Da oltre due anni vivono liberi e ora volete rimetterli in cella? di Stefano Anastasia* Il Riformista, 6 dicembre 2022 Sono i settecento semiliberi. Formalmente detenuti, ma per una norma anti-covid non rientrano in carcere neppure la sera. Non hanno infranto regole, hanno trovato un lavoro, una casa. Senza una proroga della misura, da gennaio si riapriranno per loro per porte della prigione. Il Parlamento può intervenire, lo farà? Da più di due anni circa settecento persone, formalmente ancora detenute, sommano una licenza straordinaria alla ordinaria semilibertà, non facendo rientro in carcere neanche per dormire. È questo l’effetto di una saggia misura anti-Covid che ha consentito di alleggerire le presenze in carcere, di mettere a disposizione camere detentive per la prevenzione della diffusione del virus e di evitare che il loro rientro notturno in carcere potesse essere esso stesso fonte di contagio per il resto della comunità penitenziaria. Circa settecento persone che hanno un lavoro o un’attività esterna, sono seguite dal servizio sociale del ministero della giustizia, hanno o si sono trovate un alloggio esterno. Settecento persone che il 31 dicembre potrebbero essere costrette a rientrare a dormire in carcere, essendo in scadenza quella normativa anti-Covid. Si dirà: ma se il covid non giustifica più norme d’eccezione, perché queste persone non debbono tornare a scontare ordinariamente la loro pena, seppure in regime di semilibertà, e cioè uscendo al mattino per lavorare e passare la giornata con i familiari e rientrando alla sera a dormire in carcere? Perché sarebbe una misura ingiusta che non riconosce quel che è accaduto in questi due anni e passa: un lungo tempo in cui queste persone hanno vissuto con noi l’esperienza della pandemia, nelle condizioni in cui l’abbiamo vissuta noi, dando prova - nella stragrande maggioranza dei casi - di correttezza e affidabilità. Come è possibile pensare che settecento persone (molte delle quali gravate da lunghe pene già scontate in gran parte in carcere, prima di accedere alla semilibertà), persone che hanno dato prova di poter vivere in libertà senza commettere reati e senza che siano state sollevate loro neanche infrazioni disciplinari, come è possibile pensare che queste persone a partire dal primo gennaio debbano tornare a dormire in carcere? Sarebbe una evidente regressione nel percorso di reinserimento sociale prescritto dalla Costituzione come finalità della pena e il disconoscimento dell’impegno e della serietà con cui ciascuna di quelle settecento persone ha risposto all’opportunità che è stata offerta loro. È all’esame del Senato il cosiddetto “decreto anti-rave”, che contiene norme in materia di diritto penale, processuale penale e penitenziario, che regolamenta l’accesso ai benefici penitenziari per alcune categorie di detenuti (le norme sul cd. ergastolo ostativo) e sospende i termini per l’entrata in vigore della riforma Cartabia. Tra i suoi contenuti, certamente necessaria e urgente, avrebbe potuto esserci una nuova previsione di proroga della licenza straordinaria per i condannati e le condannate in semilibertà, se non una norma che sani una volta per tutte questa situazione. Nel testo del decreto-legge approvato dal Governo purtroppo questa o quell’altra norma non ci sono, ma il Parlamento può fare la sua parte, integrando il decreto come necessario. La soluzione più saggia e più giusta sarebbe riconoscere una volta per tutte la correttezza di quelle donne e di quegli uomini in semilibertà, che per più di due anni hanno goduto di una licenza straordinaria senza mai fare rientro in carcere e senza mai infrangere regole fuori, e consentire loro di accedere per legge all’affidamento in prova al servizio sociale o alla liberazione condizionale, per arrivare così alla fine della pena senza tornare in carcere. Se invece al Parlamento dovesse mancare il coraggio di questa decisione giusta, non potrà sottrarsi alla necessità di disporre una nuova proroga della licenza straordinaria per il tempo che riterrà più congruo, sapendo fin d’ora che alla sua scadenza il problema si riproporrà ancora più gravemente. *Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà Tiziano Treu (CNEL): “Recidiva al 2% per i detenuti che lavorano” cnel.it, 6 dicembre 2022 I detenuti e le detenute che lavorano con un contratto collettivo nazionale sono 18.654 (34% dei presenti) di cui 16.181 alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria (84,7%) e 2.473 per imprese/cooperative esterne e hanno un contratto molto simile, con gli stessi diritti e gli stessi doveri, dei lavoratori liberi. Quello che lavorano nell’amministrazione percepiscono una remunerazione decurtata di un terzo rispetto a quella dei lavoratori in stato di libertà; hanno diritto alle ferie remunerate, alle assenze per malattia e il datore di lavoro paga per essi i contributi assistenziali (assicurazione sanitaria) e pensionistici. I dati sono stati presentati ieri a Roma, al CNEL, al convegno “Le dimensioni della dignità nel lavoro carcerario” introdotto dal Presidente Tiziano Treu e dal Vicepresidente Floriano Botta, con gli Interventi, tra gli altri, di Francesca Malzani, Professoressa di Diritto del Lavoro, Università degli Studi di Brescia; Carmelo Cantone, Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - DAP; Mauro Palma, Presidente dell’Autorità Garante diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale; Gianfranco De Gesu, Direttore Generale dei Detenuti del DAP - Ministero della Giustizia, Lucia Castellano, Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Campania. Quella di oggi è la tappa di un percorso avviato dal CNEL con il Ministero della Giustizia e l’Amministrazione penitenziaria con il Rapporto sul mercato del lavoro e la contrattazione 2021 in cui, per la prima volta, si sono accesi i riflettori sul lavoro di detenuti e detenute, con un capitolo interamente dedicato al tema a firma di Giuseppe Cacciapuoti, Lucia Castellano e Gianfranco De Gesu, che prevede l’istituzione di un gruppo di lavoro con l’obiettivo di comprendere, analizzare e sciogliere i nodi burocratici e giuridici che impediscono la piena attuazione del principio Costituzionale. L’ingresso dell’imprenditoria all’interno degli Istituti di pena è stato favorito dalla legge193/2000 (cd. Legge Smuraglia), che offre incentivi economici alle imprese che assumono detenuti, tra questi uno sconto del 95% sui contributi che il datore di lavoro versa allo Stato per la pensione e l’assistenza sanitaria; l’utilizzo gratuito dei locali e le eventuali attrezzature esistenti; un bonus di 520 euro mensili (sotto forma di credito di imposta) per ogni detenuto assunto. Le agevolazioni proseguono nei diciotto o ventiquattro mesi successivi alla scarcerazione del detenuto, se prosegue il rapporto di lavoro all’esterno con lo stesso datore di lavoro. “I dati sul lavoro nelle carceri italiane o nella giustizia di comunità sono molto confortanti e ci danno, per la prima volta, un’immagine del sistema penitenziario molto diversa da quella che viene generalmente rappresentata ed è un segnale di grande maturità del nostro Paese. L’obiettivo e l’auspicio è spostare sempre di più i contratti dagli istituti penitenziari verso imprese e cooperative ma soprattutto definire percorsi di riabilitazione con enti locali e cooperative per favorire il reinserimento graduale”, afferma Tiziano Treu. “Implementare lavoro in carcere non significa togliere lavoro all’esterno è invece un grande valore per la società e anche di arricchimento del mercato del lavoro stesso. Mai come in questo momento storico c’è bisogno di portare sempre più imprese a sostenere i progetti di reinserimento dei detenuti perché il lavoro penitenziario risente della recessione, così come del periodo pre e post Covid”, afferma Carmelo Cantone, Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - DAP; “Il lavoro all’interno degli istituti penitenziari è svolto per la maggior parte in servizi domestici e di manutenzione ordinaria e, in misura minore, sia in attività industriali presso lavorazioni direttamente gestite dall’amministrazione, che in attività agricole presso le colonie e i tenimenti agricoli. Nel corso del 2022 la Direzione Generale dei detenuti si è impegnata, con le risorse a disposizione, per razionalizzare le attività delle strutture produttive presenti all’interno degli istituti penitenziari (falegnamerie, tessitorie, tipografie ecc)”, spiega Gianfranco De Gesu, Direttore Generale dei Detenuti del DAP - Ministero della Giustizia. “Al CNEL oggi abbiamo sancito un patto fra l’Amministrazione penitenziaria, il terzo settore e il privato profit, con l’obiettivo di incentivare la funzione rieducativa della pena carceraria, avvicinando il mercato del lavoro al mondo degli istituti di pena. I dati dimostrano che la finalità rieducativa della pena è ancora un obiettivo sostanzialmente inattuato, ma per i detenuti lavoratori i dati sono ottimi. Se la recidiva per i detenuti non lavoratori, infatti, si aggira intorno al 70%, per coloro che invece in carcere hanno appreso un lavoro, imparando ad avere fiducia in sé stessi, la recidiva scende drasticamente intorno al 2%.”, afferma il consigliere Gian Paolo Gualaccini. La giustizia scompone la maggioranza e le minoranze di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 6 dicembre 2022 Decreto rave e non solo. Su ergastolo e corruzione asse M5S-FdI contro Azione, Sinistra e Forza Italia. Grillini allarmati dalla riduzione dei reati ostativi. Nordio: non serve aumentare le pene. La possibile modifica di una delle leggi-bandiera del Movimento 5 Stelle, la “Spazzacorrotti” dell’allora guardasigilli Bonafede approvata in epoca giallo-verde (che tanti guai ha prodotto con l’abolizione di fatto dell’istituto della prescrizione), fa gridare allo scandalo i pentastellati. Ai quali si associano i senatori del partito della presidente del Consiglio, Fratelli d’Italia. Mentre, sulla posizione opposta, si verifica una convergenza di un pezzo dell’attuale maggioranza, Forza Italia, con Azione-Italia viva e l’alleanza Verdi-Sinistra italiana. I tre gruppi hanno presentato emendamenti identici in commissione giustizia al senato, dove oggi pomeriggio cominciano le votazioni al decreto cosiddetto “Rave”, che contiene anche norme sull’ergastolo ostativo e sul rinvio della riforma penale firmata da Cartabia. Fi-Azione-Sinistra propongono di togliere i reati di peculato, corruzione e concussione dalla lista di quelli per i quali è obbligatoria la collaborazione per accedere ai benefici penitenziari. Lista che comprende i reati gravissimi come terrorismo e mafia, alla quale li aveva associati appunto la “Spazzacorrotti” dei 5 Stelle. Che adesso lanciano allarmi. “I componente delle grandi reti corruttive potranno accedere ai benefici penitenziari senza collaborare con la giustizia”, scrivono i rappresentanti M5S nelle commissioni giustizia di camera e senato, denunciando che il tentativo è firmato da centristi e sinistra insieme a Forza Italia “da sempre avamposto nella difesa di quei colletti bianchi che inquinano la società e l’economia”. I 5 Stelle, contemporaneamente, si trovano in sintonia con Fratelli d’Italia nel cercare di limitare ulteriormente la riforma dell’ergastolo ostativo. Riforma - ricordiamolo - imposta da una sentenza della Corte costituzionale che ha prefigurato la incostituzionalità dell’attuale norma che vincola alla sola collaborazione la concessione dei benefici e della liberazione condizionale per i condannati per reati “ostativi”, ma non l’ha sanzionata, rinviando la palla al parlamento. Nel decreto che è in conversione il governo ha fatto sua l’ipotesi sulla quale si era trovata una parziale intesa nella scorsa legislatura, considerata da molti giuristi ascoltati in audizione al senato la settimana scorsa troppo restrittiva, perché introduce persino nuove condizionalità agli ergastolani (per mafia e altri reati gravi) che intendessero accedere ai benefici. M5S e FdI vogliono ulteriormente appesantire le prescrizioni. “Per accertare il ravvedimento è essenziale che i mafiosi che non intendano collaborare siano obbligati a spiegare le motivazioni. Alcune, come la volontà di non comportarsi da “infami” o la paura delle ritorsioni, non potranno essere accettabili”, dichiarano infatti il senatore Scarpinato e gli altri 5 Stelle in commissione giustizia (del resto autori anche di un emendamento che introduce il “pentimento” persino per i partecipanti ai rave). Si associa il partito di Meloni, con una serie di emendamenti che impongono una stretta. Il detenuto che non collabora ma vuole accedere ai benefici penitenziari deve fornire al giudice di sorveglianza “l’ammissione dell’attività criminale svolta” e una “valutazione critica del vissuto”. Oggi intanto, prima dei voti sugli emendamenti, proprio la commissione giustizia del senato ascolterà le linee programmatiche del ministro Nordio. Che ieri sulla corruzione è stato abbastanza esplicito: “Aver inasprito le pene ma non è servito a nulla. Le soluzioni sono delegificazione radicale, individuare bene le competenze e semplificare le procedure”. E poi “bisognerebbe far sì che chi ha pagato sia indotto a collaborare, attraverso l’impunità o una profonda revisione dello stesso reato di corruzione”. Corruzione, Nordio: “impunità per chi paga e collabora” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 6 dicembre 2022 Per il Guardasigilli bisogna interrompere la cointeressenza a tacere di corrotto e corruttore. Essenziale anche la delegificazione. Per battere la corruzione servono poche leggi e chiare con competenze ben individuate e procedure semplificate. E soprattutto bisogna rompere l’accordo tra corrotto e corruttore: “Bisogna fare in modo che uno dei due collabori”. Così il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio intervenuto questa mattina alla conferenza “La diplomazia giuridica al servizio della pace e della sicurezza internazionale: l’impegno dell’Italia nel contrasto alla corruzione”, organizzata alla sede del Ministero degli Affari Esteri in occasione della Giornata internazionale contro la corruzione. Presenti anche Antonio Tajani, in qualità di padrone di casa, che ha annunciato la costituzione al prossimo G7 di un gruppo di lavoro anti-corruzione. E il titolare del Viminale Matteo Piantedosi, che ha assicurato la massima attenzione sulle risorse del Pnrr sulle quali aleggia il pericolo di una intromissione della Mafia. Il Guardasigilli parte dalla propria esperienza ricordando alcuni momenti della carriera da magistrato, quando si è occupato negli anni ‘90 della cosiddetta ‘Tangentopoli veneta’ e da ultimo coordinando l’inchiesta sul Mose, “il più grande episodio di corruzione nazionale”. “In questi 25 anni - afferma - sono state elaborate varie leggi anticorruzione, sono state inasprite pene, ma non è servito a nulla. La conclusione che ho maturato è che è inutile cercare di intimidire il potenziale corrotto: non lo sarà mai dal numero delle leggi e dall’asprezza delle pene, perché sarà sempre convinto di farla franca”. Occorre invece “togliergli le armi che lo inducono a farsi corrompere. E queste armi sono paradossalmente le leggi”, spiega Nordio. E cita gli “Annali” di Tacito: “Corruptissima re publica plurimae leges”. L’Italia, spiega, ha una produzione normativa “10 volte superiore alla media europea e forse non è un caso che anche la corruzione sia 10 volte tanto”. E più vi sono leggi, “più vi è confusione nella individuazione delle competenze e delle procedure. Se una persona deve bussare a 100 porte per ottenere un provvedimento, aumenta in modo esponenziale la possibilità che una porta resti chiusa, sinchè qualcuno si presenterà dal cittadino che bussa e gli chiederà o gli imporrà di ungere la serratura”. La soluzione? una “delegificazione rapida e radicale”, cioè “ridurre le leggi”, ma anche “individuare bene le competenze e semplificare le procedure”. Uno dei paradossi del nostro sistema, prosegue Nordio, e quello per cui abbiamo una serie di norme che “si contraddicono le une con le altre cosicché ottemperando ad una ne vìoli necessariamente un’altra di cui il legislatore non è a conoscenza, questo vale soprattutto nel diritto tributario ma vale dappertutto”. Sulla corruzione per il Guardasigilli va fatto un discorso “tecnico”. “Il reato - spiega - è un reato che si consuma nell’ombra, non lascia dati, perché la mazzetta non si paga con il bonifico bancario e avviene senza testimoni. E quindi avviene essenzialmente tra due persone: il corruttore, cioè quello che paga, e il corrotto. Entrambi oggi sono punibili e quindi entrambi hanno interesse a tacere quando vengono interrogati dal magistrato perché possono avvalersi della facoltà di non rispondere”. E qui l’idea dirompente di Nordio: “Bisognerebbe interrompere questa convergenza di interessi, bisognerebbe far sì per esempio che chi ha pagato sia o fosse indotto a collaborare attraverso una impunità o attraverso una profonda revisione dello stesso reato di corruzione”. Aggiungendo poi che “purtroppo” negli anni passati si è andati “in senso proprio contrario introducendo il reato di concussione per induzione che va in direzione completamente opposta”. “Ecco - conclude - bisogna interrompere questa cointeressenza di corrotto e corruttore a tacere e fare in modo che uno dei due collabori altrimenti sarà un reato di cui non si avrà mai la dimostrazione”. E non può essere “la minaccia della galera a indurre una persona a parlare”. Cosi, avverte Nordio, “cadremmo nella barbarie giuridica”. Dopo questo assaggio, l’appuntamento è per domani mattina alle ore 11.00 quando il Ministro illustrerà le linee programmatiche davanti alla Commissione Giustizia del Senato, molto attese dagli addetti ai lavori. “Pene meno severe”. La ricetta di Nordio contro la corruzione di Simona Musco Il Dubbio, 6 dicembre 2022 Inutile introdurre più regole: la corruzione si combatte semplificando le leggi e spezzando il legame tra corrotto e corruttore. Dunque è necessario rivedere radicalmente le norme, che si sono rivelate “inutili e dannose” perché basate su un inasprimento delle pene, che anziché intimidire il corrotto lo induce a rimanere in silenzio. Alla vigilia dell’intervento con cui, dalle 11 di oggi, presenterà le linee programmatiche in commissione Giustizia al Senato, il guardasigilli Carlo Nordio espone le sue idee in tema di corruzione. E ancora una volta punta sulla depenalizzazione e su una legislazione più chiara e semplice, che non fornisca un “appiglio” a chi vuole tentare di barare. Il responsabile della Giustizia ne ha parlato alla Farnesina, all’evento organizzato dal ministero degli Esteri per la giornata internazionale del contrasto alla corruzione e dedicato all’impegno dell’Italia su questo fronte. “È inutile cercare di intimidire il potenziale corrotto, perché sarà sempre convinto di poter farla franca. Occorre invece disarmarlo riducendo le armi a sua disposizione. Queste armi paradossalmente sono le leggi - ha sottolineato Nordio -. In Italia c’è una produzione legislativa dieci volte superiore rispetto alla media europea, e non è un caso che la percezione della corruzione sia dieci volte superiore rispetto alla media europea. Più numeroso è il corpo legislativo, più vi è confusione nell’individuare competenze e procedure”, ha aggiunto. Inasprire le pene e creare nuovi reati, dunque, “non serve a nulla”, ha spiegato il ministro: l’unica soluzione è una “delegificazione rapida e radicale: ridurre le leggi, individuare bene le competenze, semplificare le procedure. Occorre che il cittadino debba bussare a una porta sola e invocare poche leggi chiare”. Se, infatti, una persona deve bussare a 100 porte per ottenere un provvedimento, “aumenta in modo esponenziale la possibilità che una porta resti chiusa, finché qualcuno si presenterà dal cittadino che bussa e gli chiederà o gli imporrà di ungere la serratura”. Sarà dunque questa la strada che il ministro seguirà a via Arenula, dopo aver annunciato, nei giorni scorsi, di voler modificare l’abuso d’ufficio e rivedere la legge Severino, che impone uno stop di 18 mesi ai sindaci dopo una condanna in primo grado. Una priorità, ha promesso ai primi cittadini, tanto quanto lo è rivedere le norme sulla corruzione: l’obiettivo è interrompere la convergenza di interessi tra corrotto e corruttore, “per esempio facendo sì che chi ha pagato sia indotto a collaborare attraverso l’impunità o una profonda revisione del reato di corruzione”, propone il ministro. “Il reato di corruzione si consuma nell’ombra, non lascia traccia, perché le mazzette non si pagano con bonifico bancario, e avviene senza testimoni. Corruttore e corrotto sono entrambi punibili ed entrambi hanno interesse a tacere quando vengono interrogati”, ha aggiunto Nordio. Di qui la necessità di “interrompere la cointeressenza” tra le due parti. “Purtroppo” in passato, ha osservato, “si è andati in senso contrario, introducendo il reato di concussione per induzione”. E non può essere “la minaccia della galera a indurre una persona a parlare”, ha concluso Nordio: così “cadremmo nella barbarie giuridica”. Corruzione, Cantone: “La norma c’è già ma non ha dato risultati. Il reato è grave, le pene restino” di Liana Milella La Repubblica, 6 dicembre 2022 L’intervista all’ex presidente dell’Anac: “No a un’ulteriore riduzione dell’abuso d’ufficio: la Carta chiede ai funzionari pubblici di lavorare con disciplina e onore”. Incentivare il pentimento di chi corrompe? “Ma questa norma c’è già. E non ha dato risultati”. Repubblica chiede a Raffaele Cantone, oggi procuratore di Perugia, ma per sei anni al vertice dell’Anac, un giudizio sull’uscita di Nordio.  Tajani annuncia un G7 sulla corruzione, ma ci crede a un’iniziativa del genere che parte proprio da Forza Italia?  “Io ci vedo solo una bella e importante notizia. Ed è il segnale che la corruzione può tornare al centro dell’attenzione”.  Però, nello stesso tempo, Nordio dice che, così come sono adesso, i reati di corruzione non servono a niente.  “Dire che gli aumenti eccessivi di pena degli ultimi anni sono serviti a poco è corretto. Ma bisogna capire in che modo il ministro voglia riscrivere le norme sulla corruzione. È un’esigenza giusta dire che è necessario spezzare la complicità tra corrotto e corruttore, ma la legge Spazzacorrotti l’ha già previsto con l’articolo 323-ter”.  E che effetti ha avuto la legge dell’ex Guardasigilli Bonafede?  “A oggi assolutamente non significativi. Quando fu approvata qualcuno disse che con questa norma la corruzione sarebbe stata eliminata. E qualcuno disse perfino che ci sarebbero state le file fuori delle caserme delle persone che volevano denunciare. Di entrambi gli effetti positivi non ho notizia”.  Eppure Nordio insiste proprio sul fatto che bisogna “fare in modo che uno dei due collabori, altrimenti la corruzione resta un reato di cui sapremo mai nulla”.  “Ribadisco che condivido la sua aspirazione, ma non riesco a immaginare una norma diversa da quella che già c’è. Mi riservo di esprimere un giudizio quando questa intenzione si tradurrà in una norma”.  Non sarà che lo spirito garantista di Nordio prevale al punto da fargli dire che non bisogna cadere “nella barbarie giuridica” del solo aumento delle pene?  “Io sono assolutamente d’accordo con lui che non è con le pene che si risolve il problema della corruzione, resto però dell’idea che la corruzione è un reato grave e quindi meriti una sanzione adeguata. Negli ultimi anni ci sono stati inasprimenti eccessivi, ma in passato la pena per alcuni fatti corruttivi era assolutamente irrisoria. È opportuno trovare il giusto equilibrio”.  Ma lei non vede spirare un vento abolizionista? Via l’abuso d’ufficio, via la Severino per i sindaci, via pure le pene severe contro la corruzione. Non rischia di essere un libera tutti, un segnale buonista verso ladri e corrotti?  “Mi auguro di no. Quanto all’abuso d’ufficio vorrei ricordare che già nel 2020, nell’ambito di un decreto che riguardava le misure urgenti pro pandemia, il reato è stato del tutto ridimensionato e chi lavora in procura sa bene che si tratta di una norma di fatto applicabile in ipotesi marginalissime”.  Anche allora come oggi si parlò di eliminare la “paura della firma”. “La sostanziale cancellazione fu giustificata proprio così. Ma, com’era prevedibile, non ha avuto effetto perché quel timore ha ben altre ragioni. Abolire il residuo dell’abuso d’ufficio oggi sarebbe non solo inutile, ma anche pericoloso: rischierebbe di rendere non punibili quelle condotte di conflitto d’interesse che sono oggettivamente pericolose per l’imparzialità dell’amministrazione”.  Ma sulla Severino proprio lei non aveva chiesto dal vertice dell’Anac un ridimensionamento? “Sì, avevo proposto di eliminare la sospensione, ma solo nei casi di condanna per abuso d’ufficio. Credo invece che quella norma resti sacrosanta quando la condanna, anche in primo grado, riguardi fatti di mafia o di corruzione. Mi chiedo: un imprenditore privato terrebbe il proprio manager condannato per così gravi reati commessi contro la sua impresa anche solo in primo grado? Credo proprio di no. Ricordo solo che l’articolo 54 della Costituzione prevede che i funzionari pubblici hanno il dovere di adempiere le proprie funzioni ‘con disciplina e onore’“. Caso Cospito, atti alla Consulta ma si dovrà decidere anche sul 41 bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 dicembre 2022 La Corte d’Assise d’Appello di Torino chiede alla Corte costituzionale di esprimersi sulle attenuanti di cui potrebbe beneficiare l’anarchico al 41bis. La procura generale aveva chiesto l’ergastolo e 12 mesi di isolamento diurno. La Corte d’Assise d’Appello di Torino ha chiesto alla Corte costituzionale di esprimersi sulle attenuanti di cui potrebbe beneficiare Alfredo Cospito. L’udienza è stata rinviata al 19 dicembre per la lettura dell’ordinanza che disporrà la trasmissione degli atti alla Consulta. Alfredo Cospito e Anna Beniamino sono accusati del reato di strage politica per i due ordigni fatti esplodere nel 2006 in prossimità della caserma allievi carabinieri di Fossano, in provincia di Cuneo. Gli anarchici del Fai, la Federazione anarchica italiana, erano già stati condannati in secondo grado nell’ambito del processo Scripta Manent - Cospito a 20 anni di reclusione, Beniamino a 16 anni e 6 mesi - ma la Cassazione aveva disposto per entrambi un nuovo processo. Stamattina Cospito, che è recluso al carcere di Sassari in regime di 41-bis, durante il collegamento ha rilasciato una dichiarazione spontanea: “Condannato in un limbo senza fine, in attesa della fine dei miei giorni. Non ci sto e non mi arrendo ma continuerò il mio sciopero della fame per l’abolizione del 41 bis e dell’ergastolo ostativo fino all’ultimo mio respiro per far conoscere al mondo questi due abomini repressivi di questo Paese”. Cospito e Beniamino, quest’ultima collegata dal carcere di Rebibbia, da oltre un mese stanno portando avanti uno sciopero della fame in segno di protesta contro il carcere duro a cui sono sottoposti. Stamattina la procura generale ha chiesto l’ergastolo e 12 mesi di isolamento diurno per Cospito e una pena pari a 27 anni e 1 mese per Beniamino. Intanto si è concluso ai Giardini Reali, in centro a Torino, il corteo di circa 150 anarchici che ha attraversato le vie del capoluogo piemontese in segno di solidarietà. Durante il corteo, partito dal Palagiustizia, sono stati imbrattati muri, tram e mezzi pubblici e sono stati esplosi alcuni petardi. Inoltre, a quanto si apprende, un barista che si sarebbe lamentato per gli atti vandalici, sarebbe stato malmenato da alcuni manifestanti. Chi è Alfredo Cospito, l’anarchico al 41bis - Cospito è detenuto da oltre 10 anni nel carcere di Bancali, a Sassari. Nel 2014 è stato condannato a 10 anni e 8 mesi per la gambizzazione dell’ad di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, nel 2012, rivendicato dalla sigla Nucleo Olga Fai-Fri, Federazione anarchica informale-Fronte rivoluzionario internazionale. Cospito è accusato anche di aver piazzato due ordigni a basso potenziale nei pressi della Scuola allievi carabinieri di Fossano, in provincia di Cuneo, nella notte tra il 2 e il 3 giugno del 2006. L’esplosione dei due ordigni non causò vittime. Pescarese, classe 1967, Cospito è il primo caso di un anarchico al 41 bis, una disposizione introdotta nell’ordinamento penitenziario italiano con una legge nel 1986, in funzione di lotta e contrasto alle mafie. Da ottobre scorso è in sciopero della fame: dopo sei anni in regime di alta sicurezza, ad aprile, la sua condizione carceraria si è aggravata, con il passaggio al 41 bis, così come stabilito da un decreto del Ministero della Giustizia, secondo il quale Cospito, comunicando con l’esterno, manterrebbe i legami con il gruppo anarchico di riferimento. Una decisione motivata sulla base degli scambi epistolari avvenuti, negli anni della detenzione, con altri anarchici. I magistrati di Torino hanno ritenuto che, attraverso lo scambio epistolare, Cospito mantenesse i legami con l’organizzazione di riferimento. Successivamente, i pm di Torino hanno avviato una indagine che ha portato a un procedimento nei confronti degli appartenenti alla Fai per il reato compiuto tra il 2003 e il 2006. Cospito è stato identificato quale “capo e organizzatore di un’associazione con finalità di terrorismo” e condannato a 20 anni di reclusione in primo e secondo grado. Lo scorso mese di luglio, la Cassazione ha riformulato le accuse nei suoi confronti: strage contro la sicurezza dello Stato, reato che prevede l’ergastolo ostativo o, in altre parole, “fine pena mai”. Processo ad Alfredo Cospito, chiesto l’ergastolo. Corteo degli anarchici: ferito un barista di Simona Lorenzetti e Massimiliano Nerozzi Corriere della Sera, 6 dicembre 2022 “Continuerò a lottare contro il 41 bis fino all’ultimo respiro” ha detto l’anarchico. La Corte rinvia alla Consulta la decisione sulla concessione o meno delle attenuanti: sentenza rinviata. Colpo di scena al processo contro l’anarchico Alfredo Cospito. La Corte d’Assise d’Appello ha annunciato l’intenzione di investire la Corte Costituzionale sulle attenuanti di cui non potrebbe beneficiare Cospito. Il tema è quello della “lieve entità” da applicare o meno all’attentato avvenuto nel giugno 2006 alla scuola allievi carabinieri di Fossano. Il riconoscimento della lieve entità consentirebbe a Cospito di evitare l’ergastolo, ma al momento il beneficio non si potrebbe applicare perché l’imputato ha una recidiva specifica infraquinquennale.  Come hanno spiegato, nel corso della discussione, i legali Flavio Rossi Albertini, Caterina Calia e Gianluca Vitale: “Evidentemente i fatti di Fossano, pur qualificati come strage, non posso essere ritenuti di eguale gravità quindi di eguale pena con le stragi che hanno provocato decine di morti in passato”. Slitta quindi la sentenza, che verrà pronunciata solo dopo che si sarà espressa la Corte Costituzionale. “Continuerò a lottare contro il 41 bis fino all’ultimo respiro”, così Cospito nella dichiarazione spontanea che ha aperto il processo d’appello bis davanti alla corte d’Assise di Torino, dove è imputato insieme ad Anna Beniamino: già condannati nell’ambito del processo “Scripta manent”, su plichi e attentati a anarchici, la Cassazione ha rimesso il processo in Appello per una rideterminazione di pena.  L’attentato - Era strage (articolo 422 dopo il primo secondo grado), strage con attentato alla sicurezza dello Stato per la Cassazione (articolo 285): una differenza che potrebbe portare alla condanna dell’ergastolo. Le dichiarazioni di Cospito, e della Beniamino, sono state salutate dai cori di una ventina di anarchici in aula: “Libertà! Fuori Alfredo dal 41 bis”. Si parla di due ordigni messi davanti all’allora scuola allievi carabinieri di Fossano, la notte del 2 giugno 2006. Non ci furono vittime, ma per la Cassazione, fu solo una casualità, vista anche la tecnica “a trappola”, cioè con timer programmati a orari diversi uno dall’altro.  Aula sgomberata - “Due attentati nel cuore della notte, in luogo deserto - ha detto ancora Cospito - nei quali poteva e non doveva morire nessuno”, come poi andò. “Ma mi darete l’ergastolo ostativo”. Una volta fatta sgomberare l’aula - ma in maniera non cruenta - i manifestanti per protesta hanno bloccato la strada davanti al palazzo di giustizia. Il corteo in città - Mentre, in aula, il procuratore generale Francesco Saluzzo chiedeva l’ergastolo per l’anarchico Cospito (e 27 anni e 1 mese per Beniamino), per le vie di Torino vicino al tribunale andava in scena un improvvisato corteo di anarchici. Durante il quale, un barista di via Principi d’Acaja è stato picchiato dai manifestanti.  Ferito un barista - Non sono chiari i motivi dell’aggressione da parte di un gruppo di persone. L’uomo ha riportato una ferita alla testa. Secondo le prime informazioni il barista si sarebbe opposto a che venissero fatte delle scritte sulle vetrine del bar. Luigi Manconi: “Quell’ergastolo è incostituzionale, è l’occasione per ripensare la legge” di Paolo Colonnello La Stampa, 6 dicembre 2022 Il sociologo: “Questo processo un banco di prova per la coerenza del garantismo”. Davvero si può buttare la chiave per un terrorista che, pur accusato di strage politica e attentato alla personalità dello Stato, non ha mai ucciso nessuno? L’eccezione di costituzionalità sollevata ieri dagli avvocati dell’anarchico irriducibile Alfredo Cospito, interroga le coscienze e la politica prima ancora del codice penale. Dove un articolo di legge vieta espressamente che a un recidivo come Cospito possano essere concesse le attenuanti che trasformerebbero il suo ergastolo ostativo “solo” in una lunga, ma più umana, detenzione. E Luigi Manconi, sociologo, alfiere del garantismo e presidente di “A buon diritto Onlus”, ne è perfettamente consapevole: “Questa vicenda è un test essenziale per la coerenza del garantismo”. Perché, Manconi? “Perché il garantismo è un’affermazione di principio a prescindere. Ovvero è una dichiarazione al rispetto rigoroso dei diritti e delle garanzie, delle prerogative e delle guarentigie, che viene affermata come assoluta”. Messa così, pare un dogma… “Non è un dogma ma un principio fondativo dello Stato di diritto e significa concretamente una cosa semplice: che diritti e garanzie valgono a prescindere dal clima politico e da eventuali situazioni di emergenza, come l’allarme suscitato dall’attentato incendiario di Atene”. Veniamo al punto: chi non ha mai ucciso può essere condannato per strage? “La questione è più semplice: c’è una compatibilità costituzionale tra l’entità del danno e l’entità della pena? C’è una coerenza costituzionale tra la recidiva del recluso e la pena dell’ergastolo?”. Risposta? “Direi di no, ma sembrano pensarla così anche i giudici della Corte d’Assise d’Appello che hanno accolto l’eccezione di Costituzionalità”. Segno che nel nostro codice molti articoli sono incostituzionali? “Penso che alcuni lo siano e la procedura da seguire è chiara ed è quella di sollevare la questione nel corso di un processo, come avvenuto a Torino”. Perché alcuni articoli non sono coerenti con la realtà? “È una delle ragioni per cui l’amministrazione della Giustizia spesso non viene compresa dall’opinione pubblica. Non si ispira al buon senso e preferisce blandire il senso comune che sovente esprime solo una pulsione di rivalsa e di vendetta”. Cospito, però, è un irriducibile, che non riconosce nemmeno lo Stato democratico… “Non mi interessano i pensieri e le parole di Cospito: c’è una questione fondamentale a prescindere dalla sua fedina penale, dalle sue idee politiche e a prescindere da quanto possano avere combinato quelli che si dichiarano i suoi compagni”. Ovvero? “I diritti previsti dalla Costituzione e dai codici per qualsiasi recluso”. La sua recidiva dimostra una personalità incline al crimine. Che fare? “Mi interessa il suo futuro più che il suo passato. Affermare, cioè, che a ogni essere umano vada garantita la possibilità di cambiare, di revisionare la propria esistenza, di trasformarsi. E un’acquisizione essenziale della civiltà umana”. L’ergastolo ostativo è una pietra tombale sul futuro di ogni individuo? “L’ergastolo ostativo, come già ha cominciato a dire la Corte Costituzionale, immobilizza il condannato e lo riduce al suo reato, lo fissa nella sua colpa invece di assecondare e incentivare le sue opportunità di cambiamento. In altre parole, capisco che il termine sia molto impegnativo, nega la possibilità di redenzione. Ma tale redenzione appartiene al migliore umanesimo religioso e laico”. Caso Cospito, Stefano Anastasia: “Il regime del carcere duro va ripensato” di Giulia Torlone La Repubblica, 6 dicembre 2022 Il Garante dei detenuti del Lazio, tra i fondatori di Antigone. “Sono assolutamente contrario al regime dell’ostatività. Le indicazioni della Corte Europea per i Diritti Umani avrebbero dovuto essere prese più seriamente dal Parlamento”. Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio, tra i fondatori di Antigone, per il caso Cospito al momento non c’è sentenza, la parola passa alla Corte costituzionale. Cosa significa? “La Corte Costituzionale dovrà esprimersi sulla possibilità di bilanciare attenuanti con aggravanti. Nel caso specifico del reato che è contestato ad Alfredo Cospito e ad Anna Beniamino, l’aggravante è la ‘strage politica’. Qualunque sia l’esito, però, non cambierà nulla sul regime di carcere duro a cui Alfredo Cospito è sottoposto e per cui sta protestando con lo sciopero della fame dallo scorso 20 ottobre”. In primo e secondo grado il reato era stato qualificato come delitto contro la pubblica incolumità, ma nel luglio scorso la corte di Cassazione ha modificato l’imputazione in “delitto di strage politica”. Non avendo collaborato in alcun modo con la magistratura, a Cospito viene applicata l’ostatività. Che elementi hanno portato la magistratura a modificare il capo d’imputazione? “Un reato come quello contestato ad Alfredo Cospito attiene alla sfera dell’’attentato contro la personalità dello Stato’ del Codice Rocco. Rappresentano un’idea del Paese e della tutela penale tipici dell’epoca del regime fascista e che non mi appartiene affatto. Capisco però che la magistratura abbia dovuto applicarli, perché la legge parla chiaro: questo tipo di reati prevedono la possibilità del carcere duro e dell’ergastolo”. Molti contestano la durezza della pena con il fatto che non ci siano state vittime. Come se lo spiega? “Che non ci siano state persone coinvolte, per la legge, è del tutto indifferente. Anche se Cospito non ha ucciso nessuno, secondo l’articolo 4 bis del Codice penale ha comunque commesso un reato legato ad azioni terroristiche. Per il nostro ordinamento tanto basta per far scattare il carcere duro. In più, Cospito ha altre condanne, motivo per cui gli è preclusa la possibilità di avere attenuanti. L’applicazione dell’ergastolo è in linea con il nostro codice, ma la questione della mancanza di vittime per alleggerire la pena, sollevata dalla Corte d’Appello di Torino, a mio avviso è legittima”. Anastasia, come si può, secondo lei, conciliare la missione riabilitativa del carcere e questo tipo di condanna? “Sono assolutamente contrario al regime dell’ostatività. Le indicazioni della Corte Europea per i Diritti Umani avrebbero dovuto essere prese più seriamente dal Parlamento. Bisogna sempre consentire al giudice di sorveglianza di decidere in concreto se la persona può accedere o meno a un beneficio penitenziario, senza preclusione di legge a priori. Invece il decreto che attualmente è in discussione al Senato, quello anti-rave, definisce una normativa che rende ancora più difficile accedere ai benefici penitenziari per i condannati ostativi”. E il 41 bis invece? “Sono ancora più netto: se possiamo considerare legittimo questo regime come misura di prevenzione per un tempo determinato, certamente non può essere un regime che dà seguito all’art. 27 della Costituzione, cioè che la pena deve tendere alla rieducazione e al reinserimento del condannato. Abbiamo persone che sono nel regime del 41 bis da trent’anni, questo è in conflitto con la Costituzione e non può essere tollerato”. Roma. Detenuto originario del salernitano muore in carcere, si indaga sulle cause Il Mattino, 6 dicembre 2022 Un detenuto di 28 anni è deceduto nel carcere di Regina Coeli a Roma. Il decesso - secondo quanto emerso - risalirebbe a sabato scorso. Il giovane sarebbe morto a causa di un infarto ma probabilmente sarà sottoposto ad autopsia per risalire alle cause del decesso e dare risposte ai familiari che, giustamente, vogliono saperne cosa sia accaduto al proprio caro. Il giovane padre era in carcere per alcune rapine. Per ora ci sono indagini in corso e null’altro trapela. Firenze. L’università che tende la mano ai volontari di Giampaolo Cerri vita.it, 6 dicembre 2022 L’ateneo fiorentino istituisce il premio “Unifi include”, a suggello di politiche sulla diversità e sull’inclusione raggruppate in una delega pressoché unica nel panorama accademico italiano e attività che comprendono corsi in carcere con 50 detenuti iscritti e accoglienza di studenti-rifugiati. Premiate Fondazione Amore e Vita (minori), Ronda della Carità (senza fissa dimora), Coordinamento Toscano Marginalità (sostegno ai fragili). Don Matteo Galloni e Francesca Termanini hanno raccontato il loro lavoro coi minori in difficoltà che, da Firenze, s’è allargato al Congo nella Fondazione Amore e Vita; Marisa Consilvio, il quotidiano soccorso ai senza fissa dimora con la Ronda della carità; Enrico Palmerini, la preziosa rete offerta dalle 21 organizzazioni di accoglienza che operano nel Coordinamento Toscano Marginalità. Lo hanno fatto, ognuno dando uno spaccato personale di un impegno, di un lavoro, di una passione all’umano più fragile. Un bel momento di confronto quello che stamane ha visto insieme l’Università di Firenze, con la sua rettrice Alessandra Petrucci e la delegata all’inclusione e alla diversità, Maria Paola Monaco, e le tre organizzazioni scelte dall’ateneo per la prima edizione del “Premio Unifi include”. Volutamente nella Giornata mondiale dedicata al volontariato. Non un’iniziativa estemporanea: l’Unifi, come la chiamano gli studenti ricordando il nome del dominio internet, ha da tempo varato politiche attive nell’inclusione, fatte di orientamento nelle scuole superiori, di raccordo con le istituzioni, di dialogo con gli enti di Terzo settore. Attività che vanno dal lavoro con l’azienda sanitaria fiorentina sui fragili al Polo universitario in carcere, con 50 detenuti iscritti, fino alle “azioni a favore degli studenti internazionali rifugiati o in particolari situazioni di difficoltà, con bandi per borse di studio rivolte ai giovani afghani, ucraini e - proprio in questi giorni - a studenti del Myanmar”. Un lavoro che c’è e a cui si è avvertita la necessità di dare continuità e valore con un premio. “Avevamo la necessità, quasi il dovere, di dare valore a delle testimonianze concrete ed effettive di persone che mettono a disposizione ideali, tempo, energia, esprimendo nei fatti responsabilità che percepiscono come proprie”, ha detto oggi proprio la professoressa Monaco, docente di Giurisprudenza che guida anche la Scuola di Servizio sociale, e che oggi lavora con una delega pressoché unica nel panorama accademico italiano, fatta di politiche certo ma anche di testimonianza pubblica, tanto che, venerdì 25 novembre, nella Giornata contro la violenza sulle donne, Monaco era in piazza S. Annunziata con altri colleghi, con lavoratori dell’ateneo e con gli studenti, a manifestare, maglie rosse in dosso. “Attraverso don Matteo e Francesca, Marisa ed Enrico vogliamo premiare i tantissimi volontari attivi in organizzazioni e associazioni; tutti coloro, insomma, che credono nella causa e vogliono dare il proprio contributo alla comunità”, ha sottolineato la rettrice Petrucci, salutando gli ospiti, “vogliamo premiare realtà che portano in sé un valore educativo fortissimo, che può trovare applicazione in tantissimi ambiti e che deve essere condiviso a tutti i livelli”. Loro, i premiati, hanno parlato delle proprie opere con un racconto pieno di passione e anche molto personale. Don Galloni ha ricordato di quando, figlio di un padre potente (Giovanni, leader Dc negli anni 70-80, ministro dell’Istruzione, “la testa più lucida della Dc” lo “svignettavano” Pericoli e Pirella su L’Espresso), s’aggirava per le borgate romane con l’allora fidanzata, volendo cambiare il mondo e coltivando il sogno di scrivere libri, finché il Padreterno non gli fece capire che era il caso scrivere, in meglio, le vite degli altri, di quelli che soccorreva e che cambiare il mondo stava proprio nel dare mezzi di riscatto personale, come l’istruzione, a chi povero e in degrado, non ne aveva. Termanini, la co-fondatrice, ha ricordato che, per amore di quegli ultimi, decise di accantonare gli studi in Fisica, e di come quell’amore duri ancora, mentre Consilvio ha ripercorso il lavoro paziente, silenzioso, essenziale, al fianco degli invisibili che vivono per strada, gli stessi, che aiuta, per altri versi, Palmerini, con gli enti che hanno realizzato la Fenice, il centro che offre servizi a bassa soglia, consulenza psicologica e psichiatrica, assistenza sanitaria, “servizi che hanno sempre funzionato”, ha rammentato, “anche durante il Covid”. Un incontro cordiale non un convegno, per cui il clima che si respirava nella Villa Ruspoli, bel palazzo a pochi passi dal rettorato fiorentino e storica sede degli studi giuridici, era di un evento a metà fra la celebrazione formale e la festa, con la rettrice a “chiamare” l’applauso del pubblico ai premiati, liberando l’uditorio dall’etichetta; con don Galloni pronto a rilanciare - “rettrice, organizziamo più incontri con gli studenti” - e con le assessore al sociale di Comune e Regione, Sara Funaro e Serena Spinelli, in prima fila ad applaudire convinte e a complimentarsi, anche senza il bisogno di saluti o ufficialità. Un giorno diverso, in cui l’università ha certamente fatto l’università, secondo l’etimo di universitas cioè di totalità: i fragili, i loro bisogni, le loro vite, la passione di chi li accoglie e che lavora per loro, stanno dentro larga parte di quello scibile su cui l’accademia fa ricerca e insegna. Brindisi. Uno Sportello di mediazione familiare nel carcere brindisireport.it, 6 dicembre 2022 Ieri, giovedì 5 dicembre, presso la Casacircondariale di Brindisi è stato firmato un accordo di collaborazione tra il Consorzio dell’Ambito Br/1, Casa circondariale di Brindisi, Ufficio di esecuzione penale esterna di Brindisi “Uepe” e la Asl Br/1, per la nascita di uno Sportello di mediazione familiare nel carcere. Tale collaborazione è frutto di una serie di incontri e scambi, al fine di promuovere azioni di informazione, sensibilizzazione e ricerca relativamente a possibili percorsi di giustizia riparativa da attuare in favore dei detenuti della locale casa circondariale. Grazie alla disponibilità di due mediatori familiari e penali del “Centro Servizi per le Famiglie - Servizio di Mediazione”, attività inserita all’interno del Piano di Zona ed in gestione alla Rti ”Amani”, “F. Aporti” e “Lysithea”, si offrirà un servizio strutturato di ascolto e mediazione familiare di approccio trasformativo, sia nella forma di gruppi di parola, sia nella forma di un vero e proprio Sportello che risponderà all’esigenza, ad oggi non colmata, di trovare spazio privilegiato di espressione del sé e di incontro con l’altro in una dimensione protetta e guidata dalla professionalità degli operatori coinvolti. All’interno di tale accordo è stato sancita anche la formazione di un gruppo di lavoro interistituzionale che avrà il compito di informare, sensibilizzare e monitorare le attività svolte congiuntamente dalle parti attraverso incontri con la Direzione della casa circondariale; altresì avrà il compito di valutare e approfondire singole esigenze emerse dai detenuti. Nel mese di gennaio, dopo una serie di incontri operativi tra le parti interessate, all’interno della casa circondariale sarà a disposizione uno Sportello di Mediazione familiare (intervento utile nel contribuire a rendere più concreta la tutela dei legami familiari durante il periodo detentivo) e penale (percorso all’interno degli interventi di giustizia riparativa). Un importante passo questo accordo tra Enti che sul territorio brindisino si impegnano, per diversi aspetti, in favore di persone che nonostante gli errori commessi hanno e devono avere possibilità e nuove opportunità. Bologna. Alla Dozza ritorna la Festa della famiglia bandieragialla.it, 6 dicembre 2022 Dopo due anni di pandemia è ritornata nel Carcere Rocco D’Amato di Bologna la festa famiglia organizzata dall’AVoC unitamente con la Direzione della Casa Circondariale di Bologna nel periodo che va dal 22 novembre al 30 novembre 2022. Un impegno importante quello che ha visto coinvolti i volontari dell’Associazione Volontari Carcere di Bologna e che è stato sostenuto economicamente dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna, con la collaborazione del Garante per i diritti delle persone private della libertà personale Dott. Antonio Ianniello e con il contributo offerto nel rinfresco da Coop Alleanza 3.0. È un’occasione che viene offerta ai detenuti e alle loro famiglie in due diversi periodi dell’anno e che contribuisce almeno in quei giorni a costruire, coltivare e rinsaldare il rapporto affettivo che lega le famiglie con i congiunti. Il distacco, il contatto gelido e artificiale dei tradizionali colloqui visivi privano il detenuto di quella risorsa minima di affetto che contribuisce decisamente a orientare le sue scelte future verso opzioni non devianti. Le leggi sull’esecuzione penale dispongono che i colloqui siano temporalmente circoscritti, e tale contingentamento, freddo e brutale, è avvertito soprattutto dai familiari e in maniera particolare dai bambini, spesso causando un ovvio raffreddamento e prosciugamento, tendenzialmente crescente, dei rapporti affettivi tra famiglia e detenuto. Inoltre lo scambio affettivo subisce in carcere una deformazione. Esso può esprimersi solo in maniera innaturale, artificiosa. Non ammette in alcun modo gli scambi di effusioni amorose, i baci e gli abbracci. I familiari subiscono pertanto la frustrazione e l’umiliazione di non poter vivere, in quel lasso di tempo cronometrato, neppure la parvenza di un rapporto affettivo autentico, con inevitabili conseguenze sul mantenimento del rapporto. La festa della famiglia invece cancella almeno per qualche ora tutte queste negatività e regala alle persone private della libertà personale e ai loro famigliari uno spazio di vera festa. La location è quella della sala cinema, con tutti i tavoli apparecchiati con tovaglioli che richiamano nei colori e nei disegni l’imminente festività del Santo Natale e ciò è già sufficiente a scaldare l’ambiente. Poi la possibilità di potersi muovere tra i vari tavoli fa si che si possa sviluppare un clima di festa anche con gli altri detenuti e i loro familiari, quasi si fosse tutti insieme ad un veglione. In questo contesto i fantastici volontari hanno un ruolo fondamentale; sottraendo tempo al lavoro, allo studio o alle loro famiglie, si prodigano a servire in tavola stuzzichini dolci e salati accompagnati da bevande e, come nei migliori ristoranti, si preoccupano che i bicchieri non restino mai vuoti. Paradossale ma vero. Per tre ore siamo coccolati e serviti e forse, perché disabituati a questa condizione, ci sentiamo importanti, noi insieme ai nostri cari. Il momento dell’animazione e della distribuzione dei regali ai bambini intervenuti sarebbe da solo sufficiente a sottolineare il valore di questa preziosa occasione. Volti visibilmente soddisfatti del regalo ricevuto, altri che non riescono a trattenere le lacrime e poi tutti al tavolo per riuscire a ritagliarsi qualche minuto per condividere il nuovo giocattolo con i genitori. In questa atmosfera festosa i volontari, come gli sposi in un matrimonio, sono attenti ad ogni particolare, a far conoscenza con le famiglie, e a scambiare quattro chiacchiere che finalmente esulano dal vissuto carcerario. Si assapora concretamente il fatto che i detenuti sono cittadini ristretti nelle libertà ma non nei diritti. E forse, con un po’ di fantasia, ci immaginiamo già proiettati fuori dalle mura di nuova partecipi al contesto sociale. Il male supremo per noi persone private della libertà è la condanna alla sorte della solitudine involontaria, perché questa implica la massima sconnessione fra noi e gli altri, e quindi fra noi e noi stessi nel tempo. E i volontari con spirito di abnegazione si preoccupano di rendere meno afflittiva la detenzione e lo fanno senza mai preoccuparsi di conoscere i reati commessi, in quanto per loro non siamo la colpa di quello che abbiamo fatto ma la consapevolezza di quello che siamo e che potremmo diventare. Anche gli agenti presenti appaiono diversi, più rilassati, più defilati e attenti a non intaccare il clima festoso che si respira. Alessandria. Il Festival “Arti Recluse” libera l’arte nel cuore della città radiogold.it, 6 dicembre 2022 Dal 5 al 15 dicembre la nuova edizione del Festival della Arti Recluse di Ics-Ets libera l’arte nel cuore di Alessandria. Nei locali dell’ex Cinema Moderno, in piazzetta della Lega, e in alcuni negozi del centro, saranno esposti i lavori realizzati dai detenuti che partecipano ai laboratori d’arte nelle carceri alessandrine, guidati dal Maestro di pittura Piero Sacchi. Il festival verrà ufficialmente inaugurato lunedì 5 dicembre, alle 17.30, in piazzetta della Lega con l’esposizione della tela che riproduce “Colomba che apre le ali alla pace” della pittrice ucraina Maria Prymachenko, anche questa realizzata dai detenuti e già esposta davanti al Comune di Alessandria. All’apertura ufficiale del festival parteciperanno anche alcuni detenuti che hanno realizzato le opere e per l’occasione si esibiranno alcuni studenti del Liceo musicale e coreutico di Alessandria. Saranno ovviamente aperti anche gli spazi dell’ex Cinema Moderno, che fino al 15 dicembre si potranno poi visitare dalle 10 alle 12.30 e dalle 16 alle 19.30. All’interno troverete le due grandi opere realizzate dai detenuti del laboratorio d’arte di San Michele: il “Fantabruco”, creata per regalare colore all’area colloqui all’esterno del carcere di San Michele e “Fanfaluche”, pensata invece per il Don Soria e la cui realizzazione proseguirà nei giorni del Festival all’interno dell’area espositiva allestita nell’ex Cinema Moderno. Sempre negli stessi spazi saranno in mostra saranno esposte anche altre opere realizzate negli anni dai detenuti che hanno partecipato a vari laboratori e anche alcuni oggetti realizzati con materiali di recupero, insieme ad alcuni pensieri e scritti, dei detenuti della sezione dei collaboratori di giustizia. Quest’anno il Festival “Arti Recluse” è poi anche un concorso realizzato in collaborazione con RadioGold che invita a riflettere su “Un mondo senza atomica”. Per partecipare basterà scrivere un racconto formato da esattamente 100 parole, costruito su una traccia e contenente parole o frasi da usare obbligatoriamente “Un mondo senza atomica”. • Il testo dovrà essere di 100 parole, non di più e non di meno. • La punteggiatura, gli accapo, i simboli speciali e gli spazi non contano • Il titolo non conta come testo ed è a libera scelta. • Il testo dev’essere scritto in prosa e deve rispettare la traccia data. • La frase obbligatoria non si può modificare, va inserita così com’è I lavori potranno essere anche in formato video, per una durata di trenta secondi utilizzando la tecnica e gli strumenti preferiti. Il video non conterrà immagini dell’autore e non utilizzerà inquadrature selfie. Dovrà invece contenere almeno una inquadratura in cui sia assolutamente assente la presenza video e audio dell’uomo, delle sue tracce, dei suoi manufatti (ad esempio un cielo senza scie di aerei). I testi e i video devono essere inviati a Radio Gold tutta la durata del Festival delle Arti Recluse, per mail a: redazione@radiogold.it. Una giuria permanente presso la radio valuterà i testi e i video. Quelli considerati migliori saranno diffusi da RadioGold e attraverso i canali social. Gli stessi saranno utilizzati nell’ambito del festival valorizzandone la diffusione. Modena. Uno spettacolo indimenticabile dietro le mura del carcere Sant’Anna di Giulia Parmiggiani Tagliati modenatoday.it, 6 dicembre 2022 Venerdì ha debuttato presso la Casa Circondariale Sant’Anna “Giulio Cesare - primo studio”, frutto del lavoro del Teatro dei Venti e degli attori del carcere modenese. “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”, così recita l’articolo 27 della Costituzione. Una rieducazione che nel nostro ordinamento è intesa come “risocializzazione”, per il raggiungimento della quale l’imprescindibile elemento sanzionatorio che caratterizza la pena detentiva deve essere accostato a discipline extra-giuridiche. Una di queste è il teatro, presente nell’ambiente carcerario dal 1957. In Italia è arrivato qualche decennio dopo, grazie anche all’entrata in vigore della Legge Gozzini, e a Modena è presente dal 2014. I laboratori teatrali della Casa Circondariale Sant’Anna sono affidati al Teatro dei Venti, che ha all’attivo percorsi creativi permanenti nelle sezioni maschili e in quella femminile. “L’approccio è improntato alla creazione artistica, che porta alla realizzazione di vere e proprie produzioni teatrali e di un presidio culturale all’interno dell’Istituto” dichiara la compagnia teatrale “Un presidio reso possibile grazie all’operato delle Direzioni che si sono avvicendate, del personale dell’Area Trattamentale e di Polizia Penitenziaria”. Dopo la messinscena di 6 spettacoli, dei quali nel corso degli anni sono state fatte 40 repliche anche fuori regione, venerdì ha debuttato “Giulio Cesare - primo studio”. Si tratta di uno spettacolo liberamente tratto dal “Giulio Cesare” di William Shakespeare con regia di Stefano Tè, prodotto dal Teatro dei Venti in collaborazione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, con il sostegno del Ministero della Cultura e della Regione Emilia-Romagna, e con il contributo della Fondazione di Modena all’interno del progetto “Abitare Utopie”. In scena sono andati gli attori del Carcere di Modena, oltre all’attore professionista Dario Garofalo e alla musicista Irida Gjergji. Dieci detenuti, di età e nazionalità diversa, si sono messi in gioco portando sul palco uno spettacolo che parla di tradimento, di potere, di vendetta. Lo hanno fatto con una professionalità sorprendente, immergendosi nei panni dei personaggi che hanno interpretato, emozionandosi e facendo emozionare. Di questo spettacolo sarà ricordata l’austerità di Cesare, l’irruenza di Cassio, l’autorevolezza di Bruto, la potenza delle voci corali e la fermezza quelle singole: di questo spettacolo sarà ricordato ogni minimo particolare, anche il discorso della Direttrice Anna Albano che lo ha concluso. Nel suo encomio conclusivo, la Dott.ssa Albano ha sottolineato con fierezza l’importanza che questo progetto riveste nella Casa Circondariale Sant’Anna. Ha spiegato inoltre come, dal prossimo anno, il teatro in carcere non sarà più soltanto un laboratorio, ma un vero e proprio percorso professionalizzante. Dal 2023 infatti, il Teatro dei Venti sarà capofila di AHOS - All Hands On Stage, un nuovo progetto co-finanziato dal bando Europa Creativa finalizzato alla professionalizzazione dei detenuti attraverso corsi per tecnici luci e audio, macchinisti, scenografi, attori, con tirocini e accompagnamento al lavoro nei Teatri del territorio regionale. Un’esperienza quindi ancora più completa, che permetterà ai detenuti che lo vorranno di continuare questo percorso - che, tra le altre cose, richiede una grande disciplina - anche all’esterno delle mura. Volterra (Pi). Cena galeotta per sostenere il progetto della Fondazione Casa Marta pisatoday.it, 6 dicembre 2022 Il cuoco Antonio Geri e i detenuti della Casa di reclusione di Volterra insieme per la cena del 16 dicembre. In cucina il cuoco, di origine volterrana, Antonio Geri del ristorante La Rina 1928 di Cecina e una brigata composta da trenta detenuti del carcere di Volterra: a cena, decine di ospiti che con la loro partecipazione contribuiscono al progetto della Fondazione Casa Marta per la costruzione di una struttura pediatrica che possa accogliere, insieme ai familiari, i bambini che necessitano di cure palliative e assistenza di medici e infermieri formati dall’Ospedale Meyer di Firenze. Una serata di convivialità e solidarietà che vedrà ospite d’onore una delegazione della Fondazione Ospedale pediatrico Meyer di Firenze. Le cene sono un momento di incontro e socialità, all’insegna dei buoni sapori, che aprono le porte del carcere per valorizzare l’esperienza della Casa di Reclusione di Volterra come luogo di integrazione e solidarietà e punto di riferimento per percorsi rieducativi efficaci che possano permettere ai detenuti di intraprendere nuove strade professionali. Il menù del 16 dicembre all’insegna dei sapori locali, in cui si uniscono sapori di mare e di terra, con un dolce a sorpresa dedicato al Natale. La serata fa parte del programma delle Cene galeotte. Oltre 15mila persone negli scorsi anni sono entrate, dal 2006, nel Carcere di Volterra per partecipare alle Cene galeotte, il progetto ideato dalla direzione della stessa Casa di reclusione e realizzato in collaborazione con Unicoop Firenze e la Fondazione Il Cuore si scioglie. Dopo la pausa imposta dal Covid, la prima Cena galeotta si è svolta il 5 agosto, con un menù a firma di Luisanna Messeri. I percorsi di apprendimento in cucina, anche in collaborazione con il locale istituto alberghiero, hanno permesso a oltre 40 detenuti di trovare un impiego in ristoranti e strutture esterne, a pena terminata o attraverso l’art. 21 che regolamenta il lavoro al di fuori del carcere. Fra le diverse ed innovative attività c’è anche l’orto: uno spazio dove toccare con mano i frutti del lavoro della terra, che spesso finiscono nelle ricette di pranzo e cena dei detenuti. Una cena importante, non solo per il buon cibo e l’occasione particolare, ma anche perché il ricavato della cena andrà a sostenere un’iniziativa speciale: l’hospice per bambini Casa Marta, un luogo dove i bambini che necessitano di cure e le loro famiglie potranno trovare accoglienza. Quella di Casa Marta è un’idea nata dalla Fondazione Casa Marta e dalla sua presidente Benedetta Fantugini, che ha avviato il progetto in memoria della sua bimba scomparsa a soli 9 mesi. La prima pietra di Casa Marta è stata posata a luglio scorso e, al momento, sono in corso i lavori di ristrutturazione, resi possibili grazie anche a un finanziamento della Fondazione CR Firenze, partner del progetto, ma sono ancora tanti i fondi necessari per poter aprire entro il 2024. La struttura, disposta su due piani, ha una superficie di circa 500 metri quadri ed è circondata da un grande giardino pensato per essere vissuto tutto l’anno dai piccoli pazienti, grazie anche a una pergola bioclimatica che percorre il perimetro dell’edificio. Casa Marta ospiterà fino a sei pazienti accompagnati ciascuno da un genitore; nella struttura ci saranno anche una biblioteca, la stanza della musica, una sala dove studiare, ricevere visite, giocare con i propri fratelli e sorelle, con gli amici. La struttura sarà gestita dai medici e infermieri formati dall’Ospedale Meyer e dai volontari della Fondazione Casa Marta. La struttura, privata ma convenzionata con il pubblico, ospiterà per brevi soggiorni bambini con patologie cronico-complesse, ma anche bambini nella fase terminale della malattia, offrendo l’assistenza medico-infermieristica necessaria per garantire la migliore qualità di vita possibile, grazie alla professionalità di eccellenza del Meyer. Unicoop Firenze e la Fondazione Il Cuore si scioglie sostengono Casa Marta anche con la vendita del panettone firmato da Luisanna Messeri, in vendita su prenotazione nei Coop.fi e con altre iniziative di raccolta fondi sul territorio con il sostegno delle sezioni soci Coop. Maria Grazia Giampiccolo, direttore Casa reclusione di Volterra, afferma: “Assistiamo ad un grande entusiasmo da parte di tutta la struttura e dei detenuti coinvolti: le cene galeotte hanno sempre avuto questo valore forte di aprire le porte del carcere per farlo diventare un luogo di inclusione e di azioni costruttive”. Sara Biagi, vicepresidente Fondazione Il Cuore si scioglie, prosegue: “La cena galeotta di questo 16 dicembre chiude un anno di forte impegno solidale della Fondazione Il Cuore si scioglie su tutto il territorio toscano: è un’occasione importante per riscoprire la socialità dimenticata nel periodo della pandemia ma anche per unire le forze per una causa importante come il progetto Casa Marta”. Antonio Geri, cuoco del ristorante La Rina 1928 di Cecina, sottolinea: “Un vero onore per me poter partecipare attivamente ad un evento così ricco di valore: fondere la cucina e la cultura gastronomica tradizionale con la solidarietà e l’integrazione, è un esempio eccezionale che con le cene galeotte si è consolidato nel tempo. Ho raccolto con entusiasmo l’invito a partecipare e sono molto contento di poter dare un contributo al progetto di Casa Marta con la mia cucina e con l’aiuto della brigata di cucina della Casa di reclusione”. Flavio Nuti, delegato Fisar di Volterra, conclude: “La Fisar, delegazione storica di Volterra, collabora con il progetto delle Cene Galeotte fin dal 2007. Il ruolo della Federazione è stato quello di insegnare ad alcuni detenuti l’arte del sommelier e di scegliere le cantine, principalmente toscane, che desideravano contribuire al progetto fornendo le loro etichette per accompagnare i piatti cucinati da chef stellati e dalla brigata di cucina galeotta”. Info e prenotazioni entro il 10 dicembre: Consorzio turistico di Volterra 0588 87257 - info@volterratur.it  Fine pena mai, il romanzo di Carmelo Sardo sugli uomini a perdere di Lucio Luca La Repubblica, 6 dicembre 2022 Si intitola “Dove non batte il sole” e racconta la storia di un ragazzo che piomba, suo malgrado, in un incubo. Sullo sfondo l’ergastolo ostativo che priva i detenuti di ogni speranza. Rammusa è un paesino della Sicilia orientale dove da tempo la mafia non spara più. C’è un anziano boss che “controlla” i picciotti troppo esuberanti, la vita scorre lenta e senza troppe emozioni. Fino a quando due balordi tentano una rapina in gioielleria e uccidono la coppia di proprietari. Stefano, il figlio delle vittime, ha 27 anni e studia Giurisprudenza senza troppo profitto. Improvvisamente la sua esistenza viene sconvolta dalla morte dei genitori ma, soprattutto, da un’inchiesta a dir poco fantasiosa che lo mette al centro dei sospettati come mandante del duplice omicidio. Il magistrato si chiama Umberto Sparviero e certo non giova al ragazzo il fatto che in casa i poliziotti gli trovano una bustina con una decina di grammi di cocaina. Stefano viene indagato, lui che voleva soltanto giustizia diventa suo malgrado il protagonista dell’indagine, la fidanzata lo lascia e da quel momento entra in un incubo senza fine. Chiede aiuto al boss del paese, non si fida più dello Stato, lo sviluppo dell’inchiesta sulla morte dei suoi genitori lo costringerà a prendere decisioni che condizioneranno per sempre la sua vita. Sullo sfondo del romanzo la vita in carcere e il destino di chi non crede di avere più un futuro. I condannati all’ergastolo ostativo, quello che la legislazione d’emergenza seguita alle stragi del 1992 ha riservato ai mafiosi e a chi non collabora con la giustizia. Fine pena mai, anzi, fine pena 31-12-9999, che non è un refuso ma solo un modo per far capire che chi viene condannato con l’aggravante dell’articolo 4-bis uscirà da una cella solo da morto. L’ultimo romanzo di Carmelo Sardo, caporedattore del Tg5 e autore di numerosi libri che mettono al centro la Sicilia degli ultimi, si intitola Dove non batte il sole (Biblioteka Edizioni, 331 pagine, 18 euro) e riprende uno dei temi più cari al giornalista originario di Porto Empedocle. L’ergastolo ostativo, appunto, quello che - solo per fare un esempio - sta scontando da oltre trent’anni Giuseppe Grassonelli, ex sicario della Stidda (l’organizzazione che si contrapponeva alla mafia nella Sicilia degli anni Ottanta) protagonista di Malerba, romanzo-verità tradotto in tutto il mondo e diventato anche un documentario di grande successo. Nella vita di Stefano arriverà a un certo punto Costanza, figlia di un appuntato della polizia penitenziaria, che fa volontariato in carcere e si batte per l’affermazione dei diritti dei detenuti e del loro recupero. Ciò che prevede la Costituzione - articolo 27 - ma che la legislazione d’emergenza ha di fatto abrogato. Dove non batte il sole dunque è un romanzo, i personaggi sono sicuramente frutto della fantasia dell’autore, ma le storie no si discostano molto dalla realtà nella quale, spesso, emergono le storture di una giustizia con le sue lacune e le sue incongruenze, una giustizia che contempla il vero “fine pena mai” che altro non è che una pena di morte in vita. “Quel che sappiamo - scrive Sardo nell’epilogo - è che ci sono 1.300 persone in Italia condannate all’ergastolo ostativo (istituto che esiste solo nella nostra legislazione, ndr) sepolte letteralmente nelle nostre carceri. C’è chi è andato ben oltre i 30 anni di galera e non solo si è recuperato ma ha preso non una ma due lauree”. Il riferimento a Grassonelli è chiaro: “Sono altri uomini - conclude l’autore - non sono più il reato che hanno commesso. Ma non ancora per lo Stato italiano”. Un docufilm racconta “l’esilio” nell’Istituto Penitenziario di Barcellona Gazzetta del Sud, 6 dicembre 2022 Una biblioteca, aule scolastiche, un docufilm che rende protagonisti facendoli uscire virtualmente dalla detenzione gli internati. Cambia pelle l’Istituto Penitenziario giudiziario di Barcellona. E domani a Barcellona Pozzo di Gotto saranno presentati significativi cambiamenti in due diversi momenti: il primo di mattina dentro al carcere, il secondo nel pomeriggio al santuario di Sant’Antonio di Padova. Proprio il convegno rappresenterà il culmine della storica giornata. “AttraVersaMenti: dall’Ospedale Psichiatrico Giudiziario al Penitenziario” è il titolo della giornata di studi dedicata alla storia dell’Istituto Madìa di Barcellona Pozzo di Gotto affrontata da diverse prospettive e promossa dalla Direzione della casa circondariale, da docenti delle Università di Messina, Firenze, Pisa, Roma, da studiosi ed esperti del mondo carcerario. Una prima sessione mattutina avrà luogo all’interno della casa circondariale sui temi di “Scuola, Biblioteca e cinema in carcere: occasioni di emancipazione e di cittadinanza attiva”; per l’occasione verranno presentati gli spazi scolastici ex OPG ristrutturati e la nuova biblioteca intramuraria; una seconda sessione pomeridiana si svolgerà presso il Convento del Santuario di Sant’Antonio di Padova sul tema: “La storia dell’Istituto V. Madìa e la questione della psichiatria in carcere”. In anteprima la presentazione del docufilm “Dopo questo esilio” nato grazie al progetto “Cinema forma dell’anima” del Miur - CPIA di Messina e realizzato all’interno della casa circondariale con la regia di Salvo Presti. A lavorare alla nuova biblioteca e ai nuovi spazi sono stati la direzione dell’Opg, i detenuti e il centro di istruzione per adulti. “La scelta”, il documentario sull’oramai trentennale lotta No Tav in Val di Susa di Davide Turrini Il Fatto Quotidiano, 6 dicembre 2022 Diretta da Carlo A. Bachschmidt, fotografata e scritta da Stefano Barabino e Michele Ruvioli, l’opera è una sorta di riemersione dei frammenti visivi di una resistenza popolare che pare fuori dal tempo e l’affermazione carsica di una identità locale anticapitalista che nulla ha a che vedere con sterili isolazionismi culturali. “Una resistenza comunitaria che oggi sembra fantascienza”. Dario Zonta, produttore creativo de La scelta, il documentario sull’oramai trentennale lotta No Tav in Val di Susa, passato all’ultimo Torino Film Festival, ha mirabilmente riassunto il senso e la profondità politica di questo lavoro in sette parole. Diretto da Carlo A. Bachschmidt, fotografato e scritto da Stefano Barabino e Michele Ruvioli, La scelta è una sorta di riemersione dei frammenti visivi di una resistenza popolare che pare fuori dal tempo e l’affermazione carsica di una identità locale anticapitalista che nulla ha a che vedere con sterili isolazionismi culturali. Il grido qui peraltro estremamente sommesso che arriva da quella valle che si è messa per traverso rispetto ad un’”opera strategica” - tra parentesi: tale da decenni quindi così strategica non pare nemmeno più - è qualcosa di più composito, articolato, profondo, di una rabbia da un piccolo corteo della domenica mattina. Bachschmidt ha raccolto testimonianze per dieci anni, a partire dall’apertura del cantiere di Chiomonte nel 2011, e ha rimesso in un possibile ordine questa storia antisistema precipitata da una specie di 1870. “Vivere significa scegliere”, spiega Nicoletta Dosio, la 76enne valligiana che proprio in queste ore è stata nuovamente condannata (per evasione dai domiciliari), dopo aver scontato un anno di prigione. Ne La scelta, Nicoletta è un apostrofo rosso carminio in mezzo al cemento, alla polvere, al ferro che ha sventrato la Val di Susa aprendo la gola nerissima del tunnel con cui, come dichiarava sorridente Berlusconi premier (e altri dopo di lui non proprio di destra), si collegherà “Lisbona a Kiev” in un anacronismo storico sconcertante. I fili più robusti del racconto si formano spostando di qualche minutaggio in più i mezzi busti della Dosio, Luca Abbà e Davide Grasso, mentre attorno a loro scorre la vita di un’altra mezza dozzina di valsusini noti e meno noti (tra questi Alberto Perino). Bachschmidt osserva e contempla in campo lungo l’agire dello stato e dei resistenti. L’autostrada che continua - spesso e volentieri così vuota di mezzi che raddoppiarla fa quasi ridere - a funzionare lassù in alto sul viadotto, e sotto le tante formichine in divisa e quelle più sparute ma costanti dei manifestanti. Atti di sabotaggio come tagliare le reti dei cantieri, blocchi stradali, ogni genere di possibile rallentamento o stop dei lavori per non far arrivare mai in fondo l’”opera strategica”. Ma è proprio qui che La scelta supera un qualsiasi reportage di cronaca. Perché non è che bloccare la Tav esaurisca del tutto l’attivismo dei protagonisti. Nulla pare fermarli. La Dosio con quella chiara impossibile pericolosità per le istituzioni statali; Abbà dal giorno in cui cadde fulminato dal traliccio dell’alta tensione passando dal carcere e dalla separazione dalla propria compagna; Grasso nel suo doppio e parallelo agire come combattente nel Rojava. La macchina da presa di Bachschmidt fende i rami, le foglie, le barriere Jersey, le reti metalliche e intanto la traiettoria di lotta dei singoli si spinge oltre l’individualità alla ricerca di una dignità collettiva che sembra un anelito nascosto dietro la sequenza successiva che verrà montata. La scelta sembra così un documentario in divenire sul concetto di resistenza impari, una lotta continua e inesausta, Davide contro Golia, ordine antico contro disordine nuovo, che pare disegnata oltre quel tunnel, oltre i tir che da Kiev andranno a Lisbona, oltre i tradimenti politici temporanei (l’intemerata di Perino verso i Cinque Stelle è esplicita), oltre l’istante in cui il sistema ingiusto sembra aver schiacciato l’atto del resistervi. Carceri, ergastolo, migranti: la mappa (nera) dell’Italia di Angela Stella Il Riformista, 6 dicembre 2022 Un monitoraggio di diciassette ambiti presentato ieri con Valentina Calderone, Luigi Manconi e diversi parlamentari: nel 2021 record decessi di profughi nel Mediterraneo. Presentato ieri alla Camera dei deputati il IX Rapporto sullo stato dei diritti in Italia, progetto ideato e curato da A Buon Diritto Onlus. Un monitoraggio anno dopo anno di diciassette diversi diritti, che riporta le novità normative, le maggiori difficoltà riscontrate nel riconoscimento di quei diritti, le iniziative e le proposte da intraprendere per la loro tutela. Alla conferenza stampa, insieme a Valentina Calderone e Luigi Manconi, rispettivamente direttrice e Fondatore dell’Associazione, sono intervenuti i parlamentari Ouidad Bakkali (Pd), Riccardo Magi (+Europa) e Rachele Scarpa (PD) e le Senatrici Cecilia D’Elia e Susanna Camusso (Pd). Come ci spiega Calderone: “Il monitoraggio è importante per capire non solo se sui diritti ci sono avanzamenti ma anche per evidenziare possibili arretramenti. Diritti che diamo per acquisiti rischiano spesso di perdere terreno. Pensiamo, ad esempio, all’aborto: per quanto sia scritto sulla carta, sappiamo che i tantissimi medici obiettori rendono difficile tramutare il diritto in realtà. O al diritto all’istruzione, depotenziato dalla possibilità di chiusura di molti istituti scolastici. Una questione sulla quale non si segnalano molti passi avanti, nonostante l’Italia possa vantarsi di aver abolito i manicomi, è quella relativa ai servizi di salute mentale a livello territoriale, per i quali si stanziano pochissimi fondi”. Per quanto riguarda il capitolo “Prigionieri” si torna a parlare di sovraffollamento: “Se è vero - si legge nel Rapporto - che rispetto agli inizi del 2020 si è registrata una complessiva diminuzione del numero delle presenze in carcere grazie ai provvedimenti deflattivi introdotti nella prima fase pandemica, è altrettanto vero che il tasso di decremento si è progressivamente ridotto già dalla fine del 2020. In particolare a partire dall’estate 2021, con il depotenziamento delle misure deflattive pandemiche, il tasso di presenze in carcere ha ripreso a crescere, con un aumento di 310 presenze in soli 28 giorni da metà luglio”. Nella prospettiva della deflazione della popolazione detenuta e dell’arricchimento del ventaglio delle misure sanzionatorie diverse dal carcere, “innovazioni significative sono apportate dalla riforma Cartabia”. In merito all’ effettiva funzione rieducativa della pena stigmatizza il fatto che “su 1.779 ergastolani a giugno 2021 gli ostativi nelle nostre carceri erano 1.259, ovvero quasi il 71%, presumibilmente tutti destinati a morire in stato di detenzione”. Su “Profughi e richiedenti asilo” “il 2021 è stato l’anno con più decessi dal 2016: 3.224 persone hanno perso la vita nel tentativo di attraversare la frontiera europea. La rotta del Mediterraneo resta tra le più pericolose al mondo”. Anche l’anno scorso il nostro Paese “ha continuato a sostenere politicamente ed economicamente la guardia costiera libica, di cui da anni si denunciano le violenze e gli abusi perpetrati ai danni delle persone migranti. Per disincentivare e bloccare le partenze dalla Tunisia, l’Italia e l’Unione Europea hanno stretto con le autorità tunisine un accordo per implementare i rimpatri dei cittadini tunisini e allo stesso tempo rafforzare i controlli alla frontiera”. Al termine della conferenza gli organizzatori hanno annunciato che già 30 parlamentari - tra cui Bonelli, Cuperlo, Fratoianni, Magi, Orfini, Schlein, Zampa, Zan - hanno sottoscritto “Il manifesto per il Parlamento dei diritti”, proposto da A Buon Diritto. Come ci spiega sempre Calderone “a partire dai diritti esaminati nel Rapporto si vuole creare anche un ponte tra le associazioni e la società civile e i parlamentari, per avere all’interno di Camera e Senato una sponda sensibile con cui provare a costruire iniziative, come aperture di commissioni di inchiesta - ad esempio una sui suicidi in carcere - proporre emendamenti, atti di sindacato ispettivo, ritirare fuori dai cassetti vecchie proposte di legge”. Proprio Riccardo Magi durante la conferenza ha dichiarato: “Grazie per questo strumento che attraverso un quadro sintetico ci fa vedere subito cosa occorre fare. Sul tema dell’immigrazione negli ultimi cinque anni abbiamo assistito ad una delle più grosse mistificazioni in termini di informazione. Su questo tema ci sono strumenti in gran parte già a disposizione di questo Parlamento, come ad esempio la modifica della normativa nazionale sull’immigrazione, la Bossi-Fini. Avrete notato che dopo che questo governo ha fatto un exploit di violazione dei diritti, bloccando persone in mare e creando incidenti diplomatici, ora le parole del Ministro Piantedosi sono diverse, ossia sembra riconoscere che il problema vero sta nel regolamentare gli ingressi legali per motivi di lavoro. Una soluzione indicata dal Rapporto e che noi condividiamo è quella ‘Ero straniero’. L’altra questione è quell’asilo: ho proposto l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta che indaghi sull’attuazione dei rapporti tra Italia e Libia”. A Buon Diritto: sotto il 3% la spesa per la salute mentale: “Venti anni di omissioni” di Federica Angeli La Repubblica, 6 dicembre 2022 Sono 17 i temi trattati dalla onlus nel rapporto 2022 sull’attuazione di tutti i diritti fondamentali in Italia. Si va dalla libertà di stampa all’ambiente, passando per la situazione nelle carceri e la strage dei migranti. La direttrice: “Vogliamo fornire uno strumento scientifico, d’informazione e politico”. Oggi la presentazione del rapporto alla Camera. Dalla salute mentale ai profughi e richiedenti asilo; dall’autodeterminazione femminile alle migrazioni e all’integrazione. Ancora: istruzione, lavoro, ambiente, persona e disabilità, pluralismo religioso, minori, libertà d’espressione e di informazione. Sono diciassette, quest’anno, i temi affrontati nel dossier della onlus A Buon Diritto che riporta le novità normative in tema di diritti di questo 2022, le maggiori difficoltà riscontrate nel loro riconoscimento, le iniziative e le proposte intraprese o da intraprendere per la loro tutela. “Una ricerca corale e intersezionale - spiega Valentina Calderone, direttrice della onlus - volta a mettere in connessione norme, percorsi individuali e comuni per fornire uno strumento scientifico, d’informazione e politico”. Salute mentale - Nonostante l’impegno a “destinare almeno il 5% dei fondi sanitari regionali per le attività di promozione e tutela della salute mentale”, approvato dalla Conferenza dei presidenti delle Regioni nel 2001, in Italia la spesa per la salute mentale, sottolinea il rapporto, continua ad attestarsi al di sotto del 3% del fondo sanitario nazionale. Il 2021 ha visto inoltre l’approvazione di un documento da parte del ministero della Salute con l’obiettivo di superare la contenzione meccanica nei luoghi di cura della salute mentale entro il 2023. La bozza di accordo è stata inviata alle Regioni e ai Comuni per essere approvata in conferenza unificata, ma nulla è ancora successo. I disturbi psicologici in carcere - Un altro luogo “sentinella” all’interno del quale è fondamentale occuparsi di salute mentale è il carcere. Con il 13% di persone con diagnosi grave e una media del 40% di detenuti che soffrono un qualche disturbo mentale, gli istituti penitenziari nel nostro Paese scontano una cronica carenza di risorse per una presa in carico di qualità. In ogni caso, dal 2014 al 2020 si registra un aumento generalizzato, nella popolazione italiana, del consumo di antidepressivi, antipsicotici e benzodiazepine. La storia di Abdel Latif - Emblematica la storia di Wissem Ben Abdel Latif, morto in un Servizio psichiatrico di diagnosi e cura, il 28 novembre 2021, a 26 anni, legato per giorni braccia e gambe a un letto di contenzione. Il 2 ottobre 2021 il giovane sbarca a Lampedusa e non viene accertato alcun suo disturbo, nemmeno sulla nave quarantena dove passa alcuni giorni per le disposizioni anti-Covid. “Il 23 novembre 2021 - racconta il dossier - dopo appena due visite effettuate dallo psichiatra del Centro di salute mentale, su richiesta della psicologa del Centro per il rimpatrio di Ponte Galeria a Roma, Wissem, con una diagnosi che appare affrettata e non verrà più rivalutata, è inviato al pronto soccorso di Ostia e da qui, il 25, trasferito a Roma. Wissem resta contenuto e sedato fino alla morte”. Profughi e richiedenti asilo - Il 2021 è stato l’anno con più decessi tra i migranti dal 2016: 3.224 persone hanno perso la vita nel tentativo di attraversare la frontiera europea. La rotta del Mediterraneo resta tra le più pericolose al mondo. Anche nel 2021 l’Italia ha continuato a sostenere politicamente ed economicamente la guardia costiera libica, di cui da anni si denunciano le violenze e gli abusi perpetrati ai danni delle persone migranti. Per disincentivare e bloccare le partenze dalla Tunisia, l’Italia e l’Unione europea hanno stretto con le autorità tunisine un accordo per implementare i rimpatri dei cittadini tunisini e allo stesso tempo rafforzare i controlli alla frontiera. Le persone, ovviamente, continuano ad arrivare. Migrazione e integrazione - Sono diversi i fattori, spiega A Buon Diritto, che minano l’effettività del percorso di integrazione giuridica e sociale dei non cittadini sul suolo italiano. In primo luogo le numerose cause di discriminazione come, ad esempio, la frequente subordinazione dell’accesso alle prestazioni alla residenza prolungata, a specifici permessi di soggiorno o a requisiti accessori rispetto a quelli domandati ai cittadini italiani. A questi fattori nel 2021, come nell’anno precedente, si è aggiunto il quadro di difficoltà determinato dalla pandemia da Covid-19. Se si compara questo dato al particolare peso sopportato dalle lavoratrici straniere negli anni della pandemia, ne emerge un quadro decisamente preoccupante. Badanti straniere in pandemia - Già a partire dal 2020 si era potuto riscontrare come le donne straniere avessero dovuto sopportare l’aggravio di cura familiare connesso alla pandemia in maniera più impegnativa e più forte rispetto alle lavoratrici italiane: la percentuale di cittadine italiane impegnata nella cura di familiari, malati, disabili e anziani è stata del 35,9%, mentre quella delle cittadine comunitarie è stata del 39,1% e quella delle extracomunitarie del 44,9%. Autodeterminazione femminile - La legge 162/2021 ha introdotto due importanti novità all’interno del Codice delle pari opportunità, estendendo alle imprese pubbliche e private con oltre 50 dipendenti (prima la soglia era di 101 dipendenti) l’obbligo di redigere un rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile e rendendo più trasparenti i processi di selezione, i meccanismi delle promozioni, le differenze tra le retribuzioni iniziali, il numero delle lavoratrici in stato di gravidanza, le misure per promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, i licenziamenti, l’eventuale presenza di politiche aziendali a garanzia di un ambiente di lavoro inclusivo e rispettoso, la retribuzione effettivamente corrisposta. Sono state previste sanzioni in caso di inadempimento o dichiarazioni mendaci. Al 14esimo posto per la parità di genere - L’Italia attualmente si trova al 14° posto (al di sotto della media Ue) nella classifica sulla parità di genere curata dall’Eige (European Institute for Gender Equality). Tuttavia, giungere a una stima attendibile è arduo, dal momento che oltre la metà dei 72 indicatori individuati dall’Onu per misurare le politiche di genere nel mondo non sono verificabili nel nostro Paese per l’assenza di dati (e solo il 21% di quelli disponibili può essere ritenuta di alto livello). La fecondazione eterologa - Il divieto di praticare la fecondazione eterologa è stato dichiarato incostituzionale con la sentenza della Corte Costituzionale n.162 del 2014. In seguito a questa storica pronuncia, la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ha approvato, allo scopo di colmare il vuoto normativo creatosi, un documento di indirizzo che permettesse “di rendere immediatamente esigibile un diritto costituzionalmente garantito su tutto il territorio nazionale”, il quale sarebbe stato poi recepito dalle singole Regioni. L’Italia non è in grado di erogare i trattamenti di fecondazione eterologa inclusi nei Lea, quindi essenziali, se non attraverso l’unica modalità di approvvigionamento possibile, ovvero l’importazione dall’estero delle cellule riproduttive. Detenuti in crescita - Se è vero che rispetto agli inizi del 2020 si è registrata una complessiva diminuzione del numero delle presenze in carcere grazie ai provvedimenti deflattivi introdotti nella prima fase pandemica - si era passati dagli oltre 61.000 di marzo 2020 ai 53.387 di fine maggio dello stesso anno - è altrettanto vero, secondo il rapporto, che il tasso di decremento si è progressivamente ridotto già dalla fine del 2020. In particolare a partire dall’estate 2021, con il depotenziamento delle misure deflattive pandemiche, il tasso di presenze in carcere ha ripreso a crescere, con un aumento di 310 presenze in soli 28 giorni da metà luglio. L’ergastolo ostativo - Benché si tratti di una sentenza-monito o di incostituzionalità prospettata, con cui la Corte rinvia la trattazione della questione per consentire al legislatore di riformare la materia, essa afferma chiaramente come un ergastolo senza speranza di fine come quello ostativo “è in contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione e con l’art. 3 della Cedu”. Non si tratta di casi marginali: su 1.779 ergastolani a giugno 2021 gli ostativi nelle nostre carceri erano 1.259, ovvero quasi il 71%, presumibilmente tutti destinati a morire in stato di detenzione. I minori in povertà - Nell’era pre-Covid la povertà minorile colpiva in Italia più di un milione di giovani individui. Sempre secondo l’Istat, infatti, negli ultimi dodici anni l’incidenza della povertà assoluta sui minori di 17 anni è quadruplicata: dal 3,7% nel 2008 al 12,6% nel 2018. La povertà relativa si è limitata a un raddoppio: dal 12,5% al 21,9% (circa 1.260.000 bambini). L’impatto socio-economico della pandemia ha notevolmente aggravato la situazione. Stando ai dati riferiti al 2021, i minori in povertà assoluta risultano ancora in crescita: 1.382.000, per una percentuale pari al 14,2% della popolazione minorenne. Le vittime di bullismo - Secondo una rilevazione dell’Istat per gli anni 2014 e 2015, su un campione di ragazzi tra gli 11 e i 17 anni (1.687 in tutto), più del 50% riferiva di aver subìto nei 12 mesi precedenti l’intervista un qualche episodio offensivo, non rispettoso o violento. Il 19,8% riferiva di aver subito azioni tipiche di bullismo. Le ragazze presentavano maggiori tassi di vittimizzazione, così come i ragazzi con genitori stranieri. Difficoltà e tensioni tra minori nel web segnalano non tanto, o non solo, una carenza di “competenze digitali”, bensì la mancanza di un’educazione a considerare il web come spazio sociale. L’accesso a Internet - Per quanto riguarda l’accesso alla Rete, le famiglie italiane accedono a Internet in misura minore di quelle europee. In particolare, dispone di Internet a casa il 90% dei nuclei europei, contro l’85% di quelli italiani. A destare più preoccupazione, tuttavia, sono i dati sull’alfabetizzazione digitale e, più in generale, il rapporto con la conoscenza di cui i ragazzi fanno esperienza online. Tra i minori in affidamento familiare è di cittadinanza straniera poco meno di un quinto del totale (18%, di cui solo il 22% può essere riferito ai minori stranieri non accompagnati). Libertà di espressione e di informazione - Come nell’anno precedente, nel 2021 l’Italia è stata inserita al 41º posto della classifica che misura il tasso di libertà di ogni Stato relativamente a pluralismo informativo, indipendenza dei media, trasparenza e infrastrutture, ben lontana dalla posizione dei principali Stati europei e di diversi Paesi extraeuropei. Un’evoluzione interessante del quadro normativo ha riguardato il reato di diffamazione a mezzo stampa: la Corte Costituzionale è intervenuta con sentenza n. 150 del 2021 dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 13 della legge n. 47 del 1948. Le fake news - Si è molto discusso sulle ricadute, in termini civilistici e penalistici, della diffusione di fake news durante la pandemia da Covid-19 e sono state avanzate alcune ipotesi sulle conseguenze di una tale condotta, in una pressoché totale assenza di giurisprudenza sul punto. L’Unione europea ha pubblicato un documento dal titolo “Orientamenti della Commissione europea sul rafforzamento del codice di buone pratiche sulla disinformazione” con lo scopo di ridurre l’infodemia, ovvero la rapida diffusione di informazioni false, esagerate o tendenziose sulla pandemia. La presentazione del dossier - Il dossier, ideato e curato da A Buon Diritto Onlus e prodotto grazie al supporto della Tavola valdese, sarà presentato oggi, lunedì 5 dicembre, alle 12 nella sala stampa della Camera, alla presenza di Ouidad Bakkali (Pd), Ilaria Cucchi (Alleanza Verdi e Sinistra), Riccardo Magi (+Europa), Rachele Scarpa (Pd), Elly Schlein (Pd), la direttrice Valentina Calderone, Luigi Manconi, presidente di A Buon Diritto, e con Alessandra Trotta della Chiesa evangelica valdese. Trenta parlamentari sottoscrivono un “Manifesto di intenti” per i diritti di Eleonora Martini Il Manifesto, 6 dicembre 2022 Rapporto di “A buon diritto”. Diciassette storie per altrettanti capitoli che fanno il punto sul divario e sull’esclusione. Quando si snocciolano dati su carcere, ergastolo ostativo e 41 bis bisognerebbe ricordarsi sempre che ogni numero è una storia. E tutte le storie individuali raccontano vite di “invisibili” che non possono essere ridotte a statistiche. Ma neppure - va forse ribadito con più forza oggi - a simboli di comodo. Il rapporto dell’associazione “A buon diritto” presentato ieri nella sala stampa di Montecitorio contiene una storia di donne o di uomini emblematica per ciascuno dei diritti universali “negati” ancora oggi, nel 2022, malgrado un secolo di lotte, e in particolare in questo nostro Paese. Sono 17, i diritti che la onlus diretta da Valentina Calderone e presieduta da Luigi Manconi è riuscita a “nominare come tali”, perché per altri - come ha sottolineato la senatrice Susanna Camusso intervenuta alla presentazione del dossier - non è sufficiente la nostra consapevolezza sociale e soprattutto politica. “È il caso del lavoro povero, che dobbiamo nominare in inglese”, working poor, dato che in Italia esso “non riesce a trovare comprensione e visibilità, perché nella nostra cultura - ha spiegato Camusso - il lavoro è associato storicamente alla ricchezza”. E non si riesce a comprendere che l’esclusione del lavoratore dai consumi determina una “precarietà che non è solo economica ma anche esistenziale”. Uno stuolo di ricercatori di “A buon diritto”, associazione finanziata dalla Tavola Valdese, ha lavorato ai 17 capitoli per mettere a punto un rapporto “corale e intersezionale”, aggiornato al 2021, su: Libertà di espressione e di informazione, Pluralismo religioso, Salute e libertà terapeutica, Istruzione, Ambiente, Autodeterminazione femminile, Lavoro, Persona e disabilità, Profughi e richiedenti asilo, Migrazioni e integrazione, Rom e Sinti, Lgbtqi+, Minori, Prigionieri, Salute Mentale, Dati sensibili e Diritto all’abitare. Intorno a questi temi l’associazione, che dal 2014 monitora ogni anno progressi e regressi sullo stato dei diritti e propone soluzioni, quest’anno ha sottoposto a deputati e senatori un “Manifesto di intenti”, per cercare di “dare slancio all’azione politica” proprio quando l’orizzonte si fa più buio. Un “Manifesto” che è stato finora sottoscritto da trenta parlamentari tra i quali Bakkali, Bonelli, Camusso, Cucchi, Cuperlo, D’Elia, De Cristofaro, Evi, Floridia, Fratoianni, Magi, Orfini, Piccolotti, Schlein, Zampa e Zan. “I diritti sono uno dei temi importanti su cui costruire il nuovo Pd, lo sono stati nel nostro programma elettorale e saranno un tema importante anche per il lavoro di opposizione in questa legislatura”, ha assicurato la senatrice dem Cecilia D’Elia che ha sottolineato il forte ritardo italiano sulla parità di genere, sulla lotta alla discriminazione “e soprattutto sull’empowerment femminile”. Per questo, ha aggiunto, “sono d’accordo tra l’altro con la vostra richiesta di un bilancio di genere da parte degli enti locali”. Riccardo Magi, presidente di +Europa, ha tenuto il focus sulle migrazioni descrivendo “un quadro arretrato su asilo, accoglienza, lavoro” e proponendo “la modifica della legge Boss-Fini, una revisione del decreto flussi, una commissione parlamentare d’inchiesta sugli accordi Italia-Libia e un piano nazionale di accoglienza con standard adeguati”. La deputata del Pd Ouidad Bakkali ha parlato dell’infanzia, un concetto relativamente recente, perché fino a inizi Novecento esistevano solo bambini e bambine. Emblematica la storia raccolta nel dossier di Mary Ellen Wilson, una bimba newyorkese nata nel 1864, abusata e seviziata dalla madre naturale e poi da quella adottiva, che ottenne giustizia solo quando i volontari che tentavano di toglierla dalla famiglia affidataria ricorsero alle leggi sulle violenze verso gli animali. Non c’era altro modo, perché il diritto ad un’infanzia serena non era ancora riconosciuto. La dem Rachele Scarpa, la più giovane parlamentare della legislatura, ha preso l’impegno “a lavorare per un grande piano di investimenti” sulla salute mentale che è “garantita solo a metà”. Perché le Regioni, che vent’anni fa avevano promesso di impegnare il 5% della spesa sanitaria sulla salute mentale, “oggi arrivano al massimo a destinare il 3% dei fondi sanitari”. Ha ricordato che “il 40% dei detenuti è affetto da qualche patologia psichica” e che anche fuori dal carcere “andare dallo psicologo per un mese costa quanto un mese di affitto a Venezia”. Perciò, ha concluso Scarpa, “questo diritto non è garantito: è un paradosso della società in cui viviamo, perché si chiede al cittadino di guadagnare il doppio per potersi curare”. I giovani fuori dalla vita pubblica di Massimo Ammaniti Corriere della Sera, 6 dicembre 2022 Molti sono protagonisti di fatti di cronaca sconcertanti e talvolta violenti, gesti quasi anarchici, iniziative asociali. Altri invece scelgono lo studio ma optano per università straniere. In ogni caso cresce la distanza tra i ragazzi e il mondo degli adulti. I giovani sono spesso protagonisti di fatti di cronaca che lasciano interdetti, guida spericolata al volante in stato di ebbrezza oppure violenze di gruppo nei confronti di una ragazza indifesa oppure di un malato mentale caduto a terra che viene preso a calci. Per fortuna sono solo degli episodi, non troppo isolati, mentre la maggior parte dei giovani studia e lavora quantunque li vorremmo più attivi nella vita pubblica. Se dovessimo dare un quadro del mondo giovanile lo potremmo paragonare a un arcipelago, nel quale convivono comportamenti molto diversi che si organizzano all’interno di gruppi con forti fisionomie identitarie. Prendiamo ad esempio i giovani dei rave di cui si è parlato molto nelle ultime settimane, etichettati in modo sbrigativo come individui pericolosi da combattere col codice penale. È un fenomeno questo non solo italiano ma anche europeo e americano, che viene guardato con sospetto dal mondo degli adulti, che non riescono a comprendere purtroppo le motivazioni dei giovani, usciti anche dalla pandemia desiderosi di ritrovarsi insieme, ballare al suono della musica techno che traduce la parola “rave”. Si tratta di una sottocultura giovanile colorata di anarchismo e atteggiamenti di rifiuto verso la società consumistica in cui si ritagliano spazi quotidiani e comportamenti alternativi, come testimoniano i loro abiti, i tatuaggi e piercing, l’esaltazione per musiche monotoniche e droghe che amplificano la percezione e favoriscono la partecipazione emotiva. È quello che li porta a ricercare vecchie fabbriche dismesse che implicitamente celebrano il fallimento del capitalismo oppure campagne non coltivate, che possono occupare illegalmente per giorni e giorni, luoghi questi ormai abbandonati dallo sviluppo economico e industriale. Sono nicchie in cui ritrovarsi in un clima di vicinanza emotiva, anche se alla fine dei rave si accumulano rifiuti e sporcizie che secondo alcuni dovrebbero giustificare la criminalizzazione dei rave. Forse come è successo in Germania si potrebbero predisporre degli spazi in cui i giovani possono incontrarsi e ballare al ritmo techno. Sarebbe anche un modo di riavvicinarli alla società degli adulti. Se i giovani dei rave sono un po’ sballati ma pacifici, ben diversi sono i giovani ultras che si accalcano nelle curve degli stadi, trasformate in arene dove si combattono come gladiatori. È un clima di guerra in cui si scontrano tifoserie di squadre diverse, con maglie e vessilli calcistici che servono a identificare le bande nemiche. Come abbiamo visto recentemente a San Siro sono gli ultras che dettano la loro legge, facendo sgombrare le curve per onorare la memoria di un loro capo che era stato ucciso. Qui l’ideologia implicita è quella della sopraffazione e della violenza, che spesso si colorano di nostalgie fasciste. Non è facile definirli una sottocultura a meno che non la si estenda alle bande antisociali. Quantunque i giovani dei rave e delle curve siano molto diversi, entrambi rimangono tagliati fuori dalla società rinchiusi come sono nei propri rituali ripetitivi. Ben diverso è il destino dei giovani che vanno a studiare nelle università straniere, soprattutto britanniche. Il loro numero sta crescendo, raggiungono quasi i centomila e provengono perlopiù da famiglie benestanti che possono sostenere i costi della frequenza universitaria. Spesso sono scelte che vengono preparate fin dagli anni del liceo in modo da garantire la propria domanda di ammissione alle università più apprezzate. Le motivazioni per trasferirsi all’estero sono molteplici, il prestigio delle università e poi le maggiori possibilità di trovare lavori ben più soddisfacenti sul piano delle retribuzioni. Per questo motivo sono partenze che non prevedono un ritorno, quantunque a volte i giovani avvertano nostalgia per il nostro Paese. Ma anche per loro vale quello che abbiamo già discusso, dobbiamo rinunciare al loro contributo e al loro entusiasmo, è un’emorragia che ci priva di menti particolarmente brillanti che prepariamo e selezioniamo per doverci poi rinunciare. È colpa dei giovani o non è piuttosto la conseguenza del disinteresse della società italiana e dei governi che si sono susseguiti in questi ultimi decenni per i giovani, lasciati in un parcheggio che ritarda il loro ingresso nel mondo adulto. Vale la pena di ricordare che l’età media a cui si raggiunge la laurea è di 27,8 anni secondo i dati di Alma Laurea, mentre il distacco dalle famiglie di origine avviene tardivamente attorno ai 30 anni secondo i dati Eurostat. Le ragioni sono molte: il familismo italiano e poi i pregiudizi verso i giovani che vengono mantenuti in una cappa di irresponsabilità e soprattutto l’assenza di provvedimenti governativi che favoriscano un’adeguata formazione scolastica e universitaria e allo stesso tempo stimolino con misure residenziali la loro autonomia abitativa e soprattutto sostengano l’imprenditoria giovanile. Se non si vuole la stagnazione della società italiana occorre che il baricentro sociale venga spostato sulle nuove generazioni in modo da favorire dinamismo e innovazione. Migranti. Asgi: “Nel Cpr di Caltanissetta si garantisca il diritto alla difesa” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 dicembre 2022 L’Asgi, l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione ha riscontrato delle violazioni nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Pian del Lago di Caltanissetta. Lo ha documentato con un report, frutto non solo di quanto emerso dalla visita del 21 luglio scorso, ma anche dal monitoraggio condotto nel corso del tempo e dagli accessi civici generalizzati che hanno permesso di ottenere informazioni e dati sulle modalità in cui viene privata la libertà personale nel Cpr. L’assenza di informazioni sulle procedure che vengono attuate all’interno dei luoghi di trattenimento per l’accesso ai servizi cui hanno diritto i trattenuti e sulle condizioni di detenzione hanno indotto Asgi a formulare un’istanza alla Prefettura di Caltanissetta chiedendo di poter visitare il Cpr di Caltanissetta. La visita, autorizzata dalla Prefettura solo a seguito di contenzioso, è stata finalmente svolta limitatamente alle aree comuni della struttura. Parallelamente, Asgi ha formulato istanze di accesso civico generalizzato volte a ottenere informazioni e dati in merito alle modalità di attuazione della privazione della libertà personale presso il Cpr di Caltanissetta e ad alcuni dei principali profili di criticità di tale sistema. L’accesso civico è stato riscontrato dalla Questura di Caltanissetta con comunicazione del 21 agosto 2022, e dalla Prefettura di Caltanissetta con comunicazione del 27 settembre 2022. Tanto la visita quanto le risposte ai quesiti formulati da Asgi fanno emergere numerose e gravi criticità con riguardo tanto alle condizioni materiali del trattenimento quanto, e soprattutto, con riferimento al rispetto dei diritti delle persone trattenute. Asgi scrive nel report che i Cpr sono veri e proprie strutture detentive, nonostante si tratti di una detenzione “amministrativa”, non essendo disposta in seguito alla commissione di illeciti penali, e nonostante le persone detenute vengano generalmente denominate “ospiti” sia dagli operatori degli stessi centri che dalle autorità che a diverso titolo se ne occupano. Da anni ormai vengono da più parti avanzate istanze che richiedono uno svuotamento di tali centri e una definitiva abolizione di questa forma di privazione della libertà personale, che determina gravi violazioni dei diritti umani fondamentali. Ferme restando queste osservazioni, Asgi osserva che un monitoraggio costante di questi luoghi di privazione della libertà personale è necessario affinché non finiscano nell’oblio totale, distanti per come sono dai centri abitati e pertanto sempre più lontani dall’attenzione dell’opinione pubblica e dei mezzi di comunicazione. Per questo, Asgi auspica che il diritto ad accedere e monitorare le condizioni dei Cpr venga esercitato da sempre più enti e associazioni, nonché da organi di informazione e rappresentanti di istituzioni pubbliche, al fine di garantire la più ampia diffusione di informazioni e una maggiore conoscenza (e presa di coscienza) da parte della società civile. Partendo in ogni caso dalla assoluta messa in discussione di questa tipologia di centri che pongono seri dubbi di compatibilità con i principi sanciti dalla nostra Costituzione e dai principali strumenti di tutela dei diritti umani, primo fra tutti la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, facendo seguito alla visita effettuata al Cpr di Caltanissetta, Asgi ha ritenuto di formulare delle raccomandazioni che si sostanziano nella richiesta di rispettare quel nucleo di diritti fondamentali che dovrebbero essere universalmente riconosciuti. Chiede di garantire l’effettività del diritto alla difesa, ponendo le persone trattenute nella condizione di poter contattare il difensore prima dell’udienza di convalida, fornendo pertanto i recapiti telefonici dei difensori e la possibilità concreta di telefonare. Garantire un’informazione piena e completa sul regolamento del centro e sulla normativa in materia di immigrazione e di protezione internazionale, con particolare attenzione alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale, le tempistiche e le conseguenze in caso di diniego e di ricorso giurisdizionale. Tali informazioni dovrebbero essere fornite sia attraverso sessioni di gruppo sia attraverso colloqui individuali, da personale specializzato e con l’assistenza di mediatori. Inoltre Asgi chiede di garantire una tutela effettiva del diritto alla salute, che comprenda una adeguata valutazione dell’idoneità al trattenimento all’ingresso nel centro, una verifica periodica delle condizioni fisiche e psichiche delle persone trattenute, effettuata da personale medico- sanitario specializzato, coadiuvato da mediatori culturali; tale verifica dovrà valutare periodicamente anche la persistenza della compatibilità con la vita in comunità ristretta. Inoltre chiede di prevedere che la somministrazione di psicofarmaci e ansiolitici avvenga solo dietro prescrizione medica, preceduta ad apposita visita psichiatrica presso strutture del servizio sanitario nazionale. E ovviamente migliorare le condizioni strutturali del centro per garantire un ambiente dignitoso. I leader e l’arte della pace di Sabino Cassese Corriere della Sera, 6 dicembre 2022 Si sono moltiplicati i vertici tra capi di Stato e di governo, tra pochi giorni se ne terrà un altro sulla guerra. Ma gli interessi commerciali comuni non bastano a garantire un equilibrio stabile. S i moltiplicano gli incontri bilaterali e multilaterali tra capi di Stato e di governo. Solo nell’ultimo mese, si sono riuniti i governanti dei venti Paesi più industrializzati a Bali (era il diciassettesimo incontro dal 1999) e i circa cento capi di Stato partecipanti alla conferenza sui cambiamenti climatici a Sharm el-Sheikh (era il ventisettesimo incontro dal 1995); si sono incontrati a Pechino il presidente del Consiglio europeo Charles Michel e il presidente cinese Xi Jinping, e a Washington il presidente francese Macron e quello statunitense Biden. Sempre nella capitale americana, erano ieri i due vice-presidenti della Commissione europea per partecipare al Consiglio commercio e tecnologia tra Unione Europea e Stati Uniti, e il 13 dicembre a Parigi vi sarà un altro summit sulla guerra russo-ucraina. Se i contatti si infittiscono, tuttavia, una pace sistemica (cioè una pace duratura, come quella che sognavano gli illuministi francesi, che non sia un periodo di tregua tra due guerre) non si realizza. Alcuni di questi incontri sono “eventi da social media” (sono parole di Henry Kissinger) e non favoriscono l’elaborazione di strategie di lunga scadenza. Intanto, rimangono silenti o hanno voce flebile i grandi protagonisti: l’Onu, il Consiglio d’Europa, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. La prima organizzazione, che raggruppa 193 Stati e fu istituita nel 1945, si è pronunciata sul grano ucraino e sull’ambiente, non è riuscita a fare passi avanti per la pace. La seconda, operante dal 1949, che include 46 Stati europei, ha fallito quest’anno la sua missione per la sicurezza, la democrazia e i diritti umani. La terza, la cui partenza risale al 1975 e che include 57 Stati, tra cui Russia e Stati Uniti, ha addirittura chiuso il 31 marzo di quest’anno la sua delegazione in Ucraina, operante dal 2014. Se si considerano le speranze sorte sul finire della Seconda guerra mondiale e quelle nate dopo la caduta del Muro di Berlino, la situazione è molto peggiorata. Testimonia le speranze del secolo scorso il fatto che, il 6 agosto 1945, il giorno del bombardamento su Hiroshima, venivano avviati a Chicago i lavori per una Costituzione mondiale, il cui testo è stato poi pubblicato con la prefazione di Thomas Mann. Testimonia le speranze del 1990 il lavoro svolto da Antonio Armellini per la Carta di Parigi, ora documentato dalla pubblicazione dei suoi diari del negoziato viennese (L’Italia e la Carta di Parigi della CSCE per una nuova Europa , Editoriale scientifica, 2022). Oggi non c’è quella pace che era negli intendimenti dei piani di settantasette e di trentadue anni fa, e che doveva regnare da Vancouver a Vladivostok. L’aveva avvertito Henry Kissinger qualche anno fa, notando che “la struttura dell’ordine mondiale del XX secolo si è rivelata carente” (Ordine mondiale, Mondadori, 2015). Manca il motore della pace e sono assenti i rimedi contro le guerre. Le cause di questo revirement nell’ordine del mondo sono molte. Una l’ha indicata Kissinger alla fine del suo ultimo libro (Leadership, Mondadori, 2022): il ritorno della rivalità tra le grandi potenze, con gli Stati Uniti convinti di essere portatori di valori universali; la Cina, invece, della unicità della propria cultura e della propria forza egemonica; la Russia, mossa dalla sua costante e radicata percezione di insicurezza, alla ricerca di un cordone di sicurezza lungo le sue frontiere. Seconda causa: da quando si cerca di diffondere la democrazia nel mondo, e con essa il rispetto dei diritti umani, cioè di dare legittimazione democratica anche ad altri governi, si sono prodotte altre fratture, per la diversa interpretazione data a questi valori. La ricerca di un mondo più democratico è entrata in conflitto con l’inviolabilità dei confini (non solo con quelli territoriali), con il rispetto della sovranità degli Stati e con il principio di autodeterminazione dei popoli. In altre parole, è nato un conflitto tra sistemi, come ha fatto intendere il presidente cinese il 1° dicembre scorso, ricevendo il presidente del Consiglio europeo, quando ha sottolineato che la Cina non cerca di espandersi e non vuole esportare il proprio sistema in altri Paesi. Il terzo motivo dell’attuale situazione di crisi nei rapporti tra Occidente e resto del mondo è costituito dalla asimmetria tra economia e politica: l’economia e i commerci uniscono il mondo; le istituzioni e le culture lo dividono. Il sogno kantiano (1795) che i commerci e l’interesse reciproco degli Stati da questi attivato potessero essere utili ad unire il mondo si è rivelato irraggiungibile. Relazioni amichevoli tra gli Stati, democrazia, pace, diritti dell’uomo sono entrati in conflitto tra di loro e con il principio di auto-determinazione dei popoli. A tutto questo si aggiunge un elemento interno, che riguarda la Federazione russa. Questa, come osservato brillantemente da Orlando Figes, nel suo libro sulla storia della Russia (The Story of Russia, Bloomsbury, 2022), è rimasta prigioniera di un ciclo, che si ripete della sua storia: due volte, nel XX secolo, nel 1917 e nel 1991, lo Stato autocratico è entrato in crisi, ma solo per rinascere in altra forma. Concludo: servono leader che riescano ad affermare e far attuare nel mondo un minimo di regole per assicurare pace, tutela dei diritti, relazioni amichevoli e consentire, nello stesso tempo, rispetto delle diversità. Le undici stazioni di polizia cinese che spaventano l’Italia: indaga l’intelligence di Giuliano Foschini La Repubblica, 6 dicembre 2022 Un rapporto dell’Ong Safeguard Defenders rivela che nel mondo ci sarebbero cento posti di polizia segreti per controllare cinesi. “Facciamo solo lavoro burocratico: passaporti e patenti” dicono da Pechino. Ma il sospetto è che cerchino, per arrestarli, i dissidenti scappati all’estero. Centodue “stazioni di polizia” in tutto il mondo. Undici in Italia tra Prato, Firenze, Milano, Roma, Bolzano, Venezia e la Sicilia. Un’indagine che va avanti, da circa un anno, della nostra intelligence per capire esattamente che lavoro svolgono: perché in tutti gli atti ufficiali è scritto che gli uffici che la Cina ha aperto in tutto il mondo, ma in Italia più che altrove, servono soltanto a velocizzare pratiche burocratiche (“facciamo patenti” hanno detto) ma il sospetto comune, anche ai nostri 007, è che quegli uffici servano anche ad altro. A spiare i cittadini cinesi all’estero. A controllare i flussi di denaro tra l’Asia e il nostro Paese. Ma in alcuni casi anche a convincere con metodi non legittimi i cittadini cinesi a ritornare in Patria, senza passare dai trattati di cooperazione. In almeno due casi, in Italia, due uomini che vivevano in Toscana sarebbero stati costretti a tornare in Cina perché erano pronti a prendere loro familiari. Da allora si sono perse le loro tracce. A far scoppiare il caso delle stazioni cinesi sparse nel mondo è stata la ong Safeguard Defenders che ha pubblicato nei giorni scorsi un rapporto - rimbalzato sulle pagine dell’Espresso in Italia e ieri del Guardian - per denunciare quello che da tempo era già esploso: soltanto nel nostro Paese due interpellanze parlamentari erano state presentate. “E aspettiamo ancora risposte” denuncia la parlamentare del Pd, Lia Quartapelle, che segnala come l’Italia sia il paese G7 maggiormente coinvolto in questa operazione. E come le nostre forze di Polizia abbiano firmato degli accordi ufficiali a differenza di quanto accade all’estero. Ma che fanno questi uffici? Ufficialmente, si diceva, sbrigano pratiche burocratiche. Passaporti, patenti. Secondo gli accordi firmati è possibile anche che lavorino parallelamente con la Polizia italiana anche se questo non accade da prima del lockdown. Repubblica è venuta a conoscenza, però, che la nostra intelligence sta compiendo dalla scorsa primavera alcuni accertamenti perché troppe cose non tornano, in Italia come all’estero. Tutto è nato con la massiccia campagna di Pechino per combattere le frodi da parte di cittadini cinesi residenti all’estero - grazie alla quale già 210mila cinesi sono stati “convinti” a ritornare in patria lo scorso anno - l’ong ha rintracciato l’origine di queste stazioni. Nome in codice: “110 Oltreoceano”, dal numero delle emergenze della polizia in Cina. Una rete presente ora in 53 Paesi. La stragrande maggioranza degli uffici è stata istituita a partire dal 2016: ben prima, dunque, del Covid. Tutte fanno capo a quattro dipartimenti di sicurezza di altrettante città cinesi: Nantong, Qingtian, Wenzhou e Fuzhou. Tra le persone costrette a tornare a casa ci sarebbero anche gli obiettivi dell’Operazione caccia alla volpe, la campagna lanciata nel 2014 dal presidente Xi Jinping per andare a riacchiappare i funzionari di Partito corrotti fuggiti all’estero. Undicimila le operazioni in 120 Paesi dal 2014 ad oggi. La maggior parte attraverso metodi di persuasione illegali. Nel 2018, su 1.335 rimpatri, soltanto 17 persone sono rientrate in Cina attraverso canali di estradizione. Da Pechino è impossibile avere una risposta. I telefoni squillano a vuoto, per ore. Dall’altra parte della cornetta si resta in attesa a farsi tartassare le orecchie con quel suono che ricorda i vecchi modem 56k. Repubblica ha contattato quattro numeri del Ministero della Pubblica Sicurezza cinese chiedendo spiegazioni: in due settimane nessuna risposta ai nostri messaggi lasciati in segreteria. L’unica, sempre la stessa, l’hanno fornita i vari portavoce del ministero degli Esteri di Pechino in alcune conferenze stampa: “Quelle che sono state definite ‘stazioni di polizia’ sono in realtà centri per i servizi per i cinesi all’estero. A causa del Covid, un gran numero di cittadini cinesi non è in grado di tornare in Cina in tempo per servizi come il rinnovo della patente di guida. Così le autorità competenti hanno aperto una piattaforma online per il loro rilascio: i centri hanno lo scopo di aiutare i cinesi in queste questioni burocratiche. Le persone che lavorano in queste sedi sono volontari delle comunità locali. Non poliziotti”. Non si capisce però perché questo lavoro non possa essere svolto dalle ambasciate o dai consolati. Questo vale per l’Italia come per il resto del mondo. Tra i casi riportati dall’Ong c’è, per esempio, quello di un cittadino cinese costretto a tornare da agenti che lavoravano sotto copertura in una stazione in un sobborgo di Parigi. E altri due esuli, rimpatriati con la forza dall’Europa: uno in Serbia, l’altro in Spagna. Indagini sono partite in almeno 13 Paesi. In Olanda due strutture, ad Amsterdam e a Rotterdam, sono state dichiarate illegali e chiuse. Wang Jingyu, un dissidente che vive nei Paesi Bassi, ha dichiarato di essere stato chiamato centinaia di volte nel febbraio di quest’anno da un numero che combacia con quello di una stazione istituita dalla polizia di Fuzhou. “Mi hanno detto di andare alla stazione di polizia di Rotterdam per consegnarmi e di pensare ai miei genitori in Cina”. Nel Regno Unito di stazioni sospette ce ne sono tre: due a Londra, nei quartieri di Hendon e Croydon, e una a Glasgow. La prima è registrata come un’agenzia immobiliare, l’altra come un ufficio. Quella scozzese è invece ufficialmente un ristorante. Se ci si reca in quella di Hendon, l’agenzia immobiliare Hunter Realty condivide l’edificio con uno studio legale di nome “New World Law Associates”. Il responsabile di entrambe le agenzie, se si consulta il registro delle imprese britannico e se lo si incrocia con i curriculum su LinkedIn, è sempre lo stesso: Richard Huang, alias Shao Zhong Huang. Gli impiegati che vi lavorano confermano che Huang è il loro capo, ma allo stesso tempo negano ogni coinvolgimento in attività illecite. Non ci sono prove che si siano verificati episodi illeciti in questi siti sospetti, ma la polizia britannica è al lavoro. Anche dagli Stati Uniti c’è preoccupazione: il mese scorso il direttore dell’Fbi Christopher Wray ha dichiarato: “È scandaloso pensare che la polizia cinese tenti di insediarsi, per esempio, a New York, senza un adeguato coordinamento. Questo viola la sovranità e aggira i processi standard di cooperazione giudiziaria e di applicazione della legge”. Bulgaria. Il ragazzo siriano che sognava l’Europa e si è preso un proiettile alla frontiera di Sara Creta Il Domani, 6 dicembre 2022 Un nuovo video, ottenuto in esclusiva da Domani in collaborazione con Lighthouse Reports, mostra un giovane siriano ferito dai colpi di un’arma da fuoco dopo essere stato respinto al confine bulgaro-turco. Secondo l’analisi del collettivo Lighthouse Reports - in collaborazione con Domani, Sky News, The Times, Le Monde, ARD, RFE e SRF - il giovane rifugiato siriano si trovava al confine europeo, in un’area controllata dalle forze di sicurezza bulgare. Abdullah El Rüstüm, siriano di 19 anni, è rimasto ferito lo scorso 3 ottobre alla frontiera con la Bulgaria, non lontano dal villaggio di Ahlatl?, nella parte nord occidentale della Turchia, a circa tre ore da Istanbul. A testimoniare i crimini alle frontiere europee ci sono i video registrati lo scorso ottobre da un gruppo di siriani al confine tra Bulgaria e Turchia. La frontiera più a est dell’Unione europea, e anche quella più invalicabile. Nei primi undici mesi del 2022 - secondo i dati del ministero dell’Interno bulgaro - le forze di frontiera hanno impedito a 153.460 persone di entrare in Europa dalla Turchia. “Le forze di sicurezza bulgare, con l’aiuto di Frontex, sono ogni giorno in prima linea per proteggere tutti i cittadini europei”, ribadiscono gli ufficiali di Sofia.  Maltrattamenti - Testimonianze multiple di rifugiati e ufficiali turchi parlano però di respingimenti collettivi, di pestaggi, percosse da parte della polizia, morsi di cani poliziotto, estorsioni e deportazioni illegali. “Ci sono maltrattamenti sistematici”, secondo Koray Aygun, avvocato turco specializzato in immigrazione presso l’ordine degli avvocati di Kirklareli, in Turchia. Il confine è segnato da un muro metallico che taglia l’orizzonte. Attraversa una fitta foresta per un totale di oltre 235 chilometri. Il governo bulgaro è fiero di proteggere i confini europei: è il suo biglietto da visita per ottenere l’agognato ingresso del paese nella zona Schengen. Catturati - Ma torniamo a quello che è successo a inizio ottobre. Al tramonto, dalla parte turca, c’è un gruppo di siriani. Oltre la griglia metallica che segna il confine, a poche decine di metri, ci sono membri delle forze di sicurezza bulgare, comprese guardie di frontiera. Diversi colpi risuonano all’improvviso. Poi, c’è un ultimo colpo. Colpito al braccio e al petto, Abdullah, il giovane siriano di 19 anni, cade a terra. Originario di Idlib, Abdullah è fuggito dalla guerra civile siriana per rifugiarsi in Turchia. Negli ultimi anni, ha cercato più volte di entrare in Europa ma è sempre stato respinto. “Siamo entrati in Bulgaria, ma dopo sei ore di cammino due bulgari in divisa militare ci hanno catturati”, racconta Abdullah. “Ci hanno riportati al confine turco, hanno preso i nostri cellulari e tutti i soldi che avevamo”. I respingimenti - Tre veicoli portano Abdullah e il resto del gruppo al confine turco. Una volta arrivati, le forze bulgare separano le donne dagli uomini. Abdullah descrive la scena che si svolge a cinque metri da lui: “Hanno perquisito le donne in modo orribile. Ricordo che ridevano. Non era una perquisizione, le hanno molestate”.  Il gruppo viene respinto in Turchia attraverso un cancello lungo il confine. Questa pratica di espulsioni è illegale e le autorità bulgare sono già state condannate per questo dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nel luglio 2021.  La Commissione europea ha aperto per due volte (aprile 2014 e settembre 2015) procedure d’infrazione contro la Bulgaria, per l’incapacità del governo di garantire standard minimi sul rispetto dei diritti dei richiedenti asilo e sulla pratica dei respingimenti collettivi.  La provenienza dello sparo - Dalla parte turca, il gruppo di siriani protesta e inizia a lanciare pietre contro le forze bulgare: “Hanno poi chiesto rinforzi e due agenti sono arrivati dal lato bulgaro in un veicolo militare”, racconta Abdullah. In uno dei video, sono visibili almeno due veicoli sul lato bulgaro. Uno è una Land Rover Discovery, l’altro è un veicolo militare. All’improvviso, secondo il racconto di Abdullah e il video ottenuto da Domani, vengono sparati diversi colpi di avvertimento. Poi c’è un ultimo colpo, Abdoullah viene colpito e cade a terra. Le immagini mostrano Abdullah che si tiene il lato sinistro del torace, sotto l’ascella. Tre secondi dopo cade in ginocchio: il sangue inizia a colare lungo il braccio. Abdullah è a meno di 40 metri dal veicolo delle forze di frontiera bulgare. Domani, insieme a Lighthouse Reports ha fatto analizzare l’audio del video a Steven D. Beckun, un esperto forense che ha confermato che “il suono dello sparo è coerente con un’arma che spara in direzione del microfono di registrazione”, che in quel particolare momento era rivolto verso il confine. Secondo il rapporto fornito a Domani, la frequenza del suono dello sparo è “coerente con il riflesso di un grosso oggetto che si trova dietro la persona che ha sparato”. Nelle immagini satellitari disponibili, una baracca delle forze di frontiera si trova sul lato bulgaro del confine. Il referto - Abdullah è privo di sensi e sanguinante. Alcuni suoi compagni lo portano via, mentre altri membri del gruppo chiamano un’ambulanza. Poco dopo arriva l’esercito turco, che porta il giovane siriano direttamente all’ospedale di K?rklareli. “Il proiettile è passato proprio tra la vena e il nervo del mio braccio”, racconta Abdullah da Istanbul. Secondo il referto medico, che abbiamo ottenuto, il proiettile ha lasciato un segno di circa un centimetro sul “braccio sinistro del paziente”, prima di provocare lesioni “all’emitorace sinistro”. Secondo un esperto balistico, la ferita di Abdullah è compatibile con “quella di una pistola” da 9 mm. Un’altra fonte bulgara, che preferisce rimanere anonima, racconta che la polizia e le guardie di frontiera bulgare sono addestrate a usare Makarov, pistole semiautomatiche di calibro 9.  Oltre il confine - In un comunicato, il ministero dell’Interno bulgaro ha risposto che “il video non consente di sapere da dove provenga lo sparo”. Le autorità bulgare hanno confermato che le loro truppe erano lì, ma che i colpi provenivano da direzioni diverse, e si sono rifiutati di commentare le analisi audio fornite da Lighthouse reports e da Domani.  La storia di Abdullah El Rüstüm, diciannovenne siriano, non è un caso isolato. Il confine tra la Bulgaria e la Turchia è diventato negli ultimi anni uno dei più battuti da chi cerca di raggiungere l’Europa - per la maggior parte afghani, siriani e iracheni - e la pressione è aumentata a causa dei respingimenti della polizia greca lungo il confine tra Grecia e Turchia. Le autorità turche hanno registrato un altro caso, il 26 ottobre 2022. Un cittadino marocchino di nome Abdulkerim è stato trasportato d’urgenza all’ospedale di K?rklareli in Turchia dopo esser stato colpito da colpi d’arma da fuoco all’addome mentre tentava di attraversare il confine tra la Turchia e la Bulgaria.  I guardiani d’Europa - Sette anni fa, il 15 ottobre 2015, era capitato a un ragazzo afghano di 19 anni, questa volta ucciso da un poliziotto bulgaro nei pressi del confine turco. Cercava di nascondersi dalla polizia insieme ai compagni di viaggio. Le autorità hanno cercato di giustificarsi: il ragazzo sarebbe stato colpito accidentalmente da un frammento di proiettile, di rimbalzo. E mentre i bulgari continuano a fare i guardiani dell’Europa, la questione migratoria pesa molto anche sui rapporti tra la Turchia e l’Unione europea. In Turchia, secondo recenti dichiarazioni del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, i rifugiati sono circa cinque milioni. Tra loro, oltre tre milioni e 700mila sono fuggiti dalla Siria mentre circa 300mila sono afghani. Recentemente Ankara è stata accusata di deportare illegalmente centinaia di rifugiati verso il paese d’origine con “raid della polizia nelle fabbriche e nei quartieri, arresti arbitrari delle persone nonostante il permesso di protezione temporanea, detenzioni nei centri pre-rimpatrio, e con il viaggio fatto in manette fino al confine con la Siria”. Iran. La polizia morale è sempre al suo posto. Comincia lo sciopero di Farian Sabahi Il Manifesto, 6 dicembre 2022 Le dichiarazioni del capo della magistratura testimoniano solo la spaccatura nel Paese. Ma la rivolta non accenna a fermarsi. Serrande chiuse da ieri per i bottegai delle città iraniane, in solidarietà con le proteste, o forse spaventati per i possibili danni durante lo sciopero generale di tre giorni che culminerà il 7 dicembre. In coincidenza con la giornata dedicata agli studenti universitari, un raduno è stato organizzato in piazza Azadì, la piazza della libertà, nella capitale Teheran. Come in passato, dopo lo sciopero si prevede una continuazione delle proteste. I manifestanti non hanno intenzione di fermarsi, perché altrimenti sarebbe vano il sacrificio di almeno 470 persone uccise nella repressione, tra cui 64 minorenni. E a nulla serve la notizia, non confermata dal ministero degli Interni di Teheran, dell’”abolizione” della polizia morale. A comunicarlo era stato il capo della magistratura, che non è però il soggetto preposto alla buoncostume e in ogni caso si era limitato a comunicare che le funzioni della polizia morale erano state “sospese”. Già a settembre, nei giorni immediatamente successivi alla morte di Mahsa Amini, alcuni deputati avevano ipotizzato una revisione e addirittura l’abolizione della polizia morale giacché invisa alla popolazione. Il deputato Jalal Rashidi Koochi aveva dichiarato che queste pattuglie “non ottengono alcun risultato, se non quello di causare danni al Paese”. Il presidente del Parlamento, Mohammad Bagher Ghalibaf, già sindaco di Teheran, aveva chiesto che la condotta della polizia morale fosse oggetto di un’inchiesta: “Per evitare che si ripeta quanto accaduto a Mahsa Amini”, aveva affermato il presidente del Parlamento, “i metodi utilizzati da queste pattuglie dovrebbero essere rivisti”. Ancora più radicale era stato un altro parlamentare, Moeenoddin Saeedi, che intendeva proporre l’abolizione totale della polizia morale e infatti aveva dichiarato: “A causa dell’inefficacia del Gasht-e Ershad nel trasmettere la cultura dell’hijab, questa unità dovrebbe essere abolita, in modo che i bambini di questo Paese non ne abbiano paura quando vi si imbatteranno”. Ora, a due mesi da quelle dichiarazioni, il fatto che il capo della magistratura si permetta di avanzare l’ipotesi di una “sospensione” della polizia morale, ma questo non venga confermato dal ministro degli Interni preposto a questo corpo speciale, è la dimostrazione della frattura all’interno della leadership della Repubblica islamica: da una parte vi è chi sarebbe disposto al compromesso, dall’altra vi è l’ala intransigente. Tra questi ultimi vi sono i paramilitari basiji, la polizia e le forze di sicurezza che “non esiteranno a fronteggiare duramente i rivoltosi, i criminali armati e i terroristi che sono stati assoldati dai nemici”. Nella dichiarazione dei pasdaran si legge: “Dopo la sconfitta della nuova sedizione, creata dai nemici, il sistema sacro della Repubblica islamica continuerà con forza a realizzare la sua causa e sconfiggerà il fronte unito dei nemici”. In ogni caso, se anche la polizia morale dovesse abdicare, questo non implicherebbe l’abolizione dell’obbligo del velo e tanto meno maggiore libertà perché a pattugliare le strade restano poliziotti e militari. E infatti il deputato Hossein Jalali ha dichiarato che “il prezzo da pagare per chi non porterà il velo nel nostro Paese si alzerà”. Membro della commissione cultura del parlamento, si è espresso nell’ambito di un’assemblea nella città santa di Qum, facendo riferimento a un piano da mettere in pratica nelle prossime due settimane riguardo all’uso del velo per le donne, già obbligatorio in pubblico dopo la fondazione della Repubblica islamica nel 1979. Alla luce dell’uso costante della violenza contro il popolo, la leadership iraniana ha perso ogni legittimità. Al di là delle fratture nella cabina di comando, il sistema politico non è riformabile: tutti coloro che ci avevano provato sono in carcere, agli arresti domiciliari, oppure hanno scelto la via dell’esilio. Sul fronte internazionale, la data da tenere a mente è il 14 dicembre, quando si riunirà il comitato delle Nazioni Unite sulle questioni di genere.