo della magistratura. Il giudice e il pm svolgono ruoli diversi, ha detto il guardasigilli, e non possono percorrere la medesima carriera. Facendo insorgere non solo il sindacato delle toghe, ma anche ex procuratori considerati mostri sacri come Giancarlo Caselli e Armando Spataro. Con argomenti, spiace dirlo, molto banali oltre che scontati e un po’ bugiardi. Come si fa infatti a parlare ancora di “cultura della giurisdizione” del pm, dopo i metodi usati dalla Procura di Milano nelle inchieste di Tangentopoli ma anche nel recente processo Eni, o quelle di Nicola Gratteri in Calabria? E vogliamo parlare dell’obbligo per legge del pm di raccogliere anche le prove a favore dell’indagato? Naturalmente il ministro sa bene che questo tipo di riforma, di rilievo costituzionale, può essere solo un programma di legislatura, per i tempi tecnici necessari per cambiare la legge delle leggi. Alla Camera sono già pronte le proposte di partiti di governo sulla separazione delle carriere. Ma intanto sarà il lavoro quotidiano della formichina a decidere se davvero quella di Carlo Nordio, prima di arrivare alla rivoluzione copernicana da lui (e da noi) auspicata, sarà la svolta della giustizia che il Presidente delle Camere Penali Giandomenico Cajazza già vede come l’apertura di una “nuova stagione dopo le storture viste in questi decenni”. La custodia cautelare, non solo in carcere, prima di tutto. E la disciplina sulle intercettazioni con la loro divulgazione, quella che ha fatto venire l’orticaria ieri al sindacato dei magistrati, che si è sentito chiamato in causa da quella battuta su ispezioni ministeriali contro “ogni diffusione impropria”. È vero, come ha ricordato con tono saputello l’Anm, cha esiste già una riforma del 2017 che dovrebbe preservarne la riservatezza, ma è ancor più sacrosanto il fatto che gli atti giudiziari, soprattutto quando riguardano il mondo della politica, sono dei veri colabrodo. E sono armi micidiali contro il principio di non colpevolezza dell’indagato e la sua reputazione. E il pm, che dovrebbe essere il custode sacro della segretezza degli atti, non ne risponde mai quando questa viene violata. E non bisogna dimenticare la necessità di scindere anche la complicità tra magistrati, forze dell’ordine e giornalisti. Ma c’è tutta una lunga meticolosa attività quotidiana di formichina che il ministro di Giustizia, e con lui il Parlamento, può avviare per poi giungere alla rivoluzione copernicana. Due giorni fa nel pomeriggio per esempio, nella stessa giornata in cui i senatori avevano interloquito al mattino con il guardasigilli, la commissione Giustizia di Palazzo Madama aveva approvato un emendamento del capogruppo di Forza Italia Pierantonio Zanettin di modifica della legge “spazzacorrotti” voluta dal ministro grillino Bonafede. Un emendamento che ha sottratto i reati contro la Pubblica amministrazione all’elenco di quelli “ostativi”, che impediscono la possibilità di accedere ai benefici penitenziari, come accade per la mafia e il terrorismo. Un tentativo già portato avanti in aula nella scorsa legislatura, ma con poca fortuna, dal deputato di più Europa Riccardo Magi. Un passo in avanti, per il ripristino della civiltà giuridica, votato anche dal senatore Ivan Scalfarotto di Italia Viva. Naturalmente ci sarà da fare i conti con le contraddizioni sempre più convulse degli esponenti del Pd. Che si sono astenuti, ma che hanno già fatto sapere, dalla voce della responsabile giustizia Russomando, che faranno rientrare negli ostativi l’aggravante associativa. Con il risultato (possibile non lo capiscano?) che il reato associativo sarà contestato più spesso. O qualcuno crede ancora a Babbo natale e all’innocenza di certi pm? Nordio prova a riformare la giustizia come non c’è mai riuscito nessuno. Auguri! di Amedeo La Mattina linkiesta.it, 8 dicembre 2022 Il governo Meloni ci prova, aggiungendo anche la riforma istituzionale, per rinsaldare la maggioranza, tenere aperto il dialogo con il Terzo Polo, dividere l’opposizione e governare cinque anni. Auguri! La riforma della giustizia che il ministro Carlo Nordio ha delineato in Parlamento in questi ultimi due giorni sta agitando i Pm e incentivando Cinquestelle e Partito Democratico a serrare i ranghi. La parte civile della riforma rientra nelle priorità del Pnrr. La riforma del Codice penale ha un risvolto costituzionale che complica il passaggio parlamentare, ma allo stesso tempo crea un’opportunità politica. Sarà una battaglia durissima che il centrodestra storicamente non ha mai vinto, neanche quando Silvio Berlusconi mostrava i denti contro le toghe rosse e caricava come un ariete. A questo giro, con la destra meloniana trainante e i leghisti senza forca, ha buone possibilità di farcela. Su questo terreno, e non solo, la maggioranza non ha avversari coesi, mentre sulla carta potrebbe contare sui voti del Terzo Polo. Una strada pericolosa che Carlo Calenda e Matteo Renzi potrebbero attraversare, bruciandosi i ponti alle spalle con gli altri oppositori e aiutando Giorgia Meloni a realizzare un progetto più complessivo che non si limita alla giustizia.  È un passaggio, anzi sarà un passaggio (siamo ancora alle enunciazioni di principio, nessuna proposta di legge scritta nero su bianco) che porta tutta la destra a suonare lo spartito tradizionale di Forza Italia dopo aver chiuso nel baule della memoria i cappi agitati in aula e le monetine lanciate contro Bettino Craxi. Preistoria politica.  Il merito delle intenzioni del Guardasigilli sono note. A proposito delle intercettazioni, il ministro dice di non volere eliminare ma regolamentare per evitare il ludibrio e la gogna della divulgazione mediatica. Superare le fattispecie dell’abuso d’ufficio e del traffico di influenze, considerate “reati evanescenti” che paralizzano gli amministratori e usate per uccidere le cartiere politiche dei nemici. Tra le altre cose, si salirà di livello e si arriverà a nuove norme sull’obbligatorietà dell’azione penale e sulla separazione delle carriere. È soprattutto qui che bisognerà mettere mano alla Costituzione, “senza che questo significhi assoggettare i magistrati all’esecutivo”, sostiene Nordio. “Chi sostiene che questo sia il mio obiettivo - sostiene il ministro della Giustizia - mi offende personalmente, dopo 40 anni di magistratura, e fa speculazione politica per non dire che il problema esiste”. Ma l’ex magistrato, che negli anni 90 a Venezia portò alla sbarra il ministro democristiano Carlo Bernini e quello socialista Gianni De Michelis e polemizzò con i colleghi di Milano (li accusò di essere mossi da intenti politici), vuole aprire un confronto: “l’opposizione è il sale della fertilità”. Una pia illusione se pensa al Pd o ai Cinquestelle. Discorso diverso, come dicevamo, se gli interlocutori saranno quelli del Terzo Polo.  In sostanza, Giorgia Meloni aprirà una fase costituente con una parte della Parlamento che potrebbe sommare la riforma della giustizia e quella istituzionale. Una riforma della Costituzione che apra la strada anche al presidenzialismo, da affiancare all’autonomia differenziata. La presidente del Consiglio ha sempre detto che le due cose devo marciare insieme perché il presidenzialismo rende equilibrato il progetto leghista. È scritto nel programma con cui il centrodestra si è presentato e ha vinto alle elezioni del 25 settembre.  Sarebbe la classica quadratura del cerchio. Silvio Berlusconi vedrebbe coronato il sogno di spuntare le unghie ai magistrati. Matteo Salvini quello dell’autonomia regionale. Meloni blinderebbe la sua maggioranza negli anni necessari per fare le lunghe letture parlamentari e approvare la riforma costituzionale. Meloni arriverebbe al 2024 sull’onda lunga che potrebbe regalarle un voto europeo scoppiettante e il 30% che oggi i sondaggi assegnano a Fratelli d’Italia.  Un sogno o un incubo? Dipende dai gusti politici. Se il sogno si realizzerà, questo governo guiderà l’Italia fino alla fine della legislatura. Poi si porrà il problema dell’elezione diretta del capo dello Stato, a tre anni dalla scadenza del mandato di Sergio Mattarella. Meloni è giovane e determinata: potrebbe aspettare ancora qualche anno al governo, un nuovo governo, e correre lei stessa per il Quirinale. Un altro record, una donna per la prima volta a Palazzo Chigi e poi sul più alto Colle.  Il punto è se i suoi compagni di viaggio, contenti di avere fatto la grande riforma, consentiranno di aprire una lunga era meloniana. Sempre che nel frattempo siano capaci, tutti insieme, di gestire anche l’economia e spendere la montagna di miliardi del Pnrr. Sempre che quel pezzo di opposizione disponibile a essere il sale della fertilità abbia la lucidità di sottrarsi al disegno politico altrui o di parteciparvi consapevolmente. Sinistra a tutta manetta sulla giustizia di Claudio Cerasa Il Foglio, 8 dicembre 2022 Il Pd si allinea al M5S contro l’agenda Nordio, Repubblica sembra il Fatto, la sinistra regala il garantismo alla destra e non s’accorge delle sberle del Guardasigilli ai finti liberali della destra. Indagine su un cortocircuito. I formidabili schiaffi rivolti negli ultimi due giorni dal ministro della Giustizia Carlo Nordio al partito unico del giustizialismo chiodato hanno contribuito a mostrare con chiarezza due preoccupanti volti dell’illiberalismo italiano. Il primo volto, molto minaccioso, è quello che emerge con preoccupazione all’interno del mondo del centrosinistra, dove il manifesto ultragarantista di Nordio ha prodotto un riallineamento degli astri manettari. Tutti d’accordo. Da Repubblica al Fatto quotidiano. Dal M5s al Pd. Tutti concordi: quello di Nordio non è un inno al garantismo, non è un tentativo di perimetrare l’attività del pubblico ministero fissando sul terreno di gioco alcuni paletti necessari per rendere l’attività di indagine meno discrezionale, ma altro non è che un violento attacco contro i magistrati, altro non è che un inno all’impunità, altro non è che una mossa, come ha scritto Repubblica, alla Nerone, utile semplicemente a fare terra bruciata contro i magistrati italiani e, come detto ieri a Repubblica dal capo dell’Anm, a violentare la nostra amata Costituzione. Si potrebbe ricordare, con un sorriso smarrito, che ad aver chiesto alla politica di aiutare la magistratura a “garantire l’equilibrio delle decisioni”, a “conoscere i limiti della propria funzione” a non cedere “alla tentazione dell’autocelebrazione e della ricerca assoluta del consenso” nell’attività giudiziaria, a spingere i magistrati a recuperare “il principio di imparzialità” anche “attraverso il rifiuto del protagonismo e dell’individualismo giudiziario”, a coltivare maggiormente “la riservatezza nei riguardi dei processi o delle materie di cui ci si occupa” per non correre il rischio “di apparire di parte o pregiudizialmente orientati, forzando i dati della realtà” è stato, giusto pochi mesi fa, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, non Silvio Berlusconi o Licio Gelli. E si potrebbe ricordare che tutelare i princìpi sottolineati anche dal capo dello stato, e non solo da Nordio, significa non lavorare per difendere l’impunità ma difendere la nostra Costituzione. La quale prescrive all’articolo 27 che l’imputato non deve essere considerato colpevole sino alla condanna definitiva, la quale prevede all’articolo 111 che ogni processo si debba svolgere nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, di fronte a un giudice terzo e imparziale, all’interno di un percorso che garantisce alla persona accusata di un reato di essere informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico e di avere diritto a una durata ragionevole del processo. E la quale prevede all’articolo 112 che l’obbligatorietà dell’azione penale sia volta a garantire sia l’indipendenza del pubblico ministero, quale organo appartenente alla magistratura, sia l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge e non il suo opposto. Si potrebbe ricordare tutto questo, ovvio, ma per capire la gravità della scelta del centrosinistra italiano, e la sua scelta di regalare il garantismo alla destra, è sufficiente mettere in fila quanto detto da Nordio negli ultimi giorni. Si può negare, come ha detto Nordio, che le criticità della giustizia italiana facciano perdere ogni anno all’Italia investimenti pari a quasi il due per cento del pil? Si può negare, come ha ripetuto ieri il ministro in Commissione, che in Italia la presunzione di innocenza, principio difeso dalla Costituzione ma non difeso da coloro che dovendo scegliere se difendere la repubblica dei pm o la Carta costituzionale scelgono regolarmente di difendere la prima al posto della seconda, sia minacciata da un uso eccessivo e strumentale delle intercettazioni, dalla loro oculata selezione con la diffusione pilotata dei magistrati, da un’azione penale diventata arbitraria e quasi capricciosa, da un’adozione della custodia cautelare come strumento di pressione investigativa, da uno snaturamento dell’informazione di garanzia diventata condanna mediatica anticipata e persino strumento di estromissione degli avversari politici? Si può negare, poi, che le stesse intercettazioni siano state usate, in questi anni, dal circo mediatico giudiziario non come un mezzo di ricerca della prova ma come uno strumento di prova, che come tale è assai fragile e che come tale si dissolve davanti al contraddittorio dibattimentale? Si può negare, sempre a proposito di intercettazioni, che il loro abuso costituisce un pericolo per la riservatezza e l’onore delle persone coinvolte, spesso nemmeno indagate, e che la loro larga diffusione, talvolta selezionata e pilotata, costituisce uno strumento micidiale di delegittimazione personale e spesso politica, che vìola l’articolo 15 della Costituzione, che fissa la regola della segretezza delle comunicazioni? E si può negare, infine, che in Italia i magistrati, che da magistrato Nordio conosce bene, esercitino il potere con assoluta discrezionalità, senza reale responsabilità, e usino ogni tanto le proprie iniziative giudiziarie come pezze d’appoggio utili a alimentare le proprie ambizioni di carriera? Più che discutere di come liberarsi dal neoliberismo, dal veltronismo e dal renzismo, il Pd, se davvero ha intenzione di mantenere il suo profilo anti populista, dovrebbe discutere di questo, dovrebbe discutere di come provare a liberarsi dal giustizialismo e dal cappio della repubblica fondata sui pm e dovrebbe chiedersi perché sarebbe una scelta di sinistra, oggi, una scelta a favore della libertà, chiudere gli occhi di fronte al j’accuse fatto da Nordio ieri, secondo cui la figura del pm italiano sia l’unica al mondo che esercita un forte potere senza alcuna responsabilità. La relazione di Nordio, dunque, ha messo in rilievo il preoccupante illiberalismo di ritorno della sinistra italiana sulla giustizia, nessun esponente del Pd in queste ore ha trovato il coraggio di non farsi dettare la linea dalla Travaglio Associati, oggi ammanettata anche con la Repubblica di Maurizio Molinari e Carlo Bonini, ma ha messo in luce anche l’incredibile ipocrisia del centrodestra, che negli ultimi due giorni ha dedicato ovazioni a un ministro, Nordio, che ha denunciato anche alcune forme di pericoloso illiberalismo anche della sua parte politica. Il ministro della Giustizia lo ha fatto quando ha affrontato il capitolo della certezza della pena, quando ha detto, parlando a nome del governo, di ritenere che “la reclusione sia necessaria per i reati di grave allarme sociale, e comunque quando la libertà del reo può suscitare un pericolo per l’incolumità pubblica e privata”, mentre “per quanto riguarda i reati minori, la moderna criminologia ci ammonisce che sotto l’aspetto afflittivo, preventivo e rieducativo esistono sanzioni assai più efficaci di una detenzione puramente virtuale”. E lo ha fatto poi quando, parlando di “concussione per induzione” e “traffico di influenze illecite”, ha denunciato la pericolosità di una politica che punta sull’”aumento delle pene” e sulla “creazione di nuovi reati” e che si preoccupa di introdurre nell’ordinamento “fattispecie vaghe e proteiformi, di nessuna efficacia preventiva e di conseguenze puramente cartacee”. In questo caso, il mirino di Nordio sembra essere rivolto più alla propria parte politica che a quella avversaria e i bersagli del ragionamento del ministro sono proprio i due principali leader della propria coalizione. Gli stessi che da tempo tendono a intercettare una domanda di sicurezza degli elettori giocando con il rialzo delle pene. Gli stessi che si rifiutano di riconoscere che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Gli stessi che spesso dimenticano di ricordare che, come detto da Nordio in altre occasioni, “il carcere con la manetta e il catenaccio deve essere, ripeto, l’eccezione dell’eccezione e in prospettiva deve essere limitato ai gravissimi reati di sangue”. Il j’accuse di Nordio, che chissà se avrà la forza di passare dalla retorica ai fatti, è uno schiaffo alla sinistra ma anche alla destra e aiuta a ricordare una verità difficile da digerire: per combattere i nemici del garantismo e gli amici della cultura della gogna la destra e la sinistra più che trovare ragioni per dividersi dovrebbero trovare con urgenza ragioni per unirsi. Contro una repubblica fondata sulla sottomissione alla repubblica dei pm e alla cultura della gogna. Almeno per oggi, viva Nordio. Dalle monetine al cappio: la destra che tifava manette ora si scopre garantista di Filippo Ceccarelli La Repubblica, 8 dicembre 2022 Con le inchieste su ex missini e leghisti è iniziato il ripensamento. È ormai sicuro che a tirare le monetine a Craxi davanti all’hotel Raphael c’erano anche dei missini: Teodoro Buontempo arrivò trafelato da Montecitorio con due sacchetti pieni. Era il 30 aprile del 1993 e i camerati erano scatenatissimi contro i “ladri di regime”. All’inizio del mese un presidio di giovani del Fronte della Gioventù tentò l’assalto a Montecitorio. Indossavano magliette con la scritta: “Arrendetevi, siete circondati”. A un certo punto una monetina da 100 lire fischiò sopra la testa dei granatieri di guardia infrangendo il lunotto sopra l’ingresso della Camera. Non si è in grado di stabilire se fra gli assaltatori del Fronte vi fosse quel pomeriggio la giovanissima Giorgia Meloni, che oggi si proclama garantista. A proposito del cappio, d’altra parte, è nella storia ciò che accadde sempre a Montecitorio il 16 marzo 1993. Da giorni in aula i missini mostravano manette e tiravano finte banconote, spugne gialle, guanti. I leghisti pativano la concorrenza e ne avevano qualche ragione, considerato che il loro ispiratore, professor Gianfranco Miglio, aveva da poco sostenuto che il linciaggio era “la forma più alta di giustizia”. Nel suo “La guerra dei trent’anni” (Marsilio, 2022) Filippo Facci ricostruisce in che modo, per recuperare il terreno perso nel campionato del giustizialismo selvaggio ad alto impatto mediatico, l’onorevole Leoni Orsenigo, un marcantonio che installava antenne tv in provincia di Como, arrivò a Roma con un vistoso nodo scorsoio preso in prestito da un suo amico alpinista. Così mentre i deputati della fiamma iniziavano la solita caciara, Leoni si alzò in piedi, espose il cappio e lo sventolò. Bossi, più tardi, la buttò sulla goliardia. Disse invece Miglio: “I nostri hanno apprezzato. Se fossi stato lì, l’avrei aiutato a far ballare la corda”. Questi tre simbolici episodi per ricordare che il Msi e la Lega si affermarono in quegli anni cruciali nel nome della colpa, della punizione, della galera e peggio. Non solo loro, veramente. Tutti, comprese le tv di Berlusconi che facevano il tifo per Di Pietro. Quando il Cavaliere vinse le elezioni Previti gli offrì un posto di ministro, meno noto è che La Russa voleva al governo anche Davigo. Molti anni sono passati da allora, il tempo di una generazione. Tra ieri e oggi mille vicende, mille processi, mille polemiche, riforme promesse, sgangherate, abbandonate. Ma in mezzo c’è stata soprattutto l’età berlusconiana, con i suoi avvocati, i suoi scandali, dal fisco alle minorenni, un paio di lodi andati a male, un paio di bicamerali, la lunga guerra contro le toghe rosse. È difficile tagliare la storia con l’accetta, tanto più nel paese dei trasformismi, dei travestitismi, delle maschere e delle mascherine. E forse sarebbe anche ingiusto sostenere che il Cavaliere ha “attaccato” il garantismo ai suoi alleati come se fosse una malattia - e non solo perché un supplemento di scrupolo, nella giustizia, è un fatto di civiltà e umanità. E tuttavia non c’è un momento preciso in cui gli ex missini e i leghisti hanno segnato un ripensamento e ancor meno tentato un’autocritica. È successo, piano piano, caso dopo caso, inavvertitamente. Chi sta all’opposizione fa presto a invocare le manette; se invece sta nel potere ecco che perde carica e ferocia senza per questo diventare migliore, anzi, finendo per assomigliare a quelli che combatteva negli anni della gioventù. Vedi la casa di Montecarlo e i gioielli della Tanzania; vedi gli impicci di Alemanno e i 49 milioni di Salvini spariti; vedi la girandola di traffici, da Mosca al litorale pontino. Forse è qualcosa che attiene alla vita, ma a un certo punto si guarda alle convenienze, al quieto vivere, prevalgono le ragioni “politiche”, per così dire, quindi s’invoca l’assoluzione per gli amici e l’inferno per i nemici. Vale per tutti, ma alla fine da garantismo “peloso” o “a intermittenza” anche quello dei padani e dei patrioti tricolore s’è fatto “gargarismo”, “para-culismo”. Il solito percorso delle faccende italiane, il diritto penale come strumento della lotta politica. Nella Nazione scettica e immalinconita, è comunque arduo presentarlo come una virtù. Delegificare è la strada giusta. Ma la proposta di Nordio ha più ombre che luci di Gaetano Pecorella Il Dubbio, 8 dicembre 2022 Di ogni legge bisogna calcolare tutti gli effetti anche quando a prima vista sembra una buona riforma. La proposta del ministro Nordio ha più ombre che luci anche se la strada imboccata sembra quella giusta: finalmente, da vero giurista qual è, si è reso conto che la minaccia della pena ha una influenza sempre minore dell’interesse che spinge a commettere un reato, tanto più che il beneficio che deriva dal reato è certo ed immediato, mentre la sanzione è incerta e dipenderà da molte variabili imprevedibili. Come segnalò un grande giurista dell’ottocento, i falsari scrivono sulle banconote che stampano: “è punita la fabbricazione di monete false”. Detto questo, che costituisce una svolta importante nella politica criminale, non si può non fare qualche riflessione critica, quanto meno sotto diversi aspetti. Anzitutto la proposta del ministro conforta l’orientamento di vecchia data, sorto ai tempi del terrorismo, consolidatosi con la mafia e oggi esteso a pressoché tutti i reati: mi riferisco all’uso della collaborazione dei c.d. pentiti come prova principe nel processo penale. Si tratta di una prova “pericolosa” tanto più se comporta una “ricompensa”, motivo per cui un imputato per sottrarsi al carcere può essere disposto a dire qualunque cosa. Peraltro ormai le verifiche obiettive si sono fatte sempre più evanescenti e ci sono processi che si reggono sostanzialmente solo sulla parola di un collaboratore, anche quando è in gioco una pena pesante, addirittura l’ergastolo, senza che sia mai possibile una verifica sull’attendibilità delle dichiarazioni. Del resto lo stesso ministro Nordio ha dichiarato che la collaborazione non può nascere dalla paura del carcere, perché altrimenti si tornerebbe alle barbarie: ciò è verissimo, trattandosi di una forma di “dolce tortura” per far confessare, magari con un trattamento penitenziario particolarmente doloroso com’è sicuramente il c.d. 41 bis. Sennonché il meccanismo che sta alla base di ogni forma di collaborazione, compreso quella proposta per la corruzione, è appunto la paura del carcere che si evita collaborando. Per di più lo strumento della collaborazione ha impigrito i pubblici ministeri che anziché affinare gli strumenti investigativi vanno alla ricerca del commodus discessus di un collaboratore che gli offra senza troppa fatica la conferma delle accuse formulate. Per un altro aspetto non si può non formulare qualche dubbio: la proposta del ministro prevede la non punibilità del corruttore nel caso in cui collabori, mentre lo stesso trattamento non sarebbe previsto per il corrotto: questa disparità di trattamento appare difficilmente accettabile sotto il profilo del principio di eguaglianza di rango costituzionale non essendo razionalmente comprensibile per quale motivo il corruttore, in caso di collaborazione, andrebbe esente da pena, mentre il corrotto non potrebbe beneficiare dello stesso trattamento. Per il corrotto ci sarebbe la strada ancor più semplice di condizionare l’impunità sia alla collaborazione che alla restituzione della somma allo Stato. Preferibile, comunque, è la strada indicata dal ministro Nordio, e cioè la semplificazione delle procedure amministrative cosicché il cittadino non sia costretto a corrompere il funzionario per avere ciò che sarebbe suo diritto avere. Spesso è accaduto nei processi di corruzione che si scoprisse che il funzionario ritardava volutamente la concessione di una autorizzazione con l’obiettivo di costringere il richiedente a pagarlo perché i tempi non fossero troppo dilatati. Faccio un esempio tra tutti: i componenti della Commissione che autorizza la messa in commercio dei medicinali finirono sotto processo perché ritardavano l’autorizzazione con la finalità di costringere le ditte farmaceutiche a pagare, considerato che i tempi dal punto di vista del profitto sono determinanti. Un altro aspetto, infine, che desta perplessità attiene alla componente criminogena di una promessa di impunità purché si collabori: un imprenditore potrebbe ripetere all’infinito il reato di corruzione sapendo che potrà restare impunito purché denunci il funzionario corrotto. Non è certo quello che aveva in animo il ministro ma purtroppo di ogni legge bisogna calcolare tutti gli effetti anche quando a prima vista sembra una buona riforma. L’Associazione Nazionale Magistrati: “Il governo deve circostanziare le sue accuse” di Aldo Fabozzi Il Manifesto, 8 dicembre 2022 Giustizia. Travolto dalle critiche, il ministro Nordio ha provato a difendersi, spiegando non aver voluto attaccare la magistratura, ma solo di essere “deluso dai comportamenti di alcuni, pochi, magistrati”. Travolto dalle critiche dei magistrati e delle opposizioni, il ministro della giustizia Carlo Nordio ha avuto ieri l’occasione di replicare, dovendo ripetere la sua audizione sulle linee programmatiche in commissione giustizia, stavolta alla Camera. Ha detto di non aver voluto attaccare la magistratura, ma solo di essere “deluso dai comportamenti di alcuni, pochi, magistrati”. Di non puntare, con la separazione delle carriere, a spostare il pubblico ministero nell’orbita del potere esecutivo, perché “immaginare che io che ho fatto per 40 anni il pm possa scatenarmi contro i miei colleghi è una bestemmia. Immaginare che io possa volere la soggezione del pm all’esecutivo è un’offesa personale”. In effetti Nordio ha fatto continuo riferimento alla sua esperienza, anche quando ha dovuto portare l’esempio di intercettazioni fatte in maniera corretta e non divulgate ha citato l’inchiesta Mose. E ha posto la questione della riforma in termini personali: “La diffusione pilotata e arbitraria delle intercettazioni è una porcheria, non è civiltà né libertà, è una deviazione dai principi di civiltà giuridica su cui questo ministro è disposto a battersi fino alle dimissioni”. “Sulle intercettazioni - ha replicato il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia - il ministro parla dimenticando che nel 2017 è intervenuta una legge che ha riscritto la disciplina processuale delle intercettazioni al solo fine di evitare la divulgazione indebita. Vorremmo capire, prima di questi strali che il ministro lancia, se quella legge ha avuto effettiva attuazione, accuse così gravi devono essere contestualizzate”. Anche il partito democratico ha criticato contenuto e tono dell’intervento di Nordio. “Sembra mosso prevalentemente dal desiderio di introdurre temi identitari, come la separazione delle carriere, l’attacco alle intercettazioni, il superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale. Nordio alimenta un terreno di scontro”, hanno detto la presidente dei deputati Debora Serracchiani e il capogruppo del Pd in commissione giustizia alla camera Federico Gianassi. Mentre secondo il presidente del M5S Giuseppe Conte “la visione della giustizia di Nordio ci riporta a disegni di qualche decennio fa. È assolutamente irragionevole fare dei passi indietro, depotenziare la legge “Spazzacorrotti”. Presunzione d’innocenza, sì al monitoraggio delle conferenze stampa di Valentina Stella Il Dubbio, 8 dicembre 2022 Il Movimento 5 Stelle ha espresso voto contrario mentre il gruppo Alleanza Verdi-Sinistra si è astenuto. Ieri la Camera dei Deputati ha dato il via libera, con 248 sì, 45 no e 12 astenuti, all’ordine del giorno a prima firma di Enrico Costa (Azione - Italia Viva), che “impegna il Governo a prevedere che l’Ispettorato generale del ministero della Giustizia effettui un monitoraggio degli atti motivati dei procuratori della Repubblica in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico che giustifica l’autorizzazione a conferenze stampa e comunicati degli organi inquirenti”. Ad annunciare parere favorevole all’odg, insieme alla maggioranza e Azione- Italia viva, il Partito democratico. Il Movimento 5 Stelle ha espresso voto contrario mentre il gruppo Alleanza Verdi- Sinistra si è astenuto. “Il rischio da scongiurare - si legge nell’odg - è che la Polizia giudiziaria proceda senza aver richiesto o ottenuto l’autorizzazione dei procuratori della Repubblica o che questi ultimi utilizzino motivazioni “ di stile” per procedere a conferenze stampa o autorizzare le forze di polizia ad adottare determinate forme di comunicazione, con ciò eludendo il disposto normativo che richiede specifiche ragioni di pubblico interesse; nonostante l’entrata in vigore delle nuove norme, infatti, è emersa la prassi di comunicati delle forze di polizia non rispettosi della presunzione di innocenza”. “Si tratta di un importante atto di indirizzo - ha commentato Costa, vice segretario di Azione e presidente della Giunta per le Autorizzazioni di Montecitorio - che punta a scongiurare nonostante la prassi di conferenze stampa ingiustificate e comunicati delle forze di polizia non rispettosi della presunzione di innocenza, corredati dai nomi delle inchieste e da trailer video, nei quali peraltro non viene fatto cenno alla necessaria autorizzazione del Procuratore della Repubblica”. Passato anche l’ordine del giorno sempre del Terzo Polo sulla riduzione del numero dei magistrati fuori ruolo con il voto della maggioranza, il no del M5S e l’astensione di Pd e Avs (184 sì, 43 no, 67 astenuti). Il testo, di Roberto Giachetti e Enrico Costa, impegna il governo “ad operare una significativa riduzione del numero di magistrati fuori ruolo presso il ministero della Giustizia, con particolare riferimento a quelli che svolgono funzioni amministrative e alle posizioni per le quali non è tassativamente richiesta dalla legge la qualifica di magistrato”. Sempre Costa è riuscito a far approvare in commissione giustizia della Camera un emendamento alla legge di Bilancio che prevede di aumentare da 516mila ad un milione di euro la somma massima prevista per i risarcimenti a chi ha subito un’ingiusta detenzione. “Ora attendiamo fiduciosi il responso della Commissione Bilancio e dell’Aula”, ha detto il parlamentare. Caso Cospito: vediamo se siete davvero garantisti di Luigi Manconi Il Riformista, 8 dicembre 2022 Diritti e garanzie valgono a prescindere dal clima politico, dalle emergenze, dal soggetto in questione e dalle sue idee. La vicenda di Cospito va considerata solo per la sua sostanza giuridica. Dura la vita del garantista. Vorrei proprio conoscere quel genio di un anarchico che ha ritenuto utile, al fine di sostenere lo sciopero della fame di Alfredo Cospito contro il 41-bis, realizzare un attentato incendiario contro la prima consigliera dell’ambasciata italiana ad Atene. Si era appena riusciti a trarre la vicenda di Cospito dall’oscurità di una cella seminterrata nel carcere sassarese di Bancali, che si è dovuto registrare un fattore, perlomeno, “perturbante”. Quell’attentato non ha portato, diciamo così, un grandissimo contributo alla campagna di mobilitazione che, sia pure tiepidamente, ha cominciato a manifestarsi intorno allo sciopero della fame dell’anarchico, ormai in corso da quasi cinquanta giorni; ha creato confusione e ha intimidito qualcuno; ha consentito, infine, al titolista del Giornale (Dio lo perdoni) di scrivere che, dal momento che Massimo Cacciari e io abbiamo trattato l’arCospito avrebbe “sedotto i salotti chic”. D’altra parte, solo una concezione politicista e burocratica, in sostanza autoritaria, della lotta politica può spiegare l’azione di Atene. E, tuttavia, questa vicenda può aiutare a farsi un’idea non solo più concreta, ma anche più illuminante, di cosa sia davvero il garantismo e di quali siano le sue fatiche e i suoi dilemmi. Va detto, infatti, che il garantismo è un sistema di principi assoluti e un’architettura di diritti e garanzie, di vincoli e prerogative, che valgono incondizionatamente e a prescindere. Dunque, a prescindere dal clima politico e da eventuali situazioni di emergenza, dalla figura del soggetto interessato e dallo spessore criminale del suo passato, dei suoi sodali e, ancor più, delle sue idee. Di conseguenza, la vicenda Cospito va considerata solo ed esclusivamente per la sua sostanza giuridica. E questa può essere sintetizzata attraverso alcune domande: 1. È proporzionata una pena come l’ergastolo, quando il reato da sanzionare sia di mero “pericolo” e non di danno? E si sia in presenza esclusivamente di “fatti prodromici” potenzialmente capaci di determinare una strage, ma che tale esito non hanno sortito? Si ricordi, infatti, che i due pacchi bomba inviati alla Scuola allievi carabinieri di Fossano (Cuneo) non hanno provocato né morti, né feriti, né danni rilevanti. 2. È ragionevole che quella pena sia corredata automaticamente dal regime ostativo che impedisce al condannato di accedere ai benefici penitenziari e di usufruire, dopo ventisei anni (oggi, a seguito di un provvedimento del nuovo Governo, trenta) della liberazione condizionale? E per il solo fatto che Cospito non ha collaborato con la magistratura? 3. È razionale che il titolo di quel reato comporti, quasi automaticamente, la sottomissione al regime speciale di 41-bis in condizioni particolarmente afflittive per il detenuto e per il suo equilibrio psico-fisico? Ecco, queste sono le domande essenziali che, a mio avviso, vangomento, no poste e che costituiscono una sorta di “test di garantismo” per grandi e piccini. Indipendentemente, dunque, dai precedenti penali di Cospito e dalle sue idee. Dagli atti criminali dei suoi compagni di lotta e dalla loro concezione della società e della politica. Capisco che non sia facile, ma è il solo esercizio possibile per affermare una concezione liberale dello Stato di diritto. È quanto hanno dimostrato di comprendere quei parlamentari del centro e della sinistra che hanno presentato interrogazioni in merito: Peppe De Cristofaro, Ivan Scalfarotto, Riccardo Magi, Ilaria Cucchi, Nicola Fratoianni e Silvio Lai. Quest’ultimo ha potuto visitare il detenuto nel carcere di Bancali e mi ha riferito quanto Cospito gli ha raccontato: ovvero “l’impossibilità di tenere in cella le foto dei genitori defunti in quanto viene richiesto il riconoscimento formale della loro identità da parte del sindaco del paese d’origine”. Ecco, il 41-bis è anche questo. Come direbbe uno squisito giureconsulto: dov’è la ratio di tutto ciò? Le stazioni di polizia cinesi in Italia sono fuori legge. Piantedosi: “Pronto a sanzionarli” di Giuliano Foschini La Repubblica, 8 dicembre 2022 Il ministro degli Interni alla Camera parla dello scandalo scoppiato negli scorsi giorni: “L’inchiesta è in corso. Dicono di aver trattato solo quattro casi ma il Dipartimento di pubblica sicurezza non aveva mai dato l’ok”. Magi (+Europa): “Caso gravissimo. È un’attività illegale”. L’Italia ha aperto un’inchiesta sulle cosiddette stazioni di polizia cinesi nel nostro Paese. Che, al momento, non sembrano avere alcuna autorizzazione. “Stiamo verificando: non escludiamo sanzioni in caso di irregolarità”. Il ministro degli Interni, Matteo Piantedosi, ha parlato in aula del caso esploso nelle scorse settimane dopo la denuncia della Ong spagnola Safeguard defenders. A sollecitarlo nel corso di un question time il deputato di +Europa, Riccardo Magi, che ha chiesto “se il ministero dell’Interno abbia mai autorizzato l’apertura di queste strutture, quali attività svolgano davvero e se sia stata aperta un’inchiesta”. Piantedosi ha confermato, così come riportato da Repubblica, che un’indagine c’è: la sta svolgendo Aisi insieme con la polizia di Stato. E, in un caso, esiste anche un’informativa all’autorità giudiziaria. “La vicenda - ha spiegato il ministro degli Interni - non ha alcuna attinenza con gli accordi di cooperazione internazionale di polizia tra l’Italia e la Cina e con l’esecuzione di pattugliamenti congiunti tra personale delle rispettive polizie. Segnalo che il memorandum d’intesa per la esecuzione di questi pattugliamenti, firmato a L’Aia nel 2015, ha consentito lo svolgimento dal 2016 al 2019 delle attività di pattugliamento in Italia e dal 2017 al 2019 in Cina, per essere poi sospese nel 2020 a causa della pandemia e tuttora inattive”. Secondo quanto fino a questo momento detto da Pechino, questi uffici aperti in undici posti in Italia, sostiene la Ong, altro non sarebbero che dei centri per sbrigare pratiche amministrative e burocratiche. In particolare - come avevano segnalato il Foglio e Formiche nei mesi scorsi - ne sarebbe stata aperta una a Prato. “La Polizia - ha spiegato in aula il ministro - ha immediatamente avviato accertamenti dai quali è emerso che nello scorso marzo l’associazione culturale della comunità cinese di Fujian in Italia aveva aperto una sorta di sportello per il disbrigo di pratiche amministrative rivolto ai connazionali. Il presidente del consiglio direttivo dell’associazione, sentito negli uffici della prima Questura, ha dichiarato che, oltre alle finalità richiamate, la sua associazione avrebbe fornito un servizio finalizzato ad aiutare i cittadini cinesi, che a causa del protrarsi della pandemia non avevano potuto fare rientro nel Paese d’origine, nel rinnovo di patenti cinesi e in materia di successioni. Ad oggi l’associazione, pur rimanendo formalmente in essere, di fatto non risulta più fornire i servizi, che peraltro avrebbero riscosso anche uno scarso interesse”. Soltanto quattro sarebbero le richieste arrivate. Perché tenerla aperta allora? La denuncia dell’Ong è che in questi anni sarebbero servite per rintracciare e avvicinare oppositori politici e invitarli, non con le buone, a rientrare in patria. “Il 16 novembre c’è stato nel Dipartimento della pubblica sicurezza un incontro con l’ufficiale di collegamento in servizio presso l’ambasciata della Repubblica popolare cinese a Roma che ha confermato quanto dichiarato dal presidente del consiglio direttivo dell’associazione. Sulle altre città che sarebbero sede di queste associazioni: non risultano al momento cosiddetti centri servizi analoghi a quelli di Prato, né a Roma, né a Firenze, né a Venezia, né a Bolzano. A Milano è stata riscontrata la presenza di un’associazione la Overseas Chinese Center che svolge attività di disbrigo pratiche amministrative per i cittadini cinesi, sulla quale sono in corso approfondimenti”. In ogni caso, il ministro degli Interni è stato molto chiaro sulla possibilità di movimento che questi centri hanno: nulla, tanto che la Digos di Prato ha già inviato un’informativa in Procura che ha apero un’indagine. “Non c’è alcuna autorizzazione alle attività dei centri in questione - ha detto Piantedosi - In ogni caso sono in corso indagini amministrative per verificare che titoli ci sono. Assicuro che le forze di polizia, in costante raccordo col comparto intelligence, hanno in corso un monitoraggio di massima attenzione sulla questione e che seguirò personalmente gli sviluppi non escludendo provvedimenti sanzionatori in caso di illegalità”. “Quello cinese è un regime autoritario” ha risposto in aula Maggi, “che opera principalmente con l’intimidazione nei confronti dei propri concittadini, ma anche nei confronti degli altri Stati. È, quindi, importantissimo che gli approfondimenti avvengano con la massima rapidità e con la massima serietà, che oggi il ministro ci ha garantito. Se anche si trattasse di svolgere - da parte di queste associazioni, di queste sedi informali, non so come meglio definirle - dei compiti consolari non autorizzati, si tratterebbe comunque di un’attività illegale.Ci sono poi altri profili che ci preme sottolineare. È necessario rendere pubblici tutti quanti gli accordi che sono stati stipulati negli ultimi anni con la Repubblica popolare cinese. Non per tutti avviene così”. Il Viminale indaga sulla polizia cinese, ma manca un pezzo di Giulia Pompili Il Foglio, 8 dicembre 2022 Piantedosi fa il prefetto e durante un’interrogazione alla Camera evita le risposte politiche sul caso. Meloni e le estreme cautele con la Cina. Prima il business italiano. Alla fine il ministro dell’Interno, il prefetto Matteo Piantedosi, ha fatto il prefetto. Ieri, rispondendo a un’interrogazione a risposta immediata del deputato di +Europa Riccardo Magi, il titolare del Viminale ha detto che nessuno a Roma ha mai autorizzato l’apertura delle cosiddette “stazioni di polizia” cinesi in Italia, e che polizia e intelligence stanno “facendo approfondimenti”. Il ministro ha parlato per la prima volta di una questione che è di dominio pubblico da almeno due mesi, e che, soprattutto in Europa, ha aperto un dibattito sulla necessità di maggiori controlli sulle attività svolte nell’ombra dalla Cina all’estero. Sempre ieri la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, in un’intervista a Federico Fubini sul Corriere della Sera, ha detto di essere “profondamente preoccupata” dalle notizie sulle stazioni di polizia cinese presenti sul territorio dell’Unione.  Von der Leyen ha anche annunciato che la commissaria per gli Affari interni, Ylva Johansson, solleverà la questione al Consiglio dei ministri degli Affari interni di oggi. E’ una questione di sovranità nazionale degli stati membri, ha detto von der Leyen, ma che necessita una risposta politica, soprattutto nel momento in cui la Cina è sempre più chiusa, autoritaria e minacciosa e il consenso sulla sfida che pone il nostro rapporto con Pechino è sempre più trasversale. In Italia, il ministro Piantedosi è stato molto preciso nel suo intervento sulla questione, con estrema pignoleria: ha spiegato com’è stata svolta l’indagine attorno alla prima “stazione di polizia” cinese di cui è stata verificata l’esistenza, quella nella città di Prato. A marzo l’associazione culturale della comunità cinese di Fujian in Italia ha aperto una “stazione di Polizia d’oltremare di Fuzhou”. Dopo l’inchiesta del Foglio e il report della ong Safeguard Defenders, e il successivo rilancio mediatico della questione sulle testate internazionali, la polizia di stato ha “avviato gli accertamenti”. Il presidente dell’associazione è stato convocato in questura e ha dichiarato che la “stazione di polizia” serviva in realtà al “rinnovo di patenti cinesi e in materia di successioni”, visto che la pandemia aveva bloccato i cittadini cinesi in Italia. I servizi sarebbero stati chiusi perché “avrebbero riscosso anche uno scarso interesse atteso il numero esiguo di richieste pervenute (solo quattro)”, ha detto Piantedosi. La notizia, però, è che il 16 novembre scorso l’ufficiale di collegamento dell’ambasciata della Repubblica popolare cinese (l’uomo che nella gigantesca sede diplomatica cinese a Roma tiene i rapporti con le Forze dell’ordine straniere, quasi sempre un militare) sarebbe stato convocato al Dipartimento della pubblica sicurezza del Viminale. L’ufficiale avrebbe confermato la versione delle attività puramente amministrative delle “stazioni” - che collegano via webcam i cittadini cinesi in Italia con la polizia cinese in Cina. Non ci sarebbero ancora conferme sull’esistenza di simili uffici in altre città, oltre a quelle di Prato e di Milano, ma le indagini sarebbero ancora in corso. E Piantedosi ha confermato di voler seguire “personalmente” gli sviluppi della questione.  Il ministero dell’Interno dà una risposta sul caso specifico - sebbene un po’ in ritardo rispetto agli altri paesi europei - ma omette la parte più importante, e cioè: la risposta politica. Intelligence e polizia sono attive sul caso delle “stazioni di polizia”, eppure Piantedosi non ha espresso nessuna linea d’indirizzo sui rapporti dell’Italia con la Cina, soprattutto su una questione che riguarda anche la sicurezza nazionale. È rimasto freddo, prefettizio, appunto, anche quando ha spiegato che le stazioni di polizia non c’entrano nulla con i rapporti dell’Italia con il ministero della Sicurezza cinese e soprattutto con l’intesa firmata nel 2015 all’Aia per i pattugliamenti congiunti tra Italia e Cina. L’esecutivo Meloni si è insediato dopo aver manifestato più volte la volontà di un cambio di passo nei rapporti con Pechino dopo le sbandate pro Cina dei governi precedenti. Il ministro della Difesa Guido Crosetto, due settimane fa, ha detto a questo giornale di vedere “improbabile” un rinnovo della Via della Seta tra l’Italia e la Cina. Per ora, però, il governo Meloni si muove con enormi cautele sul dossier cinese: tutti sanno che per “aumentare l’export delle imprese italiane in Cina”, come promesso, bisogna cercare di evitare di urtare la suscettibilità della Repubblica popolare cinese. Ovvero: cedere al ricatto.  Liguria. Accordo bipartisan per i Garanti dei detenuti e delle vittime di reato La Repubblica, 8 dicembre 2022 Il volontario della Comunità di Sant’Egidio Doriano Saracino e l’avvocato Andrea Campanile saranno rispettivamente, salvo sorprese dell’ultima ora, il nuovo Garante dei detenuti e il nuovo Garante delle vittime di reato in Liguria. E’ l’indiscrezione emersa a margine dei lavori del Consiglio regionale. Il funzionario pubblico Doriano Saracino indicato dal gruppo Pd-Articolo Uno è una delle anime della Comunità di Sant’Egidio a Genova, volontario in carcere dal 2004, autore di una ricerca sulle storie dei detenuti stranieri. L’avvocato Andrea Campanile indicato dalla Lega guida uno studio legale genovese che si occupa della risoluzione delle problematiche collegate al diritto venatorio e sulle armi. L’accordo maggioranza-opposizione sembra ormai ‘chiuso’ e in attesa solo delle ultime verifiche. La loro nomina dovrà essere sottoposta al voto del Consiglio regionale probabilmente martedì prossimo e ottenere almeno 21 voti a favore su 31. Il capogruppo della Lista Sansa in Consiglio regionale Ferruccio Sansa a inizio novembre fece una settimana di sciopero della fame contro la mancata nomina del Garante regionale dei detenuti, figura istituita nel 2020 dall’assemblea ma mai realmente attivata. Torino. Morì in carcere, la battaglia del fratello: “Voglio la verità” di Stefano Lorenzetti Corriere di Torino, 8 dicembre 2022 “Non mi arrendo. Quello che è accaduto a mio fratello non è accettabile. Oggi lo Stato mi dice che non ci sono responsabilità. Io, invece, resto convinto che il caso di Luigi sia stato trattato in maniera negligente: quando è stato male, lo hanno parcheggiato in infermeria invece di portarlo in ospedale”. Walter Di Lonardo non nasconde la propria amarezza: qualche giorno fa il gip di Torino ha deciso di archiviare l’inchiesta sulla morte del fratello minore, avvenuta nel febbraio 2017 nel carcere di Torino Lorusso e Cutugno. Nessun responsabile tra i quindici medici che erano stati iscritti sul registro degli indagati con l’accusa di omicidio colposo. Ma la battaglia di Walter per avere giustizia non è ancora conclusa: “Mi rivolgerò alla Corte Europea dei Diritti dell’uomo. Ci vorrà del tempo, ma questo non mi spaventa”. Cosa l’ha delusa così tanto? “In tutto questo tempo ho sempre avuto la sensazione che a nessuno importasse conoscere la verità. Che la vita di mio fratello non fosse importante. Lo so, era un detenuto. Ma questo non significa che non avesse il diritto di morire con dignità. La giustizia italiana ha impiegato oltre cinque anni per darci una risposta. Vuol dire che il sistema non funziona. In alcuni momenti ho pensato che avrei potuto lasciar perdere, ma poi mi ripetevo che non era giusto far finta di niente. Volevo conoscere la verità”. Le accuse sono state archiviate, ma i consulenti della procura generale dicono che i medici sono stati “superficiali”: come se lo spiega? “Non me lo spiego. Ho letto più volte quella consulenza e non riesco a farmene una ragione. Scrivono che i medici hanno “colposamente” sbagliato e poi aggiungono che se anche fossero intervenuti adeguatamente, somministrando le giuste terapie, mio fratello sarebbe comunque morto lo stesso giorno e alla stessa ora. In realtà non avremo mai la controprova”. Lei andava a trovarlo in carcere? “Accompagnavo mia madre. Ogni volta era una sofferenza. Mia madre piangeva, continuava a ripetere che Luigi stava male e che le sue condizioni peggioravano. Dimagriva a vista d’occhio, anche perché a causa delle sue patologie non poteva seguire una dieta normale e così saltava spesso i pasti. Non doveva stare in galera: le sue condizioni di salute non era compatibili con il carcere. Non conto le istanze presentate dai suoi legali (Chiara Luciani e Nicolò Bussolati dello studio Lexchance, ndr) per riuscire a ottenere i domiciliari”. Che persona era suo fratello? “Non era un santo. Ha commesso molti errori e spesso si è fidato delle persone sbagliate, ma non era un uomo violento o un criminale incallito: era una persona che aveva perso la retta via e aveva bisogno di essere aiutata. Nonostante la sua vita borderline, si è sempre assunto la responsabilità delle proprie azioni”. Perché ha deciso di rivolgersi alla Cedu? “So che rispondere “perché non capiti ad altri” può apparire retorico, ma non lo è. Le carceri italiani sono un disastro. Una volta varcata la soglia, sei abbandonato a te stesso. Sei sempre una persona, ma di serie B. E i tuoi diritti possono essere calpestati. Mio fratello era malato e non è stato curato, perché nessuno si preoccupa delle sofferenze di un detenuto. Io volevo delle risposte, non denaro: non mi è mai interessato. Avrei voluto che coloro che hanno sbagliato si assumessero le proprie responsabilità. E che quantomeno dicessero “ci dispiace”. Lo Stato ha il dovere di garantire cure adeguate a tutti i cittadini, anche ai detenuti. Per questo mi rivolgo alla Corte di Strasburgo”. Trani. “Ora salviamo la signora Lina”, l’appello dei cari di una detenuta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 dicembre 2022 Siamo amici ed amiche di Lina, una donna di 76 anni, rinchiusa da oltre un mese nel Carcere Femminile di Trani. Ci abbiamo messo un po’ per affrontare collettivamente ed insieme al figlio, incredulità, rabbia e dolore nel pensarla rinchiusa, alla sua età e con i sui acciacchi, nel carcere, lontana dalla sua casa, dai suoi affetti e dalle sue abitudini di donna libera e determinata nel vivere la vita in maniera semplice e genuina. Lina è una proletaria che vive insieme al figlio in uno dei tanti palazzi del quartiere Libertà di Bari Spesso a Bari le discussioni sono animate e non si sa mai come possono andare a finire; a causa di una di queste discussioni Lina finisce ai domiciliari a seguito di un provvedimento dell’autorità giudiziaria causato da una presunta lite condominiale e dopo alcuni giorni viene portata nel carcere di Trani in quanto considerata “evasa” dai domiciliari che le avevano imposto. L’avvocato non viene avvisato ed il figlio scopre che la madre è stata portata via dai carabinieri dagli abitanti del quartiere. Lina è stata portata nella discarica sociale del paese Italia; è stata rinchiusa nel carcere femminile di Trani perché lo stato, i servizi sociali, il welfare, la cura e il sostegno che tutti gli anziani di questo paese dovrebbero avere è loro negato, soprattutto se si è poveri, se si vive in un quartiere proletario e se non si dispone del denaro per poter affrontare al meglio i guai della vita. Lina è una donna anziana, con diverse patologie e con i segni di un’intera vita passata ad affrontare problemi e difficoltà e sappiamo con certezza che saprà ed avrà la forza di affrontare la vita, costretta tra le mura del carcere femminile di Trani (un carcere ‘ospitato’ in una struttura costruita nel 1800, sovraffollato e con carenza di personale, come riportato dall’ultimo report dell’Associazione Antigone) così come noi, i suoi amici e le sue amiche, avremo la forza e la determinazione nel pretendere, per ovvie motivazioni, la sua immediata liberazione dalla costrizione carceraria. Lina va liberata dal carcere immediatamente e va individuata una soluzione alternativa alla detenzione perché è indegno per un paese che si considera moderno e democratico che una donna della sua età e con i sui problemi sia costretta a vivere in carcere. Reggio Calabria. Giustizia riparativa tra protocolli e incompiute di Eleonora Delfino Gazzetta del Sud, 8 dicembre 2022 Il Mandela’s Office ha trovato casa in un bene confiscato in via Diana. Il progetto è stato approvato nel 2017, seguito negli anni dalla sottoscrizione di due protocolli d’intesa interistituzionali l’idea è quella di potenziare i percorsi della giustizia riparativa. Ma ad oggi ancora l’operazione non è entrata nella fase più concreta. Operazione che aveva riconosciuto un merito alla città dello Stretto, tra le prime in Italia ad aver creato un percorso virtuoso. Un centro per i servizi capace di promuovere attività a tutela delle persone vittime di reati attraverso nuovi modelli di mediazione penale e culturale volti a riparare e prevenire le condotte delittuose e a favorire la risocializzazione dei soggetti provenienti dai circuiti penali. Un istituto il “Mandela’s Office”, non a caso intitolato all’attivista sudafricano per i diritti umani, pensato per favorire progetti di rieducazione dei soggetti provenienti dai circuiti penali tramite iniziative da realizzare a vantaggio della collettività. E poi si era scelta una sede simbolica, un immobile confiscato alla mafia, ristrutturato allora dai detenuti della casa circondariale di Arghillà. Tanti elementi che facevano della sede di via Diana una sperimentazione d’avanguardia. Una stanza di compensazione per promuovere la sicurezza delle comunità. Una ricetta che coniuga la certezza della pena e tensione rieducativa. Il protocollo d’intesa allora prevedeva una collaborazione tra l’Amministrazione comunale, l’Ufficio del garante dei detenuti, e il ministero della Giustizia. Ma dopo il taglio del nastro, quella sede poco è stata utilizzata. A distanza di quattro anni le istituzioni ci riprovano. Con un nuovo protocollo d’intesa che coinvolge questa volta anche la Città Metropolitana. Un documento sottoscritto nel mese di marzo del 2021. Ma anche questa volta dopo la conferenza di presentazione, nessuna attività pare sia stata avviata. Roma. Usare bene la rete e prevenire il cyberbullismo: il progetto “Educatamente 2.0” Ristretti Orizzonti, 8 dicembre 2022 Il progetto realizzato con il contributo del Ministero della Salute e del Dipartimento di Psicologia dell’Università “Sapienza” è stato illustrato oggi nel Salone del Commendatore. Imparare ad usare bene la “rete” conoscendone le potenzialità e i rischi. Questo è l’obiettivo che si pone “Educatamente 2.0”, iniziativa promossa dalla ASL Roma 1 e presentata oggi nel Salone del Commendatore del Complesso Monumentale di Santo Spirito in Sassia, alla presenza, tra gli altri, di Gennaro D’Agostino, Direttore sanitario ASL Roma 1, Giuseppe Ducci, Direttore Dipartimento di Salute Mentale ASL Roma 1, Silvia Bracci, Direttore Distretto XIV ASL Roma 1 e Annamaria Giannini, Direttore Dipartimento di Psicologia - “Sapienza” Università di Roma. La mattinata, strutturata in tre momenti, ascolto, risposta e confronto, nasce per presentare l’iniziativa, resa possibile grazie al finanziamento del Ministero della Salute - CCM 2021 e con il supporto scientifico del Dipartimento di Psicologia dell’Università “Sapienza” di Roma, e si rivolge agli 86mila adolescenti che vivono sul territorio di competenza dell’azienda sanitaria romana. Un piccolo mondo popolato da 119 istituti comprensivi, 805 medici di medicina generale, 122 pediatri di libera scelta e 247 operatori socio-sanitari dei servizi del DSM e dei distretti, tutti attivamente impegnati nel costruire una rete di supporto nel percorso di crescita dei ragazzi. Partendo proprio da questo contesto sono state tracciate le linee su cui si muove “Educatamente 2.0”: la promozione del buon uso della rete per prevenire dipendenze da internet e il “ritiro sociale”, purtroppo sempre più frequente, e il potenziamento della consapevolezza delle condotte a rischio che possono incentivare fenomeni come il cyberbullismo e la recidiva di reati online. A presentarle Lucia Chiappinelli Responsabile Scientifica del Progetto ASL Roma 1 insieme a Maria Teresa Sarti, Coordinamento Rete Scuole ASL Roma 1. Attività che si traducono in tre collaborazioni: la prima che ha portato questa estate alla realizzazione del progetto OSA (Officine Sviluppo Armonico), una serie di laboratori volti a orientare i ragazzi all’uso degli strumenti digitali per potenziare la loro creatività e talento presentato da Anna Ammirati; la seconda con l’associazione Amaltea strutturata su tre piani, peer education, ovvero con i ragazzi che diventano formatori dei propri compagni, creazione di kit formativi incontri, webinar e LA realizzazione di materiali informativi illustratI da Jessica Burrai e Emanuela Mari; la terza con il Centro Italiano di Promozione della Mediazione del Lazio che propone dei moduli psico-educativi e percorsi di giustizia riparativa, che favoriscano proposte di mediazione penale con la parte lesa all’interno di progetti di messa in prova, spiegato da Francesca Mosiello. “Questo progetto rappresenta il frutto di un lavoro molto importante, che si ricollega a quanto fatto nel 2019 dal Polo Scuola-Salute, a cui la ASL Roma 1 tiene molto. Oggi vogliamo provare a fare una sintesi per capire come costruire una consapevolezza adatta alla propria età, questo è uno degli elementi che Educatamente 2.0 si propone di realizzare”, commenta D’Agostino. Nel panel conclusivo, dedicato alla riflessioni sugli argomenti trattati, sono intervenuti Rosina Romano, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Roma, Daniela Bacchetta, Tribunale per i Minorenni di Roma, Annamaria Santoli, Direttore Centro Giustizia Minorile del Lazio, Abruzzo e Molise, Corrado Bibbolino, Delegato del Sindaco ASL Roma1, Cristina Bonucchi, Direttore Tecnico Superiore Psicologo della Polizia di Stato e Giuseppe Fusacchia, Dirigente Scolastico Scuola Polo per l’Inclusione Provinciale Rete Scuole ASL Roma 1. Dalla “casta” ai “taxi del mare” Così il linguaggio uccide il dibattito e la democrazia di Federica Graziani Il Dubbio, 8 dicembre 2022 “Le faccende umane si trovano, per unanime consenso, in uno stato deplorevole. Questa peraltro non è una novità. Per quanto indietro si riesca a guardare, esse sono sempre state in uno stato deplorevole”. Il giudizio impietoso è l’incipit di un libretto, “Le leggi fondamentali della stupidità umana” di Carlo M. Cipolla, che è diventato un classico per così tanti lettori da far dubitare che in un gruppo così esteso non si nasconda qualcuno che a quelle leggi sottostia, pur avendolo sui propri scaffali. Come sornione imbeccava qualche giorno fa Adriano Sofri, che ne recensiva la ripubblicazione, non rassegnandosi pure a suggerire la sensazione “che non si sia mai stati stupidi come oggi, e che domani lo si sarà di più, e così via”. A rispondere a tanta sconsolatezza sul presente in cui siamo immersi e sulla sua cronaca, che lo annebbia giorno dopo giorno nella rincorsa collettiva della novità quotidiana, torna utile il passato, in cui pure eravamo immersi ma che è oggi facile dimenticare. Per evitare le lusinghe dell’oblio, occorre rispolverare quegli strumenti che l’attualità pare così disabituata a frequentare: la critica e il dibattito. E la fortuna editoriale vuole che questo sia il caso di “Com’è successo. Una repubblica in crisi, parola per parola”, nuova pubblicazione di Fandango Libri a firma di Paola Di Lazzaro e Giordana Pallone. È lunga la sfilza dei com’è successo che si chiedono le due studiose. Lunga e comune a tante conversazioni del millennio che viviamo: com’è che “politico” è diventato un insulto, come dirsi “né di destra né di sinistra” è diventato un valore in cui riconoscersi, come i diritti sociali sono diventati privilegi e la condizione di vulnerabilità una colpa, come uno sconosciuto all’opinione pubblica è diventato Presidente del Consiglio, come i tagli alla spesa pubblica e lo smantellamento dello stato sociale sono il destino ineluttabile delle politiche recenti? La materia dell’indagine del saggio è l’avvelenamento dei pozzi della politica e dell’informazione, il metodo è quello archeologico. A tale frana di com’è successo si risponde “voltandosi indietro e cercando di rifare la strada al contrario, per capire questa trasformazione politica e culturale. E le tracce più evidenti sono da riconoscere nel linguaggio. E nei suoi mutamenti”. E che non si sta davanti a un predicare vago, le due autrici lo dimostrano tenendo ferma una tesi limpida e insieme disorientante nel contesto di una comunicazione pubblica sempre più parossistica, com’è la nostra: che la semplificazione del linguaggio sia una semplificazione dei processi democratici e della vita pubblica. Seguiamo un loro esempio, su una parola che corre di bocca in bocca da almeno quindici anni e che è il precipitato lessicale perfetto del malcontento diffuso nei confronti della classe politica. “La Casta”, lemma fra i più illustri all’interno del vocabolario delle distorsioni dell’opinione pubblica, le cui vicende fortunate stanno a dimostrare “come siano minate l’autorevolezza, la funzionalità e il ruolo del sistema pubblico attraverso l’uso continuo di termini denigratori e spregiativi riferiti ai componenti le istituzioni e alle istituzioni stesse”. Già, ma come? Ecco che il saggio lo illustra spostando le lancette dei suoi lettori indietro: “È il 18 ottobre 2011, gli italiani da qualche mese hanno imparato a convivere e a familiarizzare con un termine che sino ad allora era rimasto confinato nel perimetro ristretto degli addetti ai lavori: “spread”, una parola inglese che in gergo finanziario indica il differenziale tra il rendimento dei titoli di Stato tedeschi e quelli dei vari paesi dell’Unione. Nei fatti, per l’opinione pubblica, quei numeretti equivalgono a un termometro e dall’inizio dell’estate 2011 quel termometro segna quota 200 punti base: una febbre medio- alta per i conti pubblici italiani. Lo spettro è quello del default, o per dirla con il pensiero comune di “finire come la Grecia”. Questa premessa è necessaria per capire come, nonostante l’economia mondiale e quindi anche italiana dal 2008 in poi fosse stata messa a soqquadro, in quel giorno di ottobre, poche settimane prima della crisi del governo Berlusconi IV, in una seguitissima puntata di Ballarò (oltre 4 milioni di ascoltatori) il conduttore Giovanni Floris presentava i risultati di un sondaggio illustrando quale dovesse essere secondo gli italiani “l’intervento prioritario contro la crisi”. Ce ne sono di cose su cui dividersi, commenterà Francesco Costa sull’inserto domenicale del Sole 24 Ore: “Spendere per rilanciare i consumi o tagliare la spesa per ridurre le tasse? Alzare o no l’età pensionabile? Privatizzare o nazionalizzare? Nessuna di queste ipotesi è in testa al sondaggio. Ottiene invece il 61% questa proposta: la riduzione del numero dei parlamentari. Un altro 10% sosteneva, invece, che per uscire dalla crisi bisognasse subito “abolire le province”“. E ancora: se i cambiamenti di esecutivo avvenuti senza scioglimento delle Camere sono “governi non eletti dagli italiani”, se la magistratura è “il covo delle toghe rosse” e la giustizia è “a orologeria”, se il mondo dell’informazione è dominato da “professoroni”, se l’immigrazione è “una pacchia da far finire”, le Ong del soccorso sono “taxi del mare” e i poveri sono “fannulloni sul divano”, se insomma - come nel saggio è ricostruito tanto dettagliatamente - è l’intero linguaggio pubblico che si è corazzato contro la realtà, che ne è della capacità di intenderla, quella povera realtà? La diagnosi che consegna ai lettori il saggio è amara e chiarissima: se si forza il linguaggio pubblico sempre verso l’iperbole, si rimane senza parole per comprendere e quindi intervenire sulle vicende della vita collettiva. Come potrà succedere che una simile usura, che è oggi la nostra lingua dominante, torni in un gioco fertile, sottratto ai luoghi comuni e alle sette culturali, è la domanda che questo libro consegna ai suoi lettori. Se non si vuole una vita democratica stupida, o ancora più stupida, occorre rispondere. Riforme, la sindrome che confonde la vittoria elettorale con il senso di onnipotenza di Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 8 dicembre 2022 Dagli attacchi all’Ue a quelli a Bankitalia e giudici: ecco i pericoli dell’insofferenza del governo alle istituzioni di garanzia. Molte, e in tante lingue, sono le parole che contengono le due consonanti “st”. Molto spesso indicano qualcosa che “sta” stabilmente (così in greco il verbo ístemi): per esempio Stato, costituzione, esistenza, constare, sostenere e sostenibile, eccetera. Tra queste c’è establishment. Questa parola nel discorso corrente è un modo generico di indicare un coagulo di poteri costituiti di vario genere: economico-finanziari, culturali e politici che fanno sistema e che, a chi ne è escluso, appare come un aggregato di interessi compatto e autoreferenziale. Magari al suo interno esistono tensioni e rivalità ma, alla resa dei conti, è concorde nella difesa della propria conservazione contro le minacce che possano provenire dall’esterno. Naturalmente, dicendo establishment o, se si vuole, oligarchie si usano parole generiche. Esiste varietà. Per esempio, alcuni possono ispirarsi al governo moderato, alla separazione dei poteri, al pluralismo, al rispetto dei diritti, in una parola ai principi del costituzionalismo; oppure, altri, non sapendo nemmeno che cosa ciò significhi, sono onnivori, ambiscono a un potere illimitato che scorra senza ostacoli. Tuttavia, comune è una caratteristica: vi si accede per cooptazione perché la cooptazione è garanzia di consonanza e compattezza contro le ingerenze eccentriche che possono minare dall’interno la solidità. Che piaccia o non piaccia (e a chi ne è escluso di certo non piace), l’establishment esiste dappertutto, in ogni organizzazione sociale stabile e capace di garantire stabilità. Si potrebbe dire: è un male, ma è necessario o, almeno, inevitabile. È questa quella che fu definita la “ferrea legge” delle oligarchie. Con l’establishment ci sono le istituzioni. Esse sono garanzie di stabilità e di durata per mezzo, a dir così, delle loro funzioni di filtro o di selezione. Separano il lecito dall’illecito, ciò che è ammesso e incoraggiato da ciò che è escluso e represso. La “istituzionalizzazione” della vita politica e sociale è nell’interesse non solo dell’establishment, ma anche nell’interesse, che è di tutti, alla sicurezza e alla tranquillità. Da questo punto di vista, le istituzioni svolgono un compito che va al di là degli interessi particolare di chi si è impiantato nell’establishment. Esse sono, per dire così, nell’establishment ma, per poter svolgere i loro compiti, non devono essere dell’establishment. Devono, in altri termini, pensare e agire per il presente e per il futuro, indipendentemente da interessi mutevoli e contingenti. Se ne dipendessero, verrebbero meno ai propri compiti. Non sarebbero più istituzioni. Sarebbero vuoti simulacri. Tradirebbero la fiducia cui devono aspirare come humus indispensabile all’esercizio della loro funzione “istituzionale”. Nessuno più si fiderebbe di loro. Poi, è venuta la democrazia. Con la democrazia abbiamo elezioni, maggioranze che cambiano e rappresentanza di interessi nuovi. Nuove aggregazioni di potere si possono affacciare e, nel caso che si prefiggano cambiamenti radicali, mirano alla discontinuità attraverso nuove istituzioni o attraverso il controllo e l’assoggettamento delle precedenti. In quanto portatrici di nuova legittimità sono onnivore delle istituzioni che provengono dalla precedente legalità. Queste sono percepite come impedimenti e devono essere, se non abolite, almeno “messe in riga” e conformate al nuovo che avanza. Questa è la vicenda nella quale siamo immersi, già da ora. Così, con queste premesse, comprendiamo che è iniziata una partita che ha un’altissima posta in gioco. Chi ne risulterà vincitore dipenderà da molti fattori tra i quali l’attenzione dell’opinione pubblica resa consapevole dalla libera stampa che non sottovaluti e interpreti i segnali che sono davanti ai nostri occhi. Essi, per ora, riguardano le istituzioni europee, la Banca d’Italia e la magistratura, cause dell’insofferenza di chi, avendo “vinto le elezioni”, si considera per principio svincolato da limiti, controlli, contrappesi. Le istituzioni europee. Erano passati pochi giorni dalle elezioni e già si era messo in discussione il “primato” del diritto della Ue sul diritto nazionale che è la colonna portante della costruzione della comunità degli Stati d’Europa. Non c’è motivo per credere che i motivi di questa contestazione non si estenderanno alla Convenzione europea per i Diritti dell’Uomo e le Libertà fondamentali, nonché alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, a sua volta colonna portante della difesa in Europa dei principi della democrazia liberale. La Banca d’Italia. Essa è chiamata a compiti essenziali per la stabilità del sistema economico attraverso la supervisione dei mercati finanziari e il controllo della politica monetaria e quindi dell’inflazione (all’interno del circuito delle banche centrali europeo). Ha voce sugli equilibri del bilancio, quindi sul debito pubblico e sulla lotta all’evasione fiscale e sull’efficienza del sistema tributario. È autorità di vigilanza sulle banche e sull’intermediazione bancaria (di nuovo entro un sistema di relazioni europee) a tutela della clientela bancaria e finanziaria. Controlla le operazioni di fusione, partecipazione e ristrutturazione del sistema creditizio. Esprime pareri e relazioni tecniche su questi temi e la sua autorevolezza è direttamente proporzionale al grado d’indipendenza dagli interessi politici, spesso di natura elettoralistica. Insomma, una parte importante del governo dell’economia passa attraverso gli uffici della Banca d’Italia. Problematico è il bilanciamento tra i suoi compiti tecnici e la loro rilevanza politica. In questa tensione s’inserisce l’insofferenza del Governo (“sono stufa”, qualcuno ha detto), specie quando la spesa e l’indebitamento sono concepiti dal mondo politico come strumento di consenso elettorale. Da sempre (siamo nel 1893, in età giolittiana), il rapporto Banca-politica è un tema “caldo”. Ingerenze politiche, da un lato; eccessiva immedesimazione col mondo bancario, dall’altro. La magistratura. La bestia nera d’ogni classe politica non aliena dalla corruzione, intrisa di senso d’onnipotenza, è l’indipendenza della magistratura e l’efficienza dei suoi poteri di controllo di legalità. Si annunciano tante riforme e, fin qui, nulla di male. Ciascuna di esse può contenere del buono, del meno buono, del cattivo e del pessimo: si deve discuterne e lo si farà, se la discussione potrà esserci, aperta e onesta, nelle sedi preposte. Ma, se si guarda all’insieme non si può far finta di non vedere fin da ora che il risultato può essere ciò che si diceva prima: “mettere in riga” un’istituzione che, bene o male a seconda dei casi, ha rappresentato un argine all’impunità alla quale molte persone di potere aspirano. L’elenco finisce qui, per ora. Ma, che cosa accadrà quando la Corte costituzionale “osasse”? Osasse annullare, in nome della Costituzione, decisioni del Governo, forte del suo mandato elettorale. E se il presidente della Repubblica facesse qualcosa di analogo in nome dell’unità nazionale? E se poi si arrivasse all’investitura elettorale diretta del presidente stesso, in questo quadro di garanzie scricchiolanti? Per non parlare, poi, della cultura che può essere messa in riga facilmente e tacitamente, togliendo finanziamenti o orientandoli dove si vuole. Per ora abbiamo sintomi, conati. Ne abbiamo già visti in passato. Con una espressione generica, troppo generica, sono stati riassunti nella parola “populismo”. Diciamo, per ora, sindrome d’onnipotenza condita da rozzo nazionalismo, intolleranza, linguaggio e simbologia varia: tutte cose che contraddicono un percorso che si aprì con la fine del fascismo e l’avvio della democrazia, facendo intravedere un mondo ricco di speranza per un futuro sognato e consegnato alle parole della Costituzione. Migranti. Il “libro nero” dei respingimenti denuncia 25mila casi di violenze alle frontiere Ue di Benedetta Perilli La Repubblica, 8 dicembre 2022 Dal 2017 sono state raccolte le testimonianze di migliaia di persone picchiate, umiliate, detenute prima di essere illegalmente espulse sia dalle frontiere esterne dell’Unione europea che dai territori degli stati membri. Le loro voci compongono un volume commissionato dal gruppo della Sinistra al Parlamento europeo (The Left) nel quale emerge un inasprimento dei metodi con l’avvento del Covid. Quattro volumi di violenze, violazioni dei diritti umani, pratiche illegali. Oltre 3mila pagine di testimonianze, raccolte dagli esperti indipendenti di Border violence monitoring network su commissione del gruppo della Sinistra al Parlamento europeo (The Left), pubblicate nel Black Book of pushbacks 2022. Una versione tristemente ampliata del primo studio pubblicato nel 2020. “Come componenti del Parlamento europeo ci auguravamo di non dover realizzare una nuova edizione contenente nuove testimonianze della violenza quotidiana che affrontano donne, uomini e bambini in transito alle frontiere interne ed esterne dell’Unione europea”, spiegano. Eppure.  Il libro nero dei respingimenti contiene oltre 1600 racconti raccolti dal 2017 di “people on the move”, persone o gruppi in transito per diverse ragioni (tra le quali il cambiamento climatico, conflitti politici, terrorismo, crimine organizzato hanno lasciato il loro Paese di origine), migranti in viaggio che sono stati fermati e, senza avere il tempo di presentare richiesta d’asilo come consentirebbe il diritto internazionale, espulsi in un altro Paese. Non senza subire prima ogni forma di sopruso. Fisico e psicologico. Nei quindici Paesi coperti dall’inchiesta, Austria, Italia, Grecia, Slovenia, Croazia, Polonia, Ungheria, Romania, Serbia, Bosnia ed Herzegovina, Montenegro, Kosovo, Bulgaria, Macedonia del Nord e Albania, è successo 25mila volte. Un dato assolutamente inferiore a quello reale, considerata la difficoltà nella raccolta dei dati. Negli ultimi cinque anni i respingimenti sono diventati una parte importante, ma non ufficiale, del regime migratorio dei paesi della Ue. Un termine inizialmente pensato per definire quello che succedeva nel 2016 lungo i confini di Ungheria e Croazia con la Serbia, dopo la chiusura della rotta balcanica, ma poi esteso alle pratiche di espulsione sui confini greco-turco fino al confine sloveno e italiano. “Un vero e proprio metodo che non deve più considerarsi l’insieme di alcuni incidenti causati da poche mele marce ma un frutteto avariato nel quale violenze, torture e umiliazioni non semplicemente crescono ma vengono normalizzate”, spiegano da The Left.  Le violenze nelle “terre di nessuno” - Sei le tipologie comuni di torture e trattamenti utilizzati durante i respingimenti ed emerse dallo studio: uso eccessivo e sproporzionato della forza; utilizzo delle pistole elettriche; obbligo di privarsi degli indumenti; minacce e violenze attraverso armi da fuoco; trattamenti inumani e degradanti all’interno delle vetture delle forze dell’ordine e all’interno delle stazioni di polizia. In tutti i Paesi sono stati registrati casi di percosse tramite manganelli, pugni, calci, aste di metallo, rami di albero e minacce con cani poliziotto. Violenze praticate da gruppi di agenti che possono durare anche ore. Delle 4040 testimonianze raccolte nel 2021 (per un totale di circa 11mila persone) la percentuale di soggetti che hanno dichiarato di non aver subito violenze è stata pari al 5,6. Cresce anche il numero di regioni di confine contese, chiamate zone neutre o terre di nessuno, che diventano luoghi di tortura delle persone “in movimento”. Negli ultimi due anni sono state raccolte 773 testimonianze per un totale di 16.138 persone coinvolte, di queste nel 2021 il 54% coinvolgeva anche dei minori, mentre nel 2022 soltanto nel 42% delle testimonianze erano coinvolti minorenni.  Le conseguenze del Covid - A rendere gli ultimi due anni particolarmente cruciali, come emerge dalle testimonianze, ha contribuito l’arrivo della pandemia e dei lockdown quando per questioni sanitarie la maggior parte del personale delle grandi Ong ha lasciato le frontiere dando vita a dei vuoti pericolosi nell’assistenza ai migranti che, esclusi dalle disposizioni vigenti nei vari Paesi e lontani dagli sguardi dei cittadini continuavano a muoversi per sopravvivere. Non solo. L’assenza delle principali Ong - ma sono numerosi i medici volontari rimasti a presidiare - ha portato anche all’assenza di sorveglianza e quindi all’aumento delle violenze e delle tecniche di deterrenza, tra le quali percosse prolungate, rasature dei capelli, obbligo di svestirsi, violenze sessuali, attacchi da parte dei cani poliziotto, trattamenti medici non autorizzati, uso delle pistole elettriche. In questo periodo si sono registrati metodi di tortura sempre più sofisticati in particolare sui confini croati e greci inclusi stupri e persone gettate nei corsi d’acqua spesso con mani ancora legate, obbligo a togliersi i vestiti restando a temperature gelide come nel caso di diciannove persone morte di freddo vicino al fiume Evros.  La guerra in Ucraina e il doppio standard - Il Black Book of pushbacks racconta anche come da febbraio 2022, con l’inizio della guerra in Ucraina, una nuova emergenza migranti ha attraversato l’Europa. Quasi 8 milioni di persone si sono messe in cerca di protezione, trovando un’Unione europea che ha dimostrato di esistere con il lancio della protezione temporanea per i rifugiati ucraini. Ma non per i giovani russi e ceceni che scappavano dall’altro lato della guerra incappando nelle stesse modalità di respingimento documentate dal Border violence monitoring network. Un contrasto particolarmente evidente in Polonia, Paese che ha accolto i rifugiati ucraini ma che soltanto un anno prima ha inasprito le violenze al confine con la Bielorussia con pesanti violazioni dei diritti umani che hanno portato alla morte di almeno 19 migranti. “La guerra in Ucraina ha dimostrato che l’Europa può e sa rispondere all’emergenza migranti ma non riscontriamo una stessa attitudine nei confronti delle persone che fuggono dai loro Paesi”, si legge nel testo.  Italia - Oltre quaranta pagine del “libro nero” sono dedicate alla raccolta delle testimonianze avvenute nel territorio italiano. In particolare vengono denunciate le condizioni di privazione della libertà personale dei migranti confinati nelle navi-quarantena durante il periodo del Covid e continuata anche dopo la fine dello stato di emergenza. L’attenzione è dedicata anche alla situazione dei confini esterni tra Italia e Libia, al rinnovo del “memorandum” e alle posizioni del nuovo governo. Viene inoltre segnalata la crescita della “rotta adriatica” con l’aumento di arrivi sulla costa della Calabria e della Puglia soprattutto di cittadini afgani, siriani, pakistani, bengalesi e curdi. Tra le testimonianze raccolte (29 per un totale di 68 persone coinvolte dal 2019) in oltre il 50% dei casi è stato registrato l’uso di violenza con mani o manganelli e in oltre il 25% dei casi furti di oggetti personali, insulti, esposizione alle intemperie. Nel 44,8% dei casi c’è stata una richiesta di asilo e nel 26,6% dei casi erano coinvolti dei minori. Non vengono riportate denunce di privazioni di cure mediche mentre molto spesso le persone fermate vengono detenute, private di cibo o acqua, fotografate e registrate con le impronte digitali. Quasi sempre non vengono messi a disposizione degli interpreti.  La testimonianza - Tra le testimonianze raccolte dalla Ong che si occupa di “people on the move” in Italia c’è quella di due minorenni afgani arrivati nel porto di Bari dalla Grecia dentro a un camion caricato su un traghetto. Scoperti da quelli che descrivono come “poliziotti di frontiera” in uniformi verdi e agenti greci hanno raccontato di essere stati spogliati, ammanettati e portati nella stazione di polizia portuale dove sono stati schiaffeggiati e insultati. “Ci urlavano contro, non capivamo cosa dicessero ma sembravano parolacce”. In varie occasioni i due domandano di poter fare richiesta di asilo per motivi politici in Italia mostrando un documento scritto in italiano ma gli agenti lo ignorano. “Voglio stare qui, voglio andare in un centro, voglio prendere asilo qui. Ho chiesto così tante volte di non rimandarmi in Grecia ma la polizia non mi ascoltava e non mi rispondeva. Ci hanno soltanto riportato sul traghetto”. I due raccontano di essere stati costretti a firmare dei documenti senza sapere cosa ci fosse scritto e senza l’aiuto di un interprete. Le loro richieste di cibo, acqua e bagni pubblici sono state ignorate. Poi sono stati riportati a bordo della nave dove sono stati chiusi in una stanza buia e fredda, con una bottiglia di acqua, qualche biscotto e senza toilette “per questo abbiamo dovuto fare i nostri bisogni nella stanza”. Arrivati vengono prelevati da agenti greci che li schiaffeggiano e chiudono in una stanza per quattro ore, sempre senza poter andare in bagno. Poi condotti in una stazione di polizia dove trovano una toilette. Infine, sempre senza interpreti, vengono costretti a firmare un foglio di espulsione con l’obbligo di lasciare la Grecia in tre mesi.  Frontex - Questa è soltanto una delle migliaia di testimonianze di respingimento raccolte. E non è neppure una delle più violente. La pratica è diventata tragicamente nota anche in relazione alle attività illegali di Frontex, l’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera. Accuse per le quali lo scorso aprile il direttore dell’agenzia Fabrice Leggeri si è dimesso e il Parlamento Ue ha rifiutato l’approvazione del bilancio di Frontex. “Avremmo voluto che, dopo le dimissioni del direttore esecutivo di Frontex, la nuova dirigenza rispettasse il regolamento ritirando i finanziamenti e sospendendo le sue operazioni in tutti gli Stati membri ‘dove ci sono violazioni dei diritti fondamentali o degli obblighi di protezione internazionale legati all’attività che preoccupano per la loro natura grave o perché possano persistere’. Avremmo voluto che gli Stati membri si limitassero a rispettare e attuare il diritto della Ue e internazionale nel consentire a donne, uomini e bambini di chiedere asilo sul territorio dell’Unione Europea”, spiegano nel libro i parlamentari di The Left. Ora il tema del futuro dell’agenzia, diretta ad interim dalla vicepresidente lettone Aija Kalnaja, diventa di grande attualità, in attesa della definizione della nuova dirigenza i cui tre candidati (Terezija Gras, Hans Leijtens e la stessa Kalnaja) sono stati ascoltati dalla Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (LIBE) del Parlamento Europeo.  Non basta accoglierli, la sinistra riparta dal valore dei migranti di Karima Moual La Repubblica, 8 dicembre 2022 L’inclusione dell’”altro”, è e rimane la sfida più ardua e più entusiasmante per chi vuole guidare il progressismo. Siamo all’ultima chiamata. In Italia abbiamo un problema: non siamo ancora in grado di digerire una realtà concreta e non astratta di persone per quello che sono: un capitale umano, capace di arrivare ovunque per potenzialità. Parto da lontano. Nel 2016 in Italia eravamo un po’ tutti colpiti dalla vittoria di Sadiq Khan, nuovo sindaco di Londra. Quell’uomo era il figlio di Londra, dove era nato, ma era anche il figlio di due immigrati pakistani. La sua storia è quella di una scalata professionale e politica, in una società che con tutti i suoi difetti, permette anche a chi sta indietro di fare il proprio salto. Oggi arriva Rishi Sunak, il nuovo premier inglese. Genitori indù, immigrati dall’Africa orientale. Altra storia politica rispetto a Khan, cresciuto nel partito laburista, Sunak è il primo ministro eletto in un partito conservatore. Vale per la Gran Bretagna ma anche per altri paesi europei, dove a destra o a sinistra troviamo persone con background migratorio arrivare in posti apicali di potere. Parto da lontano e dall’alto pensando a loro perché non posso non pensare a noi. All’Italia e alla sua capacità di includere le diversità. Per farlo inizio dal “potere” perché poi la politica, i suoi rappresentanti non sono il riflesso della società che siamo? Purtroppo nella politica del nostro paese siamo riusciti ad accogliere sino ad oggi - nonostante siamo alla terza generazione - più figurine e simboli da noi creati ad uso e consumo che storie vere, storie in cui credere per la loro autenticità - e il caso Soumahoro, declinato a sinistra, ne è l’ultima traccia. L’abbaglio di una sinistra che continua ad avere fame di simboli, finendo per distruggerli. Forse per mancanza di profondità e accompagnamento, forse per pigrizia, forse perché ancora incapace di guardare negli occhi una delle sue sfide più importanti. Riconoscersi in quell’”altro”, scoprire il senso della sua missione. Ora, è evidente che in Italia abbiamo un problema. Non siamo ancora in grado di masticare e digerire una realtà concreta e non astratta di persone che ci crescono affianco e che non riusciamo ancora a percepire ed accettare per quello che sono: un capitale umano, capace di arrivare ovunque per potenzialità, e non per generoso riconoscimento di chi ha la sola fortuna di essere italiano per ius sanguinis. Quasi 5 milioni sono le persone extracomunitarie in Italia. Centinaia di migliaia di naturalizzati con passaporto italiano, quasi 500mila i ragazzi e i bambini nati e cresciuti nel nostro paese. E infine il segmento della fede, con quella islamica che rappresenta secondo alcune stime più di 2,7 milioni di persone. Questo capitale umano, nel racconto italiano e politico, a parte qualche eccezione, viene inquadrato in un’unica parola “immigrazione”. Su questa parola, sappiamo come la destra della Lega e Fratelli d’Italia abbia costruito in questi anni una sua narrativa e politica rafforzando il più possibile il Noi e il Loro. Prima gli italiani e poi gli immigrati, come se non ci fosse mai spazio per quel salto che ha permesso a Khan e Sunak di arrivare dove sono arrivati, rappresentando in prima persona la comunità che prima li ha accolti e infine trasformati pienamente cittadini. Una sinistra progressista e riformista, che crede all’inclusione come percorso obbligato per una società plurale da costruire nei valori dell’uguaglianza e la dignità degli individui, dovrebbe partire da qui: come intende costruire quel gradino che ancora manca per far sì che i nostri immigrati possano ambire un giorno a sentirsi pienamente italiani. Perché solo così si può sognare di arrivare in alto, e solo con l’ambizione e in qualsiasi ambito, ciò si traduce in crescita. Affrontando le criticità: sugli sbarchi non basta solo accogliere. Bisogna costruire politiche che abbiano al centro i paesi africani con cui cooperare in una dinamica di sviluppo da una parte, ma lasciando una porta aperta anche ai viaggi legali che continuano a non essere facili. Gli irregolari sul territorio spinti nelle stazioni delle grandi città o nelle baraccopoli a cielo aperto dove vivono schiavizzati come braccianti, con il paradosso dei bagni chimici vicino e le associazioni che portano i viveri, hanno bisogno di risposte, e una su tutte è, legalità, che significa il riconoscimento del permesso di soggiorno per chi lavora togliendo finalmente potere alle reti criminali dello sfruttamento. Bisogna avere la forza e il coraggio di fare una lotta per regolarizzare gli immigrati irregolari nei vari settori lavorativi, decostruendo la narrazione di destra che preferisce mantenerli nel limbo, sventolando lo spauracchio della paura. Alla legalità lavorativa segue l’inclusione, con programmi ben costruiti sul cosa significa vivere in Italia per chi arriva da lontano con usi e costumi diversi che alle volte posso essere anche in conflitto con i valori democratici e laici su cui si fonda la nostra società. Lingua, diritti, doveri, leggi e cultura. Vivere in Italia, non può essere solo lavorarci, perché l’approccio che si è portato avanti in questi anni, purtroppo, è stato quello opportunistico di breve termine, di interessarsi solo alle braccia e poco all’anima di queste persone. E ancora, il riconoscimento di chi nasce e cresce in Italia, con una legge sulla cittadinanza che debba diventare una priorità, perché i figli degli immigrati sono figli anche nostri, che continuiamo a lasciare indietro. Infine, l’Islam. Una sinistra progressista e riformista, deve conoscere in profondità le frammentazioni dell’Islam per capire dove posizionarsi con decisione e senza tentennamenti, scegliendo con chi allearsi perché in gioco c’è il futuro di tutti. C’è la costruzione dell’Islam italiano che significa il suo inserimento in una cornice laica, che presuppone il rispetto dei diritti umani, la difesa del principio di uguaglianza delle donne, nei loro diritti e nelle loro scelte di libertà. La storia di Saman Abbas è un monito. Nessun relativismo culturale può essere accettato. Perché la cornice di una sinistra progressista e riformista possa essere la migliore casa nella quale si faccia spazio un Islam finalmente progressista. Stati Uniti. Quarant’anni di iniezioni letali: il falso mito del metodo di esecuzione “umano” di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 8 dicembre 2022 Non lascia schizzi di sangue sulle pareti come il plotone d’esecuzione, né puzza di bruciato come la sedia elettrica. Non rievoca pagine orrende della storia, come la camera a gas (ma c’è ora chi vuole reintrodurla). Il 7 dicembre 1982, negli Usa, Charles Brooks fu il primo condannato alla pena capitale a essere messo a morte tramite iniezione letale. Iniziava una nuova era: c’era finalmente un metodo incruento, pulito, sofisticato, rapido, in definitiva “umano”, per portare a termine gli omicidi di stato. Altri stati, dopo gli Usa, l’avrebbero adottato. Quarant’anni e 1.377 esecuzioni dopo, sulle oltre 1.500 degli ultimi 40 anni, dobbiamo raccontare una storia del tutto diversa. Le chiamano botched executions, un’espressione che sta a dire che non è andato tutto liscio. Il 3 febbraio 2016, nello stato della Georgia, Brandon Jones, 72 anni, era legato al lettino dell’esecuzione. Per 24 minuti si cercò una vena buona sul braccio sinistro, per altri otto sul braccio destro, poi si riprovò sul sinistro. Invano. Arrivò un altro medico che, dopo 13 minuti, riuscì a inserire l’ago. Dopo sei minuti dall’inizio dell’esecuzione, Jones, del tutto vigile, aprì gli occhi. Il 22 febbraio 2018, nello stato dell’Alabama, gli avvocati di Doyle Lee Hamm avevano avvisato che sarebbe stato impossibile trovare una vena in un cliente che aveva un carcinoma e un cancro linfatico avanzato. Non gli diedero retta pensando che si trattasse di un tentativo in extremis di fermare l’esecuzione. Per due ore e mezza fecero 12 tentativi per cercare la vena e in uno di questi penetrarono l’arteria femorale. Ma nel frattempo era passata la mezzanotte, il tempo era scaduto e l’esecuzione venne sospesa. Nello stato dell’Alabama di esecuzioni del genere ce ne sono state così tante che a novembre la governatrice dello stato si è arresa e ha ordinato la sospensione a tempo indeterminato, finché non si risolveranno “i problemi”. Di problemi continuano a essercene parecchi anche perché, in uno dei rarissimi sussulti etici delle grandi aziende farmaceutiche, all’inizio degli anni Dieci Hospira, Novartis e altre hanno deciso di non inviare più, agli stati degli Usa che applicavano la pena di morte, il thiopental di sodio (comunemente noto come pentothal), un anestetico normalmente usato in sala operatoria e altrettanto normalmente, fino ad allora, impiegato nell’iniezione letale insieme ad altri due farmaci, il bromuro di pancuronio, che paralizza i muscoli impedendo la respirazione, e il cloruro di potassio, che arresta il battito cardiaco. L’intero meccanismo della pena capitale è entrato in crisi. Le direzioni delle carceri hanno iniziato a verificare la quantità delle scorte rimaste e la loro data di scadenza e a guardarsi intorno per capire se ci fossero fornitori meno scrupolosi. Date d’esecuzione sono state rinviate o fissate una di seguito all’altra prima che i farmaci andassero a male. Sono state sperimentate nuove miscele di farmaci, non in laboratorio ma su esseri umani. Sono stati ripristinati vecchi metodi d’esecuzione. Il 23 giugno 2011 le autorità dello stato della Georgia hanno messo a morte Roy Blankenship utilizzando un nuovo anestetico, il nembutal, prodotto da Lundbeck, nonostante l’azienda danese avesse avvisato che il suo prodotto non era “sicuro” e avesse chiesto che non venisse usato. Dopo la somministrazione del nembutal, Blankenship è rimasto cosciente. Chi ha assistito all’esecuzione ha visto gli spasmi di un uomo messo a morte: girare la testa, muovere gli occhi, aprire la bocca e pronunciare parole incomprensibili. Il 16 gennaio 2014, nello stato dell’Ohio, Dennis McGuire ha rantolato, sollevando la schiena ed emettendo rumori terribili dallo stomaco alla ricerca di aria, per circa 25 minuti: tanto ci è voluto prima che le due (e non tre) sostanze usate per l’iniezione letale, il midazolam e l’idromorfone, avessero effetto. Sempre nel 2014, ma il 29 aprile, nello stato dell’Oklahoma, l’esecuzione di Clayton Lockett è iniziata nonostante gli avvocati difensori avessero messo in guardia sull’uso di un protocollo sperimentale che prevedeva l’impiego del midazolan, di cui Lockett sarebbe stato la prima cavia. Immesso l’anestetico, con Lockett dichiarato “privo di conoscenza”, sono stati introdotti gli altri due farmaci: di lì a poco Lockett ha iniziato a respirare affannosamente, a stringere i denti e a cercare di sollevare la testa dal cuscino. I testimoni sono stati fatti uscire. Lockett è morto al minuto 43 della “procedura”, ma d’infarto. Nell’ottobre del 2015, dopo che un’autopsia aveva rivelato che un altro condannato, Charles Warner, era stato messo a morte iniettando una sostanza sbagliata per fermare il battito cardiaco, l’allora governatrice Mary Fallin ha sospeso tutte le esecuzioni in attesa di trovare “un modo umano” per portarle a termine. Ancora il 2014, ancora midazolam e idormorfone. Il 23 luglio nello stato dell’Arizona Rudolph Wood ha agonizzato per un’ora e 40 minuti. Durante questo orrore, i suoi avvocati hanno presentato un ricorso d’urgenza a una corte distrettuale federale e telefonato a un giudice della Corte suprema federale per fermare tutto. Niente da fare: l’esecuzione è proseguita, anche perché un portavoce del procuratore generale dell’Arizona aveva affermato che Wood “era quieto e stava semplicemente russando”. L’8 dicembre 2016, nello stato dell’Alabama, Ronald Bert Smith ha rantolato alla disperata ricerca di aria e tossito per 13 minuti stringendo i pugni e cercando di sollevare la testa. È stato dichiarato morto 34 minuti dopo l’iniezione di midazolam. Il 26 maggio 2017, sempre in Alabama, Thomas Arthur ha terminato la sua vita ormai quasi ottantenne nel modo peggiore: rantolando per 15 minuti alla ricerca d’aria dopo che la dose di midazolan non aveva avuto effetto. Nello stato del Nebraska, il 14 agosto 2018, è stata eseguita la prima condanna a morte “sperimentale”. Carey Dean Moore è stato dichiarato morto dopo un’agonia di 23 minuti causata da un’inedita combinazione di quattro farmaci: fentanyl (una delle droghe più usate negli Stati Uniti), cisatracurio, cloruro di potassio e il comune Valium. Nel 2020 un’indagine della radio pubblica nazionale ha rivelato che nell’84 per cento delle 216 autopsie analizzate dai suoi esperti erano stati rinvenuti segni di edema polmonare: durante l’esecuzione i polmoni avevano continuato a lavorare e i condannati a morte erano deceduti con una sensazione di soffocamento o annegamento, proprio come frequentemente accaduto alle persone contagiate dal coronavirus durante la pandemia da Covid-19. Torniamo nello stato dell’Oklahoma per seguire gli ultimi sviluppi. Dopo anni di stop a seguito delle esecuzioni di Lockett e Warner e dopo aver rinunciato a introdurre la camera a gas, la direzione delle prigioni ha messo a punto un protocollo per l’iniezione letale, estremamente minuzioso, elaborato appositamente perché “i prigionieri non siano sottoposti a sofferenze non necessarie”. Nell’agosto 2021 il procuratore generale ha chiesto e ottenuto sette date d’esecuzione, una al mese a partire da ottobre. Dopo un provvisorio intervento della Corte d’appello del X circuito, si è proceduto alla prima, quella di John Marion Grant, il 28 ottobre. Ovviamente, anche col nuovo protocollo non è cambiato nulla. Dan Snyder, reporter della tv locale Fox 25, ha raccontato che dopo la dose di midazolam Grant “ha iniziato ad avere convulsioni, a tal punto che stava quasi per sollevare il lettino cui era legato. Poi ha preso a vomitare e per nove minuti gli inservienti sono dovuti entrare nella camera della morte per pulire il vomito. Grant respirava ancora”. Sean Murphy, dell’Associated Press, ha parlato di oltre una ventina di scatti convulsivi e ha raccontato come il vomito colasse copiosamente lungo i lati del volto e il collo di Grant. Sconvolto, ha dichiarato che mai nelle precedenti 14 esecuzioni cui aveva assistito aveva visto una scena del genere. Quindici minuti dopo la dose di midazolam, Grant è stato dichiarato privo di conoscenza e si è proceduto alle restanti parti dell’esecuzione. Per Justin Wolf, portavoce della direzione delle carceri, “il protocollo è stato rispettato senza complicazioni”. Il suo superiore, Scott Crow, si è spinto a dichiarare che “non c’è stata interruzione della procedura: vedere una persona vomitare non è una cosa piacevole, ma non ritengo sia stata inumana. Del resto, il rigurgito durante la sedazione non è un evento del tutto raro”. Le storie raccontate in questo post sono tratte dal mio libro “Molla chi boia. La lenta fine della pena di morte negli Stati Uniti”, pubblicato da Infinito Edizioni. *Portavoce di Amnesty International Italia Stati Uniti. La vergogna senza fine del carcere di Guantánamo. Dove i diritti non esistono di Gloria Riva L’Espresso, 8 dicembre 2022 Ci sono ancora 36 detenuti nell’enclave statunitense nell’isola di Cuba. Le autorità americane non possono processarli e non vogliono liberarli. Uno scandalo infinito. Il cappuccio nero calato sulla testa. Le catene ai piedi. Le tute arancioni. I corpi ripiegati su se stessi, stesi su brevi fazzoletti di ghiaia, a respirare quel poco d’aria concessa ai carcerati. Le immagini del carcere militare di Guantanamo, ex base navale cubana, sono indelebili. E perché mai quell’orrore dovrebbe essere archiviato fra i brutti ricordi, se a vent’anni e undici mesi dall’apertura di Guantanamo, quella prigione non è ancora stata chiusa? Persino i campi di sterminio nazisti sono stati serrati e i responsabili puniti. Invece Guantanamo, il buco nero dei diritti umani, dove è vietato guardare, dove le regole non valgono mai e dove qualsiasi pratica - specie la tortura - è lecita, continua a esistere. Addirittura nel 2018 l’allora presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, annunciava che Guantanamo non sarebbe mai stata chiusa e che era stato un errore rilasciare centinaia di pericolosi terroristi “per ritrovarli di nuovo nel campo di battaglia”. Delle 780 persone internate al Camp X-Ray, oggi restano 36 detenuti, pochi nel raffronto con il passato, ma sono comunque persone in attesa di un processo che probabilmente non arriverà mai: sono infatti quattordici i trattenuti a tempo indefinito che non hanno avuto alcun contatto con una qualsivoglia forma di organo giudiziario. Questo perché la giurisdizione di Guantanamo è affidata al Tribunale di guerra delle commissioni militari essendo i prigionieri definiti “enemy combatant”, cioè nemici combattenti: si tratta di persone ritenute vicine al terrorismo, catturate in Afghanistan e in Pakistan, incarcerate e fatte confessare a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo. Per via del livello di brutalità applicato ai detenuti, confermato da Amnesty e da molti ex prigionieri rilasciati, si è fatta strada la richiesta da parte della società civile di chiudere il gulag cubano. Qualche promessa in tal senso è stata fatta, ma non è mai stata mantenuta. Su tutti il tentativo dell’ex presidente Barack Obama, che nella sua prima campagna elettorale promise di mettere fine a Guantanamo. Ma andò diversamente: “È una questione molto complessa”, racconta l’avvocato tedesco per i diritti umani Bernard Docke, che continua: “Obama non agì abbastanza prontamente. Se lo avesse fatto subito, dopo le elezioni, cogliendo lo slancio entusiastico successivo alla sua nomina, probabilmente ce l’avrebbe fatta. Invece ha lasciato passare il tempo e dalle elezioni di midterm è uscita una maggioranza repubblicana del Congresso, che ha fatto opposizione e ha bloccato tutta una serie di provvedimenti di stampo riformista e pacifista, fra cui anche la chiusura del campo di prigionia X-Ray. Il piano di Obama è stato poi definitivamente accantonato all’indomani di una nuova escalation di attacchi terroristici e della conseguente inversione di rotta dell’opinione pubblica. D’altra parte Obama stava portando avanti alcuni progetti di politica interna, fra cui la riforma sanitaria, che gli stavano a cuore e per i quali aveva bisogno dell’approvazione dei repubblicani, per cui alcune questioni, fra cui quella di Guantanamo, sono scivolate in secondo piano e questo purtroppo è vero ancora oggi, con il presidente Biden, alle prese con una maggioranza risicata e parecchie tensioni interne soprattutto per il sostegno alla guerra in Ucraina”. Joe Biden sta evitando di affrontare il problema, forse più preoccupato dalle divisioni interne - addirittura il dipartimento di Giustizia ha deciso di istituire una nuova unità per contrastare il terrorismo interno, una minaccia in ascesa dopo il violento assalto a Capitol Hill - e dall’effetto che una decisione su Guantanamo potrebbe avere sul risicato sostegno di cui gode al Congresso. L’avvocato Bernhard Docke si occupa di Guantanamo dal 2002, cioè dalla sua creazione, e per cinque anni ha lottato contro l’amministrazione di George W. Bush nel tentativo di liberare il suo assistito, l’allora diciannovenne Murat Kurnaz, nato in Turchia ma cresciuto in Germania, nella periferia di Brema. Murat nell’ottobre del 2001 volò da Francoforte al Pakistan perché voleva frequentare le scuole del Corano e rafforzare la sua fede musulmana, proprio mentre gli americani invadevano l’Afghanistan per combattere i talebani all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle. Sebbene non fosse accusato di alcun crimine, Murat venne arrestato in Pakistan e venduto per tremila dollari alle forze armate statunitensi, che lo imprigionarono a Guantanamo, un carcere dove si trova “il peggio del peggio”, così definì i detenuti sull’isola l’allora vicepresidente Dick Cheney, che aggiunse: “L’unica alternativa alla creazione di Guantanamo Bay sarebbe stata uccidere direttamente i sospetti terroristi”. L’edificazione di Guantanamo, a distanza di vent’anni, ha finito per intrappolare la stessa America: “I trentasei prigionieri che ancora oggi si trovano lì pongono un altro tipo di problema: loro per primi non vogliono tornare nel loro Paese d’origine dove spesso vige la pena di morte e quindi un loro rimpatrio significherebbe subire ulteriori torture, se non la morte. Dall’altra parte questi prigionieri sono considerati troppo pericolosi per essere rilasciati e troppo difficili da condannare. Ovvero, da un lato, se fossero liberati sarebbero una minaccia per l’America se non altro perché potrebbero cercare una rivincita rispetto ai torti subiti in carcere; d’altro lato, le loro confessioni, essendo state estorte con la tortura, non avrebbero alcun valore legale di fronte a un tribunale e sarebbero di fatto annullate: i carcerati verrebbero quindi liberati, ma gli Stati Uniti non possono permetterselo perché, come dicevamo, si tratta di persone troppo pericolose. In qualche modo Guantanamo è una trappola che l’America si è costruita da sola”, spiega l’avvocato Bernhard Docke, che in questi giorni si trova in Italia per la presentazione del film “Una mamma contro G.W. Bush” del regista Andreas Dresen, che ha conquistato due Orsi d’argento alla Berlinale 2022. Il film, una commedia divertente, nonostante la complessità del tema, racconta i cinque anni e mezzo di lotta di Rabiye Kurnaz, la madre di Murat, per liberare suo figlio da Guantanamo, dove ha subito torture: dall’essere costretto a ingoiare acqua fino al limite del soffocamento, all’elettroshock, a restare appeso per giorni al soffitto, al restare giorno e notte sempre con la luce accesa. Per liberarlo la madre Rabiye ha intentato una causa contro Bush davanti alla Corte Suprema. Unendosi a una class action di altri genitori di giovani incarcerati a Guantanamo e sfruttando le apparizioni televisive, Rabiye è riuscita a fare pressione sulla politica e sulla magistratura statunitensi per garantire ai prigionieri di Guantanamo il diritto di avviare un’azione legale contro la loro detenzione. La Corte Suprema si pronuncia a favore dei detenuti presentatisi in giudizio contro il governo Bush. “Eppure Guantanamo non è ancora stato chiuso. È un pensiero che mi assilla, ripenso continuamente alle persone rinchiuse e torturate, che ricevono un trattamento disumano”, dice Rabiye e racconta anche il difficile percorso di riabilitazione di Murat che solo dopo molto tempo è riuscito a tornare a una vita normale. Anche la documentarista Laura Silvia Battaglia ha incontrato Murat, così come altri ex carcerati di Guantanamo: “Molti convivono con problemi di post traumatic stress disorder e dicono di dover convivere quotidianamente con l’incubo di quel lager”. La mancata chiusura di quel carcere e l’assenza di alcun pentimento da parte degli Stati Uniti rispetto all’esplicita violazione del diritto internazionale e alla privazione del diritto di “habeas corpus” ha provocato un generale declassamento dello stato del diritto in generale: “Se in Ucraina la Russia si permette di oltrepassare qualsiasi regola minima del diritto umanitario e se le norme della Convenzione di Ginevra vengono sistematicamente ignorate è anche perché G.W. Bush, dopo l’11 settembre, ha aggredito in modo così esplicito il diritto internazionale da averlo praticamente annientato ed è oggi ipocrita chiedere un qualsiasi rispetto del diritto in Ucraina, quando gli Stati Uniti continuano a violarli mantenendo aperto il carcere di Guantanamo”, commenta l’avvocato Docke. Colombia. Morte di Mario Paciolla, battersi per la verità riguarda il futuro di tutti noi di Davide Mattiello Il Fatto Quotidiano, 8 dicembre 2022 Battersi per la verità sulla morte di Mario Paciolla riguarda il futuro di tutti noi. Riguarda la possibilità stessa di abitare un mondo migliore, nel quale la volontà del più forte non sia l’unica legge. Il mondo migliore per il quale Mario ha speso la sua vita. Perché questo incipit non appaia una iperbole retorica devo subito chiarire la convinzione dalla quale muovo nel proporre questa riflessione: non credo che Mario si sia suicidato. Sono convinto che Mario sia stato ucciso e che della verità sulla sua morte debba farsi pienamente carico l’Onu. I fatti disponibili su cui ragionare sono noti a coloro che a partire dal luglio del 2020 hanno cercato di capire cosa fosse successo. Il 15 luglio del 2020 Mario si sarebbe tolto la vita impiccandosi e di questo la famiglia è stata informata da personale Onu. Mario stava collaborando con la missione Onu incaricata di monitorare il processo di pace colombiano. Mario sarebbe tornato in Italia cinque giorni dopo, il 20 luglio, e aveva già fatto sapere alla mamma, Anna, cosa avrebbe voluto mangiare. L’abitazione colombiana di Mario è stata ripulita immediatamente dopo la sua morte da personale Onu e diversi oggetti sono scomparsi. Dal 2019 Mario aveva cominciato a manifestare forti preoccupazioni proprio per il lavoro che stava facendo per le Nazioni Unite, per quello che aveva visto e documentato, per le tensioni che ciò stava provocando all’interno della missione medesima e tra la missione e il governo colombiano. Non si sentiva più sicuro Mario. Aveva la sensazione di essersi cacciato in un brutto guaio, al punto da cancellare dal web foto e scritti. Io non so cosa sia successo tra il novembre 2019 e il 15 luglio 2020, ma immagino che siano stati mesi tormentati. Ad ogni modo, per Mario la via di fuga era evidentemente rappresentata dal ritorno in Italia, niente di più. Niente che facesse pensare che Mario per lasciarsi alle spalle preoccupazioni e dispiaceri potesse farla finita con la vita. La Procura di Roma, competente per una vicenda del genere, ha aperto una inchiesta per valutare l’ipotesi di omicidio e ha dovuto scontare immediate difficoltà nell’ottenere collaborazione con le autorità colombiane e con l’Onu. La Procura di Roma ha proposto recentemente l’archiviazione della indagine per insufficienza di prove. La famiglia ha fatto opposizione, il Gip deciderà se assecondare la richiesta della Procura o se ordinare nuove indagini. Non è stata ancora fissata udienza. Convinto come sono che Mario sia stato ucciso, penso che Mario e la sua famiglia meritino ogni sforzo, come merita ogni vittima di violenza. Ma in questo caso c’è qualcosa di più, come anticipavo in premessa. In gioco qui c’è anche la credibilità stessa delle Nazioni Unite, cioè di quella organizzazione mondiale che più di ogni altra incarna il sogno di un mondo dove la guerra sia stata abolita, dove la guerra sia dichiarata illegale, dove i conflitti trovino necessariamente ed efficacemente una soluzione negoziata sulla base del diritto internazionale. Un sogno che alla luce di quanto accade e di quanto accaduto dal 1945 ad oggi può sembrare puerile, un sogno da “anime belle”, buono soltanto per ingenui e imbecilli. Un sogno che nessuno pare abbia più nemmeno la voglia di fare, se è vero, come stabilisce il Censis nella sua ultima fotografia dell’Italia, che 8 italiani su 10 non hanno più nessuna intenzione di fare sacrifici per tentare di migliorare le cose. Si salvi chi può, insomma. E chi può di solito è il più forte. Eppure, mi permetto di dire, questo sogno è stato il sogno di Mario, il sogno per il quale ha vissuto e per il quale è stato ucciso. Un sogno corrotto anche da chi incista e perverte pure l’Onu cercando di farne soltanto l’ennesima agenzia di potere. Un po’ come accade in Italia nel rapporto mortifero tra Istituzioni repubblicane, che dovrebbero servire ad abolire il dispotismo fascista, e mafiosi, che invece di dispotismo sono campioni. Mi sono convinto che questo sogno fosse proprio il sogno di Mario, avendo letto che era arrivato a collaborare con l’Onu in Colombia dopo aver fatto parte delle Pbi: le Peace Brigades International - ovvero quanto di più radicalmente utopico io conosca sul fronte della gestione nonviolenta del conflitto. Le Pbi fanno una cosa semplice, ma potentissima: la scorta civile e internazionale di soggetti a rischio della vita per le battaglie che fanno nei loro Paesi. Con la loro presenza fisica, insomma, alzano il prezzo della violenza rendendola (cercando di renderla) sconveniente: chi intendesse ammazzare uno di questi attivisti dovrebbe mettere in conto di ammazzare anche questi scomodi e invadenti accompagnatori internazionali. In Italia qualcosa di simile viene fatto da Operazione Colomba. Mario era stato in Colombia con le Pbi. Mario era un testimone di quel sogno. In questi mesi, anche a causa della invasione russa dell’Ucraina, ci stiamo chiedendo cosa si possa fare per dare ancora una speranza alla pace, cioè ad un mondo che ripudi la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti. Ecco, sicuramente una cosa da fare è salvare l’Onu dalla sua definitiva decadenza. Per questo credo che debba farsi pienamente carico della verità sulla morte di Mario: la giustizia per Mario è giusta anche per l’Onu di cui il mondo ha bisogno. Chi sa parli, non è troppo tardi. Iran. Giustiziato il primo manifestante arrestato per proteste La Repubblica, 8 dicembre 2022 L’uomo era accusato di aver bloccato una strada e attaccato un membro delle forze di sicurezza con un machete a Teheran. È stato giustiziato Mohsen Shekar, il primo manifestante arrestato per le proteste esplose in Iran contro il regime. L’annuncio è delle autorità iraniane che hanno riferito di aver giustiziato un progioniero, arrestato nel corso delle proteste. L’agenzia di stampa iraniana Mizan ha riferito dell’esecuzione. Ha accusato l’uomo di aver bloccato una strada e attaccato un membro delle forze di sicurezza con un machete a Teheran. In Iran le proteste sono esplose dallo scorso 16 settembre per la morte della 22enne Mahsa Amini, deceduta dopo essere stata arrestata dalla polizia morale del Paese. Shekar era stato arrestato il 25 settembre, poi condannato il 20 novembre con l’accusa di “moharebeh”, una parola farsi che significa “guerra contro Dio”, accusa che comporta la pena capitale. Le autorità iraniane stanno reprimendo con violenza il movimento di protesta, iniziato con le donne che manifestavano per maggiori libertà e il rispetto dei loro diritti umani e arrivato ormai a coinvolgere anche gli uomini e diverse classi sociali uniti dalla richiesta di mettere fine al sistema stesso della Repubblica islamica. Secondo le Ong per i diritti umani, le vittime della repressione da metà settembre sono oltre 400, di cui una sessantina minorenni. Afghanistan. Giustiziato in piazza: prima esecuzione pubblica sotto i talebani La Repubblica, 8 dicembre 2022 Dopo che il leader Akhundzada a metà novembre aveva imposto l’applicazione senza remore delle punizioni previste dalla sharia. Dimenticate le promesse fatte alla comunità internazionale di una maggiore moderazione rispetto al passato. L’uomo eliminato dal boia a Herat era stato ritenuto colpevole di omicidio e furto. Per la prima volta dal loro ritorno al potere in Afghanistan, i talebani hanno eseguito un’esecuzione pubblica di un uomo condannato per omicidio, poche settimane dopo che il loro capo supremo aveva ordinato di applicare la legge islamica fino ai suoi aspetti più brutali. Il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid ha dichiarato che “alla Corte suprema è stato ordinato di eseguire la sentenza durante un raduno pubblico di cittadini” a Farah (nell’Ovest). Il condannato, di nome Tajmir, figlio di Ghulam Sarwar, è stato accusato di aver ucciso un uomo e di aver rubato la sua motocicletta e un cellulare, secondo la dichiarazione dei talebani. “Questa persona è stata riconosciuta dagli eredi del defunto”, afferma la nota. L’uomo che risiedeva nel distretto di Anjil, nella provincia di Herat, nell’Afghanistan occidentale, ha ammesso la sua colpevolezza, ha aggiunto il portavoce. Decine di funzionari del tribunale e funzionari talebani hanno assistito all’esecuzione. I nuovi vertici del Paese hanno sottolineato che il caso era stato esaminato a fondo da diversi tribunali (primo grado, corte d’appello e corte suprema), prima che il capo supremo Hibatullah Akhundzada approvasse la sentenza. A metà novembre, Hibatullah Akhundzada aveva ordinato ai giudici di far rispettare tutti gli aspetti della legge islamica, comprese esecuzioni pubbliche, lapidazioni e fustigazioni e l’amputazione degli arti per i ladri. “Esaminare attentamente i registri di ladri, rapitori e sediziosi”, ha twittato il portavoce dei talebani, citando Akhundzada. Per “questi fascicoli in cui sono state soddisfatte tutte le condizioni della sharia (...) siete obbligati ad applicare” tutte le sanzioni previste, ha proseguito. “Con questa diffida ad applicare quanto scritto, Hibatullah Akhundzada ricorda che l’unica legge sulla terra è quella di Dio e che gli uomini non devono interpretarla”, ha spiegato Karim Pakzad ricercatore dell’Istituto di relazioni internazionali e strategiche (Iris), intervistato dall’agenzia France Presse. Mentre i talebani oggi incontrano resistenze all’interno del regime stesso, “la sharia, che è la base ideologica del movimento, è un modo per riunire le persone e creare unità”, osserva il ricercatore. I talebani hanno effettuato diverse fustigazioni pubbliche da quando sono saliti al potere, ma l’esecuzione di oggi è la prima che hanno riconosciuto. I social media sono stati inondati per più di un anno di video e foto di combattenti talebani che infliggono fustigazioni di strada a persone accusate di vari reati. Ci sono anche segnalazioni di fustigazioni per adulterio nelle zone rurali dopo la preghiera del venerdì, ma è difficile verificare in modo indipendente. Al loro ritorno al potere, i talebani avevano promesso di essere più flessibili nell’applicazione della Sharia, ma sono in gran parte tornati all’interpretazione ultra-rigorosa dell’Islam che aveva segnato il loro primo passaggio al potere (1996-2001). Allora con regolarità punivano pubblicamente gli autori di furto, rapimento o adulterio, con pene come l’amputazione di un arto o la lapidazione.