Riflessioni di un direttore che continua a sognare un carcere come “una casa di vetro” di Antonio Gelardi Ristretti Orizzonti, 3 dicembre 2022 Da ieri sono in pensione per limiti di età. Pensione forzata perché sono e rimango, nonostante tutto, appassionato di questo lavoro ed avrei continuato volentieri. Vorrei portare il mio saluto alla redazione ed attraverso di essa al volontariato, al terzo settore, a chi come Antigone, Nessuno tocchi Caino ed altri, continua ad accendere un faro sulla condizione delle carceri. Lascio con un senso di amarezza non per vicende personali, ho avuto come tutti le mie vicissitudini, ma posso dire di avere fatto, sembra strana questa espressione, un bel lavoro ed anche le ultime esperienze, la direzione della Casa circondariale di Piazza Armerina e la direzione dell’Udepe di Catania, sono state ricche di soddisfazione e svolte all’insegna di felici collaborazioni. Tuttavia... Sono entrato nell’amministrazione penitenziaria con altri della mia generazione all’epoca di Nicolò Amato e di quello che veniva chiamato, forse con eccesso di enfasi, “Il carcere della speranza”. Credo che a nessuna persona sana di mente oggi possa venire in mente di usare questa espressione. Eppure i problemi di base del carcere sono sempre quelli, ed accanto ad una quota di persone che scelgono la via delle consorterie criminali (alle quali comunque occorrerebbe lasciare una porta aperta) vi è la molto più ampia fascia di emarginati che di fatto in carcere staziona, vivendo un tempo perso e soffrendo tutte le storture intrinseche dell’istituzione totale e quelle aggiuntive di tutti i malfunzionamenti, e non di rado c’è il rischio che escano, una volta finita la pena, peggiori di quando sono entrate. Il 2022 è stato l’annus horribilis (o forse uno degli…) per il numero dei suicidi che è andato oltre ogni negativa previsione. Il 2020 è stato l’anno delle morti in carcere e vi sono stati accadimenti non paragonabili neanche a quelli degli anni settanta, del periodo pre-riforma del 1975, di cui ci raccontavano i vecchi (per intenderci ho imparato a suo tempo il mestiere dagli agenti di custodia e dal mio primo direttore). Penso che anche in generale il carcere sia peggiorato, rispetto ai tempi del mio ingresso in amministrazione, per così tanti motivi che sarebbe difficile riassumere. Ne indico qualcuno: la polverizzazione del servizio sanitario. Non che quello penitenziario fosse indenne da difetti, ma aveva struttura ed unitarietà. Ora, rimesso alle Asl, non c’è un servizio sanitario, ce ne sono cento. E va bene o male, a seconda. Per le notizie che ho per lo più male. E non sembra esservi una strategia per il problema psichiatrico, forse in ambito sanitario il più grave. Sarebbe indispensabile recuperare una regia centrale (vera). L’avere messo da parte l’immenso patrimonio di elementi degli Stati Generali. L’eclissi della figura del direttore. I nuovi arrivi del concorso espletato dopo 25 anni serviranno a mala pena a coprire il pensionamento degli ultimi due, tre anni. E ci sarà uno stacco generazionale deleterio. Su questo mi dilungherei, ma ci sono tali evidenze che non è necessario farlo. Basti dire che qualsiasi organizzazione che tenga a se stessa cura in primo luogo la propria classe dirigente, quella che, se la funzione, qui mi riferisco a quella del direttore, viene svolta in modo costituzionalmente orientato, dà equilibrio e direzione di marcia al sistema. Le strutture che, se vecchie sono fatiscenti, se nuove, buttate fuori dal tessuto urbano e spesso prive di infrastrutture essenziali quali le condutture idriche. Fra l’altro quelle nuove, con l’ovvia esclusione di Bollate, non sembrano frutto di una idea di carcere e richiederebbero fra l’altro, per funzionare, tre volte il personale rispetto a quelle vecchie. Non si può poi sentire di carceri nuove o seminuove nelle quali non funzionano i riscaldamenti e sono gelide in inverno e scottano in estate. L’irrisolta questione della identità e della relazione fra le varie professionalità (per uno come me della vecchia generazione è stato in proposito sconvolgente apprendere della proposta di legge degli educatori in divisa). Potrei continuare a lungo, ma forse annoierei perché molti dei problemi sono interni anche se hanno un immediato e grave risvolto sulla gestione del carcere. Soprattutto è mancata una idea portante, che per me e per quelli della mia generazione non può che essere quella del carcere come casa di vetro nella quale il volontariato, il terzo settore e gli organismi esterni entrino non come ospiti ed a gentile concessione (con un ruolo ancillare secondo una stolta espressione), ma come attori necessari ed a pieno titolo. Tutte le evidenze dimostrano che un carcere aperto crea un clima più disteso ed alleggerisce i pesi per gli operatori. Ora avrò più tempo, leggerò con ancora più attenzione il nuovo 4 bis e cercherò di capire quale sia, se vi è l’emergenza che motiva l’appesantimento di regime e procedure. Anche qui, per intenderci, ho visto con la mia generazione la nascita del 4 bis, i vari decreti legge dal 1991 in poi, ne conosco e comprendo la logica di base. Ho vissuto dolorosamente l’epoca degli attentati e comprendo le ragioni del 41 bis a patto che risponda alla sua ragion d’essere ossia impedire i contatti con l’esterno a fini criminali e non risponda ad una logica di carcere duro. E duri il necessario, non meno, non più. Sono un ottimista patologico, ma avendo avuto la fortuna di vedere nascere da vicino la Gozzini ed avere respirato l’ispirazione (e compreso tuttavia gli aggiustamenti) mi sembra di vivere in un periodo di controriforma. Il carcere esce drammaticamente penalizzato dalla manovra economica di Paolo Ciani huffingtonpost.it, 3 dicembre 2022 Per il personale carcerario è prevista una riduzione per quasi 10 milioni di euro. In un contesto in cui mancano 18mila unità al Corpo di polizia penitenziaria e aumentano drammaticamente i suicidi sia fra i detenuti che fra gli operatori. Tra le prime vittime della finanziaria c’è sicuramente il sistema giudiziario, in particolar modo quello delle carceri. Per il triennio 2023-25 sono previsti tagli per circa 35 milioni. È prevista una riduzione del personale carcerario per quasi 10 milioni di euro (15.400.237 nel 2024), che interviene su un personale che è già ora insufficiente; tagli al Dipartimento per la giustizia minorile e per le spese legate alle intercettazioni e comunicazioni, depotenziando il ruolo e gli strumenti delle autorità di polizia nel contrasto alla criminalità. Vi sono tagli alle mense degli operatori del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità di oltre 300mila euro nel 2023. Ricordo il prezioso lavoro che svolgono gli operatori per contrastare, prevenire tutto il disagio giovanile, per sostenere percorsi alternativi alla devianza, per evitare il carcere e le sue conseguenze. Tutto ciò a fronte di 18mila unità mancanti al Corpo di polizia penitenziaria, i tanti e drammatici suicidi sia fra i detenuti che fra gli operatori, oltre 70 da inizio anno, strutture degradanti, penuria e inefficacia di automezzi, equipaggiamenti e strumentazioni per non parlare delle condanne della Corte Europea per i trattamenti inumani e degradanti o le ingiuste detenzioni nelle carceri del nostro Paese. Per avere contezza di questa drammatica situazione basterebbe visitare un carcere, parlare con gli operatori o leggere i numeri. I numeri non sono di destra o di sinistra. Conoscere il cd “pianeta carcere” vuol dire saper dare risposte e un segnale importante ad un pezzo d’Italia che da troppo tempo aspetta. La situazione è peggiorata dopo due anni di Covid e le pesanti conseguenze vissute per lo stop delle visite/colloqui ai detenuti e per chi ci lavora e le previsioni non sono migliori perché peggiorerà dal momento che gli operatori della sicurezza e del trattamento della Polizia Penitenziaria che vanno in pensione sono di più dei nuovi agenti, perché i Direttori delle carceri sono senza contratto di categoria dal 2006 e hanno funzioni e responsabilità importanti e non ci sono per tutte le carceri, infine perché proprio da questa maggioranza di Governo c’è la richiesta di più carcere, nuovi reati e meno misure alternative. Questo governo promette più carcere ma con meno operatori: un disastro. Paladino degli agenti. Ma Salvini ha fregato anche loro di Giulio Cavalli La Notizia, 3 dicembre 2022 La Lega aveva promesso aiuti alla Polizia penitenziaria. Ora che è al Governo gli taglia 35 milioni. Ennesimo impegno tradito dal segretario del Carroccio. Sindacati furiosi: “Ci hanno chiesto voti e poi ridotto i fondi”. Quando nel 2019 sei agenti della Polizia penitenziaria in servizio al carcere Lorusso e Cutugno di Torino sono stati arrestati, Matteo Salvini li difendeva a spada tratta. L’accusa era quella di ripetuti atti di violenza e tortura nei confronti dei detenuti nel periodo tra aprile 2017 e novembre 2018. Un’accusa piuttosto grave: il reato contestato (in base all’articolo 613bis del codice penale) è punito con la reclusione da 4 a 10 anni. Nelle carte dei pubblici ministeri che hanno indagato sui sei agenti si parla di minacce, di detenuti presi a schiaffi e sputi, malmenati, denudati e insultati. Lui aveva già deciso che erano innocenti: “Non è possibile credere più ai carcerati che ai poliziotti”, disse. Si sbagliava. Lo stesso è accaduto per gli agenti del carcere di San Gimignano condannati per tortura e lesioni aggravate contro un detenuto: si tratta di un pestaggio avvenuto ai danni di un 31enne tunisino durante un trasferimento coatto di cella. Le violenze sono documentate in un video. Ma per Salvini questo non basta, come non basta la sentenza di condanna del tribunale di Siena, ché secondo il leader della Lega si trattava del “primo caso al mondo di tortura postdatato di 13 mesi e senza torturato”. Salvini strumentalizzava il fatto che il detenuto, per paura di ritorsioni, non ha mai denunciato quanto accaduto. Il caso è scoppiato dopo che un’operatrice del carcere ha scritto una lettera al tribunale di sorveglianza. Nel 2020 stessa storia. “Le forze di polizia devono avere libertà assoluta di azione, se devono prendere per il collo un delinquente e questo si sbuccia il ginocchio o si rompe una gamba sono cazzi suoi, ci pensava prima di fare il delinquente”, disse appoggiando la protesta contro l’introduzione del reato di tortura. “Il primo delinquente di turno li può denunciare per essere stato arrestato con troppa irruenza o psicologicamente torturato”, disse Salvini. Dalla parte sbagliata - Quando a Caserta quell’anno scoppiò il finimondo nel carcere di Santa Maria Capua Vetere Salvini ci spiegò che era “una follia” che a “pagare per tortura devono essere i poliziotti che hanno riportato in cella i delinquenti”. Quel giorno quasi trecento agenti della polizia penitenziaria muniti di caschi e manganelli, alcuni a volto coperto, fecero irruzione nelle celle e per ore presero a calci, pugni e schiaffi i detenuti del reparto Nilo. Il carcere campano è al centro di un processo che ha visto il rinvio a giudizio davanti alla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere di 105 imputati. I reati contestati a vario titolo vanno dall’omicidio colposo come conseguenza di tortura alle lesioni pluriaggravate, passando per l’abuso di autorità e il falso in atto pubblico. Ora Salvini è al governo e che succede? La legge di Bilancio prevede 35 milioni di euro in meno per i prossimi tre anni per l’amministrazione penitenziaria. “Siamo veramente incazzati”, dice Donato Capece, segretario generale del Sappe: “Ci hanno chiesto i voti e ora tagliano i fondi”. “Gli agenti sono increduli e disillusi, ci aspettavamo fondi per rendere possibile il servizio, in questo momento non lo è, non è solo questione delle unità mancanti, anche i 36mila agenti in servizio non hanno la dotazione adeguata: scarpe, equipaggiamenti, formazione. Non si capisce perché promettono e poi non solo non mantengono, ma tagliano: dieci milioni nel 2023, quindici nel 2024, undici dal 2025”, dice Gennarino De Fazio, segretario del sindacato di polizia penitenziaria della Uil. È il metodo Salvini: propaganda che tanto è gratis e poi nullafacenza. Fino alla prossima difesa d’ufficio. Tanto qualcuno in questo Paese ci casca ancora. Di Matteo: “Senza ergastolo ostativo si rischia di liberare condannati per stragi” di Davide Vaì Il Dubbio, 3 dicembre 2022 Il consigliere del Csm: “La mafia ancora si aspetta dalla politica il raggiungimento di obiettivi precisi: uno di questi è l’abolizione dell’ergastolo”. “Il tema dell’abolizione dell’ergastolo ostativo inteso davvero come fine pena mai è un tema che è stato sempre a cuore alle mafie, ai vertici di Cosa Nostra e non solo di Cosa Nostra, fin dai tempi in cui una riforma in tale senso costituiva uno degli obiettivi della campagna stragista tra il 1992 e il 1994. Oggi il paradosso è che proprio alcuni di quelli che sono stati condannati per aver organizzato ed eseguito quegli attentati potrebbero accedere ai benefici e uscire dal carcere, a distanza di 30 anni da quelle stragi potrebbero essere liberati proprio coloro che sono stati condannati per quelle stragi”. Lo ha detto Nino di Matteo, componente del Consiglio superiore della magistratura, parlando con i giornalisti a Catanzaro a margine di un dibattito sul tema dell’ergastolo ostativo. “Da questo punto di vista - ha aggiunto Di Matteo - credo che il decreto legge sia un segnale di attenzione importante nella lotta complessiva al sistema mafioso, è sicuramente un decreto che potrà essere migliorato ed emendato in fase di conversione in legge”. Sono tanti i problemi che si pongono. È comunque - ha osservato il componente del Csm - un tema molto delicato, nel senso che le aspettative delle mafie su questa vicenda sono tante, e certamente lo Stato in tutte le sue componenti dovrà dimostrare di non sottostare a eventuali ricatti mafiosi che possono essere ancora in atto proprio, tra gli altri temi, sul tema dell’ergastolo”. “La mafia ancora si aspetta dalla politica il raggiungimento di obiettivi precisi: uno di questi è l’abolizione dell’ergastolo, l’attenuazione del regime del 41 bis, ma si aspetta anche che la politica in qualche modo ridimensioni i poteri di indagini del pubblico ministero, renda più difficili le inchieste, le intercettazioni e tutto quello che può mettere in luce eventuali contatti e rapporti tra le mafie e altri poteri”. Secondo Di Matteo, inoltre, “oggi stiamo assistendo al paradosso per cui collaborare con la giustizia non conviene più o comunque non è così conveniente dal punto di vista delle conseguenze processuali e penitenziarie rispetto a quanto lo fosse prima. La proposta del senatore Scarpinato può essere una ulteriore base per una modifica, per miglioramento del decreto legge in sede di conversione anche perché - ha concluso il componente del Csm - non credo che possa passare l’idea che lo Stato non è in grado di proteggere un collaboratore di giustizia”. Gratteri: “Il vento è cambiato in peggio e sta toccando tutta la legislazione antimafia” di Alessia Truzzolillo Corriere della Calabria, 3 dicembre 2022 “Il sovraffollamento è un falso problema. È possibile sfoltire le carceri mandano di tossicodipendenti in comunità terapeutica per disintossicarsi”. “C’è un vento che è cambiato. C’è un vento che sta toccando varie parti, vari pezzi delle Istituzioni, sta toccando un po’ tutta quella che è a legislazione antimafia. Il vento sta soffiando in modo contrario rispetto a ciò di cui c’è veramente bisogno per arginare le mafie, per arginare la corruzione e i reati contro la Pubblica amministrazione e soprattutto il riciclaggio. Quando sono stato chiamato a parlare in occasione dell’anniversario delle stragi di Capaci e via D’Amelio, ho detto che ancora ci sono molti gattopardi che salgono sui banchi per commemorare Falcone e Borsellino mentre quando erano in vita li hanno derisi”. Lo ha detto il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri che è intervenuto all’università Magna Graecia di Catanzaro al convegno sull’”Ergastolo ostativo - Il problema e le implicazioni costituzionali”, organizzato dal dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Sociologia, dal centro di ricerca Rapporti privatistici della Pubblica Amministrazione, dalla scuola di Alta formazione dell’Università e dalla struttura di formazione decentrata presso la Corte d’Appello di Catanzaro. Secondo il procuratore di Catanzaro “noi come Italia siamo stati poco chiari parliamo poco con l’Europa. Spieghiamo poco alla Corte Europea cosa sono le mafie, qual è la pervasività delle mafie, qual è la filosofia criminale delle mafie. Anche per questo leggiamo certe decisioni, leggiamo certe sentenze. Andrebbe spiegato meglio il fenomeno mafioso, con fatti, con decreti e in modo strutturato. L’Europa dovrebbe capire la differenza tra criminalità comune, criminalità organizzata, gangsterismo e mafia. La criminalità organizzata spesso si confonde per mafia, la mafia per criminalità organizzata e quindi non penso ci debba essere lo stesso trattamento o lo stesso approccio per due soggetti condannati all’ergastolo. Ci può essere una pericolosità diversi se si tratta di soggetti appartenenti a organizzazioni mafiose o se si tratta di appartenenti alla criminalità organizzata”. Sulla funzione rieducativa della pena, Gratteri ha affermato che la “pena ha sicuramente una funzione rieducativa. Bisogna stabilire cosa si vuole fare. Per fare rieducazione nelle carceri ci vogliono soldi, investimenti. Innanzitutto bisogna sfoltire le carceri. Per esempio il tossicodipendente che è in carcere a causa della sua tossicodipendenza, è inutile che stia in carcere, stiamo perdendo tempo. Quando uscirà la sera stessa andrà a fare una rapina per comprare la droga. Se invece noi, dopo un percorso con uno psicologo, questo tossicodipendente lo mandiamo in una comunità terapeutica per disintossicarsi, non sarà stato tempo perso, né per lui né per noi. Forse lo possiamo recuperare. Pensiamo a quanti malati psichiatrici ci sono nelle carceri. Se, anziché tenerli in carcere, costruissimo le Rems, cioè strutture protette dove con cure di psicologi e psichiatri potremmo curare questi malati, che non ha senso stiano in carcere. Prima di parlare di ergastolo ostativo, prima di parlare di 41 bis e alta sicurezza, pensiamo a queste due categorie di soggetti. E risolveremmo anche il problema del sovraffollamento, che è un falso problem”. Via abuso d’ufficio e legge Severino, Nordio apre alle richieste dei sindaci. No del M5S di Liana Milella La Repubblica, 3 dicembre 2022 Novanta minuti di confronto in via Arenula. “Non esiste un reato di ruolo”, dice il presidente dell’Anci Decaro. Il vice ministro Sisto: “Fattivamente sensibili a rispondere alle istanze proposte”. Nel pacchetto di richieste anche la modifica del Tuel sulla responsabilità politica. Via l’abuso d’ufficio? È possibile, perché il ministro della Giustizia Carlo Nordio lo considera un reato inutile. Ma non solo. Anche la legge Severino e la sospensione per 18 mesi di un amministratore locale condannato solo in primo grado. E ancora le norme del Testo unico sugli enti locali - il ben noto Tuel - considerate dai sindaci un vero incubo perché attribuiscono solo ai vertici tutte le responsabilità politiche, com’è ovvio, ma anche amministrative. È un pacchetto molto ampio quello che il presidente dell’Associazione dei comuni italiani Antonio Decaro, stamattina tra le 9 e trenta alle 11, ha messo sul tavolo del Guardasigilli e del suo vice ministro Francesco Paolo Sisto (per una coincidenza, Decaro e Sisto sono entrambi baresi).  Qual è stato il risultato? C’è sicuramente una disponibilità da parte di via Arenula per avviare un percorso in Parlamento che vada incontro alle richieste dei sindaci. Che - sulla scrivania di Nordio - hanno depositato il pacchetto di richieste già emerse nell’ultima assemblea dell’Anci dove la stessa premier Giorgia Meloni aveva promesso modifiche all’abuso d’ufficio. Uscendo da via Arenula, lo stesso vice ministro Sisto - che già alla stessa assemblea dei Comuni aveva parlato della “paura della firma” da parte degli amministratori locali - sintetizza così il risultato dell’incontro: “Non si possono non condividere le preoccupazioni dei sindaci. Il ministero della Giustizia, come più volte ha ribadito in questi giorni lo stesso Nordio, non potrà che essere fattivamente sensibile nel rispondere alle istanze che sono state riproposte anche stamattina”. E alla domanda se i due disegni di legge del Pd presentati ieri su Severino e Tuel, in questo contesto, potranno avere un ruolo, Sisto risponde: “Se su questi temi c’è una sensibilità condivisa dall’opposizione questo non potrà che facilitare l’obiettivo di raggiungere un risultato condiviso”. Ma proprio il contestatissimo reato di abuso d’ufficio non è che un pezzo di richieste ben più ampie, sicuramente la modifica del decreto legislativo Severino del 2012 nella parte in cui costringe gli amministratori locali alla sospensione dopo una condanna solo in primo grado, violando, dicono i sindaci, la presunzione di innocenza fino a condanna definitiva. E soprattutto in contrasto con le regole per i parlamentari che invece devono lasciare l’incarico ma solo dopo una condanna definitiva. E poi le modifiche sulla responsabilità politico-amministrativa previste dal Tuel. Cioè le due esigenze cui vanno incontro i due disegni di legge del Pd. Quindi l’abuso d’ufficio, in questa panoramica di richieste, diventa solo un pezzo di una riforma ben più ampia. Soprattutto perché, dopo l’ultima riforma del 2020 con il governo Conte, il reato si è già assai “ristretto”. E proprio per questa ragione il M5S annuncia la sua netta contrarietà sia sull’abuso che sulla Severino. Le capogruppo alla Camera e al Senato Valentina D’Orso e Ada Lopreiato stoppano Nordio perché “non serve alcun nuovo intervento” dopo quel decreto Semplificazioni del luglio 2021 firmato dall0’allora premier Giuseppe Conte che già ha “ristretto” l’abuso d’ufficio. “L’unico antidoto alla cosiddetta ‘paura della firma’ è scrivere leggi chiare e lineari” dicono D’Orso e Lopreiato. Nessuna disponibilità dell’M5S “a intraprendere altre strade che indeboliscano la difesa della legalità, specie in un momento in cui bisogna spendere bene e in piena trasparenza le ingenti risorse del Pnrr”. Netta chiusura anche sulla legge Severino che “bisogna far funzionare, e nel caso migliorarla e non depotenziarla” visto che è stata introdotta per “liberare le istituzioni da persone condannate”. Dopo l’incontro, fuori dal ministero della Giustizia, Decaro sintetizza invece con una battuta il senso delle richieste dell’Anci: “Non esiste il reato di ruolo”. Per il solo fatto di essere e fare i sindaci. Nel senso che “non riteniamo che la responsabilità possa essere sempre del sindaco per il solo fatto che ha un ruolo”. Ruolo politico, ovviamente non perseguibile, ma anche amministrativo. Ed è questo che, con le leggi attuali, diventa invece anche penalmente perseguibile. Decaro parla di “un percorso” tra Anci e governo che nei prossimi giorni aprirà il dossier delle questioni “una per una con il consenso del Parlamento”. “Il tema è circoscrivere le responsabilità penali e civili”, dice Decaro. E mette già le mani avanti: “Non vogliamo né l’immunità né l’impunità. Non vogliamo un trattamento di favore, ma sapere quali sono le regole da rispettare in maniera rigorosa, e le vogliamo rispettare”. Colpo alla spazzacorrotti, ma niente intesa sullo stop agli accanimenti dei pm di Errico Novi Il Dubbio, 3 dicembre 2022 Ok del governo all’emendamento Zanettin che sottrae al regime ostativo i reati contro la Pa, ma non a quello che vieta l’appello sulle assoluzioni. Garantisti? Sì, ma con riserva. Se la giustizia era rimasta in sordina per gran parte della campagna elettorale, l’avvio della legislatura dimostra che può diventare il nodo irrisolto della maggioranza. Dopo le contorsioni sul “reato di rave”, che il guardasigilli Carlo Nordio ha riformulato senza rimediare all’abnormità della pena massima, lasciata a 6 anni, il decreto 162 svela altre contraddizioni nel centrodestra. Prima fra tutte, l’improvvisa timidezza su una riforma garantista che è stata prevista nel programma di governo ma che pare destinata a restare in freezer: l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione. È una sorpresa. Fino a poche ore fa sembrava scontato il via libera politico all’emendamento con cui Pierantonio Zanettin, capogruppo azzurro in commissione Giustizia, propone di vietare l’accanimento dei pm in secondo grado. Al più si poteva temere un’obiezione tecnica da parte di Nordio, in relazione alla complessità della materia e alla necessità di affrontarla con un testo più articolato. Ma non si tratta di questo. Non è il ministro della Giustizia a imporre l’altolà. Il no viene dai partiti. Dalla Lega, certamente: a gelare Zanettin sulle prospettive della norma garantista è stato il sottosegretario Andrea Ostellari, fedelissimo di Matteo Salvini che segue, per via Arenula l’iter del “decretone” in Senato. L’esponente del Carroccio ha avvertito il capogruppoi di FI in commissione che, martedì prossimo, l’emendamento non avrà il parere favorevole del governo. Ma la perplessità non viene solo dalla Lega. Sulla linea di Ostellari è anche Andrea Delmastro, l’altro sottosegretario alla Giustizia, che al ministero guidato da Nordio rappresenta le istanze del partito di Meloni. Le due forze di maggioranza dall’orientamento più intransigente in materia penale non intendono procedere ora a una riforma così forte. Non si tratta di un no definitivo, che d’altronde sarebbe in contraddizione col programma: e infatti, a Zanettin, Ostellari ha proposto di convertire l’emendamento in un ordine del giorno, che verrebbe condiviso dall’intera maggioranza. Un invito rivolto all’esecutivo affinché promuova a breve la riforma delle impugnazioni. Non è finita qui. Perché se sull’inappellabilità delle assoluzioni arriva una frenata tutto sommato clamorosa, c’è invece l’intesa su un altro emendamento con cui Zanettin intende modificare il decreto “Rave-ostativo-riforma Cartabia-covid”. Si tratta di una norma che sottrae al regime ostativo i reati contro la Pa. Viene corretta la legge spazzacorrotti di Alfonso Bonafede, che a propria volta era intervenuta sull’ordinamento penitenziario in modo da precludere, per la corruzione, l’accesso ai benefici penitenziari esattamente come per i delitti di mafia. Una forzatura che il capogruppo azzurro in commissione Giustizia propone di cancellare.Superare la discussa legge di Bonafede è certamente un passo avanti. Ma Fratelli d’Italia e Lega hanno deciso di condividerlo senza fare sconti, anzi. In cambio del sì, è stato chiesto a Zanettin di impegnarsi a dare, martedì prossimo, voto favorevole su un altro emendamento, assai restrittivo, predisposto dal senatore di FdI Alberto Balboni: una modifica al testo sull’ergastolo ostativo con la quale si impone al detenuto non collaborante che aspiri alla liberazione condizionale di motivare “le ragioni della mancata collaborazione”, di ammettere la “attività criminale svolta” e di compiere una “valutazione critica del vissuto in relazione al ravvedimento”. Diventa dunque ancora più soffocante la griglia costruita sull’ostativo. L’emendamento Balboni è simile alla proposta avanzata dall’ex pg di Palermo e senatore 5S Roberto Scarpinato. Forza Italia ha dovuto accettare lo scambio. Che la materia antimafia inibisca qualunque slancio garantista è ormai evidente: se non fosse così, non si sarebbe arrivati, nella scorsa legislatura, a un testo sull’ergastolo ostativo come quello ora recuperato nel decreto 162. Resta invece sorprendente la ritrosia di FdI e Lega sull’inappellabilità delle assoluzioni. Se è vero che la stessa norma era stata bocciata dalla Corte costituzionale 15 anni fa, quando l’aveva firmata Gaetano Pecorella, è vero pure che nel frattempo il quadro normativo delle impugnazioni è cambiato, anche in virtù della riforma Cartabia. E un importante endorsement al divieto di appello per i pm era arrivato anche dalla relazione Lattanzi, il documento consegnato alla ex guardasigilli dalla commissione guidata dal presidente emerito della Consulta. Comunque i giochi sembrano fatti. Martedì saranno votati tutti gli emendamenti al decretone Rave, inclusi quelli sull’ergastolo ostativo. Si andrà avanti a oltranza, ha stabilito la presidente della commissione Giustizia di Palazzo Madama Giulia Bongiorno: meno di una settimana dopo, il 12 dicembre, la legge di conversione dovrà approdare assolutamente in Aula. E il round garantisti-giustizialisti, nella maggioranza, pare destinato a concludersi con un sudatissimo pari e patta. Ecco perché l’appello del pm è una forzatura del diritto di Valentina Stella Il Dubbio, 3 dicembre 2022 Impugnare un proscioglimento vuol dire forzare i principi del diritto internazionale. Martedì prossimo in commissione Giustizia al Senato, nell’ambito del Dl “anti-rave”, sarà messo ai voti anche l’emendamento di Pierantonio Zanettin sull’inappellabilità delle sentenze di assoluzione. In realtà il tentativo di introdurre subito la riforma, pure inserita nel programma di centrodestra, sembrerebbe destinato a infrangersi su un nulla di fatto. Sarà quasi certamente così nonostante il ministro della Giustizia Carlo Nordio, in una intervista al Gazzettino resa lo scorso 24 ottobre, abbia detto: “Mi chiedo come si possa condannare in appello qualcuno che è stato già assolto in primo grado, almeno con la procedura attuale”. Ancor prima al Corriere del Veneto aveva dichiarato: “Se un giudice ha già dubitato al punto da assolvere, o quel magistrato è irragionevole, e va cacciato via, oppure è sbagliata la norma”. In realtà per l’Anm si tratta un falso problema, come ci aveva detto il presidente Giuseppe Santalucia in una intervista: “Il problema vero è quello dell’enorme quantità dei processi, su cui le impugnazioni del pm non incidono, attestandosi su una percentuale inferiore al 2%”. Al di là delle percentuali, dietro le quali però si nascondono storie individuali, ci sono tre ragioni che vengono addotte a supporto dell’inappellabilità delle sentenze di assoluzione: “L’impugnazione del pm contro questo tipo di decisioni non può convivere con il principio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio”, ci disse il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza, in una intervista. Mentre il professor Paolo Ferrua ricorda spesso che se l’imputato venisse condannato per la prima volta in appello, subirebbe un grave pregiudizio, potendo esperire contro la sentenza solo il ricorso in Cassazione, tanto è vero che il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici prevede che “ogni individuo condannato per un reato ha diritto a che l’accertamento della sua colpevolezza e la condanna siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza in conformità della legge”. Più voci sostengono che dopo una assoluzione non si può rimanere prigionieri del sistema giustizia per un tempo lungo o indeterminato. E a proposito di storie personali, diversi sono i casi di cronaca giudiziaria che si muovono tra gli scenari appena tracciati. Nunzia De Girolamo, ex ministro delle Politiche agricole, nel 2020 è stata assolta “perché il fatto non sussiste” dalle accuse di associazione a delinquere, concussione e voto di scambio. Il pm aveva chiesto 8 anni e 3 mesi di carcere. I giudici del Tribunale di Benevento non riconobbero l’impianto accusatorio riguardo quella che per la Procura sarebbe stata una “gestione opaca” del sistema sanitario sannita, con nomine, consulenze e appalti utilizzati per creare consenso elettorale. L’inchiesta Sanitopoli fu completamente smontata. Infatti insieme con De Girolamo furono assolti con la stessa formula tutti gli altri sette imputati. Eppure la Procura fece appello: quest’anno tutte le assoluzioni sono state confermate in secondo grado. Nel dicembre 2020 la Cassazione aveva confermato l’assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino nel processo stralcio sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. L’uomo era accusato di violenza o minaccia a Corpo politico dello Stato. L’indagine era partita nel 2012. Nel 2015 viene assolto, sentenza confermata in appello. Nonostante una “doppia conforme” assolutoria, i pg di Palermo andarono in Cassazione, la quale diede loro torto. E che dire di Alberto Stasi? Accusato per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi, avvenuto in una calda mattina di agosto a Garlasco, fu assolto con rito abbreviato in primo e secondo grado, poi la Cassazione annullò la sentenza di assoluzione e rinviò ad altro appello che lo condannò. Sentenza poi confermata dalla Cassazione bis. Risultato: 16 anni di carcere e un dubbio enorme sulla sua colpevolezza. Ci solo altre vicende che ancora non si sono concluse in via definitiva ma che comunque sono nel solco del tema trattato. A gennaio di quest’anno la Corte d’assise del tribunale di Viterbo ha assolto Andrea Landolfi dalle accuse di omicidio volontario e omissione di soccorso, per cui il pm aveva chiesto una condanna a 25 anni. Era stato sbattuto su tutte le prime pagine come l’ennesimo autore di un femminicidio. Tutto falso per i giudici di primo grado. Nonostante questo la Procura ha fatto appello, iniziato da un mese. Altro caso recente è quello di Gianni Ghiotti. Nel 2020 si era presentato dai carabinieri dicendo che aveva soffocato con un cuscino la madre, anziana e gravemente malata, per mettere fine alle sue sofferenze. Il giudice di Asti però lo assolve perché stabilisce che la madre era morta per cause naturali. “Ha raccontato - scrive il giudice nella decisione - qualcosa di cui è intimamente convinto ma che non corrisponde alla realtà dei fatti”. Due giorni fa invece la Corte di Appello di Torino lo ha condannato a 6 anni e 8 mesi accogliendo la tesi del Pg. Altra vicenda: l’ex primario del pronto soccorso dell’ospedale di Montichiari Carlo Mosca era stato arrestato per omicidio volontario: secondo la Procura, nel pieno della pandemia (marzo 2020), l’uomo avrebbe somministrato farmaci poi risultati letali a due pazienti. La Corte d’assise di Brescia lo ha assolto motivando così: è stato vittima di “un’accusa calunniosa di omicidio, tanto più infamante in quanto rivolta a un medico, ossia a una persona avente vocazione salvifica e non certamente esiziale. Di enormi proporzioni è stata soprattutto l’afflizione arrecata all’imputato, che ha patito un’ingiusta e prolungata limitazione della libertà personale e rischiato di subire una condanna all’ergastolo, con gravissime ripercussioni sul piano sia umano che professionale, cui il verdetto assolutorio può porre solo parziale rimedio”. Un mese fa la Procura ha annunciato il ricorso in appello. Per la politica l’importante è nascondere le malefatte e punire chi le svela di Gianluca Amadori Il Gazzettino, 3 dicembre 2022 Strano Paese l’Italia: da un lato il governo si sta impegnando per abolire il reato di abuso d’ufficio in nome dell’efficienza, con il rischio di lasciare senza alcuna sanzione gravi illeciti commessi da pubblici amministratori; dall’altro viene messa sotto inchiesta una cittadina che ha semplicemente filmato con il telefonino l’incontro tra un personaggio pubblico - l’ex premier Matteo Renzi - e un esponente dei servizi segreti, avvenuto in un luogo pubblico, davanti agli occhi di decine e decine di persone. L’Italia è un Paese nel quale, con la scusa di svuotare le carceri troppo piene, la politica ha deciso che tutti i “colletti bianchi” condannati per reati gravi come la corruzione, concussione oppure per frodi fiscali non trascorreranno mai un giorno in carcere perché per le pene sotto i 4 anni è possibile ottenere l’affidamento in prova o altri benefici alternativi, nonostante il grave danno arrecato a tutti i cittadini, ben superiore a quello di un semplice furto al supermercato. E al tempo stesso si continua, in violazione alle normative e alla consolidata giurisprudenza europea, a perquisire i giornalisti sequestrando loro cellulari e computer per scoprire chi siano le fonti delle loro informazioni, come se il problema non fosse chi commette malefatte, ma chi ha l’ardire di raccontarle rendendole pubbliche. L’Italia è un Paese nel quale, con tutta evidenza, gli spazi di libertà dei cittadini vengono sempre più compressi e ciò accade nel silenzio pressoché generale dell’opinione pubblica e purtroppo anche di gran parte degli organi d’informazione, che sempre più spesso sembrano interessati a fare spettacolo e ad occuparsi di pettegolezzi invece che a dare notizie. La vicenda della cittadina finita sotto inchiesta per aver girato un video nell’autogrill, poi fornito alla trasmissione tv Report che ne ha confezionato un servizio giornalistico, è sintomatico della preoccupante situazione: la procura le contesta la violazione dell’articolo 617 septies Codice Penale, introdotto nel 2018 proprio per garantire l’impunità al potente di turno che, anche se immortalato con le “mani nella marmellata”, potrà sempre denunciare chi lo ha ripreso. E si badi bene: non violando la sua privacy con uno zoom, all’interno della sua abitazione, ma in mezzo alla strada. In un Paese serio il diritto a conoscere ciò che è di interesse pubblico dovrebbe essere garantito come primario. Invece il legislatore sembra pervicacemente intenzionato a tutelare chi ha qualcosa da nascondere, garantendogli di poter continuare ad agire indisturbato. Così va letto il decreto sulla presunzione d’innocenza che, interpretando in modo ingiustificatamente restrittivo una direttiva europea, rende sempre più difficile per i giornalisti informare i cittadini su inchieste e processi. Ma anche le nuove norme sul diritto all’oblio contenute nella riforma Cartabia (che dovrebbe entrare in vigore da gennaio), destinate a far sparire dalla Rete migliaia e migliaia di notizie di interesse pubblico su semplice richiesta delle persone oggetto di quelle indagini e di quei processi nel caso di assoluzione o archiviazione. In un Paese interessato a tutelare i cittadini e il loro diritto ad essere informati, si sarebbe dovuta approvare una norma che obbliga i mezzi d’informazione ad aggiornare le notizie, piuttosto che ad oscurarle, in modo da offrire un quadro completo ed esaustivo. In Italia, invece, si è deciso che le notizie vanno nascoste e che i giornalisti vanno puniti severamente: la Suprema Corte ha dichiarato incostituzionale la pena del carcere nel caso di diffamazione, ma la legge non è stata ancora cambiata. Così come non è stata ancora introdotta alcuna norma a difesa dei giornalisti sotto attacco delle sempre più numerose “querele bavaglio”, con richieste di risarcimento milionari avanzate a scopo intimidatorio. E molti organi di informazione cosa fanno? Invece di spiegare ai cittadini cosa sta accadendo, preferiscono riempire i propri siti di video di gattini e articoli di gossip lasciando da soli Ordine dei giornalisti e Federazione della stampa nella difesa di un diritto costituzionalmente riconosciuto, quello alla libera informazione. La protesta di Alfredo Cospito, l’anarchico al 41 bis che non ha ucciso nessuno di Elena Dusi La Repubblica, 3 dicembre 2022 L’uomo, condannato all’ergastolo, è sottoposto a Sassari al carcere duro ed è in sciopero della fame. Per Manconi si tratta di una misura sproporzionata. E le città si tappezzano di scritte contro il 41 bis. Il ricorso di Alfredo Cospito sul 41 bis è in discussione in questi giorni. E il mondo degli anarchici è in fermento. In molte città italiane, da Roma, Firenze, Bologna, Milano e Genova sono comparse scritte a difesa dell’anarchico condannato all’ergastolo. Cospito è stato giudicato colpevole di aver gambizzato dieci anni fa Roberto Adinolfi, amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, e di aver messo due pacchi bomba nel 2006 nella Scuola per allievi carabinieri di Fossano, in provincia di Cuneo: un’azione, quest’ultima, che non provocò vittime. Per questi reati è sottoposto al regime di carcere duro del 41 bis, ed è in sciopero della fame dal 20 ottobre nel carcere di Sassari, una protesta che gli ha fatto perdere 20 chili, e che ha debilitato il suo stato di salute. Le ragioni di Cospito - 57 anni, dopo 6 anni passati regime in Alta Sicurezza, lo scorso aprile le sue condizioni in carcere sono peggiorate con il passaggio al regime del 41 bis. Il cosiddetto “carcere duro” per lui è stato motivato con i suoi scambi epistolari avvenuti negli ultimi 10 anni con anarchici e riviste del settore. I magistrati di Torino hanno ritenuto che in questo scambio di lettere ci fosse un nucleo organizzato, qualificando la Fai, Federazione anarchica informale, come una vera e propria organizzazione. Come però ricordato nei giorni scorsi dal suo avvocato a Radio Radicale, nel passaggio al 41 bis, definito “ingiustificato”, Cospito ha perso diverse garanzie, dalla palestra alle letture, fino alle quattro ore d’aria al giorno: “Tutto questo è scomparso senza che sia intervenuto nulla di evidente che possa giustificarlo. Cospito - ha spiegato - ritiene insopportabile questa situazione: la prospettiva è quella di restare in un carcere, con l’ergastolo ostativo, fino alla morte. Ha intrapreso questo sciopero della fame perché è il solo strumento di protesta che ha a disposizione”. Il ricorso al tribunale di Sorveglianza - È proprio del suo ricorso che si discute in questi giorni a Roma: ieri il tribunale di sorveglianza si è riunito, ma ha rimandato la decisione. “È una situazione dolorosa, ma è stato seguito l’iter” ha commentato il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Ma contro il suo regime di carcere duro nelle ultime settimane si sono registrati proteste, blitz e striscioni degli anarchici in tutta Italia. La vicenda di Cospito ha suscitato il giudizio durissimo di Luigi Manconi. L’ex senatore, in un articolo su Repubblica del 15 novembre, sottolinea che l’anarchico è sottoposto al carcere duro pur non avendo ucciso nessuno. Perfino un attentato avvenuto oggi ad Atene contro la diplomatica italiana Susanna Schlein (sorella di Elly) potrebbe essere legato alla protesta per il 41 bis cui è sottoposto l’uomo. L’applicazione irrazionale del 41 bis - “Ciò che questa storia racconta - ha scritto Luigi Manconi su Repubblica - è, innanzitutto, la situazione così drammaticamente critica che l’applicazione arbitraria e irrazionale del 41 bis può determinare. Tale regime non dovrebbe avere in alcun modo come sbocco una condizione di deprivazione sensoriale, anche perché - pur se ciò contraddice lo stereotipo dominante - questo tipo di detenzione non corrisponde (non dovrebbe corrispondere) al ‘carcere duro’. La finalità del regime speciale è una ed esclusivamente una: quella di interrompere le relazioni tra il recluso e l’organizzazione criminale esterna. Qualunque misura e qualunque limitazione deve tendere a quel solo scopo. Tutte le altre misure e limitazioni adottate senza una documentata ragione vanno dunque considerate extra-legali- aggiunge Manoni -. Ovvero illegali. E come tali risultano, palesemente, le condizioni di detenzione di Alfredo Cospito. La sua scelta estrema, quella del digiuno, appare, di conseguenza, come “ragionevole” nella situazione data: in quanto porre in gioco il proprio corpo e sottoporlo alla prova terribile dello sciopero della fame, sembra la sola possibilità rimasta a Cospito di contestare radicalmente ciò che considera un’ingiustizia”.  La mobilitazione nelle città - Ieri gruppi di anarchici hanno manifestato di fronte al tribunale di sorveglianza di Genova, con striscioni che definiscono il carcere duro “tortura di stato”. A Milano i sostenitori di Cospito sono riusciti a esporre per qualche minuto uno striscione dalle finestre del Palazzo di Giustizia. Qualche giorno prima lo avevano fatto alla Scala. A Roma sono comparse decine di scritte, oltre a cartelli scritti a mano. A Firenze si sono viste una decina di scritte sui muri come “No 41 bis - Alfredo Cospito e Brr-pcc liberi”. Sempre a Genova si indaga su due incendi dei giorni scorsi contro la ditta Marr, che si occupa di ristorazione nelle carceri. La Dda (direzione distrettuale antimafia) ha aperto un fascicolo per incendio doloso aggravato dalla finalità terroristica. Che ci sia un legame con la vicenda Cospito è suggerito dalla rivendicazione di una sigla anarchica: “Ed è soprattutto per chi ha scelto di lottare in carcere, proprio rinunciando al cibo. Siamo con Alfredo Cospito prigioniero anarchico nella sezione 41 bis”. Il caso di Alfredo Cospito, l’anarchico che rischia di morire in carcere di Valeria Casolaro L’Indipendente, 3 dicembre 2022 È giunto al quarantaquattresimo giorno di sciopero della fame Alfredo Cospito, anarchico recluso in isolamento nel carcere di Bancali (Sassari) deciso in questo modo a protestare contro il regime di 41 bis, ovvero il “carcere duro”, cui è stato sottoposto dallo scorso maggio. Nella giornata di ieri il suo caso è arrivato al Tribunale del Riesame di Roma, che dovrà decidere sul provvedimento di applicazione del regime detentivo di 41 bis per i prossimi quattro anni. A ccusato, nell’ambito del processo Scripta Manent, di aver collocato due ordigni a bassa intensità nella Scuola Allievi Carabinieri di Fossano (Torino) i quali, esplosi in orario notturno, non causarono né morti né feriti. Al termine del processo Cospito si vide condannato a 20 anni di reclusione per 280 c.p., ovvero Attentato per finalità terroristiche o di eversione dell’ordine democratico, riqualificato nel luglio 2022 in 285 c.p., Devastazione, saccheggio e strage ai danni dello Stato, il reato più grave del nostro ordinamento, per il quale è previsto l’ergastolo, anche ostativo (il cosiddetto “fine pena mai”), pur in assenza di vittime. Non vennero condannati per questo reato nemmeno gli autori delle stragi di Capaci e via d’Amelio, né quelli di piazza Fontana o dell’attentato alla stazione di Bologna. Nel maggio 2022, in anticipo sulla riqualificazione del reato, Cospito viene sottoposto a regime speciale di 41 bis o.p. e trasferito al carcere di Bancali, in provincia di Sassari. A motivare l’applicazione del regime di carcere duro vi sarebbe la corrispondenza che l’anarchico ha intrattenuto in questi anni, sempre alla luce del sole, con riviste e militanti del movimento anarchico. Per la libertà di Cospito e in generale contro il regime carcerario del 41 bis si sta sviluppando un movimento di solidarietà internazionale, che oltre all’Italia ha registrato nelle ultime settimane campagne e manifestazioni in Grecia, Cile e diversi altri Paesi. La strage ai danni dello Stato e l’ergastolo ostativo - Già condannato a 10 anni nel 2014 per aver gambizzato, nel 2012, l’ad di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi - azione della quale Cospito rivendicò la piena paternità -, fu poi condannato, insieme ad Anna Beniamino, a 20 anni di reclusione nell’ambito del procedimento Scripta Manent, in quanto riconosciuto “quale capo e organizzatore di un’associazione con finalità di terrorismo ai sensi dell’art. 270 c.p. [Associazione sovversiva, ndr] denominata Federazione Anarchica Informale - Fronte Rivoluzionario Internazionale (Fai/Fri)”. In particolare, Cospito viene riconosciuto colpevole di aver collocato due ordigni a basso potenziale presso la Scuola Carabinieri di Fossano, in provincia di Torino, nel giugno 2006, all’esplodere dei quali non vi furono vittime né feriti. Il reato attribuitogli è quello di strage, previsto dall’art. 422 del codice penale, riqualificato nel luglio di quest’anno nel reato di strage politica contro lo Stato (285 c.p.), il quale prevede l’ergastolo ostativo anche in assenza di vittime. L’articolo 285 del codice penale, il quale definisce il reato di Devastazione, saccheggio e strage, recita: ”Chiunque, allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato, commette un fatto diretto a portare la devastazione, il saccheggio o la strage nel territorio dello Stato o in una parte di esso è punito con l’ergastolo”. Il reato, dai contorni evidentemente molto ampi, si differenzia dai reati di devastazione, saccheggio e strage previsti dagli artt. 419 e 422 perché integra il delitto di attentato e la commissione del reato al fine di porre in pericolo la sicurezza dello Stato. Si tratta del reato più grave del nostro ordinamento, che di fatto non è stato contestato in nessuna delle stragi più importanti degli ultimi decenni di storia italiana. Va notato, inoltre, che gli ordigni la cui collocazione nella caserma di Fossano è stata imputata a Cospito sono stati fatti esplodere nella notte e non hanno causato vittime. L’articolo 285 fu elaborato per la prima volta in epoca fascista, nell’ambito del cosiddetto codice Rocco, e prevedeva in origine l’ergastolo o la pena di morte. Questo poiché andava a punire “fatti di estrema gravità da cui può derivare un danno irreparabile per l’esistenza stessa dello Stato”, aveva dichiarato l’allora ministro Rocco. La pena di morte è stata successivamente abolita, ma l’ergastolo è rimasto: trattandosi di ergastolo ostativo, è stato definito dagli addetti ai lavori “una pena di morte viva”. Se nel caso dei reati di mafia il regime del “carcere duro”, regolato dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, ritrova dei criteri ben definiti di applicazione, non si può dire lo stesso per i reati di stampo politico come quelli dei quali è accusato Cospito. Insieme al regime del 41 bis l’ergastolo ostativo ha infatti costituito un tassello fondamentale del cosiddetto “metodo Falcone”, che ha prodotto decine di pentiti e collaboratori tra gli uomini d’onore, per i quali l’unico modo per porre fine alla detenzione era collaborare con la giustizia. Nell’ottobre del 2019 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) aveva ribadito la necessità che l’Italia dovesse “riformare la legge sull’ergastolo ostativo, che impedisce al condannato di usufruire di benefici sulla pena se non collabora con la giustizia”. La Corte Costituzionale aveva così in seguito ammorbidito il provvedimento e, nel marzo 2021, il governo guidato dal premier Draghi, tramite l’Avvocatura dello Stato, aveva persino accennato ufficialmente alla possibilità per i detenuti condannati ad ergastolo ostativo di accedere alla libertà condizionale senza doversi pentire, scatenando reazioni avverse in una grossa parte delle associazioni antimafia. Tutte le discussioni che vi sono seguite hanno sempre tenuto in considerazione la specificità dei reati mafiosi. La nuova premier Giorgia Meloni, nel primo decreto del proprio governo, ha difeso un’ottica di applicazione rigida del “fine pena mai” per i mafiosi che non collaborino con la giustizia, ritornando a una linea di rigorosa applicazione della norma. Sulla legittimità del nuovo decreto dovrà pronunciarsi la Suprema Corte. La condanna al 41 bis - Nel maggio 2022, quindi prima che la condanna a suo carico venisse riformulata, a Cospito è stato imposto il cosiddetto “carcere duro”, ai sensi dell’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Si tratta, come spiega l’avvocato Rossi Albertini, di una fattispecie introdotta “per combattere le associazioni mafiose e che presuppone la necessità di impedire collegamenti tra il detenuto e l’associazione criminale all’esterno per fini criminosi”. Essa non prevede attività rieducative né tantomeno l’ipotesi di misure alternative e, per la condizione di isolamento nella quale viene a trovarsi il detenuto, può comportare gravi conseguenze sul benessere psicofisico e sensoriale della persona (sono previste due sole ore di aria al giorno ed una sola di socialità, non si ha accesso alle biblioteche né ai colloqui coi familiari se non una volta al mese e non si possono effettuare telefonate). Va notato, inoltre, che tale provvedimento è stato adottato non nel 2016, quando Cospito è stato riconosciuto essere parte del FAI, ma solamente quest’anno. Il “carcere duro” ha la funzione di impedire i collegamenti tra una particolare tipologia di detenuti, ovvero gli esponenti di un’organizzazione (tipicamente mafiosa), e il mondo esterno, in modo che questi non possano impartire ordini agli affiliati all’esterno del carcere e mantenere il controllo sulle attività criminali, contenendone così la pericolosità. Lo scopo principale della norma è, di conseguenza, proprio impedire i collegamenti con l’associazione di appartenenza. La Corte ha ritenuto che tali misure fossero necessarie nel caso di Cospito “al fine di impedire i collegamenti tra lo stesso e i componenti dell’associazione con finalità di terrorismo denominata FAI/FRI” (in base a un unico documento redatto nel 2006 che avrebbe attestato una riunione di più membri del gruppo, del quale, a detta della difesa, non si ravvisa più l’esistenza in momenti successivi). Il pericolo ravvisato dal ministro starebbe quindi nel fatto che Cospito avrebbe scritto testi istigatori (peraltro attività pubblica non destinata agli associati ma a tutti i gravitanti intorno alla galassia anarchica), più che nel timore di una effettiva “permanenza operativa” della FAI, motivo per cui si sarebbero potute valutare opzioni meno invasive, quali “il collocamento in una sezione AS2 (Alta Sorveglianza, un altro genere di “carcere duro”) senza ulteriori anarchici” (mentre nella precedente detenzione era sottoposto ad AS2 con altri militanti), “la sottoposizione a misure cautelari per il reato di istigazione” o l’”applicazione del visto di censura sulla corrispondenza”. A parere dell’avvocato, l’applicazione di tale regime è “quantomeno singolare essendo notorio che il movimento anarchico rifugge in radice qualsiasi struttura gerarchica e/o forma organizzata”, al punto da “far emergere il serio sospetto che con il decreto ministeriale si voglia impedire l’interlocuzione politica di un militante politico con la sua area di appartenenza piuttosto che la relazione di un associato con i solidali in libertà”. Secondo l’avvocato, quindi, la norma è in questo caso “illegittima per l’insussistenza dei presupposti applicativi”, in particolare “dell’associazione criminale, terroristica o eversiva”. Cospito è il primo anarchico sottoposto a tale regime restrittivo. La repressione del movimento anarchico - Secondo quanto riportato in una lettera aperta a firma di diversi avvocati, nel mese di luglio di quest’anno un militante anarchico ha ricevuto una condanna in primo grado a 28 anni di reclusione (l’equivalente di un ergastolo ordinario) per un attentato alla sede della Lega Nord, per il quale nessuno ha riportato conseguenze lesive. Nell’estate 2020 cinque militanti anarchici sono stati condannati a trascorrere un anno circa in carcere in regime di Alta Sorveglianza, nonostante i reati a loro attribuiti fossero bagatellari (manifestazioni non autorizzate, imbrattamenti e così via), mentre a Perugia due anarchici sono stati accusati di istigazione a delinquere aggravata dalla finalità di terrorismo, in quanto avrebbero diffuso slogan violenti anarchici, fattispecie classificata come “propaganda sovversiva” fino al 2006, quando tale reato (art. 272 c.p.) fu abrogato. Le misure adottate ai danni dei militanti corrisponderebbero, in questi casi, a reati d’opinione, anche se “la propaganda, anche di ideologie di sovversione violenta” dovrebbe “essere tollerata da uno Stato che si dica democratico, pena la negazione del suo stesso carattere fondante”, sostengono gli avvocati, che aggiungono come “Da avvocati e avvocate ci troviamo ad essere spettatori di una deriva giustizialista che rischia di contrapporre a un modello di legalità penale indirizzato ai cittadini, con le garanzie e i diritti tipici degli Stati democratici, uno riservato ai soggetti ritenuti pericolosi, destinatari di provvedimenti e misure rigidissimi, nonché di circuiti di differenziazione penitenziaria”. I compagni di Cospito, riunitisi in presidio questa mattina all’esterno del Tribunale del Riesame in segno di sostegno, hanno preannunciato mobilitazioni in suo sostegno. “È importante ricordare che l’attacco riguarda tutto il conflitto di classe, perché c’è un filo rosso che va dal teorema di Piacenza [riferimento alle accuse, poi decadute, di associazione a delinquere ai danni dei sindacati conflittuali, ndr] e passa per le tante associazioni a delinquere che piovono sull’antagonismo” ha riferito un militante a L’Indipendente. Chi à il colpevole dell’attentato? Elementare, Watson: quell’anarchico al 41 bis di Frank Cimini Il Riformista, 3 dicembre 2022 Le indagini sull’incendio della macchina di Susanna Schlein, vice ambasciatore in Grecia - fatto avvenuto quindi ad Atene - le fanno in Italia politici e giornalisti, a cominciare dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, la prima persona che ha indicato “la pista anarchica”. Ma con la creatività e la fantasia del Bel Paese si fa ancora di più dicendo che l’attentato sarebbe avvenuto a opera di anarchici in solidarietà con Alfredo Cospito in sciopero della fame da un mese e mezzo nel carcere di Sassari Bancali per protestare contro l’applicazione dell’articolo 41bis, carcere duro: blocco della corrispondenza sia in entrata sia in uscita e solo due ore d’aria al giorno in un cubicolo da cui non si vedono le nuvole o il sole. Insomma lor signori non sanno niente dell’incendio di Atene ma fanno ammuina prendendosela con una persona che in pratica stanno torturando. La notizia viene gonfiata perché Susanna Schlein è la sorella di Elly da tempo sotto i riflettori dell’attenzione generale perché candidata alla segreteria del Partito democratico. Per cui giornali che sulla vicenda carceraria di Alfredo Cospito non hanno scritto una riga ignorando deliberatamente anche l’udienza dì mercoledì davanti al Tribunale di Sorveglianza di Roma ora hanno scoperto il caso, diciamo, perché fa comodo strumentalizzarlo nell’ambito di una caccia alle streghe che nella storia di questo paese ha già fatto danni inenarrabili. E siamo proprio nei giorni che ci avvicinano all’anniversario di piazza Fontana e del “volo” dell’anarchico Pinelli rubricato coma malore attivo da un giudice “democratico e antifascista”. Insomma è tutta colpa di Cospito Alfredo che sta rischiando la vita digiunando per tutelare i suoi diritti che restano tali anche in mia prigione dello Stato nato dalla Resistenza. Attentato a Susanna Schlein, la rete che invoca “azioni dirette”. Timore per altri obiettivi italiani di Fiorenza Sarzanini Il Manifesto, 3 dicembre 2022, 3 dicembre 2022 L’offensiva internazionale contro il carcere duro per il leader insurrezionalista Alfredo Cospito. L’ordine è rimbalzato via web per settimane: compiere “azioni dirette” dove e come ognuno può. L’obiettivo è esplicito: protestare contro il decreto che ha disposto il carcere duro previsto dal 41 bis - quello che si applica a terroristi e mafiosi - per Alfredo Cospito, l’anarchico di 57 anni, che rischia l’ergastolo e che da oltre un mese fa lo sciopero della fame. E così c’è chi è salito su una gru a Milano e chi ha imbrattato con scritte di vernice rossa il tribunale di Genova. C’è chi in Oregon, negli Stati Uniti, ha compiuto un atto contro una multinazionale e l’ha poi rivendicato su un sito internet italiano. Ma è stato l’attacco di ieri contro Susanna Schlein, prima consigliera dell’ambasciata ad Atene, a far salire il livello della minaccia.  Gli investigatori ellenici non sembrano avere dubbi, convinti della matrice anarcoinsurrezionalista e della strategia per sostenere Cospito in vista della decisione dei giudici di Roma che arriverà nelle prossime ore. Ieri, mentre il ministro degli Esteri Antonio Tajani volava in Grecia per un incontro con le autorità di governo, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi incontrava al Viminale il collega Panagiotis Theodorikakos. E questo avvalora il sospetto che la scelta dei tempi non sia stata casuale per chi ha incendiato l’auto della diplomatica, ma poteva provocare conseguenze ben più serie. Una seconda molotov era stata infatti piazzata sotto la seconda vettura di Schlein, parcheggiata vicino all’impianto del gas dell’abitazione dove vive con il marito e i figli. Se fosse esplosa “poteva uccidere”, hanno confermato gli inquirenti ellenici. I greci hanno già “disposto una vigilanza rafforzata presso le sedi delle autorità diplomatiche italiane”, da Roma si è deciso invece di potenziare il contingente dei carabinieri in servizio in ambasciata e impegnati nei servizi di scorta. Il 41 bis - Cospito era stato condannato per aver gambizzato nel maggio 2012 Roberto Adinolfi, l’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, ma l’ergastolo gli è stato inflitto per due pacchi bomba esplosi nel giugno 2006 nella scuola allievi carabinieri di Fossano in provincia di Cuneo: non ci furono persone ferite o vittime, ma la contestazione era di strage contro la sicurezza dello Stato. Nel maggio scorso la ministra della Giustizia Marta Cartabia decide di modificare il regime cautelare disponendo il 41 bis nel carcere di Sassari perché “il detenuto è in grado di mantenere contatti con esponenti tuttora liberi dell’organizzazione eversiva di appartenenza”, contestando in particolare alcuni scritti che Cospito avrebbe inviato a pubblicazioni dell’area anarchica; ma anche perché “l’associazione eversiva, alla quale il detenuto appartiene, è tuttora operante sul territorio e in particolare risulta dedita alla commissione di gravi delitti”. Considerazioni che il difensore Flavio Rossi Albertini contesta nel ricorso depositato a Roma evidenziando sia “l’insussistenza dell’associazione criminale, terroristica o eversiva”, sia come i comportamenti di Cospito siano al massimo “una propaganda sovversiva violenta che il legislatore ha considerato non più punibile”. Lo sciopero della fame - Dal 20 ottobre Cospito fa lo sciopero della fame e ha già perso oltre venti chili. Per lui si sono mobilitati avvocati, intellettuali, politici. Di “applicazione arbitraria e irrazionale del 41 bis” ha parlato l’ex senatore pd Luigi Manconi che poi ha rivolto un appello al direttore del Dap Carlo Renoldi. “So che in tanti, anche intellettuali e personalità autorevoli, si sono mobilitati contro l’ingiustificatezza delle misure di detenzione a cui sono sottoposto, qualcosa che per me è impossibile da accettare e che continuerebbe a farmi sentire murato vivo in un carcere”, aveva detto nei giorni scorsi. E ieri l’avvocato Rossi Albertini ha voluto evidenziare come “la quasi totalità delle iniziative di solidarietà sono state legittime e legali e se pure hanno travalicato il limite sono state forme di scarsissima offensività giuridica”. “Facciamo sviluppare le indagini e agiamo con razionalità”, ha aggiunto, consapevole che le azioni violente potrebbero pesare negativamente sulla decisione dei giudici di Roma che arriverà tra qualche giorno.  La minaccia - “Quotidianamente in queste aule uomini togati decidono della liberà altrui, della vita e della morte di migliaia di persone che per scelta o necessità si sono sottratte alle leggi di uno Stato che quotidianamente sfrutta, affama, avvelena”, è il messaggio apparso sui siti di matrice anarchica alla vigilia dell’udienza di due giorni fa. Con l’attacco di Atene la minaccia è apparsa molto più seria e adesso il timore è che ci possano essere altre azioni analoghe - oppure spedizioni di pacchi bomba - contro obiettivi italiani, nel nostro Paese o all’estero. Le azioni in suo nome. Cospito: “Sono murato vivo” di Eleonora Martini Il Manifesto, 3 dicembre 2022 Attentato a Susanna Schlein. L’avvocato del detenuto anarchico: “Spero che le ipotesi siano prive di pregiudizi”. Il ministro Tajani vola in Grecia. Secondo il ministro degli Esteri Tajani, la numero due dell’ambasciata italiana ad Atene Susanna Schlein “è salva per miracolo perché per fortuna non è esplosa la molotov piazzata sotto la macchina vicina all’impianto del gas che è sotto la camera da letto della sua famiglia”. Un particolare, questo, che sembra contraddire la pista anarchica su cui si concentrerebbero le attenzioni degli inquirenti italiani e greci. Perché gli attentati rivendicati negli ultimi mesi dalla “Fai- Fri” e dai mille corpuscoli della galassia dell’anarchismo sono sempre stati - fin qui - senza vittime né feriti. Il titolare della Farnesina infatti si è limitato ad aggiungere: “Probabilmente si tratta di un attentato di origine anarchica come ce ne sono stati altri”. Ma che sia questa la pista su cui lavorano i magistrati ellenici lo ha riferito il ministro greco per la Sicurezza dei cittadini, Theodorikakos, al ministro dell’Interno Piantedosi. Tajani ieri è subito volato ad Atene per portare a Susanna Schlein “la mia solidarietà e del governo”. La presenza della prima Consigliera “in ambasciata - ha riferito poi Tajani ai giornalisti - mi ha rassicurato, l’ho trovata serena. Ho ringraziato lei e i nostri diplomatici che in un momento difficile hanno dimostrato grande serietà e grande determinazione”. Fino a ieri sera nessuno ha rivendicato l’attacco alla diplomatica italiana ma la Procura di Roma intanto ha aperto un fascicolo coordinato dal pm Lo Voi che probabilmente procederà per attentato con finalità di terrorismo. L’azione però viene collegata ad una serie di mobilitazioni, scritte e anche attentati incendiari che nelle ultime settimane sono stati siglati da gruppi anarchici a sostegno del detenuto Alfredo Cospito. L’uomo è condannato all’ergastolo ostativo per strage contro la sicurezza dello Stato sebbene l’attentato di cui è stato riconosciuto colpevole non abbia avuto vittime né feriti. Ma la pena gli è stata comminata mentre scontava una precedente condanna a 10 anni per un reato di sangue. Cospito da maggio è sottoposto al regime duro del 41 bis nel carcere Bancali di Sassari e da 40 giorni è per questo in sciopero della fame. Come lui, rifiutano il cibo, contro un regime trattamentale che isola dal mondo circa 750 detenuti che lo subiscono, anche Anna Beniamino, la sua ex compagna condannata con Cospito per l’attentato del 2006 alla Scuola allievi Carabinieri di Fossano, e altri due detenuti anarchici Juan Sorroche e Ivan Alocco. Nel nome di Alfredo, Anna, Juan e Ivan si sono tenute tante manifestazioni legali. Ma il sito di anarchistnews.org è pieno anche di rivendicazioni di piccoli e grandi attentati. L’ultimo è quello alla Marr di Taggia, in Liguria, una ditta che fornisce pasti anche alle locali carceri. Nella notte del 12 novembre, recita la rivendicazione, “tramite 6,5L di benzina abbiamo incendiato i mezzi e distrutto il capannone dell’azienda. Marr=profitti sulla pelle dei detenuti. 41-bis=carcere=tortura. Diamo forza ad Alfredo, Anna, Ivan, Juan e Toby! Per l’Anarchia!”. Ma le azioni di sedicenti “anarchici” sono segnalate in tutto il mondo, dall’Oregon a Berlino, da Atene a Trento, dall’Alabama a Roma… Ieri però il legale di Cospito, Rossi Albertini, ha minimizzato: “Per quanto sia grave, parliamo di un’auto incendiata. La quasi totalità delle iniziative di solidarietà sono state legittime e legali e se pure hanno travalicato il limite sono state forme di scarsissima offensività giuridica. Facciamo sviluppare le indagini e agiamo con razionalità. Spero - ha concluso - che non siano affermazioni condotte da pregiudizio o ipotesi non verificate”. Subito dopo è arrivata una dichiarazione dello stesso Cospito, in attesa a giorni che il tribunale di Sorveglianza di Roma decida se sospendere il 41bis: “So che in tanti, anche intellettuali e personalità autorevoli, si sono mobilitati contro l’ingiustificatezza delle misure di detenzione a cui sono sottoposto, qualcosa che per me è impossibile da accettare e che continuerebbe a farmi sentire murato vivo in un carcere”. La galassia anarchico informale seduce anche l’estrema sinistra di Mario Di Vito Il Manifesto, 3 dicembre 2022 La solidarietà comune a detenuti anarchici ed ex terroristi Br. La pista anarchica sull’attentato subito dalla consigliera diplomatica Susanna Schlein ad Atene, per ora, sembra avere una matrice più storica che altro. I legami tra italiani accusati di far parte della Federazione Anarchica Informale (Fai) e greci nella stessa posizione sono noti almeno dal 2011, quando apparve un documento intitolato “Non dite che siamo pochi”, dedicato al gruppo insurrezionale ellenico chiamato “Cospirazione delle cellule di fuoco”. Nel testo si fa riferimento esplicito a decine di “nuclei, movimenti e singoli compagni che in maniera diffusa e orizzontale, uniti da un solido e chiaro patto di mutuo appoggio, muovono guerra in maniera caotica e distruttiva all’esistente”; quelli censiti in Grecia erano in totale otto. Lo stesso numero si ripete anche nei vari rapporti delle autorità italiane e greche compilati nel corso degli anni fino a oggi. Alla fine di dicembre del 2010 da segnalare il pacco bomba recapitato all’ambasciata Greca di Roma, non esploso perché non funzionò l’innesco. La consegna del plico era avvenuta qualche giorno prima, in concomitanza con altri ordigni simili fatti arrivare alle sedi diplomatiche di Cile e Svizzera, ma nessuno lo aveva aperto fino a dopo le festività natalizie. È del 2009, invece, una retata nel quartiere ateniese di Exarchia che portò all’arresto di dodici persone - tra cui cinque italiani - per gli scontri con le forze dell’ordine durante una manifestazione in memoria del quindicenne Alexandro Grigoropoulos, ucciso da un agente di polizia l’anno precedente. Da tempo ormai gli investigatori ipotizzano legami stretti tra gruppi informali italiani e gruppi informali greci, ma ogni volta il problema risiede nella difficoltà di definire l’associazione a delinquere in un contesto che non prevede alcuna forma di organizzazione formale e che sembra muoversi più seguendo una “comunione di intenti” che un vero e proprio schema. Il caso di Alfredo Cospito - detenuto al 41 bis e in sciopero della fame ormai da diverse settimane - ha del resto portato a manifestazioni di solidarietà in mezzo mondo, non solo dagli ambienti anarchici: i social network pullulano infatti di foto e di post di persone prive una connotazione politica particolare che sono scese in piazza a manifestare. Ad Atene, durante il tradizionale corteo del 17 novembre in memoria della rivolta studentesca contro i colonnelli del 1973, un gruppo di anarchici ha espresso la propria solidarietà ad Alfredo Cospito e contro il 41 bis lasciando scritte sui muri nei pressi della sede della Banca Centrale Greca e poi proprio davanti all’ambasciata italiana. Mercoledì scorso, sempre ad Atene, si è tenuta un’altra manifestazione di solidarietà a Cospito, e in questa circostanza un gruppo di anarchici ha fatto visita alla Camera di commercio italo-greca, lasciando scritte sui muri e vernice a imbrattarne la porta e diversi volantini, con l’intenzione di “lanciare un messaggio internazionalista di resistenza al tentativo di sterminio del nostro compagno da parte dello stato italiano”. Nel testo del comunicato diffuso per rivendicare l’azione, oltre a Cospito, si fa riferimento anche agli anarchici Juan Antonio Sarroche Fernandez e Anna Beniamino (entrambi in sciopero della fame, uno nel carcere di Terni e l’altra in quello di L’Aquila) e a Nadia Lioce, Marco Mezzasalma e Roberto Morandi delle cosiddette Nuove Brigate Rosse, in regime di 41 bis ormai da 17 anni. “Pagato in base ai salari del 1993”: risarcito un detenuto delle Sughere di Stefano Taglione Il Tirreno, 3 dicembre 2022 Livorno: l’uomo aveva lavorato come inserviente, cuciniere, aiuto cuciniere, agricoltore e aiuto agricoltore. Quasi 10.000 euro di indennizzo. Dal luglio 2015 al settembre 2017 ha lavorato come scopino, inserviente di cucina, aiuto cuciniere, cuciniere, aiuto agricoltore e agricoltore fra le carceri delle Sughere e di Sanremo, in Liguria. Peccato che le sue buste paga fossero ferme al ‘93 e che quindi, dopo la causa vinta dal suo avvocato Marco Tavernese contro il ministero della Giustizia, dovrà essere risarcito con 9.836,38 euro, con lo Stato condannato anche alle spese di giudizio, altri 1.780 euro. Il tribunale di Roma, con la giudice Giuseppina Vetritto, ha dato ragione a un ospite del carcere di via delle Macchie che rivendicava un guadagno equo e in linea con i parametri statali. Il detenuto - di cui Il Tirreno omette le generalità - è stato recluso nella casa circondariale di Sanremo dall’ottobre 2013 al novembre 2016, mentre nel dicembre successivo è stato trasferito a Livorno. La normativa - Secondo una legge del 1993, in cui viene regolato il lavoro all’interno delle mura carcerarie, i detenuti devono essere pagati almeno due terzi rispetto ai parametri minimi contrattuali della stessa professione svolta fuori dai penitenziari. Uno scopino, quindi, deve ricevere due terzi della paga base che spetta in Italia per un addetto alle pulizie. Il confronto si basa sui contratti collettivi nazionali di categoria. Ma lo Stato, fino al settembre del 2017, ai reclusi non aveva mai adeguato lo stipendio rispetto agli aggiornamenti dei contratti nazionali, quindi chi svolgeva queste mansioni in tutti i penitenziari dello Stivale è stato retribuito in base ai due terzi dei corrispettivi validi appunto 29 anni fa. Una paga considerata misera quindi, al punto che in molti hanno deciso di fare causa allo Stato. Solo a Livorno, l’anno scorso, ci sono stati almeno altri due precedenti di persone che hanno ottenuto importanti risarcimenti dal ministero della Giustizia. La commissione ha poi aggiornato i parametri dall’ottobre del 2017, infatti da quel momento in poi tutto è stato regolarizzato. La sentenza - In questo caso, il confronto, è stato fatto con i contratti nazionali di categoria di “Turismo e pubblici esercizi”, “Legno, piccole e medie imprese” ed “Edilizia e industria”. “Dal raffronto - spiega la giudice nella sentenza - si evince che per tutto l’arco temporale la mercede è stata quantificata sulla base delle retribuzioni indicate nella richiamata tabella (quella del 1993 ndr), senza essere mai aggiornata. Il ministero, quindi, non ha adempiuto all’obbligo di procedere agli aggiornamenti dei parametri retributivi utilizzati ai fini del calcolo della mercede, con la conseguenza che è fondata la pretesa del ricorrente di vedersi liquidare la retribuzione per il lavoro prestato sulla base delle percentuali individuate dalla commissione da applicarsi, però, sui minimi retributivi previsti dai contratti collettivi nazionali di categoria succedutisi nel tempo”. “Pronuncia giusta” - “Si tratta dell’ennesima sentenza - spiega l’avvocato romano Marco Tavernese, che ha assistito la persona nella causa civile - che riconosce la giusta retribuzione per i detenuti lavoratori a fronte di un problema che ha riguardato dal ‘93 al settembre del 2017 la totalità della popolazione carceraria che ha svolto attività lavorative”. I precedenti - Un anno fa un detenuto che aveva lavorato alle Sughere come spesino, porta vitto, aiuto cuciniere, scopino, addetto alle pulizie e assistente alla persona si era visto riconoscere dallo Stato 5.129,28 euro, principalmente perché il ministero della Giustizia non gli aveva versato il 25 per cento in più l’ora per i giorni festivi e gli straordinari. Altri 5.869,08 euro furono versati, sempre dall’Erario, a un altro ospite sia di via delle Macchie che di Gorgona che dal novembre 2016 al settembre 2017 aveva lavorato come mungitore, giardiniere e aiuto agricoltore. Giudizi per direttissima, stop alla tagliola per la scelta del rito abbreviato di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 3 dicembre 2022 La Corte costituzionale, sentenza n. 243 depositata oggi, ha infatti dichiarato l’illegittimità degli articoli 451, commi 5 e 6, e 558, commi 7 e 8, del Cpp per come interpretati dalla giurisprudenza prevalente. Più tempo per la richiesta dei riti alternativi nei giudizi per direttissima. La Corte costituzionale, sentenza n. 243 depositata oggi, ha infatti dichiarato l’illegittimità degli articoli 451, commi 5 e 6, e 558, commi 7 e 8, del Cpp, per come interpretati dalla giurisprudenza prevalente. E cioè nel senso che la concessione del termine a difesa nel giudizio direttissimo preclude all’imputato di formulare, nella prima udienza successiva allo spirare del suddetto termine, la richiesta di giudizio abbreviato o di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 cod. proc. pen. Il Tribunale di Firenze ha rimesso la questione di legittimità dovendosi pronunciare sulla richiesta di applicazione della pena a norma dell’articolo 444 Cpp, avanzata dall’imputato dopo che questi, in esito all’udienza di convalida, aveva ottenuto il termine a difesa di cui all’articolo 558, comma 7, cod. proc. pen., previsto nel giudizio direttissimo dinnanzi al tribunale in composizione monocratica. A impedire l’accoglimento, tuttavia, rilevava il rimettente si porrebbe la lettura della Cassazione, “assurta al rango di diritto vivente”, secondo cui la concessione del termine a difesa comporterebbe l’apertura del dibattimento, con conseguente preclusione della possibilità di richiedere il giudizio abbreviato e l’applicazione della pena su richiesta. La questione posta alla Corte, dunque, è se del termine a difesa ci si debba avvalere - secondo l’orientamento di legittimità - unicamente per la prosecuzione della fase dibattimentale del giudizio direttissimo, ovvero se esso debba essere concesso anche in vista delle scelte che l’imputato ha la facoltà di compiere sull’accesso ai riti alternativi, come auspicato dal rimettente. Nel caso del giudizio direttissimo, si legge nella decisione, la scelta dell’imputato di accedere a uno dei riti speciali non può comportare il sacrificio delle essenziali esigenze difensive sull’altare della speditezza dei tempi processuali. “Non può dunque ritenersi che la scelta del rito debba necessariamente avvenire seduta stante e incognita causa”. Il giudice ove l’imputato ne faccia richiesta, è perciò “tenuto a concedere il termine non solo in vista dell’approntamento della migliore difesa nella prosecuzione della fase dibattimentale, ma anche in funzione dell’esercizio consapevole della scelta sull’accesso al giudizio abbreviato e all’applicazione della pena a norma dell’art. 444 cod. proc. pen.”. Del resto, prosegue il ragionamento, nel giudizio direttissimo la “compressione” del diritto di difesa dell’imputato è molto forte. “Basta considerare, al riguardo - prosegue -, come il rapido susseguirsi delle fasi processuali del giudizio di convalida dell’arresto e dell’instaurazione del giudizio direttissimo, seppure consente di “pervenire con immediatezza all’accertamento di responsabilità penale dell’imputato”, può risolversi, talvolta, anche in uno spazio di poche ore, il che rende non infrequente che l’imputato non sia assistito dal difensore di fiducia, e che si trovi, inoltre, a dover compiere la scelta sul rito senza disporre di alcun apprezzabile lasso di tempo, quando non in modo addirittura istantaneo”. Per tutte queste ragioni la Corte, riaffermando il dettato dell’ordinanza n. 254 del 1993 e preso atto dell’incompatibilità con l’articolo 24 Cost. dell’interpretazione della “consolidata giurisprudenza di legittimità” (sentenza n. 68 del 2021), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 451, commi 5 e 6, e 558, commi 7 e 8, cod. proc. pen. in quanto interpretati nel senso che la concessione del termine a difesa nel giudizio direttissimo preclude all’imputato di formulare, nella prima udienza successiva allo spirare del suddetto termine, la richiesta di giudizio abbreviato o di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 cod. proc. pen. Toscana-Umbria. Benessere e resilienza per gli operatori penitenziari di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 dicembre 2022 Comunicazione, cooperazione, inclusività, fiducia sono i temi chiave del percorso dedicato al benessere e alla resilienza progettato da Dynamo Academy per gli operatori penitenziari di Toscana e Umbria nell’ambito del piano formativo regionale 2022 del Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Firenze. Le attività previste dal Progetto “Benessere e resilienza” seguono il Metodo Dynamo, con l’obiettivo di migliorare la capacità di risposta ai bisogni fisici, emotivi e psicologici degli operatori, promuovendo sia una maggiore fiducia in sé stessi e nelle proprie capacità, sia la collaborazione all’interno dei gruppi. Il percorso si è svolto da lunedì 21 a venerdì 24 novembre presso il Campus di Dynamo Academy, a Limestre (PT) in Toscana, nell’oasi di oltre 900 ettari affiliata al WWF, attiguo a Dynamo Camp, dove vengono ospitate abitualmente le attività di terapia ricreativa a cui accedono gratuitamente bambini e ragazzi affetti da patologie gravi o croniche e le loro famiglie. Gli operatori coinvolti a Limestre provengono dagli istituti penitenziari di Toscana e Umbria e in parte dal Provveditorato regionale, in quella che è ormai la 3° edizione del Progetto di formazione di Dynamo Academy dedicato alla categoria degli operatori penitenziari in Toscana e Umbria, a cui si aggiungono due precedenti edizioni nazionali dedicate rispettivamente alla formazione degli operatori e alla formazione di direttori e comandanti. Dal 2019, infatti, Academy ha accolto e accompagnato - anche attraverso attività in loco all’interno di istituti penitenziari - decine di professionisti che hanno potuto quindi fare esperienza del Metodo Dynamo (proprietà intellettuale di Dynamo Academy). “Grazie al Provveditorato e all’Amministrazione Penitenziaria per continuare il percorso iniziato con Dynamo Academy 3 anni fa. Il Metodo Dynamo ha l’obiettivo di dare agli operatori coinvolti sollievo e svago, rafforzare la fiducia in se stessi e nelle proprie capacità, aiutarli ad affrontare con più consapevolezza la propria attività professionale”, commenta Maria Serena Porcari, Ceo di Dynamo Academy e di Fondazione Dynamo Camp. Nel programma del Metodo Dynamo, terminato il 24 novembre scorso, sono state previste attività dedicate al benessere fisico, quali yoga e nordic walking, ma anche arrampicata, teatro espressivo, escursioni nella natura, oltre a moduli formativi esperienziali dedicati alla gestione dello stress, delle dinamiche di gruppo e di comunicazione. Non sono mancati anche i momenti di divertimento e di condivisione informale: elementi fondanti del percorso di Terapia Ricreativa. Un processo che si ripropone, attraverso proprio la condivisione esperienziale di favorire la motivazione e il riequilibro del processo di decompressione dallo stress fisico e psicologico degli operatori che lavorano in contesti che, come le carceri, si caratterizzano per un’elevata frequenza di eventi ad alto impatto emotivo. Sono stati raccolti, tramite questionario di fine attività, i feedback dei partecipanti dell’edizione maggio 2022 del Progetto “Benessere e Resilienza”. In particolare, il progetto “Benessere e Resilienza” sta portando riscontri positivi da parte dei partecipanti rispetto al raggiungimento di migliori competenze nella valorizzazione dell’identità professionale del singolo verso il comune obiettivo; ottimizzazione dei processi di comunicazione per un clima di lavoro accogliente e costruttivo; gestione dei conflitti all’interno del gruppo di lavoro (trasformazione dei contrasti in energia propositiva); fare della “cura del gruppo” e del team building un processo continuativo e rigenerativo. Palermo. Carcere Pagliarelli: 310 detenuti chiedono un’ispezione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 dicembre 2022 Sono i reclusi dell’alta sicurezza (AS) del carcere palermitano che in una lettera sollecitano interventi per la situazione di degrado e chiedono aiuto per “essere trattati come persone umane”. Ben 310 detenuti del carcere palermitano di Pagliarelli, dopo essersi rivolti a una serie di indirizzi istituzionali, sollecitano interventi seri per la situazione in cui versa la struttura, che pur essendo relativamente nuova (aprì i battenti tra la fine degli anni 80 e l’inizio dei 90) patisce una serie di problemi di minima vivibilità. Lo hanno fatto con una lettera di tre pagine e sono i reclusi dell’alta sicurezza (AS) per sottolineare l’inciviltà delle loro condizioni “Al Pagliarelli il vitto è immangiabile” - “L’istituto - scrivono nella lettera i detenuti del Pagliarelli - non è funzionale nelle grandi cose come nelle più piccole e banali della quotidianità. Qui patiamo il freddo in inverno, essendo l’impianto di riscaldamento non funzionante da un ventennio, il caldo torrido in estate, non avendo a disposizione un piccolo ventilatore per trovare refrigerio, quando siamo chiusi dalle 18 alle 20 ore al giorno in piccole e invivibili celle. Patiamo anche la fame, dato che il vitto che ci viene distribuito è immangiabile”. “C’è un solo medico di base ogni 1.300 detenuti” - Altro problema della difficile quotidianità è il diritto alla salute: “C’è un solo medico di base per 1300 detenuti, possiamo chiedere la visita ogni 15-30 giorni e mancano i medici specialisti. Per una visita cardiologica, oculistica, ortopedica, esami di laboratorio bisogna attendere anni”. Cosa che mette a rischio, causa diagnosi tardive, rispetto a patologie gravi come “tumori, malattie genetiche, cardiovascolari e metaboliche”. I detenuti del Pagliarelli nella loro lettera citano Mandela e Mattarella - I detenuti citano Nelson Mandela e Sergio Mattarella, e si rifanno alle parole con cui lo storico statista sudafricano e il presidente della Repubblica avevano ricordato che per misurare la civiltà di un Paese bisogna partire dalle carceri (Mandela) e che la sicurezza dei cittadini dipende anche dal reinserimento e dalla rieducazione del condannato (Mattarella). Come raggiungere questi obiettivi, si chiedono i firmatari della lettera, se “ci viene negato pure il diritto di mantenere l’igiene personale”, visto che “le celle sono sprovviste di acqua calda e docce” e ci si può lavare solo “in locali affollati e dove non c’è un minimo di riservatezza?”. Un’ispezione per stabilire se al Pagliarelli ci sia “lesione dei diritti umani” - Conclude la lettera: “In queste condizioni il principio riabilitativo della pena è solo pura utopia. Qui siamo al Pagliarelli, ci viene detto, come se questo penitenziario non fosse sul suolo italiano”. Per tutti questi motivi, i 310 firmatari, chiedono un’ispezione che potrebbe servire a capire se al Pagliarelli ci sia una “lesione dei diritti umani. Aiutateci a essere trattati come persone umane”. Con una grafia diversa, alla fine, qualcuno ha aggiunto che nei bagni manca il ricambio d’aria, le ventole per l’aspirazione sono rotte, e “i cattivi odori rimangono”. Reggio Calabria. Il pestaggio raccontato dai detenuti: “Chiedeva aiuto, pensava di essere ucciso” di Elisa Barresi ilreggino.it, 3 dicembre 2022 Le intercettazioni e le testimonianze raccontano le ore ti aggressione da parte di un gruppo di agenti penitenziari nei confronti di un detenuto campano. “Durante le fasi concitate dell’accompagnamento coattivo del detenuto Alessio Peluso, si notano alcuni detenuti che dall’interno delle camere di pernottamento sbattono utensili contro le porte in ferro fino anche a gettare oggetti nel corridoio”. È così che i detenuti del carcere San Pietro di Reggio Calabria avrebbero, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti grazie alle telecamere di sorveglianza, manifestato il loro disappunto sul trattamento riservato il 22 gennaio del 2022 al detenuto napoletano. Quanto accaduto ha portato all’operazione diretta dal Procuratore Giovanni Bombardieri, che ha dato esecuzione a una ordinanza di applicazione di misure cautelari, disposta dal Gip del Tribunale reggino, a carico di 8 appartenenti alla Polizia penitenziaria in servizio alla Casa circondariale “G. Panzera” di Reggio Calabria. In particolare, per sei di essi è stata applicata la misura cautelare degli arresti domiciliari, mentre per gli altri due la misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio. Le testimonianze - Dopo la violenza riservatagli durante tutto il tragitto in corridoio, le torture sarebbero avvenute dentro la cella di isolamento. Ma a confermare la versione denunciata dal detenuto, oltre alle telecamere, sono stati gli altri detenuti: “Abbiamo sentito arrivare sette, otto guardie, nove, di preciso non lo so, con caschi… e con i manganelli. E sono andati davanti al passeggio dove c’è il campo loro cercandolo, che stavano due detenuti fori”. Specificando sia di essere a conoscenza della protesta attuata da Peluso sia di aver notato che il detenuto “viene trascinato e picchiato, tanto che hanno iniziato a gridare e a sbattere oggetti metallici sulle celle …” noi abbiamo gridato… gridavano i detenuti e abbiamo battuto alle celle per attirare i ‘attenzione”. Le versioni coincidenti - I racconti sono tanti e in più passaggi viene ripetuto come Alessio Peluso per ore sarebbe stato torturato: “A quell’Alessio - si legge nelle carte relativamente alla testimonianza di un detenuto - l’hanno picchiato per 6-7 ore all’isolamento. Ci chiamava a noi da sopra le finestre… “ragazzi mi stanno uccidendo, chiamate l’avvocato, mi stanno uccidendo... Ma uno che ci può fare, non ci può fare niente. Contro a questi perdi sempre. Perché poi sono 40 - 50 guardie pieni di manganelli, pieni di caschi, come ti difendi?”. E i detenuti raccontano gli attimi di terrore, la paura per le sorti dell’uomo: “L’hanno schiacciato a quel ragazzo, quello veramente l’hanno schiacciato”. Dai racconti emerge come uno dei detenuti preoccupato dalle urla avrebbe anche chiesto un confronto: “Appuntato chiamami il comandante e fallo venire sotto le telecamere, io devo avere notizie del mio paesano, non è corretto ciò che avete fatto siete venuti in 20 a prendere una sola persona e questo non è corretto”. La preoccupazione degli agenti - Ma a commentare telefonicamente quanto accaduto sono anche altri agenti: “Ma non lo so se la colpa sono variegate è che purtroppo poi perdi il controllo perché nessuno è capace di infilarsi nel mezzo e mi dice ehi che state facendo? Non vi permettete, portiamolo tranquillamente… Perché ne bastava uno per dire non vi permettete, che il detenuto un attimino si… ehm… si tranquillizzava”. In più passaggi delle intercettazioni riportate dagli inquirenti si nota la preoccupazione degli agenti su quanto le telecamere avessero potuto inquadrare e riprendere.  Milano. Nasce il primo Osservatorio italiano sul diritto allo studio in carcere vita.it, 3 dicembre 2022 L’Università degli Studi di Milano ha costituito l’Osservatorio sul diritto allo studio delle persone ristrette, per coinvolgere in maniera sempre più attiva gli studenti detenuti. Gli oltre 150 studenti ristretti attualmente iscritti rendono l’Ateneo milanese il Polo Universitario Penitenziario più grande d’Italia. L’Università degli Studi di Milano ha costituito il primo Osservatorio italiano sul diritto allo studio in carcere, nato principalmente per garantire il coinvolgimento attivo degli studenti detenuti, attraverso l’ascolto delle loro voci in merito a difficoltà, proposte ed esigenze specifiche legate anche ai diversi istituti detentivi o circuiti di appartenenza. La prima riunione di questo nuovo organo si è svolta pochi giorni fa presso la Statale di Milano, mentre le prossime sedute avverranno ogni due/tre mesi e potranno svolgersi anche negli istituti penitenziari che sono sedi del progetto. L’Osservatorio svolge una triplice funzione: di rappresentanza degli studenti ristretti, di monitoraggio periodico delle loro condizioni di studio e, infine, di ricerca, con riferimento all’impatto degli interventi formativi in carcere in termini di qualità della vita detentiva, di tutela e di ripristino di diritti, oltre che di estensione delle possibilità di reinserimento sociale. Le attività dell’Osservatorio includono principalmente l’istituzione di tavoli di lavoro su diverse tematiche (borse di studio, spazi, strumentazione informatica, connessione, tirocini, studenti in regimi detentivi speciali), il mantenimento del dialogo con le figure istituzionali di riferimento (Garante, Regione, Comune, Prap, Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) e l’elaborazione di rapporti semestrali. L’Osservatorio si avvale dell’accordo di collaborazione pluriennale con il Prap - Provveditorato regionale amministrativo penitenziari della Regione Lombardia e del dialogo interistituzionale con gli organi che monitorano la situazione carceraria presso il Comune di Milano e la Regione Lombardia. Ne fanno infatti parte, tra gli altri, oltre alla Statale di Milano, il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, il Comune di Milano, la Regione Lombardia, il Garante comunale delle persone private della libertà personale, i rappresentanti del corpo studentesco e di quello docente e una rappresentanza dei tutor universitari attivi nelle carceri sede del PUP e degli studenti ristretti. “Si tratta di un altro importante tassello che l’Università degli Studi di Milano aggiunge alle diverse attività volte all’implementazione del diritto allo studio. Siamo il primo Ateneo d’Italia ad attivare un organo specificatamente dedicato al diritto allo studio degli studenti ristretti. Ringraziamo le istituzioni che insieme a noi daranno vita a questo importante progetto, che avrà l’ambizioso compito di monitorare, approfondire e affrontare tutte le importanti e molteplici problematiche che gli studenti detenuti che affrontano un percorso di studi universitario incontrano”, spiega Marina Brambilla, Prorettore delegato ai servizi per la didattica e agli studenti dell’Università degli Studi di Milano. L’Università Statale di Milano, con tutti i suoi Dipartimenti coinvolti, i 34 corsi universitari frequentati e gli oltre 150 studenti ristretti iscritti, che costituiscono oltre il 15% del totale nazionale, è il primo Ateneo italiano per numero di studenti ristretti iscritti ai propri corsi. Gli istituti penitenziari coinvolti sono di Milano- Opera, Milano-Bollate, Milano S. Vittore, Pavia e, più recentemente, Vigevano, Voghera, Lodi e Monza. Il progetto della Statale di Milano è reso possibile grazie alla presenza di 123 tutor attivi presso i diversi istituti penitenziari. Il loro ruolo risulta fondamentale nella traduzione pratica del diritto allo studio, poiché ovvia alla maggior parte delle limitazioni che caratterizzano la condizione detentiva: supportano infatti gli studenti ristretti in ogni fase del loro percorso accademico, aiutandoli nella costruzione di un metodo di studio efficace, affiancandoli nella preparazione degli esami e occupandosi della gestione dei materiali didattici tra carcere e Biblioteche di Ateneo. Trani (Bat). Luci sulla Casa di reclusione femminile di Antonella Barone gnewsonline.it, 3 dicembre 2022 Nei 4 istituti penitenziari femminili - Pozzuoli, Roma Rebibbia (il più grande d’Europa), Trani e Venezia Giudecca - si trova circa il 25% delle detenute. Le altre sono ospitate nelle 48 sezioni dedicate nelle carceri maschili. Anche se la riforma dell’ordinamento penitenziario, entrata in vigore nell’ottobre del 2018, prevede che le detenute in apposite sezioni all’interno di istituti maschili debbano essere in “numero tale da non compromettere le attività trattamentali”, vi sono ancora tanti Istituti pensati e organizzati per uomini e, alle poche donne presenti sono destinate attività più limitate. Ma se le criticità delle sezioni femminili sono note, com’è la vita nelle carceri femminili? E’ davvero più facile offrire opportunità risocializzanti alle detenute? Giuseppe Altomare, direttore della casa di reclusione femminile di Trani, ci racconta l’esperienza nel suo istituto. Sono più le luci che le ombre alla casa di reclusione femminile di Trani. Può sembrare un luogo comune, ma in effetti non lo è, considerate tutte le volte che ti viene voglia di mollare, quando risolto un problema, ne saltano fuori altri dieci e così via. Ma il carcere femminile di Trani è un luogo che ha in sé elementi di magia. Il luogo, appunto, per cominciare. Un antico monastero benedettino, poi domenicano, carcere dal 1860, situato nel pieno centro della splendida città di Trani, a due passi dal mare. Poi ci sono le persone: il personale di Polizia penitenziaria, quasi tutto femminile; le suore, tre suore di grande esperienza, che vivono l’Istituto da quando avevano 18 anni, le sole rimaste del gruppo religioso iniziale che contava 15 unità. Hanno sempre lavorato insieme, fianco a fianco, poliziotte e suore, senza alcuna retorica, in un rapporto franco e corretto. Infine, ma non per ultime, ci sono le donne detenute, con particolare riferimento a quelle condannate con sentenza definitiva, che mostrano, spesso, un’autentica disponibilità a rivedere il proprio passato e i propri errori. Pochi (qualcuno dirà per fortuna) i riferimenti maschili: il cappellano, il direttore, qualche poliziotto, qualche insegnante, qualche medico. Con questi presupposti è possibile avviare attività trattamentali interessanti. Si parte dal lavoro in sartoria, dalla scuola, dai corsi di formazione professionale (in particolare trucco e parrucchiere), per arrivare ad attività teatrali, attività ludico-motorie, fino ad incontri di gruppo di psicoterapia con specialisti della ASL BT, a incontri sulla Divina Commedia con volontari illuminati e adeguatamente comunicativi, e così via. Il posto è, evidentemente, attrattivo anche per la società esterna. La struttura è vetusta, non mancano certo i problemi di manutenzione. Ma le donne pranzano tutte assieme in una sala comune, i momenti di raccoglimento nella antica chiesetta interna trasudano una spiritualità autentica. Si può guardare la persona piuttosto che la pena. Almeno qui si può fare. Verona. “Alfresco”, nel carcere la trasformazione alimentare occasione di inserimento lavorativo veronasera.it, 3 dicembre 2022 Un progetto di percorsi formativi e di inserimento lavorativo della Cooperativa Sociale Panta Rei all’interno della casa circondariale di Verona: ”Il lavoro e? un diritto e rappresenta, se fatto bene, una vera educazione alla legalità”. Nella giornata di oggi, sabato 3 dicembre intorno a mezzogiorno, presso la casa circondariale di Verona, verrà presentato il progetto “Alfresco - Il fuori dentro”, che intende fornire nuove opportunità lavorative e di reinserimento sociale ai detenuti ed alle detenute dell’istituto. Il progetto e? stato realizzato dalla cooperativa sociale Panta Rei, grazie all’impegno della sua presidente, la dott.ssa Elena Brigo, e di tutti i soci della cooperativa. Il progetto, secondo quanto viene spiegato in una nota, e? nato grazie alla collaborazione della direzione della casa circondariale di Verona, la cooperativa Panta Rei, la Fondazione San Zeno e la Fondazione Esodo e prevede l’attivazione di due laboratori: uno nella sezione maschile ed uno in quella femminile, per la realizzazione di prodotti da immettere sul mercato. La Cooperativa, che si dedica da oltre vent’anni all’inserimento lavorativo di persone con patologie psichiatriche, ha colto la sfida di mettere a servizio le proprie esperienze e le proprie competenze in un settore, nuovo ma per certi versi affine a quello all’interno del quale ha sempre operato. “Da qualche anno presso la nostra cooperativa, con i nostri pazienti abbiamo iniziato a produrre “Gli Invasa?”, marmellate e confetture realizzate utilizzando come materie prime le eccedenze alimentari, frutta e verdura buone ma destinate a diventare scarto che, - spiega Elena Brigo, presidente della cooperativa Panta Rei - grazie al lavoro e all’impegno di persone che rischiano di restare ai margini e stigmatizzate, sono diventati prodotti sani, buoni e belli che siamo riusciti a fare arrivare su molte tavole. Abbiamo pensato che la casa circondariale, grazie a questo laboratorio, fosse un modo per proseguire a allargare questo nostro intento di dare una seconda opportunità alla frutta e alla verdura, sicuramente, ma anche e soprattutto alle persone. Il tema del carcere e l’attenzione per la sofferenza delle donne detenute - conclude Elena Brigo - ci fa pensare che questo sia un progetto su cui possiamo spenderci e per il quale contiamo di avere dei risultati concreti”. Nasce da qui dunque il primo progetto presso il reparto femminile: “Imbandita - La tavola del riscatto”, e? un moderno laboratorio di trasformazione alimentare che, utilizzando principalmente eccedenze alimentari, produrrà marmellate, confetture e conserve da vendere e distribuire sul territorio. Il laboratorio sarà in grado di offrire una possibilità ogni anno a circa 15 detenute. Il secondo progetto si chiama invece “Pasta d’Uomo - Mai stati così buoni”, ed e? realizzato nella sezione maschile dove e? presente un forno per la realizzazione di pane e lievitati dolci. Il nuovo laboratorio e? stato avviato in ottobre ed ha gia? realizzato dolci di Natale e panettoni. L’obiettivo non e? solo creare dei laboratori formativi o possibilità di tirocinio estemporanee, ma di proporre e implementare occasioni di lavoro per favorire il reinserimento dei detenuti nel consorzio sociale e rendere più fluido l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. In questo solco si colloca infatti la convenzione sottoscritta tra la direzione della casa circondariale e la cooperativa Panta Rei. “Tutto questo - afferma la direttrice Mariagrazia Bregoli - ci permetterà di mettere in luce non solo le criticità, ma di evidenziare gli sforzi tesi al recupero e all’integrazione dei detenuti, valorizzando le specificità dell’istituto di Verona, l’attività degli operatori penitenziari e i legami con il territorio”. La presidente della cooperativa Panta Rei Elena Brigo in conclusione aggiunge: “Il lavoro e? un diritto e rappresenta, se fatto bene, una vera educazione alla legalità. E ogni panettone venduto, ogni vasetto di marmellata acquistata rappresenta per noi non solo un elemento di sostenibilità per proseguire il progetto, ma un modo per creare comunità inclusive e per abbattere gli stigmi”. Cremona. Corso di caffetteria al carcere con Renata Zanon di Nadia Rossi bargiornale.it, 3 dicembre 2022 Erano previsti 12 corsisti ed invece se ne sono presentati 19 alla tre giorni di formazione sulla caffetteria tenuti dalla coffee expert Renata Zanon all’interno della Casa Circondariale di Cremona. Il lavoro ha un ruolo importante per i detenuti: li aiuta a crescere, ad acquisire nuove capacità, ad aumentare la propria autostima e ad aprirsi a nuove sfide e prospettive professionali, abbassando la possibilità di recidiva. Entusiasta e coinvolgente, Renata non è nuova a queste esperienze che la stupiscono sempre per la grande attenzione, l’interesse e la voglia di apprendere da parte dei corsisti che, anche in questo caso, se in un primo tempo si sono mostrati un po’ timidi, soprattutto nella parte pratica, successivamente si sono dimostrati appassionati e hanno messo grande impegno in tutte le fasi. Conoscere il prodotto, saperlo trasformare al meglio utilizzando correttamente le attrezzature: i detenuti hanno realizzato numerosi espressi e cappuccini con la macchina espresso Mininova di Wega (l’azienda tre anni fa ha partecipato anche al progetto Ri-genera presso il carcere di Bollate), pratica grazie alla cassetta dell’acqua che non richiede l’allacciamento alla rete idrica, che ha offerto buone prestazioni durante tutto il corso. L’iniziativa è stata voluta dalla direttrice del carcere, Rossella Padula, che crede in un modello di carcere “aperto” e in dialogo con il territorio. “Avevo già fatto esperienze simili - racconta Renata Zanon - e ho accettato di buon grado. Il primo giorno mi sono soffermata sulla teoria del caffè, nel secondo e nel terzo siamo passati alla pratica, realizzando espressi e cappuccini. Ho anche spiegato come preparare bene la moka e molti sono stati contenti di potere mettere subito in pratica quanto appreso: un buon modo per condividere anche con i compagni di cella e instaurare un rapporto formativo e di riflessione. Il secondo giorno ho chiesto loro di scrivere cosa pensassero di questa iniziativa: sono uscita e ho raccolto i fogli con le loro testimonianze. Mi hanno colpita per la bellezza, la gratitudine e la contentezza che esprimevano”. Di seguito il rapido scritto di un detenuto: “Il corso è stato davvero bello. Ho scoperto cose nuove sul caffè che prima non sapevo. È proprio vero che non si finisce mai di imparare! Renata ci ha dato molti spunti e ha risvegliato la nostra curiosità. Sono molto contento di questa esperienza, magari in futuro avrò l’occasione di approfondire meglio questo settore, perché no?”. Renata conclude con una riflessione e un appello: “Queste sono esperienze che arricchiscono tutti. In questi contesti c’è molto bisogno di professionisti che si prestino a formare i detenuti che cercano riscatto nella società. Comprendo che la fiducia sia una questione molto delicata, ma sono convinta che tutti meritino una seconda possibilità e queste sono occasioni uniche per dimostrare l’affidabilità e la consapevolezza che queste persone hanno maturato dopo un percorso di reclusione”.  Brescia. Due detenute mediatrici culturali per un mese di Francesca Robertiello La Repubblica, 3 dicembre 2022 Aiuteranno il pubblico a capire la mostra della dissidente russa Victoria Lomasko. Il progetto di riabilitazione sarà anche un’occasione per sfatare alcuni pregiudizi sulla detenzione. Mediatrici culturali per un mese. Così 2 detenute della Casa di Reclusione di Verziano (Brescia) fino all’8 gennaio, ogni giorno dalle 14 alle 18, rivestiranno questo ruolo rilevante all’interno del Museo di Santa Giulia a Brescia. In particolare, dovranno aiutare il pubblico a comprendere meglio i contenuti e le ragioni della mostra ‘Victoria Lomasko. The Last Soviet Artist’, inaugurata lo scorso 11 novembre e che rappresenta il terzo appuntamento di ricerca curato da Elettra Stamboulis, dopo la mostra del 2019 di Zehra Dogan ‘Avremo anche giorni migliori. Opere dalle carceri turche’, seguita nel 2021 dalla personale di Badiucao ‘La Cina è vicina. Opere di un artista dissidente’. E proprio all’esposizione della Lomasko e ai significati delle sue opere si sono ispirati Fondazione Brescia Musei, Casa di Reclusione di Verziano, in collaborazione con ACT Associazione Carcere e Territorio O.d.V. - E.T.S., per ideare questo progetto nominato ‘Viktoria Lomasko. Lezioni di libertà’. Lomasko, che da marzo 2022 vive in Europa, è considerata dalla critica e dalla stampa anglosassone come la più importante artista sociale grafica russa, anche se è sostanzialmente ancora sconosciuta al pubblico italiano. “La ricerca artistica di Lomasko consente di ricostruire in modo minuzioso la storia sociale e politica della Russia dal 2011 a oggi - spiegano dalla Fondazione Brescia Musei - Abbiamo scelto opere che raccontano le manifestazioni di piazza anti Putin, disegnate dal vivo con un tratto originale e immediatamente riconoscibile, così come le rappresentazioni della ‘profonda Russia’, quella dei dimenticati, che costituisce un serbatoio per i suoi soggetti preferiti”. Tra le opere esposte c’è anche il reportage grafico ‘Lezioni di disegno nel carcere minorile’, “realizzato nel 2010 quando l’artista, in qualità di volontaria, tenne un corso di disegno nel carcere penitenziario per minori di Mojaisk”, aggiungono gli organizzatori del progetto. Il coinvolgimento delle 2 detenute, inoltre, sarà un’occasione di riflessione e azione per far emergere la propria personale visione del rapporto tra società e individuo, contribuendo al loro percorso di riabilitazione fortemente voluto dalla Casa di Reclusione Verziano. “In particolare il progetto si svilupperà in due momenti - sottolineano gli ideatori - In primo luogo le 2 detenute verranno formate sui contenuti della mostra, attraverso un incontro a cura dei Servizi Educativi di Fondazione Brescia Musei e della curatrice della mostra Elettra Stamboulis; a seguire verrà proposto un momento di approfondimento, realizzato direttamente presso la Casa di Reclusione, che prevede una visita virtuale della mostra e un laboratorio per elaborare pensieri, idee ed emozioni”. E la collaborazione tra le parti non è nuova, ma risale al 2017: “Fondazione Brescia Musei si distingue nel panorama degli enti di gestione museale per una precisa missione nei confronti dello sviluppo di un modello culturale inclusivo e partecipativo nei confronti della comunità - racconta Francesca Bazoli, presidente di Fondazione Brescia Musei - Questo significa incoraggiare la realizzazione di attività culturali e simboliche nei nostri musei a opera dei cittadini e delle aziende del terzo settore nelle forme più varie, ma anche nelle occasioni come questa ove cause di forza maggiore impediscano la frequentazione fisica della nostra piattaforma culturale”. Insomma, ‘Lezioni di libertà’ sarà un’esperienza concreta e di spessore culturale al servizio del recupero alla piena socialità di tutti i cittadini. “La cultura è un valore e un sistema che deve dialogare con gli individui e con la società per offrire nuove prospettive, nuove occasioni - racconta Laura Castelletti, vicesindaca e assessora alla Cultura del Comune di Brescia - Il progetto, pur nel suo piccolo, è in verità una grande affermazione di quanto e come la cultura possa prendersi cura delle persone, abbattere muri, edificare nuovi percorsi”. L’esperienza di mediatrici culturali sarà poi un’occasione per sfatare alcuni pregiudizi sulla detenzione: “Le 2 ragazze infatti, verranno dotate del badge di Fondazione Brescia Musei e verranno indicate al pubblico come ‘volontarie’ - sottolineano dalla Fondazione Brescia Musei - Saranno loro a decidere se condividere il proprio vissuto detentivo con i visitatori o meno”. Infatti “ogni volta in cui contribuiamo a rendere il carcere un luogo di crescita culturale stiamo sconfiggendo l’idea che possa, invece, essere solo una ‘discarica sociale’ dove le relazioni umane deperiscono e i diritti si affievoliscono - spiega Carlo Alberto Romano, presidente dell’associazione Carcere e Territorio ODV - Alcune esperienze pregresse hanno dimostrato l’alto valore educativo delle attività culturali che sviluppano consapevolezza di sé, ricostruiscono l’autostima e responsabilizzano le persone. Attraverso queste attività, la detenzione può trasformarsi in un percorso di effettivo recupero di donne e uomini che hanno commesso un reato, favorendone il reinserimento nella società e diminuendo il rischio di recidiva”. “Eppure - aggiunge - nonostante questa condivisa consapevolezza, non sono moltissime le proposte che offrono occasioni di riscatto ai detenuti e alle detenute, al fine di favorire processi di cambiamento e recupero sociale. Speriamo, quindi, che questa iniziativa possa essere uno spunto per altre realtà simili”. Chieti. Detenuti a scuola di pizza, si conclude il progetto di Academy ForMe chietitoday.it, 3 dicembre 2022 È previsto lunedì prossimo, 5 dicembre, alle ore 18, l’esame finale del progetto detenuti a scuola di pizza proposto da Academy ForMe e carcere di Chieti. Lo scopo era quello di favorire, attraverso la formazione, la crescita delle competenze dei detenuti e dare loro un futuro in termini di opportunità occupazionali. All’iniziativa hanno partecipato 11 detenuti che hanno potuto frequentare il corso per pizzaiolo. Nella sede di Academy ForMe, al primo piano del centro commerciale “Centauro”, in via Filippo Masci, a Chieti, si terrà l’esame finale che permetteà ai detenuti di ottenere la qualificazione professionale di pizzaiolo valida ai sensi del decreto legislastivo 13/13. All’iniziativa saranno presenti le istituzioni di riferimento e le autorità civili, militari e religiose. Il progetto, voluto dalla casa circondariale, è stato organizzato e gestito da ForMe, che ha erogato il corso, riconosciuto dalla Regione Abruzzo. Il tutto con il coinvolgimento dei partner che hanno contribuito alla realizzazione delle attività: Confartigianato Imprese Chieti L’Aquila, Caritas Diocesana di Chieti, Sacar srl e Triveri srl. Torino. Il Natale con mio papà detenuto. La Festa nel carcere di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 3 dicembre 2022 Caritas e operatori carcerari. Grazie alla mobilitazione dei volontari e la disponibilità di educatori e agenti si è organizzata una festa natalizia per 50 figli dei reclusi: un raro momento di famiglia dietro le sbarre. L’inizio dell’Avvento, tra vetrine scintillanti e spot pubblicitari in Tv con famiglie felici che sbocconcellano panettoni sotto l’albero e bambini che scartano pacchi dono, per i figli con mamma o papà in carcere è uno dei periodi più mesti dell’anno. “Le famiglie con un congiunto dietro le sbarre vivono ‘fuori’, ma è come se fossero recluse: se sei un bambino poi, come fai a non pensare al tuo papà in cella quando a scuola si preparano le letterine di Natale da consegnare ai genitori? E che dire delle festività natalizie per i minori fino a 6 anni che vivono con le mamme detenute all’Icam (gli Istituti a custodia attenuata come quello all’interno del penitenziario torinese, ndr)?”, riflette Wally Falchi, responsabile del Centro di ascolto “Le due Tuniche” della Caritas diocesana. Così, quando è stata comunicata al carcere la disponibilità di un volontario “Babbo Natale” per una festicciola giovedì 17 novembre, con i figli dei detenuti si è subito accettato. Grazie al coordinamento di Arianna Balma Tivola, responsabile dell’Area trattamentale della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno”, in una settimana si è messa in piedi la festa di Natale - coincisa con l’inizio dell’Avvento - per 50 piccoli e adolescenti da 3 ai 17 anni figli di detenuti tra cui le mamme con i bimbi dell’Icam. Per chi non ha famigliarità con i tempi del carcere è difficile rendersi conto di come sia complicato, per motivi di sicurezza, preparare in poco tempo un’iniziativa con personale esterno: occorre procurare i permessi per i volontari e i parenti (alla festa sono stati invitati, oltre i figli, i congiunti dei detenuti tra cui alcuni nonni), controllare tutto il materiale che varca i cancelli, chiedere agli agenti penitenziari la disponibilità di garantire la vigilanza nel teatro dove si è allestito il ritrovo. Ai regali per i figli dei reclusi e al rinfresco ci ha pensato il Centro d’ascolto Caritas che in due giorni, grazie al tam tam nelle parrocchie, ha raccolto presso la sede di corso Mortara 46, un camion di materiale consegnato mercoledì 16 alle Vallette. “Il Banco Alimentare e l’associazione Terza Settimana ci hanno donato panettoni, cioccolatini, caramelle, pop corn, dolci e bibite; amici e volontari ci hanno portato giochi, peluches, pennarelli, album da colorare che sono stati impacchettati - dopo i dovuti controlli - dagli educatori della cooperativa “Il Margine”, prosegue Wally. La Caritas diocesana opera al “Lorusso e Cutugno” con un servizio di ascolto interno che segue, tra l’altro, le attività di inserimento dei detenuti nel volontariato e nella formazione professionale e con la gestione di un alloggio, “Casa Silvana”, a disposizione dei ristretti in permesso premio e dei loro parenti che non possono permettersi un soggiorno alberghiero. “La catena di solidarietà che si è creata in due giorni ci ha sorpresi, come la gioia incontenibile dei bambini a cui Babbo Natale ha consegnato un dono, le lacrime dei papà con in braccio i figli e per mano le mogli in un clima disteso, molto diverso dai colloqui dove il tempo è contingentato e non puoi esprimerti liberamente. ‘Guarda papà’ ci sono le caramelle gommose e i pop corn! Posso portarmene un po’ a casa?’ chiedeva una bimba… e i poi canti natalizi, i giochi insieme ai genitori e le fotografie scattate ad ogni famiglia dal fotografo di Babbo Natale che ha ottenuto il permesso dal carcere di donarle ad ogni famiglia” racconta Wally. Un raro momento di normalità in un luogo che non sembrava una galera, dove i figli dei detenuti per qualche ora si sono dimenticati di avere un papà o una mamma dietro le sbarre, ma erano semplicemente ‘figli’. “Si è vissuto il clima delle feste di Natale nei nostri oratori, dove gli agenti - anche loro genitori - giocavano con i bambini e chiacchieravano con i detenuti” conclude Wally Falchi. “Basta poco per rendere il carcere più umano: un luogo di pena certo, ma dove non smetti di essere padre o madre”. Gesti semplici, in linea con l’art. 27 della Costituzione che raccomanda che il tempo trascorso nei penitenziari “rieduchi il condannato” anche ad essere genitore. Chieti. Di Meco: “La mia vita in panchina con i detenuti della Libertas Stanazzo” di Orlando D’angelo chietitoday.it, 3 dicembre 2022 La storia: il 71enne allenatore da cinque anni guida la squadra di calcio a cinque composta dai ragazzi della Casa circondariale di Lanciano: “Esperienza straordinaria”. Vittorio Di Meco, una vita in panchina, da cinque anni è l’allenatore della Libertas Stanazzo, la formazione di calcio a cinque militante nel campionato provinciale di serie D, composta dai ragazzi detenuti nella casa circondariale di Lanciano. Il 71enne Di Meco, personaggio poliedrico anche fuori dallo sport (è scrittore di ben venti i libri da lui pubblicati e un ruolo di collaboratore nella casa editrice Nuova Gutemberg, attore di teatro e cantante), in grado di reagire e rialzarsi ogni volta che la vita ha provato a metterlo ko. Come nel 2005, quando ha perso un figlio appena 17enne, o poco tempo fa, quando a causa del Covid, è scomparsa anche l’altrettanto amata moglie. “Non è facile, ma la vita deve andare avanti. Nel ricordo di chi non c’è più ma anche a favore di chi, quotidianamente, riempie le mie giornate”. Evidente il riferimento ai ragazzi della Libertas Stanazzo, conosciuti per puro caso, non molto tempo fa. “Nel 2017 - svela lo stesso Vittorio Di Meco, parlando sul sito ufficiale della LND Abruzzo - a seguito di una delle tante iniziative benefiche portate avanti dagli “Amici di Marcello” (l’associazione di volontariato dedicata al figlio scomparso, ndr), organizzammo una raccolta fondi per l’acquisto di alcuni defibrillatori da donare ad altrettanti Comuni della zona, e uno di questi fu consegnato anche alla Casa Circondariale di Villa Stanazzo. Una realtà che, al pari di tanta altra gente, conoscevo solo dall’esterno. Ebbene, in quella particolare occasione, essendo a conoscenza dei miei trascorsi da allenatore ed essendo già presente all’interno dell’istituto una squadra di calcio a cinque, mi fu chiesto se me la sentivo di allenare questi ragazzi, dato che il mister di allora, Pio Fiore Di Vincenzo, in procinto di andar via Senza pensarci su diedi subito mia disponibilità e fu così che, quando a distanza di qualche settimana venni ricontattato, prese il via questa nuova esperienza, che non esito a definire straordinaria. Soprattutto dal punto di vista umano”. Si spieghi meglio... “Cominciamo col dire che l’opportunità di conoscere dall’interno certe dinamiche mi ha fatto capire quanto distorta fosse l’immagine che ne avevo prima. Una sorta di puzza sotto il naso, la mia, scomparsa nell’esatto momento in cui, varcato il cancello d’ingresso, sono venuto a contatto con un’umanità tanto variegata quanto disponibile. Fatta di gente che avrà certamente sbagliato nella vita ma che, oltre a pagare sulla propria pelle gli errori commessi, rivela una sensibilità di gran lunga superiore a chi sta fuori”. Facile immaginare come, in questi anni, siano nati anche dei rapporti di amicizia con questi calciatori così particolari: “Sicuramente, anche se non è una cosa facile. E non tanto per mancanza di volontà reciproca, quanto per difficoltà oggettive, legate ad una fisiologica rotazione dei ragazzi, tra chi va via avendo scontato la propria pena e chi, invece, viene più semplicemente destinato altrove”. Qualche eccezione ci sarà pure stata… “Ne cito una, di un ragazzo che mi sta particolarmente a cuore. Un ex detenuto che dopo aver trascorso sette anni in istituto, aveva deciso di stabilirsi, con la sua fidanzata, a Lanciano, avendo persino trovato occupazione in un’azienda locale. Il problema però era che, essendo sprovvisto di patente, aveva difficoltà negli spostamenti, visto che d’inverno muoversi con la bici non era certo l’ideale. Un problema che rischiava però di fargli perdere il lavoro e così, dato che eravamo rimasti in contato anche dopo la comune esperienza calcistica, mi sono offerto, per alcuni mesi e in attesa di una soluzione alternativa, di accompagnarlo e andare a riprenderlo nel tragitto tra l’azienda e la sua casa”. É vero che per molti di questi ragazzi lei rappresenta una sorta di secondo padre? “Mi piace pensare che sia così e per uno con la mia storia, creare un certo tipo di rapporti con loro è davvero gratificante. Tanto che da questa esperienza è nato anche un libro “La libertà in un pallone”, al momento circoscritto all’interno dello stesso istituto ma chissà che un giorno non possa essere dato alle stampe…”. La sua settimana tipo sulla panchina della Libertas Stanazzo? “Semplicissima: la squadra sostiene abitualmente due sedute di allenamento ogni martedì e giovedì pomeriggio, propedeutiche alle successive partite del sabato”. Che per ragioni facilmente intuibili si svolgono sempre e solo nel campetto in cemento presente all’interno della struttura penitenziaria. “Per forza di cose, e a tal proposito” - prosegue Di Meco - “ci tengo a ringraziare di cuore tutte le altre squadre, che pur di far praticare questa attività ai nostri ragazzi (la cui età va dai 18 ai 40 anni, ndr) si sottopongono all’inevitabile serie di adempimenti burocratici, ogni qual volta vengono a giocare qui da noi. Altri ringraziamenti doverosi vanno poi al dottor Campitelli, l’educatore addetto alle attività interne dell’epoca dal quale è nato il tutto, così come a coloro che nel corso dei vari anni si sono succeduti alla direzione della struttura dando continuità al progetto. E non vanno poi dimenticati gli agenti di custodia, alcuni dei quali danno una mano alla buona riuscita degli eventi, trattenendosi spesso e volentieri oltre il loro orario di lavoro, così come lo stesso comitato regionale della Figc Abruzzo, che tanto si è speso a favore della suddetta iniziativa”. Tornando a Di Meco, quali sono i vostri obiettivi per la stagione in corso? “Dopo un inizio un po’ in sordina, nel corso degli ultimi anni siamo riusciti a creare una squadra competitiva, capace di sfiorare in due occasioni la promozione in C2 e mai piazzatasi, comunque, al di sotto del terzo posto. Intendiamo quindi quanto meno ripeterci e le premesse per farlo ci sono tutte, dato che, rispetto al passato, pur avendo meno individualità di spicco, posso fare affidamento su un organico sì più livellato, ma ampio e meglio assortito. Anche se a dire il vero - confessa in chiusura mister Di Meco - l’obiettivo a cui teniamo di più è la Coppa Disciplina. Peraltro già conquistata in due occasioni (negli ultimi sei anni, ndr) e che, a conti fatta, oltre ad essere il vero fiore all’occhiello di questa squadra, rappresenta a tutti gli effetti una sorta di riscatto morale dei suoi componenti”. Nel frattempo, i suoi ragazzi hanno iniziato nel migliore dei modi la stagione, collezionando sei punti nelle prime due giornate di campionato (14 gol fatti, 3 subiti) frutto dei successi conquistati a spese di Sant’Eusanio e Scerni, mentre è stata rinviata la gara col Real Archi, in programma nel terzo turno. Bologna. Teatro-carcere: Shakespeare, dal perdono nasce il pentimento di Serena Carbone Il Manifesto, 3 dicembre 2022 Il “Quando ti troverai di fronte a un dirupo, avrai solo la paura come compagna. Hai poco tempo per scegliere che fare, se precipitare o provare a volare”. Così dice la madre - che veste i panni di Prospero - alla figlia Miranda nella rivisitazione tutta al femminile della Tempesta di Shakespeare, Come Pioggia dal Cielo, andata in scena alla Casa Circondariale “Rocco D’Amato” di Bologna. Lo spettacolo - organizzato dal Teatro del Pratello e diretto da Paolo Billi - è il nuovo lavoro de Le Sibilline, la compagnia formata dalle detenute attrici della sezione femminile del carcere. A proposito della scrittura del testo, il regista, si premura di raccontare all’esigua ma attenta platea fatta di agenti, studenti, docenti e altri detenuti che abbiano avuto l’autorizzazione all’ingresso, la storia della sua genesi: essa è iniziata attraverso uno scambio epistolare tra lui e le detenute proprio durante la pandemia - che ha impedito per lungo tempo l’accesso alle carceri delle persone comuni - e si è poi protratta per due anni fino ad arrivare alla messa in scena finale all’interno della sala cinema della Casa Circondariale. La drammaturgia è stata firmata da Billi stesso insieme a Filippo Milani. Un testo, dunque, che è stato elaborato e rivisitato dalle attrici, che hanno fatto di una vendetta originaria il movente per parlare del perdono come di una forza generatrice di libertà. “Non potete immaginare cosa può passare dentro la mente umana, pensi di farla finita perché l’odio e la vendetta ti logorano dentro. Sono rinata dalle mie ceneri ed ora sono pronta”. Tanto musicali quanto impietose risuonano le battute nello spazio buio e “ristretto” della sala, dove le attrici non recitano sul palcoscenico ma dentro un perimetro delimitato dagli spettatori stessi Non è la prima esperienza del Teatro Del Pratello in carcere. Il progetto è longevo, è iniziato infatti nel 2008 coinvolgendo in attività e spettacoli, presentati anche in alcuni teatri della città, i detenuti del minorile ma anche diverse sezioni maschili della Dozza di Bologna ed è continuato, dal 2016, in quest’ultima sede con la sezione femminile. La continuità e la costanza hanno giocato un ruolo fondamentale negli anni. Le attività in carcere portate avanti dal Teatro del Pratello non sono isolate, ma si inseriscono nel più ampio progetto del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, associazione che riunisce tutte le realtà che in regione operano con progetti di teatro in carcere. E proprio questa associazione ha organizzato il Festival Trasparenze di Teatro Carcere, giunto quest’anno alla sua seconda edizione, e all’interno del quale di iscrive lo spettacolo andato in scena alla Casa Circondariale. Teoremi accusatori, prevenzione, pene: l’antimafia da ripensare di Giovanni Fiandaca Il Dubbio, 3 dicembre 2022 “L’inganno” di Alessandro Barbano, un saggio lucido e coraggioso su “usi e soprusi dei professionisti del bene” che tenta di esportare l’analisi critica fuori dai recinti accademici per renderla viva nello spazio pubblico. Chi osa criticare, anche con buone ragioni, l’antimafia più repressiva e integralista suscita subito il sospetto di essere un filomafioso, o un garantista peloso che nasconde intenzioni ignobili e interessi oscuri. Ne ho fatto esperienza nel sottoporre a critiche sin dall’origine, anche su questo giornale, il processo sulla cosiddetta trattativa stato-mafia (cfr. il Foglio, 1 giugno 2013), attirandomi l’accusa di essere un “negazionista” o “giustificazionista” di turpi patti politico-mafiosi. Più di recente, ha vissuto una esperienza analoga ad esempio il giornalista Alessandro Barbano (noto per il suo impegno “garantista”), incorrendo nel rimprovero di avere tradito lo spirito di Pio La Torre per avere espresso, sul palco della Leopolda 2022, opinioni negative su alcune parti della legislazione antimafia vigente. Lo racconta egli stesso in un saggio freschissimo di stampa, dall’eloquente titolo L’inganno - Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene (Marsilio, 2022). È di questo saggio lucido e coraggioso che intendo qui parlare, apprezzandone innanzitutto l’obiettivo di denunciare effetti dannosi o distorsivi delle attuali strategie di contrasto delle mafie che sfuggono, per lo più, all’ampia platea dei “non addetti ai lavori”. Tanto più che le critiche prospettate, lungi dall’essere puramente demolitrici, mirano a sollecitare un ripensamento complessivo dell’azione antimafia per migliorarne i modelli operativi e i risultati pratici (anche se non mancano qua e là nel libro rilievi influenzati, a mio giudizio, da un eccesso di garantismo ideologico, o formulati con una certa enfasi drammatizzatrice). Non privo di infarinatura tecnico-giuridica, e accettando il rischio di qualche imprecisione (che può peraltro essergli perdonata), Barbano affronta con stile vivace e pugnace più punti nevralgici, ponendo nel contempo sotto osservazione meccanismi normativi e approcci giudiziari. Sicché l’analisi prende in considerazione sia i risalenti e persistenti deficit di tassatività e precisione delle norme scritte, che determinano come effetto una notevole dilatazione della discrezionalità interpretativo-applicativa dei giudici, sia prassi giudiziali censurabili in quanto a vario titolo contrastanti con esigenze di garanzia o col principio della divisione dei poteri. Si tratta, beninteso, di questioni problematiche tutt’altro che nuove: ma nuovo o rinnovato è lo sforzo di esportare l’analisi critica fuori dai recinti accademici, dove è consolidata ormai da non pochi decenni, per farne appunto oggetto di una discussione più ampia nello spazio pubblico.  Non è possibile accennare a tutti i profili problematici considerati e alle svariate esemplificazioni casistiche che conferiscono concretezza al saggio, rendendone più intrigante la lettura. Tra questi profili, un posto centrale spetta senz’altro alla questione di fondo relativa al ruolo dell’antimafia a un tempo politica, giudiziaria e giornalistica nel complessivo orizzonte democratico (si veda in particolare il capitolo 9). Si allude cioè alle tendenze ricorrenti a porre la democrazia sotto tutela giudiziaria, a utilizzare l’indagine e il processo penale come strumenti di condizionamento o rinnovamento politico e di moralizzazione collettiva (trasformando procure e tribunali in autorità deputate a emettere censure etico-politiche di fatti anche privi di rilevanza penale), a riscrivere la storia d’Italia o a interpretare le dinamiche politiche in prevalente chiave criminale (andando alla caccia ossessiva del “grande vecchio” di turno da additare a regista o capo di complotti politico-delittuosi), a scrivere articoli giornalistici e persino libri (ad opera anche di magistrati protagonisti delle indagini) che divulgano come verità giudiziariamente accertate ipotesi accusatorie frutto di teoremismi, immettendo così nella comunicazione pubblica virus destinati a distorcere l’interpretazione degli accadimenti, ecc. Che questi sin qui sintetizzati siano effetti più che discutibili di un certo modo diffuso di fare antimafia, è indubbio e Barbano ha fatto bene a stigmatizzarli con vigore e ampi riscontri esemplificativi. Più complesso e articolato, anche sotto un profilo tecnico, è invece il discorso rispetto al radicale e pressoché totalizzante attacco che l’autore muove al sistema della prevenzione antimafia, rivisitato in più capitoli del saggio. Le misure di prevenzione - vale forse la pena ricordarlo - sono state in Italia introdotte, nel secondo Ottocento, come “stampelle” di una attività repressiva che non riusciva a contrastare la endemica criminalità meridionale con gli strumenti della normale giurisdizione penale (il loro meccanismo applicativo, in quanto incentrato su elementi indiziari di cosiddetta pericolosità sociale, prescinde dalla prova della commissione di reati veri e propri): non a caso, la dottrina giuridica di orientamento liberale le ha sempre guardate con prevalente avversione e diffidenza, bollando in particolare le tradizionali misure personali (come la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza) come “pene del sospetto” o “pene senza delitto”. Ma non bisogna trascurare che, nel corso del tempo, il ventaglio delle misure preventive è andato arricchendosi e ammodernandosi, per cui i vecchi arnesi del passato non ne rappresentano ormai la parte più significativa e potrebbero anche essere eliminati. Ben maggiore rilievo, in termini di attualità e almeno potenziale efficacia, assumono invece le misure patrimoniali del sequestro e della confisca dei patrimoni di origine illecita o delle aziende in mano mafiosa, introdotte nel 1982 e successivamente più volte riformate (in un primo tempo, rendendole applicabili anche senza le misure personali, e infine - in particolare durante l’ubriacatura populista del governo cosiddetto gialloverde - estendendole indebitamente a forme di criminalità diverse da quella mafiosa); nonché, a mio avviso, soprattutto le ancora più innovative misure non ablative, ma - per dir così - “terapeutiche” dell’amministrazione giudiziaria e del controllo giudiziario (quest’ultimo previsto più di recente anche in sede amministrativo-prefettizia), volte a bonificare quelle aziende che, pur infiltrate da organizzazioni criminali, appaiono comunque suscettibili di essere recuperate a un futuro funzionamento esente da influenze o pressioni mafiose. È proprio questa orientazione recuperatoria che rende questi ultimi strumenti, in atto in corso di sperimentazione applicativa, assai promettenti. Se è certo che le suddette misure con finalità di bonifica non hanno un carattere punitivo, non è però neppure sicuro che possa continuare oggi a essere considerata come una “pena mascherata” la stessa confisca dei patrimoni illeciti. Piuttosto, è plausibile ravvisarne la attuale finalità in una ottica che ha poco a che fare con una sostanziale punitività occultata, e che riflette piuttosto una esigenza di controllo pubblico sull’origine e formazione delle ricchezze patrimoniali: in questo senso, la confisca diventa una misura compensatorio-ripristinatoria volta a riportare la situazione patrimoniale allo stato antecedente alla commissione dell’illecito, in quanto la ragione che la giustifica finisce appunto col basarsi sul principio che la condotta illecita non può costituire titolo legittimo di arricchimento (cfr. sent. costituzionale n. 24/2019). Ciò non equivale, beninteso, a disconoscere che una confisca pur così concepita necessiti di essere posta su basi normative da riformare, essendo ancora quelle vigenti sotto diversi aspetti difettose sul piano delle garanzie individuali. Come pure sono senz’altro da criticare certe prassi giudiziarie troppo spericolate, disinvolte o comunque eccessivamente discrezionali nel decidere la confiscabilità di ricchezze o aziende lambite da sospetti assai labili di origine o compromissione mafiosa (specie nei casi in cui il procedimento di prevenzione prosegua, come l’ordinamento vigente consente, nei confronti di persone assolte in un processo penale già concluso). E altresì Barbano ha ragione nell’annoverare, tra i guasti maggiori dell’attuale gestione del sistema preventivo, il frequentissimo destino infausto cui vanno incontro i beni o le aziende già confiscati, che nella maggior parte dei casi finiscono col deteriorarsi o col cessare ogni attività. Considerato che le luci e le ombre della prevenzione antimafia in ogni caso oggi coesistono mescolandosi insieme in una sorta di zona grigia, che non sempre consente distinzioni nette tra aspetti positivi e negativi, sarebbe difficile contestare l’esigenza di un ripensamento dell’intero settore, in vista di una sua complessiva riforma: da un lato per renderlo più razionale e organico e potenziarne l’efficacia e, dall’altro, per rafforzare sensibilmente il livello delle garanzie (come da tempo, del resto, auspicano la dottrina accademica e l’avvocatura). E sarebbe anche necessario, più in generale, aprire un confronto pubblico su come curare le diverse patologie che in atto affliggono l’antimafia intesa nel senso più comprensivo, come il libro di Barbano appunto opportunamente suggerisce. Ma siamo capaci, nel nostro paese, di impegnarci in dibattiti e confronti autentici su un tema così divisivo? Cannabis, consumo record tra i giovani. “Se porti clienti la dose è gratis” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 3 dicembre 2022 Indagine su 20mila studenti delle superiori in Lombardia: il 20% fuma abitualmente cannabinoidi, il 35% frequenta consumatori coetanei. Gli acquisti nei giardini o anche all’interno delle scuole. “Scarsa conoscenza dei rischi”. Terzo anno di liceo scientifico, scuola del centro città. La professoressa propone agli studenti di andare a donare il sangue tutti insieme, in orario scolastico, come atto di coscienza civica. I ragazzi e le ragazze della classe accettano in massa: 28 su 30. Arriva la vigilia del giorno fissato e la docente, nel ricordare a tutti l’appuntamento, spiega che gli esami di laboratorio sono volti ad accertare che non ci siano controindicazioni nel sangue donato. Nei 14 giorni precedenti, aggiunge la prof, non si deve ad esempio aver fumato cannabis perché il sangue non avrebbe avuto il tempo per rigenerarsi. Risultato: si tirano improvvisamente indietro 25 studenti sui 28 che avevano dato la disponibilità. “Il consumo abituale di cannabinoidi a Milano è ai massimi storici tra gli adolescenti e così anche il piccolo spaccio diffuso ma nessuna ricerca riesce a fotografare veramente il fenomeno. Il sommerso che emerge nei colloqui privati con i ragazzi ha dimensioni vaste e sconosciute ai più”, afferma Simone Feder della Casa del giovane di Pavia, già giudice onorario del Tribunale per i minorenni, in prima linea nel contrasto alle sostanze. Il circolo della cannabis tra gli adolescenti - Un’analisi condotta da Semi di Melo su oltre ventimila studenti delle secondarie a Milano, Pavia, Varese e Bergamo descrive la punta dell’iceberg. Un ragazzo su tre ammette che “gli amici” fumano abitualmente, e persino a scuola: vale a dire nei cortili, nei bagni, prima di entrare in classe e all’uscita subito dopo le lezioni. Negli stessi luoghi si spaccia anche: il 72% riferisce che il fumo si compra ai giardini, il 9% lo fa nel proprio istituto o lì intorno. Gli stessi ragazzi-consumatori vengono coinvolti nelle attività collaterali alla vendita e non si accorgono che “spaccio” è anche procurare clienti per avere in cambio la sostanza. “I piccoli pusher usano le stesse logiche commerciali usate dai Pr per riempire le discoteche: promettono pezzi di fumo in regalo (invece di ingressi gratis) se i ragazzi procurano nuovi clienti. In altri casi il favore è conservare nascosti a casa panetti altrui - dice Pietro Farneti dello Smi -. Un numero crescente di adolescenti, pur consumando, quindi non spende o persino guadagna piccole somme. Il monitoraggio da parte della famiglia è difficile”. Secondo la ricerca, la consapevolezza dei rischi è prossima allo zero: il 24% del campione pensa che fumare ogni settimana non sia dannoso (il 22% pensa lo stesso dell’alcol) e il 22% che non crei dipendenza (23% per l’alcol). “O ai ragazzi non arrivano le informazioni, o arrivano ma le sottovalutano perché non ci reputano credibili, oppure ancora i ragazzi ci credono ma non se ne curano perché non vedono effetti di breve periodo”, ragiona Feder. Ai giovani che fumano per “superare la fatica di fare fatica” e per “stare bene con gli altri” mancano adulti di riferimento da cui accettare di essere guidati. I professori e la scuola appaiono su un altro pianeta, solo il 19% li considera vicini. E ai genitori non va molto meglio. Detto che i coetanei restano gli interlocutori privilegiati, il confidente che può talvolta influenzare comportamenti e consumi diventa lo psicologo, presente in ben sei casi su dieci. “Bisogna capire che non è lo spaccio a indurre il consumo: è invece la domanda elevatissima creata dal mercato, a sostenere e alimentare lo spaccio sempre più diffuso e trasversale - sottolinea Riccardo Gatti della Asst Santi Paolo e Carlo. A essere sdoganato insieme alla cannabis e all’alcol è il concetto che sia naturale alterarsi o modificare il proprio stato d’animo con le sostanze”. C’è anche un tema di comunicazione sbagliata. Il marketing utilizzato per vendere la cannabis legale vicino alle scuole e nei luoghi frequentati dai giovani induce confusione. “Chi promuove cannabis legale porta avanti vendite promozionali e concetti salutistici per incrementare i consumi (“In regalo un grammo”, “canna”, distribuzione 24 ore su 24 “per non aspettare) e i messaggi arrivano anche ai ragazzi che dalla cannabis, legale o illegale che sia, dovrebbero stare lontani”, continua Gatti. L’esperienza è ogni volta diversa con il bong, il puff, le cartine che avvolgono prodotti addizionati chimicamente. “Il gruppo di amici si influenza e trascina - conclude Feder. Noi adulti, senza i giovani, non possiamo imprimere al mercato una direzione diversa”. I migranti e le due destre di Francesco Bei La Repubblica, 3 dicembre 2022 La prima la conosciamo bene, è quella dei meme sui social contro gli immigrati e delle fanfaronate sui blocchi navali e i porti chiusi. Ma se ne intravede un’altra, più europea o, se vogliamo, più pragmatica e meno ideologica. Con un approccio molto diverso. Accantonato per qualche giorno in attesa che scoppi un nuovo caso Ocean Viking, il tema dei migranti sta silenziosamente scavando una linea di demarcazione fra due destre. O, se si vuole, tra due modi possibili di declinare la categoria politica della destra. La prima destra la conosciamo bene. È quella dei meme sui social contro i migranti, definiti spregiativamente “risorse”, delle campagne sguaiate dei quotidiani governativi contro le Ong, delle fanfaronate sui blocchi navali e sui porti chiusi. Ormai persino i Fratelli d’Italia, un partito costretto alla normalizzazione dal neo-moderatismo di Giorgia Meloni, cercano di tenersi lontani da certe sparate, lasciando a Matteo Salvini il monopolio della propaganda anti-immigrati. È una destra chiacchierona e inconcludente, che prospera alimentando le paure e ingigantendo i problemi. Ma che non ha soluzioni, come si è visto alla prova dei fatti. Tutti i migranti arrivati nella stagione del Conte 1, nonostante il Viminale fosse presidiato dal leader della Lega, furono naturalmente fatti sbarcare. L’unico risultato raggiunto dai decreti sicurezza fu quello di smantellare quella rete diffusa di accoglienza che, nonostante qualche mela marcia, garantiva un percorso di inclusione al popolo dei barconi. Accanto a questa destra se ne intravede un’altra, più europea o, se vogliamo, più pragmatica e meno ideologica. Una seconda destra in concorrenza con la prima sugli stessi temi, ma che presenta un approccio molto diverso. Il pivot di questa destra “normale”, per usare un aggettivo dal sapore dalemiano, è il ministro degli Esteri Antonio Tajani. Che non ha problemi a definirsi “europeista” (effettivamente sarebbe strano che non lo fosse dopo vent’anni al vertice delle istituzioni comunitarie) e, sulle migrazioni, sta dando prova di un atteggiamento laico. Potrà non piacere a tutti ma dire, come ha fatto Tajani nell’intervista pubblicata ieri (venerdì 2 dicembre) su questo giornale, che il suo obiettivo è “fermare gli irregolari e portare in Italia le persone di cui abbiamo bisogno” è molto diverso dalla litania salviniana sul “prima gli italiani”. Rientra in questo diverso mood anche la sponsorizzazione dei corridoi umanitari dalla Libia, come quello che ha portato a Roma 114 rifugiati. Il problema è che adesso Tajani e Forza Italia saranno chiamati a passare dalle enunciazioni di principio all’applicazione concreta di questa nuova bussola politica. L’onere della prova sta a loro. Il presidente del Niger Mohamed Bazoum, al direttore di Repubblica ha spiegato qual è l’unica strada per regolare il fenomeno epocale delle migrazioni: un accordo basato sul numero di africani dei quali ogni Paese europeo, Italia in testa, ha bisogno per il suo mercato del lavoro. Le dichiarazioni di Bazoum e Tajani, lette insieme, disegnano dunque il perimetro di una soluzione possibile, che dovrebbe essere perseguita sia a livello bilaterale che al più alto livello europeo. Nessuna scorciatoia securitaria che passi sopra la testa degli africani riuscirà mai ad arrivare all’obiettivo di prosciugare la tratta dei trafficanti di esseri umani. Lo dicono la demografia e la geopolitica. Lo ha spiegato il Pontefice nel suo messaggio ai Med Dialogues in corso a Roma: “La migrazione è essenziale per il benessere di quest’area e non può essere fermata”. Fermata no, regolata forse. A patto che la destra che si dice “europeista” prenda coraggio e cominci a contrapporsi alla destra delle sparate. Un’ultima considerazione va fatta per chi in Italia è ormai arrivato e vuole mettere radici. Nel suo rapporto 2022 il Censis ci ha informato che gli alunni non italiani nelle nostre scuole sono saliti a 872 mila, il 10,6 per cento del totale, il valore più alto mai registrato. Una destra non ideologica dovrebbe porsi il problema di dare una risposta alla richiesta di cittadinanza che sale da questi nuovi italiani. Giorgia Meloni in passato criticò lo Ius soli per dirsi a favore dello Ius scholae, salvo affossare tutto insieme alla Lega quando il progetto di legge arrivò al voto nella scorsa legislatura. Sarebbe un bel segnale se quel ddl riprendesse vita in maniera bipartisan per regalare una nuova generazione all’Italia. “Centomila migranti subito per le imprese”. Ma sul decreto flussi la tagliola del Reddito di Alessandra Ziniti La Repubblica, 3 dicembre 2022 Piano entro fine anno: sarà triennale. Nel governo c’è però chi frena. “Precedenza a chi ha l’assegno”. Le associazioni: “Missione impossibile. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi le definisce “soluzioni strutturali di lungo periodo sui temi migratori, rafforzando la collaborazione con i Paesi di transito e partenza dei flussi”. Ecco perché il nuovo decreto flussi, che il governo si appresta a varare prima della fine dell’anno con un dpcm, dovrebbe prevedere una programmazione di ingressi regolari, per ragioni di lavoro, stagionali o a lungo termine, a due o tre anni e non più solo per un anno come è stato finora. Con quote di lavoratori, possibilmente da formare in loco, da offrire prioritariamente ai Paesi extracomunitari che accettano di firmare con l’Italia accordi di rimpatrio per i migranti irregolari e di collaborare alla lotta contro i trafficanti di uomini. Le richieste delle filiere produttive - “Stiamo lavorando per bruciare i tempi: il governo purtroppo è salito a bordo da pochissimo”, conferma Piantedosi. Gli uffici tecnici e legali dei quattro ministeri interessati, Interno, Esteri, Lavoro e Agricoltura, sono già al lavoro da settimane. Ma i nodi da sciogliere sono parecchi e assai intricati: innanzitutto il numero. Nell’ultima riunione del tavolo, i rappresentanti di Lavoro e Agricoltura (dopo aver sentito tutte le filiere produttive interessate, agricoltura, autotrasporto, edilizia, turismo) hanno buttato sul tavolo quota 100.000, una cifra comunque al ribasso rispetto alle 200.000 richieste arrivate nel 2022 a fronte dei 69.000 posti previsti dall’ultimo decreto flussi. Assai probabile sembra però che alla fine non ci si discosti più di tanto dai 70.000 attuali all’anno. La ricognizione impossibile dei percettori di reddito - Ma prima di stabilire un numero, il governo immagina di riuscire a fare una ricognizione sui percettori di reddito di cittadinanza cosiddetti impiegabili, coloro cioè che sono nella condizione di essere reimmessi nel circuito del lavoro e che, in teoria, fra sei mesi dovrebbero perdere il sussidio. È a loro che il governo intende dare la priorità piuttosto che chiamare lavoratori dall’estero. Italiani o stranieri che siano, ma già presenti sul territorio italiano perché ci sono anche stranieri che prendono il reddito di cittadinanza - precisano al Viminale nel tentativo di sottrarsi al refrain leghista “prima gli italiani”. Sembrerebbe l’uovo di Colombo, la norma per altro è già prevista dall’articolo 22 comma 2, del Testo unico immigrazione che impone al datore di lavoro che intende instaurare un rapporto di lavoro con un cittadino straniero residente all’estero, di documentare l’indisponibilità di lavoratori presenti sul territorio nazionale. Norma ovviamente inattuata e inattuabile non fosse altro perché nessun datore di lavoro in cerca di manodopera è in grado di documentare la reale assenza di lavoratori sul territorio.  Gli uffici del lavoro inadeguati - Di più, la totale inadeguatezza degli uffici del lavoro (che dovrebbero peraltro monitorare i profili professionali e la qualità dei percettori del reddito di cittadinanza) fa sì che non solo chi da anni beneficia di questo sostegno non abbia mai ricevuto proposte di lavoro, ma soprattutto che i datori di lavoro non si rivolgano neanche a questi uffici territoriali per cercare la manodopera di cui hanno bisogno.  Quanti saranno dunque i percettori di reddito impiegabili a cui dare priorità per far fronte alle richieste delle filiere produttive? Come e da chi saranno individuati in tempi così brevi? Se si dovesse far affidamento sul numero complessivo fatto nei giorni scorsi dal governo (circa 600.000), in Italia non servirebbe alcun decreto flussi. Ma ovviamente così non è e soprattutto nessuno è in grado di dire come entro la fine dell’anno il governo potrà arrivare alla stima necessaria per fissare le quote di ingressi regolari. Le associazioni: “Progetto impossibile” - Un progetto inattuabile secondo le associazioni riunite sotto il cartello “Ero straniero” che ricordano come gli uffici territoriali del governo non siano ancora riusciti a ultimare le pratiche per la sanatoria (del 2020) di 200.000 lavoratori stranieri già presenti in Italia e tantomeno quelle altre 200.000 a fronte dei 69.000 posti disponibili del decreto flussi 2022. “Il governo - dicono - sembra ignorare quanto accade in termini di domanda e offerta di manodopera, italiana o straniera che sia, e di come sia di fatto impossibile per i datori di lavoro riuscire a reperire le figure che servono”.  Il lusso? I diritti, non il petrolio. In Kuwait è tornato il boia di Sergio D’Elia Il Riformista, 3 dicembre 2022 Da maledizioni terribili possono nascere fortune grandiose. La devastante siccità che colpì la penisola arabica nel diciottesimo secolo spinse le tribù provenienti dal Neged fino all’estremità del Golfo Persico. Esse diedero vita alla piccola città di Kuwait, che divenne nel tempo un grande centro di commerci e di pesca. Anche lo stemma del Paese che include un veliero a boma, una specie di sambuco, testimonia la sua tradizione e fortuna marittima. La scelta delle tribù di assegnare il titolo di sceicco a un membro della famiglia Sabah diede origine alla dinastia regnante più longeva del mondo arabo. Ormai sono diventati sedici i sovrani Al Sabah che governano il Kuwait da due secoli e mezzo. Il regno degli sceicchi Al Sabah poggia oggi su un immenso pozzo di petrolio. Lo stesso simbolo della compagnia, espresso dalle due vele colorate, si ispira all’antica vocazione marinara e alle tradizionali imbarcazioni a vela del Kuwait. L’oro nero non è un bene di lusso per l’emirato, è risorsa naturale essenziale che fa andare avanti, inquina e ricatta il mondo. Beni di lusso sono i diritti umani, e il Kuwait - e, al suo cospetto, il mondo - ne può anche fare a meno. Sulla superficie di uno dei più grandi giacimenti di petrolio del mondo vedi le stesse facce delle stesse povere razze che trovi ai piccoli distributori di benzina lungo le strade dei paesi ricchi del mondo. Sono le facce di sauditi, pakistani, siriani, etiopi, eritrei e quelle dei “Bidoon”, i senza terra né patria, gli ultimi della società, gli ignoti anche agli uffici anagrafe del Paese. Sono anche le stesse facce e le stesse razze che popolano il braccio della morte del regno della famiglia Al Sabah. Le esecuzioni sono rare in Kuwait anche perché la pena di morte, ammessa secondo la Sharia, è soggetta a numerosi passaggi di verifica e nullaosta, tra cui il consenso dei parenti della vittima in caso di omicidio e l’approvazione finale da parte dell’Emiro. Però, ogni cinque, sei anni accade che il boia venga richiamato in servizio e recuperi il tempo e il lavoro perduti e impicchi i condannati a morte per omicidio premeditato, traffico di droga, sequestro di persona e stupro. Il 16 novembre, per la prima volta dopo una pausa di cinque anni, le autorità del Kuwait sono tornate a eseguire condanne a morte. Sette persone sono state giustiziate all’alba di un solo giorno. Gli appelli dell’ultimo minuto di Amnesty International, dell’Unione europea e di altre organizzazioni per i diritti umani non hanno avuto successo. Non sono stati forniti molti particolari sulla mattanza capitale. Si sa solo che le esecuzioni sono avvenute nella prigione centrale di Kuwait City. Non è stato reso noto ufficialmente neanche il metodo utilizzato anche se, in genere, lo sceiccato i suoi condannati a morte li impicca, raramente li fucila. L’agenzia di stampa statale Kuna ha identificato le vittime solo come “tre uomini kuwaitiani, una donna kuwaitiana, un uomo siriano, un uomo pakistano e una donna etiope”. Ai giustiziati non sono state riconosciute identità anagrafiche, ma solo profili criminali; sono stati connotati dai loro reati: omicidio premeditato e altre a  ccuse. Le ultime esecuzioni, anche in quel caso di sette persone tra le quali un membro della famiglia reale, erano avvenute il 25 gennaio 2017. Le esecuzioni del 16 novembre scorso sono coincise con la visita nel Paese del funzionario della Commissione Europea Margaritis Schinas. L’Unione Europea lo ha considerato uno sgarbo. Ha immediatamente criticato le esecuzioni e ha implorato una moratoria di fatto della pena di morte, come primo passo verso la sua abolizione formale e completa. L’Unione Europea ha definito la pena capitale “una punizione crudele e disumana”, ma difficilmente trarrà conseguenze dalla crudeltà e disumanità dell’ultima ondata di impiccagioni. Ha pianificato di convocare l’ambasciatore del Kuwait a Bruxelles, ma non ha ritirato la proposta di inserire il Kuwait nell’elenco dei Paesi senza obbligo di visto per i suoi cittadini in viaggio verso l’Europa. Le sette esecuzioni di novembre sono “una legittima forma di retribuzione”, secondo l’istituto giuridico islamico del “qisas”, e serviranno da deterrente, hanno assicurato le autorità. “Hanno privato le vittime del più sacro dei diritti in questo mondo, che è il diritto alla vita”, ha affermato in un comunicato la procura nazionale dello sceiccato. Il diritto alla vita dei carnefici, evidentemente, non rientra nella categoria dei diritti sacri universali.