Suicidi, il Garante Mauro Palma avverte: “Lo stigma uccide più degli edifici degradati” di Eleonora Martini Il Manifesto, 7 dicembre 2022 Il rapporto del Garante: “Dei 79 casi di suicidio registrati (74 uomini e 5 donne) 33 riguardano persone con fragilità personali o sociali (senza fissa dimora, persone con disagio psichico, ecc.)”. Alle parole del ministro Carlo Nordio, pronunciate in Commissione Giustizia del Senato, sembra rispondere indirettamente lo studio sui suicidi in cella che sta conducendo l’ufficio del Garante nazionale dei diritti dei detenuti e anticipato ieri con i primi risultati. Il Guardasigilli - che oggi per assistere alla prima della Scala diserterà il Palco reale riservato alle massime autorità dello Stato e seguirà invece il “Boris Gudanov” insieme ai detenuti del carcere milanese di San Vittore - ha rivelato di aver “vissuto con grande dolore la sequenza di suicidi” e di aver attivato per questo “una pressante energia per limitare i tagli previsti dalla legge di bilancio e per devolvere al settore eventuali risorse disponibili”. Ma le soluzioni che individua Nordio nel suo programma - peraltro in apparente discordia con le azioni del suo governo - sono quelle indicate dal Garante? È un numero effettivamente impressionante, quello dei suicidi in carcere: “Nel 2022, in 11 mesi, negli Istituti penitenziari sono decedute 194 persone - si legge nel rapporto del Garante - 82 per cause naturali, 79 per suicidio (secondo alcuni calcoli sarebbero 80, ma solo perché il primo suicidio è stato registrato nel nuovo anno anche se avvenuto nel 2021, ndr), 30 per cause da accertare e 3 per cause accidentali”. Un numero record assoluto, mentre negli ultimi dieci anni la popolazione detenuta è perfino diminuita di 11.687 unità, e tanto più allarmante se si pensa che “l’Italia - come scrive Mauro Palma nell’introduzione del dossier - nel confronto con altri Paesi europei, non ha un’alta percentuale media di suicidi nell’anno, ma tale valore cresce secondo un fattore moltiplicativo di più di 15 volte quando si considera il sottoinsieme della popolazione detenuta. Più di quanto non cresca in termini relativi in altri Paesi che partono da valori esterni maggiori”. Secondo Palma, “i suicidi non interrogano solo chi ha la responsabilità diretta della detenzione” ma “tutta la collettività esterna”. Infatti, negli ultimi 10 anni, negli Istituti italiani “si sono verificati 583 suicidi, di persone di età compresa tra i 18 anni e gli 83 anni; quasi la metà delle persone era in attesa di una sentenza definitiva (tasso simile nel 2022)”. Anche analizzando i dati di quest’anno, “a dispetto di quanto ci si potrebbe aspettare, le condizioni della vita detentiva o la durata della pena ancora da scontare o della carcerazione preventiva spesso non sembrano risultare determinanti nella scelta di togliersi la vita”. Infatti, “troppo breve è stata in molti casi la permanenza all’interno del carcere, troppo frequenti sono anche i casi di persone che presto sarebbero uscite. In questi casi - si legge nel rapporto - sembra piuttosto che lo stigma percepito dell’essere approdati in carcere costituisca l’elemento cruciale che spinga al gesto estremo”. Infatti: “49 persone, pari al 62 % del totale, si sono suicidate nei primi sei mesi di detenzione; di queste, 21 nei primi tre mesi dall’ingresso in Istituto e 15 entro i primi 10 giorni, 9 delle quali addirittura entro le prime 24 ore dall’ingresso. Questo vuol dire che circa un suicidio su 5 si verifica nei primi 10 giorni dall’ingresso nel carcere”. Inoltre, “fra le 79 persone suicidatesi, 5 avrebbero completato la pena entro l’anno in corso, 39 avevano una pena residua inferiore a 3 anni; solo 4 avevano una pena residua superiore ai 3 anni e una soltanto aveva una pena residua superiore ai 10 anni. Un picco si è registrato nel mese di agosto, quando in carcere gran parte delle attività si fermano, con ben 17 casi”. Nordio ricorda poi anche il problema del sovraffollamento, che “deve essere risolto” ripensando “l’intera edilizia” penitenziaria con un “commissario ad hoc”. Secondo Palma, però, il decadimento delle strutture e l’insufficiente spazio vitale sono la “concausa di un senso di vuoto invivibile che può determinare la scelta estrema, ma non la causa principale”. In ogni caso, anche per il ministro, nel ripensare il trattamento penitenziario, vanno poste particolari “tutele per i fragili, potenziando il coordinamento con le autorità sanitarie gli enti locali e le comunità terapeutiche. L’obiettivo - dice Nordio - è individuare fin dall’inizio le persone con problematiche da dipendenza o con patologie psichiatriche o rischio di autolesionismo”. E infatti, rileva il Garante, “dei 79 casi di suicidio registrati (74 uomini e 5 donne) 33 riguardano persone riconosciute con fragilità personali o sociali (senza fissa dimora, persone con disagio psichico, ecc.)”. Eppure, fa notare Palma, “l’analisi dei casi di suicidi in carcere conferma questa necessità di un discorso pubblico diverso sulla pena”, “non connotato ideologicamente, ma riportato nel solco dell’utilità della funzione penale, dei suoi limiti, delle sue necessità in termini di qualità professionale e di capacità di allineamento con lo svolgersi della vita esterna. Tutto ciò ancor prima del tema, peraltro urgente, della riqualificazione materiale delle strutture”. Da garantista quale è, comunque Nordio ammette che “certezza della pena non significa sempre e solo carcere”, e che per i “reati minori” le misure alternative sono “più efficaci”. E arriva addirittura a rispolverare le sue antiche convinzioni riguardo l’amnistia: a forza di schierarsi contro di essa, afferma, si è ottenuto “il paradossale effetto di associare l’impunità del crimine all’impotenza dello Stato”. “Lo sosteneva già 10 anni fa - ricorda Rita Bernardini, dirigente del Partito radicale - quando, come magistrato e come cittadino, sposò la lotta di Pannella per l’amnistia. Ora che è ministro può incidere in modo determinante per riformare un sistema ormai incapace di fornire il servizio giustizia al cittadino”. Il Garante: un suicidio su 5 avviene nei primi 10 giorni di carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 dicembre 2022 Dalle anticipazioni dello studio emerge che uno su 5 si verifica nei primi dieci giorni dall’ingresso in carcere, la metà sono persone fragili. Dal 2012 a oggi si sono tolti la vita 583 detenuti. Sui 79 casi di suicidio registrati dall’inizio dell’anno 2022 in carcere (il tasso più alto di suicidi degli ultimi 10 anni), 33 riguardano persone riconosciute con fragilità personali o sociali. Non solo. Ben 49 persone, pari al 62 % del totale, si sono suicidate nei primi sei mesi di detenzione; di queste, 21 nei primi tre mesi dall’ingresso in Istituto e 15 entro i primi 10 giorni, 9 delle quali addirittura entro le prime 24 ore dall’ingresso. Ciò significa che circa un suicidio su cinque si verifica nei primi dieci giorni dall’ingresso nel carcere. Dei 79 casi di suicidio registrati 33 riguardano persone riconosciute con fragilità personali o sociali - Questo e altro ancora è emerso dalla conduzione di uno studio - tuttora in corso - del Garante Nazionale delle persone private della libertà. La prima parte dello studio, sull’anno in corso, prende in esame una serie di variabili: alcune relative alla persona, come l’età, il genere, la nazionalità, la tipologia di reato ascritto, la durata della permanenza nell’Istituto in cui si è verificato il suicidio, la posizione giuridica, la data del fine pena, eventuali condizioni di particolare vulnerabilità. Si pensi che dei 79 casi di suicidio registrati 33 riguardano persone riconosciute con fragilità personali o sociali (senza fissa dimora, persone con disagio psichico, ecc.). In undici mesi, da gennaio a novembre del 2022, si sono tolte la vita 79 persone, di cui 74 erano uomini e 5 donne. Se si prende in considerazione non solo lo stesso numero di mesi ma tutti i dodici mesi per ogni anno, si tratta del più alto di suicidi mai registrato negli ultimi dieci anni. Tale dato - rende noto il Garante - risulta ancora più allarmante se lo si rapporta al totale della popolazione detenuta nei diversi anni: infatti, nel 2022 si registra una popolazione detenuta media visibilmente inferiore a quella del 2012 - ben 11.687 persone detenute in meno - ma con 23 suicidi in più rispetto a quelli verificatisi in quell’anno. Condizioni di vita detentiva, durata della pena ancora da scontare o carcerazione preventiva spesso non sembrano risultare determinanti - Negli ultimi dieci anni, negli Istituti penitenziari nazionali, si sono verificati 583 suicidi, di persone di età compresa tra i 18 anni e gli 83 anni, quasi la metà delle persone era in attesa di una sentenza definitiva (tasso simile alle persone che si sono suicidate nel 2022). Per quanto riguarda specificamente i suicidi avvenuti nel 2022, a dispetto di quanto ci si potrebbe aspettare, il Garante nazionale osserva che condizioni della vita detentiva o la durata della pena ancora da scontare o della carcerazione preventiva spesso non sembrano risultare determinanti nella scelta di una persona detenuta di togliersi la vita. Lo stigma per essere entrati in carcere elemento cruciale per chi decide di suicidarsi - Troppo breve è stata in molti casi la permanenza all’interno del carcere, troppo frequenti sono anche i casi di persone che presto sarebbero uscite. In questi casi sembra piuttosto che lo stigma percepito dell’essere approdati in carcere costituisca l’elemento cruciale che spinga al gesto estremo. Infatti circa un suicidio su cinque si verifica nei primi dieci giorni dall’ingresso nel carcere. Inoltre, fra le 79 persone suicidatesi 5 avrebbero completato la pena entro l’anno in corso 39 avevano una pena residua inferiore a 3 anni; solo 4 avevano una pena residua superiore ai 3 anni e una soltanto aveva una pena residua superiore ai 10 anni. Il picco dei suicidi in carcere ad agosto: 17 casi - Un picco si è registrato nel mese di agosto, quando in carcere gran parte delle attività si fermano, con ben 17 casi. “Tale quadro complessivo non può non preoccupare e interrogare una Autorità di garanzia che ha il compito di vigilare sul rispetto dei diritti delle persone private della libertà, a cominciare dal diritto alla vita e alla dignità, pur con la consapevolezza che la decisione di porre fine alla propria vita si fonda su un insieme di cause e di ragioni intimamente personali”, chiosa il Garante nazionale. Nel primo studio appena pubblicato, il Garante denuncia che il mondo del carcere sta vivendo un momento di particolare complessità e criticità. Nel 2022 sono morte in carcere 194 persone - Nel 2022, in undici mesi, negli Istituti penitenziari sono decedute 194 persone: 82 per cause naturali, 79 per suicidio, 30 per cause da accertare e 3 per cause accidentali. Va ricordato che la popolazione detentiva complessiva alla data del 30 novembre è di 56.524 persone, di cui 2.389 donne. Queste ultime - ci tiene a ricordare il Garante - rappresentano mediamente il 4% della popolazione detenuta. Delle persone che si sono suicidate 49 erano italiane e 33 straniere - Riguardo alla nazionalità, 46 erano italiane e 33 straniere (18 delle quali senza fissa dimora), provenienti da 16 diversi Paesi: Albania (5), Tunisia (5), Marocco (5), Algeria (2), Repubblica Dominicana (2), Romania (2), Nigeria (2), Brasile (1), Nuova Guinea (1), Pakistan (1), Cina (1), Croazia (1), Eritrea (1), Gambia (1), Georgia (1), Ghana (1), Siria (1). Le fasce d’età più presenti sono quelle tra i 26 e i 39 anni (33 persone) e tra i 40 e i 54 anni (28 persone); le restanti si distribuiscono nelle classi 18-25 anni (9 persone), 55-69 anni (6 persone) e ultrasettantenni (3 persone). Si rileva che 12 persone appartengono alle fasce d’età dei più giovani e dei più anziani e che l’età media delle 79 persone che si sono suicidate, è di 40 anni. 23 persone avevano già tentato un suicidio in carcere - Analizzando i dati relativi agli eventi critici, lo studio del Garante ha rilevato la presenza di eventuali fattori indicativi di fragilità o vulnerabilità. La lettura ha fatto emergere che 65 persone (pari all’82,28%) erano coinvolte in altri eventi critici, mentre altre 26 (ossia il 33%) avevano precedentemente messo in atto almeno un tentativo di suicidio (in 7 casi addirittura più di un tentativo). Inoltre, 23 persone (ossia per il 29% dei casi) erano state sottoposte alla misura della “grande sorveglianza”2 e di queste 19 lo erano anche al momento del suicidio. Va osservato poi che 18 persone tra quelle che si sono tolte la vita risultavano senza fissa dimora e, come già anticipato sopra, erano tutte di nazionalità straniera. A proposito di quest’ultimo dato, si evidenzia che il numero delle persone senza fissa dimora che si sono tolte la vita risulta in netto aumento rispetto agli anni precedenti. Dal 2017 al 2017 c’è stato un graduale aumento della popolazione penitenziaria e di suicidi in carcere - Dal 2012 al 2016 il numero dei suicidi decresce contestualmente alla diminuzione della popolazione media detenuta, mentre dal 2017 si assiste a un graduale aumento della popolazione media e del numero dei suicidi fino al 2019, per arrivare al 2022 in cui si registra una popolazione detenuta media visibilmente inferiore a quella del 2012 - ben 11.687 persone detenute in meno - ma con 23 suicidi in più rispetto a quelli verificatisi in quell’anno. L’evidente decremento della popolazione avvenuto nell’anno 2020 è attribuibile alle misure alternative al carcere introdotte e potenziate a causa della situazione emergenziale conseguente alla pandemia di Covid19. Per il garante occorrerebbero interventi di prevenzione suicidaria - Emerge, quindi, che il sovraffollamento, nonostante quanto spesso sostenuto, non sembra essere la causa principale degli eventi suicidari. Lo studio del Garante sottolinea che è invece l’importanza dell’effettiva presenza di un regime “aperto” e un’efficiente elaborazione dei programmi operativi di prevenzione del rischio autolesivo e suicidario all’interno degli istituti detentivi. Interventi di prevenzione suicidaria che dovrebbero essere estesi, di fatto, a tutte le tipologie di persone detenute: non solo a chi entra per la prima volta in carcere, ma anche alle persone sottoposte a trasferimenti e a quelle prossime al fine pena. Le storie di chi si è ucciso dietro le sbarre nel 2022 di Manuela D’Alessandro agi.it, 7 dicembre 2022 Le testimonianze su alcuni uomini e donne tra i 79 detenuti suicidi. Dal più giovane a chi in cella non ci doveva stare: le loro vite prima che diventassero un numero. D’estate il carcere Lorusso e Cotugno di Torino, come ogni altro, si riempie di un mare di silenzio. Non ci sono attività ricreative, il tempo è di sasso. La notte prima di Ferragosto Alessandro Gaffoglio, 25 anni, si è infilato un sacchetto di nylon sulla testa e il suo cuore ha smesso di battere lentamente sotto la coperta. Ci aveva già provato qualche giorno prima nella sezione ‘Nuovi giunti’. Il 2 agosto era stato arrestato per una rapina al supermercato, il 16 agosto i genitori avevano un appuntamento con lui ma l’estate di Alessandro si era già spezzata a metà. La sua è una delle 79 storie di persone, 74 uomini e 5 donne, che si sono uccise in carcere. Il numero più alto negli ultimi dieci anni, ha scritto il Garante delle persone private della libertà personale nel suo rapporto, 23 in più rispetto al 2012. L’AGI ha contattato legali, garanti locali, volontari e e familiari per conoscere le vite che c’erano prima dei numeri. Laura Spadaro, l’avvocato di Gaffoglio, che era incensurato, aveva sollevato il tema di possibili disagi psichiatrici del ragazzo di origini brasiliane adottato da una famiglia torinese che, fino ad agosto, non aveva avuto problemi con la giustizia. “Era dolce, molto dolce. Non è facile accettare quello che è successo” spiega Spadaro che alla Procura ha chiesto di chiarire perché il suo rischio suicidiario sia stato abbassato nonostante avesse già tentato di uccidersi qualche giorno prima. Il più giovane - Il più giovane di tutti era Giacomo Trimarco. Arrestato per il furto di un telefono, si è tolto la vita a 21 anni a San Vittore dove non sarebbe dovuto stare. Da otto mesi era destinato a una Rems perché soffriva di un disturbo borderline ma per lui e per tanti altri non c’era posto a causa delle liste d’attese lunghe in media 304 giorni. La madre Stefania pensava che il carcere fosse il meno peggio dove aspettare perché l’avrebbe tenuto lontano dall’alcol. “Invece è andato tutto storto. Di Giacomo non importava nulla a nessuno, dal Sert ai servizi psichiatrici nessuno ha ascoltato la nostra richiesta di aiuto. Una comunità terapeutica l’ha respinto perché era troppo impegnativo”. L’autopsia rivela che è morto per avere inalato troppo butano. Spesso i detenuti usano le bombolette non solo per cucinare ma anche per l’effetto simile all’eroina. “Non voleva uccidersi, ma stava così male che aveva bisogno di sniffare”. Era molto altro, oltre la sua malattia. “Aveva la voce di un angelo, suonava il flauto e costruiva macchinette per i tatuaggi, anche in carcere”. Simone Melardi, entrava e usciva dagli ospedali - “Era così generoso che una volta aveva preso una pianta enorme da un palazzo e l’aveva portata al Centro di malattie mentali per fare un regalo”. Simone Melardi, 44 anni, era in lista d’attesa per essere inserito in una comunità terapeutica perché soffriva di una psicosi. “All’età di 16 anni ebbe una grave delusione amorosa durante il servizio militare, gli fecero un tso e da allora è cambiato. Entrava e usciva dagli ospedali, non lo tenevano mai più di sette giorni” racconta la mamma. I suoi problemi con la droga peggioravano. “Non ha mai commesso gravi reati, solo furtarelli”. Era nel carcere di Caltagirone per aver rubato un telefono e un portafoglio a teatro, subito restituiti. Lo avevano messo in regime di massima sorveglianza. La sua legale Rita Lucia Faro ha presentato denuncia per capire se chi doveva vigilare non l’abbia fatto nonostante dovesse essergli prestata massima attenzione. Roberto Pasquale Vitale, ”moriva di caldo” - L’estate di Roberto Pasquale Vitale era stata così calda da far gelare il sangue. Sudava, la sua cella al Pagliarelli di Palermo bolliva tanto che, racconta il padre, “si comprava a peso d’oro l’acqua dentro al carcere per farsi la doccia con le bottiglie”. Anche lui aspettava una comunità perché stava male. “Lo avevano spostato dalla cella, alla fine non prendeva più le medicine”. È stato 18 giorni in coma dopo essersi stretto un lenzuolo al collo. Il suo compagni di cella Cristian se lo ricorda per i caffè davanti alla cella. “È stato per me una guida e un leone”. Dahou 26 anni, una vita lunghissima - Abderrazak Dahou aveva 26 anni ma una vita lunghissima. Dieci anni fa aveva lasciato il Marocco per l’Italia ma si era ritrovato senza lavoro né documenti e si era messo a spacciare droga. Finito in carcere a Prato nel 2015, sette anni dopo è uscito ed è tornato alla casella inziale. Arrestato di nuovo mentre trasportava droga a bordo di un motorino, si è impiccato nel carcere di Sollicciano a Firenze. Fatima, volontaria dell’associazione Pantagruel, l’aveva incontrato prima. “A me sembrava tranquillo, l’avvocato gli aveva detto che forse avrebbe ottenuto i domiciliari a casa della sorella. Era contento di avere telefonato alla madre in Marocco”. Poi è toccato proprio a Fatima avvertire la donna perché nessuno lo aveva fatto. “Ma come, stava bene...”. Aziz Rouam, su un’isola - Aziz Rouam a 37 anni viveva da solo come su un’isola, a Rimini. Senza dimora, senza famiglia, senza legami di altro genere. “È finito in carcere per avere violato l’obbligo di firma a cui era sottoposto per alcuni furti perché aveva dei problemi di salute e non è riuscito a rispettarlo quando stava male” dice l’avvocato Luca Campana. È finito su un’altra ‘isola’: la prima sezione del carcere di Rimini che l’Ausl della Romagna aveva chiesto di chiudere nel 2021 “per le scadenti condizioni igieniche con rischio sanitario”. La cucina nello stesso spazio dove defecavano le persone detenute. “Quanto di più lontano da un luogo di rieducazione della pena” afferma Ivan Innocenti, militante radicale che l’aveva visitato. Si commuove al telefono pensando a quando i reclusi lo hanno accolto con la disperazione dei naufraghi che chiedono aiuto, con un foglio scritto a penna con le loro richieste. “Si sentivano in colpa per non avere capito quanto stava male il compagno rimasto nella sua ‘isola’, anche se vivevano appiccicati”. Manuela Agosta voleva aprire un bar - Manuela Agosta era una delle cinque donne. Arrestata al martedì per spaccio, poco meno di 48 ore dopo si è uccisa. In mezzo l’interrogatorio di garanzia in cui sembrava guardare al futuro dove i suoi 29 anni avrebbero dovuto spingerla, nonostante tutto. ”Cambio vita, voglio andare all’estero e lavorare in un bar” aveva detto al giudice, secondo il racconto del legale Vincenzo Melilla. Dopo l’interrogatorio, in videocollegamento per la pandemia, si è impiccata. “Una ragazza bellissima e molto allegra”, la descrivono. Incensurata. “Per quei reati non si deve stare in carcere ma in un luogo di cura” viene solo da dire a Melilla. Donatella Hodo, la ragazza per cui un giudice ha chiesto scusa - È diventata un simbolo. Perché aveva 27 anni, perché era bella, perché il giudice che l’ha seguita nel suo dentro e fuori dal carcere di Verona ha chiesto pubblicamente scusa per la sua morte. Mancava poco per uscire, aveva quasi scontato le condanne per reati legati alla droga. Ha lasciato un biglietto al suo fidanzato: “Sei la cosa più bella che mi sia capitata nella vita ma ho paura di perderti e non me lo perdonerei. Perdonami Leo”. Il ‘suo’ magistrato di Sorveglianza, Vincenzo Semeraro: “A Donatella volevo particolarmente bene, non è vero che i magistrati non si affezionino ai detenuti. La responsabilità della sua morte è prima di tutto mia perché faccio parte del sistema che ha fallito”. Treu (Cnel): 18.654 detenuti hanno un regolare Ccnl agrpress.it, 7 dicembre 2022 Cantone (DAP): vantaggi e agevolazioni per imprese e cooperative disposte ad assumere. I detenuti e le detenute che lavorano con un contratto collettivo nazionale sono 18.654 detenuti (34% dei presenti) di cui 16.181 alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria (84,7%) e 2.473 per imprese/cooperative esterne e hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri dei lavoratori liberi. Percepiscono una remunerazione molto simile a quella dei lavoratori in stato di libertà, hanno diritto alle ferie remunerate, alle assenze per malattia e il datore di lavoro paga per essi i contributi assistenziali (assicurazione sanitaria) e pensionistici. I dati sono stati presentati a Roma, al CNEL, al convegno “Le dimensioni della dignità nel lavoro carcerario” introdotto dal presidente Tiziano Treu, con gli Interventi, tra gli altri, di Francesca Malzani, Professoressa di Diritto del Lavoro, Università degli Studi di Brescia; Carmelo Cantone, Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - DAP; Mauro Palma, Presidente dell’Autorità Garante diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale; Gianfranco De Gesu, Direttore Generale dei Detenuti del DAP - Ministero della Giustizia, Lucia Castellano, Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Campania. Quella di oggi è la tappa di un percorso avviato dal CNEL con il Ministero della Giustizia e l’Amministrazione penitenziaria con il Rapporto sul mercato del lavoro e la contrattazione 2021 in cui, per la prima volta, si sono accesi i riflettori sul lavoro di detenuti e detenute, con un capitolo interamente dedicato al tema a firma di Giuseppe Cacciapuoti, Lucia Castellano e Gianfranco De Gesu, che prevede l’istituzione di un gruppo di lavoro con l’obiettivo di comprendere, analizzare e sciogliere i nodi burocratici e giuridici che impediscono la piena attuazione del principio Costituzionale. L’ingresso dell’imprenditoria all’interno degli Istituti di pena è venuto dalla legge193/2000 (cd. Legge Smuraglia), che offre incentivi economici alle imprese che assumono detenuti, tra questi uno sconto del 95% sui contributi che il datore di lavoro versa allo Stato per la pensione e l’assistenza sanitaria; l’utilizzo gratuito deii locali e le eventuali attrezzature esistenti; un bonus di 520 euro mensili (sotto forma di credito di imposta) per ogni detenuto assunto. Le agevolazioni proseguono nei diciotto o ventiquattro mesi successivi alla scarcerazione del detenuto, se prosegue il rapporto di lavoro all’esterno con lo stesso datore di lavoro. “I dati sul lavoro nelle carceri italiane o nella giustizia di comunità sono molto confortanti e ci danno, per la prima volta, un’immagine del sistema penitenziario molto diversa da quella che viene generalmente rappresentata ed è un segnale di grande maturità del nostro Paese. L’obiettivo e l’auspicio è spostare sempre di più i contratti dagli istituti penitenziari verso imprese e cooperative ma soprattutto definire percorsi di riabilitazione con enti locali e cooperative per favorire il reinserimento graduale”, afferma Tiziano Treu. “Implementare lavoro in carcere non significa togliere lavoro all’esterno è invece un grande valore per la società e anche di arricchimento del mercato del lavoro stesso. Mai come in questo momento storico c’è bisogno di portare sempre più imprese a sostenere i progetti di reinserimento dei detenuti perché il lavoro penitenziario risente della recessione, così come del periodo pre e post covid”, afferma Carmelo Cantone, Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - DAP; “Il lavoro all’interno degli istituti penitenziari è svolto per la maggior parte in servizi domestici e di manutenzione ordinaria e, in misura minore, sia in attività industriali presso lavorazioni direttamente gestite dall’amministrazione, che in attività agricole presso le colonie e i tenimenti agricoli. Nel corso del 2022 la Direzione Generale dei detenuti si è impegnata, con le risorse a disposizione, per razionalizzare le attività delle strutture produttive presenti all’interno degli istituti penitenziari (falegnamerie, tessitorie, tipografie ecc)”, spiega Gianfranco De Gesu, Direttore Generale dei Detenuti del DAP - Ministero della Giustizia. “Al CNEL oggi abbiamo sancito un patto fra l’Amministrazione penitenziaria, il terzo settore e il privato profit, con l’obiettivo di incentivare la funzione rieducativa della pena carceraria, avvicinando il mercato del lavoro al mondo degli istituti di pena. I dati dimostrano che la finalità rieducativa della pena è ancora un obiettivo sostanzialmente inattuato, ma per i detenuti lavoratori i dati sono ottimi. Se la recidiva per i detenuti non lavoratori, infatti, si aggira intorno al 70%, per coloro che invece in carcere hanno appreso un lavoro, imparando ad avere fiducia in sé stessi, la recidiva scende drasticamente intorno al 2%.”, afferma il consigliere Gian Paolo Gualaccini. La tortura legalizzata del 41bis e il caso dell’anarchico Cospito di Davide Varì Il Dubbio, 7 dicembre 2022 Quanto possiamo derogare alla Costituzione e al nostro Stato di diritto? E quanto la lotta alla criminalità organizzata o a qualsiasi forma di estremismo politico violento può giustificare una eccezione ai nostri valori e al nostro sistema di garanzie? Il caso di Alfredo Cospito, l’anarchico finito al 41 bis perché considerato pericoloso come un boss di mafia, ci porta di nuovo a discutere della legittimità del cosiddetto carcere duro, una sorta di tortura legalizzata. E la domanda che dobbiamo porci è una e una soltanto: quanto possiamo derogare alla Costituzione e al nostro Stato di diritto? E quanto la lotta alla criminalità organizzata o a qualsiasi forma di estremismo politico violento può giustificare una eccezione ai nostri valori e al nostro sistema di garanzie? Che si tratti di Totò Riina, del mostro di Firenze o dello stesso Alfredo Cospito, la risposta è sempre la stessa: i diritti devono essere sempre assicurati, tutelati. E ogni qual volta subiscono un graffio o una lesione, sanguina l’intero corpo del nostro fragile Stato di diritto e vengono indebolite le garanzie di ognuno di noi. Se infatti deroghiamo una volta, si può derogare altre dieci, cento, mille volte: l’eccezione diventa consuetudine e ogni ferita diventa una cicatrice permanente. Ed è anche per questo, per tutelare l’equilibrio della nostra giurisdizione e i diritti di tutti noi, che da anni questo giornale chiede che il rilievo dell’avvocato venga più esplicitamente riconosciuto in Costituzione. La toga degli avvocati italiani incarna quei valori, quei principi inderogabili che devono essere scolpiti, rafforzati nella nostra Carta. Insomma, non si tratta di un vezzo corporativo ma del riconoscimento della sacralità e dell’inviolabilità dei diritti di noi tutti. Risarcimenti fino a un milione per ingiusta detenzione: la proposta di Costa di Valentina Stella Il Dubbio, 7 dicembre 2022 Via libera della Camera all’ordine del giorno sulla presunzione d’innocenza: sì di Montecitorio al monitoraggio delle conferenze stampa. Ok anche alla riduzione del numero dei magistrati fuori ruolo. La Camera dei Deputati ha dato il via libera, con 248 sì, 45 no e 12 astenuti, all’ordine del giorno a prima firma di Enrico Costa (Azione - Italia Viva), che “impegna il Governo a prevedere che l’Ispettorato generale del ministero della Giustizia effettui un monitoraggio degli atti motivati dei procuratori della Repubblica in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico che giustifica l’autorizzazione a conferenze stampa e comunicati degli organi inquirenti”. Ad annunciare parere favorevole all’odg, insieme alla maggioranza e Azione-Italia viva, il Partito democratico. Il Movimento 5 Stelle ha espresso voto contrario mentre il gruppo Alleanza Verdi-Sinistra si è astenuto. “Il rischio da scongiurare - si legge nell’odg - è che la Polizia giudiziaria proceda senza aver richiesto o ottenuto l’autorizzazione dei procuratori della Repubblica o che questi ultimi utilizzino motivazioni “di stile” per procedere a conferenze stampa o autorizzare le forze di polizia ad adottare determinate forme di comunicazione, con ciò eludendo il disposto normativo che richiede specifiche ragioni di pubblico interesse; nonostante l’entrata in vigore delle nuove norme, infatti, è emersa la prassi di comunicati delle forze di polizia non rispettosi della presunzione di innocenza”. “Si tratta di un importante atto di indirizzo - ha commentato Costa, vice segretario di Azione e presidente della Giunta per le Autorizzazioni di Montecitorio - che punta a scongiurare nonostante la prassi di conferenze stampa ingiustificate e comunicati delle forze di polizia non rispettosi della presunzione di innocenza, corredati dai nomi delle inchieste e da trailer video, nei quali peraltro non viene fatto cenno alla necessaria autorizzazione del Procuratore della Repubblica”. Magistrati fuori ruolo, sì alla proposta del Terzo Polo - Passato anche l’ordine del giorno sempre del Terzo Polo sulla riduzione del numero dei magistrati fuori ruolo con il voto della maggioranza, il no del M5S e l’astensione di Pd e Avs (184 sì, 43 no, 67 astenuti). Il testo, di Roberto Giachetti e Enrico Costa, impegna il governo “ad operare una significativa riduzione del numero di magistrati fuori ruolo presso il ministero della Giustizia, con particolare riferimento a quelli che svolgono funzioni amministrative e alle posizioni per le quali non è tassativamente richiesta dalla legge la qualifica di magistrato”. Risarcimenti fino a un milione per ingiusta detenzione: la proposta di Costa - Sempre Costa è riuscito a far approvare in commissione giustizia della Camera un emendamento alla legge di Bilancio che prevede di aumentare da 516mila ad un milione di euro la somma massima prevista per i risarcimenti a chi ha subito un’ingiusta detenzione. “Si tratta di un segnale fondamentale di sensibilità verso gli innocenti ingiustamente privati della libertà: sappiamo bene che non c’è cifra che possa cancellare la cicatrice di un arresto immotivato, ma è giusto che lo Stato intervenga anche su questo profilo. E magari vada a vedere se è di chi sono le responsabilità”, ha commentato Costa. Che ha aggiunto: “Ora attendiamo fiduciosi il responso della Commissione Bilancio e dell’Aula”. Giustizia, perché il cambio di passo di Stefano Folli La Repubblica, 7 dicembre 2022 La scelta della premier per riunire la coalizione e distogliere l’attenzione dalla manovra. Nel merito l’intervento del ministro Guardasigilli al Senato può essere condiviso o no, come è ovvio, tuttavia il suo significato politico è molto chiaro. È un cambio di passo del governo sul terreno più scivoloso, quello della riforma della giustizia. Nordio è stato esplicito, quasi sferzante, su tutti i temi più controversi: l’abuso delle intercettazioni “usate per delegittimare”, l’obbligatorietà dell’azione penale “diventata arbitrio”, gli eccessi della custodia cautelare e in particolare il nodo rovente: la separazione delle carriere in magistratura. Questo punto è accennato, ma in modo tale da non lasciare dubbi: “Non ha senso che il pubblico ministero appartenga allo stesso ordine del giudice perché svolge un ruolo diverso”. Qualcuno ha subito parlato di “rivoluzione garantista” e certo Nordio ha tenuto fede alla sua impostazione liberale, testimoniata negli anni da decine di articoli e interventi nel dibattito pubblico. Resta da vedere se i fatti seguiranno le intenzioni: una riforma così ampia e profonda, ieri solo intravista, implica non solo alcune correzioni alla Costituzione, ma soprattutto la capacità di reggere un confronto politico che sarà aspro in Parlamento e nel Paese. E sarà altrettanto duro - è facile prevederlo - con alcuni settori della magistratura, gli stessi che già avevano protestato contro la riforma Cartabia, peraltro assai meno radicale di quella prospettata da Nordio. Ci sarà tempo per parlarne. Ora prevale il risvolto politico e non stupisce che la premier Meloni abbia subito dichiarato il sostegno alla linea del suo ministro, da lei tenacemente voluto a via Arenula. La presidente del Consiglio ha bisogno di allargare il respiro dell’esecutivo. Le serviva un tema forte su cui riunire la sua maggioranza, da Berlusconi a Salvini, indicando una prospettiva di lavoro che nella migliore delle ipotesi abbraccerà un paio d’anni e forse più. In due parole, occorreva uscire dalla difensiva. Parlare di “Pos” e di uso del contante può andar bene per ventiquattro ore, ma poi diventa un po’ stucchevole per gli stessi sostenitori della riformetta, peraltro già semi-bocciata dall’Unione europea. E il terreno si stava facendo sdrucciolevole per diversi motivi. La polemica contro la Banca d’Italia, accesa da uno dei più stretti collaboratori della premier, si è subito rivelato un errore, magari solo di ingenuità. E la tentazione di attribuire a Mario Draghi le difficoltà rispetto al Pnrr (ritardi e alcune incoerenze nelle richieste) è un’altra trappola in cui qualcuno del centrodestra rischia di cadere. Lo stesso presidente della Repubblica ha consigliato, tra le righe ma non troppo, di fare attenzione. Solo chi ignora il credito di cui Draghi continua a godere sul piano internazionale può commettere un simile passo falso. La premier è persona abile e senza dubbio ha avvertito il pericolo. Ma appunto per non essere costretta ogni giorno sulla difensiva, ha capito di dover giocare anche su altri tavoli. Niente come il funzionamento o il non funzionamento della giustizia suscita interesse e apre discussioni. È questione che tocca in modo diretto la vita di milioni di italiani, molti dei quali hanno sperimentato sulla loro pelle il costo di un sistema inefficiente. Senza contare che tale inefficienza si riflette sul terreno economico, disincentiva gli investimenti in Italia, respinge in molti casi i capitali stranieri. In breve, ce n’è abbastanza per giustificare un nuovo progetto di riforma, stavolta nella chiave liberale scelta dal centrodestra al governo. Poi si valuteranno nel merito le proposte e anche l’opposizione in cerca di se stessa potrà giovarsi di una battaglia ideale su temi concreti. Magari sottraendosi allo scenario manicheo di “garantisti” contro “giustizialisti”. Più garanzie e meno carcere: il programma, non proprio meloniano, del ministro Nordio di Ermes Antonucci Il Foglio, 7 dicembre 2022 Il Guardasigilli ha presentato le sue linee programmatiche al Senato: separazione delle carriere tra pm e giudici, stop alla gogna, riforma delle intercettazioni, meno carcere. Quasi a rispondere alle critiche di chi lo rappresenta come una “foglia di fico” del governo Meloni, il Guardasigilli Carlo Nordio martedì è intervenuto alla commissione Giustizia del Senato per illustrare le sue linee programmatiche e, con parole ferme e chiare, ha presentato un programma così garantista da far impallidire la componente più forcaiola che sostiene la maggioranza: separazione delle carriere tra pm e giudici, rafforzamento della presunzione di innocenza, contrasto all’abuso della carcerazione preventiva, riforma delle intercettazioni, revisione dei reati che bloccano la Pubblica amministrazione e, soprattutto, più pene alternative al carcere. Nordio ha ribadito che in questa prima fase la priorità sarà riposta sui provvedimenti “che possono avere un impatto favorevole sull’economia”. Inevitabili, quindi, i riferimenti alla semplificazione della legislazione e dell’organizzazione giudiziaria, alla razionalizzazione della spesa, alla digitalizzazione e alla riforma della giustizia civile, i cui decreti attuativi “verranno adottati entro il 30 giugno 2023”. Ma l’attenzione di Nordio si è poi concentrata sulla riforma della giustizia penale. Il Guardasigilli ha rilevato “contraddizioni insanabili”, che “vanno risolte”, adeguando il codice penale “ai princìpi costituzionali” e con la “completa attuazione” del codice Vassalli di procedura penale. Il primo principio costituzionale al centro dell’attenzione di Nordio è la presunzione di innocenza, che “è stato e continua a essere vulnerato in molti modi: l’uso eccessivo e strumentale delle intercettazioni; la loro oculata selezione, con la diffusione pilotata; l’azione penale che è diventata arbitraria e capricciosa; l’adozione della custodia cautelare come strumento di pressione investigativa; lo snaturamento dell’avviso di garanzia, diventata condanna mediatica anticipata e persino come strumento di estromissione degli avversari politici”.  Sulla carcerazione preventiva, per Nordio “il paradosso più lacerante è che tanto è facile entrare oggi in prigione prima del processo, da presunti innocenti, quanto è facile uscirne dopo la condanna da colpevoli conclamati”. Tuttavia, proprio perché la custodia cautelare confligge con la presunzione di innocenza, “non può essere demandata al vaglio di un giudice singolo”.  Netta la posizione del ministro anche sul tema intercettazioni: “In Italia il numero di intercettazioni è di gran lunga superiore alla media europea e ancor di più rispetto ai paesi anglosassoni. Il loro costo è elevatissimo, con centinaia di milioni di euro l’anno. Gran parte di queste si fanno sulla base di semplici sospetti e non concludono nulla”. Non solo, per il Guardasigilli esse “costituiscono un pericolo per la riservatezza e l’onore delle persone coinvolte, che spesso non sono nemmeno indagate, e la loro diffusione, talvolta selezionata e magari pilotata, costituisce uno strumento micidiale di delegittimazione personale e spesso politica”. “Ne proporremo una profonda revisione - ha promesso Nordio - e comunque vigileremo in modo rigoroso, e sottolineo rigoroso, su ogni diffusione che sia arbitraria o impropria”.  Il ministro ha poi rilanciato la separazione delle carriere tra pm e giudici: “Non ha senso che il pm appartenga al medesimo ordine del giudice perché, in seguito all’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, svolge un ruolo diverso”. Sull’esecuzione della pena, Nordio ha evidenziato che “la pena deve essere certa, eseguita, rapida e soprattutto proporzionata al crimine commesso”. “Certezza e rapidità della pena, tuttavia, non significano sempre e solo carcere”, ha subito puntualizzato, aggiungendo che per i reati minori “è meglio la concreta attuazione di una pena alternativa al carcere, che faccia comprendere al condannato il disvalore della sua condotta”. Insomma, chi da Nordio si attendeva un colpo al garantismo e un altro al giustizialismo questa volta è rimasto deluso, forse a partire proprio da Meloni, che in serata si è definita “una garantista nella fase di celebrazione del processo e una giustizialista nella fase di esecuzione della pena”. Una formula al di fuori del perimetro costituzionale, che Nordio non si sognerebbe mai di sostenere. Anche se ora, dal Guardasigilli, tutti si aspettano fatti.  Carriere separate, Alta Corte: ecco le linee programmatiche di Nordio di Valentina Stella Il Dubbio, 7 dicembre 2022 Il guardasigilli illustra in Senato il piano per la giustizia, ed è una raffica da far tremare l’Anm: divorzio fra giudicanti e requirenti, Alta Corte, “ispezioni rigorose sulle intercettazioni”. Si potrebbe dire che il ministro della Giustizia Carlo Nordio, nell’illustrare le linee programmatiche del suo dicastero dinanzi alla commissione Giustizia del Senato, sia tornato quello di sempre: il garantista e liberale nudo e crudo, l’editorialista, lo scrittore di saggi anticonformisti, il presidente del Comitato per il Sì ai referendum sulla giustizia giusta di Partito radicale e Lega. In questi primi due mesi a via Arenula è stato criticato soprattutto da chi lo ha accusato di aver subito senza opporre resistenza la linea intransigente di Fratelli d’Italia, partito che lo ha fatto eleggere, e della Lega. E invece questa mattina ha rispolverato tutto il suo repertorio: separazione delle carriere, presunzione di innocenza, abuso delle intercettazioni, misure alternative al carcere, riforma del Csm. Ha disegnato una road map dei prossimi cinque anni da far tremare l’Anm. “Poiché in questo momento - ha esordito - la priorità assoluta è il superamento della crisi economica, le prime iniziative tenderanno a incidere favorevolmente in questa direzione, attraverso la semplificazione della legislazione e dell’organizzazione giudiziaria, attraverso una complessiva rivisitazione della sua geografia e piante organiche di magistratura e personale amministrativo”. Poi ci sarà spazio per le riforme più complesse, quelle che riguarderanno anche la Costituzione: “In un secondo momento saranno elaborate le proposte che incideranno più radicalmente nel sistema complessivo. Il lavoro preliminare è già iniziato, con il progetto di istituire le opportune commissioni e gruppi di lavoro. Ma poiché alcune riforme richiederanno una revisione costituzionale, i tempi saranno meno brevi”. Civile, equo compenso e la raffica sul penale - Riguardo alla giustizia civile, “entro il 30 giugno 2023, ma stiamo lavorando per anticipare i tempi, verranno adottati i decreti attuativi. Particolarmente sensibile è, poi, il tema dell’equo compenso”, rispetto al quale è in previsione “la costituzione di un apposito Osservatorio” (in linea peraltro con quanto già avvenne, grazie al Cnf, quando a via Arenula c’era Bonafede). Ma è sulla riforma del sistema penale che è uscito fuori, anche attraverso una certa modulazione della voce e un uso specifico delle sottolineature, il Nordio che non piace a una grande fetta della magistratura, soprattutto requirente: “Occorre una riforma del codice penale, adeguandolo, nei suoi principi, al dettato costituzionale, e una completa attuazione del codice Vassalli. Una riforma garantista e liberale che può essere attuata in parte con leggi ordinarie e, negli aspetti più sensibili, con una revisione della Costituzione. Indichiamo di seguito i più significativi princìpi, in quanto espressione di valori primari”. Il primo è la presunzione di innocenza: “Essa è stata e continua a essere vulnerata in molti modi: l’uso eccessivo e strumentale delle intercettazioni, la loro oculata selezione con la diffusione pilotata, l’azione penale diventata arbitraria e quasi capricciosa, l’adozione della custodia cautelare come strumento di pressione investigativa, lo snaturamento dell’informazione di garanzia diventata condanna mediatica anticipata e persino strumento di estromissione degli avversari politici”. Una raffica memorabile in cui decisivo è il tema della custodia cautelare. La quale, “proprio perché teoricamente confligge con la presunzione di innocenza, non può essere demandata al vaglio di un giudice singolo”. Per Nordio sarebbe “più ragionevole” spostare la competenza “dal gip a una sezione costituita presso la Corte d’Appello, con competenza distrettuale. Avremmo l’enorme vantaggio di una maggiore ponderatezza della decisione e anche di omogeneità di indirizzo”. L’affondo impietoso sulle intercettazioni - Fino all’affondo sul tema delle intercettazioni: “In Italia il numero di intercettazioni telefoniche, ambientali, direzionali, telematiche, fino al trojan e un domani ad altri strumenti, è di gran lunga superiore alla media europea, e ancor più rispetto a quello dei paesi anglosassoni. Il loro costo è elevatissimo, con centinaia di milioni di euro all’anno. Gran parte di queste si fanno sulla base di semplici sospetti, e non concludono nulla”. Addirittura, sostiene appunto il guardasigilli, “la loro diffusione, talvolta selezionata e pilotata, costituisce uno strumento micidiale di delegittimazione personale e spesso politica. Si tratta di sostanziali violazioni dell’articolo 15 della Costituzione, che fissa la segretezza delle comunicazioni come interfaccia della libertà”. Pertanto “ne proporremo una profonda revisione, e comunque vigileremo in modo rigoroso su ogni diffusione arbitraria o impropria”. Nella risposta a Roberto Scarpinato, ex pg di Palermo (M5S) e senatore M5S che contestava la razionalizzazione degli ascolti, Nordio dice: “Su questo punto il ministro sarà estremamente rigoroso: ogni volta che usciranno sui giornali violazioni del segreto istruttorio in tema di intercettazioni, l’ispezione sarà immediata e rigorosa”. Certezza della pena, ma non solo carcere - Altro capitolo, la certezza della pena: “Essa dev’essere certa, eseguita, rapida e soprattutto proporzionata al crimine commesso”, ma “certezza e rapidità della pena non significano tuttavia sempre e solo carcere”. Per i “reati minori”, “in termini giuridici e razionali è meglio la concreta esecuzione di una pena alternativa”. In merito ai numerosi suicidi (ieri il garante Palma ha scritto in una nota che “nel 2022” si è registrato in carcere “il tasso più alto di suicidi degli ultimi 10 anni”) Nordio ha ripetuto: “Abbiamo vissuto con grande dolore la sequenza di suicidi: anche per questo il ministero si sta attivando con una pressante energia per limitare i tagli previsti dalla legge di Bilancio e per devolvere al settore eventuali risorse disponibili”. Il clou: abusi dei pm e carriere separate - Tema scottante, “il ruolo del pubblico ministero”. Se “nell’ordinamento anglosassone la discrezionalità dell’azione penale è vincolata a criteri oggettivi” nel nostro Paese “l’obbligatorietà è stata mantenuta” e “si è convertita in un intollerabile arbitrio”. Per Nordio il pm “può trovare spunti per indagare nei confronti di tutti senza dover rispondere a nessuno. Un tale sistema conferisce alle iniziative, e talvolta alle ambizioni, individuali di alcuni magistrati, per fortuna pochi, un’egemonia resa più incisiva dall’assenza di responsabilità in caso di mala gestione”. Inoltre con il codice di procedura penale del 1988 tutto è cambiato. Da qui l’esigenza di separare le carriere: “Il pm è una parte pubblica a tutti gli effetti, ma è pur sempre una parte. E quindi non ha senso che appartenga in tutto e per tutto al medesimo ordine del giudice”. Poi si è soffermato sul giudizio disciplinare, un “nodo problematico” perché, dice Nordio, i componenti della sezione disciplinare “sono eletti con criteri di appartenenza correntizia da quegli stessi magistrati che vengono poi giudicati”. Un passaggio di “buon senso”, secondo il guardasigilli, “può essere lo spostamento del giudizio disciplinare dal Csm a una Corte disciplinare terza, non elettiva e individuata con criteri oggettivi, per esempio tra ex presidenti della Cassazione o di alte giurisdizioni o ex giudici della Consulta, nominati dal Capo dello Stato”. Sempre sul Csm ha aggiunto: “Trattandosi di un organo costituzionale auspico una rapida convocazione delle Camere per l’elezione dei membri laici che è stata differita sine die”. Infine un passaggio sulla paralisi amministrativa: per quanto concerne l’abuso di ufficio “le condanne irrogate sono una percentuale minima rispetto al numero di indagine e riguardano episodi di scarso disvalore”. Pertanto, conclude il ministro, “gli appelli continui e pressanti dei pubblici amministratori e in particolare dei sindaci di diverse parti politiche dovrebbero costituire un forte stimolo per rapide conclusioni senza vincoli dogmatici o emotivi”. Giustizia: Nordio promette, la maggioranza non mantiene di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 7 dicembre 2022 Prima le dichiarazioni programmatiche del ministro che propone una linea garantista, poi le precisazioni della presidente del Consiglio e le posizioni della sua maggioranza nelle votazioni sul decreto rave. Tanto nette sono le aspirazioni del ministro Nordio al mattino, quando in commissione giustizia al senato presenta le linee programmatiche del suo ministero, da richiedere nel pomeriggio una piena copertura politica di colei che lo ha voluto in via Arenula. Così, da Tirana, Giorgia Meloni assicura che “l’approccio di Nordio è condiviso dal governo” mentre sul ministro si addensano le critiche di chi vede nella linea garantista su carcere, reati ostativi e intercettazioni, un cedimento sul fronte della guerra alla corruzione e alla mafia - i 5 Stelle, ma anche il Pd - e nella stessa commissione durante le votazioni sul “decreto rave” si confermano le ambiguità e le divisioni della maggioranza sugli stessi temi. Ambiguità che Meloni incarna alla perfezione, quando si autodefinisce “garantista nella fase di celebrazione del processo e giustizialista nella fase di esecuzione della pena”. Uno sgrammaticato (costituzionalmente) tentativo di tenersi in equilibrio tra la tradizionale impostazione “legge e ordine” e i più recenti aneliti verso le garanzie. Tentativo che peraltro ricorda molto il Giuseppe Conte del periodo giallo-verde, quando rifiutava, mettendoli sullo stesso piano, sia il garantismo che il giustizialismo, entrambe a suo dire “visioni manichee”. Detto che però anche qualche passaggio di Nordio in commissione non è stato impeccabile da questo punto di vista - “Il concetto di pena del nostro ordinamento è di natura essenzialmente retributiva”, ha detto, citando a riprova la relazione introduttiva al codice penale che però è stata travolta dalla Costituzione e dall’articolo 27 - resta da riferire i punti fondamentali del programma del ministro. Intercettazioni. Per Nordio in Italia se ne fanno troppe, più che nel resto d’Europa. “Non possiamo spendere 200 milioni per intercettazioni fatte sulla base di semplici sospetti, che non concludono nulla, e non avere i soldi per l’assistenza psicologica nelle carceri dove si commettono suicidi”, ha detto rispondendo al senatore Scarpinato. Annunciando che sarà “estremamente rigoroso contro la violazione del segreto istruttorio in tema di intercettazioni, disponendo immediate ispezioni”. Corruzione. All’ex magistrato antimafia diventato parlamentare 5 Stelle, Nordio ha esposto i suoi titoli da procuratore in Veneto nella lotta alla corruzione, soprattutto l’inchiesta sul Mose, per sostenere che non è con le pene che si combatte la corruzione: “L’intimidazione della norma penale è platonica, sull’abuso d’ufficio abbiamo statistiche allarmanti. Nel 2021 su 5.400 procedimenti ci sono state appena 9 condanne davanti al gip e 18 in dibattimento”. Il discorso è stato il preludio alla votazione della maggioranza, nel pomeriggio, dell’emendamento al “decreto rave” che ha tolto i reati contro la pubblica amministrazione dall’elenco di quelli “ostativi”, quelli cioè che impediscono l’accesso ai benefici penitenziari in caso di mancata collaborazione. Elenco nel quale li aveva spostati la legge “Spazzacorrotti” in epoca giallo-verde, quindi anche con la firma della Lega oltre a quella dell’allora ministro Bonafede. I 5 Stelle gridano, con lo stesso Conte, che così si aprono “praterie di impunità”. Mentre il Pd, che pure condivide il fatto che i reati contro la pubblica amministrazione non possano essere equivalenti a quelli di mafia e terrorismo, denuncia che siano stati tolti dagli ostativi “anche i reati contro la P.A. compiuti in associazione a delinquere”. La responsabile giustizia del partito, Anna Rossomando, dice di sperare in un ravvedimento della maggioranza in aula (da lunedì prossimo) “del resto hanno già dovuto correggersi tante volte su questo decreto”. Riforme costituzionali - Nordio ha rimandato a un secondo tempo le proposte di riforma radicale, spiegando che nell’immediato per “la priorità della crisi economica” si concentrerà sull’efficienza della giustizia, specialmente civile. Ma ha indicato quali sono le riforme costituzionali che avrebbe in mente: separazione delle carriere tra giudici e pm, fine dell’obbligatorietà dell’azione penale “che si è trasformata in un intollerabile arbitrio” e alta corte per togliere al Csm la competenza disciplinare sui magistrati. Csm la cui nuova composizione, si è augurato, non deve essere rinviata sine die. L’elezione dei componenti laici che doveva essere la prossima settimana, ora si sa, il parlamento l’ha fissata a metà gennaio. Nordio torna sé stesso e indica i suoi nemici: pm e intercettazioni di Giulia Merlo Il Domani, 7 dicembre 2022 Il ministro annuncia una riforma costituzionale per modificare l’assetto della magistratura. Santalucia (Anm) è “preoccupato” ma per ora le toghe evitano di andare allo scontro. Nel suo intervento alla commissione Giustizia del Senato, in cui ha presentato le linee guida del suo ministero, è intervenuto in modo pesante contro l’attuale assetto della magistratura. Interviene anche sulla depenalizzazione dei reati e sul carcere e incassa il plauso del Terzo Polo e il prudente e parziale favore del Pd. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, è tornato se stesso nel suo intervento di enunciazione delle linee guida del suo dicastero, che ha concluso dicendo: “Noi siamo garantisti”. Dopo un inizio di legislatura in cui il guardasigilli si era posto in maniera prudente ed era stato anche accusato di aver fatto passi indietro rispetto alle sue posizioni storiche, ora Nordio ha dato risposte di segno opposto, annunciando anche riforme costituzionali. Tre punti cardine del suo intervento: carcere, depenalizzazione e riforma dell’assetto della magistratura. L’intervento è stato accolto con favore dalla maggioranza, con attestati di stima sia da parte di Giorgia Meloni che di Matteo Salvini - nonostante più di un passaggio non sia perfettamente in linea con il programma di coalizione - ma anche dal fronte del Terzo Polo, che si conferma sempre meno ostile al governo. I passaggi più duri, però, hanno riguardato la magistratura e l’assetto della categoria di cui lo stesso Nordio ha fatto parte per quarant’anni, da procuratore di Venezia. La riforma del sistema - “Con l’articolo 101 della Costituzione si è consacrato il rito anglosassone, che ha ispirato il codice Vassalli del 1988, ma il recepimento di questo sistema è stato parziale e con contraddizioni insanabili”, è stato il presupposto del ragionamento di Nordio. Tra le incongruenze, il fatto che sia rimasta l’obbligatorietà dell’azione penale, che “si è tradotta in intollerabile arbitrio a causa della massa di fascicoli. Quindi il pm è costretto a una scelta, può indagare nei confronti di tutti senza rispondere a nessuno e questo favorisce alle ambizioni di pochi magistrati. Anche perchè si agisce in assenza di responsabilità per le proprie azioni, svincolati da controlli che in ogni democrazia limitano l’esercizio di un potere”. Altra modifica che il ministro ha individuato come necessaria è la separazione delle carriere, tra pm e giudici. La separazione, secondo il ministro, non aveva senso con il sistema inquisitorio in cui la polizia giudiziaria indagava in modo autonomo, mentre il codice Vassalli ha posto il pm come capo della polizia giudiziaria e questo lo rende “una parte pubblica, ma pur sempre parte, che non ha senso appartenga allo stesso ordine del giudice, perché svolge un ruolo diverso”. Nordio ha poi affrontato anche il tema delle modalità di accesso alla magistratura, parlando di profili poco razionali perché l’esame verifica solo la conoscenza giuridica dei candidati. “Nulla attesta l’attitudine psichica alla professione, per questo la revisione è ineludibile, con l’aiuto dell’università, degli ordini forensi e della magistratura. Inoltre, per la dirigenza degli uffici ci si basa solo sulla sapienza giuridica, che non coincide con l’attitudine manageriale”. L’ultimo passaggio riguarda un altro aspetto delicato della vita professionale del magistrato: la funzione disciplinare, dal cui giudizio dipende anche la progressione della carriera. “Il problema è che l’organo giudicante è la sezione disciplinare, con membri eletti tra i togati al Csm con meccanismi correntizi dagli stessi magistrati oggetto di accertamento”, ha detto Nordio, auspicando che il parlamento convochi la seduta comune per la nomina dei laici, ad oggi differita sine die. Poi il colpo che probabilmente provocherà conseguenze polemiche sul fronte della magistratura associata: “Il disciplinare va spostato davanti a una corte terza e non elettiva, individuata con criteri oggettivi. Non è tollerabile che i giudici siano nominati dai giudicati”. Poi, in una risposta ad una domanda di Roberto Scarpinato sulla depenalizzazione, il ministro ha lanciato l’ultimo affondo alla magistratura sull’abuso di intercettazioni: “Le intercettazioni costano 200 milioni l’anno, nessun dubita che per certi reati siano utili e indispensabili, ma io credo che le più utili siano quelle preventive, autorizzate dal pm con il vantaggio di essere secretate sotto responsabilità di chi le ha disposte. Su questo sarò rigoroso: ogni qualvolta usciranno violazioni del segreto istruttorio su intercettazioni, ci sarà una ispezione immediata e rigorosa”. Depenalizzazione - Il secondo punto dell’intervento di Nordio ha riguardato la corruzione e la depenalizzazione. “Le nostre leggi sono troppo numerose e contradditorie per essere applicate. Il loro numero è inversamente proporzionale alla loro efficacia, e l’incertezza è sinonimo di disordine e soprattutto di corruzione”. Secondo il ministro, “I rimedi si sono dimostrati peggiori del male: più pene e nuovi reati, due vaghe fattispecie prive del principio di tassatività (l’abuso d’ufficio e il traffico di influenze illecite) e la manifesta iniquità della retroattività della legge Severino”. Ha poi snocciolato i dati per l’abuso d’ufficio, con solo il 3 per cento di condanne. Le statistiche parlano di 5400 procedimenti el 2021, conclusi con 9 condanne davanti al gip e 18 in sede di dibattimento. “L’unica conseguenza è il rischio di essere indagati. I politici temono la bagarre mediatica con spesso l’estromissione dal proprio ruolo, ecco perché si rifugiano nell’inerzia. Dobbiamo abbandonare l’idea di tutelare il buon andamento della pa con minaccia della pena”, ha concluso, ricordando gli appelli dei sindaci di diverse parti politiche in direzione di una riforma di questi reati. Carcere - Nordio, che ha iniziato il suo mandato con le visite a Poggioreale a Napoli e Regina Coeli a Roma, ha annunciato implementazione organica alla polizia penitenziaria e interventi di ammodernamento tecnologico delle strutture di sorveglianza. Per i detenuti, invece, ha parlato di un necessario aumento di tutele per i tossicodipendenti e per chi soffre di disagio psicofisico: “Viviamo con il dolore dei molti suicidi” di quest’anno, ormai quasi 80. Dopo gli attacchi per i tagli in finanziaria proprio a questo settore, Nordio ha detto che “Il ministero si sta attivando per limitare i tagli della legge di bilancio e devolvere eventuali residue risorse disponibili al sistema carcerario”. Le reazioni - L’intervento è stato accolto senza troppo stupore dai gruppi associativi della magistratura: le posizioni personali di Nordio erano note e, prudentemente, nessuno vuole alzare il livello dello scontro. Il segretario di Area, Eugenio Albamonte, ha parlato di ”chiaroscuri: bene l’attenzione all’edilizia carceraria e all’efficienza. Preoccupano le enunciazioni di principio come la separazione delle carriere e sull’obbligatorietà dell’azione penale, che è il trasferimento nella giustizia del principio di uguaglianza”, prevedendo “momenti di confronto dialettico se verranno portate avanti”. Preoccupazioni condivise dalla segretaria di Unicost, Maria Rosaria Savaglio, che però ha aggiunto: “L’auspicio è che le riforme siano condivise, soprattutto se dirompenti: speriamo di poter discutere le soluzioni a problemi che non neghiamo, ma senza minare alla fiducia nella magistratura”. Un Nerone si aggira a Palazzo Madama di Carlo Bonini La Repubblica, 7 dicembre 2022 Si dice, a ragione, che la giustizia italiana, a cominciare da quella penale, abbia disperato bisogno di un suo Giustiniano. La notizia è che ha trovato il suo Nerone. Che oggi veste i panni del ministro di Giustizia Carlo Nordio, ex magistrato arruolato dal governo della destra nel ruolo di angelo vendicatore. Nel suo “vasto programma” di demolizione di alcuni pilastri costituzionali della giustizia penale illustrato ieri al Senato, si rintracciano infatti due caratteristiche identitarie di questo governo: la rozzezza degli argomenti e la furia iconoclasta nei confronti delle istituzioni di garanzia e controllo. Ieri la Banca d’Italia, oggi l’ordinamento giudiziario, lo statuto del pubblico ministero e l’obbligatorietà dell’azione penale, immaginata e voluta dal costituente non come una minaccia alle libertà politiche e non dell’individuo, alla sua privacy e dignità, ma come garanzia di un controllo diffuso e dunque democratico di legalità. È a ben vedere l’esito drammatico di trent’anni (tanti ne sono trascorsi dalla stagione di Mani Pulite) in cui la magistratura italiana, prigioniera di una deriva corporativa, ha mancato troppe volte l’appuntamento con una necessaria riforma e autoriforma, in cui il codice di procedura penale, in alcuni dei suoi istituti fondamentali (come la prescrizione) è stato manomesso dalle leggi ad personam, e durante i quali la politica, orfana di una legittimazione sostanziale agli occhi dell’opinione pubblica, ha ritenuto che la via maestra fosse quella di addomesticare una funzione cruciale per una democrazia quale è quella del controllo di legalità. La sola, purtroppo e non certo per colpa della magistratura, ridotta a metro di responsabilità dell’agire politico. In questa desolante prateria, dove nulla sembra interdetto agli “unti” dal popolo, ha dunque avuto buon gioco Nordio a trasformare un’audizione parlamentare in una performance politicamente sgangherata che, riesumando in modo macchiettistico l’ossessione del trentennio, garantisti versus giustizialisti, ricordava nella genericità e grossolanità degli argomenti qualche comiziaccio di piazza o talk-show da tarda serata. Nelle parole del ministro, tutti i luoghi comuni sulla giustizia penale del ventennio berlusconiano si allineano infatti in una narrazione dove il cittadino comune, l’imprenditore, il politico, gli “uomini del fare” insomma, si ritrovano in balia di pubblici ministeri occhiuti, fuori controllo, armati di armi formidabili e terribili (le intercettazioni telefoniche) in grado di definire le sorti dei singoli e del Paese. Una metastasi intollerabile rispetto alla quale il rimedio non può che essere demolitorio. Mano alla Costituzione, fine dell’obbligatorietà dell’azione penale, pubblici ministeri fuori dall’ordine giudiziario e dunque con carriere separate e sottoposti all’autorità politica, giro di vite sulle intercettazioni. Sarebbe pedante e prolisso prendere ciascuna delle proposizioni del ministro per dimostrarne la sommarietà e in taluni casi persino l’enormità. Ricordando, ad esempio, che già oggi la legge prevede un solo passaggio nella carriera dei magistrati tra ruolo requirente e giudicante. O che se è vero che l’Italia è il Paese in cui la magistratura ricorre più che in ogni altro sistema alle intercettazioni, è altrettanto vero che l’Italia è il solo paese al mondo dove le intercettazioni sono e possono essere soltanto giudiziarie. Disposte cioè soltanto da un magistrato e in un perimetro di regole rigide e controlli giurisdizionali (fanno eccezione quelle “preventive” dei nostri Servizi segreti per le quali è tuttavia prevista l’autorizzazione della Corte di appello di Roma). Il che ne spiega il gran numero. Sarebbe altresì utile soffermarsi sulla manipolazione evidente che Nordio fa dello spirito con cui, nel 1991, la riforma del processo penale rese il pubblico ministero dominus delle indagini di polizia. E non certo per renderlo “un poliziotto” e come tale “non degno” di essere nel medesimo ordine della magistratura giudicante. Ma perché sulle indagini di polizia vi fosse un controllo giurisdizionale. Detto altrimenti, sarebbe interessante immaginare cosa ne sarebbe stato di un’indagine come quella sulla morte di Stefano Cucchi o sui pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nell’Italia immaginata da Nordio, quella dell’azione penale non obbligatoria e dei pubblici ministeri riformati al rango di longa manus degli organi di Polizia. E sarebbe altresì interessante comprendere attraverso quale percorso logico il ministro “garantista” che tuona contro l’uso dissennato delle intercettazioni sia lo stesso che, come primo atto di governo, ha introdotto l’uso delle intercettazioni e una pena detentiva a 6 anni per chi organizza rave. La verità, ancora una volta, è che, di fronte alla dimensione immane della sfida di governare il Paese in uno dei momenti più difficili della sua storia recente, la destra sceglie la scorciatoia del feticcio identitario. E, nel caso della annunciata riforma della giustizia penale, con un’operazione particolarmente odiosa. Vendere al Paese come un “cantiere di libertà”, un progetto di controriforma classista della giustizia penale. Implacabile con i disgraziati, felpata con i garantiti. Dove sarà l’autorità politica a indicare a pubblici ministeri non più membri dell’ordine giudiziario quali reati perseguire e quali no. E chi sa se la presidente del Consiglio Giorgia Meloni troverà il tempo di spiegare in modo meno sciatto di quanto abbia fatto ieri, come stiano insieme la cultura della giurisdizione di Paolo Borsellino, il magistrato che, a suo dire, che le fece scoprire la passione civile per la politica, e quella del suo Nerone avvistato ieri a Palazzo Madama. Il via libera di Meloni, il dissenso dell’Anm: “Vago e ingeneroso” di Valentina Stella Il Dubbio, 7 dicembre 2022 La premier: “Condivido il garantismo unito alla pena certa”. Santalucia contesta le accuse sugli “ascolti”. La reazione più attesa all’illustrazione delle linee programmatiche del guardasigilli Carlo Nordio era quella dell’Anm. Nessun comunicato, solo qualche dichiarazione del presidente Giuseppe Santalucia a Rainews 24 sul tema delle intercettazioni: “Le parole del ministro mi sembrano vaghe e ingenerose nei confronti di uno strumento che noi non ci divertiamo a utilizzare, ma che in un Paese come il nostro, con un alto tasso di criminalità organizzata mafiosa, e anche con il terrorismo che fino a qualche anno fa allarmava molto, ora meno, la pubblica opinioneresta uno strumento indispensabile”. Dopo di che, ha aggiunto, “siamo d’accordissimo che non debba essere l’occasione per violare il diritto delle persone alla riservatezza e alla privacy: ma parlare di una selezione e di un uso pilotato della propalazione all’esterno del materiale raccolto con le intercettazioni mi sembra, ripeto, un giudizio tanto vago quanto ingeneroso”. Infine, ha detto il vertice del “sindacato” delle toghe, “ricorderei che c’è stata una riforma nel 2017- 2018” la quale “ha avuto come obiettivo proprio quello di evitare la diffusione indebita del materiale delle intercettazioni: chiederei al ministro, prima di annunciare l’ennesima riforma per la verità solo tratteggiata nel suo fine e non ancora illustrata nei suoi contenuti, di sapere se quella legge ha prodotto degli effetti positivi o no, se il riferimento alla diffusione delle notizie sia recente o appartenga al passato”. Dal mondo politico, centrodestra compatto intorno a Nordio insieme al Terzo polo. A cominciare dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il cui appoggio pare un sigillo definitivo per la linea liberale e garantista del guardasigilli: “Io penso che la riforma della giustizia sia prioritaria”, ha detto, “e che, al di là delle questioni di merito in molti siano d’accordo. Quello disegnato da Nordio è un approccio che ovviamente il governo condivide. Sono sempre stata convinta del fatto che una riforma della giustizia debba avere due grandi obiettivi: massimo delle garanzie per indagati e imputati e certezza della pena, una volta che la sentenza passa in giudicato. Io mi considero una garantista nella fase di celebrazione del processo e una giustizialista nella fase di esecuzione della pena”. E conclude: “Credo che quella che Nordio disegni sia una prospettiva di questo tipo”. Soddisfatto pure Matteo Salvini: “Bene il ministro Nordio, avanti con la separazione delle carriere e una giustizia più giusta ed equa”. Consenso anche da Pierantonio Zanettin (FI): “Ho sinceramente apprezzato la relazione di Nordio, tutta ispirata a principi liberali e garantisti”. Ma arriva più di un plauso anche dall’opposizione. Il senatore di Italia Viva Ivan Scalfarotto nota: “A differenza di alcuni ministri ed esponenti di governo dalle posizioni giustizialiste, le parole di Nordio confermano le sue note posizioni garantiste e fanno veramente piacere”. Negativo invece il giudizio del Pd, sintetizzato dal senatore Alfredo Bazoli: “Abbiamo trovato alcune buone intenzioni, tante contraddizioni e qualche nota preoccupante. Bene l’intenzione di portare a compimento la riforma Cartabia, ma perché allora rinviarne l’entrata in vigore di due mesi? Richiami a innovazioni nelle carriere dei magistrati ma ambiguità sulla riforma del Csm già approvata che le modifica. Tante parole sul garantismo, peraltro contraddette dalla norma sul rave. Accenni preoccupanti poi a riforme come la separazione delle carriere in grado di provocare nuove profonde spaccature nel mondo della giustizia, invece di puntare a riforme condivise come l’istituzione dell’Alta Corte di giustizia”. Bocciatura anche da parte del senatore 5 Stelle Roberto Scarpinato: “L’eventuale soppressione, che maggioranza e pezzi di opposizione propongono, dei delitti contro la Pa dal meccanismo ostativo, l’ulteriore riduzione dell’area di applicazione del reato di abuso di ufficio, l’innalzamento a 5000 euro del limite dei pagamenti in contanti, il taglio alle spese per le intercettazioni, strumenti indispensabili per l’accertamento di reati dei colletti bianchi: tutte queste intenzioni annunciate determinano, insieme all’assenza di leggi adeguate sul conflitto d’interessi e sul lobbismo, un depotenziamento della risposta dello Stato al fenomeno della corruzione nelle sue molteplici declinazioni”. Santalucia: “Stravolgere la nostra Costituzione è un colpo alla democrazia” di Dario del Porto La Repubblica, 7 dicembre 2022 Il presidente dell’Associazione magistrati critica la proposta del ministro Nordio: “Dare un taglio alle intercettazioni non è un buon servizio alla lotta alla corruzione”. “Se il governo vuole separare le carriere dei magistrati e limitare l’obbligatorietà dell’azione penale deve cambiare profondamente la Costituzione. Può farlo, naturalmente. Ma non renderà un buon servizio alla nostra democrazia”. È preoccupato, il presidente nazionale dell’Anm Giuseppe Santalucia, dalle parole del Guardasigilli Carlo Nordio e dalla piattaforma programmatica dell’esecutivo in materia di giustizia. Cominciamo dalle intercettazioni. Per il ministro, che è anche un suo collega in pensione, vengono utilizzate in modo spesso “eccessivo e strumentale”. Lei come risponde? “Non posso condividere un approccio di questo tipo. Siamo un Paese dove la criminalità organizzata è estremamente radicata, le intercettazioni rappresentano uno strumento di contrasto importantissimo”. Però incidono oggettivamente sulla privacy dei cittadini... “Siamo tutti d’accordo sul fatto che la riservatezza vada tutelata. Ma per questo è stata approvata una legge qualche anno fa, perché il ministro non ci dice, prima di tutto, se ha funzionato o meno? E poi, vorrei fare un’altra considerazione”.   Quale? “Il governo dice di voler contrastare la corruzione. Poi però vuole limitare le intercettazioni”.    Che pensa della possibilità di introdurre la non punibilità del corruttore che confessa? “Nel nostro sistema esiste già un’attenuante speciale e non mi pare che abbia funzionato. Ma l’impunità assoluta non è prevista neanche per i collaboratori di giustizia di mafia, non vedo come si possa immaginare per la corruzione”.   Un altro tema caldissimo è l’obbligatorietà dell’azione penale. Secondo il ministro Nordio è “un intollerabile arbitrio”... “Davvero non riesco a comprendere un giudizio così pesante che, a questo punto, andrebbe almeno circostanziato. Senza dimenticare che è la Costituzione a prevedere l’azione penale obbligatoria”.   Perché i magistrati sono tanto spaventati dalla separazione delle carriere tra giudicante e inquirente? “È vero, siamo storicamente contrari. Ed è facile spiegare le ragioni: il pubblico ministero finirebbe per essere collocato sotto il controllo politico del governo. Tenere il pm all’interno della giurisdizione rappresenta una garanzia di tenuta dell’equilibrio dei poteri dello Stato. E anche la discrezionalità dell’azione penale amplierebbe la sfera di influenza della politica”.   Che farà l’Anm se il ministro andrà avanti su questa strada? “Rispettiamo sempre le determinazioni della politica, ma interverremo nel dibattito pubblico, che certamente ci sarà, con la forza dei nostri buoni argomenti”. Adesso diranno che i magistrati non vogliono le riforme, lo sa presidente? “Me lo aspetto, ma è un mantra non porta da nessuna parte. I magistrati hanno dimostrato di essere favorevoli alle buone riforme e contrari a quelle cattive”. A suo giudizio il governo si sta muovendo così per sfruttare il momento difficile attraversato dalla magistratura italiana dopo gli scandali? “Per abitudine giudico le cose solo per come sono oggettivamente. Vedo una diversa cultura della giurisdizione, questo sì. Noi restiamo fortemente ancorati a quella prevista dalla Costituzione, perché siamo convinti che garantisca innanzitutto il cittadino”. Salvacorrotti: politici e colletti bianchi tornano al “carcere finto” di Gianni Barbacetto Il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2022 Nascosto nel dl Rave. Emendamento FI cancella Bonafede che escludeva i reati anti-Pa dai benefici penitenziari. Il Pd astenuto. Un passo verso il ritorno ai bei tempi dell’impunità per i politici e i colletti bianchi. Ieri la commissione Giustizia del Senato ha approvato l’emendamento che cancella i reati contro la pubblica amministrazione dall’elenco di quelli “ostativi”, cioè per i quali non sono previsti i benefici penitenziari automatici. L’emendamento - infilato dentro il decreto legge sui rave party - era stato presentato da Pierantonio Zanettin di Forza Italia ed è stato votato dai partiti che sostengono il governo, ma anche da Italia Viva, rappresentata in commissione da Ivan Scalfarotto. Hanno votato contro i senatori Cinquestelle, quelli del Pd si sono astenuti (presenteranno un emendamento per chiedere che resti l’equiparazione nel caso in cui i reati contro la Pa siano associativi). La restaurazione è avviata. Si torna a prima della cosiddetta legge “Spazzacorrotti”, voluta dall’allora ministro della Giustizia del governo Conte 1, Alfonso Bonafede, che aveva aggiunto anche i reati contro la pubblica amministrazione - come la corruzione, la concussione, il peculato - nell’elenco di quelli (di mafia e terrorismo, ma poi anche omicidio, violenza sessuale e via via altri reati) che impedivano di poter godere di benefici automatici e incondizionati: detenzione domiciliare, affidamento ai servizi sociali, libertà condizionata, semilibertà eccetera. Per poter uscire dal carcere era necessario prima dimostrare la volontà di collaborazione con la giustizia, o almeno l’impossibilità di farlo perché tutti i complici erano già stati perseguiti (come successe a Roberto Formigoni, che entrò in cella malgrado avesse compiuto i 70 anni, ma fu poi subito scarcerato). Ora, invece, corrotti e corruttori, politici e colletti bianchi potranno usufruire dei benefici automatici e prima di entrare in carcere. Esulta il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto: “Le dichiarazioni programmatiche del ministro Carlo Nordio si dimostrano da subito capaci di offrire risultati. Il voto della commissione Giustizia ha eliminato l’inaccettabile parificazione dei reati contro la pubblica amministrazione con quelli di mafia ai fini del diritto ai benefici penitenziari, voluta dalla foga giustizialista dei Cinquestelle”. Giuseppe Conte, presidente del Movimento 5 stelle e capo del governo che introdusse la “Spazzacorrotti”, replica subito su Facebook: “Oggi la maggioranza di Giorgia Meloni è andata all’attacco della nostra legge Spazzacorrotti. In un Paese in cui il 90 per cento delle truffe è collegato ad appalti, mazzette e responsabilità erariali e amministrative nella pubblica amministrazione, il centrodestra crea praterie di impunità e indossa i guanti bianchi con chi inquina le istituzioni, mentre attacca con ferocia i più deboli, le famiglie che non ce la fanno e il ceto medio. Questa è l’Italia alla rovescia della Meloni: via il Reddito di cittadinanza, sì all’introduzione della Corruzione ed evasione di cittadinanza”. Zanettin, incassato il successo, ieri ha ritirato l’altro suo emendamento, che riguardava l’impossibilità per i pm di presentare ricorso contro le sentenze d’assoluzione di primo grado (che sarebbe servito a Silvio Berlusconi in caso di assoluzione nel processo Ruby ter di Milano). Ha però presentato un ordine del giorno, concordato con il governo, che di fatto annuncia che il tema è solo rimandato e sarà presto ripreso: “Il governo”, recita l’ordine del giorno, “si impegna a valutare l’inserimento di una nuova disciplina delle impugnazioni, anche con riferimento all’inappellabilità da parte del pm delle sentenze di proscioglimento, in un prossimo provvedimento organico della materia, in conformità con il programma di governo”. È intervenuto anche Roberto Scarpinato, ex magistrato di Palermo eletto tra i senatori Cinquestelle, sostenendo che è stata imboccata una “strada sbagliata e pericolosa” di “depotenziamento della risposta penale nella fase storica in cui le ingentissime risorse economiche del Pnrr hanno mobilitato gli interessi di comitati di affari, delle mafie, di articolate reti corruttive che operano nell’ombra della massoneria deviata. Il governo è consapevole del concreto pericolo che ingenti somme di denaro vengano distratte dalle finalità pubbliche e disperse nel buco nero della corruzione e della gestione clientelare del potere pubblico?”. Campania. In Italia 700 semiliberi, di cui 159 campani, rischiano di ritornare in carcere di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 7 dicembre 2022 A lanciare l’allarme il garante dei detenuti Samuele Ciambriello. Il Garante dei detenuti Ciambriello dichiara: “Dignità e reinserimento sociale per i semiliberi con un intervento del Governo”. “Sono 159 le persone sottoposte a regime di semilibertà in Campania, persone che da più di due anni lavorano fuori dal carcere e dormono presso le proprie abitazioni, grazie ai provvedimenti adottati dal Governo per l’emergenza sanitaria da Covid-19. Il dato - Da gennaio i 159 semiliberi della Campania, e i complessivi 700 a livello nazionale, rischiano di tornare a dormire in carcere una volta terminato il lavoro all’esterno, qualora il Governo non dovesse adottare entro la fine dell’anno, provvedimenti di proroga. I diversamente liberi, italiani ed in particolare campani, hanno svolto la propria attività lavorativa senza mai incorrere in sanzioni penali o disciplinari”, così Samuele Ciambriello, il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Campania sul regime di semilibertà, finalizzato a consentire una modalità di esecuzione della pena detentiva attraverso il reinserimento lavorativo del detenuto, nell’ambiente libero. Così conclude il Garante dei detenuti Ciambriello: “Da oltre due anni queste persone vivono libere e ora c’è il rischio che la politica le rimetta in carcere. Mi auguro che il Governo metta in campo una saggia misura per la continuità di questa esperienza. Invoco il coraggio di questa decisione giusta per una nuova proroga della licenza straordinaria. È sotto gli occhi di tutti la correttezza di uomini e donne campane che in semilibertà non hanno infranto le regole e stanno vivendo questa misura attraverso il reinserimento seppur parziale e controllato nell’ambiente libero”. Bergamo. Sessantenne morto in carcere, si indaga sulle cause primabergamo.it, 7 dicembre 2022 Nella notte tra venerdì e sabato si è sentito male: disposta l’autopsia. Un fascicolo per omicidio colposo a carico di ignoti è stato aperto dopo la morte di Stefano Begnis: detenuto nel carcere di Bergamo, l’uomo si è sentito improvvisamente male nella notte tra venerdì e sabato (2 e 3 dicembre) mentre giocava a carte insieme ai suoi compagni di cella. Pare, secondo le prime ricostruzioni effettuate da Corriere Bergamo, che avesse iniziato a perdere sangue dal naso prima di spirare. La Procura di Bergamo ha ricevuto la segnalazione di morte direttamente dal carcere. Nei prossimi giorni verrà disposta l’autopsia. Diverse persone di via Gleno sono già state ascoltate dalle autorità che stanno cercando di ricostruire la dinamica e compiendo accertamenti su due questioni principali: la prima riguarda la morte, che pare sia legata a problemi di salute e non all’esito di un atto violento (le telecamere di sorveglianza lo testimoniano); la seconda se Begnis sia stato seguito e curato adeguatamente, oltre che immediatamente soccorso nel momento in cui si è sentito male. Era al carcere di Bergamo da tre mesi - Stefano Begnis avrebbe compiuto sessant’anni il 26 dicembre. Alle spalle diverse condanne, principalmente per rapina: nel 2007 era stato arrestato dopo che, insieme a un complice, aveva brandito una pistola giocattolo in una banca di Egna - in Alto Adige - portandosi via cinquemila euro. Era arrivato nel carcere di Bergamo tre mesi fa: prima era stato anche a Brescia e in altri penitenziari. Roma. Muore in carcere un giovane proveniente dal salernitano  di Erminio Cioffi La Città di Salerno, 7 dicembre 2022 Muore in carcere a Regina Coeli, dov’era detenuto, un immigrato marocchino di 28 anni che si era trasferito nel piccolo centro del Vallo di Diano. Da quanto si apprende, il Nordafricano si è sentito male forse a cause di un infarto. Saranno le indagini disposte della casa circondariale di Roma a stabilire l’esatta analisi sull’origine della morte. Il marocchino era recluso da un anno, da quando fu arrestato a Napoli. Nel capoluogo partenopeo - secondo gli inquirenti - la vittima si rese responsabile di una tentata rapina. Colpo messo a segno nello storico quartiere di Forcella. Dopo l’arresto, il 28enne era stato trasferito nel carcere della capitale in attesa della decisione del Tribunale sulla sua colpevolezza. Sabato, però, il 28enne che ha vissuto per un periodo a Polla, è stato ritrovato cadavere. Subito è scattata l’inchiesta che, in questi casi, è di prassi. Sarà eseguita, con ogni probabilità anche l’esame autoptico sul cadavere, soprattutto per stabilire se la prima ipotesi della morte - quella dell’infarto fulminante - fosse confermata. Non si segnalano, allo stato, episodi di violenza o altro che possano portare le indagini verso un’altra direzione. Finora si ragiona sull’ipotesi di una morte per cause naturali. Un cortocircuito cardiaco che non ha lasciato scampo allo straniero che viveva in Italia già da diversi anni. Alcuni dei quali li ha vissuti proprio nel Vallo di Diano. La notizia è circolata solo nella giornata di domenica nel Vallo di Diano e, segnatamente, a Polla e San Pietro al Tanagro dove si registra il passaggio del 28enne marocchino. Non era molto conosciuto, svolgendo, pare, una vita piuttosto riservata. Quanto meno non aveva dato modo di far parlare di sé in passato. E non frequentava la vita del paese. La vittima era invece molto assidua su Napoli dove l’anno scorso si rese autore della tentata rapina che lo ha portato in carcere. Ed è in prigione che è stato trovato morto per un malore, secondo la prima analisi degli investigatori. Il 2022 - secondo le associazioni che si occupano delle condizioni dei detenuti - è stato l’anno con maggiori decessi nelle carceri italiane. Mai così tanti decessi in carcere come quest’anno. Soprattutto rischia di passare alla storia come l’anno con il numero di suicidi più alti dell’ultimo ventennio. La conta è ferma a 80 casi, mentre le morti in carcere sfiorano i 200 detenuti. C’è poi il capitolo delle morti sospette, sulle quali s’indaga. L’ultimo caso nel carcere di Salerno, invece, risale alla prima decade di novembre quando a perdere la vita è stato Vittorio, 36 anni, originario di Aversa, detenuto, morto pare dopo una discussione con la polizia penitenziaria. Due settimane dopo, invece, si è tolto la vita C.F., 41enne di Bellizzi ma residente a Salerno, nella sua cella del carcere di Ariano Irpino, in provincia di Avellino. Palermo. Al Pagliarelli detenuti senza riscaldamento e acqua calda palermotoday.it, 7 dicembre 2022 Vogliamo un garante per i nostri diritti”. Trecento carcerati firmano una lettera che inviano a stampa e istituzioni. Un altro problema urgente è l’accesso alle cure e alle viste mediche: c’è un solo medico di base per 1.300 detenuti e mancano i medici specialisti Una lettera per denunciare le condizioni in cui vivono. Arriva dal carcere Pagliarelli l’appello lanciato dai detenuti che vivono in condizioni di difficoltà per via delle condizioni igienico-sanitarie in cui versa la casa circondariale. “L’istituto - si legge nella lettera controfirmata da più di 300 detenuti - non è funzionale nelle grandi cose come nelle più piccole e banali della quotidianità. Qui combattiamo il freddo in inverno e il caldo torrido in estate, essendo l’impianto di riscaldamento non funzionante e il vitto che ci viene distribuito è immangiabile”. I detenuti richiedono delle ispezioni immediate per trovare una soluzione alle tante problematiche relative al diritto alla salute. “Ci viene negato pure il diritto di mantenere l’igiene personale, le celle sono sprovviste di acqua calda e docce” spiegano ancora. “In tantissime carceri siciliane infatti è negato il diritto stesso alla vita, proprio perché le strutture fatiscenti e i servizi assenti non garantiscono bisogni primari ai detenuti e alle detenute. Attualmente in Sicilia esiste soltanto un garante regionale dei diritti dei detenuti, che non può garantire ispezioni costanti in tutto il territorio” spiegano di contro i militanti di Antudo.  “Se la civiltà di un paese di misura dalle condizioni delle sue carceri, l’Italia è un paese m*rda! Amnistia!”. Così recita lo striscione esposto la scorsa notte a Palermo davanti al carcere Pagliarelli, in solidarietà ai detenuti e le detenute. “I detenuti non solo subiscono la negazione della loro libertà, vivendo in celle sovraffollate, affrontando costi elevati legati all’acquisto dei beni all’interno del carcere, ma devono fare i conti anche con condizioni sanitarie inaccettabili” affermano ancora i militanti di Antudo.  “Da mesi chiediamo che venga istituita la figura del garante comunale dei diritti dei detenuti - concludono - ma per quanto riguarda la città di Palermo, ancora nessuna risposta da parte delle istituzioni”. Infatti secondo la nota diramata dai detenuti, un altro problema urgente è l’accesso alle cure e alle viste mediche: c’è un solo medico di base per 1300 detenuti e mancano del tutto i medici specialisti. L’appello è dunque quello di costruire un percorso di lotta che possa spingere le istituzioni dello Stato a prendere dei provvedimenti seri. Milano. Soffre di un disturbo mentale, ma resta ingiustamente a San Vittore di Luigi Lupo affaritaliani.it, 7 dicembre 2022 Sono 750, in tutta Italia, i detenuti con patologie psichiatriche che attendono il trasferimento nei Rems. E aumentano i suicidi. Da oltre un anno è detenuto in carcere. Ma lì, nel buio di San Vittore, non deve esserci. Giorgio, nome di fantasia per un uomo di 36 anni, che soffre di problemi psichiatrici, dovrebbe trovarsi in un REMS, ovvero le strutture preposte ad accoglienza per gli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi. Ma la macchina giudiziaria impedisce lo spostamento perché - spiega ad Affaritaliani.it Milano Benedetta Perego, legale del detenuto e attivista dell’associazione “Strali” - “non c’è un giudice competente”. La vicenda - La situazione è al limite del paradossale. Il 36enne, infatti, è ancora imputato nel processo di merito per il reato compiuto. Gli è stata assegnata la misura cautelare in carcere soltanto come soluzione provvisoria in vista del trasferimento in una struttura Rems. Nel carcere, l’uomo soffre. E nessuno, tra il personale di San Vittorio, se ne preoccupa. Neanche il suo precedente legale. Il legale Perego: “Secondo i giudizi, trattandosi di una detenzione di fatto, ma revocata, manca un giudice competente” - Grazie a un’istanza presentata dall’avvocato Perego, conscia delle condizioni di un detenuto affetto da problemi psichiatrici, lo scorso maggio un giudice del Tribunale di Milano accoglie la richiesta: l’uomo deve essere trasferito in un Rems. Il successivo passaggio giudiziario affossa, però, la richiesta. “Così - prosegue Benedetta - impugniamo la sentenza di fronte al Tribunale della Libertà di Milano”. Da cui arriva la risposta che tiene la situazione in assoluto stand-by. Una stasi che gioca sulla pelle e la mente di un detenuto malato. “Secondo i giudizi, trattandosi di una detenzione di fatto, ma revocata, manca un giudice competente”. Insomma nessun giudice è territorialmente deputato a occuparsi della causa. Il caso arriva alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo - L’uomo resta bloccato in carcere. Strali porta il caso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che chiede un’interlocuzione al nuovo governo. Secondo cui, però, il detenuto riceverebbe le cure adeguate e non sarebbe in pericolo di vita. Insomma, nessun pericolo di morte. Nè alcuna mancanza di trattamenti farmacologici e psicoterapeutici. Ma - per Strali - la situazione è diversa: “Le cartelle cliniche dimostrano che l’uomo si rifiuta di assumere psicofarmaci, e nessuno si oppone, e gli incontri di psicoterapia avvengono solo in caso di crisi. Quando, invece, dovrebbero avvenire con maggiore regolarità”. La Corte Europea respinge, quindi, l’istanza di Strali. Che ora ha tempo fino al 20 dicembre per fare ricorso. Una giornata decisiva per le sorti di un uomo che si trova in carcere ingiustamente. Non un caso isolato: 750 detenuti aspettano il trasferimento nei Rems - La storia del 36enne chiuso a San Vittore non è isolata. In tutta Italia, sono oltre 750 i detenuti con disturbi mentali, che attendono di essere trasferiti in un Rems. Una circostanza che ha portato la Corte Europea dei Diritti a sanzionare l’Italia nell’aprile del 2022 dopo il caso Sy. Sy si trovava nel carcere di Rebibbia, a Roma, in precarie condizioni psicopatologiche. Già nel gennaio del 2019 il Magistrato di Sorveglianza aveva applicato nei suoi confronti la misura di sicurezza del ricovero in una Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (“Rems”). Anche in questo caso l’immobilismo ha trionfato. L’impegno dei legali è arrivato a Strasburgo, alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha evidenziato come la condizione psicopatologica del ricorrente lo rendesse del tutto incompatibile con la detenzione in un carcere ordinario. Dove non ha certamente potuto beneficiare di alcun trattamento terapeutico adeguato. Il Governo italiano non ha proposto richiesta di rinvio in Grande Camera entro il termine di tre mesi previsto dall’art. 43 Cedu. La sentenza è dunque divenuta definitiva lo scorso 24 aprile 2022. Perego: “Bisogna fare attenzione all’implementazione delle misure per i detenuti con problematiche psichiatriche” - La speranza è che avvenga lo stesso per la vicenda del 36enne detenuto a San Vittore. Il 20 dicembre sarà decisivo. Ma, in realtà, il problema va affrontato a livello politico e strutturale: “Il superamento degli Opg è stato un grande passo - conclude Perego - ma bisogna fare attenzione all’implementazione delle misure per i detenuti con problematiche psichiatriche”. Troppe persone sono rinchiuse in celle dove i loro disturbi mentali non ricevono cure e assistenza. Il Garante Nazionale: “Mai così tanti decessi in un solo anno nelle carceri” - Lasciati a sé stessi, molti di loro scelgono la tragica via del suicidio. Una decisione dolorosa che coinvolge sempre più detenuti. Proprio oggi sono stati rivelati i dati sulle morti autoindotte nel 2022: sono già 79, tasso più alto in 10 anni Il Garante nazionale precisa che “si tratta del più alto tasso di suicidi mai registrato negli ultimi dieci anni”. Molti potrebbero essere evitati con il trasferimento dalle vetuste strutture italiane ai Rems. Così non avviene. Giacomo Trimarco, rinchiuso a San Vittore dove si è suicidato - Giacomo Trimarco - riporta l’AGI -si è tolto la vita a 21 anni a San Vittore dove non sarebbe dovuto stare. Da otto mesi era destinato a una Rems perché soffriva di un disturbo borderline ma per lui e per tanti altri non c’era posto a causa delle liste d’attesa lunghe in media 304 giorni. La madre Stefania pensava che il carcere fosse il meno peggio dove aspettare perché l’avrebbe tenuto lontano dall’alcol. “Invece è andato tutto storto. Di Giacomo non importava nulla a nessuno, dal Sert ai servizi psichiatrici nessuno ha ascoltato la nostra richiesta di aiuto. Una comunità terapeutica l’ha respinto perché era troppo impegnativo”. L’autopsia rivela che è morto per avere inalato troppo butano. Un’altra fine tragica. Che si sarebbe potuta evitare. Forse è davvero giunta l’ora di intervenire. Bologna. Lettera aperta al Sindaco dal carcere della Dozza Corriere Cesenate, 7 dicembre 2022 Le proposte dei detenuti per dare gambe a progetti di autentica rinascita. “Sulle questioni che abbiamo sollevato ci piacerebbe avere un riscontro e magari un impegno fattivo ai tempi di realizzazione delle proposte che abbiamo formulato”, dicono da dietro le sbarre. Buonasera dottor Zanotti, sono Federica Lombardi, una delle volontarie del laboratorio di giornalismo “Ne Vale La Pena” (Casa Circondariale di Bologna). Leggendo una riflessione scritta da Matteo Lepore, sindaco di Bologna, e pubblicata su “La Repubblica” lo scorso 6 settembre (https://ristretti.org/la-civilta-di-un-paese-si-misura-anche-sui-diritti-dei-detenuti), come redazione, a inizio ottobre, gli abbiamo inviato una lettera contenente alcune proposte concrete affinché la funzione rieducativa della pena sia realmente messa in pratica. Alcuni giorni dopo, siamo stati contattanti con la promessa che avremmo ricevuto una risposta: è trascorso un mese e mezzo e noi non abbiamo saputo nulla. Come redazione, chiediamo se questa lettera (che trova in allegato a questa email) potesse essere pubblicata sulla vostra testata. In attesa di una sua risposta, le porgo i miei più cordiali saluti. Ecco la lettera. Caro Matteo, abbiamo saputo della tua visita alla Dozza e successivamente letto e apprezzato la tua riflessione sul carcere, apparsa sulla stampa il 6 settembre. Il campo di osservazione che ti è stato offerto, per quanto molto ampio in termini spaziali, non ha permesso di attivare una vera interazione con le persone ristrette, essendo mancato uno spazio di confronto vero e proprio durante la visita, in quanto queste occasioni, che per noi sono molto importanti, il “filtro istituzionale” non favorisce uno scambio diretto. Avrai osservato che oggi il carcere è un’istituzione che svolge una serie di compiti non richiesti dal mandato formale, piuttosto riconducibili a un “welfare” a basso costo: è housing sociale per i senza fissa dimora, è centro di accoglienza per i migranti, è comunità terapeutica per i tossicodipendenti, comunità psichiatrica e manicomio de facto per le fragilità psichiche, è centro per l’impiego per i disoccupati, è residenza sanitaria e lungodegenza per gli anziani. È molte di queste cose combinate che non trovano una risposta integrata fuori dalle mura del penitenziario. Come gruppo di redazione di Ne vale la pena, che opera da 10 anni all’interno della Casa circondariale Rocco D’Amato di Bologna, abbiamo deciso di dare il nostro modesto contributo perché la tua attenzione possa tradursi in atti amministrativi concreti. Abbiamo scelto di scriverti il giorno dopo le elezioni politiche perché - come diceva Alcide De Gasperi - “i politici guardano alle prossime elezioni, gli statisti alle prossime generazioni”. Siamo fortemente preoccupati che una compagine politica come quella che si accinge a governare il Paese difficilmente riprenderà il difficilissimo percorso di riforma dell’esecuzione penale, assecondando la “pancia” della società, che ci vuole solo chiusi dietro al muro senza nessun percorso di riscatto. Oggi stiamo attraversando il tempo della complessità, che stride con la tendenza a prediligere risposte facili e superficiali, in base alle quali il detenuto “deve pagare” e basta, sulla base di una “certezza della pena” che di fatto è soltanto “certezza della galera”. Siamo consapevoli che stiamo attraversando una stagione segnata dalla paura e dall’incertezza, in cui nell’opinione pubblica è esaltata, appunto, la componente sanzionatoria e punitiva della pena. La percezione sociale più diffusa è che attraverso l’eliminazione del soggetto che delinque dal circuito sociale, tramite la sua reclusione, viene risolto il problema della criminalità. Quante volte anche i media propongono frasi come “fateli marcire in carcere”, “buttate via la chiave” e così via, che sono espressione di un pensiero accettato e diffuso nella nostra società diseguale, che trova tutto sommato comodo rinchiudere le marginalità sociali dentro le carceri. Il recovery fund potrebbe garantire le risorse economiche necessarie per adeguare il sistema carcerario italiano, ma ciò non basta, perché occorre ripensare il carcere, l’ordinamento penitenziario e l’intero sistema giudiziario se volessimo realmente realizzare l’obiettivo che i padri costituenti hanno voluto inserire nell’art. 27 della Costituzione. Ma a Bologna, come tu stesso hai affermato, questo non è accettabile: nell’idea di città che la tua amministrazione sta delineando, a nostro parere la Dozza non può che diventare realmente un pezzo di città, integrato a pieno titolo nel territorio. Una proposta innovativa, la tua, in campagna elettorale: ma adesso occorre declinarla con atti concreti, andando oltre la visita di cortesia e le frasi, è vero, importanti che però non devono rimanere solo parole. Hai assicurato che non mancherà il tuo costante impegno nei confronti delle altre istituzioni affinché l’esecuzione penale possa tornare al centro del dibattito politico e di questo ti ringraziamo. Hai altresì puntualizzato che come sindaco ti adopererai a realizzare azioni concrete nell’ambito delle tue competenze. Allora, riconoscendoti una visione progressista e garantista, pensiamo che sia arrivato il tempo di buttare il cuore oltre l’ostacolo con un’agenda ambiziosa e stringente. Nell’ambito delle tue prerogative potresti: - prevedere premialità per chi, nei bandi di gara di affidamento e concessione di lavori e servizi, assicura l’assunzione a detenuti in misura alternativa o il loro utilizzo come volontari; - utilizzare i detenuti per i lavori di pubblica utilità, che possono essere svolti gratuitamente con ratio eminentemente riparativa, in favore “delle famiglie delle vittime dei reati da loro commessi” e che possono partecipare volontariamente e gratuitamente a “progetti di pubblica utilità in favore della collettività” presso enti pubblici o privati come parte del programma di rieducazione; - predisporre un piano per un’edilizia popolare riservata a chi, terminata la pena, non ha una casa o in alternativa promuovere la convenzione con strutture ricettive esterne; - promuovere un forum del terzo settore riservato alle associazioni che si occupano del volontariato carcerario e guidarle nell’intercettare finanziamenti europei nei bandi riservati alla sicurezza; - sensibilizzare le organizzazioni datoriali e il mondo della cooperazione perché promuovano progetti per portare lavoro all’interno della Dozza in collaborazione con la Direzione dell’istituto; - sensibilizzare la Regione Emilia Romagna perché investa nella formazione professionale in carcere sulle professioni realmente adeguate alle esigenze del mercato del lavoro, dal momento che i corsi che attualmente si svolgono hanno contenuti a nostro parere ormai obsoleti; - promuovere il carcere come luogo in cui calendarizzare eventi e spettacoli musicali e teatrali previsti nei diversi cartelloni della città, per favorire una reale apertura delle mura che ci circondano alla società esterna ed allo scambio di conoscenze. Sulle questioni che abbiamo sollevato ci piacerebbe avere un riscontro e magari un impegno fattivo ai tempi di realizzazione delle proposte che abbiamo formulato. Per concludere riteniamo importante sottolineare che la persona detenuta nella stragrande maggioranza dei casi pur avendo perduto il diritto alla libertà ha conservato tutti gli altri diritti, ma di fatto è stata privata del diritto dì cittadinanza attiva e passiva e dì spazi pubblici di partecipazione civica. Ciò potrebbe provocare un allontanamento dalla consapevolezza di avere diritti e doveri nel contesto sociale. Noi nel nostro piccolo, con l’attività di redazione cerchiamo di rimanere in prima linea nell’affrontare e dibattere l’attualità delle problematiche, pronti a recuperare il pieno esercizio della nostra dignità di cittadini, offrendo il nostro contributo. Ne vale la pena è perciò a tua completa disposizione in tal senso, confidando nel tuo concreto impegno per tradurre in pratica i concetti che i padri costituenti della nostra Repubblica hanno voluto ribadire nell’art. 27 della nostra Costituzione, per realizzare la vera giustizia dal “volto umano”. Rimini. Il Comune rafforza il ruolo del Garante dei detenuti dire.it, 7 dicembre 2022 A Rimini cambiamenti in arrivo per garante delle persone private della libertà personale del Comune. Tanto per cominciare, l’incarico durerà cinque anni invece di tre e avrà una maggiore dotazione finanziaria per sostenere i costi di funzionamento dell’ufficio, ferma restando la natura gratuita dell’incarico. A Rimini cambiamenti in arrivo per garante delle persone private della libertà personale del Comune. Tanto per cominciare, l’incarico durerà cinque anni invece di tre e avrà una maggiore dotazione finanziaria per sostenere i costi di funzionamento dell’ufficio, ferma restando la natura gratuita dell’incarico. Inoltre il garante si potrà avvalere di una struttura organizzativa (che dovrà individuare la Giunta) e del supporto del personale del Comune. Le novità sono state approvate in commissione modificando il precedente regolamento e per l’assessore comunale alla Protezione sociale, Kristian Gianfreda, servono “per assicurare una maggiore integrazione della comunità, garantire i diritti dei detenuti e limitare i casi di recidiva”. I ritocchi spiega infatti il Comune, “hanno lo scopo di rendere maggiormente efficiente e strategico il ruolo del Garante rispetto al passato nell’interesse dei carcerati e, di riflesso, della comunità”. Si cambia così il regolamento 2014 per “superare alcune criticità riscontrate nel funzionamento dell’Ufficio negli anni passati, e migliorare le condizioni di vita e di inserimento sociale delle persone detenute”, aggiunge Gianfreda. “Abbiamo circa 130 persone che scontano la pena ai Casetti e circa 900 in pene alternative sul nostro territorio provinciale”, dà le cifre l’assessore, ricordando che il garante è una figura che deve “garantire che i diritti dei detenuti non vengano calpestati e, allo stesso tempo, assicurare che, una volta libere, queste persone abbiamo una possibilità di essere integrate evitando di compiere altri reati”. Con un approccio preventivo, quindi, si vuole “garantire una maggiore coesione della collettività innalzando il livello di sicurezza e impedendo a monte, per quanto possibile, il ripetersi di situazioni illecite”. Tutto questo è supportato da una serie di azioni e progetti tra il Comune, l’Uepe e della Casa circondariale “che presto metteremo in campo”, conclude Gianfreda. “A febbraio del prossimo anno, inoltre, in accordo con la presidente del Consiglio comunale, verrà indetta una seduta tematica su questi temi”. Chieti. Detenuti a scuola di cucina, in 11 superano l’esame da pizzaiolo Il Centro, 7 dicembre 2022 Termina il progetto del carcere di Madonna del Freddo e di Academy ForMe, l’accademia dei mestieri di Confartigianato. Undici detenuti del carcere di Madonna del Freddo diventano pizzaioli. Grazie all’iniziativa portata avanti da Academy ForMe, l’accademia dei mestieri di Confartigianatom e dalla casa circondariale di Chieti, i detenuti sono stati a lezione tra le mura del carcere e hanno svolto il tirocinio nella sede di Academy ForMe. Il progetto, spiegano gli organizzatori, ha avuto come scopo quello di favorire, attraverso la formazione, la crescita delle competenze dei detenuti e dare loro un futuro in termini di opportunità occupazionali. Ieri pomeriggio, nella sede di Academy ForMe, si è tenuto l’esame finale, che ha consentito ai detenuti di ottenere la qualificazione professionale di pizzaiolo valida ai sensi del D.Lgs 13/13. All’iniziativa hanno preso parte, tra gli altri, il direttore della casa circondariale, Franco Pettinelli, il direttore di Academy ForMe e di Confartigianato Chieti L’Aquila, Daniele Giangiulli, e il presidente dell’associazione artigiana, Camillo Saraullo. Il progetto, voluto dalla casa circondariale, è stato organizzato e gestito da Academy ForMe, che ha erogato il corso, riconosciuto dalla Regione Abruzzo. Il tutto con il coinvolgimento dei partner che hanno contribuito alla realizzazione delle attività: Confartigianato Imprese Chieti L’Aquila, Caritas diocesana di Chieti, Sacar srl e Triveri srl. Le lezioni, della durata di 370 ore, sono state sia teoriche sia pratiche. “Vista la carenza di personale qualificato e specializzato su molti profili delle imprese artigiani”, dice Giangiulli, “è possibile pensare che i detenuti troveranno collocazione nei settori in cui c’è più richiesta. Mi auguro che questo primo corso abbia consentito di porre le basi per un progetto che vada avanti nel tempo”. Vicenza. Al via il corso “Cittadinanza attiva & responsabile” Ristretti Orizzonti, 7 dicembre 2022 Inizia oggi un nuovo corso “Cittadinanza attiva & responsabile” promosso da Progetto Carcere 663 - Acta non Verba OdV con il sostegno dell’Area Giuridico - Pedagogica del carcere vicentino che la Chiesa Valdese, con i fondi dell’8 per mille, ha nuovamente deciso di sostenere finanziandolo e rinnovando la sua fiducia nelle qualità formative dell’OdV e i requisiti dei formatori. Più completo dell’ultimo tenutosi agli inizi del 2022 e rivolto all’Area Comuni del carcere vicentino, si articolerà in 12 incontri su Educazione Civica e Ricerca attiva di un lavoro sostenute da una parte psicologica dedicata a “Comunicazione & Autostima”; interesserà nella sua prima parte i detenuti dell’Area Alta Sorveglianza. Sarà tenuto da professioniste legate all’OdV PC663 (avvocato, criminologa e psicologa) che alterneranno nell’esposizione dei vari argomenti secondo la loro specifica competenza. Si confida, anche questa volta, in un’attiva partecipazione dei detenuti, selezionati dai funzionari dell’Area Giuridico - Pedagogica, poiché, al solito, analoghe iniziative proposte anni scorsi, hanno sempre incontrato un’ottima accoglienza dai partecipanti che han hanno manifestato grande soddisfazione per questo tipo di azione formativa e per le docenti. Gorgona (Li). Continua il progetto con detenuti e animali salvati gonews.it, 7 dicembre 2022 Gorgona, l’ultima isola-carcere italiana, sarà ancora protagonista di una storia che intreccia le vite dei detenuti, e il loro recupero, e le vite degli animali, non più destinati da tre anni alla produzione e alla macellazione. È stato infatti firmato dalla Casa Circondariale, da LAV e dalla Cooperativa Sociale Collecoop il nuovo Protocollo d’Intesa per la realizzazione di nuove attività, alla luce dei positivi risultati ottenuti grazie al precedente accordo del 2020 che ha salvato quasi 600 fra pecore, maiali, bovini, capre e galline, consentendo un risparmio economico all’Amministrazione penitenziaria grazie al contributo dell’associazione animalista. Proseguirà così da parte dell’Amministrazione penitenziaria e LAV l’impegno alla non riproduzione degli animali, al non utilizzo per produzioni e macellazioni, alla presa in carico e al trasferimento in luoghi scelti dall’associazione di parte degli animali per far diminuire costi all’Amministrazione, impatto degli animali sull’isola e permettere così di ridurre il numero degli stessi a Gorgona, rendendo il facilmente gestibile per le attività di accudimento e relazione. Proseguirà da parte di LAV l’acquisto di cibo per gli animali ex zootecnici presenti sull’isola per un totale di 21.500 euro annui, nonché il pagamento di visite e interventi veterinari che solleveranno così l’Amministrazione penitenziaria da questi costi. Il versamento di un contributo mensile di 1000 euro da LAV alla Casa Circondariale, in atto dal mese di ottobre 2021, finalizzato alla retribuzione di detenuti per l’accudimento degli animali, proseguirà da LAV alla Cooperativa Sociale Collecoop per la presa in carico da parte di quest’ultima di uno o più detenuti. Dando atto delle positive attività di relazione e educazione assistita con gli animali già realizzate sull’isola dall’associazione Do.Re.Miao di Livorno e con il contributo economico della LAV, se ne concorda il proseguimento e LAV continuerà nelle visite guidate concordate agli animali da parte di scuole e soci. LAV e Direzione della Casa Circondariale perseguiranno l’obiettivo di far realizzare attività di lavoro dei detenuti con prodotti vegetali, se possibile nei locali di ex caseificio ed ex mattatoio. I gatti presenti sull’isola, come colonia felina, per evitare randagismo e costi non sopportabili, saranno sterilizzati come previsto dalle normative e man mano che la Direzione ne ravviserà l’opportunità in termini quantitativi, LAV porterà sull’isola gatti salvati e sterilizzati che così potranno dare continuità alle positive relazioni. Busto Arsizio. “Chi è senza peccato?”, una serata per parlare di carcere e diritti dei detenuti varesenews.it, 7 dicembre 2022 Grazie al Gruppo Presepi Marnate e al Rotary club lo scorso 3 dicembre si è tenuto l’incontro “Chi è senza peccato”, dedicato alla situazione delle nostre carceri, fra volontariato, reinserimento e inclusione sociale. Un argomento divisivo, scomodo, che difficilmente vedrà compattezza di pensiero nei dibattiti. Eppure la determinazione di chi sceglie di impegnarsi in questa battaglia permette a tante iniziative lodevoli di concretizzarsi. La situazione delle carceri, i diritti dei detenuti, le azioni concrete volte a migliorare le loro condizioni di vita: di questi temi spinosi si è discusso lo scorso 3 dicembre a Marnate, con una schiera di ospiti capaci di puntare con intelligenza i riflettori su questa realtà. “Chi è senza peccato”, questo il titolo della conferenza, tanto ha saputo trasmettere al pubblico presente in sala consiliare e a chi ha seguito la diretta sui social. Il merito è dei relatori e di chi ha dato vita alla serata, quei ragazzi del Gruppo Presepi Marnate che quest’anno sono arrivati al periodo dell’Avvento con tante emozioni nel cuore, grazie all’esperienza di volontariato con i detenuti. A parlare della realtà del carcere è stato in primis don David Riboldi, cappellano della Casa Circondariale e promotore del progetto “La valle di Ezechiele”, che offre un’opportunità lavorativa a detenuti o a coloro che hanno pagato il loro debito con la giustizia. Il suo lavoro quotidiano fianco a fianco di chi sta scontando una pena, gli ha permesso di offrire esempi concreti di problemi che possono insorgere, come la possibilità di fare una sola telefonata a settimana. “E se in quei pochi minuti ci si dimentica di comunicare qualcosa di importante, dalla necessità di nuovi calzini, a richieste di altro tipo ai familiari? Si deve attendere sette giorni - ha spiegato provocatoriamente il sacerdote - Allo stesso modo se c’è un lutto in famiglia, non c’è modo di parlare prima con i propri cari. E quanti di noi conoscono i numeri di telefono a memoria? Anche questo costituisce un problema. Una situazione che contraddistingue l’Italia e si diversifica dalle carceri straniere”. Richieste eccessive? Qualcuno sosterrebbe di sì, ma questa la risposta di don Riboldi: “Se non investiamo nei contatti con i familiari di un detenuto, come farà una persona uscita dal carcere ad avere una rete di relazioni utili al reinserimento?”. Un punto ripreso anche da Paolo Maltese, di Rotary Club Passport Innovation District 2110 - al fianco dell’associazione di Marnate nell’organizzare la serata - che ha evidenziato come la pena debba essere educativa e quindi è necessaria una riflessione sulla sua conclusione, sulla realtà del “fine pena”. “Una pena che non finisce mai non è una pena: le norme parlano di rieducazione, ma questo in Italia non avviene, un uomo non è la sua pena. Tutti dobbiamo fare un importante lavoro per superare i pregiudizi”. Dell’esperienza in un carcere ha potuto parlare anche Stefano Sgarella, regista del docufilm Exit, realizzato grazie a due anni di esperienza a contatto dei detenuti e dei volontari del reparto “La nave di San Vittore” nell’omonimo carcere: un lavoro che ha inciso profondamente nel professionista, ma soprattutto nell’uomo, che si è trovato a vivere un’esperienza emotivamente molto forte. Da Fabrizio Capaccioli, imprenditore e vicepresidente Gbc Italia, il richiamo a non dimenticare la dignità umana. E come invece lavorare sulle cause della delinquenza? Con un’attenzione ai processi educativi: questa la riflessione di don Stefano Guidi, direttore Fom, Fondazione Oratori milanesi, chiamati direttamente in causa dalle parole del sacerdote. “C’è un problema educativo, che si manifesta con l’alto numero di abbandono degli studi, ai problemi in famiglia: scuola, oratorio e società devono avere gli strumenti per educare”. La serie di interventi è stata anche interrotta da una domanda da parte di una persona del pubblico, critico sulle riflessioni relative ai diritti dei detenuti. A dimostrazione di quanto questo argomento sia spinoso, ma, proprio per questo, sia importante parlare, discutere, approfondire, proprio come hanno fatto Maltese, don Guidi, don Riboldi, Capoccioli e Sgarella, nel dibattito moderato dalla giornalista di Prealpina Veronica Deriu. La risposta finale di Maltese ha messo in evidenza il nocciolo della questione: “Abbiamo forse dimenticato quanto la privazione di libertà durante il lockdown ci abbia fatto soffrire? Ricordiamolo, perché la detenzione è già una punizione e per chi si trova in carcere non deve venir meno la dignità umana”. La lotta solitaria di Vincenzo Vinciguerra: stragista, ergastolano e irriducibile di Paolo Morando Il Domani, 7 dicembre 2022 Vincenzo Vinciguerra è in carcere dal settembre del 1979, quando a Roma si consegnò ai carabinieri. Per anni si era reso latitante in seguito alla condanna a 11 anni per il rocambolesco dirottamento di Ronchi dei Legionari. Ora su Vinciguerra esiste anche un docufilm. Lo hanno realizzato Morgan Menegazzo (che ne è regista) e Mariachiara Pernisa. Si intitola “L’irriducibile”. Vinciguerra tutto è tranne che un collaboratore di giustizia: ritenendosi ancora oggi un soldato politico in guerra contro lo stato, dallo stato non accetta sconti di pena o benefici carcerari. Vincenzo Vinciguerra è in carcere dal settembre del 1979, quando a Roma si consegnò ai carabinieri. Per anni si era reso latitante in seguito alla condanna a 11 anni per il rocambolesco dirottamento di Ronchi dei Legionari: fu il primo a fini terroristici nella storia dell’aviazione civile italiana, costò la vita al suo camerata ordinovista Ivano Boccaccio. E dal carcere in questi 43 anni Vinciguerra non è più uscito, se non per testimoniare a processi sulle stragi: piazza Fontana, la Questura di Milano, piazza della Loggia, la stazione di Bologna. Per quella di Peteano del 31 maggio 1972, quando un’autobomba uccise tre giovani carabinieri e ne ferì gravemente un quarto, nel 1984 fu proprio lui ad assumersene la responsabilità (caso unico nella storia dell’eversione di destra), con la conseguente condanna all’ergastolo nel 1987. Ergastolo a cui neppure interpose appello. Lo studioso - Da allora, nella sua cella (l’ultima è quella di Opera, suo domicilio ormai da trent’anni) Vincenzo Vinciguerra ha ritagliato su di sé il profilo dello studioso. E il Vinciguerra-pensiero è contenuto in centinaia di pagine di verbali di interrogatori, di deposizioni in aula, di articoli e libri scritti dal carcere. Tanto che il giudizio di magistrati, storici e giornalisti è pressoché unanime: per ricostruire la strategia della tensione degli anni Settanta non si può prescindere dalle conoscenze dello stragista di Peteano, che passando da Ordine nuovo ad Avanguardia nazionale (finché era latitante, tra l’altro anche in Spagna, Cile ed Argentina al seguito di Stefano Delle Chiaie) ha effettivamente conosciuto il fior fiore dell’estremismo nero. L’irriducibile - Ora su Vinciguerra esiste anche un docufilm. Lo hanno realizzato Morgan Menegazzo (che ne è regista) e Mariachiara Pernisa, veneti di Rovigo, classe 1976 il primo e cinque anni più giovane la seconda. Si intitola L’irriducibile ed è stato presentato nei giorni scorsi al Torino Film Festival: un’anteprima a cui è seguita una proiezione a Milano, mentre altre sono in arrivo a Roma e in Puglia, a Bisceglie. Nell’ora e venti minuti circa del filmato, oltre al protagonista, compaiono anche il magistrato Guido Salvini, lo studioso Aldo Giannuli (consulente di procure e commissioni stragi) e la giornalista Stefania Limiti, a definire ognuno dal proprio punto di vista l’irriducibile (è il caso di dirlo) alterità del personaggio Vinciguerra. C’è un quarto intervistato, l’ex avanguardista Gaetano Sinatti, che con lui condivise anche la detenzione: sua è tra l’altro la firma del testo che introduce al lettore il primo libro di Vinciguerra, dal titolo programmatico Ergastolo per la libertà (sottotitolo altrettanto programmatico: Verso la verità sulla strategia della tensione), che risale addirittura al 1989. A lungo Sinatti si è anche occupato del blog “I volti di Giano” che ospitava gli articoli di Vinciguerra, fino alla “rottura” della quarantennale amicizia tra i due: insopportabile, per l’ergastolano, un contatto tra Sinatti e l’organizzazione “Nessuno tocchi Caino” affinché quest’ultima si interessasse alle sue condizioni di salute in carcere. Un carattere difficile - Perché Vinciguerra non è un tipo facile. Lo sanno bene numerosi giornalisti che, negli anni, hanno avviato con lui rapporti di corrispondenza, o che lo hanno incontrato in carcere: sono numerosi gli iniziali “innamoramenti” poi finiti malamente sempre per decisione dell’ex ordinovista. Compreso chi scrive, autore di un libro su Vinciguerra e la strage di Peteano (L’ergastolano, uscito lo scorso maggio per Editori Laterza nel cinquantennale dell’attentato) il cui capitolo conclusivo consiste in una lunga intervista realizzata a Opera con Vinciguerra, dopo un carteggio che è proseguito anche successivamente all’incontro. Il libro è stato poi recapitato in carcere all’intervistato che però, su un nuovo blog “amico”, ancora in agosto lo ha definito “un coacervo di menzogne, calunnie ed insinuazioni”, con l’aggiunta che “la risposta, anche se ancora non è pubblica, a Morando, Casson e diffamatori vari è già pronta e risulterà convincente anche per gli scettici”. Risposta di cui poi, però, nulla si è più saputo. In guerra contro lo stato - Fu proprio l’allora giudice istruttore di Venezia Felice Casson a venire a capo dell’inchiesta su Peteano, dopo anni di incredibili depistaggi. E il secondo libro di Vinciguerra, La strategia del depistaggio del 1993, era interamente dedicato (si fa per dire) a lui: centinaia di pagine a senso unico contro Casson, definito senza mezzi termini depistatore. Ma è un libro che valse a Vinciguerra una inevitabile condanna per calunnia. Tutto questo per dire che l’attendibilità di Vinciguerra va sempre vagliata. Lo dimostra una delle sue ultime deposizioni, nel 2019 al processo per la strage di Bologna in cui era imputato l’ex Nar Gilberto Cavallini (ma è stato sentito addirittura tre volte anche all’ultimo dibattimento, quello che vedeva alla sbarra Paolo Bellini), che gli ha fruttato un rinvio a giudizio per reticenza. Vinciguerra infatti tutto è tranne che un collaboratore di giustizia: ritenendosi ancora oggi un soldato politico in guerra contro lo stato, dallo stato non accetta sconti di pena o benefici carcerari. E allo stato, che ritiene in sostanza orchestratore di tutte le stragi (eccetto quella di Peteano, a suo dire l’unica rivoluzionaria “pura”), non ritiene di rivelare tutto ciò che afferma di sapere. La sua verità - Si capisce insomma perché una figura così particolare continui a catturare interesse. E da questo punto di vista il film di Menegazzo e Pernisa è un lavoro straordinariamente utile nel definire l’immagine che, di sé, Vinciguerra ha inteso dare in questi anni. Frutto di incontri a Opera avvenuti nel 2019, L’irriducibile raccoglie infatti lunghe dichiarazioni dell’ergastolano senza alcuna traccia di contraddittorio. Così d’altra parte piace a lui, ripreso tra l’altro anche nella piccola biblioteca del carcere a pigiare i tasti di una Olivetti Lettera 35, con ai lati copie di Storia del fascismo di Pierre Milza e Serge Berstein e di Fascisti rossi di Paolo Buchignani, come un autentico storico al lavoro. Ma attenzione: non si tratta di volontà agiografica, bensì di una precisa scelta autoriale. Spiega infatti il regista Menegazzo: “Si tratta della verità di Vinciguerra, di una sua auto rappresentazione, questo deve essere chiaro. Non eravamo interessati a una ricostruzione storica o giudiziaria della strage di Peteano, bensì a una narrazione che cercasse di penetrare la psicologia di un personaggio che da 43 anni, in carcere, per continuare a vivere ha dovuto per forza aggrapparsi a qualcosa”. Buio e fantasmi - Nel film, tra un monologo e l’altro di Vinciguerra (e il contrappunto degli altri intervistati già citati) scorrono immagini dei luoghi in cui, loro malgrado, la storia del paese ha fatto tragicamente tappa: e quindi la Banca Nazionale dell’Agricoltura, appunto Peteano (e pure Ronchi dei Legionari), la questura milanese di via Fatebenefratelli, il porticato di piazza della Loggia di Brescia, la stazione ferroviaria di San Benedetto Val di Sambro (dove il 4 agosto 1974 arrivò sventrato il treno Italicus), naturalmente quella di Bologna. E sono tutte immagini girate in notturna: a significare il mistero che per decenni ha aleggiato su tutte le stragi. “Sono tutti luoghi ripresi oggi nella loro attualità - spiega Menegazzo - ad esempio in piazza della Loggia c’è un muratore che lava i propri arnesi in una fontanella. Luoghi attuali che però la gente ha dimenticato”. Un paese dunque indifferente, che ancora dovrebbe fare (ma non fa) i conti con i propri fantasmi. Il finale del film propone però le luci dell’alba sulla stazione di Bologna in cui il 2 agosto 1980 persero la vita 85 persone: a simboleggiare quello che, specie dopo l’inchiesta sui mandanti e il processo Bellini, sembra essere l’inizio della fine del buio su quella tremenda stagione. Una guerra da solo - L’irriducibile si apre invece con Vinciguerra oggi, che un po’ sorridendo riascolta la domanda che gli pose nel 1990 Sergio Zavoli per La notte della Repubblica (di cui riecheggia frequentemente anche la musica, rieseguita): “Lei è qui con questi tre morti che non pesano sulla sua coscienza, perché l’eccidio fu compiuto per combattere lo stato, come lei dice. Quella guerra in realtà non c’è stata, e lei consuma qui, nella solitudine, l’illusione di averla combattuta. Che senso vuol dare, almeno, al suo futuro?”. E poi la sua risposta di allora, con tanto di filmato originale: “Sono in piedi, rivendico l’attentato di Peteano e continuerò con altri mezzi, i mezzi che mi sono consentiti nella situazione in cui adesso mi trovo, quella guerra che ho iniziato 27 anni fa e che non finirà mai prima che finisca io. Finirà nello stesso momento”. Poi ancora Zavoli, l’ultima domanda di quella incredibile puntata del 31 gennaio 1990: “Lei è consapevole che questa guerra continuerà a farla da solo?”. Vinciguerra rispose con un largo sorriso: “Non è una buona ragione per smetterla”. Sono passati altri 32 anni e siamo ancora lì. Diritti sociali e civili, c’è poco da stare sereni di Luigi Manconi La Repubblica, 7 dicembre 2022 Uno strumento utile al monitoraggio dello stato delle tutele è il nono rapporto dell’associazione A Buon Diritto Onlus. Dove si elenca ciò che è stato fatto e si suggerisce quel che si potrebbe fare. Mentre i segnali che arrivano dal governo sono tutt’altro che incoraggianti. Dal 25 settembre del 2022 e, per la verità, da qualche mese prima si è diffusa in larghi settore dell’opinione pubblica una certa preoccupazione relativamente ai rischi e alle insidie che il nostro sistema dei diritti possa correre a seguito dell’insediamento di un governo di destra. Pericoli che le prime mosse e già le primissime parole dell’esecutivo Meloni hanno confermato, attraverso non solo messaggi ma anche atti concreti. A esempio: l’introduzione nell’ordinamento di una nuova fattispecie penale lesiva dei fondamentali diritti di riunione e manifestazione (il cosiddetto decreto anti-rave) e di una più pesante e discriminatoria disciplina dell’ergastolo ostativo. Esponenti del governo e della maggioranza hanno precisato, tuttavia, che la legge sulla interruzione volontaria di gravidanza non verrà messa in discussione in alcun modo. Il che può tranquillizzare fino a un certo punto, perché, come è noto, la normativa sull’aborto conosce le sue maggiori difficoltà soprattutto nella carente e così spesso non corretta applicazione. Ma per quanto riguarda tutte le altre famiglie di diritti civili e sociali, soggettivi e collettivi, che sono gli uni indissolubilmente correlati agli altri, c’è poco da stare sereni, considerate le molte avvisaglie negative. Dunque, risulta estremamente utile, per compiere un monitoraggio puntuale e minuzioso dello stato dei diritti in Italia, consultare il Rapporto che ha esattamente quel titolo e che è stato realizzato da A Buon Diritto onlus. È il nono report elaborato nell’ultimo decennio e si avvale della collaborazione di una ventina di ricercatori, ciascuno competente per ogni campo di diritti. Diciassette sono le aree tematiche: libertà di espressione e di informazione, pluralismo religioso, salute e libertà terapeutica, ambiente, istruzione, lavoro, persone e disabilità, profughi e richiedenti asilo, migrazioni e integrazione, rom e sinti, Lbgtqi+, autodeterminazione femminile, minori, prigionieri, salute mentale, dati sensibili, diritto all’abitare. Analizzando il rapporto sarà possibile seguire più agevolmente gli slittamenti che diritti e tutele potrebbero subire da ora in avanti, tenendo conto soprattutto del fatto che il rapporto documenta con cura cosa è successo nel 2021 e di conseguenza, punto per punto, propone cosa può essere fatto dal 2022 in poi per assicurare, a quegli stessi diritti, una più sana e robusta costituzione. Uno strumento di difesa, quindi. Dalla disinformazione ai discorsi carichi di odio sui social: il 70% degli italiani ne è allarmato La Repubblica, 7 dicembre 2022 Secondo un sondaggio svolto da Demopolis per Oxfam Italia, 68% teme di incorrere in notizie false 2 italiani su 3 dubitano spesso delle notizie viste o lette in rete. Il 56% ritiene che l’odio generi stereotipi contro gli immigrati. Oltre il 70% degli italiani è allarmato dall’attuale diffusione di discorsi e atteggiamenti d’odio sui social network. Solo 3 cittadini su 10 si dichiarano poco o per nulla preoccupati. Inoltre il 68% è preoccupato dalla possibilità di incorrere in notizie false, e 2 italiani su 3 dubitano spesso delle notizie viste o lette in rete. È quanto emerge da un’indagine condotta dall’Istituto Demopolis - per Oxfam Italia - su un campione di oltre 4.000 intervistati, rappresentativo della popolazione maggiorenne. Si cede al gusto della condivisione. I cittadini dubitano di alcune informazioni ma, nella pratica, cedono al gusto della condivisione: al 41% capita di inoltrare ad amici o conoscenti notizie che ritengono interessanti o sorprendenti (immagini o video), senza verificarne preventivamente l’attendibilità. E solo una minoranza è solita controllare l’esattezza di una notizia ricevuta, cercando conferma da altre fonti. “L’indagine - spiega Pietro Vento, direttore di Demopolis - fotografa una peculiare fragilità nel panorama percettivo italiano: esistono indici di una crisi di fiducia che investe - con intensità e motivazioni differenti - prevalentemente la Rete e i Social Network, ma anche i media tradizionali”. I discorsi d’odio hanno creato stereotipi sui migranti. L’analisi condotta per Oxfam ha verificato quanto incida la penetrazione massiva della disinformazione in tema di immigrazione nella fondazione di stereotipi e meccanismi di esclusione, nonché di incitamento all’odio contro i migranti in Italia. Il problema è senz’altro rilevante, se si pensa che nel complesso è del 56% la quota di italiani convinta che alcuni discorsi d’odio, anche online, abbiano contribuito a creare pregiudizi contro i migranti o alcune particolari categorie di immigrati. Il “ritornello”: “Con gli immigrati aumentano i crimini”. Oltre 8 italiani su 10 hanno intercettato notizie quali ad esempio: “L’immigrazione aumenta l’insicurezza e la criminalità” (88%); “L’Italia ha fatto entrare molti più immigrati degli altri Paesi europei” (74%). Si tratta spesso di notizie false: negli ultimi dieci anni, a fronte di un progressivo aumento della presenza straniera, è diminuito sia il numero assoluto di stranieri detenuti che il tasso di detenzione, che è passato dallo 0,71% del 2008 allo 0,34% del 2020; quanto alla seconda notizia, nel 2021, in Italia hanno chiesto asilo 53.610 persone (0,09 % della popolazione), contro le 65.295 della Spagna (0,14%), 120.685 della Francia (0,18% della popolazione), 190.545 della Germania (0,23% della popolazione). Nei 2/3 dei casi, a veicolare tali notizie sono spesso esponenti politici, ma se ne parla anche in notizie e programmi tv (56%), nonché in conversazioni spicciole fra amici, colleghi e parenti (55%), oltre che sui social network (48%). La sottovalutazione del discorso d’odio. “La sottovalutazione di notizie false e discorsi d’odio in tema di migrazioni determina la proliferazione della disinformazione e il radicarsi di stereotipi ostili. L’infondatezza delle notizie più comunemente intercettate e sopra riferite è chiaramente dimostrabile con dati alla mano. - aggiunge Giulia Capitani, consulente politica sulle migrazioni di Oxfam Italia - preoccupa che vi sia una progressiva “normalizzazione” o “derubricazione” del discorso d’odio, i cui confini risultano labili nel sentire comune; si tratta di fenomeni che ne rendono più difficile il contrasto, proprio perché non esiste più la collettiva convinzione che si tratti di un problema non solo di disinformazione ma anche di deformazione della realtà, con effetti pesanti sull’opinione pubblica e conseguenze anche sui comportamenti individuali”. Il lavoro preoccupa, l’immigrazione è al 7° posto. La percezione problematica della presenza dei migranti si riduce se gli intervistati non la valutano in astratto, ma considerano l’area in cui vivono: è del 37% la porzione di cittadini che ritiene oggi l’immigrazione un problema rilevante nel proprio vissuto quotidiano, per la città o la zona in cui vivono e lavorano. Se invece si considera astrattamente “l’Italia”, la presenza di immigrati viene considerata un problema dal 48%. Si tratta dell’11% in più, con una percezione che raggiunge il 53% nel Nord del Paese e che si differenzia marcatamente in base alla collocazione politica degli intervistati. L’allarme per i costi impazziti. Di peculiare interesse è risultato il posizionamento del tema nella percezione dell’opinione pubblica e l’effettiva problematicità percepita del fenomeno. A questo scopo, l’Istituto Demopolis ha analizzato l’evoluzione delle priorità degli italiani: una sorta di agenda dettata dai cittadini al Governo e agli interlocutori istituzionali, fra il 2019 e oggi. I prezzi del gas e dei carburanti sono attualmente al 1° posto per l’81% degli italiani, al 2° per il 78% sono le politiche per l’occupazione e il lavoro. L’immigrazione passa dal 3° posto in termini di priorità con il 70% nel 2019 alla 7° posizione di oggi in cui, di fronte ad altre priorità incombenti, resta centrale per poco meno di un italiano su due. L’appuntamento promosso da Oxfam e Demopolis. I risultati completi del sondaggio saranno presentati e discussi da Demopolis e Oxfam in un webinar in programma oggi alle 17, a cui parteciperanno: Pietro Vento e Sabrina Titone dell’Istituto Demopolis, Giulia Capitani di Oxfam Italia, Grazia Naletto di Lunaria, Carlo Canepa di Pagella Politica e Antonello Ciervo di Unitelma Sapienza. Contro la violenza sulle donne serve una Rete più forte di Giulia D’Aleo Il Manifesto, 7 dicembre 2022 L’indagine di ViVa. Il progetto triennale nato da un accordo tra il dipartimento per le Pari Opportunità e il Consiglio nazionale delle ricerche evidenzia l’assenza delle istituzioni. Emerge anche l’assenza di preparazione degli operatori nel parlare di violenza con chi la commette. “Quelli che presentiamo sono dati che dovrebbero essere cruciali per il lavoro del nuovo governo. Perché il problema della violenza sulle donne non è solo il femminicidio”. Così la ricercatrice Alice Mauri ha concluso l’incontro di presentazione dell’indagine di ViVa, progetto triennale nato da un accordo del 2017 tra il dipartimento per le Pari Opportunità e il Consiglio nazionale delle ricerche. Insieme ad ActionAid, la rete D.i.re e altre quattro realtà impegnate nel contrasto e nell’indagine della violenza di genere, ViVa ha rintracciato nella creazione di rapporti stabili tra Centri antiviolenza (Cav), case rifugio e servizi generali - servizi socioassistenziali, forze dell’ordine, servizi sociosanitari, istituzioni scolastiche, sistema giudiziario e società civile - la chiave per realizzare servizi integrati e aiutare le donne a uscire dalla violenza. Le reti territoriali esistenti, però, sono ancora altamente carenti e faticano a mettere a punto degli interventi che diano centralità alla donna. Nel 2021 la mappatura Istat segnalava 376 Cav e 431 case rifugio attivi in tutto il territorio nazionale, che hanno dato supporto a 54mila donne e ne hanno accompagnate oltre 19mila in un percorso di fuoriuscita dalla violenza. Nel 94% dei casi questi fanno parte di una rete composta da associazioni, prefetture, servizi sociali e da tutti gli enti che possono fornire supporto e servizi. Possibilità da cui restano esclusi alcuni territori del sud Italia, dove l’assenza di reti è la causa di un sostegno insufficiente. “I servizi per cui i Cav e le case rifugio ricorrono più spesso alla loro rete di riferimento - spiega Maria Giuseppina Muratore, ricercatrice Istat - sono il sostegno ai minori, alla genitorialità e il supporto linguistico-culturale. I punti più deboli vengono compensati da un aiuto esterno”. Le reti aiutano poi a segnalare i casi di fragilità e rinviare agli attori più adatti le donne che cercano aiuto. “È un’interrelazione complessa. Il 31% delle donne che arriva ai Cav lo fa tramite servizi territoriali: un terzo ha già chiesto aiuto alle forze dell’ordine o al pronto soccorso. Allo stesso modo, le donne che escono dalle case rifugio nel 30% dei casi vengono rinviate ad altri servizi”. Le reti differiscono tra loro anche in base a chi le coordina, un ruolo che, nella maggior parte dei casi e con picchi nel nord-ovest, è ricoperto dai comuni stessi, mentre in Sicilia e Sardegna la prevalenza è di reti che rispondono alle prefetture. Condizione insolita, sulla cui efficacia, suggerisce Muratore, “bisognerebbe indagare”. In generale, le reti sono un equilibrio di forze spesso fragile, in cui gli attori hanno pesi diversi e modalità di azione opposte e non coordinate. “Nella tutela dei figli, ad esempio, entrano in gioco meccanismi complessi, che evidenziano appieno le differenze di approccio tra i Cav e i tribunali per i minorenni”, spiega Maria Rosa Lotti dell’associazione D.i.re, attiva in 18 regioni con 82 centri tra Cav e case rifugio. “I protocolli di intervento dei servizi - continua Lotti - sono delle procedure talmente standardizzate e con una possibilità residuale di scelta per la donna che contrastano con i percorsi di autonomia messi in atto dai nostri centri”. Non prendono attivamente parte alle reti, inoltre, alcuni soggetti - come centri per l’impiego, aziende di edilizia residenziale pubblica, enti di housing sociale, associazioni sindacali e aziende - che sarebbero fondamentali in un percorso di fuoriuscita dalla violenza che aspiri all’empowerment femminile, ovvero una condizione di indipendenza economica, sociale e abitativa. Oltre il 60% delle donne che arrivano nei Cav, infatti, non sono economicamente autonome e, per chi non ha mai lavorato, uscire dalla violenza diventa ancora più complesso. Il grande assente, però, sono le istituzioni. Le politiche territoriali constano di misure eterogenee e intermittenti, spesso finanziate tramite bandi. “Per raggiungere l’autonomia è necessario partire dai diritti socioeconomici, già scarsamente garantiti alla cittadinanza e ancora meno alle donne - dice Rossella Silvestre di ActionAid -. Blocchiamo gli sfratti nei casi di fragilità, proponiamo la sospensione delle rate del mutuo, rinnoviamo il reddito di libertà, che al momento è soltanto una corsa a chi arriva prima e non un diritto”. Nel rapporto pubblicato a novembre viene precisato, però, come il reddito di libertà possa al più rappresentare una misura di supporto emergenziale. L’indipendenza della donna è, invece, strettamente dipendente da un reddito stabile, percepito tramite un lavoro, e da una condizione abitativa che non siano le case rifugio. “Bisogna dare riconoscimento a questo periodo di momentanea vulnerabilità ed eliminare la neutralità delle politiche pubbliche esistenti”, aggiunge Silvestre. La richiesta per garantire alle donne vittime di violenza di essere riconosciute come soggetti in condizione di fragilità e accedere a vantaggi come la riduzione dei contributi era già stata sottoposta all’ex ministro del Lavoro Andrea Orlando dalla cooperativa sociale Eva, “da cui abbiamo ricevuto promesse mai mantenute”. Lella Palladino gestisce tre laboratori di inserimento al lavoro e accompagnamento all’autonomia, tramite una strategia di “rinforzo dell’autostima, per consentire alle donne di guardarsi con i propri occhi e non con quelli dell’uomo che ha compiuto violenza”. La sicurezza delle donne passa anche dall’azione sull’uomo violento. I Centri per gli autori di violenza in Italia sono più recenti e meno consolidati dei Cav, ma anche questi sono previsti dalla convenzione di Istanbul, che all’art.16 ne sancisce la creazione e il rapporto di collaborazione con i servizi dedicati alle vittime. Nell’indagine di ViVa del 2017 se ne contavano 54 sparsi per il territorio nazionale e 1.200 persone prese in carico. L’obiettivo prioritario non è la loro tutela, ma la sicurezza delle donne e dei loro figli. Le modalità di accesso sono spontanee nel 40% dei casi, mentre per oltre la metà si tratta di soggetti indirizzati da tribunali e avvocati, servizi sociali e autorità giudiziarie. L’assenza di preparazione degli operatori nel parlare di violenza con chi la commette e contrastare le frequenti forme di minimizzazione, banalizzazione e colpevolizzazione delle vittime è una delle criticità evidenziate dalla ricerca. Un’altra, segnala Alessandra Pauncz, presidente dell’associazione Relive - Rete nazionale centri per autori di violenza, riguarda i tribunali ordinari civili e quelli per i minorenni, che, nei casi di separazione con violenza da parte del partner, applicano misure insufficienti alla tutela della sicurezza della donna. “Le visite protette tra genitore e figli vengono spesso sospese dopo pochi mesi, dando all’uomo la possibilità di avvicinarsi di nuovo alla donna e commettere violenza, senza che si sia prima agito sul suo comportamento - conclude Pauncz. Vogliamo un contenimento alla libertà degli autori di violenza, se questa impedisce alle donne di realizzarsi”. Ucraina. Invio di armi: solo il Papa si pone le domande necessarie di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 7 dicembre 2022 La questione dell’invio di armi a Kiev contro l’aggressione russa propone ormai dopo più di nove mesi di conflitto sanguinoso, temi ineludibili, domande scomode e irritanti, e un giudizio perlomeno critico. In un parlamento egemonizzato in chiave bipartisan da forze organiche a quello che Bettini forse definirebbe “estremismo atlantista”, le mozioni contrarie all’invio routinario - al seguito delle precedenti decisioni di Draghi e dopo un emendamento che nascondeva la decisione - di nuove armi per la guerra in Ucraina non potevano che essere sconfitte. Fatto singolare, mentre i putiniani veri, i sovranisti e gli iper-nazionalisti strabici che vedono la Nato al posto dell’Ue - si annidano nei banchi della destra e destra estrema che vuole l’invio di armi, il Pd e Az-Iv , con astensioni incrociate alla fine sorreggono l’esecutivo Meloni e si oppongono alle coraggiose quanto inascoltate prese di posizione di Verdi-Sinistra italiana, sostenute nel voto in aula anche dal M5s, che insistono sulla sola scelta diplomatica ormai cancellata da tutti a nemmeno un mese dalla grande manifestazione pacifista di Roma del 5 novembre. Poi arriverà un decreto del governo per decidere davvero l’invio di armi, per “equilibrare le forze in campo” dichiara Giorgia Meloni nell’intervista di questi giorni al Corriere. Ma come con la Russia potenza nucleare? Eppure la questione dell’invio di armi a Kiev contro l’aggressione russa, propone ormai dopo più di nove mesi di conflitto sanguinoso, temi ineludibili, domande scomode e irritanti, e un giudizio perlomeno critico. Giacché, ancora una volta, bisogna ricorrere a Bergoglio. Che ha detto: “L’invio di armi è un fatto morale se chi lo fa vuole che un popolo si difenda, oppure si vuole la continuazione della guerra…”. Ci si chiede, visto che ad inviare le armi non è la coscienza - come la nostra - dolorosa e impotente di tante individualità anche di sinistra, ma la Nato, di che moralità si tratta se ha una responsabilità dirette per questa guerra? Noam Chomski che non ha esitato a definire “eroica” la resistenza ucraina, allo stesso tempo, come scrive nel suo ultimo saggio-intervista “Perché l’Ucraina” non risparmia accuse per questa guerra alla strategia di allargamento della Nato a Est, pericolosa ed esplosiva già per Gorbaciov prima di uscire di scena e secondo molti della stessa leadership Usa - da Kissinger a Kennan. L’invio degli Stati atlantici non è un fatto morale ma si muove nell’ottica della guerra che deve continuare, in modo speculare a quella di Putin. Se fosse moralità aiutare in armi un popolo aggredito, perché non inviarle anche ai palestinesi, ai curdi e agli Houti, per guerre e occupazioni militari per le quali invece le armi le inviamo agli aggressori? Ma il fatto più rilevante è che siamo a più di nove mesi di guerra e non un commentatore pacifista ma il capo di stato maggiore dell’esercito Usa Mark Milley - uno che le armi a Kiev le invia, come la Nato che ammette con Stoltenberg di avere “addestrato dal 2015 l’esercito ucraino - a metà novembre ha dichiarato che dopo “200mila morti e feriti da una parte e dall’altra”, non c’è alcuna possibilità di soluzione militare del conflitto e nessuna probabilità di vittoria ucraina o russa che sia, ma c’è solo l’opportunità di tenere aperta una “finestra negoziale” e inoltre che” è ‘ improbabile che Kiev liberi tutto il territorio ucraino occupato”. Varrà la pena interrogarsi su queste dichiarazioni? Putin deve andarsene a casa, speriamo. Ma non lo farà per via militare. E torna il tema del riarmo. Quando Draghi decise il riarmo italiano addirittura con ipotesi di sfondamento del tetto del 2% all’interno del riarmo della Nato per un costo che arrivava sui 30 miliardi, insieme al provvedimento sull’invio di armi in molti da sinistra si dichiararono d’accordo con quest’ultima decisione ma contro ogni riarmo. Ora le due cose purtroppo si parlano: le fonti americane e tedesche dichiarano la scarsità di armamenti, se non addirittura i depositi che si avviano ad essere svuotati, tanto che slitta la consegna di armi americane a Taiwan. Vuol dire che se la consegna di armi a Kiev svuota gli arsenali, questo diventerà sempre più il giustificativo per chiedere di riempirli: vale a dire il riarmo. Mentre aumentano i costi sociali della crisi. E c’è la questione sollevata dal rapporto di Amnesty International dell’agosto scorso. A conclusione di una ricerca fatta sul campo a Kharkiv, Mykolayv e Donbass in una fase molto complessa del conflitto con la controffensiva verso Kherson in difficoltà e l’est martellato dall’artiglieria russa, Amnesty ha accusato l’esercito ucraino perché “nel tentativo di respingere l’invasione russa iniziata a febbraio le forze ucraine hanno messo in pericolo la popolazione civile collocando basi e usando armamenti all’interno di centri abitati, anche in scuole e ospedali”. Era una fase della guerra, ma da allora l’invio di armi è aumentato, in quantità e qualità, al punto che siamo a più di 40 miliardi di armamenti arrivati dalla Nato, trasformando il territorio dell’Ucraina nel più grande hub di armi del mondo. Fermo restando che gli attacchi criminali russi da tempo sembrano prendere di mira direttamente anche le infrastrutture civili come l’energia, il rischio è che aumenti il pericolo che denuncia Amnesty, che ha aggiunto nel rapporto: “Queste tattiche violano il diritto internazionale umanitario perché trasformano obiettivi civili in obiettivi militari. Gli attacchi russi che sono seguiti hanno ucciso civili e distrutto infrastrutture civili”. Senza dimenticare che sempre ad agosto una percentuale altissima, tra il 60 e il 70% delle armi inviate a Kiev, mancava all’appello: al punto che da Washington è stato inviato il super-generale Garrick Harmon a caccia delle armi scomparse. Tenendo anche conto degli allarmi di Europol che metteva in guardia sul fatto che le armi potessero finire alla criminalità organizzata. E possiamo poi dimenticare che siamo ancora all’ombra del recente “incidente polacco”: un missile dichiarato da Zelenski “messaggio di Putin al G20” in corso, è invece risultato missile ucraino finito in terra polacca che rispondeva ad un attacco russo. Sono state ore drammatiche, si è rischiata la risposta della Nato e una crisi che camminava sull’orlo di un conflitto atomico. Una vicenda che sembra racchiudere in sé il rischio “normale” di un incidente deflagrante e il fatto che le armi di difesa possono diventare di offesa. E poi perché escludere la volontà di offesa alla Russia di fronte ai sanguinosi bombardamenti di Putin che martellano ogni giorno i civili ucraini? Chiedeva il ministro degli esteri ucraino Dmytro Kuleba ad un giornalista italiano inviato sul campo: “Come mai Putin può arrogarsi il diritto di colpire impunemente la nostra capitale e noi non potremmo rispondere su Mosca?”. Già, perché no. Iran. La sfida dello sciopero: negozi chiusi e poca fiducia nelle “aperture” del regime La Repubblica, 7 dicembre 2022 Mentre continuano le proteste, Amnesty International denuncia come un inganno lo scioglimento della polizia morale. La Guida Suprema Khamenei: “Ricostruire l’assetto culturale del Paese”. Annunciata la condanna a morte di 5 persone accusate di aver ucciso una guardia rivoluzionaria. Ancora una giornata di proteste in piazza: gli iraniani continuano a sfidare il regime e le sue incerte aperture. Lo sciopero generale, l’ultima evoluzione di una rivolta sempre più tenace, ha paralizzato il Paese soprattutto tra le comunità curde. Ma anche a Teheran, sebbene il Grand Bazaar sia rimasto aperto, molti negozi hanno tenuto le saracinesche abbassate in segno di protesta. Migliaia di persone sono scese anche oggi in piazza sventolando le bandiere. La decisione del regime di abolire la polizia morale, annunciata sabato nel corso di una conferenza stampa dal procuratore generale Mohammad Jafar Montazeri, non ha ottenuto l’effetto di smorzare la ribellione perché i giovani, il popolo che sostiene la protesta e la maggior parte dei commentatori la ritengono un inganno. Il giorno precedente Montazeri aveva affermato che le leggi sull’uso dell’hijab erano in fase di revisione, senza alcun chiarimento su cosa volesse dire concretamente. “Le parole del procuratore generale sono state volutamente vaghe e non hanno fatto riferimento all’infrastruttura giuridica e politica che mantiene in vigore l’obbligo d’indossare il velo”, dice Heba Morayef, direttrice di Amnesty International per il Medioriente e l’Africa del Nord. “Il potere giudiziario continuerà a occuparsi del comportamento della popolazione nella società”, aveva detto Montazeri lasciando intendere che il controllo del corpo delle donne, attraverso le norme sul velo obbligatorio, sarebbe proseguito. “La comunità internazionale e i mezzi d’informazione non devono permettere alle autorità iraniane di gettar loro fumo negli occhi. L’obbligo d’indossare il velo è incastonato nel codice penale, in leggi e regolamenti che consentono di arrestare donne e ragazze e negare loro l’accesso a luoghi pubblici come ospedali, scuole, uffici governativi e aeroporti se non si coprono il capo. Fino a quando queste norme non verranno abolite, la stessa violenza che è costata la morte a Mahsa Amini potrà abbattersi su milioni di altre donne e ragazze”, dice Morayef. Secondo Hossein Jalali, membro del Consiglio islamico e della Commissione culturale, le donne che non indossano l’hijab invece di essere affrontate dalle “pattuglie della polizia morale” saranno avvisate con un Sms, e se non riprenderanno a indossarlo si passerà alle punizioni: “Non ci sarà alcun ritiro dal piano di uso dell’hijab perché significherebbe il ritiro della Repubblica islamica”, ha spiegato. A cambiare, sembra annunciare, saranno metodi e procedure per la repressione delle donne che osino dismettere il velo, non le regole che lo impongono: anzi, secondo il quotidiano riformista Shargh lo stesso Hossein Jalali ha annunciato che saranno bloccati i conti bancari delle donne che non porteranno il velo. Il braccio di ferro tra il potere e il popolo è insomma sempre più duro: le dimostrazioni anti-governative continuano e lunedì notte in varie città iraniane sono continuate le manifestazioni. Quelle pacifiche, con gruppi di donne e uomini che urlano slogan contro la Guida suprema Ali Khamenei; ma anche quelle dei manifestanti che appiccano il fuoco con bottiglie molotov lanciate contro edifici, come mostrano i video pubblicati sui social media. La risposta del governo e della magistratura è durissima: le autorità ieri hanno annunciato di aver condannato a morte cinque persone con l’accusa di aver ucciso un membro di una forza paramilitare affiliata alla Guardia rivoluzionaria islamica iraniana. Ad altri undici sono state comminate pene detentive. Si tratta di 13 uomini e tre minorenni accusati dell’uccisione di Ruhollah Ajamian, un membro del Basij, cioè i volontari della Guardia Rivoluzionaria d’élite iraniana. Una condanna per un delitto di cui non sono state rese note le prove e che sarebbe stato commesso a Karaj, vicino a Teheran, il 12 novembre: un gruppo di uomini ha inseguito e attaccato Ajamian con coltelli e pietre, sostiene il rapporto della magistratura riferendosi ai “rivoltosi”, un termine comunemente usato dal governo per indicare i manifestanti e le manifestazioni antigovernative. Ma si tratta pur sempre di una condanna per omicidio, non per colpire una protesta, e l’Iran è uno dei Paesi che ricorrono più frequentemente alla pena capitale: secondo Amnesty International, il regime di Teheran ha giustiziato almeno 314 persone nel 2021, ben prima che iniziassero le proteste. La scorsa settimana le autorità iraniane hanno giustiziato quattro persone accusate, senza rendere nota alcuna prova, di lavorare per il Mossad. Mentre non si spengono gli appelli per la caduta del regime teocratico, le repressioni continuano comunque a essere violente. L’Iran accusa la comunità internazionale di fomentare le proteste, e secondo Human Rights Activists in Iran almeno 473 persone sono state uccise e altre 18.200 arrestate nelle manifestazioni e nella repressione. L’ultima escalation delle proteste era lo sciopero indetto chiedendo alle imprese di chiudere e ai civili di non utilizzare le banche. Nei quartieri a nord di Teheran la maggior parte dei negozi oggi è rimasta chiusa, mentre le forze di sicurezza presidiavano le strade. Il capo della magistratura iraniana, Gholamhossein Mohseni Ejehi, ha ordinato l’arresto di chiunque incoraggi lo sciopero o cerchi di intimidire i negozi affinché chiudano. Intanto il governo iraniano insiste nell’accusare gli Usa di incitare le proteste: “Gli americani vogliono il petrolio, l’energia dell’Iran, ed è per questo che hanno lanciato la campagna. Ciò che viene detto dai media non corrisponde alla verità”, ha detto ai giornalisti Hossein Amir-Abdollahian, il capo della diplomazia iraniana sostenendo che nessuno sia morto negli scontri seguiti alla morte, a metà settembre, della 22enne curda Mahsa Amini. Secondo Amir-Abdollahian, invece, a morire per le proteste innescate da “i terroristi statunitensi” sono stati 67 agenti di polizia. Il regime continua a essere indecifrabile. La stessa guida suprema, l’ayatollah Khamenei, oggi ha evocato l’esigenza di una “ricostruzione rivoluzionaria dell’assetto culturale del Paese”, qualunque cosa questo possa voler dire. Tutto e niente, appunto: “Il Consiglio supremo - dice Khamenei - dovrebbe porre attenzione alla debolezza culturale esistente in diverse aree del nostro Paese”. Iran. 5 condanne alla forca. Bloccati i conti alle donne senza velo di Farian Sabahi Il Manifesto, 7 dicembre 2022 Terzo giorno di sciopero. A Teheran gli studenti manifestano in piazza della libertà, luogo simbolo della rivoluzione del 1979. Mentre gli iraniani scioperano per il terzo giorno consecutivo, i media governativi in Iran diffondono la confessione estorta al rapper Toomaj Salehi. Arrestato il 30 ottobre, rischia la pena capitale. E sono cinque i condannati all’impiccagione per aver assassinato un paramilitare. Di pari passo, continua il ricatto economico: se uscire dal carcere in attesa di processo può costare centinaia di migliaia di euro di cauzione, ora saranno bloccati i conti bancari delle donne senza velo. In concomitanza con la giornata nazionale degli studenti universitari, in queste ore piazza Azadi, la piazza della libertà di Teheran, è meta di un raduno. Si tratta di un luogo simbolico, perché qui il 1° febbraio del 1979 si radunano milioni di persone per celebrare il ritorno in patria dell’ayatollah Khomeini, dopo 14 anni d’esilio. Lo scià è fuggito, è il culmine di una rivoluzione a cui partecipano le diverse anime dell’Iran: i sostenitori di Khomeini ma anche numerose fazioni della sinistra islamica e laica. Quella del 1979 non è una rivoluzione soltanto islamica, la deriva islamica è dovuta al fatto che il clero è meglio organizzato rispetto agli altri attori in gioco. Tornato Khomeini, i suoi adepti prendono il potere e, poco alla volta, mettono fuori gioco tutti coloro che la pensano diversamente. Ora, si rischia uno scenario simile a quello del 1979: ad animare le proteste innescate dalla morte di Mahsa Amini sono donne e uomini che hanno rivendicazioni molteplici e scandiscono slogan diversi, tra cui il cambio di regime. Nel caso in cui riuscissero nei loro intenti, corrono però il rischio che a dirottare il movimento rivoluzionario siano forze estranee: i monarchici e i Mojaheddin-e Khalq (Mek), le cui bandiere sventolano nelle piazze europee ma non in Iran. Ad auspicare un futuro dell’Iran con a capo monarchici e Mek sono Israele e Stati uniti. Per quanto riguarda un possibile futuro monarchico dell’Iran, i più giovani non hanno memoria dello scià e percepiscono l’erede al trono come un personaggio lontano. I più anziani, invece, ben ricordano le sevizie inflitte dalla polizia segreta. Per quanto riguarda i Mek, Annalisa Perteghella ha scritto un report per l’Ispi, spiegando chi sono i radicali sostenuti dai falchi statunitensi: “Nascono negli anni Sessanta da un gruppo di studenti radicali che univano marxismo e islamismo. Sono tra i primi a condurre la lotta armata contro lo scià e contro i numerosi americani allora presenti nel paese. Dopo la rivoluzione del 1979, il loro leader Masoud Rajavi si ribella alla presa del potere da parte di Khomeini e dà inizio a una nuova lotta armata, questa volta contro la Repubblica islamica. Tra il 1980 e il 1981 l’Iran vive una stagione politica di vero e proprio terrore, segnata tanto dalle epurazioni del neonato regime quanto da attentati e omicidi mirati compiuti dai Mojaheddin” che durante la guerra Iran-Iraq (1980-88) si alleano con Saddam Hussein e lanciano attacchi contro i civili in Iran. Alla luce di queste considerazioni, in Iran i Mek sono per lo più considerati nemici della patria, e non solo dalle autorità: “Gran parte dell’opinione pubblica ha una pessima opinione di questo gruppo armato e infatti in queste settimane nelle piazze e nelle università iraniana viene scandito lo slogan: No a Maryam Rajavi, No ai Mojaheddin”, spiega un’attivista iraniana che preferisce non rendere noto il suo nome perché “combatto contro la Repubblica islamica, non riesco a difendermi anche dai Mojaheddin, che reputo estremamente pericolosi”. A margine dell’evento La forza delle donne organizzato da No Peace Without Justice e Le Contemporanee con il sostegno di +Europa, la giovane iraniana aggiunge: “Si tratta di un gruppo che maltratta le donne, la loro leader Maryam Rajavi indossa il foulard e non ha senso che si inserisca in un movimento rivoluzionario innescato dalla lotta contro il velo obbligatorio. Per la loro lotta armata e gli attentati da loro perpetrati contro i civili possono essere in qualche misura paragonati alle Brigate rosse”.