Un saluto al direttore Antonio Gelardi e alla sua idea del carcere come “casa di vetro” di Mario Iannucci* quotidianosanita.it, 5 dicembre 2022 Apprendo oggi, da Ristretti Orizzonti, che Antonio Gelardi, Direttore della Casa Circondariale di Piazza Armerina, è andato in pensione per limiti di età. La circostanza mi fa piacere e, insieme, mi dispiace. Mi fa piacere perché spero che Antonio Gelardi, da pensionato, possa trovare ancora più tempo e più energie per quel carcere al quale ha dedicato tanta parte della sua vita professionale e della sua pacata riflessione. Mi dispiace perché, poiché il carcere continua a essere una istituzione verticistica, uno degli istituti di pena italiani perde un vertice che aveva senz’altro una luce, anzi una bella luce. Ho conosciuto Antonio Gelardi ai tempi in cui era uno dei vicedirettori del carcere di Sollicciano in Firenze, dove io lavoravo come consulente psichiatra e responsabile del servizio di psichiatria. Io e Antonio, durante quel non lungo periodo di convivenza professionale carceraria, non abbiamo sempre avuto idee convergenti. Ma il nostro confronto è sempre stato aperto, franco, civile e rispettoso, cosa che accade raramente in un ambito penitenziario nel quale gli squilibri di potere spianano facilmente la strada agli abusi. Ho sempre seguito e apprezzato la sua traiettoria professionale anche dopo che è tornato nella sua Sicilia e specialmente quando si è dedicato alla direzione del carcere di Augusta. L’ho apprezzato anche quando ha avuto il coraggio, dall’interno del sistema, di aprire un fronte giudiziario contro la regola assurda che impedisce a un funzionario di rimanere più di dieci anni alla direzione di un carcere. Una regola “anticorruzione”: come se la corruzione si combattesse in quel modo! L’ho apprezzato per molte altre iniziative da lui intraprese come dirigente degli istituti di pena. Qualche volta -purtroppo raramente- gli ho segnalato il mio apprezzamento. Ma non voglio tessere qui le sue lodi per quello che ha fatto come direttore penitenziario, anche se mi piacerebbe farlo: nell’episodio del film Germania in autunno diretto da Fassbinder, una anziana rivoluzionaria dei tempi di Rosa Luxemburg, sorridendo ironicamente, disse che un “monarca illuminato” gli sembrava essere la soluzione politica migliore per il suo Paese in preda allo scompiglio provocato dal terrorismo della Rote Armee Fraktion e dal suicidio collettivo, all’interno del carcere, di Andreas Baader e di altri terroristi. Voglio qui, piuttosto, complimentarmi con Antonio Gelardi per lo stile, pacato e riflessivo, col quale si è congedato dall’amministrazione penitenziaria e per talune delle poche indicazioni con le quali il suo congedo è avvenuto. Una prima indicazione di Antonio Gelardi: il carcere come “casa di vetro”. Forse, come non pochi auspicano, del carcere (in specie dell’attuale carcere italiano) si potrebbe, e forse si dovrebbe, fare a meno. Difficile pensare, comunque, che si possa rinunciare a un sistema di sanzioni e di pene, protettivo del “bene comune”. Ma per rendere utile il sistema della pena (un sistema diverso da quello meramente punitivo), occorrerebbe che questo sistema diventasse trasparente e fosse costantemente attraversato dallo sguardo attento, competente e persino affettuoso della società civile. Ecco perché, nella cronica carenza di una attenzione partecipe delle istituzioni pubbliche per ciò che avviene nell’universo penitenziario, l’ingresso del volontariato in carcere rimane uno dei pochi strumenti per tentare di rendere quel sistema un po’ più trasparente, controllato, garantito e partecipato. Antonio Gelardi, nella sua attività di direttore, ha sempre cercato la collaborazione delle istituzioni civili e del volontariato, sapendo di non poterne fare a meno. Una seconda indicazione di Antonio Gelardi: l’attuale e palese insufficienza del sistema sanitario all’interno dei penitenziari. Una insufficienza che farebbe per certi versi rimpiangere il “vecchio” sistema sanitario penitenziario, centralizzato e sganciato dai Sistemi Sanitari Regionali. So bene che Antonio Gelardi ha apprezzato l’opera di quel grande giudice che è stato Alessandro Margara. So bene che Antonio non era e non è in disaccordo con la norma, varata su proposta di Alessandro Margara che era allora direttore generale del DAP, che ha stabilito il passaggio ai Sistemi Sanitari Regionali dell’assistenza di salute all’interno delle carceri. Eppure, per una popolazione penitenziaria nella quale è innegabile che i problemi di salute siano quelli assolutamente prevalenti e straripanti, l’impegno quantitativo e qualitativo delle risorse del sistema sanitario pubblico appare del tutto insufficiente. Persino nella scheda di Antigone che riguarda il carcere di Augusta (che Antonio Gilardi ha diretto per anni) viene ad esempio segnalato il preoccupante dilagare dei problemi psichiatrici fra i detenuti. Il numero impressionante dei suicidi delle persone carcerate avvenuti in Italia nel 2022, ne è un chiaro segno, più o meno diretto. Ci sono molti modi per affrontare il profondo disagio sociale che attraversa attualmente le società, quelle apparentemente più civili e quelle apparentemente meno civili. Un disagio sociale che trascina inevitabilmente con sé, nelle singole persone, un disagio psichico che prende talora preoccupanti forme trasgressive. È possibile che qualcuno ritenga che soluzioni costrittive possano utilmente arginare il dilagare di questo disagio. Dalla mia esperienza di terapeuta, specie di terapeuta penitenziario che ha sempre ricercato percorsi funambolici per coniugare pena e cura, non ritengo che questo carcere italiano possa costituire una utile strategia curativa. Però, se una persona che conosco finisse in carcere, specie se quella persona fosse in preda a un disagio psichico, in questo sistema penitenziario disastrato io auspicherei che quel mio conoscente facesse ingresso in un carcere diretto da una persona come Antonio Gelardi. *Psichiatra psicoanalista Nordio all’Europa dopo il decreto rave: “Sulle riforme non ci saranno ritardi” di Liana Milella La Repubblica, 5 dicembre 2022 Dal Guardasigilli la rassicurazione che il rinvio di due mesi della riforma penale non cambierà il calendario degli accordi presi per garantire gli accordi del Piano. Le modifiche, contenute nel decreto sui rave party, e già depositate al Senato, saranno approvate definitivamente a fine dicembre. “Il governo italiano è impegnato a dare piena attuazione al Pnrr. Le riforme entreranno in vigore rispettando le scadenze”. Parola del Guardasigilli Carlo Nordio che lo ribadisce adesso e lo ha addirittura twittato, sottoscrivendo una promessa formale e ufficiale, al commissario europeo per la Giustizia Didier Reynders. I due si erano visti a Berlino tra lunedì e martedì per un G7 dedicato ai crimini in Ucraina. Ma inevitabilmente, in colloqui informali, non è potuto mancare il chiarimento proprio sulle due “milestones” italiane nell’ambito della giustizia - le riforme civile e penale, nonché l’avvio dell’ufficio del processo con 16.500 assunzioni finanziate per tre anni - che frutteranno all’Italia 2,3 miliardi di euro.  Ovviamente, proprio il decreto di fine ottobre, e il rinvio della legge firmata dall’ex Guardasigilli Marta Cartabia, hanno messo in allarme l’Europa, per il rischio tutto italiano che di rinvio in rinvio anche la riforma del processo penale potesse slittare nel tempo, di fatto mettendo in crisi i finanziamenti del Pnrr. Ma da via Arenula, ancora ieri, arrivavano “assolute garanzie” che il decreto sarà sicuramente convertito, e quindi la stessa riforma penale, con i suoi decreti delegati, sarà approvata e licenziata definitivamente.  Il “grido di dolore” delle procure generali - Proprio Nordio, del resto, l’aveva spiegato nella sua prima conferenza stampa a palazzo Chigi, il 31 ottobre, al termine del primo consiglio dei ministri. Proprio quello che ha varato il decreto Rave, ma anche rinviato di due mesi l’entrata in vigore della Cartabia. “Per 40 anni sono stato pubblico ministero, ed ero e sono consapevole delle difficoltà delle procure, dei gip, delle corti d’appello - aveva detto Nordio -. Per questo ho accolto il ‘grido di dolore’ delle procure generali. Ma con il rinvio non ci sarà alcun impatto negativo sul Pnrr. All’opposto, se non l’avessimo fatto, avremmo corso il rischio che la riforma ci si sciogliesse in mano e fosse inapplicabile”. Alle spalle della decisione di Nordio, che peraltro l’ex ministra Cartabia non ha ufficialmente criticato, c’era una lettera formale delle procure generali italiane che mettevano il guardia il neo Guardasigilli da un’entrata in vigore azzoppata della riforma, proprio perché le nuove regole sui rapporti tra pm e gip imponevano più tempo e soprattutto un chiarimento giuridico. Che si è materializzato, in ben 40 pagine, mercoledì 30 novembre, inviate al Senato dal capo dell’ufficio legislativo di via Arenula Antonello Mura per diventare un emendamento al decreto Rave. Quindi la conferma di un impegno, quello di mandare avanti la riforma, e di certo non bloccarla.  Tempi strettissimi - I tempi tra Senato e Camera adesso sono strettissimi. Già in questa settimana la presidente della commissione Giustizia della Camera Giulia Bongiorno andrà al voto degli emendamenti. E il testo giungerà in aula per il primo voto il 12 dicembre, per giungere poi alla Camera tra Natale e Capodanno (tra il 27 e il 28 dicembre). Tre giorni dopo la riforma penale, così emendata, entrerà il vigore.  È più che comprensibile però che proprio il rinvio abbia messo in allarme l’Europa. Che aveva dato all’Italia tempi molto rigidi per approvare i decreti delegati delle due riforme, il 19 ottobre era l’ultima scadenza per la riforma penale e il 26 novembre per quella civile. Ma entrambe erano state rispettate. Poi il rinvio del 31 ottobre per quella penale. Che è slittata di due mesi. Fino a impensierire l’Europa. Ma proprio in via Arenula, dove citano di continuo gli apprezzamenti che sono giunti dall’Europa per l’introduzione dell’ufficio del processo - gli assistenti dei giudici che rappresentano un’importante innovazione - non si è mai ipotizzata una proroga oltre le scadenze date che avrebbe potuto mettere a rischio i finanziamenti. Di cui la giustizia italiana non può assolutamente fare a meno, e anzi rappresentano davvero l’ultima chance per battere i processi infiniti.  “Confische incostituzionali”, Amato demolisce l’Antimafia che ha distrutto vite e aziende di Paolo Comi Il Riformista, 5 dicembre 2022 Le misure di prevenzione sono ‘contro’ la Costituzione. Parola di Giuliano Amato, presidente emerito della Consulta. La presentazione romana questa settimana dell’ultimo libro del direttore Alessandro Barbano dal titolo “L’inganno. Antimafia, usi e soprusi dei professionisti del bene”, edito da Marsilio, è stata l’occasione per fare il punto sull’istituto quanto mai controverso delle misure di prevenzione. Amato ha ricordato di quando era un giovane giurista negli anni Sessanta e, in compagnia di Leopoldo Elia e Augusto Barbera, sollevò per la prima volta il tema della compatibilità delle misure di prevenzione con il dettato costituzionale. Il principale problema era dovuto al fatto che le misure di prevenzione, pur essendo afflittive, non venivano comminate da un giudice ma dall’autorità amministrativa, per l’esattezza quella di polizia. L’elemento cardine che giustifica un procedimento così severo era quello del “sospetto”. Lo Stato aveva dato un potere di fatto illimitato ai questori. A tal riguardo Amato ha ricordato una circostanza degna di Franz Kafka, quella in cui il questore provvedeva a diffidare formalmente la persona che a suo insindacabile giudizio avesse destato sospetti per la sua condotta di vita. Se la medesima persona continuava, sempre ad insindacabile giudizio del questore, a destare sospetti, scattava allora la denuncia penale per aver violato il provvedimento di diffida del questore. Un corto circuito che nulla aveva a che fare con lo stato di diritto. Le misure di prevenzione ebbero poi negli anni una loro valorizzazione giurisdizionale e il sistema, pur pieno di criticità, si stabilizzò. Lo spartiacque, ha aggiunto Amato, si ebbe nel 1965 quando vennero estese anche ai fenomeni mafiosi. Dalle persone ai beni il passo è stato breve. Fino ad arrivare ai giorni nostri dove, ha ricordato il presidente emerito della Corte Costituzionale, l’autorità di pubblica sicurezza può tranquillamente interdire per cinque anni una impresa ai suoi titolari sospettati di avere rapporti con la mafia, pur in assenza di procedimenti penali. L’intervento di Amato non poteva non essere apprezzato dall’autore del libro che ha esordito con una provocazione: se il sistema emergenziale italiano è giustificato dalla presenza di quattro organizzazioni criminali, allora bisogna anche giustificare Guantanamo. Il sistema di prevenzione, sul quale si discute sempre troppo poco, è un unicum nei Paesi europei. Come ricordato da Barbano, infatti, non esiste in nessun’altra realtà. In Italia si può essere assolti perché il fatto non sussiste al termine del processo e allo stesso tempo vedersi confiscati tutti i propri beni. A differenza della condanna, per la confisca sono sufficienti solo “elementi indiziari”. La ricerca doverosa degli autori delle stragi di mafia deve essere svolta in una cornice di diritti e garanzie, ha sottolineato Barbano, ricordando che tutti coloro che avevano letto il libro come prima cosa gli dicevano: “che coraggio che hai avuto!”. “Coraggio lo ha chi lotta contro la mafia” non chi racconta un meccanismo legislativo dello Stato. Durante il dibattito, al quale ha partecipato anche il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Giovanni Melillo, che ha sostanzialmente difeso l’impianto normativo delle misure di prevenzione ed il lavoro svolto dai pm e dai prefetti, è stato poi affrontato anche il tema del regime del 41 bis. “Serve un ragionevole bilanciamento”, ha aggiunto Amato, che firmò la modifica dell’ordinamento penitenziario sul punto. “Il 41 bis deve avere una sua utilità, altrimenti è solo vessazione”, ha quindi puntualizzato Amato. Il ministro Piantedosi: “Contrasteremo adeguatamente i rave party” di Davide Varì Il Dubbio, 5 dicembre 2022 Il titolare del Viminale parla anche dei flussi migratori: “I nuovi ingressi di migranti regolari avverranno tenendo in considerazione i percettori del reddito di cittadinanza”. “Il tema del contrasto all’immigrazione illegale è stato nodale fin dal primo giorno. Il governo è determinato a mettere al centro dell’agenda europea la questione dei flussi migratori nel Mediterraneo”. Lo ha dichiarato il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi in una intervista al quotidiano Libero. “Per noi - ha detto - è una questione di grande importanza: anche l’Europa deve fare la propria parte. Sono temi di grande complessità ma servono al più presto risposte concrete, in primo luogo per evitare tragedie del mare. È questo lo spirito con cui parteciperò al consiglio dei ministri dell’Interno Ue dell’8 dicembre. Confido sia lo spirito di tutti” e “anche la questione rimpatri deve essere al centro dell’agenda Ue: servono iniziative comuni europee”. Il nuovo decreto flussi, ha aggiunto il titolare del Viminale, “sarà un decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ci stiamo lavorando per vararlo al più presto e poter garantire un flusso di migranti regolari che possano essere inseriti proficuamente nel tessuto economico del paese. I nuovi ingressi di migranti regolari avverranno tenendo in considerazione i percettori del reddito di cittadinanza. Salvaguarderemo la loro possibilità di essere reinseriti nel mercato del lavoro Piantedosi parla anche dei rave party - “La priorità del Viminale è sempre stata quella di attribuire alle forze dell’ordine gli strumenti adeguati per contrastare un fenomeno che, voglio ricordarlo, negli ultimi dieci anni ha fatto registrare anche alcuni decessi, causati dall’abuso di sostanze stupefacenti, nonché feriti tra gli operatori di polizia. L’adeguatezza di questi strumenti è irrinunciabile per tutelare l’incolumità delle persone e il diritto di proprietà. Il Parlamento saprà sicuramente trovare la sintesi necessaria” ha dichiarato il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, a proposito del “decreto rave”, parzialmente riscritto dal governo. Il giustizialismo non è solo una piaga ideologica, ma anche linguistica di Maurizio Assalto linkiesta.it, 5 dicembre 2022 Chi è a favore di una giustizia penale spiccia e sommaria viene definito giustizialista. Il termine è stato importato dal justicialismo argentino che però è tutt’altra cosa. L’immagine della giovane donna dagli occhi bendati è la rappresentazione tradizionale della giustizia che non guarda in faccia a nessuno ed è (dovrebbe essere) uguale per tutti. Per tutti, tranne che per la giustizia stessa. Non solo la vediamo troppo spesso tirata di qua e di là nel confronto politico e nelle battaglie in tribunale, a seconda delle convenienze: lo stesso avviene anche nel linguaggio. C’è il caso del verbo giustiziare, che rimanda a una dimensione estrema della sanzione penale dove il ristabilimento della giustizia coincide con l’eliminazione fisica della persona ingiusta. Ma non sempre l’ingiusto è davvero tale: Sacco e Vanzetti, per citare un caso celebre, erano forse colpevoli? E quindi si può plausibilmente dire che furono giustiziati? O non piuttosto ingiustiziati? Certo, finirono i loro giorni sulla sedia elettrica in seguito a un legittimo procedimento penale che, sia pure attraverso forzature e omissioni, li aveva giudicati colpevoli, e quindi formalmente (e lessicalmente) l’esecuzione della condanna avvenne “secondo giustizia”. Ma quando, come è accaduto e può sempre accadere in qualche regime autoritario, la pena viene eseguita in assenza di un regolare processo, ossia bypassando il momento in cui la giustizia si reifica e viene sancita? Di quanti desaparecidos argentini, nei vuelos de la muerte pianificati dal regime sanguinario del generale Videla, si usa dire impropriamente - paradossalmente, offensivamente - che sono stati giustiziati? Per tacere dell’uso estensivo del verbo - che anche il vocabolario Treccani qualifica come “erroneo” ma che è comune nel linguaggio giornalistico - come sinonimo di uccidere, assassinare: “commerciante reagisce a una rapina, giustiziato a colpi di pistola da uno dei banditi”. Al verbo giustiziare può essere accostato il sostantivo giustiziere, che è l’esecutore di una condanna capitale, in quanto tale sinonimo di boia, carnefice, ma anche “chi pretende di farsi giustizia da sé, di vendicare torti fatti a sé o ad altri” (vocabolario Zingarelli). Che ne è in questi casi della giustizia, della giovane donna bendata? Forse si tiene gli occhi coperti per non leggere, per non vedere la deriva linguistica che le viene inflitta. Ma se per avventura le cascasse la benda, potrebbe pensare, a forza di venire tirata di qua e di là, di essere finita dall’altra parte del mondo: in Sud America. Nella sua famiglia lessicale allargata troverebbe infatti due sostantivi che stenterebbe a riconoscere, per ragioni semantiche come pure morfologiche: giustizialismo e giustizialista. Complice il linguaggio giornalistico - che, se non le ha inventate, a partire almeno dagli anni dell’inchiesta Mani Pulite ne ha canonizzato l’accezione e propagato l’uso - queste due parole sono entrate prepotentemente nel nostro linguaggio. Nel dibattito pubblico l’accusa di giustizialismo è l’arma semanticamente impropria brandita da garantisti più o meno sinceri (generalmente ascrivibili allo schieramento di centro-destra) contro i presunti fautori (generalmente ascrivibili al centro-sinistra) di una giustizia penale spiccia e inflessibile, talora sommaria, poco ponderata, ignara di cautele e distinguo, magari neppure sorretta da prove inconfutabili. Lasciamo impregiudicata la questione di diritto. Sta di fatto, però, che nella lingua e nel paese da cui la parola è stata importata, lo spagnolo e (di nuovo) l’Argentina, il justicialismo è tutt’altra cosa. Lo ricordava Alessandro Galante Garrone, giurista e storico di antica matrice azionista, in un fondo pubblicato sulla Stampa del 31 dicembre 1996: “Si dimentica un po’ da tutti che questo termine è storicamente nato con riferimento preciso al comportamento e alla figura umana del dittatore argentino Perón e al suo regime piuttosto nefasto e ridicolo, quasi sfiorante l’operetta”. Il generale Juan Domingo Perón, presidente dell’Argentina dal 1946 al ‘55 e poi ancora, dopo l’esilio, dal ‘73 fino alla morte nel ‘74, aveva costruito il suo movimento politico come una terza via tra capitalismo e socialismo, ispirandosi alla “giustizia sociale” delle encicliche papali: giustizialismo è appunto una “parola macedonia”, nata dalla fusione di giustizia e socialismo. Soltanto la consapevolezza di questa origine sincratica rende ragione della desinenza -lismo, che nell’accezione più comune data alla parola in Italia resta morfologicamente inspiegata e inspiegabile; a meno di ricondurla all’infrequente aggettivo giudiziale, detto di “ciò che è relativo alla giustizia” (sistema giudiziale, ordinamento giudiziale), che è però un vocabolo neutro, alieno dalle connotazioni peggiorative-afflittive riversate nel nostro giustizialismo (semmai si potrebbe ipotizzare, per esprimere il concetto, un più esplicito “giustiziarismo” che si riallaccerebbe al verbo cruento di cui sopra). La protesta filologica di Galante Garrone non ha mai prodotto risultati, nonostante questo “uso disinvolto” del termine in questione sia stato discusso anche in un convegno del 2002 a Milano e l’anno seguente in un saggio del filosofo del diritto Mario G. Losano (“Peronismo e giustizialismo: significati diversi in Italia e in Sudamerica”, in Teoria politica, XIX, 2003). E così questa parola, nella sua accezione impropria, ha proseguito indisturbata la sua marcia inarrestabile ed è oggi registrata in tutti i dizionari, accanto all’accezione propria - sebbene negli ultimi tempi venga pronunciata meno, in concomitanza forse con lo smarrimento di una sinistra così sfiduciata da aver perso pure la tentazione di ricorrere alla via giudiziaria per ribaltare il risultato elettorale. È inevitabile, sono i parlanti che decretano il significato delle parole, anche contro ogni ragione linguistica. Una parola sbagliata è un po’ come la Coca-Cola, inventata quale medicina contro il mal di testa e diventata invece la bevanda di successo che ben conosciamo; giustizialismo è un termine efficace, ormai accettato e compreso da tutti nel suo significato secondario, più pregnante e anche più appropriato di forcaiolo o manettaro. Alla giovane donna con gli occhi bendati non resta che adeguarsi: tuttalpiù potrà dotarsi di una seconda benda e usarla per coprirsi le orecchie. Oggi la sentenza sull’anarchico Cospito, tribunale di Torino blindato dopo l’attentato di Atene di Sarah Martinenghi La Repubblica, 5 dicembre 2022 Il Palagiustizia di Torino accoglierà l’ultima udienza del processo per le bombe di Fossano. Allerta alta dopo la molotov contro Susanna Schlein. I due imputati rischiano l’ergastolo. Appariranno in video collegamento. Alfredo Cospito dal carcere di Sassari dove è recluso nel regime del 41 bis, Anna Beniamino da quello di Rebibbia. Entrambi con i segni evidenti dello sciopero della fame che stanno portando avanti da più di un mese per contestare il regime di carcere duro cui è sottoposto l’uomo. E renderanno spontanee dichiarazioni, nel tentativo di non essere condannati all’ergastolo. Sarà una giornata decisiva quella di oggi, non solo per i destini dei due anarchici considerati ideologi del Fai (Federazione anarchica informale) - una galassia di cellule eversive che avevano stretto poi alleanze internazionali diventando Fai Fri - ma anche per i risvolti che la decisione potrà avere. Ci saranno infatti misure di sicurezza particolari fuori e dentro il Palazzo di giustizia, approntate dal procuratore generale Francesco Saluzzo, vista l’ondata di solidarietà che già da un po’ tempo si è sollevata nei confronti dei due protagonisti del processo. Di certo sarà un’udienza seguita con grande attenzione: la solidarietà a Cospito contro il regime del 41 bis ha confini internazionali, specie in Grecia, dove sono comparse diverse scritte e dove si è verificato l’attentato fallito contro la diplomatica Susanna Schlein. Davanti alla Corte d’Assise d’Appello, il pg Saluzzo e il pm Paolo Scafi chiederanno la condanna di Cospito e di Beniamino: la Cassazione ha già stabilito che devono essere accusati di “strage politica” il reato più grave previsto dal nostro ordinamento. Il processo è l’ultimo scampolo di Scripta Manent, in cui il pm Paolo Sparagna aveva in origine contestato a 14 anarchici una serie di “azioni” commesse in varie località italiane (tra cui ordigni e plichi esplosivi contro politici, giornalisti e forze dell’ordine). La questione ora riguarda, nello specifico, i due ordigni esplosivi posizionati il 2 giugno 2006 nei pressi della scuola allievi carabinieri di Fossano. Non ci furono vittime, ma la Cassazione aveva deciso un nuovo appello per rideterminare le condanne inflitte a Cospito (20 anni) e a Beniamino (16 anni e 6 mesi) ritenendo che non sia stato commesso il reato di strage comune, bensì quello di strage politica: si è trattato di un atto che ha messo in pericolo la sicurezza dello Stato. Aveva “altissima potenzialità” lesiva, e venne utilizzata la tecnica del “richiamo”: la prima esplosione serviva ad attirare vittime da colpire con la seconda deflagrazione. La difesa di Cospito (che già sta scontando la condanna per l’attentato contro Roberto Adinolfi) e di Beniamino solleverà una questione di legittimità costituzionale che, se accolta, dilaterà i tempi: chiederanno cioè una pronuncia sulla pena “fissa” dell’ergastolo per la strage politica, puntando sulle differenze tra l’attentato di Fossano senza feriti e la strage di Bologna. E poi punteranno sulle attenuanti, già riconosciute, in particolare a Beniamino (assistita dall’avvocato Gianluca Vitale), che potrebbero far scendere la pena. Torino. Detenuto morì in carcere: archiviate le accuse per 15 medici, il caso finirà a Strasburgo di Simona Lorenzetti Corriere della Sera, 5 dicembre 2022 La controversa vicenda di Luigi Di Lonardo, 47 anni. I familiari: “Lo Stato italiano non gli ha dato la possibilità di curarsi”. Quando venne trasferito dal carcere di Verbania a quello di Torino le sue condizioni di salute erano critiche. Stava male, ma al Lorusso e Cutugno decisero di trattenerlo in infermeria invece di accompagnarlo in ospedale. Il giorno dopo, alle 17, è morto: era il 13 febbraio 2017. Il detenuto si chiamava Luigi Di Lonardo, aveva 47 anni e per oltre cinque anni la sua vicenda è stata al centro di un controverso fascicolo giudiziario rimbalzato da Torino a Verbania e poi di nuovo a Torino, con reclami e istanze degli avvocati e consulenze tecniche dei medici. Pochi giorni fa è stato scritto quello che in apparenza è il capitolo finale di questa storia: il gip ha archiviato le accuse di omicidio colposo rivolte a 15 indagati. Ma ora i legali Chiara Luciani e Niccolò Bussolati, che assistono la famiglia della vittima, hanno deciso di fare ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.  La vicenda ha inizio nel 2014, quando Di Lonardo entra in carcere per scontare quattro anni e due mesi per reati contro il patrimonio. Ha gravi problemi di salute, non compatibili con la permanenza in cella: ha l’Hiv, una cirrosi epatica con grave deficit immunitario, un’endocardite aortica e nel 2012 era stato operato al cuore. Nell’agosto 2016 il Tribunale di Sorveglianza gli concede i domiciliari, due mesi dopo Di Lonardo finisce in coma. Poi la sua salute migliora e torna dai genitori. Il giorno di Natale rientra a casa con mezz’ora di ritardo: i carabinieri lo arrestano per evasione e lo riportano in carcere a Verbania. Presto il quadro clinico si aggrava: l’uomo viene portato in ospedale, poi di nuovo in cella. L’11 febbraio il trasferimento a Torino. E il giorno dopo Luigi Di Lonardo muore.  In seguito all’esposto presentato dal fratello del 47enne, la Procura di Torino apre un’inchiesta. Nel 2018 il fascicolo viene inviato a Verbania, due anni dopo il pm chiede l’archiviazione. Nel frattempo, i legali ottengono che l’inchiesta venga avocata dalla Procura generale. Ripartono le indagini e 15 medici finiscono sotto accusa. La consulenza tecnica mette in luce che il personale sanitario avrebbe operato con “superficialità”, senza disporre “approfondimenti diagnostici”. Nonostante ciò, il pg chiede l’archiviazione perché “manca il nesso di causalità tra le condotte superficiali e colpose dei medici e la morte”. Gli avvocati depositano opposizione, ma il gip archivia senza fissare un’udienza. Segue un reclamo, il fascicolo passa a un nuovo gip ma l’epilogo non cambia: la morte dell’uomo viene archiviata.  Adesso la famiglia ha deciso di rivolgersi ai giudici di Strasburgo. “La Procura ci dice che ci sono state colpe, che Di Lonardo non è stato curato mentre era in carcere, ma che “tanto, prima o poi, sarebbe morto lo stesso” perché l’intervento salvavita era rischioso. Peccato che lo Stato non gli abbia mai dato la possibilità di provare a curarsi, che gli abbia tolto la possibilità di lottare per la vita”: è l’amara considerazione di Luciani e Bussolati, che in questa battaglia sono sostenuti da Strali (associazione che nasce con il chiaro intento di contrasto all’ingiustizia giudiziaria). Sulla vicenda interviene anche il presidente della Camera Penale Roberto Capra: “Quando la decisione sulla morte di un uomo in carcere arriva a distanza di quasi sei anni, il sistema denuncia la sua inefficienza. Ancora una volta dobbiamo interrogarci sulla crisi profonda delle carceri italiane e sul fatto che non possa essere sempre e soltanto il carcere la risposta sanzionatoria”. Bergamo. Dalla “Capitale del volontariato” un messaggio alla Ue: investire su di noi di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 5 dicembre 2022 Nella Giornata internazionale del volontariato Bergamo diventa il luogo di approfondimenti e analisi. Il capoluogo orobico è stato designato quest’anno “Capitale italiana del volontariato”. Senza solidarietà, senza ascolto e senza spazi di partecipazione la quotidianità diventa un percorso a ostacoli. Per questo motivo CsvNet, l’associazione dei Centri di servizio per il volontariato, ha organizzato per oggi nella città lombarda un evento che vedrà la partecipazione di rappresentanti del mondo del terzo settore e delle istituzioni. Il convegno che si terrà oggi nel Centro Daste, a partire dalle 17, sarà, come sottolineano gli organizzatori, il “punto di approdo” delle attività svolte in oltre dieci mesi prima di celebrare il 5 dicembre. L’iniziativa in programma oggi, in occasione della trentasettesima Giornata internazionale del volontariato, istituita dalle Nazioni Unite, si intitola “Diamo voce alla solidarietà”. Sono coinvolti il Forum del Terzo Settore, CsvNet e Caritas italiana, in collaborazione con Csv Bergamo e Bergamo Capitale Italiana del Volontariato 2022. L’intento è quello di valorizzare la passione e l’impegno di centinaia di migliaia di volontari, partendo dal loro ascolto, dalle loro istanze e dalla lettura dell’impatto che i grandi cambiamenti sociali in corso hanno sul volontariato. La ricorrenza odierna è stata anticipata da un doppio appuntamento, oltre che a Bergamo, anche a Cosenza. Centinaia di volontari con le loro famiglie hanno animato le piazze con dibattiti e laboratori. L’obiettivo è chiaro: coinvolgere i cittadini sulla valenza sociale del volontariato, conoscere il loro punto di vista sull’importanza del donarsi all’altro e su come potenziare una rete ancora più preziosa in questo periodo, dopo oltre due anni e mezzo di tribolazioni e stravolgimenti provocati dall’emergenza sanitaria. “Cara Europa, siamo volontarie e volontari di tutta Italia, siamo giovani e ci impegniamo ogni giorno per aiutare gli altri, risolvere i problemi quotidiani, tutelare l’ambiente, costruire spazi di inclusione, giustizia ed equità. Ricordati che abbiamo in mano il futuro, non aver paura di investire su di noi. Non te ne pentirai”. Queste parole sono contenute in una delle cinquecento lettere indirizzate all’Unione Europea e scritte dai volontari giunti già nelle scorse settimane a Bergamo, in occasione delle prime iniziative che hanno anticipato la Giornata internazionale del volontariato. Ambiente, vita sulla terra, giustizia, legalità, parità di genere, pace, geopolitica, salute, tutela del territorio, cultura, cittadinanza, partecipazione ed esperienza del dono, sono stati i temi che hanno animato i primi laboratori. A Bergamo nelle scorse settimane è giunto anche lo scrittore Roberto Saviano, che, prendendo spunto dal suo ultimo libro - “Solo è il coraggio. Giovanni Falcone, il romanzo” - ha portato all’attenzione dei giovani gli insegnamenti del magistrato palermitano: vivere senza paura e lottare per la giustizia e la dignità di ogni essere umano. Saviano ha ricordato quanto sia prezioso spendersi per gli altri, in maniera limpida e disinteressata: “Il nostro Paese esiste e si mantiene anche grazie alle scelte e alle azioni che i giovani fanno. E ogni volta che un volontario compie un servizio, permette alla democrazia di esistere”. “Le lettere all’Europa - afferma la presidente di CsvNet, Chiara Tommasini - porteranno all’attenzione delle istituzioni, delle più alte cariche dello Stato e dell’Unione europea l’impegno dei volontari. Ma soprattutto le faremo vivere all’interno di ogni territorio”. In Italia operano oltre 5 milioni di volontari. Hanno scelto di essere impegnati in ogni ambito della vita sociale. Un’attenzione che non si è fermata neppure nei mesi della pandemia. Anzi. Proprio tra il 2020 e il 2021 la rete del volontariato ha dimostrato tutta la sua forza e generosità. Nel 2021 il CEV (Center for European Volunteering) ha aggiornato la pubblicazione ‘Volunteering Infrastructure in Europe”, redatta per la prima volta nel 2012, a seguito dell’anno europeo del volontariato. L’intento è quello di far conoscere la strutturazione dell’impegno civico in diversi paesi dell’Unione Europea e come i contesti culturali, storici e giuridici possano influire sulla motivazione e le attività di volontari ed organizzazioni. I dati sulle organizzazioni non profit e sul numero di volontari attivi vengono raccolti anche dall’Istat. Quelli più recenti riguardanti il volontariato risalgono a qualche anno fa, al 2015, e sono stati diffusi con il censimento permanente 2017. Siamo in attesa di conoscere gli esiti della nuova ricerca, considerato che l’ultimo censimento sulla materia è di quest’anno ed è stato chiuso il 24 novembre scorso. Le stime del CEV evidenziano che i volontari in Italia sono 5 milioni e 528mila, con una crescita costante di quasi il 67% sopra i 14 anni. Nel 2001 i volontari erano poco più di 3 milioni, con un ulteriore aumento di 770mila unità (16,2%) rispetto al 2011 (quando i volontari erano 4 milioni e 758 mila). L’incidenza è di 911 volontari ogni diecimila abitanti, contro gli 801 del 2011. Inoltre, nel 2015 le organizzazioni non profit con volontari erano 267 mila, con un incremento del 9,9% rispetto al 2011 e del 21,5% rispetto al 2001, quando risultavano 220mila organizzazioni. I volontari si concentrano principalmente nel settore “Cultura, sport e ricreazione”, con 3 milioni e 128 mila soggetti coinvolti, pari al 56,6% del totale (nel 2001 erano oltre 2,8 milioni, pari al 59,2%). Nonostante gli oltre 5 milioni di volontari, l’Italia si piazza quasi in fondo alla classifica dell’indagine Eurostat. Per la precisione diciassettesima su 28 paesi, con un tasso di “volontariato formale” del 12%. La collocazione italiana arriva al 22° posto se si prende come riferimento il “volontariato in autonomia”. In questo caso il coinvolgimento dei cittadini è dell’11,4%. “È interessante notare - si legge nel rapporto CEV - che in Italia non esiste un divario significativo tra i due modelli, a differenza di altri paesi. Ad esempio, nei Paesi Bassi, la cifra sta raddoppiando dal 40,3% all’82,5%, così come in Svezia dal 35,5% al 70,4%, in Finlandia dal 34,1% al 74,2%, o in Polonia dal 13,8% al 54,6%. Tuttavia, il tasso di “volontariato formale” rimane generalmente inferiore a quello informale (media europea del 22,2%), ad eccezione della Germania e della Gran Bretagna, che raggiungono rispettivamente valori del 28,6% e 11,4%, e 23,3% e 19,2%”. La fotografia che viene scattata a livello europeo è di sicuro uno stimolo ad incoraggiare la rete del volontariato e a fare sempre meglio. Milano. “In carcere si può lavorare e studiare e i volontari sono preziosi” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 5 dicembre 2022 Roberto Bezzi, responsabile dell’area educativa del carcere di Bollate, parla con entusiasmo del suo lavoro con i detenuti. Un’esperienza quotidiana a stretto contatto anche con tanti volontari per offrire una possibilità di riscatto a chi si metterà alle spalle la vita carceraria una volta riguadagnata la libertà. “Quando - dice al Dubbio Roberto Bezzi - durante i miei corsi universitari, gli studenti mi chiedono cosa fa un educatore, rispondo dicendo che è una persona con capacità di mediazione, che fa un grande lavoro di rete sia interna che con tutto il mondo fuori dal carcere. L’educatore è un operatore di prossimità: deve stare molto dentro, ma sempre con lo sguardo fuori. Senza dimenticare il legame con le famiglie dei detenuti”. Quanto è impegnativo svolgere l’attività di educatore in carcere? Vorrei partire da un presupposto. Il lavoro che svolgo da ben ventidue anni io l’ho scelto e rifarei ancora questa scelta. Ogni giorno faccio il mio lavoro con lo stesso entusiasmo con cui ho iniziato nel 2000. È un elemento non di poco conto. Lavoriamo in un contesto complesso. Educazione e carcere sono due parole non facili da coniugare. L’istituto di Bollate offre moltissimi stimoli per le attività che vengono organizzate. La cosa principale che caratterizza Bollate, rendendolo umano ed efficiente, riguarda le relazioni sane. Sono convinto che il punto di forza sia questo. Cosa intende per “relazioni sane”? Mi riferisco alla costruttiva collaborazione tra tutti colori che lavorano all’interno dell’istituto, tra il personale e l’utenza che viene ospitata. Con quest’ultima c’è una comunicazione costante, molto chiara e credibile. Non è scontato che tutto ciò sia possibile in una realtà come quella del carcere. Cerchiamo di partire sempre da questo presupposto: le persone che arrivano da noi devono poi uscire con una possibilità in più. Quando una persona entra nel carcere di Bollate, dopo che nella vita ha sempre commesso reati, arrivando da contesti in cui non ha mai pensato di fare altro, viene messa nelle condizioni di cogliere delle opportunità. Ciò grazie ai corsi che organizziamo e alla possibilità di studiare. Si scoprono degli interessi e delle competenze che non si conoscevano prima. Badiamo bene, il carcere crea sofferenza, ma al tempo stesso può consentire ai detenuti di essere capaci di fare altro e avere piacere a fare altro. Il nostro è un carcere molto corale, grazie anche all’apporto del personale di polizia penitenziaria particolarmente attento e professionale. I detenuti scoprono di essere persone diverse da quelle che erano prima di finire dietro le sbarre? Direi proprio di sì. Sono tanti a scoprire delle competenze che pensavano di non avere. Aggiungiamo pure che secondo la legge occorre incoraggiare le competenze. Il nostro compito va proprio in questa direzione. Molti detenuti arrivano qui con alcune competenze, ma non hanno avuto mai l’occasione per sperimentarle. La sfida che ogni giorno noi educatori affrontiamo è quella di fare in modo, umanamente e professionalmente, che la pena sia efficace. Il carcere di Bollate è considerato un modello per questo tipo di organizzazione? Secondo me, il nostro istituto serve come esempio per lanciare un messaggio del tipo “in carcere si può fare anche questo”. È ovvio che ogni carcere ha le sue peculiarità. Mettere al centro la persona e offrire un servizio è una cosa sempre possibile. Non dobbiamo mai perdere di vista questo concetto. Tante persone, che prima di entrare in carcere non hanno mai lavorato, da noi scoprono un lavoro, si entusiasmano per questo e guardano al futuro con una prospettiva diversa. Ogni volta che mi trovo di fronte a situazioni del genere, provo grande soddisfazione e mi rendo conto che abbiamo fatto la nostra parte bene in base a quello che la Costituzione afferma al terzo comma dell’articolo 27. Quali attività svolgono i detenuti nel carcere di Bollate? Abbiamo due scuole superiori, per la precisione un istituto tecnico e una scuola alberghiera. Sono due sezioni di scuole pubbliche. Inoltre, abbiamo un polo universitario, grazie alle convenzioni con l’Università Statale e l’Università Bicocca, con una settantina di iscritti a diversi corsi di laurea. La Cisco Academy fa invece formazione sulla cyber security. Spazio anche alle aziende che svolgono attività in grado di professionalizzare chi frequenta i corsi. Il carcere deve avere uno sguardo prospettico. Non deve solo pensare al qui ed ora. Deve guardare oltre. È quello che noi educatori cerchiamo di fare quotidianamente. Con gli educatori collaborano i volontari? Certo. Sono tantissimi, circa trecento, e sono preziosi. Bollate è un carcere molto aperto al territorio. Sono convinto che la pena debba riguardare tutti. Il territorio in qualche modo si deve rendere partecipe di capire cosa accade alle persone che vengono escluse da dei processi di integrazione sociale. I volontari che vengono a Bollate fanno moltissime cose. Offrono, per esempio, servizi primari, come la raccolta degli abiti o di altri oggetti di primo consumo. Partecipano con noi nel cercare di non farci sfuggire le singole storie. Basta poco perché un detenuto vada in crisi. Il carcere amplifica le sensazioni di sofferenza e di disagio. Avere l’attenzione alta su una realtà che ospita più di 1400 detenuti è possibile grazie alla collaborazione tra gli educatori e i volontari. Più occhi colgono meglio le situazioni. L’apporto dei volontari e degli operatori del terzo settore è fondamentale. Senza dimenticare il supporto prezioso degli imprenditori. Milano è una delle città con maggiore sensibilità del mondo dell’imprenditoria. Noi abbiamo ben 200 detenuti che, in base all’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario, lavorano all’esterno. Alcuni di loro sono stati assunti in contesti di cooperazione sociale, altri in aziende che prima non avevano mai visto un detenuto. Roma. “Non tutti sanno che”, la voce dei detenuti per costruire un ponte con il mondo di fuori di Valentina Stella Il Dubbio, 5 dicembre 2022 “Non tutti sanno che” è il notiziario della Casa di reclusione di Rebibbia a Roma. A dirigerla c’è il giornalista professionista ed ex vaticanista Roberto Monteforte, volontario da anni nel carcere capitolino. Tutti quelli che firmano articoli sono detenuti e formano la redazione. Proprio Roberto nell’editoriale del primo numero spiega le ragioni dell’iniziativa: “Raccontare la “vita di dentro” per favorire il percorso di recupero e di consapevolezza di chi è “recluso” e per far conoscere la realtà di una vita da “costretto”. Certo, è fatta di sofferenza e dolore, ma vi sono anche opportunità, speranze, successi quotidiani che meritano di essere condivisi. C’è poi tutta un’umanità dietro le sbarre da raccontare. L’altro obiettivo, forse ambizioso, è quello di costruire un ponte con il mondo che è “fuori”, offrendo spunti per riflettere e per superare la cultura del pregiudizio e dell’indifferenza, che porti ad un rispetto della dignità del cittadino recluso. Il mio compito da giornalista professionista è tentare di accompagnare la redazione e organizzare questo percorso, visto che non è semplice riuscire a “comunicare” andando oltre la denuncia e lo sfogo personale”. L’editoriale di Monteforte conteneva anche riflessioni sui suicidi in carcere. Tema sul quale il nostro giornale ha lanciato un appello affinché si metta fine a questa strage di vite umane, in custodia dello Stato: “È un appello che condivido - ci dice Roberto - e rilanceremo perché l’emergenza suicidi la si contrasta umanizzando il periodo di detenzione, tutelando la dignità di chi è ristretto, dando senso al tempo di reclusione con progetti che ne favoriscano la responsabilità sociale e il futuro reinserimento. Anche consentire spazio all’affettività e al rapporto con la famiglia sono un antidoto al suicidio. Questa mi pare sia la strada che offre maggiore sicurezza e che aiuta a non delinquere, ad abbattere la recidiva”. Tra i reclusi che hanno aderito al progetto giornalistico con entusiasmo c’è anche Federico Ciontoli, che abbiamo conosciuto purtroppo per la vicenda di Marco Vannini. Federico, nel numero di agosto, firma diversi articoli. Il primo ha il titolo “Il Covid 19 visto da vicino”: “Il carcere è per me casa, posto di lavoro, scuola, spazio pubblico, etc. La casa è anche posto di lavoro, lo spazio comune è anche casa, e così via. Il mio mondo è tutto racchiuso dentro quattro mura. Condivido la casa con persone che non conosco, alcune delle quali con patologie a rischio con Covid-19. Per non parlare poi delle quotidiane file per la spesa, per la fornitura, per il cambio lenzuola, dove per necessità l’uno è a stretto contatto con l’altro. E ancora in classe con i docenti, in infermeria con il personale sanitario, con gli agenti, con i/le volontari/rie, con gli/le operatori/trici. Insomma, non è cosa semplice arginare la diffusione di un agente trasmissibile quando tutto avviene nello stesso spazio, sia questo un agente della mente come la stupidità, sia del corpo come il virus. E se già fuori è complicatissimo, dentro è al limite del possibile. Al più, si possono limitare i danni. Ma c’è altro che io, da libero, non immaginavo”. Poi ci sono due interviste di Monteforte a Gabriella Stramaccioni, Garante dei detenuti del comune di Roma, e a Ottavio Casarano, già direttore di Rebibbia. Ma poi c’è anche Danilo Guadagnoli che ha scritto un articolo che ha fatto già discutere: ‘Vitto e sopravvitto lo scandalo infinito’, come spesso vi abbiamo raccontato da questo giornale. “Oggi è venerdì. Alla Cr di Rebibbia si mangia pesce. Il vitto prevede come secondo nasello congelato dell’Oceano Pacifico, oppure tentacoli di totano gigante del Mar della Cina. Come primo piatto offre spaghetti con cozze congelate provenienti dal Vietnam”. Dietro all’esotico menù, spiega il detenuto, c’è appunto lo scandalo per cui da anni sempre la stessa ditta si aggiudica l’appalto sia per il vitto che per il sopravvitto. Grazie ad un pronunciamento della Corte dei Conti ora i due bandi sono separati ma li ha vinti sempre la stessa ditta. “I controlli sono essenziali” però scrive Danilo; “questa azione di controllo non è contro qualcuno ma semplicemente a tutela dei diritti dei detenuti ad avere un vitto decente e, per la parte acquistabile, ad un prezzo giusto”. Se volete vedere come vanno a finire i racconti ma anche leggere le interviste di approfondimento realizzate sulla rivista non vi resta che collegarvi al sito di Ristretti Orizzonti, diretto da Ornella Favero, che ospita il notiziario. “Non tutti sanno. La voce dei detenuti di Rebibbia” è pure un libro edito dalla Lev, la casa editrice vaticana e curato da suor Emma Zordan che da più di otto anni è volontaria al carcere della capitale. Il volume raccoglie le testimonianze dei ristretti e dei loro familiari. Sono loro gli autori del volume. Forlì. Liceo Monti di Cesena, in 48 al laboratorio di teatro coi carcerati corriereromagna.it, 5 dicembre 2022 Emozioni intense per tre studenti del liceo “Monti” che nei giorni scorsi sono stati impegnati in una rappresentazione teatrale all’interno del carcere di Forlì. È stato il momento culminante di un laboratorio organizzato in sinergia con i detenuti di quella casa circondariale. E intanto è già ripartita con grande partecipazione la nuova fase di questo progetto di grande valore educativo, in cui la scuola cesenate crede fortemente. Sono 48 i liceali iscritti al nuovo laboratorio, che mantiene lo stesso tema della passata edizione: “Miti e Utopie”. Ma ovviamente sarà tutta da inventare una drammaturgia nuova, su cui lavoreranno i ragazzi assieme alla regista e ai coordinatori del progetto, che sono Daniela Romanelli, Paolo Turroni e Giovanna Casalboni. L’intenzione è di ispirarsi a “Uccelli” di Aristofane e a “Città invisibili” di Calvino. È Sabina Spazzoli la regista che dal 2014 porta avanti il laboratorio su doppio binario: fuori dalle mura del carcere, al “Monti”, che lo scorso maggio aveva già portato al teatro Bonci l’ultimo spettacolo; dentro il penitenziario forlivese, grazie all’associazione di volontariato “Contatto”. Il ragazzo e le ragazze coinvolte, dopo avere fatto qualche prova insieme ai 13 detenuti, sono potuti tornare ad andare in scena nella palestra del carcere, dopo uno stop dovuto al Covid. Il tema triennale di questo laboratorio teatrale all’insegna dell’insegna dell’integrazione è lo stesso per tutte le carceri dell’Emilia Romagna: dopo “Gerusalemme Liberata”, “Ubu e la Patafisica” e “Padri e Figli”, è appunto la volta di “Miti e Utopie”, tema che si sta sviluppando dall’anno scorso. Bari. Il teatrino delle meraviglie in scena con i detenuti attori del progetto Sala Prove baritoday.it, 5 dicembre 2022 Dopo il primo studio di novembre, Il teatrino delle meraviglie va in scena per un evento aperto al pubblico dal 14 al 16 dicembre (ore 20.30), all’interno dell’IPM ‘N. Fornelli’ di Bari (via Giulio Petroni, 90), con la regia e drammaturgia curata da Lello Tedeschi. Lo spettacolo, la cui drammaturgia e regia è curata da Lello Tedeschi, vede in scena la Compagnia Sala Prove, composta dai detenuti attori e non, che hanno partecipato nel 2022 al percorso di formazione all’interno del progetto formativo di produzione ‘Area Teatrale Interna - Sala Prove’. Sala Prove nasce per realizzare una struttura stabile per la ricerca teatrale all’interno dell’I.P.M. “Nicola Fornelli” di Bari, coinvolgendo professionisti del settore teatrale e giovani detenuti, dando origine ad un centro professionale di cultura e innovazione sociale. Lo spettacolo è a ingresso gratuito con posti limitati: obbligatoria la prenotazione inviando via mail una copia del documento di identità a botteghino@teatrokismet.it entro e non oltre mercoledì 7 dicembre. Arriverà conferma della prenotazione. Per informazioni si può chiamare il numero 335 805 2211. Parma. Domani concerto degli Hotel Monroe nel carcere di via Burla parmatoday.it, 5 dicembre 2022 Clizia Cantarelli e Giuseppe La Pietra: “La comunità esterna entra nelle strutture di detenzione, conosce il luogo, gli spazi, tutti gli attori che lo abitano, interessandosi di quello che realmente rappresenta la ‘comunità carcere”. Dopo la pausa dovuta alla pandemia, è ripreso il “Nuovi Mondi - Prison Tour” che da giugno 2022 sta riportando la band parmigiana degli Hotel Monroe a suonare live nelle carceri italiane. È imminente anche l’uscita di un nuovo singolo inerente a questo progetto. È un progetto particolare e importante quello che ha coinvolto la band parmigiana degli Hotel Monroe che, nell’ambito di una iniziativa per promuovere la Giustizia Riparativa come modello della l’esecuzione della pena, con il “Nuovi Mondi - Prison Tour” stanno portando il loro rock live nelle carceri di tutta Italia. Il 6 dicembre sarà la volta degli Istituti Penitenziari di Parma ospitare una nuova tappa del tour. “Lo show del Nuovi Mondi Prison Tour è a tutti gli effetti un concerto normale - racconta Nicola Pellinghelli - però in un contesto assolutamente speciale. Siamo stati fin da subito entusiasti di entrare a far parte di questo progetto, anche se non sapevamo cosa aspettarci. L’impatto con la realtà del carcere è stato fortissimo...Ci ha cambiato come persone, e come band. Abbiamo capito in pieno il significato di un concetto che per noi era ancora astratto: quello della giustizia riparativa, della quale oggi invece siamo testimoni consapevoli.” Ma che cos’è la giustizia riparativa e perché è così importante? Lo spiega Clizia Cantarelli (mediatrice penale e coordinatrice del Polo Universitario Carcere di Parma) ideatrice insieme a Giuseppe La Pietra (Pastorale carceraria di Parma.) del progetto: “La riforma dell’ordinamento carcerario del 1975 introduceva già questo concetto: oltre il modello sanzionatorio, il trattamento penitenziario deve offrire anche un percorso utile al reinserimento sociale del carcerato attraverso il lavoro, lo studio, le attività culturali e sportive, senza tralasciare rapporti con il mondo esterno. Perché questo percorso sia pienamente efficace deve coinvolgere tutte le altre parti in causa, un triangolo al cui centro si trovi il reato e ai vertici la vittima, l’autore di reato e la Comunità per creare una rete relazionale interattiva con l’obbiettivo di sanare la ferita inferta. Attraverso “Nuovi Mondi - Prison Tour” si sta applicando con efficacia questo modello. La comunità esterna entra nelle strutture di detenzione, conosce il luogo, gli spazi, tutti gli attori che lo abitano, interessandosi di quello che realmente rappresenta la ‘comunità carcere’. Al centro c’è l’interazione e la relazione tra le persone. Contestualmente il carcere esce, attraverso la narrazione, le parole, la tessitura di nuove storie che non restano ferme al momento della commissione del reato.” Nei prossimi giorni gli Hotel Monroe annunceranno l’uscita di un singolo dedicato proprio a questo progetto: “Quello che è successo è stato in qualche modo inaspettato - spiega Roberto Mori, cantante degli Hotel Monroe - Noi abbiamo portato in carcere le nostre storie, ma dal carcere, a nostra volta, abbiamo portato fuori qualcosa...Un’emozione, una storia che poi è diventata una canzone.” “Non sarà un vero e proprio singolo - continua Nicola - anche perché le sonorità di questa ballata chitarra voce sono abbastanza lontane da quelle tipiche degli Hotel Monroe che ritroverete nei nuovi brani in uscita nel 2023. Crediamo però sia importante che questo pezzo, che fino ad oggi abbiamo eseguito solo in questo tour, possa uscire da quel contesto per raccontare qualcosa del carcere al “mondo esterno”, creando quella connessione tra le parti, auspicata dal modello di giustizia riparativa.” Papa Francesco: “La fame nel mondo finirebbe, se non si fabbricassero armi per un anno” La Repubblica, 5 dicembre 2022 Pubblicato il discorso del pontefice pronunciato venerdì. Francesco ha risposto a chi lo giudica “un comunista perché parla di cose sociali” invece di parlare di Dio: “La giustizia del cuore” è presente nella Bibbia. E oggi “è già in corso la terza guerra mondiale”. “Mi fa soffrire la guerra. Fratelli contro fratelli, ma non solo questo. Pensare che in un secolo ci sono state tre guerre mondiali: la terza è questa. Pensare che se non si facessero armi per un anno, finirebbe la fame nel mondo, perché penso che quella bellica sia l’industria più grande”. Papa Francesco parlava a braccio, il 2 dicembre, quando ha ricevuto una delegazione del Seminario Rabbinico Latino Americano proveniente dall’Argentina. Le sue parole sono però chiarissime e sono state pubblicate oggi da Vatican News. “Pensare che una guerra si fa quando un impero si sente debole - ha continuato il Pontefice - allora uccide per sentirsi forte e per usare le armi che deve vendere o dare per farne di nuove. Mi fa soffrire veder provare quei droni che giravano sull’Ucraina. Che sono armi nuove che stanno testando, a spese della gente che muore”. Francesco invita tutti a lavorare come fratelli. “Contro una cultura della crudeltà, dell’uomo lupo per l’uomo, lavoriamo a partire dalla nostra fede, con questi libri sacri comuni e dando esempio di fraternità”. Il pontefice ha risposto anche a chi lo giudica “un comunista” perché “parla di cose sociali” invece di parlare di Dio. Sottolinea invece che “la giustizia del cuore” è presente nella Bibbia. “Chi aiuta soltanto e non adora è un ateo buono, niente di più. Chi adora e non aiuta, è un cinico, un bugiardo. Le due cose vanno insieme. E dobbiamo lottare per questo, affinché la nostra fede si faccia opere e che le nostre opere ci portino alla fede. È un circolo”. Immigrazione da gestire con realismo: cinque proposte concrete di Marco Impagliazzo* Corriere della Sera, 5 dicembre 2022 Il Presidente della Comunità di Sant’Egidio: gli stranieri residenti in Italia sono circa 5 milioni e 200mila unità, l’8,8 per cento della popolazione, persone che, in diverse forme, contribuiscono ormai da anni alla crescita della nostra economia. Caro direttore, l’immigrazione in Italia andrebbe, una volta per tutte, affrontata con realismo pensando al bene comune, senza correre dietro ad immagini distorte o allarmistiche, per non parlare di espressioni e giudizi che aprono il campo a manifestazioni intolleranza e xenofobia. Soprattutto, andrebbe combattuta l’idea che si tratta di un fenomeno ingestibile. È la stessa realtà a smentirlo. Basta pensare che gli stranieri residenti in Italia sono circa 5 milioni e 200mila unità, vale a dire l’8,8 per cento della popolazione, persone e famiglie che, in diverse forme, contribuiscono ormai da anni alla crescita della nostra economia e al nostro gettito fiscale. Un numero che dimostra quanto sia possibile integrare chi viene da altre nazioni nel tessuto socio-economico del nostro paese. È questa la strada maestra che occorre continuare a percorrere: la presenza regolare. Perché farebbe bene non solo agli stranieri che aspirano a vivere con dignità in un paese in cui c’è lavoro e democrazia, ma anche agli italiani che peraltro spesso li richiedono senza riuscire a farli entrare, in assenza di strumenti che lo consentano. Infatti, secondo i dati Eurostat, per mantenere il suo livello di produttività l’Italia dovrebbe acquisire ogni anno almeno 200mila lavoratori stranieri. Perché non raggiungere o almeno avvicinarci a questa quota fisiologica anziché lasciare alla criminalità la gestione dei flussi migratori che alimentano i viaggi sulle carrette del mare e, di conseguenza, anche le troppo frequenti tragedie nelle acque del Mediterraneo? Gestire anziché farsi gestire. Alcune proposte concrete, che si possono riassumere in 5 punti, aiuterebbero a prosciugare l’irregolarità a vantaggio di tutti. Prima di tutto una revisione al rialzo del cosiddetto “decreto flussi”, cioè la quota di persone che possono entrare ogni anno per motivi di lavoro. L’ultimo, varato nel dicembre 2021, ha previsto l’ingresso di 69.000 unità allargando la platea dei candidati rispetto agli anni precedenti, ma si tratta di una cifra ancora inadeguata rispetto le esigenze. In secondo luogo: è giusto privilegiare l’ingresso ai lavoratori che provengono da paesi con i quali l’Italia ha stipulato un accordo di cooperazione, ma ciò dovrebbe avvenire solo in modo prioritario e non esclusivo, altrimenti si preclude questa possibilità a nazionalità che hanno dimostrato un’importante capacità di integrazione e di radicamento come quella peruviana e colombiana, solo per fare due esempi, o che resterebbero nelle mani dei trafficanti di essere umani, come nel caso dell’Eritrea o di altri paesi africani. Se si vuole davvero contrastare l’immigrazione illegale occorre che l’ingresso regolare venga visto, da chi intende migrare, come un obiettivo raggiungibile. Terzo: è giusto privilegiare alcuni settori produttivi particolarmente richiesti (come quello dell’autotrasporto, dell’edilizia e del turistico alberghiero) ma non bisogna escludere altre professionalità come quelle che riguardano i servizi domestici o di assistenza alle persone fragili e alle famiglie, per le quali si registra una forte domanda inevasa. Quarto: stabilizzare la norma del giugno scorso (aggiuntiva al decreto flussi) che prevede di presentare la domanda di assunzione anche per i lavoratori stranieri non residenti ma presenti in Italia. In altre parole, uscendo dal linguaggio burocratico, favorire il prosciugamento degli immigrati che vivono nel nostro paese ma che, per motivi vari, attualmente risultano irregolari. La gran parte di loro lo sono infatti solo per motivi amministrativi e non perché hanno violato la giustizia. Quinto: introdurre una quota annuale di ingressi per “ricerca lavoro” su chiamata di un “prestatore di garanzia” che assicurerebbe il mantenimento della persona per almeno un anno. Il motivo è presto detto: questo meccanismo, sia pure contingentato, permetterebbe a molti parenti già presenti in Italia di far venire alcuni familiari in modo regolare invece che clandestinamente. Cinque proposte facilmente applicabili perché in sintonia con il nostro sistema normativo e facilmente condivisibili se ci si pone di fronte al fenomeno dell’immigrazione non in modo ideologico ma con risposte concrete che favoriscono l’integrazione e, quindi, la crescita umana, sociale ed economica del nostro paese. *Presidente della Comunità di Sant’Egidio Migranti trattati come animali nell’inferno del Cpr di Gradisca di Gaetano De Monte Il Domani, 5 dicembre 2022 Nel Centro di permanenza per i rimpatri di Gradisca d’Isonzo, comune di seimila anime vicino Gorizia, negli ultimi due anni sono morte quattro persone. “All’interno le condizioni delle persone sono peggio di quelle degli animali in gabbia allo zoo”, racconta l’ex senatrice Paola Nugnes. Ora le storie di questa umanità fragile e sofferente, raccolte dalle ex parlamentari Nugnes e Sarli, sono ora all’esame dei magistrati. Bahssin (il nome è di fantasia ma la sua storia è tragicamente vera) ha appena 19 anni, ed è arrivato in Italia dal Marocco quando non aveva ancora raggiunto la maggiore età, da minore straniero non accompagnato. Secondo quanto prevede la normativa italiana, è stato da subito accolto presso una struttura Sai/ex Sprar, dove ha svolto un ottimo percorso di integrazione linguistica, lavorativa e scolastica. Quando nel 2021 ha compiuto 18 anni, però, ha dovuto lasciare il Centro. Ed è iniziata la sua odissea. Vita ai margini - Il giovane marocchino è finito a vivere in strada, senza alcuna possibilità di rinnovare il proprio permesso di soggiorno. Così, quando è stato fermato dalla polizia per un semplice controllo dei documenti, è stato immediatamente trasferito in un Centri di permanenza per i rimpatri dove ha trascorso mesi in una cella. Senza aver commesso alcun reato Basshin è entrato in un girone infernale. Recluso a Gradisca d’Isonzo, seimila anime in provincia di Gorizia. Una condizione che all’inizio il giovane uomo ha fatto fatica ad accettare, tanto che ha cercato di impiccarsi. Quando la scorsa estate le allora parlamentari Paola Nugnes (ex M5s) e Doriana Sarli (M5s) hanno raccolto l’invito dell’associazione LasciateCientrare e hanno visitato il Cpr di Gradisca, hanno trovato Basshin in una cella di isolamento, “assolutamente deperito, in sciopero della fame, tremante e con ben visibili lesioni autoimposte”. Ma per il giudice di pace che aveva convalidato la permanenza nel Centro, era “idoneo al trattenimento”. “Quando siamo entrate lì dentro il 17 giugno scorso ci hanno accolto sbarre altissime e pareti di vetro, in un clima di militarizzazione costante”, dice l’ex senatrice Nugnes. ”Siamo riuscite, con non poche difficoltà, a incontrare nel giro di otto ore tutte le 86 persone detenute. Molte di queste avevano legami con il nostro territorio. C’era un cittadino serbo che ci ha mostrato i certificati di nascita dei figli nati in Italia; un cittadino pakistano, ora rimpatriato, aveva con sé decine di fotografie scattate insieme alla moglie e i figli, anche questi nati in Italia. Un cittadino tunisino, invece, aveva sposato una donna italiana che, qualche giorno dopo la nostra visita ci ha contattato attraverso Facebook per chiederci di aiutarla a rivedere suo marito”. Diritti violati - Le storie di questa umanità fragile e sofferente, raccolte dalle ex parlamentari, sono ora all’esame dei magistrati. Tra tutte quella che colpisce di più è il calvario di un uomo che è passato attraverso tre ospedali psichiatrici giudiziari - Modena, Bologna, Torino - per poi arrivare al Centro di permanenza per il rimpatrio di Gradisca D’Isonzo. Qui, nella cella di isolamento dove è stato recluso, l’uomo soffre di allucinazioni e pensa di dormire accanto alla mamma. Si muove in punta di piedi all’interno dei sedici metri quadrati che gli sono concessi. Mangia con le mani per non far rumore con le posate di plastica usa e getta. Eppure, lo psichiatra del Centro l’ha definito in una perizia “idoneo al trattenimento”. E questo nonostante un tentativo di suicidio, i disturbi specifici di personalità e le psicosi legate all’assunzione di psicofarmaci, a cui si devono aggiungere patologie come l’epatite B e l’obesità. Secondo i legali Stella Arena, Carmine Malinconico, Martina Stefanile e Gianluca Vitale, si tratta di casi in cui appare evidente la lesione di importanti diritti sanciti dalla nostra Costituzione e dalle norme internazionali. Per questo, assieme a Nugnes e Sarli, hanno presentato un esposto alla procura della Repubblica di Napoli indirizzato a quella di Gorizia, “in cui la compiuta esposizione dei fatti osservati e l’individuazione di diverse ipotesi di reato su cui sarà compito della Procura indagare, si pone come un atto di doveroso senso civico, istituzionale e di giustizia”. Il parlamento sa - Prima dei magistrati, erano stati il parlamento e l’allora ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, a essere informati delle condizioni di sofferenza degli stranieri detenuti nel Cpr di Gradisca. Due interrogazioni, una presentata da Sarli insieme ad altre ex deputate del gruppo Manifesta e di Forza Italia in commissione Affari costituzionali alla Camera e una in Senato da Nugnes e dalla senatrice, Virginia La Mura (M5s), erano state presentate al ministero dell’Interno. Si chiedeva alla ministra “quali iniziative urgenti intenda mettere in atto per garantire l’effettiva attuazione dello schema di capitolato d’appalto da parte dell’ente gestore del Cpr di Gradisca d’Isonzo”. Le interrogazioni non hanno mai ricevuto risposta. Ombre sui gestori - Tra i fatti riscontrati e ora all’attenzione degli inquirenti vi sono, si legge nella denuncia, “una situazione igienico sanitaria preoccupante, letti senza materassi, latrine in condizioni indegne”. Quanto basta ad accusare di irregolarità la cooperativa che nell’agosto del 2019 si è aggiudicata una gara d’appalto da quasi 5 milioni di euro l’anno: la onlus Edeco, che poi ha cambiato denominazione in Ekene nel marzo del 2021. Come ha svelato il rapporto “Buchi neri. La detenzione senza reato nei Centri di permanenza per i rimpatri”, curato dai legali Federica Borlizzi e Gennaro Santoro per la Cild, la Coalizione italiana libertà e diritti civili: “Edeco è una cooperativa sociale padovana nata, con altro nome, nel 2011 e che, nel corso degli ultimi 10 anni, ha spesso modificato denominazione, già oggetto di interrogazioni parlamentari e di procedimenti giudiziari collegati alla gestione nel settore dell’accoglienza”. Ciò non ha impedito alla coop di vincere l’appalto milionario per la gestione del Cpr, bandito dal ministero dell’interno. Migranti. A Firenze la sinistra dice no No a qualsiasi ipotesi di Cpr nove.firenze.it, 5 dicembre 2022 La nota di Anpi, Arci, Cgil, Libertà e Giustizia Firenze, mentre i sindaci Pd aprono a Centro permanenza per i rimpatri. Già in passato ci siamo espressi contro la proposta di aprire un Cpr in Toscana. Al prefetto e al sindaco ricordiamo che Firenze è da sempre terra di accoglienza e inclusione e che in passato la Toscana ha rivendicato una idea diversa di rapporto con i cittadini immigrati che vengono da noi -scrivono in un documento comune Anpi Firenze, Arci Firenze, Cgil Firenze, Libertà e Giustizia Firenze- Aprire un centro in cui finiranno quasi esclusivamente persone senza documenti e richiedenti protezione, perché questo avviene nella maggior parte dei casi, è intollerabile. Inoltre prevedere di togliere la libertà personale, senza alcuna condanna, è un ulteriore errore, che mina la nostra convivenza civile. Siamo convinti che le risorse a disposizione sul tema immigrazione sarebbero meglio spese per costruire percorsi di accoglienza e integrazione. Si intervenga infine a sostegno delle vittime di grave sfruttamento lavorativo, dal momento che sono mesi che dovrebbe essere convocato un tavolo territoriale sul tema. Sarebbe tempo ben speso, invece di riproporre soluzioni che hanno già fallito da tempo”. Un fermo NO a qualsiasi ipotesi di Cpr in Toscana anche da parte dell’Accoglienza Non Governativa, la rete di 16 associazioni, cooperative ed enti del Terzo Settore della Toscana, impegnate a promuovere una rete di accoglienza solidale e sostenere percorsi di integrazione sociale, economica e culturale dei cittadini presenti sul territorio dell’area metropolitana di Firenze. In Italia i centri di detenzione amministrativa per persone migranti esistono da oltre 20 anni. Nati con la legge Turco-Napolitano come Centri di Permanenza Temporanea, trasformati in Centri di Identificazione ed Espulsione dagli allora ministri Bossi e Maroni, sono stati infine ora rinominati Centri di Permanenza per il Rimpatrio. I rapporti redatti dalle organizzazioni indipendenti che hanno avuto accesso ai Centri in questi ultimi vent’anni, così come l’ultimo rapporto Dietro le Mura, abusi, violenze e diritti negati nei CPR d’Italia, uscito ad ottobre 2022 a cura della campagna LasciateCIE entrare, hanno documentato e documentano una condizione cronica lesiva dei diritti umani fondamentali e della dignità, nonché condizioni di trattenimento pregiudizievoli per il diritto alla salute, la cui tutela è affidata allo stesse ente gestore, in particolare relativamente all’accesso ai farmaci, alla salute mentale e alla protezione delle categorie vulnerabili. Tale quadro, pur con livelli di gravità variabili, ha sempre interessato la totalità dei Centri dislocati in tutta la penisola. “Non avrei mai immaginato che anche i sindaci del Pd, un giorno, avrebbero aperto alla possibilità di aprire in Toscana un centro di permanenza temporanea per i rimpatri. La proposta è arrivata dal prefetto di Firenze, Valerio Valenti, sul tavolo della Conferenza regionale autorità di pubblica sicurezza, e ha incontrato il parere favorevole dei sindaci dei capoluoghi di provincia toscani. Sono in ritardo di 30 anni, noi di centrodestra lo proponiamo dagli Anni Novanta, ma ci siamo sempre sentiti dare dei razzisti dai vari esponenti Pds, Ds e Pd che si sono succeduti nei decenni scorsi. Però meglio tardi che mai, è il caso di dire” dichiara il capogruppo di Forza Italia al Consiglio regionale della Toscana, Marco Stella. “Gli ultimi dati del dipartimento di Pubblica Sicurezza del ministero dell’Interno - evidenzia Stella - raccontano che nei primi sei mesi del 2021, gli stranieri hanno commesso il 59% dei furti con destrezza in Italia, il 54% dei furti negli esercizi commerciali e il 52% di rapine in pubblica via. Per le violenze sessuali siamo al 39%, per i reati di droga al 36%, minacce o percosse al 25%. Gli stranieri sono stati poi protagonisti del 20% degli omicidi volontari e colposi, truffe e riciclaggio di denaro sporco. Gli stranieri presenti in Italia sono 5.756.000, quindi l’8,45% della popolazione residente che commette il 30% dei reati con una propensione al crimine quattro volte superiore rispetto agli italiani. Gli immigrati sono il 32% della popolazione carceraria italiana. Credo che questi dati siano sufficienti a far comprendere l’urgenza di un centro per rimpatriare gli stranieri che commettono reati”. Migranti. Il processo impossibile alla Ong tedesca: “Non ci sono interpreti” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 5 dicembre 2022 Gli imputati rischiano fino a vent’anni. Ma a Trapani non si sa come tradurre le udienze. Darius Beigui è incredulo. Per la terza volta in tre mesi è volato dalla Germania fino a Trapani per potersi difendere nel processo in cui rischia vent’anni di carcere per associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e per la terza volta non ci è riuscito. Parla tedesco e non conosce l’italiano e, per incredibile che sembri, a Trapani né la polizia né la Procura sono in grado di portare in aula un interprete. È ridicolo - sbotta - La stessa Procura che si è coordinata con successo con cinque diverse agenzie di polizia, comprese le unità antimafia e i servizi di intelligence, per fermare una nave di soccorso, ha ripetutamente fallito nel garantire il diritto fondamentale ad un processo equo. Mi sembra che non vogliano nemmeno sapere cosa ho da dire”. Darius è uno dei componenti dell’equipaggio di giovanissimi tedeschi che nell’estate 2016, a bordo della nave Iuventa della Ong Jugend Rettet, mise in salvo 2000 persone. Soccorsi effettuati grazie adi appuntamenti con gli scafisti, è la tesi della Procura di Trapani che - dopo una lunghissima indagine suffragata anche dalle prove di un infiltrato della Polizia a bordo di un’altra nave umanitaria che operava nello stesso tratto di mare e con tanto di giornalisti intercettati - ha deciso di chiedere il processo per ventuno persone, componenti degli equipaggi e volontari di tre Ong, la Jugend Rettet, Save the children e Msf. Una storia diventata anche un film realizzato dal regista Michele Cinque.  La Iuventa, ormai ridotta ad un ammasso di rottami, è sotto sequestro da cinque anni al porto di Trapani, il processo è l’altra faccia della medaglia di quello che vede imputato a Palermo Matteo Salvini, l’unica di tante inchieste aperte sull’operato delle navi umanitarie ad essere approdata davanti ad un giudice, gli imputati e le Ong (in un momento come questo dove la flotta di soccorso civile nel Mediterraneo è di nuovo nel mirino dei governi di mezza Europa) scalpitano per difendersi e affermare il principio del dovere di soccorso delle vite umane su tutto. Ma a Trapani non si riesce a fare un processo garantendo i diritti degli imputati, e il tribunale ha deciso di ammettere in aula (il procedimento in fase di udienza preliminare è a porte chiuse) osservatori internazionali. “È la prima volta - dice l’avvocata Francesca Cancellaro - che un tribunale in Italia consente la presenza di osservatori internazionali in un’udienza preliminare dando alla società civile l’opportunità di essere direttamente informata su ciò che accade in aula”. Surreale quanto successo al tribunale di Trapani venerdì quando, per la terza volta, si è provato ad interrogare Darius Begui. Il pm ha portato in aula come interprete un funzionario di polizia in pensione, il cui nome non è nell’elenco ufficiale. Dopo trenta minuti, l’interrogatorio è stato interrotto e la difesa si è rifiutata di firmare il verbale. “Siamo esterrefatti per quanto accaduto - racconta l’avvocato Nicola Canestrini - il verbale di interrogatorio non rispettava affatto le dichiarazioni che il mio assistito aveva fatto, quindi abbiamo chiesto di correggere ma il procuratore ha negato. Perciò non ci è rimasta altra strada che rifiutare la firma”. La Ong tedesca rivendica il diritto alla difesa: “Prendere di mira le Ong serve a giustificare le vergognose decisioni politiche di oggi e a scatenare nuovamente un attacco che criminalizza le persone in movimento e quelle in solidarietà con loro”. Iran. Dietro la lotta delle donne la rivolta generazionale contro un regime di dinosauri integralisti di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 5 dicembre 2022 Da oltre due mesi una formidabile ondata di contestazione sta scuotendo le fondamenta della repubblica sciita: un clima bollente che ricorda la rivoluzione del 1979. Sono giovani di ogni classe sociale che chiedono più libertà, di movimento, di pensiero, di abbigliamento ricevendo in cambio solamente una repressione feroce. È una vampata che attraversa tutto l’Iran da oltre due mesi e che scuote le fondamenta della repubblica sciita. In prima linea le donne, delle grandi città, dei campus universitari ma anche nei piccoli centri di provincia dove il consenso degli ayatollah sembra ancora altissimo e la tradizione regna sovrana. E dietro di loro tutta una generazione, quella dei venti trentenni nati quando il regime aveva già esaurito la spinta propulsiva della Rivoluzione e che hanno conosciuto solamente la repressione di Stato e una classe politica di dinosauri integralisti. Certo, negli inverni del 2017 e del 2019 in Iran ci sono state massicce proteste di piazza, ma si trattava di un movimento “classico”, perlopiù di lavoratori maschi che protestavano contro l’inflazione e la crisi economica, in particolare contro l’aumento dei prezzi del carburante, la miccia che fece scoppiare la contestazione e che come sempre fu repressa nel sangue. Ora in piazza ci sono invece migliaia di giovani di ogni classe sociale che chiedono più libertà, libertà di movimento, di pensiero, di abbigliamento, gridando “morte alla repubblica islamica”. E la miccia stavolta è stata innescata da un orrendo crimine: la morte di Mahsa Amini, la ragazza di origine curda arrestata dalla polizia religiosa a Teheran il 16 settembre perché indossava il velo in modo “non conforme” e deceduta due giorni dopo in circostanze mai chiarite. Il suo sacrificio ha unificato la rabbia a livello nazionale, dando vita a un movimento del tutto diverso da tutti quelli che lo hanno preceduto per ampiezza e radicalità. Non era mai capitato infatti che la polizia facesse irruzione a Narmak, quartiere popolare di Teheran e feudo dell’ex presidente ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad, una storica roccaforte del consenso al regime oggi ribollente di cortei e manifestazioni. O che alle proteste si unissero anche i proprietari agricoli o i grandi commercianti dei bazar che non proclamavano lo sciopero dalla primavera del 1979, una classe produttiva che è sempre stata dalla parte degli ayatollah e che adesso chiede un’alternativa politica. C’è poi una dimensione anticlericale manifesta, una messa in discussione dell’influenza claustrofobica che i vertici religiosi esercitano su tutta la società iraniana, dalla sfera privata alla vita pubblica. Lo “schiaffo del turbante”, il gesto provocatorio diventato virale sui social network con cui i giovani fanno cadere per terra i copricapo dei mullah peraltro è stato mutuato dalla Rivoluzione del 1979 quando i militanti khomeinisti sbeffeggiavano i chierici “collaborazionisti” con il sistema politico guidato dallo Scià Reza Palevi e con la sua spietata polizia segreta. Ma il nocciolo duro del regime, religiosi, pasdaran, ufficiali dello stato maggiore, resiste, ossificato ma compatto. E rilancia, facendo quadrato attorno alla declinante guida suprema Alì Khamenei e al monopolio della violenza, rispondendo alle piazze con una repressione durissima: oltre 250 i manifestanti uccisi secondo le ong il governo parla di 150 vittime), migliaia gli arresti. Con i tribunali, che alla fine di processi farsa, hanno già emesso le prime condanne a morte per impiccagione. Decine i reporter finiti in cella il che fa dell’Iran la terza “prigione” al mondo per i giornalisti dopo la Cina e il Myanmar della giunta golpista. Nell’impeto fanatico di ristabilire l’ordine il regime trova anche l’occasione di regolare vecchi conti aperti. Come con i poveri curdi, bombardati dalle milizie governative nelle città di Bukan, Javanrud, Mahabad e Piranshahr, teatro anch’esse di imponenti cortei e scontri con le forze dell’ordine che arrestano i feriti facendo irruzione negli ospedali. Oppure nello sperduto e sottosviluppato Baluchistan regione al confine pakistano a maggioranza sunnita che rappresenta il 3% della popolazione ma conta quasi un terzo dei manifestanti uccisi. È questa radicalizzazione del conflitto, anche dal punto di vista militare, l’aspetto più pericoloso per Khamenei e soci, neanche più capaci di mettere in scena la dialettica formale tra riformisti e conservatori ma soprattutto di aprire canali di mediazione con gli oppositori. E le generiche accuse agli stati Uniti e alla Cia che avrebbero occultamente orchestrato le rivolte sono un mantra a cui non sembra credere neanche chi lo pronuncia. Bisogna stare attenti però a non interpretare questo potente movimento di contestazione attraverso gli schemi delle democrazie occidentali o peggio con spocchia paternalista, pensando che i giovani iraniani vogliano costruire una società “come la nostra”. Aspirano come tutti noi diritti e libertà, che però non sono un’esclusiva dell’Occidente e se un giorno vinceranno la battaglia dovranno decidere loro e soltanto loro quale sarà il volto dell’Iran di domani. Iran. Una crepa nel muro iraniano, sospesa la polizia morale di Gabriella Colarusso, Paolo Mastrolilli La Repubblica, 5 dicembre 2022 Il procuratore generale Montazeri annuncia la creazione di una commissione per riesaminare la questione del velo. Poi accenna alla sparizione dalle strade degli agenti che vigilano sull’abbigliamento femminile. Perplessità degli Usa. Dopo tre mesi di proteste, con più di 400 morti e 18mila arresti, e alla vigilia di una nuova chiamata a scendere in piazza, il movimento iraniano pro-democrazia ottiene un primo, piccolo, risultato: costringere l’establishment ad aprire una discussione sul velo obbligatorio, simbolo fondativo della Repubblica Islamica, mostrando che le posizioni all’interno della teocrazia iraniana non sono univoche.  La commissione per il velo - Sabato il procuratore generale Mohammad Jafar Montazeri ha annunciato due cose. La prima è la nascita di una commissione congiunta tra il Parlamento e il consiglio Supremo della rivoluzione culturale per “riesaminare” la questione del velo. È improbabile che la guida suprema Khamenei sia disposta a concessioni radicali su quello che considera il suo muro di Berlino: l’ayatollah ha in mente gli ultimi giorni dello Scià, le prime concessioni che incentivarono le piazze e portarono alla sua caduta. Ma l’esame della commissione potrebbe determinare cambiamenti nel modo in cui viene applicata e fatta rispettare la legge.  Una rivoluzione culturale - Al di là della propaganda, che accusa i manifestanti di essere burattini nelle mani di intelligence straniere, la leadership iraniana sa di trovarsi di fronte a una rivoluzione culturale. Le immagini delle donne che si tolgono il velo, delle giovanissime che lo bruciano sostenute dai loro compagni, degli universitari che a mensa abbattono le separazioni di genere sono il segnale di uno smottamento profondo, una generazione che chiede democrazia, parità, diritti civili e politici.  Una generazione con cui non si può non fare i conti, in un Paese dove l’età media della popolazione è 32 anni. Qualche settimana fa, è stato Ali Larijani, un moderato conservatore, potente ex speaker del Parlamento, a esprimersi a favore della libertà di scelta sul velo.  Durante la conferenza, a Montazeri è stato chiesto anche come mai la Gasht-e-Ershad, la cosiddetta polizia morale accusata della morte di Mahsa Amini che ha dato il via alle proteste, non si vedesse più per le strade dell’Iran. Il procuratore ha risposto che la Gasht -e-Ershad non dipende dalla magistratura, e che “chiunque l’ha creata l’ha chiusa”.  Dal 2005 a oggi - Voluta nel 2005 dal governo di Ahmadinejad per vigilare sul rispetto dei rigidi codici di abbigliamento imposti alle donne, era stata messa da parte durante gli anni del moderato Rouhani e riportata in forze per le strade dal conservatore Raisi. Dai giorni successivi all’inizio delle manifestazioni è sparita. Le parole del procuratore hanno fatto il giro del mondo, ma non ci sono conferme ufficiali che la polizia morale sia stata abolita. Piuttosto, è una sospensione de facto. La giornalista di Bloomberg Golnar Motevalli chiarisce: “Non c’è stato alcun annuncio ufficiale di un’abolizione formale o di uno scioglimento della polizia morale, ma un riconoscimento da parte di un alto funzionario giudiziario che le sue attività sono state sospese/interrotte. La gestione delle pattuglie è da anni competenza di Polizia e ministero dell’Interno”. Il quotidiano filogovernativo Al-Alam accusa la stampa estera di strumentalizzare una notizia falsa per mostrare che il governo fa concessioni in realtà inesistenti, alcuni attivisti invece considerano le parole di Montazeri un diversivo per calmare la tensione. Negli Usa prevale la prudenza, se non lo scetticismo. Parlando alla Cbs, il segretario di Stato Blinken ha commentato così la notizia: “Dipende dal popolo iraniano. Riguarda loro, non noi. Quello che abbiamo visto dopo l’uccisione di Mahsa Amini è stato lo straordinario coraggio dei giovani iraniani, in particolare delle donne, che difendono il diritto di dire ciò che vogliono, e indossare ciò che vogliono. Se il regime ha ora risposto in qualche modo, potrebbe essere una cosa positiva. Ma dobbiamo vedere come si svolge effettivamente nella pratica e cosa ne pensa il popolo iraniano”. E da Roma il ministro degli Esteri Tajani osserva: “Se sarà confermato, può essere visto come un atto di buona volontà Ma è solo un piccolo passo che non cambia la situazione di repressione che resta inaccettabile”. Iran. Polizia morale: le pattuglie in divisa verde che vanno a caccia delle “malvelate” di Andrea Nicastro Corriere della Sera, 5 dicembre 2022 Dai tempi del fondatore Ayatollah Khomeini, la Gasht Ershad ha avuto nomi e violenze diverse, ma non è mai sparita. Tutto nasce dall’hisbah, concetto del Corano, che invita ad apprezzare ciò che è giusto e disprezzare ciò che è sbagliato per rendere migliore se stessi e quel che ci circonda. In nome dell’hisbah si può portare la pace nel mondo, aiutare i poveri, non rubare, non tradire come in ogni religione oppure ossessionarsi con i vestiti delle donne. Nell’Afghanistan talebano c’era (ed è tornato) un ministero per “la promozione della virtù e la repressione del vizio”: ha fruste e pietre per punire gli adulteri o le donne che col “sensuale” rumore dei loro tacchi turbano gli uomini. In Arabia Saudita e Palestina si accontentano di comitati. Nei secoli, l’hisbah ha giustificato altre persecuzioni (vino o strumenti musicali, ad esempio), ma oggi gira tutto attorno al sesso. In Iran l’hisbah vuol dire camionette blindate e divise verdi delle Gasht Ershad, le pattuglie della Polizia morale. Stanno (o stavano visto l’annuncio di ieri) agli angoli più trafficati e riempiono il furgone di badhejab, le “malvelate”. Un foulard caduto dai capelli, un mantò (spolverino) aderente, un mascara calcato, basta a farle finire al commissariato. A Teheran, la questura “morale” è in via Vosarah dove è stata uccisa a botte Masha Amini, la ragazza simbolo di questa incredibile rivolta “donne, vita, libertà”. Lì le ragazze venivano “rieducate” a voce o a manganellate sulla scandalosità dei capelli, sui colori peccaminosi dei soprabiti, sulle diaboliche sfumature dell’ombretto. In genere firmavano di aver capito e venivano consegnate a un parente/guardiano maschio. Altre volte finiva peggio. Difficile credere che questa stortura di un principio religioso possa svanire senza che cambi l’essenza stessa della Repubblica Islamica d’Iran. Dai tempi del fondatore Ayatollah Khomeini, la polizia morale ha avuto nomi e violenze diverse, ma non è mai sparita. Negli anni ‘80 c’erano le pattuglie Jondollah della polizia e quelle Sarollah dei Pasdaran. Nel 1997 una legge introdusse ufficialmente multe, prigione e frustate per le malvelate. L’attuale Gasht Ershad nasce nel 2006 con il presidente Ahmadinejad. Il resto è la continua sfida tra donne e poliziotti. I pantaloni si sono fatti via via più aderenti, i colori brillanti, i soprabiti morbidi a seguire le curve. Un arresto, una firma e di nuovo in strada a sfidare il regime con i loro abiti. Teheran fa sapere che l’abolizione della polizia morale non significa rinuncia all’obbligo del velo. Ci sono altri modi per imporlo. Più moderni dei manganelli come le telecamere che già scrutano dentro le auto e identificano le malvelate. La prima volta sarà una multa, poi il ritiro della patente, poi il sequestro dell’auto se il guardiano maschio non vigila sulla passeggera. Se ne va, forse, la polizia morale, ma l’ossessione continua. L’Honduras sospenderà i diritti costituzionali per combattere le gang criminali La Repubblica, 5 dicembre 2022 In alcune aree delle due principali città del Paese le bande hanno incendiato autobus e ucciso conducenti che non pagavano la loro “tassa di guerra”, spingendo aziende e persone a cedere per paura alle estorsioni. Stretta anche in Salvador. Il governo dell’Honduras ha annunciato ieri che sospenderà alcuni diritti costituzionali in aree delle due più importanti città che sono controllate da gruppi criminali. I diritti saranno sospesi sulla base di un’emergenza di sicurezza nazionale che durerà 30 giorni e che verrà implementata martedì in alcune delle zone più povere della capitale, Tegucigalpa, e nella città settentrionale di San Pedro Sula. “Lo stato di eccezione parziale entrerà in vigore martedì 6 dicembre alle 18 per trenta giorni, per promuovere l’attività di sviluppo economico, investimento e commercio”, ha affermato in una nota il segretariato per la sicurezza del Paese. Le città sono alle prese con una cosiddetta “tassa di guerra”: le bande offrono protezione e dicono che chi paga non verrà ucciso. Le bande hanno incendiato autobus e ucciso conducenti che non pagavano il pedaggio, spingendo aziende e persone a pagare per paura. La misura, che dovrebbe essere approvata dal consiglio dei ministri, fa parte del piano del presidente Xiomara Castro per affrontare le bande violente. Il piano segue le pressioni di uomini d’affari, camionisti, conducenti di autobus e taxi, residenti e organizzazioni non governative che affermano che l’estorsione - in gran parte da parte delle bande Mara Salvatrucha MS-13 e Mara Barrio 18 - è peggiorata negli ultimi mesi. Quest’estorsione genera profitti annuali pari a 737 milioni di dollari per le bande, quasi il 3% del prodotto interno lordo del Paese, secondo l’Association for a More Just Society, un’organizzazione non governativa focalizzata sulla sicurezza. Intanto circa 10mila soldati hanno circondato la città di Soyapango a El Salvador nell’ambito di un’operazione di massiccia repressione delle bande: lo ha annunciato il presidente Nayib Bukele, come riferisce la Bbc. Tutte le strade che portano alla città sono state bloccate e le forze speciali hanno perquisito le case dei membri delle bande. Gli agenti hanno fermato chiunque tentasse di lasciare la città e controllato i documenti d’identità. Il ministro della giustizia ha reso noto che finora sono state arrestate 12 persone. Soyapango è una delle città più grandi di El Salvador con oltre 290mila abitanti, si trova a soli 13 chilometri a ovest della capitale San Salvador, ed è da tempo conosciuta come un centro per l’attività violenta delle gang. “A partire da questo momento, il comune di Soyapango è totalmente circondato”, ha scritto su Twitter il presidente Bukele. “Le squadre della polizia e dell’esercito hanno il compito di trovare uno per uno tutti i membri della banda ancora lì”. E ha aggiunto che la gente comune “non ha nulla da temere”. Le immagini rilasciate dal governo hanno mostrato truppe pesantemente armate con giubbotti antiproiettile e con fucili d’assalto.