Tre proposte per evitare l’Apocalisse nelle carceri di Franco Corleone L’Espresso, 4 dicembre 2022 Il sistema carcerario è incompatibile con la rieducazione, perché troppo brutale. Le sue strutture edilizie e le condizioni inumane sono al limite della tolleranza, sono una vergogna della nostra pretesa giuridica”. “La stessa prigione è una forma di pena da rivedere profondamente. Rispetto a qualche anno fa, qualcosa si è fatto, ma è ancora troppo poco di fronte alle emergenze note a tutti, di cui quella più esplosiva è il numero dei detenuti”. Ho scelto due frasi di Carlo Nordio, contenute nel dialogo con Giuliano Pisapia sulle riforme possibili, pubblicato nel 2010 nel volume “In attesa di giustizia”. Il confronto tra un politico di sinistra e un magistrato liberale e moderato trovava motivo nell’aver entrambi presieduto commissioni per la riforma del codice penale (rispettivamente nel 2004 e 2006) e nell’aver individuato soluzioni simili, ma con lo stesso destino delle precedenti commissioni Pagliaro (1988) e Grosso (2000). Quest’ultima improntata al diritto penale minimo, con la pregevole indicazione di cambiamento del sistema delle pene attraverso il superamento della centralità del carcere e il favore sia verso il principio di riserva di codice sia verso quello di offensività. La presenza di Nordio nel governo Meloni rappresenta una vera contraddizione: dipenderà da lui che questa si riveli una contraddizione felice, e realizzi l’obiettivo dichiarato ripetutamente di cancellare il codice Rocco e di approvare un codice repubblicano dopo 90 anni, anziché un tradimento delle sue idee. La tragedia di 79 suicidi nelle carceri italiane fino a novembre scorso rischia di costituire un alibi per versare lacrime di coccodrillo, ma non fare nulla per cambiare. Cosa andrebbe fatto lo sappiamo almeno dal 1949: lo indicava già Ernesto Rossi a Piero Calamandrei, direttore della rivista “Il Ponte” e promotore della commissione parlamentare d’inchiesta sulle carceri e sulla tortura nel 1948. La prima verifica sulle buone intenzioni di Nordio si manifesterà entro la fine di dicembre con la definizione del decreto-legge sull’ergastolo ostativo, sui rave party e sulla riforma Cartabia. E, ancora prima, con la scelta della persona a cui affidare la delega del carcere, al viceministro Sisto o a uno dei sottosegretari, e soprattutto con la nomina del capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, con la conferma dell’ottimo Carlo Renoldi o la preferenza per un magistrato giustizialista. Certo non è un buon segno la delega per la politica antidroga affidata da Giorgia Meloni ad Alfredo Mantovano, esponente del proibizionismo moralistico e carcerocentrico, ispiratore della nefanda legge Fini-Giovanardi. Per parte mia suggerisco tre misure indifferibili: 1) liberare i 15.000 detenuti classificati come tossicodipendenti e da affidare a programmi alternativi territoriali o comunitari; 2) istituire case di reintegrazione sociale per i soggetti (7.000) con pene inflitte fino a tre anni e quelli con pene residue fino a tre anni (altri 13.000), con la direzione affidata ai sindaci e con personale educativo, del volontariato e del terzo settore per incarnare l’articolo 27 della Costituzione; 3) approvare una legge intelligente sul numero chiuso per limitare gli ingressi in carcere. È sicuro che, senza misure deflattive, l’Apocalisse alla fine verrà. Firmato il decreto: più magistrati alla Sorveglianza agenparl.it, 4 dicembre 2022 L’intervento rientra nel più ampio incremento delle piante organiche della magistratura ordinaria, complessivamente di 82 unità. Previste 21 unità negli Uffici di Sorveglianza. Più magistrati negli uffici di sorveglianza. Lo prevede il decreto ministeriale firmato dal Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, dando seguito a quanto previsto dalla legge di bilancio del 30 dicembre 2021. Il provvedimento stabilisce un ampliamento della pianta organica di 21 unità degli uffici di sorveglianza, dislocati in 15 distretti, a fronte delle esigenze più volte manifestate dalla categoria. Questi di seguito i dettagli: L’intervento rientra nel più ampio incremento delle piante organiche della magistratura ordinaria, complessivamente di 82 unità: 21 destinate alla sorveglianza con questo decreto ministeriale; 2 dedicate ai procuratori europei delegati e le restanti al settore della protezione internazionale, da distribuire con successivo decreto ministeriale. Sisto: “Carceri sovraffollate? Un piano di architettura penitenziaria darà risposte” Gazzetta del Mezzogiorno, 4 dicembre 2022 “La proposta del governo? Va oltre le appartenenze”. “C’è un piano carceri che sta per essere varato che non riguarda soltanto il tema della costruzione di nuovi carceri ma la ridistribuzione all’interno dell’esistente. Si chiama architettura penitenziaria”. Lo ha detto a Taranto il vice ministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, a margine delle “Giornate della Formazione” organizzate dall’Ordine provinciale degli Avvocati di Taranto. “Significa - ha precisato - una migliore distribuzione, potenziamento dei corpi intermedi e a tal proposito abbiamo stanziato recentemente 3 milioni di euro per l’assistenza psicologica ai detenuti. I suicidi sono un dramma che va assolutamente evitato. Poi un milione di euro per l’assistenza psicologica alla Polizia penitenziaria. Questi sono due punti di riferimento importanti”. “Come evitare i conflitti tra politica e magistratura? Semplice, basta non combattere più. Credo che bisogna prendere i migliori tra avvocatura, magistratura e politica, mettersi insieme con le competenze, finalmente, e provare a scrivere pagine utili per i cittadini”, ha aggiunto il vice ministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto. “Le guerre - prosegue - credo che abbiano fatto davvero il loro tempo e i guerrafondai è bene che stiano a casa”. Rispondendo alle domande dei giornalisti in merito allo stato dei decreti attuativi del processo civile e penale ai fini dell’attuazione del Pnrr, Sisto ha precisato che “siamo avanti. Per quanto concerne il penale c’è stata una sospensione meramente tecnica, solo per consentire la migliore realizzazione delle norme. Quindi nessun sconvolgimento dei principi, già tra l’altro pattuiti con l’Europa, e questo ovviamente rende impossibile qualsivoglia movimento tellurico sui provvedimenti”. “Tutto arriverà a maturazione - ha concluso il vice ministro - entro il 31 dicembre 2022. Ci sarà qualche proroga, 10-11 proroghe, ma soltanto di istituti che abbiano un impatto sul sistema che può addirittura impedire alla norma di entrare validamente in vigore”. Giornata mondiale del volontariato. Le testimonianze dei volontari che lavorano nelle carceri di Igor Traboni L’Osservatore Romano, 4 dicembre 2022 Da un secolo esatto i volontari di Sesta Opera San Fedele di Milano portano misericordia nelle carceri: “Ero carcerato e siete venuti a trovarmi… è fondamentale per noi, è quello che ci muove” afferma subito il presidente Dario Chiaretti. “Come ci ha insegnato per decenni il cardinale Martini, visitare i carcerati è sicuramente anche andare alla singola persona, ma è soprattutto Dio che visita il suo popolo. E questo vuol dire mille cose per entrare in situazioni complesse: visitare i carcerati è sì esserci dentro, ma quello che ci distingue, e che nel corso di formazione rimarchiamo, non è solo cosa devi fare o non fare, ma come farlo, è lo stile di un ascolto continuo, del non giudicare, di guardare oltre le apparenze”. Chiaretti introduce così anche il segno distintivo della Sesta Opera, associazione di volontariato penitenziario nata nel 1923 attorno alla chiesa milanese di San Fedele: la formazione dei volontari che operano dentro e fuori le carceri: “A Milano ci sono almeno 20-30 associazioni, Onlus ed enti vari che vanno nelle carceri, ma solo noi facciamo formazione specifica, essenzialmente per due motivi: il volontariato in carcere ha un aspetto peculiare che lo distingue da altri volontariati, c’è un rapporto molto diretto con le persone che vengono assistite, c’è una relazione d’aiuto, dinamiche ben precise. E poi devi muoverti nell’ambito del sistema Giustizia e questo complica molto le cose perché devi relazionarti con l’amministrazione penitenziaria, il potere giudiziario, polizia, carabinieri ecc. Quindi il volontario deve avere chiara la molla che lo spinge, capire il mondo in cui si inserisce e deve conoscere i campi di ognuno e non invaderne altri, deve sapere cosa può fare e cosa non può fare. Deve entrare in questo meccanismo di relazioni con spazi e attenzione giusti, senza voler strafare. La buona volontà è importante, certo, ma non basta: devi sapere come giocare questa buona volontà secondo linguaggi e ritmi di un mondo particolare, secondo la logica - e spesso l’illogica! - del sistema”. Ecco perché il corso di formazione in effetti è solo il primo passo per i volontari, seguiti poi anche attraverso una serie di corsi paralleli, compreso il passaggio dalla teoria alla simulazione di incontri “perché se non ti metti nella situazione non capisci: devi metterti in gioco. Il volontario deve fare anche un lavoro di questo tipo su se stesso. E poi, nei primi mesi, vanno in carcere sempre accompagnati da volontari più esperti”. In carcere oppure fuori, perché Sesta Opera è anche la misericordia di accompagnare il reinserimento di quanti escono dal carcere e le loro famiglie, laddove in Italia i volontari che si dedicano a quest’ultimo fondamentale aspetto sono appena 500, contro i 18mila che invece vanno in carcere. A proposito di numeri, quelli di Sesta Opera non sono affatto freddi: i volontari già formati sono circa 220, ma all’ultimo corso, appena concluso, hanno partecipato in 120 “e ad un certo punto abbiamo dovuto chiudere le iscrizioni perché non ci stavamo più. Così come abbiamo già una lista di attesa per il prossimo corso del 2023. E abbiamo riscontrato soprattutto un aumento di giovani decisi ad impegnarsi in questo volontariato. Una bella risposta, che forse neppure ci aspettavamo anche perché ai corsi non diamo pubblicità e il volontariato è totale, ma sicuramente contribuisce anche il forte senso civico dei milanesi. Di certo, più in generale, la figura del volontario è cambiata in questi ultimi decenni: prima era molto più legata ad una sorta di assistenzialismo, ora invece si è evoluta, è più organica”. E in tutto ciò molto contribuisce l’azione di Sesta Opera, i cui corsi di formazione vengono seguiti anche dai volontari di altre realtà, ad iniziare dalla Caritas Ambrosiana con cui la collaborazione è stretta. Insomma, da quel primo nucleo di volontari che nel 1923 si prese cura dei detenuti di San Vittore, allora unico carcere milanese, di strada ne è stata fatta: oggi i volontari di San Fedele sono presenti anche a Opera, a Bollate, nel carcere minorile Beccaria, presso il reparto speciale per detenuti malati all’ospedale San Paolo e a Cremona. E sono sorte gemmazioni in varie parti d’Italia, da Rieti a Catania alla Sardegna. Nata nell’alveo della spiritualità ignaziana, Sesta Opera aderisce inoltre al Jesuit Social Network-Italia, il novero di associazioni laiche che lavorano nel sociale e si rifanno per l’appunto ai gesuiti. Preziosa è anche la presenza all’interno della Conferenza nazionale del volontariato: “Fare rete oggi è quanto mai importante, devi essere collegato con altre realtà, comprese quelle che sono un po’ più specializzate, e che si occupano magari solo dei bambini o degli stranieri nelle carceri, mentre il nostro sguardo da sempre è a 360°”, conclude Chiaretti. Parlami Dentro, una lettera per raggiungere gli invisibili nelle carceri di Lucia De Ioanna La Repubblica, 4 dicembre 2022 In occasione del Natale, un invito a condividere un filo narrativo di resistenza. Antonella Cortese: “La risposta al nostro appello è stata una mobilitazione sociale che non avremmo mai immaginato”. Un ponte di parole per raggiungere i tanti invisibili ristretti nelle carceri dell’Emilia Romagna, aprendo un varco dentro solitudini spesso radicali, inaccessibili. Quello delle parole è un potere grande. Unite alle intenzioni, le parole possono invertire l’ordine del mondo, schiudendo un sorriso pure davanti al buio. È da questa idea che nasce Parlami Dentro, chiamata alla scrittura di Fondazione Vincenzo Casillo e Liberi Dentro - Eduradio & TV: in occasione del Natale, un invito a condividere un filo narrativo di resistenza, col gesto tanto semplice quanto umano di scrivere una lettera. “Mettiamo nelle mani di una persona isolata e spesso anche giudicata un frammento della nostra vita libera, che sia uno stimolo, un ‘ispirazione, un auspicio, o anche solo un abbraccio: il destinatario sarà una persona detenuta sconosciuta”, l’appello rivolto a chiunque voglia raggiungere con uno speciale messaggio in bottiglia un interlocutore isolato, trasformando un’isola in arcipelago di storie (fatte di tentativi, speranze ed errori) collegate da ponti di parole. L’intenzione è infatti quella di creare connessioni, mettendo in circolo buone parole, spogliate di ogni pregiudizio o pietismo. Tra i destinatari della iniziativa, anche le persone ristrette nel carcere di via Burla che in questi giorni sono state coinvolte in iniziative rivolte ad aprire spiragli anche usando quella chiave privilegiata di conoscenza ed elaborazione di sé che è l’esperienza artistica. Come racconta Antonella Cortese, della piccola e tenace redazione Eduradio&Tv di Parma, che fa parte del più ampio progetto LiberiDentro, nato nell’aprile del 2020 con l’obiettivo di superare le distanze tra carcere e cittadinanza in un frangente di emergenza umana e sociale acuita dalla pandemia. Qual è stata la risposta della città al vostro appello? “Parlami dentro ha aperto una strada, anzi, direi che abbia scoperchiato un vaso dal quale sono uscite una pluralità di voci che hanno voluto essere rappresentate raccontandosi, parlando della propria vita, delle proprie e diverse solitudini, citando poesie, racconti, canzoni: voci diverse che, immaginandosi in restrizione, hanno voluto incoraggiare chi realmente lo è. Una mobilitazione sociale che non avremmo mai immaginato: ha scritto un ragazzo quindicenne, una madre con una figlia di pochi anni, una nonna, una suora, qualche scrittore, la figlia di un padre detenuto. La società civile è molto meno distratta di quanto non si pensi.” Avvicinandosi al Natale, la solitudine è una spina più acuta. “Sì, nel periodo delle feste natalizie il dolore nelle camere di pernottamento - così si chiamano oggi le celle - diventa palpabile; la lontananza dagli affetti (per chi ha la fortuna di averli) più cari un’assenza incolmabile. La nostra iniziativa vuole sensibilizzare i “liberi” rispetto a quel mondo che esiste, ma che speriamo di non incontrare mai direttamente, che è il carcere, un quartiere della nostra città, luogo altamente plurale e cosmopolita in termini di culture e religioni.” Come è iniziata la sua esperienza a contatto con il mondo delle carceri? “La mia esperienza nelle carceri della nostra Regione comincia con Liberi dentro Eduradio & Tv, la trasmissione che fa da ponte tra carcere e città in onda su Icaro Tv canale 18. In tutta l’Emilia Romagna tutti i giorni alle 17.15 (quindi anche negli istituti penitenziari) si parla di quello che succede nelle carceri, di cultura, salute, spiritualità, cucina, bellezza. Le persone che ci seguono da dentro qualche volta ci orientano sugli argomenti, ci criticano o stimolano riflessioni che dalla nostra prospettiva non avremmo mai valutato, un valore aggiunto inestimabile.” Recentemente è entrata nel carcere di Parma e ha potuto assistere dall’interno a esperienze in cui l’arte si fa strumento di riflessione, elaborazione e liberazione. Quali immagini conserva di queste esperienze? “Sì, ultimamente al carcere di Parma ho avuto il piacere di partecipare a due diversi incontri: la proiezione del film Un eroe, del regista iraniano Asghar Farhadi, presentato nell’ambito del progetto Nessuno si salva da solo promosso dall’Aps il Mondo di Oz insieme ad altre associazioni. Erano presenti persone detenute, sedute nella fila opposta a quella degli ospiti esterni: il corridoio che separa le file era un solco, linea di demarcazione tra il fuori e il dentro, un fiume non guadabile. Molto toccante, poi, lo spettacolo teatrale presentato qualche giorno dopo. Sono io con la regia di Franca Tragni e Carlo Ferrari, in sinergia con Comune di Parma e Progetti & Teatro. Il focus è stato la violenza di genere. Le promesse, la violenza verbale e fisica, le aspettative, l’amore che non è vero amore, sono stati raccontati dalle parole e dai corpi di otto detenuti nel teatro del carcere, nel luogo in cui i cosiddetti sex offenders vengono rinchiusi. È stato uno spettacolo forte e coraggioso, proposto dai registi insieme agli attori, tra l’altro veramente bravi, in un teatro silenzioso con un pubblico attento e coinvolto. Poi applausi e commozione prima di guardarli sparire dietro uno dei tanti cancelli che li riporta nelle camere di pernottamento mentre il pubblico li vedeva sfilare in fila, per un momento così vicini, regalandoci un ultimo sguardo”. Per aderire al progetto Parlami Dentro è possibile inviare un proprio messaggio a parlamidentro@gmail.com entro l’11 dicembre 2022. Alcune lettere saranno selezionate e lette durante il programma radio-televisivo Liberi dentro - Eduradio & TV, visibile su YouTube e seguita dai 700 detenuti della Casa circondariale Rocco D’Amato di Bologna e a livello regionale su Lepida TV (www.lepida.tv), Icaro TV canale 18 e Radio Città Fujiko, 103.1 FM Processo per direttissima, più garanzie all’imputato di Dario Ferrara Italia Oggi, 4 dicembre 2022 Più garanzie all’imputato sotto processo per direttissima. Nel giudizio ex articolo 449 Cpp l’imputato deve poter chiedere il patteggiamento o il rito abbreviato alla prima udienza dopo che è spirato il termine a difesa ottenuto. Deve essere garantito in pieno il diritto di difesa, mentre è incostituzionale l’interpretazione secondo cui il termine a difesa potrebbe essere concesso solo dopo l’apertura del dibattimento, il che preclude la richiesta di riti alternativi alla prima udienza utile. Il termine infatti ben può servire al prevenuto anche per scegliere in modo più consapevole la propria strategia processuale. È quanto emerge dalla sentenza 243/22 emessa dalla Consulta il 2 dicembre, che dichiara incostituzionali gli artt. 451, co. 5 e 6, e 558, co. 7 e 8, Cpp in quanto interpretati in senso contrario all’imputato. Trova ingresso la questione di legittimità sollevata dal giudice monocratico di Firenze, chiamato a giudicare l’imputato per possesso e fabbricazione di documenti di identificazione falsi. L’accesso ai riti alternativi costituisce una delle modalità più qualificanti del diritto di difesa del prevenuto. Il quale, assistito dal difensore, deve poter optare per il patteggiamento o un altro dei procedimenti speciali sapendo a quali conseguenze va incontro sul piano delle sanzioni. È vero, il rito alternativo comporta modalità più limitate per l’esercizio del diritto di difesa. Ma ciò non esclude che l’imputato sia messo in condizione di ponderare in modo adeguato le conseguenze della sua strategia difensiva. Il che non avviene se l’interessato è posto di fronte all’alternativa secca tra i due strumenti, se gli si impone di formulare la richiesta seduta stante, tanto più all’esito del giudizio di convalida dell’arresto, e non invece allo spirare del termine a difesa che può chiedere. La scelta dell’imputato deve sì raccordarsi con i tempi serrati del giudizio direttissimo, ma senza che le essenziali esigenze difensive possano “essere sacrificate sull’altare della speditezza”. Insomma: il giudice deve concedere il termine richiesto non solo per approntare la difesa nella prosecuzione della fase dibattimentale ma anche per consentire la scelta ponderata del rito. Bullismo, risse e aggressioni: la violenza minorile è in crescita, ma non si tratta solo di baby gang di Antonio Fraschilla L’Espresso, 4 dicembre 2022 I dati del Viminale registrano una triplicazione degli episodi segnalati dai media. E l’allarme di magistrati e inquirenti conferma il problema: “Nel dopo pandemia molti più atti violenti, ma spesso si tratta di gruppi fluidi e non di gruppi criminali rigidi”. La morte di Cristian Martinelli a Casale Monferrato per un insulto e un paio di occhiali. Il centro commerciale di Marino preso di mira ogni fine settimana tanto da costringere i proprietari a vietare l’ingresso ai minori non accompagnati. A Roma il quattordicenne della scuola Armellini che si presenta in classe con una pistola a palline e la punta al compagno che lo infastidiva. E poi l’ennesima faida milanese legata a cantati trap con sparatoria nella centralissima corso Como e, ancora, la banda di giovanissimi che in centro a Palermo seminava il terrore la sera come atti di pura violenza. Sono scene di un’Italia che ogni giorno si sveglia con una notizia di cronaca su minorenni violenti con il seguito di aggressioni, rapine e piccoli reati. Eventi tutti classificati sotto la definizione di “baby gang”. Secondo uno studio dell’Università Cattolica nei primi mesi dell’anno sono apparsi quasi duemila articoli su violenze legate a baby gang, in tutto il 2017 erano stati solo 217. Cosa sta accadendo in Italia allora? È solo una maggiore attenzione mediatica a certi fenomeni oppure davvero alcuni reati sono in aumento? E, soprattutto, sono tutte baby gang o il problema della violenza minorile recente è qualcosa di può profondo e difficilmente catalogabile? Negli ultimi mesi sono apparse su moltissimi giornali le “mappe” delle baby gang. Gruppi criminali censiti, che hanno spesso una organizzazione e un capo, una sigla e dei riferimenti culturali ben precisi: a Milano a esempio ci sono i Ripamonti M5 ai giardini di via Fra Pampuri, il gruppo Z4 di corso Lodi, la K.O del quartiere Adriano, la gang Duomo alle Colonne di San Lorenzo e poi un’altra mezza dozzina di bande giovanili da Corvetto a Bicocca. A Palermo c’è la gang di via Maqueda, composta in gran parte da figli di immigrati della comunità Tamil, e gruppetti che si rifanno ai loro quartieri, dallo Zen al Cep; a Roma c’è la Anundo gang’s La18 o La17, protagonisti anche di aggressioni a disabili o di revenge porn nei confronti di coetanee minorenni. E poi i latinos in Lombardia, i magrebini a Torino. A Padova sono state identificate alcune gang che ripetutamente organizzavano risse tra loro con tanto di appuntamento con orari e indirizzi definiti. Sono tutti gruppi censiti, questi, e noti alle forze dell’ordine e agli investigatori. Ma davvero il fenomeno che raccontano ogni giorno le cronache è legato a questa tipologia di gruppi? Ascoltando chi vive “la strada” la risposta è no, non tutto è assimilabile alla frase “baby gang”. Gemma Tuccillo, capo dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità commentando i dati dell’osservatorio Transcrime-Università Cattolica è chiara: “Crescono i reati di gruppo, ma ciò che ha segnato una differenza e un’evoluzione nell’ultimo decennio, rispetto ai reati commessi dagli adolescenti - sia da soli e sia in gruppo - è il carattere di crescente efferatezza, violenza gratuita ed apparente insensatezza di alcune condotte, riconducibili spesso a gruppi agglomerati in maniera fortuita e contingente”. Il rapporto, presentato qualche settimana fa, analizzando i dati delle forze dell’ordine e delle procure registra “come le gang giovanili siano presenti nella maggior parte delle regioni italiane e la loro presenza sia indicata come in aumento in diverse aree del paese… I crimini più spesso attribuiti alle gang giovanili sono reati violenti (come risse, percosse e lesioni), atti di bullismo, disturbo della quiete pubblica e atti vandalici”. Secondo i dati dei carabinieri, in un sondaggio svolto tra i comandi provinciali, il 47 per cento dei reati che hanno a che fare con bullismo sono commessi da gruppi di minori, e lo stesso vale per il 65 per cento di reati per “risse, percosse e lesioni” e per il 56 per cento per reati che hanno a che fare con il disturbo della quiete pubblica. Ed è questo un elemento chiave e nuovo rispetto al passato. Come spiega il prefetto Francesco Messina direttore centrale anticrimine della Polizia: “Dobbiamo stare molto attenti alla terminologia e ad analizzare quello che stiamo registrando nei mesi del dopo pandemia. Quando facevo il capo della squadra mobile a Milano, intorno ai primi anni Duemila, per la prima volta ci siamo trovati di fronte il fenomeno delle “pandillas”, legato all’immigrazione dal Sud America: lì avevamo una struttura criminale con capi e riti di affiliazione. E questo fenomeno si è poi esteso anche al resto del Paese. Ma oggi riscontriamo anche un altro fenomeno, parallelo a quello delle baby gang che conosciamo: quello della devianza minorile, aggravata dal post pandemia che ha visto i nostri ragazzi per due anni chiusi a casa senza frequentare la scuola se non in modo virtuale. In questi due anni i ragazzi hanno accumulato stress e una volta tornati a un contesto “normale” vediamo che spesso non sanno gestire le emozioni o alcune situazioni in momenti di aggregazione. Attenzione, questo malessere non ha nulla a che fare con lo status sociale delle famiglie di provenienza. È molto più trasversale e spesso lo si lega, anche qui sbagliando, a semplice violenza e malamovida. Ma non è questo il tema, quello che stiamo vedendo è più profondo: sono aumentate le risse, è aumentato il consumo di alcol e droghe. Su questo abbiamo dati evidenti: prima della pandemia questi fenomeni c’erano ma non erano così appariscenti”. Secondo il prefetto Messina di fronte a questo fenomeno nuovo la risposta è stata quella di vedere il tutto come un problema di polizia e ordine pubblico: “Un approccio sbagliato. Qui dobbiamo affrontare il problema non più come una questione di polizia e di repressione: siamo di fronte a contesti fluidi, dove non c’è un programma criminale. C’è un problema nelle agenzie sociali”. Il procuratore del tribunale dei minori di Milano, Ciro Cascone, da tempo chiede maggiore attenzione su quello che si sta muovendo nel sottosuolo del mondo giovanile: “Voglio essere chiaro, anche io ho cavalcato nei primi anni Duemila il modello “baby gang”, ma l’ho fatto da Milano per attirare l’attenzione sul fenomeno delle bande sudamericane. Oggi invece ci troviamo di fronte sempre più spesso a gruppi fluidi e non strutturati, che cambiano ogni giorno e che sono composti sia da italiani sia da stranieri. L’aggregazione giovanile è un fenomeno normale: serve a creare identità e sviluppo della personalità. Ma oggi la novità è che abbiamo aggregazioni non strutturate che in comune hanno solo un inizio di devianza. Dalla mia esperienza vedo che spesso questi ragazzi sono soli, non sono seguiti, spesso vivono in famiglie con genitori che non arrivano da contesti criminali ma sono impegnati, per lavoro o per assistere anziani, e la sera non parlano con i figli. Ma c’è dell’altro che stiamo notando: molti giovani non sanno gestire la rabbia, non hanno un pensiero critico che media. Scattano così le esplosioni di violenza: e quando rompi certe barriere vai avanti e iniziano le aggressioni fini a se stesse che non hanno motivi economici e intenti predatori, poi magari avviene la rapina ma è secondaria. In generale questi gruppi non sanno dove andare, non hanno progetti e sono imprevedibili. Sento parlare di riduzione dell’età penalmente perseguibile: una follia, non abbiamo capito nulla se prendiamo questa strada. Dobbiamo invece pensare che oggi i giovani e gli adolescenti vivono una totale assenza di progetti e iniziative: dobbiamo tenerli impegnati e invece veniamo da decenni di tagli alla scuola, al sociale, allo sport, ai centri di aggregazione”. Ma in contesti sociali poveri, è chiaro che il fenomeno della voleva giovanile si lega a doppio filo con la difficoltà di vivere in certi ambienti: e allora scatta qualcosa di identitario. Come racconta Massimo Russo, magistrato della procura minorile di Palermo, che ha lavorato anche a Napoli: “In alcuni casi il gruppo giovanile chiede spesso riconoscimento di identità attraverso aggressioni e atti violenti, e non ha uno scopo criminale. Anche se vivono in un brodo di coltura che enfatizza il denaro facile frutto non del lavoro ma di altro. A Palermo, come a Napoli, si fa molta antimafia di facciata, ma ci sono interi quartieri abbandonati dove questi ragazzi crescono volendo comprare abiti firmati. Da qui la violenza in centro, il furto di orologi e vestiti ai coetanei. Stiamo attenti: la mafia coglie questo consenso e poi pesca da questi gruppi, come una sorta di talent scout criminale, i “migliori”. E li recluta”. Ma proprio a Palermo si è assistito a un altro fenomeno che lega violenza giovanile e percorso identitario. Racconta Marco Basile, capo della squadra mobile: “La scorsa estate nelle vie del triangolo del centro storico tra via Maqueda e corso Vittorio Emanuele tutte le sere si registravano episodi di violenza e furti ai danni di minori, ma anche di adulti, da parte di un gruppo di ragazzi. In due episodi sono stati coinvolti anche dei nostri poliziotti fuori servizio che erano con le loro famiglie e tornavano a casa da una cena in pizzeria. Abbiamo iniziato a indagare e abbiamo scoperto che si trattava di un gruppo di palermitani figli di immigrati di origine Tamil ma che sono nati e cresciuti in Sicilia. Sui social si chiamavano “Arab zone” e rivendicavano le loro azioni violente, i loro furti. In una sorta di rivendicazione della loro identità in un contesto dove però erano integrati perché qui sono cresciuti. Volevano rivendicare per sé un pezzo della città e le strade dove vivono. Un fenomeno per noi del tutto nuovo e molto delicato”. Resta il tema che chi vive la strada, chi segue i fenomeni giovanili legati a reati più o meno gravi, registra negli ultimi mesi un aumento della violenza e una assenza di agenzie sociali. Due elementi che rischiano di diventare il vero fenomeno preoccupante dei prossimi anni. E non chiamiamole tutte e solo baby gang. La politica si è dimenticata della lotta alla camorra di Luigi Vicinanza L’Espresso, 4 dicembre 2022 I giovani di Ponticelli e Acerra sfilano in corteo contro i clan, 40 anni dopo la marcia che vide uniti vescovo e comunisti nella Ottaviano di Raffaelle Cutolo. Ma sono soli, senza istituzioni. Politici: zero. Istituzioni: assenti. Soli con la loro paura e il loro coraggio. Si sono organizzati spontaneamente per protestare contro la camorra. Studenti delle superiori e qualche genitore. Perché non è normale che davanti a una scuola elementare avvenga una sparatoria in pieno giorno, all’orario di uscita dalle lezioni. Ponticelli, periferia orientale di Napoli. Un tempo polo industriale circondato da laboriose masserie agricole. Oggi piazza di spaccio contesa tra nuovi e vecchi clan partenopei. Bombe, ferimenti, “stese” per affermare il potere criminale su una comunità di 50 mila abitanti. Non è facile sfilare in corteo contro i clan, metterci la faccia. Ci sono riusciti, erano quasi duemila l’11 novembre nelle vie di Ponticelli. Nessun parlamentare: non sapevano, si sono giustificati. I due assessori inviati dal sindaco Gaetano Manfredi in rappresentanza del Comune di Napoli, Emanuela Ferrante e Antonio De Iesu, sono arrivati goffamente in ritardo. A corteo già terminato. Scena simile il giorno dopo ad Acerra, un grosso centro del Napoletano dove in anni passati fu vescovo don Antonio Riboldi, del quale, il prossimo 16 gennaio, cade il centenario della nascita. Rappresentanze politiche invisibili nel corteo anticamorra promosso dagli studenti del liceo cittadino. Unica eccezione il sindaco Tito d’Errico, eletto lo scorso giugno da un’aggregazione civica di centrosinistra nata in contrapposizione all’alleanza Pd-M5S. I ragazzi di oggi di Acerra con la loro manifestazione avrebbero voluto rendere omaggio anche ai ragazzi di ieri, quelli che giusto 40 anni fa, in uno slancio di lucida follia, dettero vita al più grande movimento anticamorra mai visto a Napoli e in Campania. È il 17 dicembre 1982, una mattina piovigginosa di fine autunno. A Ottaviano sta per accadere qualcosa di clamoroso. Il paese è tristemente famoso in tutta Italia perché è il feudo di un criminale cinico e sanguinario, Raffaele Cutolo, capo della Nco, la nuova camorra organizzata, un’accozzaglia di malfattori di campagna trasformata in un esercito pronto a sostituire l’autorità dello Stato: 284 omicidi in dodici mesi, nell’impotenza dei poteri pubblici. Ottaviano viene invasa da un corteo di 100 mila studenti scortati dai delegati sindacali delle grandi fabbriche metalmeccaniche della vicina Pomigliano d’Arco. Alla loro testa marcia un insolito gruppo di leader. Ci sono due vescovi, il ribelle Antonio Riboldi, giunto dalla Sicilia alla guida della diocesi di Acerra, e il colto biblista Giuseppe Costanzo, da Nola. C’è il carismatico segretario nazionale della Cgil, Luciano Lama. E due dirigenti politici, Antonio Bassolino e Raffaele Tecce, uno segretario regionale del Pci e l’altro del piccolo PdUp, formazione a sinistra dei comunisti. Evento dirompente in quegli anni di sangue e di piombo. Lama sottolinea di trovarsi per la prima volta in vita sua su un palco insieme a due vescovi. Per don Riboldi quel giorno “è una data storica; è il nostro 25 aprile. Qui da noi il fascismo si chiama camorra. Questa è la nostra guerra di Liberazione”. Lungo tutto il percorso del corteo e nella piazza del comizio vigilano dai tetti i cecchini di polizia e carabinieri, affinché eventuali killer del clan non sparino sui manifestanti. Dice il comunista Bassolino: “Mafia e camorra sono il terrorismo del Mezzogiorno”. Il terrorismo mafioso in quell’anno 1982 esegue a Palermo due delitti eccellenti: il 30 aprile cade il comunista Pio La Torre, il 3 settembre il generale Carlo Alberto dalla Chiesa. La camorra invece viene sottovalutata; nei palazzi romani gode di un’inquietante disattenzione nonostante una catena di omicidi politici stia insanguinando l’area napoletana. Assassinati sindaci, consiglieri comunali, servitori dello Stato. Un’escalation di violenza culminata nel grumo oscuro di scambi di favore tra terroristi, clan e servizi segreti per favorire la liberazione di Ciro Cirillo, l’assessore regionale rapito dalle Brigate rosse nel 1981. Seguì l’esecuzione di un super-poliziotto, Antonio Ammaturo. Delitto firmato Br, utile alla camorra. Era il 15 luglio 1982, i giorni esaltanti del Mondiale in Spagna. Solo dopo il caso Cirillo, Sandro Pertini interviene dal Quirinale ordinando il trasferimento del boss Cutolo nel supercarcere dell’Asinara. “Gli anni Ottanta sono quelli del coraggio”, scrive Pietro Perone nel suo appassionato libro “Don Riboldi, 1923-2023. Il coraggio tradito” (edizioni San Paolo, pagg. 224, 18 euro). Perone, oggi giornalista del “Mattino” di Napoli, è il ragazzo che quel 17 dicembre di 40 anni fa parlò dal palco di Ottaviano al fianco dei due vescovi e del segretario della Cgil. Ricostruisce nel dettaglio la nascita e il declino del movimento anticamorra; le speranze e le successive delusioni. Furono ricevuti, quegli studenti coraggiosi, da Enrico Berlinguer a Botteghe Oscure, il 27 maggio dell’anno successivo, poco prima delle elezioni politiche, quelle del “non moriremo democristiani”, con il Pci appena tre punti sotto la Dc. Ma fu un fallimento la manifestazione nazionale organizzata a Roma il 5 maggio 1984, pensata dopo l’incontro con il segretario del Pci: dai 100 mila di Ottaviano ai 10 mila della Capitale. Segnò la fine. La lotta alla camorra - nella strategia del Pci - era anche lotta alla Democrazia cristiana. Così, collassata la prima Repubblica, le formazioni derivate dal partito di Berlinguer hanno smesso di considerare una priorità il contrasto alla criminalità organizzata. Distrazione aumentata quando hanno raggiunto posizioni di governo, sia su scala nazionale che locale. “L’errore che avrebbe depotenziato il valore di quella rivolta purtroppo viene commesso”, sostiene Perone, cioè “il collateralismo tra partito e movimento”. Il rischio di diventare collaterali a qualche partito di oggi non esiste per gli studenti di 40 anni dopo. Invisibili agli occhi di una politica senza più legami con la realtà, senza radici nei territori. La denuncia dei soprusi compiuti dai clan non crea consenso sociale, ammette Francesco Borrelli, neodeputato dei Verdi, aggredito sotto casa a Napoli per le sue campagne a favore della legalità. Nel corso dell’anno due grossi Comuni del Napoletano sono stati sciolti per infiltrazioni di camorra, Castellammare di Stabia e Torre Annunziata. Sindaco forzista il primo, dem il secondo. Collusioni bipartisan. Nel 1982 entrambe le città furono al centro del movimento anticamorra. Oggi, dopo lo shock dello scioglimento, non è accaduto nulla. Solo disincanto e rassegnazione. No Tav: la 76enne Nicoletta Dosio nuovamente condannata al carcere di Valeria Casolaro L’Indipendente, 4 dicembre 2022 Nel pomeriggio di mercoledì 1° dicembre il Tribunale di Torino ha emesso un nuovo ordine di carcerazione per la storica militante del movimento No Tav in Val di Susa, Nicoletta Dosio. Il provvedimento a carico della settantaseienne è giunto al termine di un processo per evasione, i cui fatti contestati risalgono al 2016. In questo periodo infatti a Nicoletta erano stati imposti gli arresti domiciliari, ma lei aveva deciso di non sottostarvi, prendendo più volte parte a iniziative No Tav. Per questo motivo ora Nicoletta dovrà scontare otto mesi nel carcere Le Vallette di Torino. L’ordine di carcerazione è tuttavia, al momento, sospeso per 30 giorni: in questo lasso di tempo la donna potrà chiedere l’applicazione di misure alternative alla detenzione. Non si tratta della prima condanna di questo tipo ai danni dell’attivista No TAV. “Loro le chiamano evasioni dagli arresti domiciliari, noi le chiamiamo grandi gesti di dignità compiuti nella consapevolezza di essere dalla parte della ragione e di lottare da sempre per la difesa della propria terra contro devastazione e speculazione” scrive il Movimento No TAV sulle proprie pagine. Nel frattempo, il Movimento ha denunciato la conferma da parte del Gip di una misura cautelare (su 22 richieste dai pm) per via di alcune azioni di disobbedienza civile messe in atto la scorsa estate. Si trattava, in particolare, di un presidio svoltosi il 30 giugno nei pressi di Susa e del blocco di qualche minuto a Bruozlo dei camion che trasportavano lo smarino per la valle, il 15 settembre. Gli indagati, tra i quali alcuni leader storici del Movimento, sono in tutto una quarantina. Olbia. Morto nell’azienda agricola: era al lavoro per riscattarsi dal carcere di Marco Patucchi La Repubblica, 4 dicembre 2022 Salvatore Santeddu, 54 anni, è rimasto schiacciato dal furgone che stava riparando. Dopo pochi giorni avrebbe finito il tirocinio previsto dall’affidamento ai servizi sociali e sarebbe stato assunto. “La detenzione è il problema più doloroso del Paese. Sono convinto che se la gente avesse uno straccio di lavoro, un lavoro qualsiasi, la popolazione carceraria si ridurrebbe”. Sandro Bonvissuto ha le idee chiare sull’universo parallelo che silenziosamente, invisibile, vive al nostro fianco. E nella nostra coscienza. Lo scrittore romano ha fatto il suo esordio letterario, dieci anni fa, con un romanzo breve che si intitola ‘Dentro’. Salvatore Santeddu, 54 anni, stava cercando di percorrere il sentiero indicato da Bonvissuto: dopo il carcere, il riscatto attraverso il lavoro. Gli mancavano solo nove giorni di tirocinio previsto dall’affidamento ai servizi sociali e poi sarebbe scattata l’assunzione nell’azienda agricola di Nuoro, in Sardegna. Ma il recupero di libertà e dignità per Salvatore, che tutti chiamavano ‘citore’, è finito sotto il furgone che stava riparando. Morte per schiacciamento. “Glielo ripetevo sempre, fermati a bere un caffè - ha raccontato in lacrime ai cronisti locali il titolare dell’azienda. Invece lui doveva sempre lavorare, sempre fare”. Eh sì, come dice Bonvissuto “il male delle carceri è l’inversione dei quozienti di spazio e tempo: in genere le persone hanno pochissimo tempo e tantissimo spazio. Un detenuto si ritrova all’improvviso con tantissimo tempo e pochissimo spazio”. Salvatore stava cercando di riempire il grande spazio riguadagnato. Un nuovo inizio. Milano. Marco, da 7 mesi a San Vittore senza un perché di Irene Fassini milanotoday.it, 4 dicembre 2022 Per entrare in una Residenza per l’esecuzione di una misura di sicurezza (Rems), gli autori di reati con disagio psichico possono aspettare anche 300 giorni. Uno di loro si trova da oltre un anno a San Vittore. A farsi carico di lui il suo avvocato e adesso anche la Corte europea dei diritti dell’uomo. “Più volte mi ha chiamato e mi ha detto di voler farla finita”, racconta Benedetta Perego, avvocato penalista e presidente di Strali, un’associazione che si occupa di tutela dei diritti umani. Un suo assistito si trova nella casa circondariale di San Vittore da più di un anno. Ma in questo luogo non ci dovrebbe stare. Marco (nome di fantasia, ndr) soffre di disturbo schizofrenico, una patologia diagnosticata da tempo e che è stata anche causa del reato che ha commesso. Nella sua cartella clinica c’è scritto che non prende con regolarità la terapia farmacologica. Dovrebbe seguire un percorso di cura mentale, ma di fatto incontra gli psicologi solo quando ha delle crisi. Spesso rifiuta i farmaci. Ha momenti di alti e bassi e cambiamenti importanti dell’umore come tutti gli schizofrenici. Sente le voci. Nella cella liscia Per il Governo italiano, chiamato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) a rispondere delle sue condizioni, starebbe tutto sommato bene. Il percorso psicologico di supporto sembrerebbe funzionare. Le celle lisce, dove passa giorni e notti nei periodi peggiori, sembrerebbero luoghi idonei a persone nelle sue condizioni... Siracusa. Detenuti al lavoro, ridipinta una scuola: “nuove opportunità dopo il carcere” blogsicilia.it, 4 dicembre 2022 Il progetto si chiama La vita oltre il carcere e l’obiettivo è di formare i detenuti in modo da avere delle competenze e delle opportunità di lavoro una volta scontata la pena. Sono dieci le persone che hanno aderito al progetto “AffidaTi e mettiti alla prova con senso di comunità”, un’iniziativa promossa dalla Caritas diocesana e dall’Ufficio di esecuzione penale esterna di Siracusa del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità in collaborazione con l’associazione Massimiliano Kolbe. Un corso di formazione e di sostegno personale, ma anche un’attività pratica per dare un segno concreto alla comunità e rimediare al danno creato. Un gesto concreto di giustizia riparativa. I lavori in una scuola - Nelle ore scorse, un gruppo di detenuti si è reso protagonista di alcuni lavori nell’edificio che ospita l’istituto comprensivo Nino Martoglio di Siracusa. Interventi di manutenzione, come la pitturazione dei cancelli e delle ringhiere del plesso. “Abbiamo pensato di farci aiutare dagli ultimi - dice Marco Tarascio della Caritas Siracusa -. Dopo la formazione e l’assistenza psicologica, questi ragazzi avranno l’opportunità di lavorare nelle scuole di Siracusa ma ci sarà spazio anche alla Caritas”. Bologna. Nell’Ipm mancano educatori, interviene il progetto CPAsso con i suoi volontari di Sofia Ferra gazzettadibologna.it, 4 dicembre 2022 Il progetto “CPAsso”, nel contesto dell’associazione “PrendiParte”, ha l’obiettivo di offrire ai minori detenuti, tramite volontari, uno spazio di ascolto, di espressione e di attività ludiche. Il futuro lo immagini solo se desideri. E il desiderio è un meccanismo sottile che, soprattutto in alcuni casi, ha bisogno di qualcuno che lo attivi. È da questa idea che nel 2017 Tommaso Palmieri, uno studente di Giurisprudenza a Bologna, che ha fondato - nel contesto dell’associazione “PrendiParte” - il progetto “CPAsso” che partirà proprio in questi giorni all’interno della Comunità Penale Minorile di Bologna con l’obiettivo di offrire ai minori detenuti, tramite volontari, uno spazio di ascolto e di espressione, per attività ludiche, ma anche per affrontare con loro tematiche sociali.  Si tratta di una delle sole tre comunità pubblico-private sull’intero territorio nazionale dove trascorrono le loro giornate ragazzi tra i quattordici e i diciassette anni, spesso tra l’ozio e la noia, in attesa di processo.  Le Comunità Penali Minorili sono solo un tassello del sofisticato sistema penitenziario minorile italiano. In particolare, si tratta di una delle quattro misure cautelari previste dalla legge 448/1998. “Mi sono reso conto che l’associazione era presente con le proprie attività in molte realtà, tranne che nel luogo di maggiore dispersione sociale, il carcere. Inizialmente, infatti, avevo pensato di attivare il progetto all’interno dell’Istituto Penitenziario Minorile, ma poi ho realizzato che in CPM c’era più bisogno”, afferma Palmieri. Così come il carcere, anche queste strutture dovrebbero essere luogo di educazione e rieducazione, soprattutto dal momento che ospitano adolescenti sottoposti a limitazioni di libertà in un momento importante della loro crescita personale. C’è, però, un ostacolo strutturale: la carenza di educatori. Ancora una volta, quindi, è il terzo settore a sopperire a una mancanza dello Stato - proprio come notava criticamente Antonio Gramsci. Le volontarie e i volontari di “Libera Bologna” tentano proprio di mettere una toppa alla difficoltà di costruire progetti educativi per ragazzi che si ritrovano a non sapere come trascorrere le proprie giornate. Molti di loro, infatti, nonostante siano in obbligo scolastico, non vanno a scuola. “Non siamo né amici né educatori, ma una figura che sta in mezzo”, dice una delle volontarie. Sull’atteggiamento da assumere i volontari si dividono: c’è chi, come il fondatore, sottolinea la necessità di tenere sotto traccia il proprio sistema di valori. E poi c’è chi risponde con spontaneità alle provocazioni dei ragazzi. “Perché vieni? Non fare finta di essere come me, alla fine del giorno tu esci e io rimango qui”. Per questo motivo, entrare in comunità da volontari vuol dire entrare nel sistema per esserne parte critica e imparare a sfuggire alla tendenza a considerarli con la sola identità che appare, quella del detenuto. “Ci mettono molto tempo a fidarsi. Non conoscono la gratuità dei gesti. A me, invece, parlare con loro serve a spogliarmi del mio privilegio”, dice sempre una delle volontarie.  Foggia. Una struttura dedicata ai pazienti psichiatrici che hanno compiuto reati immediato.net, 4 dicembre 2022 La Comunità Riabilitativa Assistenziale Psichiatrica sarà operativa sino all’attivazione della REMS di Accadia. La ASL Foggia, su indicazione regionale (Delibera di Giunta Regione Puglia n.1489 del 28/10/2022), ha avviato le procedure per istituire, sul territorio provinciale, una C.R.A.P. potenziata, dedicata, anche con misure di sicurezza detentiva, a persone affette da disturbi mentali che hanno compiuto reati.  La C.R.A.P., Comunità Riabilitativa Assistenziale Psichiatrica, dovrà essere operativa sino all’attivazione della REMS (Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza detentive) di Accadia. Considerato il carattere di massima urgenza, la Direzione Strategica ha avviato, pertanto, una procedura di gara ad evidenza pubblica per selezionare ed individuare un operatore economico idoneo, a cui affidare il servizio di gestione della Comunità riabilitativa. La C.R.A.P., dotata di 20 posti Ietto, dovrà essere “potenziata” sotto il profilo assistenziale in modo da garantire attività terapeutico-riabilitative e socio riabilitative a pazienti psichiatrici, autori di reato. Il bando (delibera del Commissario Straordinario n. 777 del 29/11/2022) indica tutti i requisiti previsti per partecipare all’avviso (https://www.sanita.puglia.it/aol/listBando). Il gestore, con comprovata esperienza nel settore della riabilitazione psichiatrica, dovrà mettere a disposizione un immobile con determinate caratteristiche. La struttura, in cui sarà realizzata la Comunità, dovrà, infatti, rispettare requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi ben definiti, a partire da una idonea localizzazione, un servizio di vigilanza interna h24, affidato ad un gestore certificato, spazi esterni adibiti a verde.  L’affidamento del servizio durerà fino all’attivazione della REMS pubblica, in via di realizzazione all’interno dell’ex carcere di Accadia. La progettazione e realizzazione della REMS di Accadia è il primo banco di prova della cooperazione pubblica tra ASL Foggia e ASSET Puglia, Agenzia Regionale Strategica per lo Sviluppo Ecosostenibile del Territorio. La REMS di Accadia sarà la terza in Puglia dopo quelle già attive a Carovigno e Spinazzola. Strutture ricettive a carattere sanitario, le REMS sono finalizzate al definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari (O.P.G.). Obiettivo: l’avviamento di un percorso terapeutico-riabilitativo che permetta, alla fine della pena, il reinserimento familiare e sociale dei detenuti. Alba (Cn. Indetto bando per la nomina del Garante comunale dei detenuti ideawebtv.it, 4 dicembre 2022 Candidature entro sabato 31 dicembre 2022. Il Sindaco di Alba Carlo Bo deve nominare il “Garante comunale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale” istituito con deliberazione del Consiglio comunale n. 56 del 26/06/2015. Il garante resta in carica cinque anni e può essere confermato una sola volta. Requisiti: - esperienza nel campo delle scienze giuridiche - dei diritti umani - delle attività sociali in istituti di prevenzione e pena e/o l’ufficio per l’esecuzione penale esterna - nel campo delle attività sociali. Tale ruolo è incompatibile con altre cariche istituzionali, anche elettive, ovvero incarichi di responsabilità in partiti politici. Il Garante non può essere un dipendente del Comune di Alba e dell’amministrazione giudiziaria. Non possono essere candidati coloro che abbiano riportato condanne definitive o condanne per delitti contro l’amministrazione della Giustizia. Il Garante non ha diritto ad indennità od emolumenti per l’attività prestata, solo il diritto al rimborso delle spese sostenute, debitamente autorizzate e documentate. Le candidature devono essere presentate alla Segreteria Generale del Comune di Alba - Ufficio Contratti (Piazza Risorgimento n. 1 - 12051 - Alba) tramite PEC all’indirizzo: comune.alba@cert.legalmail.it; oppure consegnate a mano allo stesso ufficio o via e-mail all’indirizzo: segreteriagenerale@comune.alba.cn.it. In oggetto scrivere: “Candidatura per il Garante dei Detenuti”. Le domande devono essere presentate entro e non oltre le ore 12.00 di sabato 31 dicembre 2022. La domanda, completa di generalità (nome e cognome, luogo e data di nascita, residenza, domicilio, codice fiscale, recapito telefonico, e-mail ed eventuale indirizzo PEC), deve essere accompagnata dai seguenti allegati: - curriculum vitae dettagliato, sottoscritto in calce e dichiarato veritiero sotto la propria personale responsabilità, dal quale si evinca il possesso dei requisiti richiesti; - titolo di studio; - attività lavorativa svolta. Altri dettagli sui requisiti e sulle competenze del Garante dei detenuti sono sul bando pubblicato sul sito: https://www.comune.alba.cn.it/ e sull’Albo Pretorio del Comune di Alba. Verona. Dalle confetture al pane, il progetto “Alfresco - Il fuori dentro” del carcere di Montorio di Manuela Trevisani L’Arena, 4 dicembre 2022 Due iniziative per il reinserimento lavorativo dei detenuti e detenute alla casa circondariale di Verona. “Alfresco - Il fuori dentro”. È così che si intitola il progetto di reinserimento lavorativo e sociale rivolto ai detenuti del carcere di Montorio e presentato oggi dalla direttrice Mariagrazia Bregoli. L’iniziativa, realizzata grazie alla collaborazione tra la direzione della Casa circondariale di Montorio, la cooperativa Panta Rei, la Fondazione San Zeno e la Fondazione Esodo, prevede l’attivazione di due laboratori. Il primo, nella sezione femminile, è intitolato “Imbandite - La tavola del riscatto”: un moderno laboratorio di trasformazione alimentare che, utilizzando principalmente eccedenze alimentari, produrrà marmellate, confetture e conserve da vendere e distribuire sul territorio. Il secondo progetto è “Pasta d’uomo - Mai stati così buoni” ed è realizzato nel reparto maschile, dov’è presente un forno per la realizzazione di pane e lievitati dolci. Quest’ultimo è già stato avviato in via sperimentale in ottobre e ha già realizzato dolci di Natale e panettoni. “Il nostro obiettivo”, spiega la direttrice della casa circondariale di Montorio, “è formare i detenuti e far acquisire loro nuove competenze, affinché, una volta usciti, riescano a trovare un lavoro degno del mondo libero”. Caserta. “Un giocattolo sospeso” per i figli delle persone detenute in carcere casertafocus.net, 4 dicembre 2022 L’iniziativa, promossa dall’Associazione “DifferenteMente APS” di Caserta, in collaborazione con l’Associazione forense “Piero Calamandrei” di Napoli, ha scopo di regalare un sorriso ai bambini figli delle persone detenute, consentendo loro di ricevere un regalo di Natale dai genitori ristrettì in carcere. Dal 1 al 20 dicembre presso uno dei punti vendita aderenti -Toys Company di Caserta, Aversa, Trentola Ducenta, Mercogliano e Atripalda nonché presso il negozio di giocattoli Nespoli di Napoli via Scarlatti - chiunque lo vorrà potrà acquistare un giocattolo o un prodotto per la prima infanzia e lasciarlo “sospeso”. I doni verranno, poi, ritirati e consegnati ai genitori detenuti negli istituti di Napoli Poggioreale, Secondigliano, Santa Maria Capua Vetere, Pozzuoli, nonché alle mamme detenute insieme ai loro bimbi nell’ICAM di Lauro o ai genitori detenuti nella struttura per le tossicodipendenze di Eboli.  “Nel periodo dell’anno che più di ogni altro parla di amore e vicinanza è necessario mettere la solidarietà al primo posto. In carcere non ci sono solo i detenuti ma anche, simbolicamente, i loro familiari e soprattutto i bambini e le bambine con un papà o una mamma in cella. L’assenza di un genitore è sempre una sofferenza e mancanza di un punto di riferimento importante per la crescita dei bambini. L’iniziativa ha lo scopo di regalare un sorriso ai piccoli che a Natale entreranno in carcere per incontrare uno o entrambi i genitori detenuti, nel tentativo di riallacciare, almeno per qualche ora, i legami spezzati dalla detenzione” spiega l’avvocata Francesca della Ratta, presidente di DifferenteMente. “Il Natale è fonte di gioia per tutti quei bambini che sanno che arriverà Babbo Natale a portare loro tanti doni. Eppure ci sono bimbi che non possono viverlo come dovrebbero. I piccoli bambini detenuti senza colpa che hanno seguito in prigione le loro mamme; i figli di genitori detenuti che, la mattina di Natale, non avranno nessun dono. Il nostro progetto spera di poter regalare un Natale felice anche a loro; ciò che per noi è un piccolo contributo per quei bambini meno fortunati sarà un grande regalo”, continua l’avvocata Sabina Coppola, componente del direttivo dell’Associazione Calamandrei, presieduta dall’avvocato Aldo Franceschini. Basta un piccolo gesto di solidarietà per far felice un bambino. Firenze. “Fuori binario”: un giornale che difende i diritti di chi non ha niente di Giovanni Capetta L’Osservatore Romano, 4 dicembre 2022 “Dare un reddito di dignità a chi vende il giornale in strada e riuscire a fare un’informazione dal basso, libera ed indipendente”. È così che Cristiano Lucchi, direttore dal marzo 2021, ci presenta Fuori Binario, il mensile di strada di Firenze. Nato nel 1994 e da allora autogestito e autofinanziato, il giornale si è più volte rinnovato, ma sempre restando dalla parte dei più fragili. Una scelta di campo che comporta delle battaglie: “Siamo contro i decreti sicurezza e in particolare le politiche del decoro come il daspo urbano (disposizione mutuata dall’ambito calcistico che consente ai vigili di allontanare da piazze o sagrati chi, pur non compiendo alcun reato, si comporta in modo ritenuto non decoroso, nda), in quanto strumenti che colpiscono in modo arbitrario, senza criteri univoci se non la percezione soggettiva su cosa costituisca degrado o meno. Qualcosa - dice con forza Lucchi - di intollerabile nei confronti di persone che non hanno niente”. Questo è lo spirito di Fuori Binario. Dai giornalisti a chi impagina, tutti, direttore compreso, sono volontari: una trentina di persone a cui vanno ad aggiungersi i diffusori, un’altra dozzina, ovviamente variabile, che di frequente scrivono essi stessi: da chi ha perso casa o lavoro, a chi, straniero, cerca inserimento; dall’ex detenuto all’invalido sociale che non riesce ad arrivare a fine mese. Al diffusore vengono affidate le copie al costo di un euro, che è la spesa viva di stampa e spedizione, e ciò che gli viene offerto in più costituisce il suo guadagno. Anche per questo Fuori Binario - la cui tiratura è di 1000-1500 copie - ha scelto di restare “di carta” e conservare la vendita per strada, piuttosto che on line, oltre a contare su un centinaio di abbonamenti. Sul sito (www.fuoribinario.org) si trovano i pdf dei numeri arretrati. Da un anno, poi, è nata una rete di distribuzione di “Luoghi amici”: associazioni, circoli o negozi, che comprano il giornale a due euro, per alimentare una cassa comune che riduce così il costo a copia per i diffusori. Un sistema che funziona, come testimonia il bilancio in pareggio della testata. Due volte al mese la redazione si riunisce per stabilire gli argomenti da trattare: dai ritratti di persone che con il loro impegno sono andate “controvento”, a rubriche sulle periferie, sul carcere, sulla salute mentale, racconti dei diffusori stessi, recensioni di libri o iniziative, opinioni dei lettori e tanta attualità - come le conseguenze della guerra in Ucraina - ma da una visuale sempre alternativa. Dalla sua fondazione, l’editore di Fuori Binario è l’associazione Periferie al Centro, che si impegna affinché i senza dimora abbiano la possibilità di una residenza anagrafica - altra battaglia storica del giornale e dell’associazione - ed è attiva nella distribuzione di alimenti, in collaborazione con le realtà di quartiere e il Banco Alimentare. “Firenze - spiega il direttore - sta subendo un drammatico fenomeno di gentrificazione. Intere zone della città vengono ridisegnate per i turisti, facendo decollare i costi degli affitti ed espellendo così le fasce popolari e i più poveri”. Cristiano Lucchi ci indica quindi due temi chiave per Fuori Binario: “Che il Comune la smetta con le politiche paternalistiche e riprenda a concedere la residenza a chiunque la richieda, senza subordinare un diritto previsto dalla Costituzione all’adesione a progetti di vita decisi a tavolino dagli assistenti sociali. E poi servono più luoghi di accoglienza, non solo notturni, soprattutto in questa stagione fredda”. Alessandro Bergonzoni: “Odio la tv dei talk show, ci servono il teatro e l’arte” di Clotilde Veltri La Repubblica, 4 dicembre 2022 L’attore tira le fila di quattro anni di tournée con lo spettacolo “Trascendi e Sali”. E mentre porta nei musei una misteriosa performance, racconta perché la politica ha bisogno di poesia. Di se stesso lei dice: “Sono un passante che passa da un pensiero a un altro, sono copritore di distanze tra un malato e un sano, un vecchio e un giovane”. Alessandro Bergonzoni è diventato questo? “Il passante è colui che va da una parte all’altra, ma è anche la parte dell’asola che lega, che annoda e può essere slegata. Il passante è qualcosa che oltrepassa e questo oggi è il mio lavoro, come azione e immedesimazione. Da quattro anni mi interrogo sulla No Man’s Land, cosa accade nella terra di nessuno che c’è tra gli spettacoli, le mostre, le presentazioni dei libri, gli incontri nelle scuole, nelle carceri. Accade che non posso più fare solo il mio mestiere, vivere soltanto della mia biografia, di quello che può condurmi a essere una persona di successo. Più che il successo mi interessa il far succedere, più dell’avvenenza il poter avvenire”. Quindi è cambiato il suo ruolo di artista, un tempo si diceva impegnato... “L’artista deve guardare oltre, e si tratta di un lavoro sovrumano perché il tema dell’umano è finito. Il salto quantico è quello della sovrumanità. Non posso più solo guardare i migranti e piangere, devo immedesimarmi, devo superare il confine. La gente pensa che il dolore lo prova solo chi ne è afflitto ed è giusto, ma come direbbe Einstein questa è la teoria della relatività mentre a me interessa la pratica dell’assoluto. Come posso mettere in pratica l’assoluto? Devo cercare di andare il più vicino possibile, quasi fin dentro l’altro”. Ha coniato un verbo, “capolavorare”, che significa? “Vuol dire smettere di fare solo il proprio mestiere e farne altri con incanto. Voglio prendere delle lezioni di incanto. Il ponte Morandi è caduto perché qualcuno non ha saputo capolavorare. A Ischia succede quel che succede perché l’uomo non capolavora più, al massimo lavora, ma non lavora ad arte”. Lavorare ad arte, “prendere p’arte”, “crealtà” sono altre parole che pratica. La sua ultima misteriosa performance si svolge nei musei, luoghi dell’arte, ma racconta delle carceri, luoghi di detenzione. “In questa performance c’è una voce narrante, io non parlo. Mi serve per raccontare l’importanza della tutela del bene culturale da parte dello Stato. La stessa tutela dovuta ad altre opere, gli uomini, chiuse nelle carceri. L’opera d’arte nel museo ha dei guardiani, ci sono delle teche, non la si può ledere e quando si trasporta bisogna usare delicatezza. Giotto, Cimabue, la Natività, una Deposizione, una Pietà sono tutte opere che richiedono questa attenzione. E lo stesso vale per i detenuti, lo Stato deve tutelarli. Chiaramente tutti diranno: quelle in carcere sono opere che hanno sbagliato e quindi devono pagare una pena, ma pagare una pena lecita non significa la mancanza di diritti o la tortura. Per questo io non credo nelle carceri: ci vado, parlo, incontro, abbraccio, tocco, stringo la mano perché è importantissimo che sentano, ecco l’idea del passante che torna. Io passo dalla civiltà all’inciviltà per dire loro del legame che ci unisce”. Anche i giovani ambientalisti utilizzano i musei per portare l’attenzione sui disastri del pianeta... “I ragazzi dicono: voi avete questo amore per la bellezza, ma colpendo le tele, noi vi vogliamo ricordare - in maniera cruenta e secondo me formalmente inesatta - che esistono anche l’albero, la terra, il fiume altrettanto belli perché opere della genialità della natura. La mia performance, precedente alla protesta ambientalista, interroga il tema dell’opera-corpo, dell’opera-uomo che non può essere lesa o uccisa. Va rieducata perché dovrà uscire dal carcere e diventare patrimonio dell’umanità. Come è possibile che da una sofferenza si ricavi rieducazione? Solo l’arte è rivelatoria. Io credo nella rivelazione, nella rivoluzione”. Cito: “Venga dopo il politico, prima si guardi al polittico che letteralmente significa forma sacra, qualsiasi opera d’arte costituita da più elementi distinti, ma collegati tra loro”. È un deluso della politica? “Sì, sono triste e deluso dalla politica, ma sono stanco-vivo non stanco-morto nel senso che non sono rassegnato, la mia è disperanza. Ma la speranza non serve a niente se non hai un’energia ulteriore che è quella che ognuno di noi può tirare fuori. Tutti sostengono che è nel dolore che si comprende, io credo che sia anche nella meraviglia, nell’incanto e nell’immedesimazione. Se togli alla parola Ministero la n e la i resta mistero. Questo chiedo alla politica, di vedere oltre. Molti dicono che servono nuovi leader, ma a noi servono nuove anime, capesante”. Cosa c’entrano le capesante? “C’entrano perché si parla sempre di eletti che, alle elezioni, sono i votati, ma i veri eletti sono quelli che hanno una grazia particolare. Uno dice: mica posso essere Leonardo o Michelangelo o Gino Strada o don Ciotti. Ma queste persone sono come noi, non sono diverse, il fatto di andare oltre è quello che ne fa delle capesante”. Quindi il salto quantico è non voltarsi dall’altra parte... “In assenza di una costituzione interiore, la bellezza della nostra Costituzione tanto decantata, non serve a niente. La mia costituzione interiore me la devo costruire personalmente, ci vogliono scuole d’anima, non scuole di partito. È inutile che il parlamento applauda Liliana Segre quando dice che in Libia ci sono gli stessi lager dove è stata lei, se poi lasciamo che la legge Minniti rispedisca i migranti in quei lager. Serve una poetica più che una politica”. I suoi strumenti: le parole e la comicità... “Io uso la comicità e non la voglio dimenticare, né svendere. Non voglio diventare quello che dice: prima facevo il comico e ora faccio altro. La chiamo arte contemporanea nel senso che contemporaneamente fai tutto. La comicità è un mix di religione, cattiveria, bontà, sanità, c’è paura, c’è liberazione, protesta, dolcezza e lo spettatore che ride a stancamento, esausto, come dicono a Napoli fa un’esperienza, per me è fondamentale. Perché anche la risata occupatoria e non liberatoria è una forma di frequenza, di sacralità, di grande liberazione e impegno del corpo. E lavora sul cervello, sull’anima, sulle cellule che vibrano in modo diverso, perché la risata è potente, è una forma di meditazione e di cura”. Ok la comicità, e la scrittura? “Scriviamo da destra a sinistra e questo non è andare da una parte all’altra? Lo scrittore non migra ogni giorno attraversando il mar bianco del foglio? E ti puoi perdere, devi cancellare, devi tornare indietro, salvare le parole, sottolinearle, non è metaforicamente l’immagine di tutta questa gente che cerca salvezza?”. Recentemente ha spiegato che, durante il Covid, il cinema le è mancato, la tv l’ha odiata... “I talk show sono inverecondi: si litiga, si presentano i libri, con dietro le foto dei morti - del covid, della guerra, delle catastrofi - e intanto tutti ridono, fanno battute, litigano. Noi abbiamo bisogno di cominciare a trasmettere elettricità, frequenza, luce. Non possiamo avere venti trasmissioni identiche con la stessa mancanza di sensibilità. Per forza c’è indifferenza come dice il nostro arcivescovo Zuppi. Ci siamo abituati all’abitudine, è devastante. L’arte e la poesia chiedono altro. Conta quello che stiamo facendo nell’Universo solo che se lo dice Dante e qualcuno lo legge siamo contenti, se lo dice qualcuno citato dai famosi tarzaniani - citacitacita - ci commoviamo. Tutti citano qualcuno, ma non diventiamo mai Dante, non diventiamo mai Alda Merini, mai Montale. Noi stiamo a guardare. Ecco i dieci demandamenti, fallo tu, pensaci tu, organizzalo tu”. “Una mamma contro G.W. Bush”, cercando giustizia a Guantanamo di Mazzino Montinari Il Manifesto, 4 dicembre 2022 In sala l’ultimo film di Andreas Dresen, i fantasmi di inizio millennio nella lotta di una madre. “Guantanamo si trova a Cuba, ma è una base militare statunitense. Quindi gli americani dicono che i prigionieri si trovano in un altro paese, fuori dalla giurisdizione dei loro tribunali. E i tribunali cubani dicono…Al momento suo figlio si trova in una terra senza la giurisdizione di nessuno”. L’avvocato Bernhard Docke cerca in tutti i modi di spiegare a Rabiye Kurnaz quanto sia complicato il caso che vede coinvolto suo figlio, prelevato e imprigionato a Guantanamo nel gennaio 2002 sulla base di un semplice sospetto di terrorismo. Un viaggio in Pakistan, qualche frase ingenua, la visita alle moschee. Tanto è bastato per risucchiarlo in una specie di buco nero per giorni, mesi, anni. E intanto il legale, per la prima volta in vita sua, si trova a difendere un assistito senza mai averlo visto. Il terzo millennio iniziò così. Sono trascorsi poco più di vent’anni da allora, un’inezia. Eppure pensando a quanto accaduto nel frattempo, la vicenda di Murat Kurnaz, e di tanti come lui, sembra ormai confinata dentro un libro di storia antica. Le Torri Gemelle, le ritorsioni in Afghanistan e in Iraq, le propagandistiche guerre di civiltà, le decapitazioni, i proclami dei vincitori, le promesse di un bene superiore, gli attentati, la paura. E poi i rapimenti, gli arresti e la sospensione di tutti i diritti. Un brutale riassunto che sicuramente procede per difetto. A volgere lo sguardo indietro, un po’ a sorpresa, è il regista tedesco Andreas Dresen che, proprio all’inizio del nuovo Millennio esordiva con Catastrofi d’amore, a suo modo un altro lavoro retrospettivo che osservava le prime conseguenze esistenziali dell’unificazione tra le due Germanie. Ma se nell’opera prima, Dresen ondeggiava tra un personaggio e l’altro, con Una mamma contro G.W. Bush a emergere è la sola protagonista Rabiye Kurnaz interpretata a da un esuberante Meltem Kaptan, premiata al Festival di Berlino come miglior attrice (e un altrettanto generoso premio è stato consegnato a Laila Stieler per la miglior sceneggiatura). Un film che resta sospeso tra il dramma e la commedia. D’altro canto, una certa leggerezza sembra indispensabile per raccontare una storia piccola come quella di una famiglia di origini turche residente a Brema che, improvvisamente, si trova a battagliare contro il presidente degli Stati Uniti, Greorge W. Bush. Non tanto per sottovalutare gli orrori che sono alla base di questa storia, ma per sottolineare l’assurdità e crudeltà di un potere cieco. La lezione che nasce da una tragedia, l’esempio di un padre di don Antonio Mazzi Corriere della Sera, 4 dicembre 2022 Un treno falciò due ragazze che camminavano lungo la strada. Nessun senso di disperazione, grande senso di responsabilità e la richiesta di aiuto per fondare un’associazione. Erano le due della notte. “Papà ci vieni a prendere?”. Il papà non arrivò. Un treno falciò le due ragazze che camminavano lungo la strada in attesa. Di chi è la colpa? La gente in testa ha la solita ipotesi: ragazze in giro di notte, papà poco presenti, discoteche o peggio, la velocità. Io ho visto il papà. Sono stato insieme a lui dieci minuti. L’ho guardato bene in faccia. Per me è un eroe per tre motivi contrari a quelli delle opinioni della gente. Non essere andato, ma anzi sentirsi contento perché sapeva dove erano, perché avevano telefonato, e perché erano “normali” (dalla voce). Il perché non sia arrivato, il perché della “falciatura delle ragazze”, e perché a lui … non ne abbiamo parlato, invece, mi disse: “Devo fare un’associazione per aiutare chi nelle mie condizioni e per convincere tutti a leggere la vita diversamente”. Quel padre, per la gente quasi assente e disinteressato, per me, che l’ho ascoltato per dieci minuti, è un eroe. Ho stretto le mani; l’ho abbracciato e ho sentito quello che non si può descrivere. Nessun senso di disperazione, un grande senso di responsabilità e la richiesta di un aiuto per fondare l’associazione. Era domenica pomeriggio, eravamo in televisione. Esplodere in pianti e in gesti dolorosi di solito è quello che accade a tutti, non per teatralità, ma perché è normale in questi momenti perdere il controllo di se. Ci siamo guardati due o tre volte in diretta. Sembrava volesse dirmi “Tu, che sei prete, dimmi perché?” Invece non è vero. Pensandoci bene i suoi occhi erano due preghiere, due messaggi, due gesti da uomo vero cosciente fino in fondo del suo gesto di “leggerezza” e nel contempo sicuro della sua innocenza. Si, della sua innocenza! Avevo le sue mani tra le mie, ma le sue erano meno tremanti delle mie e i suoi occhi erano più azzurri dei miei. L’associazione è già partita, ma per me, quei dieci minuti prima di entrare in scena, sono ancora freschi di giornata. Dopo novanta e più anni ho capito che non ho capito niente dalla vita e le cosiddette disgrazie vanno lette, interpretate, vissute in modo che lui, padre, ha trovato e che io, prete, non ho ancora trovato. La vita segue in silenzio i passi dei pellegrini, sia sulla via dritta come sugli incroci. Quella notte il gelo è caduto con lo stridore di sogni infranti. C’è un’altra cosa dalla quale non sono capace di separarmi: le due ragazze che stanno camminando attorno alla notte non immaginando di danzare verso la morte. Fatemi chiedere: Cos’è la giovinezza? Cos’è la notte? Cos’è la paternità? Cos’è il coraggio? Cos’è la vita? Dice Josè Tolentino Mendonca: “Tutto è effimero: ieri ascoltavo la tua voce, oggi solo il vento”. Mi è saltato dentro la mente il primo Giobbe, quello paziente che non si lamenta mai, ma accetta da Dio la disgrazia. Avevo dubitato che esistesse un Giobbe che se avesse parlato la sua bocca l’avrebbe condannato e se fosse stato innocente i fatti lo avrebbero contraddetto. Amavo molto di più il secondo Giobbe, quello polemico. Invece ecco qui il primo Giobbe che mi insegna quanto la sofferenza insegni all’uomo la gratuità della salvezza. Accettate queste righe come messaggio e invito soprattutto rivolto ai padri. La burocrazia frena il decreto flussi: lavoratori già formati sono rimasti senza nullaosta di Alessandra Ziniti La Repubblica, 4 dicembre 2022 Centinaia di migranti pronti a venire in Italia con regolare contratto di lavoro sono rimasti in Africa perché le prefetture non riescono a smaltire le pratiche. Il governo - dice il ministro degli Esteri Antonio Tajani - sta studiando la strategia per il nuovo decreto flussi. “Vorremmo avere lavoratori che arrivano nel nostro Paese già formati”. Peccato che il problema, vista l’assoluta inadeguatezza degli uffici italiani a cui sono demandate le pratiche, non è formarli a casa loro ma, molto più banalmente, evadere la burocrazia che serve per farli arrivare a casa nostra. Ne stanno facendo le spese alcune centinaia di lavoratori che, nei mesi scorsi, sono stati formati (con fondi del governo italiano e della Ue) nei loro Paesi d’origine, in Africa, seguendo corsi vidimati e registrati dalle ambasciate, sapendo di essere stati individuati come destinatari di un contratto stagionale previsto dal decreto flussi 2021, ma in Italia non sono mai arrivati. Semplicemente perché dal Viminale non è mai arrivato il nullaosta, primo passo per il datore di lavoro per poi chiedere il visto per l’ingresso legale del lavoratore prescelto. Avrebbero dovuto essere impiegati per la stagione estiva nella riviera romagnola o in aziende agricole per la raccolta di frutta e ortaggi, ma passato invano il tempo utile, il datore di lavoro ha rinunciato. “Sono persone che avevano intenzione di venire a cercare lavoro in Europa e avevano accettato di seguire questa via legale - spiega Marina Mazzoni che per Arcs segue il progetto Before you go finanziato con il fondo Fami per l’asilo e la migrazione - hanno seguito corsi di italiano ottenendo la certificazione A1, hanno portato a termine la formazione prevista nei diversi settori per cui erano arrivate le richieste di manodopera, agricoltura, edilizia, mediazione culturale, cura della casa e della persona, tutto vidimato dalle ambasciate italiane, e poi si sono ritrovati con niente in mano. Tanta frustrazione così come anche i datori di lavoro. E questo nonostante il decreto semplificazione che a giugno scorso aveva previsto che in 50 giorni sarebbero stati pronti nullaosta e relativo visto”. Ormai alla fine dell’anno, la percentuale di pratiche lavorate del decreto flussi 2021 è intorno al 99 %, ma i lavoratori stranieri effettivamente impiegati, su 69.000 previsti, sono stati poco più di 50.000, 4.200 i pareri negativi, 2.000 le rinunce. Le prefetture sono da molto tempo a corto di persone tanto che dopo più di due anni non sono ancora riusciti ad evadere le 200.000 pratiche per far emergere dal lavoro nero gli stranieri già presenti in Italia, molti dei quali ( con l’associazione Ero straniero) stanno dando vita ad una class action. E gli uffici dell’impiego, che nel giro di poche settimane dovrebbero censire i percettori di reddito di cittadinanza italiani o stranieri da impiegare nelle filiere produttive in modo da poter stabilire il numero delle quote da offrire ai Paesi stranieri, non stanno messi meglio. Per tappare la falla nel 2023 il Viminale conta sugli 800 contratti a termine previsti dalla nuova legge di bilancio: 300 assunzioni nelle prefetture e 500 al Dipartimento di pubblica sicurezza per rafforzare gli uffici immigrazione, la Direzione centrale immigrazione e la polizia di frontiera. Basterà? “Un decreto flussi come quello annunciato - dice Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci - non è altro che un’operazione ideologica che mette insieme i due nemici della destra, gli immigrati e i percettori di reddito di cittadinanza, a loro dire i fannulloni. Non è certo un progetto che va nella direzione di creare vie di ingresso legali nel nostro Paese”. Trieste città chiusa. Migranti costretti a vivere in strada di Marinella Salvi Il Manifesto, 4 dicembre 2022 In due mesi 5.000 stranieri sono arrivati nel capoluogo giuliano. Tra loro 500 minori non accompagnati e donne sole con figli. Dice il Sindaco di Trieste Roberto Dipiazza: “Basta, non faccio più niente per questi qua” e si riferisce ai migranti. Dice che gli hanno riferito di alcuni danni rilevabili in una struttura di accoglienza della città giuliana. Eppure fino a oggi questo sindaco non sembra aver fatto molto per i migranti ma neanche per i senzatetto, per le tante fragilità che avrebbero comunque diritto a una esistenza dignitosa. Ha chiuso l’unico help center che, nel bene e nel male, rappresentava un punto di riferimento e ha lasciato in mezzo alla strada chi arriva dopo viaggi sfiancanti e cerca solo un riparo e un poco di cibo. Ci pensano, ma è al di là delle loro forze, la Caritas, Sant’Egidio, l’ICS, don Vatta, la Diaconia valdese e i volontari di Linea d’Ombra che ogni giorno, senza mancare mai, accolgono nella piazza davanti alla Stazione le decine, centinaia, di ragazzi stremati che arrivano quotidianamente dalla rotta balcanica. Ragazzi e famiglie, donne e bambini anche piccolissimi che arrivano con il buio cauti e intimoriti: negli ultimi due mesi quasi 5.000 persone a Trieste, il 60% provenienti dall’Afghanistan con poco meno di 500 minori non accompagnati, un centinaio i nuclei familiari, madri con i figli o donne sole. Accoglienza in piazza con qualche piatto cucinato in casa, le bende e qualche antinfiammatorio per curare le ferite che hanno raccolto durante il game. Se piove troppo ci si rifugia nel sottopasso ma a sera arriva la polizia per il “fuori tutti”. Ragazzi respinti più volte, che hanno conosciuto i campi di concentramento della Bosnia, che hanno subito i morsi dei cani, le bastonate, gli spari della polizia croata, che sono arrivati anche in Questura, a Trieste, convinti di poter far valere i loro diritti ma sono stati rimandati in strada con un appuntamento fra giorni o settimane, perché anche la Questura denuncia di essere in affanno e comunque deve dare priorità ai cittadini ucraini. Clandestini per legge, inesistenti per servizi sociali o sanitari, destinati a dormire per strada e a questuare un piatto di minestra nella mensa sovraffollata della Caritas, se fanno in tempo, se capiscono dove si trova. Un unico centro diurno con qualche posto letto dove passare la notte, venti letti, si fa a turno ma è splendido: c’è un bel tepore e persino le docce. In piazza solo i teli argentati, ma non bastano mai, distribuiti da Linea d’Ombra, nemmeno, per dire, un gabinetto chimico come sembrerebbe banale. Si è spesso vantato, questo sindaco, di non avere problemi di spazio: ci sono caserme dismesse, possiamo fare cose belle, tutto sorrisi e bontà d’animo a favor di telecamere o del ministro in visita. Parole. Le ultime a una rappresentanza dei seicentotredici triestini scrittori, giornalisti, intellettuali, medici che hanno sottoscritto un lungo j’accuse chiedendo si smetta la vergogna di lasciare centinaia di ragazzi per strada, di non fornire alcuna assistenza, di persino biasimare chi in piazza cerca di dar loro una mano. Un incontro, qualche settimana fa, nel quale la disponibilità sembrava totale e, anzi, c’era stata persino l’individuazione di un grande spazio praticamente pronto con riscaldamento e bagni. Tranne essere smentito dall’assessore di riferimento praticamente in tempo reale: nessuno spazio né nuovo né vecchio. Resta un campo di raccolta in periferia con qualche edificio adibito a mensa e dormitorio dove il posto per cento si è subito esaurito e l’esercito ha montato tende di fortuna nel prato. Trecento e più a stazionare lì per un tempo imperscrutabile e niente da fare, niente, se non fare la fila alla mensa e rifugiarsi nelle brande quando è l’ora. Obbligati a restare in attesa che la Prefettura trovi dove ricollocarli. Ci sono danni? C’è qualche lavandino rotto? Ci sono cessi inagibili? Di chi la colpa se colpa vogliamo trovare? Di chi la colpa di un pozzo nero che non può reggere quei numeri e tracima, riempiendo di liquami il prato? Ma è tutta la regione ad essere sprofondata in un buco nero: gli arrivi dalla rotta balcanica ci sono e ci saranno, i trasferimenti verso altre Regioni sono frammentari da mesi. A Gorizia afghani, pakistani, curdi, sono accampati intorno alla stazione o davanti alla Questura illusi che là le pratiche si risolvano più rapidamente che a Trieste. Per settimane Gradisca è sembrata un suk e ancora non è finita: al Cara sono già troppo stipati e a decine restano fuori, addossati ai muri perimetrali, riparati da qualche cartone o qualche telo ed è soltanto per la solidarietà di chi sta dentro se riescono a mangiare qualcosa. Meno male che una parrocchia ha provveduto ad aprire un dormitorio a bassa soglia per almeno smussare tanto orrore. C’è la società civile, quella sì, che si è messa in rete con le associazioni che raccolgono generi di prima necessità, portano sacchi a pelo, coperte, giacche, scarpe. Sono Insieme con Voi - Gorizia Solidale, Circolo ARCI Skianto! a Gradisca, Rete Solidale Pordenone, Linea d’Ombra ODV a Trieste e, a Udine, Ospiti in Arrivo. Volontari, fino in fondo, che mettono anche la loro fantasia al servizio della causa, per raccogliere fondi e materiali da distribuire a chi, evidentemente, non è scappato dal paese giusto e allora non trova rispetto né della normativa internazionale né di quella nazionale. Suonano pretestuose e ipocrite le scuse addotte dalle diverse istituzioni che non rendono effettiva l’accoglienza e suona scandaloso il ghigno offeso di un sindaco davanti a un rubinetto divelto. Migranti. Processo Libra. 268 migranti, tra cui 60 minori: tutto prescritto di Giansandro Merli Il Manifesto, 4 dicembre 2022 Alla sbarra due ufficiali italiani: erano accusati di aver ritardato l’invio della nave militare. L’11 novembre 2013 nel “naufragio dei bambini” morirono 268 persone. Reati estinti per intervenuta prescrizione. È finito così l’unico processo sui naufragi nel Mediterraneo centrale in cui alla sbarra era finito lo Stato italiano. Gli ufficiali Luca Licciardi e Leopoldo Manna erano stati rinviati a giudizio per rifiuto di atti d’ufficio e omicidio colposo. L’11 novembre 2013, a poche decine di miglia da Lampedusa, si ribaltò un barcone: 268 morti, tra cui 60 minori. I due imputati erano rispettivamente comandante della sezione operazioni reali correnti di Cincnav, il Comando in capo della squadra navale della marina militare, e responsabile della sala operativa della guardia costiera. Sono finiti a processo perché avrebbero ritardato l’invio della nave militare Libra, la più vicina al barcone in difficoltà. La prima richiesta di aiuto alle autorità italiane è arrivata alle 12.26. Il naufragio è avvenuto alle 17.05. Per quasi cinque ore le chiamate disperate dei migranti non hanno ottenuto alcun effetto. “Malta aveva assunto il coordinamento del caso”, hanno ripetuto gli imputati e i loro legali durante le indagini preliminari e poi davanti al tribunale di Roma. Che era chiamato a esprimersi solo sui 43 minuti che intercorrono tra la richiesta di invio di nave Libra da parte di Malta, con un fax delle 16.22, e il ribaltamento del peschereccio. Non si avranno risposte neanche su questo pezzetto della storia. Quando ieri Anna Maria Pazienza, presidente del tribunale in composizione collegiale, ha letto come si sarebbe concluso il processo in aula è calato il silenzio. Gli imputati speravano nell’assoluzione, confortati dalle richieste dei pm che il 4 ottobre scorso hanno sostenuto: “il fatto non sussiste”. Silenzio anche tra le parti civili, cioè tra gli avvocati che rappresentavano i parenti delle vittime, che hanno lavorato duramente per arrivare a una verità processuale su quello che fu subito ribattezzato il “naufragio dei bambini”. “Tra il 2013 e il 2020 non si è fatto praticamente nulla. La procura si è presa tempi lunghissimi per le indagini. L’accertamento della verità ha incontrato ostacoli a ogni passaggio. Tutto questo ha inciso sul processo”, afferma Stefano Greco, legale di parte civile. Prima un conflitto tra procure militare e civile e poi le richieste di archiviazione dei pm hanno segnato la fase delle indagini preliminari. Il processo è iniziato solo perché nel novembre 2017 il gip Giovanni Giorgianni ha disposto l’imputazione coatta di Licciardi e Manna per l’intervallo di tempo seguente al fax. Le udienze sono iniziate il 10 ottobre 2020. Due anni a tambur battente. Non sono bastati. È arrivata prima la prescrizione. “Speriamo solo non dipenda dall’ultimo rinvio”, dicono ancora le parti civili. La sentenza era attesa l’8 novembre ma è stata rinviata perché uno dei giudici aveva il Covid-19. Precedentemente la difesa di Manna aveva presentato una memoria secondo cui i reati erano prescritti già da un anno. Ma per i calcoli della controparte la prescrizione sarebbe dovuta intervenire tra metà novembre 2022 e febbraio 2023. Anche su questo punto sarà necessario leggere la sentenza, tra 15 giorni. Intanto la non assoluzione dei due ufficiali lascia aperta la strada a eventuali azioni in sede civile, con possibili richieste di risarcimento danni. Migranti. Processo Open arms, testimoniano gli ex ministri Toninelli e Trenta di Manuela Modica Il Fatto Quotidiano, 4 dicembre 2022 “Salvini agiva in totale autonomia. Non firmammo il decreto col divieto di sbarco”. All’udienza del processo al leader della Lega, accusato del sequestro dei 147 migranti a bordo della nave della ong spagnola nell’estate 2019, la deposizione dei due ex ministri dei 5 stelle. Momenti di tensione tra l’ex ministro delle Infrastrutture e l’avvocata Bongiorno: “Mi spiace dirlo, ma lei, signora avvocato, ha detto una falsità. Non c’è mai stato un Consiglio dei ministri con all’ordine del giorno la questione che trattasse il caso Open Arms”. All’epoca dei fatti di Open Arms, nell’agosto del 2019 “si sapeva che la mozione di sfiducia del governo era pronta e Salvini, che ormai agiva in totale autonomia, era in compagna elettorale. Si stava cercando di monetizzare il consenso, stressando un argomento molto sentito come quello dell’immigrazione. Fu lui a decidere il divieto dello sbarco”. Lo dice Danilo Toninelli, l’ex ministro delle Infrastrutture che oggi ha testimoniato al processo Open Arms a carico del vice premier Matteo Salvini. Il capo della Lega è accusato del sequestro dei 147 migranti a bordo della nave della ong spagnola nell’estate 2019. Lo scontro Toninelli-Bongiorno - La testimonianza di Toninelli è stata condita da momenti di tensione tra l’esponente dei 5 stelle e Giulia Bongiorno, senatrice della Lega e legale di Salvini: “Mi spiace dirlo, ma lei, signora avvocato, ha detto una falsità. Non c’è mai stato un Consiglio dei ministri con all’ordine del giorno la questione che trattasse il caso Open Arms o qualsiasi altro caso di sbarco di una ong”, così si è rivolto Toninelli a Bongiorno, che dal canto suo ha sottolineato come il teste, denunciato dalla stessa avvocata, sia anche imputato in un processo per diffamazione a Roma per delle alcune tv riguardanti la stessa Bongiorno. I video del sommergibile - Un’udienza quella che si è tenuta oggi nell’aula Bunker dell’Ucciardone che è entrata nel vivo del processo con la deposizione di Toninelli ma anche dell’ex ministra della Difesa, Elisabetta Trenta. A segnare la giornata anche la richiesta dell’acquisizione di materiale video e audio da parte della difesa di Salvini. Un sommergibile della Marina militare italiana aveva documentato l’operazione di sbarco della Open Arms del primo agosto, prima intercettando la conversazione tra la Ong e i migranti della piccola imbarcazione che richiedeva il soccorso. Poi un video in cui è stato documentata tutta l’operazione di soccorso, che, su richiesta della difesa dell’imputato, è stato acquisito assieme agli audio dal Tribunale presieduto da Roberto Murgia. Un’attività d’indagine che è stata trasmessa con un’informativa alle autorità competenti ma di cui nessuno pare sapesse nulla: “Un’informativa fantasma che noi vogliamo vedere”, ha sottolineato Bongiorno. “Sarebbe gravissimo se qualcuno avesse nascosto, omesso o dimenticato documenti rilevanti da parte di organi dello Stato. Cioè se ci sono pezzi di Stato che dimenticano o nascondono interventi di altri pezzi di Stato per danneggiare oggi Salvini domani chissà vuol dire che c’è qualcosa che non funziona”, ha aggiunto il vice premier parlando con la stampa alla fine dell’udienza. La denuncia di Bongiono: “Condotte anomale dall’ong” - Il sommergibile della Marina ha documentato con materiale audio, video e foto il momento del salvataggio della Open Arms dell’1 agosto in acqua libiche. L’esistenza di questo materiale era stata menzionata in una precedente udienza da Roberto Mancini, funzionario del ministero dell’Interno. Un video che documenta l’operazione di salvataggio di Open Arms e un audio in cui la Ong spagnola acquisisce i dettagli della posizione del barchino di legno azzurro con i migranti a bordo, questo il contenuto del materiale oggi acquisito dal tribunale. Sul quale punta la difesa: “Ci furono delle condotte anomale da parte dalle Ong - ha detto Bongiorno - o quanto meno ci sono dei sospetti che sono assolutamente già documentati in una informativa. Quando ci sono dei sospetti di anomalie devono entrare nel fascicolo in modo tale che i vari giudici possano farsi il proprio convincimento. Ebbene, nulla di tutto questo è stato mai depositato: è sempre mancata la valutazione di queste violazioni da parte delle Ong che sono contenute in una informativa che si sa che esiste ma che ancora non appare agli atti. Quindi una informativa fantasma che noi vogliamo vedere”. Il rifiuto di firma sul decreto - “Anomalie”, dunque, secondo Bongiorno che rimescolerebbero le carte, perché non erano emerse al tempo in cui il Tar del Lazio si pronunciò sul divieto di sbarco firmato da Salvini dichiarandolo illegittimo: è questo il punto cruciale del processo perché l’accusa mossa dalla procura di Palermo, nei confronti dell’allora ministro dell’Interno, è di sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio. Contestazioni legate al momento in cui dopo la pronuncia del Tar del Lazio, il ministro continuò a non concedere il Pos, il Place of Safety, l’indicazione del porto sicuro più vicino dove sbarcare per la sicurezza dei migranti. Salvini invece aveva pronto un nuovo decreto di divieto di sbarco che non fu firmato dagli altri due ministri, Trenta e Toninelli: “Non firmo in nome dell’umanità: confermo che mi rifiutai di firmare il secondo decreto che reiterava senza modifiche il precedente bocciato dal Tar, nel frattempo, anzi, le condizioni dei migranti si erano ulteriormente aggravate”, ha detto l’ex ministra della Difesa. Che in merito all’informativa del sommergibile ha specificato che non era “a conoscenza di questi documenti sull’attività del sommergibile della Marina militare”. La deposizione di Trenta - Sul rischio di terrorismo, Trenta ha poi aggiunto: “Non ho avuto informazioni su un eventuale rischio terrorismo. Ma seppur in presenza di eventuali terroristi a bordo, ritenevo bisognasse procedere al trasbordo dei migranti e procedere contestualmente a tutti gli accertamenti del caso: ritengo che le nostre battaglie politiche non debbano ricadere sulle vite dei più fragili e che le vite umane debbano essere sempre rispettate “. Una deposizione giudicata dal vicepremier, imputato al processo, come “pittoresca”. Il secondo decreto, però, non fu firmato neanche da Toninelli: “Non lo firmai - ha detto l’ex ministro delle Infrastrutture - Non aveva senso fare un altro decreto per farselo respingere nuovamente”. Toninelli ha poi segnato una linea di demarcazione: “Un conto è la linea politica e io da ministro condividevo la linea politica di una maggior condivisione a livello europeo della ridistribuzione dei migranti, ma tutto questo si ferma e si conclude nella responsabilità amministrativa dei singoli. Dal momento della richiesta del Pos entra in gioco la responsabilità del ministero: due cose completamente diverse. In mare salvare vite umane è obbligatorio. Chi vede qualcuno che affoga deve prestare soccorso”. Toninelli diede pure la disponibilità a fare scortare la nave della Ong in un porto spagnolo: “Fui contattato dal mio omologo spagnolo - ha raccontato - che si era detto disponibile all’apertura di un pos (porto sicuro ndr) che però, poi, non andò a buon fine. Eravamo anche disposti ad accompagnare i migranti in un porto spagnolo. Da ministro cercai di fare di tutto per trovare una soluzione definitiva. Se alla richiesta di pos si fosse aperto un porto italiano, non avrei offerto la disponibilità di portare i profughi in Spagna, l’ho fatto solo perché il Viminale non concedeva un porto italiano”. La versione dell’ong - Incalzato dall’avvocata Bongiorno che lo ha sottoposto ad alcune affermazioni postate sui social, l’ex capo delle Infrastrutture ha ammesso che “ci furono varie violazioni di legge, la Ong spagnola non si comportò in maniera corretta”. “Toninelli dovrà dimostrare le sue affermazioni. Abbiamo attivato tutte le procedure di legge o non saremmo qui. Ma siamo contenti che si possa fare luce sul nostro operato e su quello di tutte le Ong”, ribattono dalla Open Arms. E sul video dal sommergibile italiano: “Siamo molto sereni - confermano dalla Ong - che le immagini possano solo dimostrare la necessità del salvataggio in mare e il nostro comportamento più che corretto”. Alla prossima udienza, il 13 gennaio, a testimoniare per l’accusa saranno l’ex presidente del consiglio, Giuseppe Conte, e gli ex ministri Luciana Lamorgese e Luigi Di Maio. Migranti. I rimpatri forzati in Cina e il silenzio dell’Italia di Lirio Abbate L’Espresso, 4 dicembre 2022 Uffici investigativi cinesi truccati da agenzie di servizi. Agiscono nel nostro Paese per “convincere” al ritorno chi è contro il regime con procedure illegali e violazioni dei diritti umani. Viminale e Farnesina tacciono. Com’è possibile che in Italia ci siano decine di uffici investigativi cinesi camuffati da centri per i servizi che hanno lo scopo di rintracciare nel nostro Paese i dissidenti del regime e rimpatriarli? Formalmente gli uomini di Xi Jinping distribuiti in diverse città non “rapiscono” delle persone da loro “ricercate” che vogliono riportare in Cina. Se queste avessero commesso un reato, con una regolare procedura di estradizione si potrebbe procedere al rimpatrio. Questo invece non viene fatto secondo le normali procedure giudiziarie e così i cinesi hanno purtroppo perfezionato gli errori del passato commessi dagli occidentali nella lotta al terrorismo islamico, vedi la vicenda di Abu Omar. In questo caso non si tratta di “extraordinary rendition”, ma dell’accompagnamento dall’Italia a Pechino o a Hong Kong del ricercato che è stato “convinto” con una serie di operazioni violente effettuate in patria, come minacce ai parenti e torture, a lasciare “volontariamente” il nostro Paese. Di queste persone è poi complicato conoscere che fine facciano una volta messo piede in Cina. Tre anni fa in centinaia di migliaia sono scesi in piazza per protestare contro una proposta di legge che consentiva l’estradizione di sospetti criminali nella Cina continentale, dove i tribunali sono controllati dal Partito Comunista. Ma tutto ciò non è bastato. Adesso un’inchiesta giornalistica internazionale a cui ha partecipato L’Espresso con la Cnn e Le Monde, mette in luce quello che avviene anche nel nostro Paese. I cinesi l’hanno chiamata operazione “caccia alla volpe”. Di tutti i fuggitivi che rientrano in Cina, come svela Gabriele Cruciata sull’Espresso di questa settimana, solamente una percentuale compresa tra l’uno e il sette per cento usa vie ufficiali. Lo affermano i dati forniti dalla Commissione centrale per l’ispezione disciplinare, il più alto organismo di indagine interno al Partito Comunista Cinese che gestisce la “campagna contro la corruzione”, utilizzata dal segretario Xi Jinping per le purghe sia interne al Partito sia a livello internazionale. Gli altri “fuggitivi” sono stati illegalmente “persuasi a tornare”, per usare le parole delle stesse autorità cinesi. L’inchiesta spiega che la preferenza del regime per la “persuasione” è legata alla ritrosia dei Paesi occidentali a rimpatriare i ricercati per metterli nelle mani di Paesi in cui i diritti umani di cittadini ordinari e oppositori politici sono sistematicamente calpestati, come ha affermato di recente la Corte europea per i diritti dell’uomo. Nei documenti pubblici, che pubblichiamo online a corredo dell’inchiesta giornalistica, per concretizzare il desiderio di riportare i fuggitivi in Cina, si legge che l’operazione “Caccia alla volpe” ha avuto inizio nel 2014 e fino allo scorso mese le forze di polizia cinesi hanno condotto più di undicimila operazioni riguardanti talvolta singoli individui e talvolta interi gruppi familiari. Decine di migliaia di persone fuggite nei Paesi occidentali e di cui si sono poi perse le tracce al rientro in Cina. Visto che in Italia abbiamo scoperto stazioni di polizia cinesi camuffate, ci si chiede se e come è possibile che questo accada, e come sia stato consentito a persone vicine al regime di Xi di lavorare indisturbate e senza autorizzazioni nel nostro Paese seguendo le indicazioni ufficiali della Ccdi (Commissione centrale per l’ispezione disciplinare) applicando la “persuasione al ritorno” (ritorsioni contro i familiari rimasti in Cina), di agenti sotto copertura, di spie, di sistemi di tortura e addirittura di rapimenti come “metodo legale” per convincere i fuggitivi a tornare. Sono domande che abbiamo posto alla Farnesina e al Viminale, che però hanno preferito non rispondere. In molti Paesi la questione finisce nelle indagini delle Unità antiterrorismo o per la sicurezza nazionale, mentre negli Stati Uniti il direttore dell’Fbi ha dichiarato dinanzi al Congresso di essere molto preoccupato per delle attività così gravi “che violano il principio di sovranità e aggirano gli standard internazionali di cooperazione tra forze di polizia”. Sul tema delle stazioni di polizia d’oltremare e la repressione transnazionale, la Commissione speciale sulle interferenze straniere del Parlamento Europeo udirà l’8 dicembre la ong Safeguard defenders che si occupa di monitorare le sparizioni in Cina. Ci piacerebbe sapere come il nuovo governo di Giorgia Meloni vuole affrontare questa questione di diritti civili, ma soprattutto di incursioni di spie cinesi nel nostro Paese. Droghe. Si può disintossicare chi non vuole abbandonare la sostanza stupefacente? La risposta è no di Maurizio Montanari* Il Fatto Quotidiano, 4 dicembre 2022 Il servizio della trasmissione Le Iene durante il quale il giornalista propone ai due ragazzi dipendenti da crack di disintossicarsi entrando in una comunità spiega meglio di ogni esempio clinico-accademico l’inefficacia di qualsiasi trattamento disintossicante, laddove sussista un desiderio di godimento e di piacere ritenuto prevalente allo scorrere della vita stessa, oppure dove si valuti l’uso della sostanza controllabile e, dunque, irrinunciabile. Droghe, alcol, gioco d’azzardo costituiscono quel nucleo opaco che va sotto il nome di ‘godimento’, scelta insondabile di un individuo così come lo è la sua volontà di abbandonarlo o di assecondarlo per tutta la vita. Un godimento in nome del quale la volontà di ripresa e ritorno nel legame sociale abdica spesso alla passione per una sostanza stupefacente. I due ragazzi sono dipendenti dal crack, una tra le più micidiali droghe in circolazione, capace di dare assuefazione e quindi incatenare il corpo sin dalle prime inalazioni. Quel corpo che, qualora la volontà di chiudere con la sostanza e riprendere i contatti con l’altro emerga, si mette in mezzo e chiede ancora droga. Oggi tuttavia il desiderio di ‘chiudere’ con la sostanza, specie nell’universo giovanile, sempre più spesso lascia spazio ad una volontà di addomesticarla, di gestirla meglio, per questo motivo sempre meno in seduta sentiamo la chiara e netta volontà di ‘smettere’. La cocaina rappresenta l’esempio più evidente di questa tendenza, incontrando un clinico decine e decine di individui i quali non pensano affatto di divorziare dalla polvere bianca, quanto piuttosto usarla in maniera controllata. La spinta alla ‘guarigione’ dell’altro e alla sua disintossicazione affinché abbia accesso ad una vita ‘sana’ e ‘virtuosa’ (esempio incarnato dal giornalista che si prefigge l’obiettivo di ‘guarire’ i due ragazzi) è il riflesso attuale di una tendenza medicalizzante di stampo paternalistico, sempre più imperante, che intende rendere la popolazione più robusta, tonica e ‘libera ‘ da vizi. Peccato che questo afflato padronale spesso dimentichi per strada un elemento che la psicoanalisi insegna essere elemento essenziale: il desiderio del singolo, la sua reale volontà di fare a meno di droghe, alcol o dipendenze di vario genere, per le quali invece assistiamo ad una sempre più diffusa passione trasversale. La medicina si occupa dell’uomo cercando di curare le conseguenze del fatto che egli mangi troppo, beva troppo, fumi troppo. La psicoanalisi invece sa che l’essere umano si contraddistingue proprio perché mangia, beve, fuma e si droga in eccesso. E’ questa la clinica che oggigiorno accogliamo nei nostri studi: una clinica dell’eccesso, scelto, voluto, spesso raggiunto a detrimento di altre attività del quotidiano. È ovvio che uno Stato, senza scivolare nella pericolosa ambizione di assurgere a Stato etico, si debba fare carico di illustrare quali sono i danni delle droghe pesanti, dell’alcol, del gioco d’azzardo, mettendo in guardia dalle conseguenze di tutti questi ‘rimedi’ utilizzati, per scelta, da molti uomini e donne per rammendare esistenze spesso rabberciate. Ma la questione è: si può disintossicare chi non vuole abbandonare la sostanza stupefacente? No, la risposta è no. Nel servizio si vede bene la biforcazione fra due vite diverse, due soggettive e due volontà irriducibili. Entrambi i protagonisti sono afflitti da una condizione di malessere fisico, giacché il crack incatena il corpo e rende la dipendenza un fattore fisico oltreché mentale. Ma mentre uno dei due, dopo un’inziale titubanza, mostra una reale volontà di chiudere col fumo e accetta i colloqui all’interno della comunità, il secondo, dopo l’ingresso in quel luogo, torna a casa e va a comprarsi il crack, rendendo indiscutibile la sua scelta. Resta nella memoria dello spettatore una consapevolezza che accomuna i due protagonisti: l’affaccio sull’abisso. Entrambi mostrano di sapere che il rischio quasi certo è quello di essere fagocitati dal crack, di vedere le loro vite del tutto annientate e inghiottite. Non sono dissimili ai tanti giovani e giovanissimi che sempre di più giungono in seduta affermando: “Utilizzo cocaina, questa è la mia vita e così la voglio mantenere. Ma non devo esserne inghiottito”; “Il crack è una mia scelta, solo non ne voglio morire, ma non voglio rinunciarvi”; “Lei deve aiutarmi a capire quando sforo, prima che mi cacci di nuovo nei guai”. Costoro, come il ragazzo che dice no alla comunità, sono in cerca di autovelox che segnali in tempo utile la velocità troppo elevata. Non perché il conducente abbia a cuore la sua incolumità o quella altrui, o perché desideri una condotta di vita ‘regolare’, quanto perché restare uccisi dalla sostanza preclude il continuare a goderne. Tanti ragazzi come quelli visti nel servizio non sono in cerca di un percorso di liberazione delle sostanze stupefacenti, piuttosto chiedono un aiuto a fissare un limite laddove non lo riescono a percepire. *Psicoanalista Libia. La Corte Penale Internazionale riaccende la speranza di una giustizia, dopo torture, sparizioni, uccisioni nelle carceri La Repubblica, 4 dicembre 2022 Una giustizia a lungo ritardata per le vittime di una milizia che controllava una città durante la battaglia 2019-2020 per Tripoli. Il report di Human Rights Watch. Nessuno è stato processato per gli abusi. Una visita in Libia del procuratore della Corte penale internazionale (CPI) ha riacceso la speranza di una giustizia a lungo ritardata per le vittime di una milizia che controllava una città durante la battaglia 2019-2020 per Tripoli, la capitale. È il commento diffuso oggi da Human Rights Watch. I membri della milizia, noti come al-Kaniyat e i loro affiliati hanno arrestato, torturato, fatto sparire e giustiziato persone in almeno quattro strutture di detenzione mentre controllavano la città di Tarhouna. Si sono schierati con le forze armate arabe libiche sotto il comando di Khalifa Hiftar, nell’attaccare il Governo di Accordo Nazionale (GNA) riconosciuto dalle Nazioni Unite. Nessuno è stato processato per gli abusi. L’orrore delle fosse comuni. “Se le autorità libiche non possono imporre una misura di responsabilità interna per gli orrori contro la popolazione di Tarhouna - ha detto Hanan Salah, direttore associato di Human Rights Watch. - allora il procuratore della CPI dovrebbe indagare sui crimini che rientrano nella giurisdizione della corte. I parenti delle centinaia di persone che sono state arbitrariamente detenute e torturate, o scomparse e poi ritrovate in fosse comuni sono ancora in attesa di giustizia”, ha aggiunto Salah. La CPI ha giurisdizione su crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio commessi in Libia dal 15 febbraio 2011. Nel novembre 2022, il procuratore della CPI, Karim Khan, ha condotto una missione ufficiale in Libia. A Tarhouna, ha visitato le prigioni precedentemente gestite da al-Kaniyat e i siti delle fosse comuni, e ha incontrato le famiglie delle vittime di abusi attribuiti ad al-Kaniyat. Ciò che accadde durante il conflitto tra il 2019-2020. Human Rights Watch, nel marzo scorso marzo, ha intervistato quattro uomini a Tarhouna che hanno affermato che loro e altri parenti sono stati detenuti in quattro strutture di detenzione a Tarhouna durante il conflitto di Tripoli del 2019-2020. Tutti e quattro hanno detto di essere stati tenuti in isolamento per tutta la durata della loro detenzione, senza alcun processo giudiziario o accesso alle loro famiglie o avvocati, e hanno descritto maltrattamenti, torture ed esecuzioni illegali nelle carceri. I ricercatori hanno anche incontrato un parente di 10 persone i cui corpi sono stati trovati in fosse comuni dopo la loro detenzione da parte di al-Kaniyat e dei loro associati. I ricercatori hanno visitato tutti e quattro i luoghi di detenzione e tutti i siti noti di fosse comuni a Tarhouna ed hanno anche incontrato le autorità municipali di Tarhouna, l’Autorità pubblica per la ricerca e l’identificazione dei dispersi e il Dipartimento per le indagini del Ministero dell’Interno. 261 corpi riesumati. I corpi di alcuni di quelli sequestrati dalla milizia sono stati successivamente trovati in fosse comuni senza nome intorno a Tarhouna, 93 chilometri a sud-est di Tripoli. Dei 261 corpi riesumati dal giugno 2020 da queste tombe, 160 sono stati identificati dall’Autorità pubblica per la ricerca e l’identificazione delle persone scomparse, un’agenzia collegata al Consiglio dei ministri. Khan ha offerto assistenza tecnica dalla CPI con il lavoro forense. Mentre era a Bengasi, Khan ha incontrato Hiftar e gli ha detto che la CPI aveva ricevuto informazioni e prove di accuse di crimini commessi dalle forze armate arabe libiche (LAAF) e che quelle “sarebbero state e sono oggetto di indagine”. Nel suo rapporto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il procuratore della CPI non ha fatto alcun annuncio riguardante casi specifici su cui la corte stava indagando in Libia. Quel tribunale speciale libico che non c’è. Alti funzionari governativi del GNA e delle precedenti amministrazioni con sede a Tripoli, e comandanti della LAAF, compresi gli alti dirigenti della LAAF, possono essere penalmente responsabili per i crimini di guerra dei loro subordinati a Tarhouna, se sapevano o avrebbero dovuto essere a conoscenza dei crimini e non hanno adottato misure per prevenirli o consegnare i responsabili dell’azione penale. La missione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite sulla Libia, in un rapporto del luglio 2022, ha rilevato che “i crimini contro l’umanità di sterminio, imprigionamento, tortura, persecuzione e sparizione forzata sono stati commessi da membri della milizia al-Kaniyat contro una popolazione definita a Tarhouna”. La missione ha affermato che la Libia dovrebbe istituire un tribunale speciale per perseguire i crimini internazionali con il supporto tecnico e le competenze internazionali, e che i funzionari giudiziari di altri paesi dovrebbero indagare su coloro che sono implicati nei crimini a Tarhouna, anche attraverso l’esercizio della giurisdizione universale. La Libia non ha preso alcuna misura per istituire un tribunale speciale. Myanmar. La giunta condanna a morte 139 dissidenti di Theo Guzman Il Manifesto, 4 dicembre 2022 L’Alto commissario Onu per i diritti umani: “Strumento per schiacciare l’opposizione”. Dopo aver giustiziato questa estate, in segreto e per la prima volta, quattro attivisti condannati a morte, i militari della giunta birmana potrebbero portare a compimento decine di altre esecuzioni capitali visto che avrebbero condannato a morte quasi 140 dissidenti. Il numero finora ignoto dei condannati alla pena capitale è stato fatto venerdì dall’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani Volker Türk: il rappresentante dell’Ufficio Onu che ha sede a Ginevra si è detto scioccato per la condanna di 139 dissidenti di cui l’Onu ha avuto notizia e che sono stati condannati dalla giustizia militare birmana a porte chiuse. L’ufficio di Türk ha anche reso noto che almeno sette studenti universitari sono stati condannati a morte da un tribunale militare il 30 novembre scorso mentre ci sarebbero state altre quattro condanne a morte il primo dicembre. Notizie che hanno spinto l’Alto rappresentante a chiedere chiarimenti alla giunta militare che ha preso il potere l’1 febbraio del 2021 in Myanmar. “I militari continuano a tenere procedimenti in tribunali segreti in violazione dei principi fondamentali del giusto processo - si legge in una nota che riferisce i commenti di Türk - e che sono contrari alle fondamentali garanzie giudiziarie di indipendenza e imparzialità. I tribunali militari hanno costantemente mancato di garantire trasparenza agendo contro le più elementari garanzie di un giusto processo. Ricorrendo all’uso delle condanne a morte come strumento politico per schiacciare l’opposizione, l’esercito conferma il proprio disprezzo per gli sforzi dell’Asean (l’associazione di dieci Paesi del Sudest asiatico di cui il Myanmar fa parte ndr) e della comunità internazionale in generale per porre fine alla violenza e creare le condizioni per un dialogo politico che porti il Myanmar fuori dalla situazione di crisi creata dai militari”, conclude la nota dell’Ufficio per i diritti umani Onu che ha chiesto la sospensione di tutte le esecuzioni e il ritorno alla moratoria sulla pena di morte che era in vigore dagli anni Ottanta ma che la giunta ha rotto nel luglio scorso quando sono state eseguite le prime quattro esecuzioni: il parlamentare Kyaw Min Yu (detto Ko Jimmy) e lo scrittore Ko Phyo Zeya Thaw sono stati giustiziati con i due compagni di lotta Hla Myo Aung e Aung Thura Zaw a fine luglio. Le esecuzioni - le prime dal 1988 - erano state annunciate dai militari in giugno e avevano suscitato una forte reazione internazionale con gli appelli a desistere dell’Asean e di diversi altri paesi tanto che la giunta ha poi scelto di giustiziarli in un luogo segreto rendendo pubblica la vicenda solo un paio di giorni dopo. La violazione delle più elementari regole di garanzia è una costante dal 1 febbraio 2021 in un Paese che nemmeno prima del golpe brillava per trasparenza giudiziaria: secondo l’Assistance Association for Political Prisoners (Aapp-Burma), dall’inizio del golpe oltre 16.500 sono state arrestate dai militari e 13mila sono ancora in carcere mentre più di 2.500 persone sono state uccise dai militari golpisti: un numero per difetto dal momento che Aapp segnala solo le morti che può documentare. Inoltre chi viene arrestato non ha accesso a una difesa corretta e viene giudicato da tribunali a porte chiuse che emettono spesso sentenze anche solo in pochi minuti. Intanto nel Paese non si vede il minimo spiraglio negoziale e Duwa Lashi La, presidente ad interim del Governo birmano clandestino di unità nazionale (Nug), ha detto che il suo esecutivo potrebbe prendere in considerazione l’avvio di un dialogo con il regime militare solo se la giunta smettesse di uccidere civili, garantisse il suo ritiro dalla politica e accettasse di abolire la Costituzione del 2008, (che, secondo la lettura dei militari, renderebbe il golpe “legittimo”). Duwa Lashi La ha aggiunto che i militari non devono interferire nella distribuzione degli aiuti umanitari internazionali. Iran. In cella anche l’attrice Mitra Hajjar. Ma nel cinema iraniano “il mullah è nudo” di Farian Sabahi Il Manifesto, 4 dicembre 2022 Un altro arresto eccellente. Volto amato, ambientalista, era già nel mirino per aver espresso pubblicamente il suo sostegno alla rivolta. Francesco Virga, presidente di Doc It: “Film e documentari hanno anticipato quanto stava per accadere e ora assistiamo a una serie impressionante di arresti e condanne”. “Mitra Hajjar è stata arrestata dopo una perquisizione della sua abitazione”, ha twittato Mehdi Kuhyan, membro del comitato per il sostegno legale e giudiziario ai cineasti presso la Khaneh Sinama (Casa del cinema). La notizia è stata subito rilanciata dal quotidiano riformista Shargh. Nata a Mashhad nel 1977, Mitra Hajjar è una delle attrici iraniane più rinomate. Parallelamente all’attività cinematografica e teatrale, porta avanti campagne di sensibilizzazione nel campo della salvaguardia dell’ambiente e delle risorse naturali. Tra le prime celebrità iraniane a essersi esposte sui propri canali social a favore delle manifestazioni in patria e all’estero, era subito finita nel mirino delle autorità. La settimana scorsa era stata convocata dalla magistratura con altre cineaste - tra cui Baran Kowsari (figlia della regista Rakhshan Bani Etemad) e Elnaz Shakerdust - ritenute colpevoli di aver appoggiato le proteste. In questi mesi di dissenso, innescato dalla morte della ventiduenne Mahsa Amini, le autorità di Teheran hanno monitorato registe e attrici che, come tante personalità del mondo dello sport, hanno preso posizione contro il regime. La leadership della Repubblica islamica teme da sempre il dissenso dei cineasti, tant’è che il regista Jafar Panahi è stato per anni agli arresti domiciliari e da luglio è in carcere. Sull’importanza del cinema come espressione della società, Francesco Virga, produttore e presidente di DOC IT, l’associazione italiana dei documentaristi, racconta al manifesto: “Il cinema iraniano è stato costante e autentico specchio delle inquietudini e dei desideri di liberazione che si agitavano nella società iraniana e che la repressione del 2009 non aveva spento. Per questo ha sentito e rappresentato la voglia di verità e libertà ben prima dell’erompere del movimento rivoluzionario attuale”. Di fatto, “il cinema iraniano ha anticipato quello che stava per accadere” e per questo, continua Virga, “è diventato l’obiettivo del progressivo giro di vite del regime che si è stretto sul documentario e sul cinema con una progressione impressionante di arresti e condanne. Un regime che nega la verità non può accettare che questa assenza venga messa sotto gli occhi di tutti. I registi e le registe - tra le voci più coraggiose del cinema attuale ci sono tante donne - hanno mostrato per allusione, metafora o a volte con coraggiosa chiarezza che il re, o meglio il mullah è nudo”. Paradossalmente, aggiunge Virga, “in questi anni la Repubblica islamica ha permesso al cinema iraniano di crescere, ma si è trattato di un rapporto contraddittorio e schizofrenico”. Da una parte, spiega Virga, “le autorità hanno fatto crescere l’industria cinematografica, permettendo lo sviluppo di diverse generazioni di cineasti che parevano godere di margini più ampi di libertà, nonché co-produzioni internazionali su temi che mettevano a nudo le contraddizioni politiche della società iraniana. Dall’altra parte, quando i frutti di questa libertà si manifestavano, lo ha represso, tant’è che molti e molte non hanno avuto altra strada che l’esilio. Chi è rimasto ha continuato a fare un cinema sempre più “piccolo” e semiclandestino (pensiamo a Taxi a Teheran di Jafar Panahi) ma vivo e vicino al sentire di una larga parte del paese”. A titolo di esempio, Virga cita il documentario “e in particolare le opere delle registe Firouzeh Khosrovani e Mina Keshavarz che hanno potuto coprodurre i loro documentari con l’estero, dando vita a pellicole che sono una chiara fotografia della cappa di oppressione che pesa sul paese”. A un certo punto, le autorità iraniane si sono però rese conto di quanto il cinema fosse “connesso con le aspirazioni montanti nella società. Per questo, lo ha messo al bando e hanno arrestato tutte e tutti gli autori”. Arresti che precedono le proteste innescate dalla morte di Mahsa Amini: “Jafar Panahi, Mohammad Rasoulof e Mostafa Aleahmad sono stati arrestati a luglio, il regime già sentiva l’urgenza di tappare la bocca al cinema consapevole della sua connessione viscerale con la società, nonché la capacità di quella scena artistica - che include anche sceneggiatori, attrici e attori - di risvegliare la coscienza civile”.