Dalla A alla Z, l’anno difficile delle carceri di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 31 dicembre 2022 Carcere. Dalla “A” di Antigone alla “Z” di Zaki (Patrick) passando per la “E” di ergastolo, la “S” di sovraffollamento o la “T” di Tortura. Quella di Antigone, nella versione sofoclea, è la lotta della giustizia contro la legge, della fraternità contro il potere. Portare un nome tragico è una grande responsabilità. Il 2022 è stato l’anno in cui è iniziato il più grande processo in Europa per tortura, anche a seguito di un esposto di Antigone presentato nel 2020 per le violenze a Santa Maria Capua Vetere. Il 2022 è stato anche l’anno delle cento visite fatte in carcere. Beccaria. Sul finire dell’anno sette ragazzini sono scappati dall’istituto penale per minori Beccaria di Milano. Erano imputati per reati di strada. Si è scatenato un assurdo putiferio mediatico e politico come se fossero sette serial killer. Nel frattempo sono stati tutti ripresi. Non erano una minaccia alla sicurezza dello Stato. Chissà cosa avrebbe detto l’illustre Cesare se avesse saputo che un carcere per ragazzi avrebbe portato il suo nome. Custodia. cautelare Un terzo dei detenuti è in custodia cautelare. Molti di loro sono poveri, immigrati, tossicodipendenti, segno di una giustizia classista inclemente verso chi non ha risorse per una buona difesa tecnica. Dap. Il 2022 ha visto al vertice dell’amministrazione penitenziaria Carlo Renoldi e Carmelo Cantone. Un magistrato e un dirigente di grande valore. Il ministro Carlo Nordio ha nominato un nuovo capo Dap, il giudice Giovanni Russo a cui auguriamo buon lavoro. Ergastolo. Il Parlamento, su impulso del Governo, ha approvato nuove norme sull’ergastolo ostativo, ossia senza speranza di uscita. Una legge che chiude rispetto alle aperture della Corte Costituzionale. Una occasione persa. Nel 2023 la Cassazione dovrà valutare se sono venuti meno i motivi di illegittimità costituzionale. Fermo. Il sistema carcerario è immobile, fermo a qualche decennio fa. La tecnologia stenta a farvi ingresso. I detenuti non hanno ancora accesso a mail (se non a pagamento) ed internet. Garantismo. Essere garantisti significa costruire garanzie universali, sostanziali e procedurali. Per tutti, italiani e stranieri, ricchi e poveri, nessuno escluso. Hotel. Le carceri non sono hotel a cinque stelle. Basta visitare un carcere metropolitano affollato per rendersene conto. Indulto Il papa ha sollecitato gli Stati, senza risposta, ad approvare un provvedimento di clemenza. Lavoro. Sono stati aumentati i fondi per il lavoro penitenziario. Sarebbe importante se nel 2023 il mondo dell’impresa e quello della giustizia usassero tutti gli euro a disposizione. Nel 2022 i detenuti impegnati in attività produttive sono stati una minoranza. Morti. Dall’inizio dell’anno si sono suicidati 83 detenuti. Mai così tanti negli ultimi decenni. Sono il segno di un sistema che alimenta disperazione, solitudine, abbandono. Sarebbe importante se la vita in carcere si riempisse di vita e se ai detenuti fosse data la possibilità di telefonare più frequentemente ai loro cari. Oggi un detenuto, di norma, può telefonare una volta a settimana per soli dieci minuti. Notte. Durante l’emergenza Covid ai detenuti semiliberi - circa 700 - era stato consentito di dormire nelle loro case, visto che di giorno erano fuori dall’istituto. La norma non è stata prorogata e dal 2023 rientreranno in carcere di notte. Un’inutile cattiveria. Ong. A fine anno è arrivato anche il decreto di criminalizzazione delle Ong. Esso è il segno di un potere punitivo che esonda da ogni solco di ragionevolezza. Polizia penitenziaria. Da un lato ci sono un paio di centinaia di poliziotti sotto processo per tortura, dall’altro migliaia di agenti che operano nel solco della correttezza. La qualità della vita dentro le carceri passa anche dalla gratificazione di chi opera nel segno della legalità costituzionale. Quarantuno bis. Il regime 41-bis applicato all’anarchico Alfredo Cospito è una esagerazione. Uno stato forte e autorevole ascolta le ragioni di chi protesta con lo sciopero della fame. Rave. Il Governo vuole mettere in galera i promotori e i partecipanti ai rave parties. Non proprio un’idea garantista e rispettosa degli stili di vita giovanili. Sovraffollamento. Ci sono circa 8-10 mila persone in più rispetto alla capienza regolamentare delle carceri. Il tema delle droghe, che produce un terzo dei detenuti, non si può però toccare. Tortura. Nel 2022 sono iniziati i processi per le torture nelle carceri di Santa Maria Capua Vetere, Torino, San Gimignano. Speriamo il 2023 sia l’anno entro cui si chiudano. Università. Sono più di mille i detenuti iscritti alle Università. Non sempre sono messi nelle condizioni di studiare adeguatamente. Volontari. C’è una bella anomalia italiana, quella del volontariato. Non sempre ben sopportato dalle autorità penitenziarie. Essenziale per assicurare il rispetto dei fini costituzionali della pena. Zaki. Patrick è ancora in Egitto in attesa del processo. Ha trascorso troppo tempo in carcere. Speriamo il 2023 sia l’anno del suo rientro a Bologna. *Presidente di Antigone In permesso per il Covid, la prima notte del 2023 devono tornare in carcere 700 detenuti di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 31 dicembre 2022 Molti ergastolani o condannati a lunghe pene. Erano in semilibertà, trasformata in libertà (quasi) piena come misura contro la pandemia. Non c’è stata nessuna proroga e quindi scatta il rientro. A suo modo, all’ora convenzionalmente fissata alla mezzanotte tra San Silvestro e Capodanno, sarà la più grande “retata” di ergastolani e condannati a lunghe pene mai avvenuta, ma in realtà soltanto effetto di un contraccolpo “burocratico”, con 700 detenuti semiliberi che dovranno rientrare in carcere dopo due anni e mezzo di misura alternativa, e tutto da vedere sarà se andarne fieri. Sta di fatto che alla mezzanotte del 31 dicembre finirà la licenza straordinaria che, all’inizio dell’emergenza pandemica, era stata data da una delle normative Covid ai detenuti in semilibertà per evitare che il loro quotidiano uscire dalle celle di giorno e rientrare in carcere la notte favorisse la circolazione del virus, che in ambienti ristretti quali i penitenziari sarebbe stata micidiale esattamente come lo fu in molte residenze per anziani. La semilibertà, che è regolata dall’articolo 48 dell’ordinamento penitenziario e che a fine novembre coinvolgeva in Italia 1.076 detenuti sui 56.500 reclusi, è una misura alternativa per la quale il condannato definitivo - dopo aver già scontato in cella almeno 20 anni se ergastolano, e invece due terzi della pena o metà della pena a seconda dei vari reati - può trascorrere parte del giorno fuori dal carcere (rientrandovi la notte a dormire) per andare a lavorare, o a studiare, o a svolgere altre attività comunque finalizzate al reinserimento sociale in base ad un programma di trattamento curato dal direttore del carcere, dai magistrati di sorveglianza, dai servizi sociali. Adesso che scade la norma Covid sulla licenza straordinaria, e che dunque i semiliberi devono rientrare in carcere, la situazione si presta a due chiavi di valutazioni opposte. Da un lato c’è il fatto storico del venir meno della norma emergenziale, che per definizione aveva carattere provvisorio, e c’è l’oggettiva difficoltà di immaginare un rimedio diverso dalla proroga in sé, visto che per gli ergastolani in semilibertà il successivo gradino di solito è (dopo 26 anni scontati) direttamente la liberazione condizionale (cioè altri 5 all’esterno del carcere in regime di libertà vigilata, salvo revoca se sono non rispettate le prescrizioni o commessi reati), mentre per i semiliberi che stanno scontando lunghe pene consiste nell’arrivare a un tetto residuo di 4 anni residui da espiare, sotto il quale poter chiedere l’affidamento in prova ai servizi sociali. Dall’altro lato, però, da parte ad esempio del Garante della Regione Lazio e portavoce della Conferenza dei 73 “Garanti territoriali delle persone private della libertà” impegnatisi in un digiuno a staffetta per chiedere invano al governo una proroga in extremis, Stefano Anastasìa, si replica che così vengono “cancellati i principi (cardini della funzione rieducativa della pena inscritta nell’articolo 27 della Costituzione) di non regressione e progressività nel trattamento penitenziario” di queste 700 persone, che nei due anni e mezzo di licenza straordinaria avevano dimostrato di meritare la scommessa fatta dai giudici di sorveglianza e dalle aree educative delle carceri sulla loro capacità di avviare un percorso di reinserimento nella vita sociale. Fatto sta che la proroga in extremis - auspicata ad esempio dai senatori Pd Alfredo Bazoli, Franco Mirabelli, Anna Rossomando e Walter Verini in un emendamento al decreto Milleproroghe - non è arrivata, e dunque i 700 dovranno tornare in cella. L’unica differenza è che in concreto ciò non avverrà probabilmente di botto, cioè per tutti subito alla mezzanotte di Capodanno, ma comunque grosso modo entro metà gennaio: e questo perché lo scadere il 31 dicembre della licenza straordinaria legata all’emergenza Covid non cancella invece la normale possibilità che la legge riconosce ai semiliberi di chiedere ai propri giudici di sorveglianza fino a complessivamente 45 giorni (non più di 15 consecutivi) di licenze ordinarie fruibili in regime di libertà vigilata nel corso dei 12 mesi, sicché è possibile che i 700 semiliberi in questione rientrino poco a poco in carcere, man mano che si esauriranno i magari due o tre giorni di licenza ordinaria che dovessero aver già chiesto e ottenuto nelle scorse settimane. Il reingresso dei 700 semiliberi, che dunque porterà a 57.200 le persone presenti in 51.300 posti teorici ma in realtà 47.000 effettivi per via delle sezioni attualmente chiuse per ristrutturazioni, chiude dunque un 2022 che passerà agli archivi come l’anno con il più alto numero di suicidi, 85, da quando (nel 2000) questo dato viene monitorato a livello nazionale. Gli 85 suicidi del 2022 non solo surclassano i 58 del 2021 e i 61 del 2020 e i 53 del 2019, ma sono ben 23 più perfino di quelli verificatisi nel 2012, sebbene quell’anno ci fossero stati in media 11.687 detenuti più del 2022. Un suicidio su cinque si è verificato nei primi dieci giorni dall’ingresso in carcere, mentre 39 degli 85 detenuti uccisisi lo hanno fatto quando avevano davanti meno di tre anni da scontare, e metà non avevano sentenze definitive. Ma ancor più impressionante sono il tasso di suicidi che si registra nella popolazione detenuta, 18 volte superiore a quello nella popolazione libera; e il flagello del fenomeno in alcuni istituti, come Pavia, dove proprio l’altro giorno si è ucciso il sesto detenuto dell’anno. Come sempre anche questa tornata d’anno vedrà “Nessuno tocchi Caino” (con i dirigenti Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti, Roberto Giachetti e Umberto Baccolo) visitare Regina Coeli a Roma stasera 31 dicembre alle ore 21, Opera a Milano il 2 gennaio con il Laboratorio “Spes contra Spem” alle ore 11, poi Novara (3 gennaio), Torino (4 gennaio), Varese (5 gennaio), Busto Arsizio (6 gennaio) e Parma (7 gennaio): “Per noi - spiegano gli organizzatori, il visitare i carcerati non è solo un’opera di misericordia, ma ha lo scopo anche di ascoltarli, verificare le loro condizioni di vita materiale e raccontarle, e soprattutto infondere fiducia e speranza in chi rischia di prevalere sfiducia e disperazione, come testimonia il numero dei suicidi che nel 2022 hanno raggiunto livelli mai visti nella storia italiana”. Tra le poche buone notizie recate dalla fine d’anno all’universo del carcere, accanto al via libera all’assunzione di mille agenti penitenziari (meglio di niente ma pur sempre una goccia nel mare dei 18.000 mancanti in organico), è arrivato intanto l’incremento del rifinanziamento della legge Smuraglia sugli incentivi fiscali e contributivi alle aziende che forniscano occasioni di lavoro e corsi formativi finalizzati al reinserimento di detenuti. Nato all’epoca delle lire con 5 miliardi di dotazione (cioè 2 milioni e mezzo di euro), nel 2013 il fondo era stato aumentato a 5 milioni e mezzo l’anno. Adesso l’emendamento proposto dal presidente di +Europa, Riccardo Magi, approvato nella legge di Bilancio, ha portato l’incremento di spesa a 6 milioni di euro dal 2023. Quest’anno 84 persone si sono uccise in carcere di Luca Sofri ilpost.it, 31 dicembre 2022 Con ogni probabilità i suicidi non erano mai stati così tanti: molte erano appena entrate o avevano pochi mesi da scontare. Nel 2022 all’interno delle carceri italiane si sono suicidati 84 persone detenute: 78 di loro erano uomini, cinque donne (le donne sono circa il 5% della popolazione carceraria). Il dato è aggiornato al 30 dicembre. È il numero più alto di suicidi in carcere in Italia da quando questi dati sono organizzati a livello nazionale, cioè dal 2000: ma quelli disponibili sugli anni Novanta, uniti al fatto che prima ancora la popolazione carceraria era significativamente inferiore, suggeriscono che con ogni probabilità non erano mai stati così tanti. Nel 2021 i suicidi erano stati 58, nel 2020 61. Dieci anni fa si suicidarono 60 detenuti, 24 in meno rispetto a oggi eppure allora la popolazione carceraria era molto più numerosa: nel 2012 i detenuti in media erano stati 66.528, nel 2022 54.841. Ha detto Mauro Palma, presidente del Garante nazionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale: “Le scelte soggettive vanno anche rispettate nella loro non univoca e difficile leggibilità; resta la responsabilità che è in capo a chi amministra e gestisce la privazione della libertà di una persona di tutelare al massimo la sua vita e la sua integrità fisica e psichica”. L’ultimo in ordine di tempo a essersi ucciso è stato Adolfo Latifaj, 20 anni, italo albanese. Si è impiccato nella sua cella del carcere di Pavia Torre del Gallo. Ha detto don Dario Crotti, cappellano del carcere: “era un detenuto molto fragile. Me lo avevano segnalato gli agenti di polizia penitenziaria e gli avevo parlato. Purtroppo non è stato sufficiente”.  Il 22 dicembre si è suicidato impiccandosi nella sua cella nel carcere di Lanciano, in provincia di Chieti, Giovanni Carbone. Era stato arrestato tre giorni prima con l’accusa di aver ucciso, a colpi di pistola, la compagna Eliana Maiori Caratella. Ruggero Di Giovanni, segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Uilpa dell’Abruzzo, ha denunciato il fatto che nell’intero piano detentivo dove si trovava Carbone, composto da due sezioni, era in servizio un solo agente. “Tanto per dare qualche numero, quel piano detentivo è composto da due sezioni, una con circa 50 detenuti alta sicurezza che richiedono, a causa della tipologia di reati, un’attenzione maggiore e costante; la sezione adiacente invece vede la presenza costante di circa 20 detenuti cosiddetti “nuovi giunti”, ovvero detenuti appena arrestati e sottoposti a “grande sorveglianza precauzionale” proprio per prevenire gesti autolesionistici”. I gesti di autolesionismo sono infatti frequenti tra i “nuovi giunti” appena arrivati in carcere.  Il 20 dicembre nel carcere romano di Rebibbia si è ucciso un cittadino bangladese di 30 anni, di cui non è stato rivelato il nome. Si è impiccato nella propria cella: era stato condannato a due anni per concorso in rapina, sarebbe stato libero a luglio. Lo stesso giorno, nel carcere di Bergamo, è morto un detenuto di 49 anni di cui sono state comunicate le iniziali, F.C. è morto per avere inalato gas dalla bombola tenuta in cella per cucinare. Non si sa se si sia trattato di un suicidio deliberato o di un incidente: la pratica di inalare gas come sostituto di sostanze stupefacenti è infatti diffusa nelle carceri. Il 13 dicembre, nel carcere di Poggioreale a Napoli, si è ucciso impiccandosi Francesco Terracciano, 30 anni, detenuto per reati di droga. L’elenco a ritroso è lunghissimo: dal 2012 al 2022 i suicidi in carcere sono stati 615; dal 2000 sono stati 1.308. Disse nel 2010 l’attuale ministro della Giustizia Carlo Nordio, nel libro In attesa di giustizia scritto con Giuliano Pisapia: “il sistema carcerario è incompatibile con la rieducazione, perché troppo brutale. Le sue strutture edilizie e le condizioni inumane sono al limite della tolleranza, sono una vergogna della nostra pretesa giuridica”. A fine ottobre, da poco insediatosi, Nordio parlò dei suicidi in carcere definendoli “una drammatica emergenza, una dolorosa sconfitta per ciascuno di noi e la conferma della necessità di occuparci da vicino del mondo penitenziario (…). Il carcere per me è una priorità assoluta: riconosco il grande impegno di chi mi ha preceduto e dell’amministrazione penitenziaria, che ha diffuso anche una circolare specifica sul tema dei suicidi. Molteplici possono essere le cause e i problemi dietro questo drammatico record: le urgenze del carcere - compresa la necessità di rinforzare gli organici di tutto il personale - saranno una delle mie priorità”. Tra le persone detenute che si sono uccise nel 2022, secondo i dati forniti da una relazione del Garante nazionale, 33 erano riconosciute con fragilità personali o sociali, cioè senza fissa dimora o con disagi psichici. Quarantanove persone si sono uccise nei primi sei mesi di detenzione e di queste 21 nei primi tre mesi dall’ingresso nell’istituto. Quindici si sono suicidate nei primi dieci giorni di detenzione, nove nelle prime 24 ore dall’ingresso. Tra le persone che si sono uccise, cinque sarebbero uscite dal carcere entro l’anno in corso e 39 avevano una pena residua inferiore a tre anni. Solo quattro avevano una pena residua superiore ai tre anni e uno solo doveva scontare ancora più di 10 anni.  Secondo quanto è scritto nella relazione del Garante, non sembra quindi contare tanto la durata della pena ancora da scontare o della carcerazione preventiva e nemmeno, forse, le condizioni della pena detentiva. È proprio l’approdo in carcere a essere l’elemento scatenante che spinge al suicidio. Ha detto Daniela de Robert, dell’ufficio della autorità del Garante, al sito Interris: “Il rapporto di quest’anno evidenzia innanzitutto un record negativo: negli ultimi 10 anni non ci sono mai stati così tanti suicidi (…). I dati più salienti riguardano la durata della pena: 49 persone si sono uccise nei primi mesi di detenzione; 15 di questi nei primi giorni; 9 addirittura nelle prime 24 ore. Alcuni non avevano fatto in tempo neppure ad essere immatricolati perché si sono uccisi subito. Non è il sovraffollamento o il carcere degradato a spingere le persone a gesti estremi, ma la disperazione: quella sensazione terribile di chi entra in carcere e pensa: “da qui non riemergerò mai più”. Un altro dato molto significativo è l’andamento della media dei suicidi nel corso dell’anno, dagli otto avvenuti a gennaio al minimo dei tre di febbraio, con un picco ad agosto, quando minore è la presenza di volontari e le attività si fermano: 17 suicidi.  Per quanto riguarda la nazionalità, 50 delle persone che si sono uccise erano italiane e 34 straniere (18 di questi erano senza fissa dimora) provenienti da 18 paesi diversi: Albania (5), Tunisia (5), Marocco (5), Algeria (2), Repubblica Dominicana (2), Romania (2), Nigeria (2), Brasile (1), Nuova Guinea (1), Pakistan (1), Cina (1), Croazia (1), Eritrea (1), Gambia (1), Georgia (1), Ghana (1), Siria (1), Bangladesh (1). Nove detenuti erano della fascia d’età tra i 18 e i 25 anni, tre avevano più di 70 anni. Nel 2022 il più anziano tra i detenuti suicidi aveva 83 anni: la fine della sua pena era prevista nel 2030.  Trentotto detenuti che si sono uccisi avevano una condanna definitiva mentre 33 erano in carcerazione preventiva, cioè in attesa del processo. Sette detenuti erano in attesa del processo d’appello mentre cinque erano cosiddetti “misti con definitivo”, cioè avevano una pena definitiva ma anche altri procedimenti in corso (questo dato è aggiornato a fine novembre). Sessantacinque persone erano state coinvolte in precedenza in cosiddetti “eventi critici”, e cioè avvenimenti che mettono in pericolo la sicurezza delle persone detenute e del personale penitenziario o delle strutture dell’istituto. Ventisei persone avevano già tentato di uccidersi, sette di loro più d’una volta. 23 erano sottoposte alla misura cosiddetta di “grande sorveglianza”, cioè una sorveglianza rafforzata, e 19 lo erano anche al momento del suicidio. Le carceri che hanno registrato il maggior numero di suicidi sono state quelle di Foggia, con cinque persone che si sono uccise e una di cui è invece ancora da accertare la causa della morte, quello di Torino alle Vallette, con quattro suicidi e una morte “per causa da accertare”, e di Milano San Vittore, con quattro suicidi. Sono tutte gravemente sovraffollate: il carcere di San Vittore a Milano ha un indice di sovraffollamento del 184,82%, quello di Foggia 160,04% e quello di Torino 136,14%. È un dato significativo, però è anche vero che il carcere dell’Ucciardone, a Palermo, dove ci sono stati tre suicidi, è pieno solo per il 70,59%. Lo stesso vale per quello di Vibo Valentia: due suicidi e il tasso di 94,26%. Un dato piuttosto significativo è che nel 2022 nel carcere milanese di San Vittore ci sono stati 5.119 eventi critici e 573 atti di autolesionismo; i tentativi di suicidio sono stati 56. Nel carcere di Foggia, che ha una presenza media di 550 detenuti contro i 926 di Milano, gli eventi critici sono stati 1.469, 1.272 gli atti di autolesionismo e 19 i tentativi di suicidio. Nel decennio tra il 2012 e il 2022 il più alto numero di suicidi si è verificato nel carcere di Poggioreale, a Napoli, dove 11 persone si sono uccise, Cagliari (17 suicidi) e Firenze (17). A Como, dove la presenza media dei detenuti è di 421 persone, cioè più bassa delle altre carceri dove sono avvenuti più suicidi, nell’ultimo decennio si sono uccise 11 persone. I tentativi di suicidio sono stati 171. Il 68% per cento dei casi di suicidio è avvenuto tra detenuti in sezioni di custodia aperta, mentre il 32% in sezioni di custodia chiusa. Custodia chiusa significa che le cosiddette “camere di pernottamento”, le celle, restano aperte solo per le otto ore previste dal regolamento generale nazionale e la partecipazione ad attività lavorative è prevista solo all’interno della stessa sezione. La custodia aperta invece prevede l’apertura delle camere di pernottamento fino a 14 ore al giorno e la possibilità di partecipare ad attività sportive, lavorative e di formazione anche al di fuori della propria sezione.  Tra le persone che si sono suicidate, 11 avevano patologie psichiatriche diagnosticate. Solo in tre casi il suicidio è avvenuto in sezioni dove le persone potevano essere curate, in un’infermeria o in una Articolazione per la tutela della salute mentale in carcere, una sezione speciale con servizi di assistenza rafforzati. Ha detto ancora Daniela de Robert: “È il vuoto a caratterizzare ancora troppe carceri italiane: la dimensione di un tempo che scorre inutilmente semplicemente sottratto alla vita che non riesce a diventare un’opportunità di crescita di cambiamento, e poi reinserimento costruttivo per i detenuti, come ci chiede la Costituzione”. Ancora un suicidio in cella: si chiude l’annus horribilis del carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 dicembre 2022 Giovedì notte un giovane di soli 20 anni dalla doppia nazionalità italo-albanese, è stato trovato morto nella cella del carcere di Pavia. Si è tolto la vita arrotolandosi il lenzuolo attorno al collo e stringendolo fino a strangolarsi. Il 2022 si conclude con 83 suicidi. Finisce così l’Annus horribilis per quanto riguarda i decessi in carcere. Un numero di suicidi mai avuto negli ultimi vent’anni. Il carcere, quindi, continua a mietere vittime. Un anno che sembra aver fatto una strage di giovani e l’ultima tragedia sembra confermarlo. Dal recente studio pubblicato dal Garante nazionale delle persone private della libertà, col quale si è esaminato un campione di una quindicina di casi per tentare una possibile decodifica dell’incremento recente dei suicidi, si rileva che ben nove hanno riguardato giovani al di sotto dei trent’anni e altri tre tra i trenta e i quarant’anni: tutte persone che non avevano già vissuto una esperienza di lunga detenzione; al contrario, ben otto (quindi più della metà) era in attesa del giudizio di primo grado. Altro elemento che emerge dall’introduzione dello studio a firma di Mauro Palma, è la correlazione che a prima vista appare diretta con diversi casi di suicidio: si tratta di persone già segnalate all’interno dei cosiddetti “eventi critici”, non solo di natura autoaggressiva, molto spesso con un passato di disturbi comportamentali già segnalati. Si conferma simmetricamente la percentuale alta di coloro che, definitivi, erano prossimi al termine dell’esecuzione penale. Un quadro che tende a dare l’immagine di una difficoltà soggettiva amplificata nel rapporto improvviso non solo con la privazione della libertà, ma con la sua concretizzazione in un ambiente degradato dove alla percepita irrilevanza da parte del mondo esterno si aggiunge la specifica irrilevanza vissuta all’interno di un ambiente stressato e impersonale. A parte la recente circolare del Dap che ha cercato di dare avvio - senza ancora una riforma radicale da parte della politica - a ciò che è stato indicato dalla commissione Ruotolo, ancora nulla di concreto è stato realizzato. Ma cosa bisogna fare per evitare un altro anno in cui le nostre carceri appaiono piene di cappelle mortuarie e dove le celle possono essere scambiate con dei veri e propri “cubicoli”? Il Dubbio non può che affidarsi alle osservazioni del Garante nazionale stesso. La prima direzione verso cui agire è quella di una immissione di figure di mediazione sociale e supporto all’interno degli Istituti, con profili differenziati così come molteplice è ormai la complessità esterna, ridefinendo, quindi, le professionalità esistenti e investendo, oltre che sul numero, sulla tipologia del loro intervento: non può essere un compito affidato agli agenti penitenziari. La seconda direzione va anch’essa nella riduzione della distanza con l’esterno: sia nel forte incremento delle possibilità di connessione - ovviamente in condizioni di sicurezza - con i propri affetti, sia nella loro regolata normalità e nell’utilizzo positivo di quanto offerto con ritmi sempre più serrati dalle tecnologie della comunicazione e dell’informazione. Ed è ciò che il vicecapo del Dap Carmelo Cantone ha già spiegato a Il Dubbio: ovvero proseguire e potenziare le novità introdotte durante l’emergenza covid. La terza direzione indicata dal Garante deve andare nella riduzione dei numeri e nella conseguente maggiore presa in carico delle persone soprattutto al loro ingresso. Una riduzione da non ricercare con soluzioni temporanee, provvisorie, destinate a essere superate dall’inevitabile ripresentarsi della difficoltà dopo un certo tempo. Occorre restringere la platea delle persone in carcere. E infatti tuttora risultano 1492 detenuti che scontano una pena inferiore a un anno, mentre altri 2608 scontano una pensa compresa tra uno e due anni. Perché sono in carcere? Non aiuta pensare che ora rientreranno in carcere 700 persone in semilibertà, dopo che per due anni e mezzo hanno usufruito di licenze continuate che permettevano loro di trascorrere le notti a casa. Ci si augura che il ministro della giustizia Carlo Nordio, indubbiamente sensibile alla tematica, accolga le varie osservazioni. Comprese quelle riportate nell’appello de Il Dubbio. Antigone: “Il 2022, l’anno dei suicidi, ci dice della necessità di riformare il sistema” di Andrea Oleandri* Ristretti Orizzonti, 31 dicembre 2022 Il 2022 sta volgendo al termine è per il carcere verrà ricordato come l’anno dei suicidi. Sono stati ben 84 quelli avvenuti negli istituti di pena italiani. Uno ogni 5 giorni. In carcere, quest’anno, ci si è tolto la vita circa 20 volte in più di quanto non avviene nel mondo libero. Un detenuto ogni 670 presenti si è ucciso. Il precedente primato negativo era del 2009, quando in totale furono 72. Ma all’epoca i detenuti presenti erano oltre 61.000, 5.000 in più di oggi.  “All’epoca - ricorda Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - eravamo alla vigilia del periodo che portò poi l’Italia alla condanna della Corte Europea dei Diritti Umani per violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea, per il trattamento inumano e degradante. Alcune iniziative parlamentari furono prese. Non vedere negli 84 suicidi di quest’anno un segnale altrettanto preoccupante delle condizioni in cui versano le carceri del paese è ingiustificabile”. Il sovraffollamento, dopo la deflazione delle presenze a seguito della pandemia, sta tornando a livelli preoccupanti. I detenuti sono quasi 57.000. I posti regolamentari sono 51.000, anche se sappiamo che di quelli conteggiati circa 4.000 sono indisponibili. Possiamo dire, quindi, che ad oggi ci sono nelle carceri italiane circa 9.000 persone in più rispetto alla capienza regolamentare. Questo significa aggiungere letti in celle non pensate per ospitare quel numero di detenuti. Delle 99 carceri visitate nel corso del 2022 dall’Osservatorio di Antigone, nel 39% degli istituti sono state trovate celle dove il parametro minimo dei 3 mq di superficie calpestabile a testa non era rispettato. “Entrare anche solo pochi minuti in una cella dove non c’è neanche questo spazio minimo è un’esperienza claustrofobica - sottolinea Gonnella. Specie laddove le celle vengono condivise da 5-6 persone. Viverci quotidianamente rende la detenzione ulteriormente gravosa”. Gravosa anche a fronte del fatto che nel 44% delle carceri Antigone ha rilevato celle senza acqua calda, nel 56% celle senza doccia (che sarebbero dovute non esistere più dal 2005), nel 10% c’erano celle in cui non funzionava il riscaldamento, e in ben 6 istituti (9%) c’era celle in cui il wc non era in un ambiente separato dal resto della cella da una porta.  Sono insufficienti le opportunità lavorative, di studio, di svolgimento di attività. Tutti fattori fondamentali nel percorso di reinserimento sociale delle persone detenute. E, infatti, nelle carceri il lavoro continua a essere scarso. Sempre relativamente ai dati rilevati nelle 99 visite dell’Osservatorio, solo il 30% dei presenti lavoravano e, di questi, solo il 4,4% per datori di lavoro esterni. In media il 7,3% dei presenti partecipava a corsi di formazione professionale ed il 28% a corsi scolastici. Lo stato di salute dei detenuti è anch’esso un problema che va preso in seria considerazione. La pandemia ha avuto un impatto drammatico sulla salute mentale di tutti. Il riconoscimento di ciò, attraverso la previsione del bonus psicologico, rende questo fatto evidente. Chi entra in carcere, oggi, è ancora più fragile di quanto non avvenisse in passato. Eppure, proprio in carcere, la tutela della salute mentale non ha subito interventi incrementali. All’8,7% dei detenuti era stata diagnosticata una patologia psichiatrica grave, il 18,6% assumeva regolarmente stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi e ben il 42,4% sedativi o ipnotici ed il 18,9% erano tossicodipendenti in trattamento. A fronte di questo c’erano 8,3 ore la settimana di copertura psichiatrica ogni 100 detenuti e 17,2 ore la settimana di servizio psicologico.  Ulteriore problema è quello che riguarda il personale. Se per quanto riguarda la polizia penitenziaria ci sono, in media, 1,8 detenuti per ogni agente, il dato dei funzionari giuridico-pedagogici (educatori) è preoccupante, con un operatore per 93 detenuti, mentre solo il 57% degli istituti aveva un “proprio” direttore, incaricato a tempo pieno. “Da questi dati - spiega Patrizio Gonnella - si comprende come il carcere abbia necessità di interventi di riforma profondi. Occorre innanzitutto incrementare le misure alternative alla detenzione. Ci sono migliaia di persone che potrebbero scontare la loro pena fuori dagli istituti di pena e persone che, per il reato commesso e la loro condizione personale - tossicodipendenza, disturbi psichiatrici - andrebbero presi in carico dalle strutture del territorio, evitando di trasformare le carceri in un luogo dove si rinchiudono le persone che non si è in grado di gestire fuori. Questo aiuterebbe anche il lavoro del personale, che andrebbe incrementato in tutte le funzioni e gratificato dal punto di vista sociale ed economico per il lavoro complesso e difficile che si trova a svolgere. Andrebbe poi modernizzata la vita interna, garantendo maggiori collegamenti, anche elettronici, con il mondo esterno. Quello all’affettività è un diritto che deve diventare centrale nel sistema penitenziario italiano fermo, da questo punto di vista, a disposizioni di oltre 40 anni fa. Una direzione da intraprendere era stata indicata dalla Commissione per l’Innovazione del Sistema penitenziario guidata dal Prof. Marco Ruotolo. Quelle proposte sono a disposizione della politica, pronte ad essere rese operative” conclude il presidente di Antigone. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Giustizia minorile, rivoluzione incompiuta di Vincenzo Morgera, Silvia Ricciardi, Giovanni Salomone* La Repubblica, 31 dicembre 2022 L’evasione di sette minori dall’Ipm Beccaria di Milano, per gli addetti ai lavori, è la cronaca di un fallimento ampiamente annunciato. Che non riguarda solo il Beccaria considerato che fughe e risse tra bande sono accadute anche negli Ipm di Nisida e Airola e accadono nelle comunità che accolgono minori dell’area penale. Un fallimento dovuto anche al fatto che il modello degli Ipm come quello delle comunità non può reggere la presenza contemporanea di minorenni e giovani adulti (anche 25enni) in esecuzione pena. Un fallimento che trova una sua ragione nel disinvestimento nel welfare che negli ultimi anni è stato molto massiccio ed ha provocato precarietà e demotivazione tanto nel privato sociale quanto nel pubblico. I modelli di contrasto ad un fenomeno che negli anni si è trasformato da “devianza minorile” in “criminalità minorile” non sono adeguati ad affrontare la complessità dei problemi e i cambiamenti che hanno trasformato la società e gli stessi minori che delinquono. Dopo oltre trent’anni dall’entrata in vigore del Dpr 448/88, fiore all’occhiello della giustizia minorile del nostro paese che per il suo forte approccio garantista e tutelante ha portato alla creazione delle comunità come servizio centrale e alternativo al carcere per i minori in conflitto con la giustizia, bisogna fare un bilancio e apportare i necessari correttivi per continuare a dare un senso e un significato a questa rivoluzione incompiuta. Una rivoluzione incompiuta specialmente nella nostra regione, dove la presenza forte della camorra si intreccia con l’annosa questione meridionale generando una emergenza che si autoalimenta proprio per la mancanza di risorse e di un approccio adeguato alla complessità del fenomeno. Una emergenza che non si può solo leggere in maniera deterministica con il paradigma della fragilità dei minori che ormai è anacronistico se si pensa che le figure degli scugnizzi, dei moschilli sono state sostituite dalle paranze al sud e dalle bande al nord. Appare evidente, a chi proviene dal privato sociale e ha investito nel lavoro di comunità, che tutto ciò che abbiamo costruito in questi decenni, che pensavamo fosse stabile e duraturo, frutto del sudore di fatiche materiali e intellettuali straordinarie è stato attaccato dalla riduzione strutturale degli investimenti economici e dalla mancata innovazione dei modelli per affermare i diritti sociali e civili. Questa mancanza di risorse, a cui progressivamente ci siamo abituati, ci ha ridotto, lo pensiamo autocriticamente, ad una resa silenziosa e passiva, mentre vi è una grande necessità di continuare ad essere anticipatori e soggetti attivi e partecipativi della vita pubblica. Per non esporsi ai rischi della generalizzazione e della banalizzazione bisogna chiedersi seriamente cosa non funziona e come va cambiata. Abbiamo assistito alle lusinghe della privatizzazione selvaggia e dell’efficientismo burocratico affaristico, parti di un modello che si è insinuato nel lavoro sociale e che ha, in parte, contagiato le stesse comunità che accolgono minori dell’area penale. Ci siamo arresi alle leggi del mercato dove la domanda crea l’offerta lasciando spazio ad una approssimazione che mortifica la competenza. Ed è proprio in questi spazi di privatizzazione a basso costo che si inseriscono gli approcci selvaggi e condizionamenti di vario genere; è qui che è venuta meno una politica di vigilanza e controllo della qualità dell’offerta. L’esperienza di questi anni insegna che il lavoro sociale che si fa con i ragazzi dell’area penale non incrocia la responsabilità di tutti. Anzi, tutto si riduce ad una disputa tra garantisti e giustizialisti. Come se queste fossero le uniche risposte per contrastare il fenomeno e aiutare i ragazzi. La responsabilità per i ragazzi, per le comunità e per le istituzioni è la parola chiave su cui costruire un percorso alternativo alla devianza. Una strada che richiede impegno e duro lavoro per superare difficoltà ed ostacoli che noi operatori di comunità conosciamo bene. Quando le istituzioni pubbliche di riferimento, deputate alla gestione dei minori dell’area penale, non affrontano la grave crisi adeguando le rette per il collocamento dei minori in comunità ferme all’entrata in vigore dell’euro, esse uccidono la speranza. Se non si supera una collaborazione costruita sulla debolezza contrattuale delle comunità tutta orientata ai doveri con pochissimo spazio per i diritti dei lavoratori, si producono precarietà e insicurezza. La mancanza di tutele e garanzie ha innescato al nord come al sud una fuga degli operatori dal lavoro in comunità, con perdita di competenze e professionalità. Quando non si sostiene e non si incentiva la sperimentazione e l’innovazione degli strumenti di intervento che superino il modello unico dominante puntando sulla competenza, la professionalità e la specializzazione dell’intervento per garantire ai ragazzi dell’area penale una concreta chance di recupero, si uccide la speranza. Se non si riconoscono e si sostengono le buone pratiche che costano sacrifici, si uccidono i sogni di chi crede nel lavoro sociale. Queste poche ma irrinunciabili cose le abbiamo imparate prima da cittadini e volontari e poi rafforzate da professionisti nelle diverse forme d’impegno civile sulla frontiera educativa dove operiamo. Questo approccio professionale ed etico viene praticato nella solitudine di una rete istituzionale solo teorica. Pensiamo sia arrivato il momento di riempire questo vuoto con un dialogo culturale e scientifico, oltre che normativo ed operativo, sulle regole e sui regolamenti da applicare, sul riconoscimento dell’identità professionale degli educatori: una vera concertazione con la pubblica amministrazione per dare un segnale di cambiamento che tutti attendono e non è più rinviabile. *Gli autori sono membri della Associazione Jonathan Paola Ziccone: “Auspico un umanesimo carcerario per i minorenni” di Egidio Lorito Panorama, 31 dicembre 2022 All’indomani della fuga dal Beccaria di Milano di sette giovani detenuti (cinque dei quali già fermati) Paola Ziccone traccia un quadro della giustizia minorile in Italia: “Non si investe abbastanza per reinserire i giovani che commettono dei reati”. Dopo la fuga del giorno di Natale si sta lavorando per riportare la calma. I sette fuggiaschi (cinque italiani, un ecuadoriano e un marocchino, tutti tra i 17 ed i 18 anni, nessuno condannato con sentenza definitiva, ma tutti in carcere per furti e rapine), approfittando dei lavori in corso nella struttura milanese, si erano dapprima aperti un varco nella recinzione ed avevano poi scavalcato il muro di cinta. Non era mancata neanche la classica scena da evasione, come in un film, con tanto di lenzuolo calato per favorire la fuga. E dopo l’allarma scattato nel pomeriggio dello scorso 25 dicembre, con le guardie accortesi della fuga dei sette giovani detenuti, cinque sono già stati ricondotti dietro le sbarre. Ma la gravità della situazione resta tutto sullo sfondo. Panorama ha incontrato Paola Ziccone, direttrice dell’Area Esecuzione dei provvedimenti del Giudice minorile del Centro Giustizia minorile della Regione Emilia-Romagna e Marche per una riflessione sulla giustizia minorile in Italia. Direttrice, il suo è un osservatorio privilegiato per conoscere il fenomeno della giustizia minorile… “La situazione generale mostra segnali di crisi che questi tre anni di allarme pandemico hanno contribuito ad aggravare. La fascia adolescenziale risulta estremamente colpita perché non si è stati in grado di rispondere con risorse strutturali adeguate, pur in presenza, nel settore minorile, di modelli giuridici al passo con i tempi, che prevedono misure alternative al carcere e che i tribunali già applicano in grande numero. Il settore penale sta subendo aggravamenti fin troppo spesso sovrapponibili a quelli riguardanti la carcerazione adulta: il rischio è di trasformare la legislazione penale minorile in un pessimo duplicato di quella già destinata agli adulti”. Percepiamo un non celato pessimismo sullo stato dell’arte… “Perché l’esperienza personale mi ha letteralmente sbattuto in faccia problematiche che l’opinione pubblica pensa siano riferite soltanto alla carcerazione degli adulti: molti dei ragazzi attualmente detenuti negli istituti di pena per minori hanno attraversato percorsi di vita assolutamente problematici senza che noi tutti - lo Stato e la società civile, insomma - avessimo posto rimedio ad un profondo disagio giovanile. Scuola, famiglia e servizi territoriali ancora una volta si sono dimostrati del tutto inadeguati a gestire l’emergenza, divenuta spesso tragica ordinarietà”. La caduta verso l’inferno carcerario rimane uno spettacolo desolante… “Proprio perché le istituzioni stesse, ancora una volta, non sono in grado di rispondere correttamente alle legittime istanze di persone poco più che ragazzini: l’agito aggressivo nei confronti degli altri viene scambiato per semplice commissione di reati, quando invece, il più delle volte, rappresenta la disperata richiesta di aiuto e di attenzione che rimane senza risposta. E proprio dopo la pandemia abbiamo registrato un’impennata negli ingressi in carcere di giovanissimi giunti evidentemente all’ultimo stadio dei loro inascoltati bisogni o disturbi psicologici”. Come operatori sembrate avere le mani legate… “Questo è il vero dramma. Nonostante la legge penale minorile vada incontro alle problematiche giudiziarie dell’età giovanile, assistiamo ad una riduzione delle risorse messe a disposizione per evitare la carcerazione nel caso di ragazzi che potrebbero fruire di percorsi alternativi alla detenzione carceraria (messa alla prova, collocamenti in strutture socio-assistite, permanenza domiciliare)”. Ci fa un esempio? “Molti dei ragazzi che finiscono in carcere vanno incontro a questo destino ancor più pericoloso perché non è stata individuata sul territorio di loro provenienza un’adeguata comunità educativa o terapeutica in grado di accoglierli. E le ragioni vanno spesso ricercate nella storica carenza di educatori che, non sufficientemente supportati e formati e sicuramente anche mal retribuiti, non si vedono riconosciuti, a loro volta, quel giusto profilo professionale che era loro stato fatto immaginare”. La conseguenza è immaginabile… “Se le comunità del privato sociale disponibili ad accogliere minorenni diminuiscono per carenza di figure educative, quella del carcere diventa l’unica porta che si aprirà ai giovani incappati nelle maglie della giustizia, qualunque sia stato il motivo della commissione di un reato”. Ecco la scollatura tra Paese reale e Paese legale… “È la triste immagine con cui mi confronto quotidianamente! E così le comunità di recupero, che pur potrebbero rappresentare l’alternativa al carcere, si vedono private della possibilità di svolgere la loro funzione sociale, con l’effetto del conseguenziale sovraffollamento carcerario anche minorile”. Ci ha anticipato… “Allo scorso gennaio erano 316 i minori e giovani adulti (ovvero persone fino a 25 anni d’età) detenuti all’interno dei 17 Istituti penali minorili dislocati sul territorio nazionale tra Caltanissetta e Treviso. Di fatto non c’era mai stato bisogno di ulteriori posti per la semplice ragione che sino a qualche anno addietro registravamo un buon funzionamento delle misure alternative al carcere. La legge penale minorile è stata praticata con enorme successo”. Ci sono evidenti ragioni di politica criminale... “Se si pensa che a fronte di migliaia di ragazzi gravati da una misura penale che viene scontata fuori dal carcere, grazie a progetti educativi e percorsi individualizzati dei servizi sociali e territoriali, il numero dei minori in carcere è così esiguo, si deve comprendere che le risorse economiche e umane devono continuare a essere impegnate soprattutto per fare in modo che in carcere non ci entri quasi più nessuno e che quei pochi possano godere in carcere di spazi adeguati e attività educative sufficienti e personale necessario”. E di equilibrio dei bilanci… “La circostanza dell’assenza di investimento nel settore della giustizia minorile rema evidentemente contro la totale risoluzione dei problemi di settore”. Lei sicuramente conoscerà anche lo stato degli istituti di pena minorili… “Per quanto riguarda le strutture ci riferiamo ad Istituti penali nati appositamente per ospitare comunità di giovani: quindi o si tratta di istituti di nuova concezione architettonica o di altra tipologia convertita. A Bologna (il “Pietro Siciliani”), e a Firenze (l’Antonio Meucci), ad esempio, due conventi sono stati convertiti in carceri minorili, con notevoli benefici anche d’immagine”. Preoccupano anche i profili giudiziari della giustizia minorile… “Si tratta, certamente, del dato più allarmante, anch’esso in fase di peggioramento. La circostanza che la maggior parte di tribunali italiani, sia per adulti che per minori, continui a ricorrere a misure cautelari (mi riferisco al tema della c.d. carcerazione preventiva) provoca un pericoloso effetto domino anche in riferimento alla giustizia minorile che sembra essersi adeguata all’andazzo degli ultimi anni, con grave nocumento a carico delle più fragili personalità coinvolte. Si tratta di un’aberrazione dell’esecuzione penale in Italia che tra l’altro non trova riscontri in altre legislazioni europee”. Ma anche la legislazione penale minorile prevede misure alternative… “Esatto. Prevede espressamente che le misure cautelari possano essere scontate prevalentemente all’esterno degli istituti carcerari, proprio per non compromettere la fragile personalità dei ristretti. E invece succede che il tessuto sociale esterno non appaia ancora pronto ad accogliere giovani bisognosi di particolari percorsi rieducativi e di risocializzazione”. Le conseguenze sono immaginabili… “L’assenza di istituti alternativi idonei non fa altro che aggravare la già pesante situazione psicologica, con gli effetti che forse si sono materializzati il giorno di Natale, con la rivolta e la successiva evasione di sette giovani dall’Istituto Cesare Beccaria di Milano”. Il carcere degli adulti non è certo il meglio per un minorenne… “Assolutamente no. La legge stabilisce che venga trasferito nel carcere per adulti chi abbia compiuto il 25esimo anno di età. Si tratta di un passaggio radicale specie dopo aver fatto un certo percorso: a questo punto dovremmo cercare di curare il più possibile la transizione tra i due sistemi carcerari, soprattutto perché la struttura per adulti non è certo vista come luogo di effettiva ri-educazione”. E neanche per chi è da poco maggiorenne… “Allo stesso tempo dobbiamo porci il problema di far convivere ultra diciottenni e minorenni, con percorsi educativi e luoghi fisici differenziati. Tutti dovrebbero avere la possibilità di stare in carcere senza subire la condanna ulteriore della mancanza di rispetto della dignità umana. E a maggior ragione questo vale per un ragazzo minorenne che ha fatto un percorso che la detenzione carceraria potrebbe vanificare”. È nota la sua formazione cristiana ed il suo storico rapporto con il Card. Matteo Zuppi, neo presidente della Cei… “La mia esperienza in carcere e da ultimo l’incontro fatto con il cardinale Zuppimi hanno fatto virare risolutamente verso il paradigma della “giustizia riparativa”: anche strategicamente, pragmaticamente, la via di uscita dalla spirale della violenza e del delitto è un percorso esattamente contrario alla vendetta, al contrario di come il carcere oggi è visto dai giovani detenuti. Nelle parole del Cardinale ho ritrovato conferma della verità di queste constatazioni”. La sua, direttrice, è in ogni caso una posizione eticamente orientata… “Anni fa, dopo che nella struttura che dirigevo si verificò un’evasione, dichiarai nel corso di un’intervista che fosse “meglio un’evasione che un suicidio”. Ne sono ancora convinta. Si tratta di un’affermazione forte, certo, ma che dovrebbe orientare l’operato quotidiano di quanti, a tutti i livelli, vivono nel mondo della detenzione. L’aumento esponenziale dei suicidi tra le mura carcerarie avvenuto quest’anno non ha nulla di più devastante non solo per chi è vicino al detenuto suicidatosi ma anche per chi ha responsabilità nella struttura detentiva”. Affermazione forte… “So di poter nuovamente suscitare un vespaio di polemiche, ma io sono profondamente convinta che lo spirito che anima l’essenza dell’esecuzione penale contenuto in Costituzione è di educare alla responsabilità e di farlo da persone responsabili della vita degli altri, non da vendicatori. Del resto la condanna che la Corte europea dei diritti umani ha irrogato all’Italia per trattamento disumano nel sistema carcerario dimostra che è ora di cambiare registro”. Riuscirà il nostro Paese ad invertire la rotta? “Non dimentichiamo che dobbiamo ad una personalità come quella di Aldo Moro l’elaborazione dell’art. 27 della nostra Costituzione. Purtroppo la rieducazione carceraria se non viene accompagnata da un cambiamento culturale dell’intera società disposta a spendere le necessarie risorse, rischia di restare una mera illusione…”. Paola Ziccone vive a Bologna dove nel 1987 si è laureata in giurisprudenza con una tesi di diritto minorile e ha conseguito l’abilitazione da avvocato. Ha preferito poi dedicarsi all’esecuzione penale minorile dirigendo gli istituti penali di Firenze e - per 10 anni - il “Pratello” di Bologna. Oggi è direttore dell’Area Esecuzione dei provvedimenti del Giudice minorile del Centro Giustizia minorile della Regione Emilia-Romagna e Marche. Ha pubblicato nel 2021 con il cardinal Zuppi, da qualche mese presidente della Conferenza Episcopale Italiana, “Verso Ninive. Conversazioni su pena, speranza, giustizia riparativa”. Ma ora tocca a noi: non spegniamo i riflettori sul “Beccaria” di Pierfrancesco Majorino Il Dubbio, 31 dicembre 2022 Dopo aver accompagnato in questura uno dei ragazzi evasi, ho riflettuto sul valore della pena. E sulla necessità di garantire ai giovani detenuti opportunità di formazione e lavoro per costruirsi un futuro oltre le sbarre. Nel contribuire ad accompagnare il ragazzo che ha deciso di costituirsi dopo essere evaso dal “Beccaria” mi è venuta alla mente una riflessione di Aldo Moro sul valore della pena: “Se (la pena ndr) la si concepisce, come credo debba esser concepita, come un fenomeno morale, come una riproposizione che si faccia di fronte al soggetto del valore ch’egli ha smarrito con la sua azione illecita, la riproposizione della permanente validità del bene, allora non si può pensare che vi sia veramente qualche cosa che incide in modo indebito nella persona umana”. In questi giorni ho pensato a Moro - e agli altri padri costituenti a cui mi sento culturalmente più vicino - che hanno scritto l’articolo 27 della nostra Costituzione. Quelle donne e quegli uomini che avevano patito sotto il regime fascista, avevano trovato e identificato nella pena il suo valore rieducativo. Ma cosa vi è di rieducativo in una struttura carceraria lasciata letteralmente sola? E ancora, quanto il carcere può essere educativo per i ragazzi e quanto invece si dovrebbe ricorrere ad esso il meno possibile privilegiando altri percorsi? Non vi è da scomodare Voltaire nel ricordare che un Paese si misura per il livello delle sue carceri. L’Italia, se per questo, è già stata condannata dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo più e più volte. Ci ricordiamo delle strutture carcerarie quando avvengono fatti eclatanti come evasioni e rivolte. Poi spegniamo i riflettori. E ci affidiamo al lavoro, spesso improbo, del personale carcerario, sotto organico, e a quanti come i volontari delle diverse associazioni (quali ad esempio Antigone) e i cappellani offrono un aiuto e una vicinanza preziosissima. Don Claudio Burgio, il cappellano del Beccaria che ha raccolto la pesante eredità di Don Gino Rigoldi, ha posto un tema che trovo decisivo. Cito da una sua intervista a Avvenire “ai ragazzi mancano figure di riferimento su cui poter fare affidamento e con cui fare un percorso condiviso”. Penso sia questo un tema nodale. Lo penso pure da genitore. Il mio figlio più grande ha pochi anni meno del ragazzo che ho accompagnato in Questura a Milano e che ha deciso di riconoscere l’errore fatto. Penso che alle ragazze e ai ragazzi che popolano il Beccaria - come gli altri istituti di pena minorili - manchino proprio figure di riferimento che spesso non hanno trovato nei loro contesti di provenienza. Il turn over continuo di educatori e agenti penitenziari non aiuta. Non è poi possibile creare socializzazione, investire sul suo straordinario valore, il valore del “legame”, che è, a mio parere, la base del cammino rieducativo. Rieducazione che passa per educazione e formazione. A quelle ragazze e a quei ragazzi deve essere data la possibilità di immaginarsi - e realizzare - un futuro. Come? In particolare attraverso il lavoro e l’indipendenza. Un esempio viene proprio dall’interno del Beccaria ove opera una cooperativa - Cidiesse - che da anni non solo insegna una professione - i quadri elettrici complessi che realizzano si trovano in aziende come Ferrari, Bracco e altre - ma agisce a fianco dei giovani per aiutarli a costruire prospettiva di vita. Quando i ragazzi si trovano al “fine pena” possono proseguire il loro percorso formativo fuori. Il guaio è che non sempre i tempi della legge camminano allo stesso modo con i posti esterni disponibili. Succede perfino, e me lo ha evidenziato il Presidente della Cooperativa, che qualche ragazzo chieda di non essere scarcerato finché non si liberi un posto presso la struttura esterna per così completare il percorso formativo. È necessario allora un maggiore impegno perché si creino sempre più occasioni di lavoro e formazione professionale altamente qualificata all’interno delle carceri. Penso che una Regione debba stimolare e promuovere al massimo l’impegno formativo professionale in questi contesti. La formazione professionale è uno dei compiti più importanti attribuiti alle Regioni al pari della sanità e del trasporto pubblico locale. La formazione professionale può essere proprio una leva per arrivare alla rieducazione del condannato secondo il principio costituzionale. Ma la formazione professionale fine a sé stessa non basta. Serve stabilità nelle figure di riferimento che affiancano i ragazzi per aiutarli a crescere. E far capire loro che il carcere è una parentesi nella loro vita per diventare uomini e donne migliori. E noi, tutti noi, dobbiamo una volta per tutte smettere di ricordarci del carcere solo per i fenomeni eclatanti. Peggiorano le condizioni di Cospito: “Ha perso 35 chili. Il suo cuore potrebbe fermarsi” La Repubblica, 31 dicembre 2022 È in sciopero della fame per protesta contro il regime del 41 bis. L’allarme dei medici: “Preoccupante calo di potassio necessario per il corretto funzionamento dei muscoli involontari tra cui il cuore”. Le condizioni di salute dell’anarchico Alfredo Cospito stanno peggiorando. Cospito è in sciopero della fame da due mesi per protesta contro il regime del 41 bis. “Attualmente ha perso 35 kg e ha avuto un preoccupante calo di potassio necessario per il corretto funzionamento dei muscoli involontari tra cui il cuore. I medici, allarmati dal peggioramento, gli hanno somministrato degli integratori specifici”, riferisce il suo difensore l’avvocato Flavio Rossi Albertini. Nei giorni scorsi la difesa di Cospito ha presentato ricorso in Cassazione contro l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Roma che il 19 dicembre ha rigettato il ricorso contro l’applicazione, nei suoi confronti, del regime carcerario speciale del 41 bis. Secondo i giudici, Cospito, detenuto nel penitenziario di Sassari, sarebbe tuttora parte attiva di “un organismo, unitario, strutturato, sovrastante rispetto alle persone e ai gruppi che ne fanno parte”; e “la partecipazione del singolo all’associazione si estende ben oltre il solo momento dell’azione”. L’applicazione del regime speciale sarebbe finalizzata, pertanto, a interrompere il vincolo associativo con il detenuto. Infatti, “il regime ordinario, anche in Alta Sicurezza, non consente di contrastare adeguatamente l’elevato rischio di comportamenti orientati all’esercizio, da parte del Cospito, del suo ruolo apicale nell’ambito dell’associazione di appartenenza”. Poco prima di Natale Albertini aveva riferito che il suo assistito “è lucido, determinato, consapevole delle conseguenze della sua scelta”, e che non intende arretrare. Ora, dopo l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Roma, resta solo il ricorso in Cassazione. I tempi della giustizia rischiano di non coincidere con quelli di un corpo che deperisce per affermare il proprio diritto alla dignità. Da Roma a Parma, il “viaggio della speranza” nelle carceri italiane Il Dubbio, 31 dicembre 2022 L’iniziativa di Nessuno tocchi Caino e Camere penale: il tour a tappe negli istituti di pena da domani fino al 7 gennaio. Finisce il 31 dicembre del 2022 con la visita a Regina Coeli e ricomincia il 2 gennaio del 2023 con il Laboratorio “Spes contra Spem” a Opera il “Viaggio della speranza” nei luoghi di pena organizzato da Nessuno tocchi Caino (presenti i dirigenti Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti, Roberto Giachetti e Umberto Baccolo) in collaborazione con le Camere Penali. Il giro nei primi giorni del nuovo anno prevede tappe anche negli istituti di Novara, Torino, Varese, Busto Arsizio e Parma dove, nelle intenzioni degli organizzatori, il “visitare i carcerati” non è solo un’opera di misericordia: ha lo scopo anche di ascoltarli, verificare le loro condizioni di vita materiale e raccontarle, ma soprattutto di infondere fiducia e speranza in chi rischia di prevalere sfiducia e disperazione, come testimonia il numero dei suicidi che nel 2022 hanno raggiunto livelli mai visti nella storia italiana. Dopo le visite in carcere si svolgeranno conferenze nel corso delle quali verranno presentati i risultati e le proposte di superamento di una realtà, quella carceraria, che sempre più appare fuori controllo, fuori legge, fuori dal tempo e fuori dal mondo. Ecco il calendario delle visite in carcere e delle iniziative programmate: Roma - Sabato 31 dicembre 2022 Ore 21 - Visita al Carcere di Regina Coeli Con Rita Bernardini, Roberto Giachetti, Alessandra Impallazzo. Milano - Lunedì 2 gennaio 2023 Ore 14 - 16, Carcere di Opera: Laboratorio “Spes contra spem”. Novara - Martedì 3 gennaio 2023 Ore 11 - Visita al Carcere di Novara Con Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti, Umberto Baccolo, Roberto Casonato, Ermir Lushnjari, Alessandro Brustia, Federico Celano, Teresa Luana Nigito, Maria Giovanna Fadda. Ore 15:30 - Conferenza stampa presso lo studio dell’avv. Alessandro Brustia, Presidente della Camera Penale di Novara, Via Fratelli Rosselli 4. Torino - Mercoledì 4 gennaio 2023 Ore 11 - Visita al Carcere di Torino-Lorusso e Cotugno Con Rita Bernardini, Sergio Rovasio, Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti, Umberto Baccolo, Edmondo Bertaina. Varese - Giovedì 5 gennaio 2023 Ore 11 - Visita al Carcere di Varese Con Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti, Umberto Baccolo, Mauro Guglielmini, Ermir Lushnjari, Gianluca Franchi, Fabio Margarini. Sarà presente la deputata di Italia Viva Maria Chiara Gadda. Ore 16 - Conferenza “Basta morte per pena!”, Palazzo Estense (Sala consiliare) Con Davide Galimberti, Fabio Margarini, Roberta Manfroi, Gianluca Franchi, Rita Bernardini, Maria Chiara Gadda, Sergio D’Elia, Don Giuseppe Pelegatta, Umberto Baccolo, Elisabetta Zamparutti. Busto Arsizio - Venerdì 6 gennaio 2023 Ore 11 - Visita al Carcere di Busto Arsizio Con Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti, Umberto Baccolo, Mauro Guglielmini, Ermir Lushnjari, Samuele Genoni, Lorenzo Parachini, Cristina Toffolo De Piante, Mercedes Ariza. Sarà presente la deputata di Italia Viva Maria Chiara Gadda e il Cappellano David Maria Riboldi. Parma - Sabato 7 gennaio 2023 Ore 11 - Carcere di Parma: Laboratorio “Spes contra spem”. Sbarre di Zucchero apre a Roma e Napoli, tante le attività a sostegno dei detenuti di Rossella Grasso Il Riformista, 31 dicembre 2022 All’inizio era un gruppo su Facebook creato dalle amiche di Donatella Hodo, morta suicida in carcere a 27 anni nella terribile estate del 2022. Ma ben presto è diventato molto di più: Sbarre di Zucchero è un megafono che riporta al centro il tema del carcere, soprattutto al femminile. “Quando il carcere è donna in un mondo di uomini”, recita il sottotitolo del gruppo nato fisicamente a Verona ma che in poco tempo di attività ha raccolto partecipanti in tutta Italia: ex detenuti, familiari di detenuti, attivisti, avvocati, volontari, garanti, giornalisti e tutti quanti gravitano intorno al mondo del carcere, ancora troppo spesso relegato ai margini. Ben presto da gruppo online è diventato fisico. In soli 4 mesi le ragazze (e anche i ragazzi che via via si sono aggregati) che hanno dato vita al gruppo hanno organizzato convegni a Verona, raccolta di abiti e generi di prima necessità per l’igiene personale a favore di detenute e detenuti in difficoltà e collaborazioni con i media raccogliendo interesse e partecipazione in tutta Italia. E così che il gruppo ha deciso di aprire altri due distaccamenti: uno a Roma e l’altro a Napoli. Un modo per fare rete e parlare di carcere, di quello che non va e anche delle buone pratiche da promuovere. Mettere insieme le forze per dare supporto ai detenuti e alle loro famiglie che troppo spesso ancora soffrono per le condizioni disumane delle carceri. La prima riunione a Roma si è svolta il 28 dicembre, poi il 29 quella a Napoli. “Saremo presto operativi con eventi live, in presenza, in entrambe le città, perché ci piace metterci la faccia e testimoniare che si fa fatica, tanta, ma un dopo carcere c’è. Andiamocelo a prendere!”, scrivevano su Facebook nell’annunciare l’avvio di questa nuova avventura. “Qual è l’obiettivo di questa rete nazionale che abbiamo lanciato? Dare voce alla detenzione femminile, troppo dimenticata seppur ancora più gravosa, far capire che un ‘dopo carcerè è possibile e non bisogna mai abbandonare la speranza, come purtroppo hanno fatto ben 84 persone in questo terribile 2022 - spiega Monica Bizaj, attivista veronese tra le fondatrici del gruppo - Ma anche portare aiuti concreti, come fatto con la raccolta di indumenti, e come è nostra intenzione fare nel futuro più prossimo, agevolando le opportunità di lavoro e di formazione. In poco meno di 5 mesi dalla nostra nascita abbiamo davvero avuto modo di incontrare molte persone volenterose che hanno accolto con entusiasmo il nostro invito a collaborare sull’intero territorio italiano, ognuno con la sua professionalità, ognuno col suo sapere e la sua esperienza”. “Oltre che aiuti concreti ci prefiggiamo di portare conoscenza e consapevolezza sul mondo penitenziario - continua Bizaj - Al momento siamo ufficialmente presenti a Milano (con Il gabbiano, Loscarcere e Zerografica), Napoli (con la garante dei detenuti della prov. di Caserta, Emanuela Belcuore), Roma (con la garante Gabriella Stramaccioni) e Verona; con l’arrivo del 2023 apriremo un distaccamento anche a Bologna con la collaborazione del Rotary locale. In appoggio alle nostre iniziative anche altri garanti dei detenuti, come Monica Gallo di Torino e Luisa Ravagnani di Brescia e tanti altri”. A Napoli il gruppo appena insediatosi ha già stabilito per i primi di febbraio un Convegno per presentare Sbarre dalle sue origini, e affrontare il drammatico tema dei suicidi in carcere. Poi ampio spazio sarà dato alle testimonianze e ultima parte con istituzioni, garanti, associazioni e camere penali. Sarà promossa anche la raccolta di indumenti e prodotti già attiva in città. L’incontro con l’elemosiniere del Papa e il contributo di Zucchero Fornaciari - Il gruppo è instancabile, un vulcano di idee e soprattutto una fucina di confronto per trovare soluzioni. A conferma di quanto le attività di Sbarre di Zucchero si stiano rapidamente diffondendo a macchia d’olio anche l’incontro del 30 dicembre con l’elemosiniere del Papa. Gli amministratori di Sbarre di Zucchero lo hanno raccontato in un comunicato: “Si è svolto stamattina, venerdì 30 dicembre 2022, l’incontro tra Sbarre di Zucchero, nella persona di Marco Costantini, ed il Cardinale Konrad Krajewsky, Elemosiniere del Santo Padre, che ha fortemente voluto questo incontro dopo essere venuto a conoscenza della nostra realtà a seguito della raccolta di indumenti invernali e beni primari per l’igiene personale per la popolazione detenuta, che abbiamo organizzato ed effettuato anche a Roma. Sbarre di Zucchero vuole ringraziare pubblicamente il Cardinale Konrad Krajewsky per la sua attenzione ai problemi del mondo penitenziario, la sua generosità e le future collaborazioni che verranno”. Poco tempo prima anche la donazione del cantante Zucchero Fornaciari che ha partecipato alla raccolta di indumenti e prodotti per le carceri. Debutta la riforma Cartabia, ecco come cambia il processo penale di Liana Milella La Repubblica, 31 dicembre 2022 La prescrizione, le pene sostitutive e i nuovi poteri del gip. Entra in vigore la riforma scritta dalla ex ministra della Giustizia. Da ieri le nuve norme sono operative. L’obiettivo è ridurre i processi, ma anche la loro durata del 25%. Il nuovo procedimento penale sarà più telematico, con possibili testimonianze a distanza e l’uso massiccio delle videoregistrazioni. Un intervento chiave per rispettare gli impegni presi con l’Europa sul Pnrr.  Prescrizione, non più di due anni per il processo d’Appello - È l’unica parte della riforma Cartabia già entrata in vigore nell’ottobre 2021. Ma è la più famosa, anche se finora non è mai stata applicata perché riguarda i reati commessi dopo il primo gennaio 2020. La Cassazione l’ha giudicata costituzionale. È anche la novità più discussa, come conferma l’ultimo odg Costa che sortirà una pdl per ripristinare la prescrizione che non muore mai. Con la Cartabia resta il blocco della prescrizione in primo grado, come prevede la legge Spazzacorrotti dell’ex ministro Bonafede. Il processo d’appello non può durare più di due anni e un anno quello in Cassazione. Poi il processo “muore”. Per i dibattimenti più complessi è possibile arrivare a tre anni in Appello e 18 mesi in Cassazione. La legge Orlando sospendeva la prescrizione per 36 mesi tra Appello e Cassazione.  Pene sostitutive, niente carcere sotto i 4 anni. Cella e lavoro per chi non paga - In gergo giudici e avvocati li chiamano i “liberi sospesi”. Persone condannate a una pena detentiva fino a 4 anni che, dopo la sospensione automatica dell’ordine di carcerazione, chiedono una misura alternativa e restano liberi ma, appunto, sono “sospesi” in attesa di una decisione del tribunale di sorveglianza. D’ora in poi la pena potrà essere applicata subito dal giudice “di cognizione”. Scegliendo tra pena pecuniaria per condanne fino a un anno, lavoro di pubblica utilità per condanne fino a tre anni, detenzione domiciliare e semilibertà fino a 4 anni. Già oggi, in esecuzione penale esterna, ci sono 73mila persone contro 55mila detenuti. Chi non paga la pena pecuniaria entro 90 giorni finisce in semilibertà. Chi non può pagarla va al lavoro di pubblica utilità. Ma se pagano sono liberi.  Idagini preliminari, i nuovi poteri del gip che ha più controllo sul pm - Cambia il rapporto tra pm e gip. Il giudice avrà un maggior potere di controllo sul pm. Verificherà i tempi dell’iscrizione di una notizia di reato e potrà costringere il pm a retrodatarla, a vantaggio dell’indagato. Una volta scaduti i 6-18 mesi concessi per indagare a seconda della gravità del reato, il pm dovrà archiviare o procedere al rinvio a giudizio. Ma soprattutto potrà farlo se è già in grado di prevedere che le prove in suo possesso consentono “una ragionevole previsione di condanna”. Altrimenti dovrà archiviare, mentre oggi basta poter contare su elementi “idonei a sostenere l’accusa in giudizio”. Comunque, scaduti i suoi termini di indagine, se il pm resta inerte, dovrà procedere alla discovery degli atti. Saranno il gip o il procuratore generale ad affrontare l’inerzia o a concedere più tempo. La procedibilità, si allarga l’area dei reati perseguibili su querela - Per reati come il furto o la violazione di domicilio, ma anche per le lesioni lievi o per le molestie, la violenza privata o il danneggiamento, il pm potrà far partire l’indagine soltanto se la vittima deciderà di presentare una querela. Altrimenti avrà le mani legate e dovrà fermarsi. La regola vale anche per i reati commessi prima dell’entrata in vigore della legge e la querela può essere presentata da ieri. Se invece il reato commesso è “tenue”, punito dalla legge con almeno due anni - a patto che non abbia a che fare con violenza sulle donne, stupefacenti o reati contro la Pa - potrà essere archiviato. Qualora il pm non dovesse farlo, potrà essere il giudice ad applicare la “tenuità del fatto”, tenendo anche conto del comportamento successivo al reato, come aver soccorso subito la propria vittima.  Giustizia riparativa, oltre il processo e la pena c’è la riparazione del danno - Chi ha commesso un reato può “ripararlo”. Il reato non solo sarà perseguito penalmente e quindi punito, ma sarà “riparata” la ferita inferta alle vittime con il delitto stesso. L’imputato e la vittima, presso apposite strutture pubbliche (saranno previsti centri presso ogni Corte di Appello), su base volontaria, sotto la guida di mediatori, potranno partecipare a incontri per prendere le distanze dal reato e quindi riparare il danno. Se il reato è procedibile d’ufficio la pena potrà essere ridotta fino a un terzo. I detenuti, dopo gli incontri con le vittime, potranno essere assegnati al lavoro esterno, ottenere permessi premio e misure alternative alla detenzione, nonché la liberazione condizionale. Se invece il reato è procedibile a querela, partecipare al tavolo della giustizia riparativa chiude il processo. Riforma Cartabia, Caiazza: “Un plauso alle misure alternative alla prigione” di Liana Milella La Repubblica, 31 dicembre 2022 Il presidente delle Camere penali promuove le misure alternative al carcere ma boccia gli ostacoli alle impugnazioni. Sui decreti attuativi: “Hanno in gran parte stravolto le deleghe della riforma”. “Improcedibilità a parte, la grande apertura delle misure alternative al carcere merita un plauso” dice così il presidente delle Camere penali Gian Domenico Caiazza.  Un via libera convinto?  “Abbiamo sempre detto che la riforma contiene riforme importanti che condividiamo. Valga per tutte la parte penale sulle sanzioni, con la grande apertura per quelle alternative al carcere, ma anche i maggiori controlli del giudice sulle indagini preliminari, nonché l’udienza preliminare resa più selettiva rispetto ai rinvii a giudizio. Ma siamo molto critici su altri profili”.  Cosa bocciano gli avvocati? “Gli ostacoli irragionevoli alle impugnazioni e aver previsto un’udienza filtro per i reati di competenza del giudice monocratico che sarà ingestibile o irrealizzabile per mancanza di giudici e personale. Ma non basta. I decreti attuativi hanno in gran parte stravolto e tradito le deleghe della riforma in alcune parti importanti. Tant’è che abbiamo chiesto al ministro Nordio di cambiarli”. Ma allora pure lei vede nei nella Cartabia?  “Le nostre critiche sono diverse da quelle della magistratura. Perché abbiamo a cuore le garanzie difensive messe in crisi da alcune norme della Cartabia”.  Per le toghe è tutta a vostro favore.  “Ci piacerebbe che fosse così, ma non lo è. Per proporre un’impugnazione si pretende una nuova procura speciale al difensore dopo la sentenza di primo grado. Questo renderà quasi impossibile gli Appelli nei processi con difensori d’ufficio, che perdono ogni contatto con i propri assistiti”.  I nuovi rapporti pm-gip sono un vero regalo per voi... “C’è un giusto riequilibrio in favore del giudice rispetto al pm, non dell’avvocato rispetto al pm”. Sarà entusiasta dello stop al carcere sempre e comunque...  “La riforma ha segnato una svolta nell’idea carcerocentrica della pena. Un merito che dobbiamo riconoscere tutti”. Riforma Cartabia, Cascini: “Avremo più indagati esposti alla gogna mediatica” di Liana Milella La Repubblica, 31 dicembre 2022 Il magistrato si dice “preoccupato” delle misure presenti all’interno della riforma: “C’è il rischio di paralisi di una macchina già in grave difficoltà”. “La riforma riduce l’indipendenza del pm e aumenta i tempi della giustizia”. È critico Giuseppe Cascini, capogruppo dei togati di Area al Csm.  Un bene o un male la riforma?  “Sono abbastanza preoccupato. Alcuni aspetti sono condivisibili, altri sono molto discutibili e pericolosi. C’è il rischio di paralisi di una macchina già in grave difficoltà”.  Addirittura? Quali pecche vede?  “La parte peggiore è l’improcedibilità in Appello, di cui assaggeremo i frutti velenosi. Ma ce ne sono altre che convergono verso il risultato di complicare la celebrazione dei processi e ostacolare i pm”.  Pm imbavagliato dal gip?  “Il controllo del giudice sui tempi d’iscrizione è un’antica bandiera degli avvocati, che però rischia di avere effetti paradossali perché fa fare un passo indietro rispetto alla linea di rigorosa prudenza adottata da molte procure”.  Quale prudenza?  “La sola notizia dell’iscrizione può provocare un danno d’immagine all’interessato ed è giusto procedere solo se sussistono i presupposti. Con la riforma i pm dovranno iscrivere per forza. Ci saranno più indagati e più persone esposte alla gogna mediatica”.  Evita che il pm indaghi senza l’iscrizione... “È vero, ma bastava prevedere che il giudice potesse ordinare l’iscrizione dell’indagato prima di autorizzare un’intercettazione, mentre non ha senso far saltare un’indagine solo perché la valutazione del giudice non coincide con quella del pm”. Il pm deve rispettare i tempi... “Le misure per accelerare sono giuste, ma il meccanismo è irrazionale. Il pm finisce le indagini e presenta al gip la richiesta di arresto. Ma prima che decida scadono i termini e deve depositare gli atti. Così si mettono nel nulla le indagini”.  Il Pg può dare più tempo... “Questo è vero, ma è sbagliato affidare l’ultima parola al Pg che non sa nulla dell’indagine e non ha poteri di coordinamento tra uffici lontani. Si accentua solo l’aspetto gerarchico degli uffici di procura”. Allunga i tempi, penalizza le vittime e limita i diritti: la “Cartabia” è una riforma pessima di Umberto Monti* Il Fatto Quotidiano, 31 dicembre 2022 La riforma Cartabia è una pessima riforma: non abbrevia i tempi processuali, ma li prolunga, moltiplica le possibilità di “distruzione” dei processi prima di una sentenza che accerti il fatto, limita la tutela dei diritti, aumenta i profili di incertezza della pena, marginalizza le vittime dei reati. Non occorreva solo una proroga dell’entrata in vigore. La riforma comporta un incredibile arretramento nella tutela della incolumità e libertà personali e del patrimonio: sequestro di persona, violenza privata, lesioni personali fino a 40 giorni, furti aggravati. Tutto diventa procedibile a querela con importanti conseguenze sul piano delle misure cautelari e dell’arresto in flagranza; ma può seriamente uno Stato dirsi “indifferente” a questi reati e lasciare alla parte offesa la decisione se sporgere o meno querela? È lo Stato che arretra e sta a guardare! La riforma comporta anche una maggiore incertezza della pena, in un labirinto di meccanismi premiali volti a ridurre o a far del tutto evaporare la pena, continuando nella direzione del “codice discount” del “commetti tre, paghi due, forse”. Gravi delitti come la falsa testimonianza, la calunnia, il sequestro di persona anche aggravato, la tentata rapina, i furti aggravati, lo sfruttamento del lavoro, potranno essere ritenuti “di particolare tenuità” e non puniti. C’è poi la possibilità di sospensione del procedimento con messa alla prova ed estinzione del reato estesa a gravi reati come la falsa testimonianza, l’istigazione a delinquere, la truffa aggravata, la violazione di domicilio aggravata; per il giudizio abbreviato un ulteriore sconto di 1/6 della pena se l’imputato condannato e che aveva già usufruito dello sconto di 1/3 non propone appello; per il “patteggiamento” viene resa del tutto inefficace la sentenza, nei giudizi civili, amministrativi, tributari; la vittima del reato dovrà ricominciare da zero il giudizio per il risarcimento del danno senza che quella sentenza possa avere anche soltanto il minimo valore. Infine si prevedono complicazioni sul piano processuale, con moltiplicazione delle caselle del “gioco dell’oca” che comportano il tornare indietro e ricominciare da capo. E la disciplina già in vigore della improcedibilità in Appello o in Cassazione? La “distruzione” dei processi e delle aspettative di giustizia sottese presentata come “riduzione” della loro durata? Di fronte agli effetti corrosivi che la riforma avrà sul sistema penale e sulla sua credibilità, chiedere e ottenere soltanto una disciplina transitoria più chiara sui procedimenti in corso, o lamentare carenze di organico e risorse che rendono impossibile il suo funzionamento è davvero poca cosa. Servirebbe almeno puntare a modificarne alcune parti, ad esempio ripristinare la perseguibilità d’ufficio per i sequestri di persona, le lesioni superiori ai 40 giorni e per gli altri gravi reati. Invece si va oltre, e il ministro della Giustizia indica le sue linee: limitare le intercettazioni e la capacità di penetrazione delle indagini, separare le carriere tra Pm e giudici, introdurre la discrezionalità azione penale, e cambiare la Costituzione per fare tutto questo! Una inversione logica paradossale: siccome lo “strumento” volto a tutelare i diritti non funziona ed è lento, non si semplifica lo strumento, ma si riducono i diritti da tutelare! Non si interviene snellendo il processo, ma si “privatizza” la tutela dei diritti e si limitano le aree di tutela penale. E se le riforme lungo questa linea sono incompatibili con la Costituzione, bè si cambia la Costituzione. E poco conta se i principi costituzionali di obbligatorietà della azione penale e di indipendenza del pm si intrecciano inesorabilmente con il basilare principio di uguaglianza di ciascuno di fronte alla legge… si cambierà anche quello? *Procuratore della Repubblica di Ascoli Piceno La difficile sfida dell’equilibrio nei tre capitoli del Dl Sicurezza di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 31 dicembre 2022 Alla vigilia del nuovo anno, il governo provvede a varare alcuni tra i punti previsti nel programma elettorale: tra questi, il decreto Sicurezza, il quale ha da subito suscitato discussioni tra i banchi dell’opposizione. Ne ha parlato diffusamente il sottosegretario di Stato alla Giustizia, l’onorevole Andrea Delmastro, in una recente intervista a un quotidiano nazionale. Tre le principali aree di intervento del decreto Sicurezza: troviamo un pacchetto di norme sull’immigrazione; una stretta al dilagante fenomeno delle baby gang; e, infine, ulteriori interventi di tutela a favore delle donne vittime di violenza e di contrasto alla piaga dei femminicidi. Sull’immigrazione, in particolare, l’idea del ministro dell’Interno Piantedosi - spiega il sottosegretario - è stata quella di introdurre un codice di condotta per le Ong al fine di disincentivare il cosiddetto fenomeno dei “taxi del mare”. Tale convincimento deriva da quella che, in molti nella maggioranza, ritengono essere una prassi ormai consolidata tra le organizzazioni umanitarie: oltre all’attività propriamente di salvataggio, queste svolgerebbero quella di ricerca dei migranti traghettati dai trafficanti. Da qui l’intenzione di Piantedosi di scindere, anche normativamente, i due comportamenti. In altri termini, l’idea del governo Meloni, che si ritiene di poter realizzare in conformità alle convenzioni internazionali e alle norme nazionali sul salvataggio della vita in mare, è quella di esigere da parte delle Ong di comunicare immediatamente e tempestivamente al competente centro di coordinamento e allo Stato di bandiera le operazioni di soccorso effettuate (sempre comunque in ossequio a quanto indicato dalle competenti Autorità locali per la ricerca e il soccorso in mare). Effettuata la comunicazione, deve essere, senza indugi, richiesta l’assegnazione del porto sicuro in cui sbarcare senza che tale procedura ingeneri “soccorsi multipli” o navi stazionanti per giorni in mare nella zona Sar, in attesa di altre eventuali imbarcazioni di migranti. L’adozione di tale Codice di condotta implica che, qualora esso non fosse rispettato nelle sue linee di fondo, scatterebbero sanzioni, amministrative di carattere pecuniario, oltre che il fermo dell’imbarcazione e, nei casi di violazioni più gravi, il sequestro e la confisca della nave. Gli altri due temi - sui quali peraltro potrebbe esserci un rinvio dell’entrata in vigore, con il nuovo anno - sono quelli in materia di contrasto alla criminalità giovanile e alla violenza sulle donne. Sul primo, l’idea, che secondo il sottosegretario Delmastro avrebbe anche un valore in qualche modo “pedagogico”, è di aiutare i minori a “rimeditare sui propri errori e tornare sulla retta via”, attraverso l’introduzione di un “daspo urbano” per i minorenni over 14, prevedendo l’interdizione dai locali pubblici e dai luoghi della movida. Misure che evocano un po’ quelle da anni adottate per il contrasto della violenza in occasioni delle manifestazioni sportive e che qui, appunto, costituirebbero la risposta al fenomeno delle baby gang. Sul secondo tema, da subito la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha voluto ribadire l’importanza della prevenzione, oltre alla protezione e alla certezza della pena. È intenzione dell’Esecutivo, infatti, rafforzare l’efficacia deterrente del provvedimento amministrativo dell’ammonimento, di competenza questorile, nonché inasprire le pene per chi, già ammonito, viola la legge. Sia le forze dell’ordine sia gli ospedali avranno il dovere di informare le donne sui centri antiviolenza presenti nel territorio. E, dopo una prima sentenza di condanna, le vittime potranno contare su una provvisionale, alla stregua di un ristoro anticipato. Il sottosegretario Delmastro ha, dunque, assicurato che lo spirito del nuovo governo in materia di giustizia, anche in controtendenza con le riforme del precedente Esecutivo - tra qui quella di Cartabia, che potrà verosimilmente trovare importanti modifiche (prima su tutte, quella in punto prescrizione) - è quello di una Giustizia efficiente, certa, giusta e - soprattutto - di prossimità. Il lavoro è tanto e il percorso lungo. E il raggiungimento del traguardo molto dipenderà dall’equilibrio con cui la maggioranza saprà perseguire i singoli obiettivi. *Avvocato, direttore Ispeg - Istituto per gli studi politici, economici e giuridici Decreto rave: colpo all’Aula. Uno strappo che farà scuola di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 31 dicembre 2022 Riforme silenziose. Il presidente della Camera Fontana inaugura l’uso routinario della “ghigliottina”. Passa, senza troppi traumi, il principio che gli atti di legge del governo non possono essere fatti decadere. Era già successo, ma non era andata proprio così. L’approvazione ieri pomeriggio alla camera del decreto legge anti rave con lo strumento della ghigliottina parlamentare non è un inedito, perché c’è l’unico precedente del 29 gennaio 2014 quando l’allora presidente Boldrini fece lo stesso per salvare il decreto Imu-Bankitalia del governo Letta. Ma le condizioni in cui si arrivò a quel voto erano assai diverse da quelle di ieri, rimaste sostanzialmente tranquille. Allora le opposizioni, 5 Stelle e Fratelli d’Italia, avevano bloccato i lavori per giorni, occupato l’aula di Montecitorio e anche i tetti. Allora l’emiciclo si trasformò in un’arena, con il partito di Meloni che tirava monete di cioccolata e anche qualche cazzotto (diversi commessi finirono in infermeria) e lei, l’attuale presidente del Consiglio, che intimava al presidente della Repubblica Napolitano di non firmare la legge di conversione del decreto: “Tradirebbe la Costituzione”. Ieri invece il presidente della camera Fontana ha fatto scattare la ghigliottina - che è uno strumento previsto dal regolamento del Senato per la prima lettura dei decreti legge, applicato forzatamente anche alla Camera nel 2014 alla seconda e definitiva lettura del decreto Imu - quasi in maniera routinaria. Non ha citato il precedente Boldrini, e nemmeno il discorso del presidente Violante che nel 2000 si limitò a minacciare la ghigliottina (e così fecero Casini nel 2003 e Fini nel 2009), ma nella conferenza dei capigruppo convocata in una pausa della seduta fiume che è andata avanti dal pomeriggio di mercoledì (proprio per stroncare l’ostruzionismo), ha citato invece l’articolo 64 della Costituzione. Quello che stabilisce il principio della maggioranza per la validità delle votazioni delle Camere. Non si può impedire, è la tesi di Fontana, una votazione regolare per conoscere se c’è o non c’è una maggioranza favorevole al provvedimento, e dunque se il decreto può essere convertito in legge o deve decadere. La decisione questa volta non ha provocato sconquassi. Se nel 2014 Boldrini fece la sua mossa alle 18:30 di sera, convocando a quell’ora serale la conferenza dei capigruppo, e portò la sua decisione tra mille proteste in aula che mancavano pochi minuti alle 20 - dunque quattro ore prima della decadenza del decreto fissata allora come ora alla mezzanotte - ieri Fontana ha chiamato i capigruppo alle 14:40. Venti minuti dopo era già tutto finito, votazione finale compresa filata via senza intoppi. Un nuovo precedente, dunque, quasi di routine, e per questo più pericoloso di quello del 2014 (allora Boldrini disse che non sarebbe mai più successo). E infatti nel corso della lunga maratona ostruzionistica il timore di stare così “normalizzando” il ricorso alla la ghigliottina è corso anche tra i gruppi dell’opposizione. Si aggiunga a completare il quadro delle preoccupazioni che questo contro i rave è solo il primo decreto del governo Meloni. La conclusione di questa battaglia parlamentare, così ordinata e persino con i ringraziamenti dell’opposizione al presidente Fontana durante la conferenza dei capigruppo, lascia però l’impressione che a un certo punto la minoranza si sia accontentata di aver costretto la maggioranza al clamoroso strappo. Indubbiamente, come dice il deputato segretario di Si Fratoianni, “è un segnale di debolezza”. Ma non è improbabile che abbia pesato sull’esito anche l’incalzare del capodanno, tant’è che le assenze alla fine non sono state affatto poche, specie a destra. Se nel gruppo di Forza Italia qualche assente (il 40% del gruppo) aveva motivazione politiche - il presidente della prima commissione Pagano lo ha dichiarato - tanti altri hanno semplicemente anticipato il rientro a casa per le feste. Nei commenti del Pd prevale la critica al contenuto del provvedimento - che com’è noto al Senato ha aggiunto norme contro il green pass e per la riduzione dell’isolamento fiduciario al già previsto richiamo in servizio dei medici non vaccinati - su quella alle modalità con cui lo si è votato. “Pur di far approvare le sue norme NoVax - dice Enrico Letta - la maggioranza usa addirittura lo strumento estremo della ghigliottina. Ma quelle norme sono sbagliate”. Mentre Riccardo Magi di +Europa nota come con la “giornata buia per la democrazia” di ieri abbia “sancito l’impossibilità che vi sia, anche solo in linea teorica, un decreto non convertito se non per volontà del governo”. Due ore e mezzo dopo il voto della Camera, il presidente Mattarella ha promulgato la legge di conversione che prima delle nove di sera è comparsa in un’edizione straordinaria della Gazzetta ufficiale. Il caso è chiuso. Le conseguenze le vedremo. “Su prescrizione e trojan, lampi di riscatto contro il populismo” di Valentina Stella Il Dubbio, 31 dicembre 2022 “Due bagliori nel buio del populismo”: così definisce Vittorio Manes, avvocato e professore ordinario di Diritto penale all’Università di Bologna, le iniziative parlamentari del senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin e del deputato di Azione Enrico Costa in materia rispettivamente di trojan e prescrizione. Questione giustizia con un pezzo del direttore Nello Rossi, che ha espresso una sua personalissima posizione, ha aperto il dibattito sulla proposta del senatore di Forza Italia Zanettin che propone di escludere l’impiego del captatore informatico nei procedimenti per delitti contro la pubblica amministrazione. Che ne pensa? Quella sostenuta da Nello Rossi è una proposta del tutto condivisibile e razionale. Finalmente ci si sforza di riportare equilibrio in un dibattito spesso banalizzato a colpi di slogan. Solo esigenze di difesa sociale particolarmente gravi ed eccezionali possono legittimare l’utilizzo di determinati strumenti di ricerca della prova come il trojan, di portata micidiale, che realizza una straordinaria ingerenza e intrusività nelle sfere dei diritti individuali. Aver esteso l’uso del captatore informatico ai reati contro la Pubblica amministrazione è del tutto irragionevole, come lo è la tendenziale equiparazione della disciplina tra criminalità organizzata e crimini dei colletti bianchi. Quindi condivido la proposta del senatore Zanettin nel merito e nel metodo e sono molto lieto che essa abbia trovato la condivisione di un autorevole esponente della magistratura requirente, seppur a titolo personale, come Nello Rossi. Questa è la prova che sulle idee, sui principi, sui valori, sulla razionalità nell’affrontare i temi della giustizia penale c’è ancora la speranza di trovare una convergenza. Il presidente dell’Ucpi Caiazza ha spesso parlato di “ossessione del doppio binario”. Anche la questione del trojan riapre questa riflessione. Non sarebbe pure questo il caso di eliminare questo doppio binario, anche se stiamo parlando di reati di criminalità organizzata? Un sistema di giustizia aggiornato necessariamente conosce delle differenziazioni di trattamento, anche in ragione della articolata gravità dei fenomeni criminali che vuole contrastare. Il problema è quando queste differenziazioni si sostituiscono al sistema stesso. Senza contare che qualsiasi eccezione, una volta inoculata nel sistema, tende prima o poi fatalmente a trasformarsi in regola: basti pensare alla progressiva estensione del catalogo terribile dei reati di cui all’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, ai trojan appunto, alle misure di prevenzione e al regime del 41bis. Sono tutti strumenti introdotti sotto l’apparente legittimazione di una misura eccezionale per contrastare fenomeni e fenotipi criminosi emergenziali come la criminalità organizzata di stampo mafioso, strumenti che si sono poi incistati nel sistema, ampliando sempre di più il loro raggio di azione. A tenere banco in questi giorni è la questione prescrizione. L’ordine del giorno del deputato di Azione Enrico Costa per tornare all’ante Bonafede è stato accolto dal Parlamento. Lei è d’accordo? Certamente sì. Così come la proposta di Zanettin anche questa di Costa è meritevole di condivisione. La riforma Bonafede è stata una regressione in termini di civiltà del diritto. L’eliminazione di fatto della prescrizione dopo la sentenza di primo grado è una assurdità che getta l’imputato in balìa dello Stato senza alcun limite temporale, come un suddito assoggettato all’arbitrio del Leviatano. La riforma Cartabia, coraggiosamente, ha cercato di porre rimedio, introducendo però un sistema di improcedibilità processuale molto problematico e farraginoso, con criticità anche costituzionali. Reintrodurre la prescrizione sostanziale senza ulteriori correttivi ritengo sia un atto doveroso, significa ripristinare uno strumento di civiltà del diritto; si potrebbe persino ripensare e rivisitare il vecchio modello del Codice Rocco che del resto ha dimostrato di essere tecnicamente affidabile per più di settant’anni. Politicamente è balzato agli occhi il fatto che il Pd abbia votato contro l’odg perché in realtà hanno sostenuto - esso andava contro la riforma Cartabia. Non è paradossale che abbiano detto no al ritorno alla legge che portava il nome di un loro ex Ministro della Giustizia? C’è il sospetto che non riescano a sganciarsi dal Movimento 5 Stelle... Mi pare non ci sia molto chiarezza negli obiettivi e nella rotta del Pd in materia di giustizia, e che si navighi a vista. Del resto chi non ha una propria politica criminale rischia sempre di farsela imporre dagli altri. È troppo tempo che il Partito democratico non esprime posizioni davvero autonome e sembra andare al traino di altri, senza peraltro comprendere che il cittadino sceglie l’originale e non l’imitazione. Dimentica altresì che la battaglia per le garanzie, i diritti e i principi costituzionali dovrebbe essere storicamente identitaria per un partito progressista, e che lasciarla ad altre parti politiche, visto che la sensibilità del Paese in tema di giustizia e garanzie fortunatamente è molto mutata, sarà il modo migliore per restare minoritari. Al di là del merito dell’odg, non è uno stress test complicato per il sistema giustizia vedere mutare i riti ad ogni nuovo Governo? Non c’è dubbio. Il sistema della giustizia penale, soprattutto le misure processuali e determinati istituti sono congegni di alta ingegneria che non andrebbero toccati ogni volta. Qualsiasi modifica produce delle ricadute concrete e spesso impatti devastanti sull’amministrazione della giustizia. Bisognerebbe garantire una stabilità. È però vero che scelte aberranti come quelle a cui cercano di porre rimedio Zanettin e Costa vanno eliminate. Queste due iniziative parlamentari rappresentano dunque due bagliori nel buio del populismo penale. Con le prime dichiarazioni di Nordio, ci siamo lasciati alle spalle dunque la stagione del populismo penale o il decreto anti- rave contraddice questo auspicio? Penso che bisogna mantenere l’ottimismo. Già il lessico che si sente da parte del ministro Nordio è del tutto congeniale non solo a determinati principi e valori costituzionali, ma altresì alle posizioni che incessantemente gli studiosi del diritto penale cercano di portare avanti. Per esempio si è ricominciato a parlare dopo anni di depenalizzazione, che era diventata una parola tabù; si è denunciata la mancanza di tassatività e determinatezza dei reati in molti settori, così come si sono denunciate coraggiosamente le aberrazioni dell’utilizzo delle intercettazioni telefoniche. Sono tutte premesse che lasciano sperare in un ritorno, almeno sulla carta, ad una maggiore sensibilità verso il diritto penale liberale e del giusto processo. Cafiero De Raho: “La corruzione minaccia lo Stato. Ma per il governo non è grave” di Ilaria Proietti Il Fatto Quotidiano, 31 dicembre 2022 “Stiamo approvando un decreto che rende il percorso per accedere ai benefici penitenziari più facile per i mafiosi rispetto a quello per i collaboratori di giustizia. E che dire dell’autostrada che viene aperta alle mafie con la legge di Bilancio?” “Le iniziative annunciate dal ministro Nordio non corrispondono alle esigenze del Paese, ma alle esigenze di questa maggioranza”. L’ex procuratore nazionale Antimafia oggi deputato M5S, Federico Cafiero De Raho, si riferisce alle misure sulla giustizia del governo e del Guardasigilli in particolare. “Qui si parla solo di abolire, eliminare, agevolare. Ma hanno capito gli effetti di tutto questo? Intanto il segnale che stanno mandando è tremendo”. Partiamo dalle intercettazioni... Il ministro Nordio dice che ne andrà limitato l’uso solo a reati gravissimi come mafia e terrorismo, facendo così intendere che la corruzione non è un reato grave. Quando invece la corruzione è una minaccia per lo Stato di diritto, per la democrazia: è il terreno della contiguità tra il malaffare e la politica. Quindi si tratta di un arretramento tanto più grave oggi che il Pnrr va protetto dalle infiltrazioni mafiose: in questo momento bisognerebbe mettere in campo strumenti sempre più efficaci, ma su questo non ho sentito dire ancora una parola. Mentre ci si riempie la bocca con la mafia, epperò… Epperò? Guardi. Intanto faccio notare che stiamo approvando un decreto che di fatto rende il percorso per accedere ai benefici penitenziari più facile per i mafiosi rispetto a quello fissato dalla normativa per i collaboratori di giustizia: i mafiosi potranno continuare a essere omertosi, né è richiesto il loro ravvedimento, né l’elencazione precisa dei loro beni. E che dire dell’autostrada che viene aperta alle mafie con la legge di Bilancio? Ossia? Mi riferisco alla norma sull’emersione delle cripto attività in base alla quale rischiano di essere reimmessi nel mercato legale le disponibilità mafiose derivanti da flussi finanziari anonimi. La regolarizzazione dei quali sarà possibile dietro il pagamento del 3,5 per cento e senza l’obbligo di dichiarare la provenienza di queste provviste. E non è tutto. Dica… Nella legge di Bilancio c’è pure una norma che prevede che l’Agenzia delle Entrate operi nei prossimi due anni risparmi tra i 25 e i 30 milioni. Con ovvia riduzione delle attività e, quindi, dei controlli. Quando la presidente del Consiglio Meloni parla di contrasto alle mafie e all’evasione, esattamente a cosa si riferisce? Però in compenso c’è la stretta sui rave party… Ecco qui sfioriamo l’assurdo: si considera reato gravissimo il raduno musicale talché per perseguirlo sarà possibile compiere numerose attività investigative, comprese le intercettazioni che non vanno bene invece per la corruzione. Ma di che parliamo? Nordio vuole pure abolire l’abuso d’ufficio... Sì, benché l’ambito di applicazione di questo reato sia stato già limitato con una modifica del 2020: a chi giova che non si possa controllare se la gestione del potere pubblico avviene oltre le regole? Il Guardasigilli ha inoltre annunciato pure l’abolizione del traffico di influenze, che è stato introdotto in applicazione della Convezione europea contro la corruzione. Per tacere della Spazza-corrotti… Chiedo: la trasparenza, la buona amministrazione, il contrasto feroce all’illegalità sottesi a quel provvedimento sono o non sono interesse del Paese? Io credo che i cittadini onesti non pensino che la Spazzacorrotti sia una zavorra di cui liberarsi. Si accelera anche per superare lo stop alla prescrizione prevista dalla legge Bonafede. Che dice? Credo che bisognerebbe partire dalle esigenze dell’organizzazione giudiziaria che riguardano gli organici e il numero dei procedimenti penali. Non si dà giustizia con la prescrizione o con l’improcedibilità, che sono l’elusione del problema. Azione penale, l’obbligo garantisce noi cittadini di Antonio Esposito Il Fatto Quotidiano, 31 dicembre 2022 Tra le iniziative di riforma della Giustizia del ministro Nordio - modifica dell’abuso di ufficio, riduzione delle pene per i reati di corruzione, stretta sulle intercettazioni, separazione delle carriere e abolizione della obbligatorietà dell’azione penale - la più insidiosa è proprio quest’ultima perché, incidendo sull’esercizio del potere punitivo dello Stato, determina un grave vulnus al principio dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Il nostro ordinamento, diversamente da altri sistemi costituzionali europei, fondati sul principio di discrezionalità o facoltatività dell’azione penale, è governato dal principio di obbligatorietà della stessa, sancito dall’articolo 112 della Costituzione. La disposizione è posta a presidio della indipendenza e dell’autonomia dell’intera magistratura, ivi compresi i pubblici ministeri, e a garanzia della uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. I Padri costituenti concepirono indipendenza e obbligatorietà dell’azione penale come facce della stessa medaglia e le considerarono il miglior presidio del precetto costituzionale dell’uguaglianza di tutti i cittadini. La Consulta, con sentenza n. 88/1991, ha sottolineato come il principio di obbligatorietà dell’azione penale costituisca “punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale il cui venir meno ne altererebbe l’assetto complessivo”. In altra pronuncia, la n. 84/1979, la stessa Corte precisava che “l’obbligatorietà dell’azione penale concorre a garantire da un lato l’indipendenza del pubblico ministero nell’esercizio della propria funzione, dall’altro l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale”. Il principio di cui all’art. 112 Cost. vieta, pertanto, all’organo inquirente di operare soggettive selezioni nell’ambito dei procedimenti penali pendenti, che si risolverebbero in un’attività arbitraria in contrasto col nostro sistema costituzionale. Tuttavia, le difficoltà operative che incontrano le Procure nel dare concreta attuazione al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale impongono la scelta di fare ricorso a moduli gestionali degli affari penali i quali prevedano, per predeterminate categorie di reati di minor allarme sociale, una posticipazione dell’istruttoria a favore di fatti criminosi dotati di particolare gravità e peculiare offensività. L’elaborazione di criteri di priorità generali e predeterminati risponde dunque alla necessità di rendere l’attività del pm il più possibile razionale, trasparente e prevedibile, e di scongiurare il rischio di valutazioni individuali incentrate sull’opportunità di perseguire o meno determinati indagati o tipologie di reato. Tale risultato non si ottiene rendendo discrezionale l’azione penale (anzi è vero il contrario). È, invece, sufficiente che - come già ipotizzato nella riforma Cartabia - con legge ordinaria venga disposto che l’individuazione di sequenze prioritarie per le Procure sia la medesima di quella adottata per gli uffici giudicanti, come stabilito dall’art. 132 bis disp. att. Cpp. Tale norma, riformulata dalla legge n° 125/2008, introduce indicazioni vincolanti per gli uffici giudicanti in tema di formazione dei ruoli di udienza e trattazione dei processi, con attribuzione di priorità assoluta a talune tipologie di reato connotate da speciale gravità e allarme sociale e, in particolare, a processi a carico di imputati detenuti, ai processi relativi ai delitti di cui all’art. 407 comma 2 lett. a) Cpp e ai delitti di criminalità organizzata, anche terroristica. Tale disposizione è stata ulteriormente integrata con legge n. 119/2013 che ha inserito nella scala i delitti previsti dagli artt. 572 e da 609-bis a 609-octies e 612 bis Cp (maltrattamenti in famiglia, stalking e reati sessuali) e con la legge n.103/2017 che ha inserito i processi relativi ai delitti di cui agli artt. 317, 319, 319 ter, 319 quater, 320, 321 e 322 bis Cp (reati di concussione e corruzione). È evidente, poi, che anche per i dirigenti degli uffici inquirenti dovrà valere l’obbligo, previsto dal II comma dell’art. 132 bis disp. att. Cpp, per gli uffici giudicanti di “adottare i provvedimenti organizzativi necessari per assicurare la rapida definizione dei processi per i quali è prevista la trattazione prioritaria”. Dovrà anche essere previsto che è inderogabile compito dei procuratori generali - cui l’art. 6 dl n. 106/2006 attribuisce un potere di vigilanza e sorveglianza al fine di verificarne il corretto e uniforme esercizio dell’azione penale e del puntuale esercizio da parte dei procuratori della Repubblica dei poteri di direzione, controllo e organizzazione - porre in essere efficaci meccanismi di controllo circa il rispetto da parte dei dirigenti degli uffici inquirenti dei criteri di priorità delineati nell’art. 132 bis e riferirne gli esiti al pg della Corte di Cassazione investito della vigilanza sul complessivo andamento delle attività svolte da tutti gli uffici requirenti. Un anno vissuto ingiustamente alla gogna giudiziaria di Ermes Antonucci Il Foglio, 31 dicembre 2022 2022, Odissea nel giudizio. Un’altra lunga la lista delle vittime di teoremi accusatori che si sono rivelati infondati. Almanacco degli orrori della malagiustizia che ha sostituito la presunzione d’innocenza con la presunzione di colpevolezza  Da Eni-Nigeria a Cpl Concordia, da Incalza a Renzi senior, da Mantovani a Briatore. Sono stati numerosi, nel corso dell’anno che sta per concludersi, i flop giudiziari. Ecco, partendo da gennaio, un catalogo delle troppo rapide presunzioni di colpevolezza, dei teoremi accusatori caduti in giudizio o ancor prima di andare a processo. Gennaio Ribaltando in maniera clamorosa la sentenza di primo grado di condanna all’ergastolo, la Corte d’appello di Firenze assolve l’infermiera Fausta Bonino dall’accusa di omicidio plurimo. L’infermiera era accusata di aver iniettato, tra il 2014 e 2015, dosi letali di eparina ai suoi pazienti all’ospedale Villamarina di Piombino, causandone la morte per emorragia. La procura generale aveva chiesto la conferma dell’ergastolo chiedendo che all’imputata fossero addebitate nove morti, cinque più della sentenza di primo grado. “Sono ancora stordita, è finito un incubo - dichiara Bonino - Finalmente è stata fatta giustizia e i giudici hanno capito la mia innocenza. Adesso voglio solo stare con la mia famiglia”. La Corte d’appello di Catania assolve l’ex presidente della regione Sicilia, Raffaele Lombardo, dalle accuse di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale. La procura, con i pm Sabrina Gambino e Agata Santonocito, aveva chiesto la condanna di Lombardo a sette anni e quattro mesi di reclusione, accusandolo di aver ricevuto voti dai clan alle regionali del 2008, quando fu eletto governatore, in cambio di favori. Un’odissea per l’ex presidente della regione. Nel febbraio 2014, col rito abbreviato, il gup di Palermo Marina Rizza aveva condannato Lombardo a sei anni e otto mesi ritenendolo, tra l’altro, “arbitro” e “moderatore” dei rapporti tra mafia, politica e imprenditoria, sentenza poi riformata in appello e in Cassazione, che aveva disposto un nuovo giudizio di appello. “I giudici hanno avuto coraggio, per me sono stati 12 anni di sofferenza”, il commento di Lombardo. Dopo dodici anni di indagini e processi, sei sentenze e confische milionarie, Flavio Briatore viene assolto dall’accusa di frode fiscale nella vicenda relativa allo yacht Force Blue. La Corte d’appello di Genova (chiamata a esprimersi per la terza volta sul caso) lo assolve insieme ad altre tre persone “perché il fatto non costituisce reato” dalle accuse di evasione fiscale sull’Iva per oltre tre milioni di euro e false fatturazioni. Il colmo è che il mega yacht, fatto confiscare dai magistrati, nel frattempo è già stato venduto dallo stato per sette milioni e mezzo di dollari (contro un valore stimato in una ventina di milioni). Febbraio L’ex presidente del Consiglio regionale della Calabria, Domenico Tallini, viene assolto dal gup del tribunale di Catanzaro nell’ambito del processo Farmabusiness, istruito dalla Dda guidata da Nicola Gratteri, dalle accuse di concorso esterno in associazione mafiosa e di scambio elettorale politico-mafiosa. Secondo la ricostruzione della procura, Tallini aveva agevolato gli interessi della cosca Grande Aracri nel settore della distribuzione dei farmaci. L’indagine lo aveva costretto a dimettersi dalla carica di presidente del Consiglio regionale, in quanto il gip di Catanzaro aveva applicato la misura cautelare degli arresti domiciliari, poi revocata, quindici giorni dopo, dal tribunale del Riesame di Catanzaro, per mancanza dei gravi indizi di colpevolezza e insussistenza delle esigenze cautelari.  Il tribunale di Roma assolve l’attore Luca Barbareschi dall’accusa di traffico di influenze illecite nell’ambito dell’inchiesta sui fondi al teatro Eliseo, di cui è proprietario e direttore artistico. “È paradossale: per un fatto che non sussiste sono stato messo alla gogna per cinque anni, quasi una pena capitale. Un danno enorme, per il quale farò causa allo stato”, dichiara Barbareschi.  Il gip di Milano Natalia Imarisio, su richiesta dei pm, archivia l’inchiesta in cui il governatore lombardo Attilio Fontana era indagato per autoriciclaggio e falso nella “voluntary disclosure” in relazione a 5,3 milioni di euro che erano depositati su un conto a Lugano, scudati nel 2015, e in particolare su parte del denaro, 2,5 milioni, che gli inquirenti ritenevano frutto di presunta evasione fiscale. Fontana aveva sempre ribadito che la somma regolarizzata sette anni prima era il lascito ereditario della madre. Marzo Ribaltando la sentenza di primo grado, che lo aveva condannato a cinque anni e mezzo, la corte d’appello di Milano assolve l’ex vicepresidente della regione Lombardia ed ex senatore Pdl-Fi, Mario Mantovani, dalle accuse di corruzione, concussione e turbativa d’asta. Sette anni prima, a causa dell’inchiesta, Mantovani era stato costretto a trascorrere sei mesi tra carcere e arresti domiciliari. La procura generale aveva chiesto di confermare la condanna di primo grado. “Credo che una delle vergogne di questo paese sia l’ingiustizia della detenzione durante le indagini preliminari - dichiara Mantovani al Corriere della Sera - La procura di Milano deve farsi un esame di coscienza per quello che mi è stato riservato. Non c’è peggior disonore per una civiltà che mettere in carcerare una persona innocente”. Nell’ambito dello stesso processo viene assolto, per la seconda volta, dall’accusa di turbativa d’asta anche l’ex ministro del Turismo ed esponente della Lega, Massimo Garavaglia.  Il deputato della Lega Edoardo Rixi, già viceministro alle Infrastrutture nel governo Conte I, viene assolto in via definitiva dalla Cassazione dalle accuse di peculato e falso nel processo sulle cosiddette “spese pazze” dei consiglieri regionali liguri negli anni dal 2010 al 2012. La sentenza di condanna in primo grado (poi ribaltata in appello) lo aveva spinto a dimettersi dall’incarico di governo. “Ho comunque scontato una pena lunga nove anni - dice Rixi a Repubblica - mi sono dimesso da viceministro, non ho corso per le regionali in Liguria. Ho avuto problemi a contrarre il mutuo per la casa, ho dovuto farmi prestare i soldi dai miei genitori, ho sostenuto 100 mila euro di spese processuali”.  Aprile Si chiude dopo otto anni la vicenda giudiziaria paradossale che ha visto per protagonista la Cpl Concordia, una delle più grandi cooperative del paese. La Corte di cassazione, infatti, annulla le condanne per corruzione nei confronti del presidente Roberto Casari e degli altri imputati nel processo sugli appalti per la metanizzazione dell’isola di Ischia. Il presunto corrotto, l’ex sindaco di Ischia Giosi Ferrandino, era già stato assolto in via definitiva. In precedenza, erano crollate anche le accuse di concorso esterno in associazione mafiosa rivolte nei confronti dei vertici della cooperativa. L’inchiesta per corruzione era stata avviata dai pm Henry John Woodcock, Celestina Carrano e Giuseppina Loreto, quella per mafia dai pm Catello Maresca e Cesare Sirignano. Tra contratti persi e danno reputazionale si calcola che Cpl Concordia abbia subito 180 milioni di euro di danni. Dopo un processo durato sei anni, e a distanza di dieci anni dall’inizio dell’inchiesta, il tribunale di Campobasso assolve quattordici imputati su sedici nel procedimento sul cosiddetto “Sistema Iorio”, incluso lo stesso ex governatore del Molise Michele Iorio, dal quale il processo aveva preso il nome. Per la procura di Campobasso, che avviò l’indagine nel 2012 quando Iorio era ancora presidente della regione, il governatore (prima in Forza Italia, poi in quota Fratelli d’Italia) era diventato il fulcro di un sistema consolidato di connivenze, favori e corruttele. Al termine del giudizio di primo grado, però, l’impianto accusatorio messo in piedi dalla procura ha ceduto di schianto. Iorio, per il quale i pm avevano chiesto una condanna a sei anni di reclusione, viene assolto “per non aver commesso il fatto”. Assoluzione con formula piena anche per altri tredici imputati. La Corte d’appello di Reggio Calabria assolve dall’accusa di associazione mafiosa l’ex consigliere regionale Cosimo Cherubino, uno dei principali imputati del processo “Falsa politica”, nato da un’inchiesta della Dda di Reggio Calabria. In primo grado era stato condannato a 12 anni di carcere. Arrestato nel 2012, Cherubino ha trascorso quattro anni in carcere.  Il giudice per l’udienza preliminare del tribunale di Napoli, Nicoletta Campanaro, assolve con la formula piena, “perché il fatto non sussiste”, il consigliere regionale Massimo Grimaldi (Forza Italia) dall’accusa di concorso esterno alla camorra. Per Grimaldi i sostituti procuratori della Dda Maurizio Giordano e Graziella Arlomede avevano chiesto otto anni di carcere.  Si chiude con l’assoluzione di tutti e cinque gli imputati il processo d’appello sulla bonifica di Bagnoli, il quartiere della zona occidentale di Napoli dove sorgevano gli ex stabilimenti Italsider ed Eternit. Le accuse erano di disastro ambientale colposo e truffa ai danni dello stato. L’assoluzione di tutti gli imputati giunge a distanza di quindici anni dall’inizio delle indagini condotte dalla procura di Napoli, un’eternità. Nel frattempo il disastro giudiziario ha prodotto non solo danni irreparabili sulle vite degli imputati, ma anche danni economici e ambientali ingenti su un’area che, ancora oggi, attende la sua rinascita. Maggio Il presidente della regione Lombardia, Attilio Fontana, viene prosciolto “perché il fatto non sussiste” con altre quattro persone dall’accusa di frode in pubbliche forniture per il caso dell’affidamento nell’aprile 2020 da parte della regione di una fornitura, poi trasformata in donazione, da circa mezzo milione di euro di 75 mila camici e altri dispositivi di protezione a Dama, società del cognato Andrea Dini. A deciderlo il gup di Milano Chiara Valori.  Ribaltando la sentenza di primo grado, la corte d’appello di Milano assolve l’ex presidente di Monte dei Paschi di Siena, Giuseppe Mussari (7 anni e 6 mesi in primo grado), l’ex direttore generale Antonio Vigni (7 anni e 3 mesi) e l’ex responsabile area finanza Gianluca Baldassarri (4 anni e 8 mesi) per le presunte irregolarità nelle operazioni Alexandria e Santorini, Chianti Classico e Fresh, effettuate, secondo l’accusa, per coprire le perdite provocate dall’acquisto della banca Antonveneta. Assolte anche le banche Deutsche Bank AG, la sua filiale londinese e Nomura. Quello che era stato presentato come uno dei più gravi scandali bancari della storia d’Italia non ha rilevanza penale.  Il tribunale di Milano proscioglie Gianfelice Rocca (numero uno del gruppo Techint, presidente dell’Istituto clinico Humanitas ed ex presidente di Assolombarda), suo fratello Paolo Rocca e il loro cugino Roberto Bonatti, quali amministratori e soci della holding San Faustin, dall’accusa di corruzione internazionale per una presunta tangente pagata in Brasile. I pm avevano chiesto una condanna a 4 anni e 6 mesi di reclusione per ciascun imputato, ma i giudici stabiliscono il “non doversi procedere” nei loro confronti (e anche della società) evidenziando che “l’azione penale non doveva neppure essere iniziata per difetto di giurisdizione”. La Corte d’appello di Torino assolve l’ex sindaca Chiara Appendino, insieme al suo capo di gabinetto Paolo Giordana e all’assessore al Bilancio Sergio Rolando, dall’accusa di falso mossa nell’ambito del processo Ream. In primo grado Appendino era stata condannata a sei mesi di reclusione. Le accuse erano legate al mancato inserimento nel bilancio comunale di un debito di cinque milioni di euro maturato dalla città nei confronti della società Ream per la conversione dell’ex area Westinghouse.  A distanza di dieci anni dall’inizio dell’inchiesta e dopo un processo di primo grado durato quattro anni, il tribunale di Cosenza assolve tutti gli imputati del processo denominato “Sistema Rende”: gli ex sindaci del comune rendese Sandro Principe (più volte deputato per il Psi e sottosegretario dei governi Amato e Ciampi) e Umberto Bernaudo, e gli ex assessori Pietro Paolo Ruffolo e Giuseppe Gagliardi. I reati contestati agli imputati erano quelli di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione in atti amministrativi aggravata dal metodo mafioso. La pubblica accusa aveva chiesto la condanna di Principe a nove anni di reclusione, di Bernaudo a otto anni, di Ruffolo a sette anni e sei mesi, e infine di Gagliardi a due anni. Tutti assolti con la formula più ampia “perché il fatto non sussiste”. Tutti assolti a Milano i dodici imputati, tra cui Piergiorgio Peluso, figlio dell’ex ministra della Giustizia Annamaria Cancellieri, per concorso in bancarotta in relazione al fallimento di Imco, una delle holding della famiglia Ligresti, socia di Fonsai. Il rinvio a giudizio era stato disposto nel febbraio del 2016. Giugno Il tribunale di Arezzo assolve con la formula piena, perché “il fatto non sussiste”, tutti i 14 imputati a processo per il crac di Banca Etruria del 2015, nell’ambito del filone di indagine sulle cosiddette consulenze d’oro. Tra gli assolti anche Pierluigi Boschi, padre dell’ex ministra Maria Elena ed ex vicepresidente di Etruria, nei confronti del quale il pm Angela Masiello aveva chiesto una condanna a un anno di reclusione, così come per altri tre dirigenti (Luciano Nataloni, Claudia Bugno e Luigi Nannipieri). Per gli altri imputati erano state chieste condanne da 8 a 10 mesi. “Oggi ho pianto. Avevo giurato a me stessa che non avrei mai pianto per Banca Etruria. Oggi l’ho fatto”, il commento di Maria Elena Boschi.  La Corte d’appello di Perugia assolve con formula piena gli imputati accusati di sequestro di persona per le presunte irregolarità legate al rimpatrio di Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, espulsa verso il Kazakistan nel 2013 insieme alla figlia Alua e poi entrambe tornate in Italia. Tra loro gli ex capi della Squadra mobile e dell’Ufficio immigrazione della questura di Roma, Renato Cortese e Maurizio Improta. In primo grado gli imputati erano stati tutti condannati (Cortese e Improta a cinque anni di reclusione) per il reato di sequestro di persona. “Questi anni non torneranno - dichiara Improta al Messaggero - ho sofferto come mio padre. Quando era prefetto di Napoli è stato costretto a dimettersi dopo essere stato accusato di avere falsificato la data di un documento. Dopo cinque anni è stato assolto. È morto dopo nemmeno un anno”.  Al termine di una vicenda giudiziaria durata otto anni, Giuseppe Pagliani, avvocato ed ex consigliere comunale di Forza Italia a Reggio Emilia, viene definitivamente assolto dall’accusa di concorso esterno alla mafia nel processo di ‘ndrangheta “Aemilia”. Fu arrestato all’alba del 28 gennaio 2015 e trascorse tre settimane in carcere prima che il Riesame lo liberasse. In primo grado, con rito abbreviato, fu assolto. La procura impugnò e la Corte d’appello lo condannò a quattro anni. La difesa fece ricorso e la Cassazione dispose un nuovo processo, concluso con l’assoluzione, di nuovo impugnato dalla procura generale. Il ricorso viene dichiarato inammissibile dalla Cassazione.  Luglio Diventano definitive tutte e quindici le assoluzioni nel processo che vedeva coinvolte Eni e Shell per la presunta corruzione internazionale da oltre un miliardo di dollari compiuta in Nigeria per l’acquisizione dei diritti di esplorazione del blocco petrolifero Opl 245. Assolti dunque, tra gli altri, l’attuale amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi, il suo predecessore Paolo Scaroni, e le due società Eni e Shell. La procura generale di Milano ha rinunciato infatti all’impugnazione proposta dalla procura milanese, in particolare dall’aggiunto Fabio De Pasquale, nei confronti della sentenza con cui il tribunale il 17 marzo 2021 aveva assolto tutti gli imputati. I motivi d’appello “sono incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità”, ha motivato la pg Celestina Gravina, proseguendo con parole durissime: “Non c’è prova di nessun fatto rilevante in questo processo. Gli imputati che hanno patito un processo lungo sette anni hanno diritto di vedere cessare immediatamente questa situazione, che in questo momento è contra legem rispetto alle indicazioni di regolarità formale del processo, di economia processuale e di durata ragionevole”. Nuova assoluzione per l’ex vicepresidente della regione Lombardia Mario Mantovani, finito sotto processo per reati fiscali legati alle casse delle onlus da lui fondate. A scagionare il politico e i suoi sette coimputati, “perché il fatto non sussiste”, è stato il giudice della seconda sezione penale del Tribunale, Sandro Saba. Il pm Giovanni Polizzi aveva chiesto per Mantovani una condanna a due anni e mezzo di carcere. La Corte d’appello di Firenze assolve con la formula piena “perché il fatto non sussiste” gli ex vertici del Monte dei Paschi di Siena, Giuseppe Mussari, Antonio Vigni e Gianluca Baldassarri, dall’accusa di aver ostacolato la vigilanza nascondendo il “mandate agreement” stipulato per l’operazione di ristrutturazione del derivato Alexandria con la banca giapponese Nomura.  La Corte d’assise di Brescia assolve dall’accusa di omicidio volontario il medico Carlo Mosca, il primario (sospeso) del pronto soccorso dell’ospedale di Montichiari, in provincia di Brescia, finito a processo per la morte di due malati di Covid deceduti nel marzo 2020, durante la prima ondata dell’emergenza pandemica. Il pm aveva chiesto una condanna a 24 anni di carcere perché, secondo le testimonianze di due infermieri, Mosca avrebbe somministrato ai due pazienti degli anestetici senza però poi procedere all’intubazione, così causandone la morte, con lo scopo di liberare posti letto. Mosca ha trascorso oltre 500 giorni agli arresti domiciliari.  Il gup di Perugia, Natalia Giubilei, proscioglie la legale della Juventus, l’avvocato Maria Turco, nel processo sul presunto esame truccato sostenuto dal calciatore Luis Suarez nel settembre 2020 per ottenere la cittadinanza italiana. A giudizio l’ex rettrice dell’Università per Stranieri, Giuliana Grego Bolli, l’attuale direttore generale Simone Olivieri e la professoressa Stefania Spina. Agosto Dopo quasi un anno vengono depositate le motivazioni con cui la Corte d’appello di Palermo, ribaltando il giudizio di primo grado, ha assolto gli alti ufficiali del Ros dei Carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, insieme all’ex senatore Marcello Dell’Utri, nel cosiddetto processo “Trattativa stato-mafia”. Secondo i giudici, tra il 1992 e il 1993 non ci fu nessun patto tra lo stato e Cosa nostra, ma “un’operazione di intelligence” da parte del Ros, che aveva come obiettivo quello di “disinnescare la minaccia mafiosa”, anziché “creare le basi di un accordo ‘politico’”.  Viene archiviata la posizione del senatore della Lega Roberto Marti, indagato per presunte irregolarità nell’assegnazione delle case popolari in cambio di voti a Lecce. L’archiviazione fa seguito alla mancata autorizzazione della Camera a utilizzare le intercettazioni a carico di Marti, che all’epoca dei fatti contestati ricopriva la carica di deputato. Settembre Si conclude a Genova con una raffica di assoluzioni (venti imputati su ventisette) il processo sulle presunte tangenti per la realizzazione del Terzo Valico. Tra gli assolti Pietro Salini, amministratore delegato di WeBuild (già Salini Impregilo), per il quale i pm avevano chiesto tre anni e cinque mesi per turbativa d’asta, ed Ercole Incalza, per quattordici anni super dirigente del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (un tempo dei Lavori pubblici), per il quale era stata richiesta una condanna di un anno e sette mesi. Per Incalza si tratta della diciassettesima assoluzione su diciassette processi. “Questa collezione di assoluzioni senza dubbio dimostra che la giustizia funziona, ma al tempo stesso scoraggia chi gestisce la Pubblica amministrazione a rimanerci”, dichiara Incalza al Foglio. “In Italia fare significa rischiare”.  Diventa definitiva l’assoluzione per il governatore campano Vincenzo De Luca dalle accuse di abuso d’ufficio, falso ideologico e altri reati urbanistici per la costruzione del complesso immobiliare del “Crescent” sul lungomare di Salerno, quando egli era sindaco della città. De Luca era stato assolto sia in primo grado che in appello. Una vicenda durata oltre dieci anni e che si conclude con l’assoluzione di altre 21 persone.  Il tribunale di Bergamo proscioglie l’ex giudice del Consiglio di stato Francesco Bellomo dalle accuse di stalking e violenza privata nei confronti di tre borsiste della scuola per magistrati “Diritto e scienza”. Bellomo era finito agli arresti domiciliari nel luglio 2019, nell’ambito di un’inchiesta della procura di Bari, che ipotizzava una serie di maltrattamenti da parte del magistrato nei confronti delle sue allieve (con alcune delle quali aveva anche avuto relazioni sentimentali). Bellomo era infatti solito chiedere alle aspiranti magistrate che si iscrivevano ai suoi corsi di rispettare un rigido codice di comportamento e un preciso dress code.  Ottobre La Corte d’appello di Firenze assolve, “perché il fatto non costituisce reato”, Tiziano Renzi e Laura Bovoli, genitori dell’ex premier Matteo Renzi, nel processo riguardante la presunta emissione di fatture false. In primo grado erano stati condannati a un anno e nove mesi. L’indagine venne coordinata dal procuratore aggiunto di Firenze Luca Turco, lo stesso che in seguito avrebbe contestato a Tiziano Renzi e Laura Bovoli anche l’accusa di bancarotta fraudolenta per il fallimento di tre cooperative, chiedendo e ottenendo dal gip persino gli arresti domiciliari per i due. Alla fine del 2019, sempre il pm Turco avrebbe avviato con il collega Antonino Nastasi l’indagine sulla fondazione Open, che ora vede a processo Matteo Renzi, insieme, tra gli altri, a Maria Elena Boschi e Luca Lotti. L’ex ministra Nunzia De Girolamo viene assolta anche in appello nel processo sulle presunte irregolarità nella gestione dell’Asl di Benevento. L’inchiesta, nata sul finire del 2013 ed esplosa mediaticamente a inizio 2014, indusse De Girolamo a dimettersi dal governo Letta, in cui era responsabile delle Politiche agricole. Per i pm, che avevano chiesto una condanna a sei anni, De Girolamo sarebbe stata a capo di un presunto “direttorio politico-partitico” che avrebbe influenzato la gestione dell’Asl sannita. La Corte d’appello di Napoli conferma invece la sentenza di assoluzione di primo grado. “Un incubo durato nove anni che adesso finisce”, commenta l’ex ministra. Il tribunale di Palermo assolve “perché il fatto non sussiste” l’ex concorrente del “Grande Fratello” Daniele Santoianni, finito ai domiciliari nel maggio del 2020 nell’ambito dell’inchiesta sul clan mafioso dell’Acquasanta che aveva portato a 91 misure di custodia cautelare. Era accusato di intestazione fittizia dei beni con l’aggravante mafiosa perché, secondo la procura, avrebbe fatto da prestanome di una società per la vendita di caffè legata ai clan. “È la fine di un incubo che ritenevo inimmaginabile e che non auguro a nessun cittadino. Essere vittima di un errore giudiziario causa un dolore indescrivibile alla persona ingiustamente arrestata e ai suoi famigliari”, dichiara Santoianni. Novembre  Il tribunale di Catanzaro assolve l’ex presidente della regione Calabria, Mario Oliverio, dall’accusa di peculato nel processo sulla presunta distrazione di fondi pubblici in occasione dell’edizione del “Festival dei due mondi” di Spoleto svoltosi nel luglio 2018. Oltre a Oliverio, vengono assolti anche l’ex parlamentare Ferdinando Aiello e il presidente del gruppo di comunicazione Hdrà, Mauro Luchetti. La procura, guidata da Gratteri, aveva chiesto la condanna a quattro anni per Oliverio, e a 2 anni e 8 mesi per Aiello e Luchetti. Intervistato dal Foglio, Luchetti racconta: “È stato un incubo. Fino al 2019 avevo un’azienda che fatturava oltre venti milioni, oggi circa sei. Ho dovuto licenziare decine di dipendenti. Sono stato trattato come un presunto colpevole”. Il tribunale di Roma assolve, con la formula piena “perché il fatto non sussiste”, l’ex premier Silvio Berlusconi dall’accusa di corruzione in uno dei filoni del caso Ruby ter. I giudici fanno cadere le accuse anche per il cantante e suo amico Mariano Apicella. I due erano accusati di corruzione in relazione alla falsa testimonianza del cantante napoletano in merito alle feste organizzate ad Arcore. La Corte d’appello di Brescia conferma l’assoluzione per il pm di Milano, Paolo Storari, imputato per rivelazione di segreto d’ufficio, con l’accusa di aver consegnato i verbali secretati dell’avvocato Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria all’allora consigliere del Csm, Piercamillo Davigo. In primo grado Storari era stato assolto perché convinto dallo stesso Davigo di “interloquire con soggetto legittimato a ricevere quelle informazioni e di veicolare allo stesso per finalità istituzionali”.  Dicembre Il tribunale di Firenze archivia in via definitiva, “per infondatezza della notizia di reato”, l’indagine per riciclaggio nei confronti di Marco Carrai (imprenditore e amico di lunga data di Matteo Renzi) e di sua moglie Francesca Campana Comparini. L’indagine era stata aperta nel 2019 dai pm Luca Turco e Antonino Nastasi, gli stessi che all’epoca già stavano indagando sull’ex fondazione renziana Open. I coniugi Carrai vennero svegliati in piena notte da una visita della Guardia di Finanza e sottoposti subito a interrogatorio. La moglie di Carrai all’epoca era anche incinta. “Entrambi - si legge in una nota diffusa dopo la chiusura della vicenda - esprimono la loro amara soddisfazione per la fine di tale incubo che non sarebbe mai dovuto iniziare e che ha arrecato a loro e ai loro cari tanta sofferenza e danni materiali”. Diventa definitiva l’assoluzione dell’ex pm di Torino Andrea Padalino, imputato con rito abbreviato a Milano per corruzione in atti giudiziari e abuso d’ufficio in un’inchiesta su presunti favoritismi nella procura piemontese. Padalino, tra i volti simboli della magistratura italiana (fu tra i gip di Mani pulite e poi, in anni recenti, pm delle inchieste sui disordini dei No Tav), era stato accusato nel 2018 dai suoi stessi colleghi torinesi di far parte di una “cricca dei favori in procura”. L’inchiesta poi era passata per competenza territoriale a Milano, dove Padalino era stato assolto in primo grado. I pm milanesi, che avevano chiesto una condanna a tre anni di reclusione, hanno poi deciso di impugnare la sentenza. La procura generale, col sostituto pg Gemma Gualdi, ha però deciso con formale rinuncia di non portare avanti il ricorso in secondo grado. Il tribunale di Roma assolve l’ex presidente della regione Umbria ed ex presidente di Italferr, Maria Rita Lorenzetti, dall’accusa di corruzione nell’ambito dell’inchiesta sul cosiddetto passante ferroviario di Firenze dell’alta velocità. A chiedere l’archiviazione era stata la stessa procura. In questo modo cadono tutti i reati che erano stati contestati a Lorenzetti a partire dal 2012 per la vicenda dell’alta velocità a Firenze. Per i reati ambientali era stata infatti già prosciolta dall’autorità giudiziaria di Firenze. A Roma, dove il procedimento era stato poi inviato per competenza, per Lorenzetti era già arrivato il proscioglimento dal reato associativo e da un’accusa di corruzione. Dieci anni di inchieste, senza mai neanche un processo. Nel frattempo, però, l’immagine politica e pubblica dell’ex governatrice umbra è stata demolita. Piemonte. Dossier carceri, urge ricognizione spazi nelle 13 strutture La Stampa, 31 dicembre 2022 Presentato a Torino, a Palazzo Lascaris, sede del consiglio regionale del Piemonte, il settimo Dossier delle criticità strutturali e logistiche delle carceri piemontesi, realizzato con il contributo dei garanti comunali delle persone detenute. Il garante regionale Bruno Mellano ha annunciato che, grazie a 25 milioni di euro di fondi europei, verrà riqualificato il carcere minorile di Torino, il Ferrante Aporti. Tra gli interventi previsti la realizzazione di un nuovo accesso su corso Unione Sovietica tra il Tribunale dei Minori ed il palazzo storico La Generala. “In Piemonte è previsto un forte investimento per il compound della giustizia minorile e l’Istituto Ferrante Aporti - ha spiegato Mellano - è infatti stato deciso un intervento straordinario di 25,3 milioni. Vista l’importanza dell’iniziativa, chiediamo che siano attentamente studiate la progettazione architettonica e urbanistica di tale intervento”. Dal Dossier emerge quanto sia necessaria e urgente “una completa e attenta ricognizione degli spazi presenti nelle 13 strutture penitenziarie per adulti del Piemonte e nel carcere minorile di Torino. Spesso spazi, stanze, locali, magazzini, depositi, cortile, pur esistenti, risultano trascurati, sottoutilizzati o del tutto inutilizzati, potrebbero essere opportunamente recuperati o convertiti per le attività formative, scolastiche, lavorative, sanitarie, di socialità, sportive, culturali o ricreative”, si legge nel dossier. “Per il 2023 - ha proseguito Mellano - si prevede un milione di euro per la manutenzione ordinaria e straordinaria del patrimonio immobiliare penitenziario di Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria. Come Coordinamento regionale dei garanti chiediamo al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria di svolgere entro sei mesi un’attenta ricognizione degli spazi presenti nelle tredici strutture penitenziarie piemontesi per adulti e, appunto, nel carcere minorile di Torino affinché ambienti inutilizzati o abbandonati possano essere recuperati per attività formative, lavorative o di socializzazione”. “La rete dei garanti comunali, coordinata dal garante regionale - ha affermato il componente dell’Ufficio di Presidenza Gianluca Gavazza, nel salutare l’Assemblea - è una ricchezza che permette una presenza quotidiana in ogni Comune sede di Istituto di pena di cui il Dossier, giunto alla settima edizione, è frutto”. All’incontro a Palazzo Lascaris erano presenti i garanti comunali di Alessandria Alice Bonivardo, Asti, Paola Ferlauto, Biella, Sonia Caronni, Cuneo, Alberto Valmaggia, Ivrea, Raffaele Orso Giacone, Saluzzo, Paolo Allemano e di Torino Monica Cristina Gallo. I garanti hanno evidenziato le criticità dei loro istituti, spesso strutture vecchie, con carenza di personale e la necessità di nuovi spazi. “A breve - ha aggiunto Mellano - vedranno la luce progettazioni della Regione assai innovative relative agli sportelli lavoro e multiservizi e agli agenti di rete. È necessario che le carceri piemontesi mettano a disposizione spazi e uffici per permettere l’incontro degli operatori con i detenuti”. L’architetto Cesare Burdese, già componente della Commissione Architettura penitenziaria del Ministero della Giustizia, ha chiuso i lavori sottolineando come “i rapporti con l’Amministrazione penitenziaria siano spesso rigidi, burocratici e legati a concetti e schemi spaziali del passato”. Sardegna. Carceri: 2022 anno terribile per detenuti, familiari e agenti cagliaripad.it, 31 dicembre 2022 Denuncia di SDR: solo nel settembre 2023 saranno nominati i Direttori in tutti e dieci gli Istituti Penitenziari. “Il Capo del Dipartimento Carlo Renoldi in visita a Natale nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta, accomiatandosi dall’Istituto e dall’incarico, ha rimarcato le iniziative che entro il 2023 modificheranno in positivo la realtà delle carceri isolane. Sarà colmato il grave deficit di Direttori, Agenti, Comandanti e amministrativi. Un saluto, a cui SDR risponde cordialmente, ma che non può lasciare indifferenti. È l’ulteriore conferma, se ce ne fosse stato bisogno, dello stato di abbandono delle carceri sarde e di un sistema che così com’è non è utile alla società”. Lo sottolinea, in una nota, Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” facendo osservare che purtroppo “non è rassicurante apprendere che a settembre 2023 avremo i Direttori in tutti e dieci gli Istituti Penitenziari. Significa infatti che per altri nove mesi tre titolari e due “a scavalco” si divideranno la responsabilità su 10 carceri in cui sono detenute anche persone in regime di 41bis”. “Il 2022 - osserva Caligaris - si chiude tristemente in Sardegna dove lo scorso mese di ottobre si è registrato un suicidio nella Casa di Reclusione di Massama, una morte nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta presumibilmente indotta dall’uso del gas e un’altra a Sassari-Bancali di un ergastolano che più volte aveva inalato gas. Innumerevoli i tentativi di suicidio documentati dalla Polizia Penitenziaria in un anno caratterizzato da segnali non equivocabili sulle problematiche della gestione di persone, donne e uomini, con gravi problematiche psichiatriche”. “L’episodio più emblematico delle difficoltà di vivere dietro le sbarre per chi ha gravi disturbi mentali - ricorda ancora l’esponente di SDR - si è verificato nella Casa Circondariale di Sassari-Bancali dove un detenuto, poi riconosciuto incapace di intendere e di volere, ha ucciso a colpi di sgabello il compagno di cella. Tragedia di straordinaria gravità che pone l’accento sulla necessità di garantire spazi alternativi a persone in gravi condizioni non compatibili con lo stato di detenzione. Persone che mettono in grave difficoltà l’intero sistema e in particolare gli Agenti della Polizia Penitenziaria e i Sanitari. Luoghi alternativi chiediamo al Ministro Nordio”. “Finita la pandemia, il 2022 insomma si chiude tristemente nelle carceri sarde per l’impossibilità concreta di realizzare la finalità per le quali l’Istituzione Penale è stata progettata e regolamentata, secondo quanto la nostra Costituzione stabilisce. La scarsa efficacia dell’Istituzione produce un diffuso burnout, una demotivazione che si ripercuote sulla vita degli operatori producendo effetti incalcolabili. Un sistema sempre più lontano dai bisogni di tutti, compresi i familiari che vivono uno stato di continua ansia in particolare per quei figli malati di mente e tossicodipendenti che nessun potrà mai reinserire in società specialmente se sono incompatibili con la detenzione ma continuano - conclude Caligaris - a stare dietro le sbarre nell’indifferenza generale, anche quando si levano grida di aiuto”. Milano. Detenuti e pazienti psichiatrici costruiscono insieme presepi con il legno delle imbarcazioni dei migranti di Daniela Solito La Repubblica, 31 dicembre 2022 Si tratta dell’iniziativa di Fondazione Sacra Famiglia e dell’Associazione in Opera per coinvolgere gli ospiti della Fondazione, pazienti con disabilità o patologie psichiatriche, e le persone detenute in attività ricreative di condivisione all’interno del carcere. Presepi e strumenti musicali costruiti con il legno delle imbarcazioni dei migranti, realizzati grazie al lavoro condiviso fra i detenuti del carcere di Opera e i pazienti psichiatrici del centro Il Camaleonte. Si tratta dell’iniziativa di Fondazione Sacra Famiglia e dell’Associazione in Opera, riproposta anche quest’anno dopo il successo della prima edizione di Legami in Opera nel 2019-20, per coinvolgere gli ospiti della Fondazione - pazienti con disabilità o patologie psichiatriche - e le persone detenute in attività ricreative di condivisione all’interno del carcere nel Milanese. Quest’anno al progetto, che si concentra sull’importanza delle emozioni da cui prende il nome ‘Emozioni in Opera’, hanno partecipato cinque pazienti del centro diurno psichiatrico Il Camaleonte della Fondazione Sacra Famiglia e circa venti detenuti all’interno del carcere di Milano-Opera. In un primo momento i due gruppi si sono conosciuti e confrontati sulla percezione reciproca dell’altro, c’è stato anche uno scambio di emozioni e un lavoro sulle parole chiave che favorissero il dialogo, la conoscenza e l’empatia. Poi pazienti e detenuti hanno lavorato assieme per costruire presepi e strumenti musicali, all’interno del laboratorio di liuteria e falegnameria della Casa di reclusione, utilizzando il legno di alcune imbarcazioni di migranti trasportate dal molo Favarolo di Lampedusa all’interno delle carceri per essere trasformati in oggetti di speranza, grazie alla collaborazione con Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti. “È stato molto emozionante per tutte le persone che vivono questo progetto e per tutte quelle che contribuiscono a realizzarlo. - ha raccontato Barbara Migliavacca, responsabile del centro Il Camaleonte di Fondazione Sacra Famiglia - Progressivamente, abbiamo visto le barriere abbassarsi e le distanze accorciarsi tra i due gruppi. Per le persone detenute, così come per gli ospiti di Fondazione Sacra Famiglia che hanno accolto, il progetto è un’esperienza importante che aiuta ad affinare la capacità di relazionarsi in modo costruttivo ed empatico con il prossimo, oltre che a riappropriarsi di quella percezione di senso e utilità che ogni persona ha bisogno di attribuire alle proprie azioni”, ha concluso. I partecipanti al progetto hanno condiviso assieme anche il pranzo di Natale e ognuno ha portato via uno dei presepi realizzati all’interno del carcere. “I nostri ospiti soffrono di complesse o gravi fragilità fisiche, psichiche e sociali: l’incontro con i detenuti e la realizzazione di questo progetto - che ci auguriamo continui anche nei prossimi anni - è un concreto esempio di come Sacra Famiglia è vicina a ciascuna persona fragile in diversi contesti di vita”, ha spiegato Paolo Pigni, direttore generale di Fondazione Sacra Famiglia. “Le dimensioni della dignità nel lavoro carcerario”, di Francesca Malzani recensione di Giuseppe Mautone sistemapenale.it, 31 dicembre 2022 1. La recente monografia di Francesca Malzani offre una brillante ed aggiornata trattazione dei profili del lavoro carcerario. Nella prospettiva di Malzani, il pieno riconoscimento della dignità dei detenuti deve essere considerato lo strumento per eccellenza per rimediare alla loro particolare vulnerabilità e, per questa via, conseguire gli obiettivi di reinserimento sociale. Così delineati gli obiettivi dell’opera nel primo capitolo, la parte ricostruttiva affronta separatamente la disciplina del lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria (nel secondo capitolo) e quella del lavoro dei detenuti “nel mercato”, alle dipendenze cioè dei soggetti privati che operano all’interno e all’esterno del carcere (oggetto del terzo capitolo), per poi affrontare, nel quarto capitolo, il tema dell’estensione ai detenuti delle misure di contrasto alla povertà. 2. La giustificazione della scelta della dignità come criterio interpretativo e valoriale per la rilettura critica dei vari istituti del lavoro carcerario si fonda sul doppio binario della realizzazione degli scopi costituzionali e di una ragione tutta interna al trattamento sanzionatorio, che appare, quest’ultima, la cifra distintiva della monografia. Correttamente, Malzani osserva come la commissione del reato, e tanto più lo stato di detenzione, siano associati ad uno stato di vulnerabilità (“essa è definita, come avviene per la povertà, per sottrazione (lack of): mancanza di potere, autonomia, istruzione, cultura, relazioni, censo o - nel caso del carcere - libertà”, p. 4) e che la dignità della persona, valore ultimo dell’insieme delle norme costituzionali di diritto del lavoro, possa avere una valenza ripristinatoria dello stato di vulnerabilità e quindi di ausilio nella realizzazione dell’obiettivo di reinserimento sociale: “il trattamento serve a ridurre la vulnerabilità, ma ciò è possibile solo se la dignità della persona è rimessa al centro del percorso di rieducazione” (ancora p. 4). La dignità ha quindi in sé un’efficacia trattamentale e favorisce il reinserimento sociale. Al tempo stesso, ovviamente, garantire la dignità dei reclusi nel lavoro consegue ai principi fondamentali della Costituzione Italiana e della Carta di Nizza, di cui l’Autrice dà conto, in una ricostruzione dialogica con le norme vigenti dell’ordinamento penitenziario (p. 8 ss.). Sempre nel primo capitolo Francesca Malzani offre al lettore un ampio excursus delle implicazioni più recenti della dignità in aree del diritto penitenziario contigue a quella del lavoro subordinato, in tema di tutela della salute, a proposito dei rimedi risarcitori in caso in caso di detenzione in spazio inferiore ai tre metri quadrati (ex art. 35 o. p. e art. 3 della CEDU, cfr. p. 21 ss.) e in tema di tutela dell’affettività dei detenuti, a proposito delle norme a presidio dei contatti con i famigliari e con la prole (p. 33 ss.), sempre nella prospettiva euristica per cui vi è un rapporto di condizionamento diretto tra azioni a tutela della dignità, modernità del sistema penitenziario e successo del progetto di reinserimento. 3. Lo scopo di promozione della dignità della persona, ovviamente, si realizza primariamente attraverso il lavoro (“effetto salvifico”, p. 44). Il secondo capitolo dell’opera di Malzani ha il pregio di far scorgere l’alternativa, drammatica, tra l’interpretazione contemporanea, secondo cui il lavoro del detenuto per l’amministrazione penitenziaria è lavoro subordinato ordinario con il connesso corredo di obblighi e di diritti, e la storia del lavoro carcerario; sono preziose le notazioni di Malzani sulla disciplina degli anni Trenta, quando il lavoro carcerario era coattivo, in una visione paternalistica di lotta all’ozio, se non in ottica punitiva (p. 46). L’alternativa rispetto all’equivalenza - piena: causale, dogmatica, valoriale, di disciplina - tra lavoro del detenuto e della persona libera è accettare un tasso, sia pure variabile, di lavoro forzato, come sorprendentemente si coglie dalle osservazioni di Malzani della presenza nelle Convenzioni OIL sul lavoro forzato di tutte le caratteristiche del lavoro carcerario non retribuito (p. 48). Il prosieguo della trattazione sul lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria ci offre un articolato quadro delle evoluzioni legislative e giurisprudenziali che conducono oggi la dottrina ad affermare che il lavoro carcerario non abbia alcuna diversità ontologica rispetto al lavoro libero (p. 54 ss.), per soffermarsi poi su quello che è oggi l’unico profilo di sensibile scollamento: l’art. 22 dell’ordinamento penitenziario, che ammette una decurtazione di due terzi della retribuzione rispetto al lavoro libero, per effetto di una tuttora non superata sentenza della Consulta del 1988, fondata su una supposta concorrente finalità formativa del contratto di lavoro con il detenuto. La sentenza, verosimilmente frutto del suo tempo e di inevitabili compromessi incentrati sui vincoli di compatibilità finanziaria dello Stato, è criticata da Malzani, che, riprendendo le categorie della dignità e della vulnerabilità enunciate nel primo capito, evidenzia come essa sia incorsa in un ragionamento improntato alla “infantilizzazione” (p. 77) e alla “semantica della vulnerabilità” (ibidem). Colpisce che, a questo punto della trattazione, Francesca Malzani non si faccia sostenitrice della parità di trattamento retributivo sulla natura meramente apparente della finalità formativa richiamata nella sentenza del 1988, in combinazione con l’obiettivo della promozione della dignità delineato in apertura. Forse consapevole delle potenziali fragilità di una ricostruzione rivolta a superare l’art. 22 o.p. solo sulla base del principio della dignità, l’Autrice invita piuttosto a riflettere su una possibile linea di collegamento tra il lavoro carcerario e il più vasto tema degli “working poor”, per farsi quindi promotrice della legge sul salario minimo, proposta quale possibile strumento per risolvere anche il tema dell’insufficienza della retribuzione riconosciuta anche ai detenuti (p. 81 ss.). 4. Il terzo capitolo del lavoro di Malzani esamina il tema delle relazioni di lavoro dei detenuti con le imprese private, all’interno e all’esterno del carcere, all’insegna dell’idea chiave per cui il reinserimento e la dignità si realizzano non solo attraverso il riconoscimento dei diritti nel rapporto, ma anche con la solidarietà delle imprese e degli intermediari del mercato del lavoro verso le persone che vivono il percorso della sanzione penale (cfr. p. 177). Nel caso del lavoro con le imprese private, infatti, il problema interpretativo non si pone all’interno del rapporto - il diritto alla retribuzione non è qui soggetto al limite dei due terzi, come noto e come confermato dall’approfondimento sulle fonti di cui a p. 101 ss. dell’opera - ma si sposta piuttosto sull’esistenza stessa di un’occasione di lavoro. Sul punto, l’approfondimento di Malzani è informativo ma al tempo stesso prospettivo. Tutta la complessa trama delle agevolazioni contributive, dei crediti di imposta e dell’incentivazione all’assunzione dei detenuti è ricostruita (p. 95 ss.). Segue uno dei passaggi più interessanti del volume in cui l’Autrice riesce a far percepire al lettore come il percorso legislativo inteso alla creazione degli incentivi per gli imprenditori diretti a favorire l’assunzione dei detenuti si sia spinto troppo oltre nel 2018, quando, con la riforma dell’art. 20-ter dell’ordinamento penitenziario, si è prevista la possibilità per i detenuti di svolgere, a loro richiesta, lavori di pubblica utilità, ossia lavoro gratuito con finalità sociali, all’interno degli istituti di pena; come Francesca Malzani osserva, le misure in tema di lavoro gratuito del detenuto “riesumano l’idea del lavoro carcerario come forma, se non di vera e propria espiazione, di lotta all’ozio, senza alcun tipo di corrispettività”, e “stridono con … la funzione rieducativa ed emancipatoria del lavoro remunerato” (p. 117). Terreno dell’elezione del tema della promozione della dignità attraverso la solidarietà del mercato del lavoro verso la popolazione detenuta sono le ampie ricostruzioni in tema di responsabilità sociale di impresa e incremento delle offerte di lavoro delle imprese private a favore dei detenuti (p. 103 ss.), valorizzazione dell’importanza dell’azione dei servizi territoriali per l’impiego per agevolare nuove occasioni di lavoro per i detenuti (p. 119 ss.), modalità di accesso di occasioni formative originate dall’esterno dell’istituto di pena al suo interno (p. 130 ss.), partecipazione dei detenuti a tirocini professionali, da svolgersi all’interno o all’esterno del carcere (p. 135 ss.). 5. Nel quarto capitolo del volume, l’Autrice conduce il lettore sui temi della sicurezza sociale. Non può non condividersi l’idea di Malzani per cui vi è una diretta linea di comunicazione tra lotta alla povertà, anche della persona in stato di detenzione, e reinserimento sociale. Differenziare l’accesso dei detenuti alle misure di contrasto dell’esclusione sociale, come il reddito di cittadinanza o l’assicurazione contro la disoccupazione, rispetto a quanto sia previsto per le persone libere tradisce una violazione del contratto sociale e del principio di uguaglianza, secondo una logica che è antitetica rispetto ad una prospettiva inclusiva, ed è controproducente rispetto agli obiettivi del reinserimento e della pace sociale (p.: “è doveroso agire prima che gli ultimi diventino fantasmi” (p. 149). La ricostruzione di diritto positivo evidenzia come la materia, sia pure con difficoltà e non senza incertezze, nel tempo, sia evoluta in modo coerente con questi obiettivi, con l’ormai generalizzato riconoscimento del diritto di accesso all’assicurazione contro la disoccupazione (grazie al formante giurisprudenziale e nell’assenza di chiare disposizioni normative contrarie, cfr. p. 161 ss.), nel quadro dell’art. 20 o.p. di incondizionato accesso dei detenuti lavoratori al regime assicurativo e previdenziale, ma anche della pronuncia 137 del 2021 della Consulta con cui è stata dichiarata l’illegittimità dei commi 58 e 59 dell’art. 2 della legge 92/2012 in tema di revoca di alcuni trattamenti assistenziali in caso di condanna in via definitiva per reati di mafia e terrorismo. A questa linea di tendenza si contrappongono specifici istituti che tuttora, per espressa previsione legislativa, escludono i detenuti dal proprio campo di applicazione, come è per il Reddito di Cittadinanza, pure oggetto di specifico approfondimento nell’opera di Francesca Malzani. Giancarlo De Cataldo, romanzare la storia di Andrea Meccia Il Manifesto, 31 dicembre 2022 Intervista. A vent’anni da “Romanzo criminale”, lo scrittore ritorna sulle sue pagine. “Romanzo criminale è un ragazzo in ottima salute anche se, per la sua età, ha una responsabilità imbarazzante. È ormai diventato un brand. Quante volte lo si evoca per parlare di malaffare e non solo? Detto questo, sono felice che ad ottobre, alla Casa del cinema, sia stato celebrato, non senza imbarazzi. Ho ricevuto una serie di elogi che solitamente si tributano ai defunti. A un certo punto ho dovuto ricordare di essere ancora vivo”. Romanzo criminale, il romanzo bestseller ispirato alle vicende della Banda della Magliana, ha compiuto vent’anni. E questo compleanno è l’occasione giusta per fare due chiacchiere con il suo autore Giancarlo De Cataldo, magistrato da poco in pensione, prolifica penna da un paio di mesi a questa parte volto Tv Rai per la serie Cronache criminali. De Cataldo, come ha conosciuto la Banda della Magliana? Da magistrato di sorveglianza incontrai un pentito che era stato nella Banda. Per larga parte non fu creduto. Da giudice penale poi, non è che mi andai a cercare il processo. Fui però chiamato a presiedere la Corte d’Assise il giudice Francesco Amato, un uomo di grande esperienza che si era occupato di Br e Nar. Ero il suo giudice a latere. Si trattava di un “processaccio” temuto nell’ambiente giudiziario romano, per pericolosità degli imputati e per mole. La sentenza finale, pronunciata nel luglio del 1996, fu di oltre mille pagine. Cosa capì durante il processo? Via via mi accorsi che quella era una storia che intrecciava un racconto della vita italiana. Una roba che inseguivo da anni. Dopo aver scritto Romanzo criminale ho capito che la mia vocazione era “romanzare” la Storia. Una cosa di stampo ottocentesco. Qual è stato il primo personaggio disegnato con la penna? Ispirato da foto contenute negli atti processuali, scrissi Dandi’s blues, un capitolo che raccontava l’ultimo giorno di vita di questo personaggio. Il racconto uscì firmato nel 1997 da “Anonimo Romano” sulla rivista Lo Straniero di Fofi. A Goffredo piacque e mi invitò, con lungimiranza, a concentrarmi su questa storia. Seguirono quattro anni di scrittura e uno di riscrittura. Come andò? La prima versione oggi potremmo definirla una sorta di Gomorra. La dialettica con lo Stato non c’era. Fu il grande Severino Cesari - fondatore della collana Einaudi Stile Libero - a consigliarmi di aggiungere qualcosa. Severino mi chiese: “Cosa faceva lo Stato mentre questi banditi scorrazzavano per Roma?”. Nacque così il personaggio di Scialoja, il commissario che porta l’antagonismo dello Stato ai delinquenti e il manoscritto passò da 350 ad oltre 600 pagine. Quali erano i punti di riferimento ideali durante la scrittura di Romanzo criminale? In Romanzo… cercavo un rovesciamento del punto di vista. Questo rovesciamento era figlio della lezione di Ugo Pirro, premio Oscar per la sceneggiatura di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Con lui avevo fatto scuola di cinema. Pirro raccontava che agli americani faceva impazzire non tanto l’idea che un poliziotto fosse pagato per scoprire dei delitti mentre in realtà ne commetteva uno, quanto l’idea che da colpevole accumulasse indizi contro di sé per essere smascherato. Un doppio paradosso-rovesciamento, insomma. A posteriori, mi sono reso conto che raccontavo una epopea dal punto di vista dei cattivi, ribaltando la tradizione del romanzo poliziesco che ha per protagonista un investigatore. Da James Ellroy, invece, ho preso il racconto dell’accoppiata crimine-politica. Ho così realizzato un affresco storico in cui si intrecciano le stragi di Stato e il caso Moro con le vicende di questa banda reinventata. Questi erano elementi tipici del romanzo di formazione dell’Ottocento. Nel libro cito poi espressamente L’educazione sentimentale di Flaubert. In che punto? In chiusura, quando Scialoja e Patrizia si reincontrano dopo anni. I francesi se ne sono accorti. Con mio grande piacere. Libro, film, serie tv. Su “Romanzo criminale” non sono mancate le polemiche sulla rappresentazione del “male”. Come ha valutato questo tipo di dibattito? Quel tipo di questione - né nuova e né originale - mi è stata posta più e più volte. Il male ha degli aspetti seducenti. Friedrich Schiller lo paragonava ad una tigre: un animale pericolosissimo con un meraviglioso mantello. Sul film arrivarono diverse critiche, tra cui quelle de Il manifesto. Ciò che è poi esploso con la serie è stato poter raccontare brandelli di storia attraverso fatti criminali. Romanzo criminale ci ha fatto capire che quel processo era già in atto. Penso alla Bologna di allora con Carlo Lucarelli o Loriano Macchiavelli. Andando indietro nel tempo, penso alla Milano di Scerbanenco o alla Sicilia di Sciascia. Romanzo criminale è quindi originale nel porre la “questione mafia” a Roma. Una rivelazione. Non una scoperta. Nei primi anni Duemila, quale immagine c’era nella città di Roma rispetto alla Banda della Magliana? E alla criminalità organizzata più in generale? A Roma, il fenomeno della Banda - una organizzazione che abbracciava borgatari e figli di impiegati - è stato a lungo negato. Quello è stato un tentativo di impiantare una mafia a Roma in una stagione irripetibile. Tentativi di pari forza non ce ne sono più stati. Questo non vuol dire che nella capitale non siano presenti interessi e gruppi mafiosi. Ecco, veniamo all’oggi… C’è una situazione di estrema frammentazione in cui gli equilibri fra clan - italiani ed etnici - si contrattano per fare soldi in modo criminalmente intelligente. Le mafie continuano ad avere dalla loro la liquidità e la velocità delle transazioni. Per questo sparano di meno. In generale, per capire cosa accade adesso mi concentrerei sul Pnrr. Undici anni dopo “Romanzo Criminale” scrive con Carlo Bonini “Suburra”. A fine 2014, scatta l’operazione “Mondo di mezzo”, mediaticamente conosciuta come “Mafia capitale”. Ad agosto 2015, a don Bosco, c’è il funerale-show di Vittorio Casamonica. Se “Romanzo…” guardava al passato, “Suburra” è un racconto in presa diretta, se non anticipatorio, della realtà romana. Come avete lavorato alla stesura? Suburra mette in scena un livello di efferatezza che in “Mafia capitale” non c’è stato tant’è che l’associazione mafiosa è stata negata proprio su questo aspetto, controverso, del tasso debole di violenza. Al tempo della Magliana ci sono stati tantissimi morti. In quello di Suburra no. Io non ho avuto polemiche su Suburra. Il fascino di un personaggio come il Libanese - in termini di percezione letteraria - è molto più alto di quello di uno Spadino. Ho avuto invece altri due tipi di polemiche. Ce le racconti… Due cose di segno opposto. La prima: aver attinto a delle fonti coperte per raccontare un’inchiesta in corso. La seconda: aver sparato nel mucchio e scatenato un’inchiesta perché dicevamo che a Roma c’era la mafia. Due cose contraddittorie. E false. Si tende a diffidare della capacità autonoma degli scrittori di riflettere sulla realtà reinventandola. Nella storia italiana, non sono mancati giudici - penso a Dante Troisi - che si sono misurati con la letteratura “scandalizzando” l’opinione pubblica. Cosa ci dice sul rapporto giustizia-letteratura? Sulla figura del magistrato grava un’ipoteca di origine religiosa e psicoanalitica. Un magistrato è visto come colui che incarna il “giudizio” e rappresenta in Terra la legge del Padre, concetto che rimanda a Dio. Per questo quando si mescola con l’attività artistico-letteraria la cosa suona strana. Il magistrato è ben accetto quando mette in galera i poveracci e tutela l’onorabilità dei potenti. Se rompe questo schema diventa qualcuno da ostacolare. Ho sempre diffidato del magistrato chino sulle proprie carte indifferente a ciò che c’è oltre la finestra, perché il diritto si forma nella Storia e nell’esperienza. Non solo sulle carte. Il dovere di scegliere la speranza di Norma Rangeri Il Manifesto, 31 dicembre 2022 2022, L’Anno Nero. Una guerra che nessuna cancelleria credeva possibile fino al giorno dell’invasione. Un’inflazione al galoppo che nessuna banca centrale prendeva sul serio. Una pandemia che torna in prima pagina con il testa-coda cinese sulle misure per contenerla. Manca giusto qualche evento estremo (alluvioni e siccità) e la lista dell’orribile 2022 potrebbe essere completa. Da dieci mesi viviamo l’orrore quotidiano scatenato da Putin contro il popolo ucraino. Dieci mesi di barbarica invasione, atroci crimini di guerra, il più grande esodo di cittadini europei inseguiti dalle bombe, una popolazione civile come principale, dichiarato, persino ostentato obiettivo bellico. E ancora non si vede uno spiraglio per un cessate il fuoco che possa avviare una trattativa di pace. Se restiamo con lo sguardo sul mondo, un altro regime insanguina il suo popolo, stupra uomini e donne, imprigiona e impicca sulle gru nelle piazze. Un massacro di ragazzi, bambini e donne affamate di libertà, disposte a giocarsi la vita piuttosto che trascorrerla come schiave del medioevale regime degli ayatollah. Né Putin, né Khamenei, alleati nella guerra ai miscredenti dell’Occidente collettivo, metteranno facilmente fine alle loro atrocità, ma dobbiamo essere convinti che, sia per la criminale invasione putiniana, sia per la repressione assassina iraniana, serve una mobilitazione costante della comunità internazionale, dei movimenti sociali, dei governi. Se invece volgiamo lo sguardo al nostro paese, siamo costretti a prendere atto di un 2022 nero. In ogni senso. A cominciare dal passaggio dalla padella di Draghi alla brace di Meloni che, da quasi cento giorni, insieme ai suoi azzoppati scudieri, Salvini e Berlusconi, ha in mano la “nazione”. Già da questi primi decreti, voti di fiducia e “ghigliottine” che feriscono il Parlamento, si capisce che nei confronti delle istituzioni parlamentari si comporteranno come e peggio di chi li ha preceduti. E magari alla fine del 2023 saremmo persino dentro il girone del presidenzialismo e dell’autonomia differenziata. Per certi versi è stato un anno politicamente effervescente (la replica di Mattarella al Quirinale, appunto le elezioni amministrative e quelle politiche), e quindi sul piano dei contenuti abbiamo avuto un assaggio sostanzioso. La destra fa la destra marciando spedita verso un progressivo smantellamento del welfare (come avvertono personaggi moderati come l’ex presidente del consiglio Monti). Una linea politica reazionaria, a cominciare dalla sanità, vittima di un micidiale definanziamento a vantaggio del privato. Meno tasse e meno servizi sociali. Meno reddito di cittadinanza e più voucher per alimentare la via maestra del precariato, sottraendo al lavoro il valore della dignità e del riscatto dalla povertà. Più condoni e meno politiche green. Un governo che lavora alacremente per allungare le file alle mense della Caritas. Per di più questa destra, di fattura squisitamente italiana, è anche fascistoide e repubblichina, con la seconda carica dello Stato che ama convivere con i busti di Mussolini in salotto e commemorare la nascita del Msi quando il ruolo istituzionale dovrebbe suggerire la massima smemoratezza dell’appartenenza politica. Misure antipopolari affidate alla non eccelsa qualità della compagine ministeriale, però ben assortita. Tra un ministro dell’interno, un alter ego di Salvini al Viminale, specializzato nella lotta contro le Ong, associazioni frutto delle nostre democrazie, artefice di decreti di polizia contro i raduni musicali. Un ministro dell’istruzione e del merito che ama indossare i panni di un novello Giovanni Gentile, impegnato a sradicare la politica nella scuola, mentre gli studenti degli istituti professionali muoiono del funereo esperimento scuola-lavoro. Un ministro dei trasporti al quale non affideresti nemmeno il rifacimento delle strisce pedonali e un ministro dell’ambiente che potrebbe oggi essere immortalato alla maniera in cui Fortebraccio, celebre corsivista dell’Unità, scriveva di certi personaggi della politica del suo tempo: “Si aprì la porta e non entrò nessuno, era Pichetto Fratin”. Nelle elezioni dello scorso settembre, le meno frequentate della storia repubblicana, questa destra cannibalizzata da Meloni (ricordiamo che FdI ha doppiato la Lega nelle roccaforti del Nord, dalla Lombardia al Veneto) è comunque a cavallo e può contare di restarci per tutta la legislatura. La sua tenuta dipende soltanto da quanto la presidente del consiglio saprà tenere e bada i suoi alleati. Oltretutto è evidente che un aiutino al governo arriva anche dalla buona volontà delle opposizioni, molto impegnate a facilitargli il compito. Sia quelle che già si offrono per dare una mano, come ha fatto Calenda recandosi a palazzo Chigi per dare consigli non richiesti, sia quelle che fanno la faccia feroce senza far paura a nessuno. A cominciare dal Pd e dai 5Stelle, protagonisti di copioni diversi ma entrambi assai graditi dalla presidente del consiglio e dai suoi sodali. Lo spettacolo del Pd (artefice massimo della sconfitta del 25 settembre), incerto sulla propria identità e diviso per quattro, quanti sono i candidati alla segreteria, si muove sull’orlo del baratro, senza leader, senza una politica di alleanze. Indeciso se spostarsi a sinistra, nel tentativo di riprendersi quelli finiti nel partito di Conte, rischiando di regalare dirigenti e elettori alla coppia Renzi-Calenda. Il M5Stelle sembra aver ripreso slancio ritrovando nel Partito democratico il vecchio nemico dei tempi della lotta alla casta. Conte si è tolto la pochette, si è messo il maglione e batte tutte le piazze del popolo, fregandosene di regalare alla destra, come è probabile se non certo accadrà nel Lazio, lunga e serena vita. L’altra sinistra rossoverde vivacchia e persino si divide attirata in parte dalle sirene pentastellate, in parte dall’alleanza con il Pd. Se questo è quel che accade adesso, come si può sperare in un 2023 meno orribile per il paese? In nessun modo questo governo sarà in grado di invertire la rotta, migliorare le condizioni di vita e di lavoro nonostante la pioggia miliardaria già ricevuta, e quella in arrivo, dall’Europa. Così, anche per immaginare squarci di orizzonti futuri, abbiamo voluto dedicare uno Speciale di fine anno alle esperienze, alle lotte e alle buone pratiche che, in Italia e nel mondo, si fanno strada su molti fronti: dalla flotta delle Ong che salvano le vite dei migranti, agli operai che reinventano la fabbrica, come alla Gkn, dai ragazzi del clima che si battono per salvare il Pianeta, ai popoli indigeni che contrastano il capitalismo estrattivista e che da domani avranno al loro fianco il nuovo presidente del Brasile, Lula De Silva. Come insegnava il vecchio filosofo, anche se il timore avrà sempre più argomenti, tu scegli sempre la speranza. Buon Anno a tutte e a tutti. Migranti. Codice Ong, la premier media e avverte la squadra: sulla comunicazione non si può sbagliare di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 31 dicembre 2022 Lo stop al “decretone” di Piantedosi: no a pastrocchi. C’è fibrillazione anche sulla Libia, perché Esteri e Difesa hanno interessi strategici nel Paese nordafricano. Non è stato semplice né indolore, ma alla fine il governo ha trovato un compromesso che ha consentito il via libera in Consiglio dei ministri, anche se il testo del “decretone” sicurezza si è ridotto al solo decalogo sull’azione delle Ong nel Mediterraneo. Tutte le altre norme studiate dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi per contrastare il terrorismo, la violenza contro le donne, le baby gang e altri fenomeni che minacciano la sicurezza dei cittadini finiranno in un altro provvedimento, destinato a vedere la luce il prossimo anno. Durante la riunione del Consiglio dei ministri è stata la presidente Giorgia Meloni a intestarsi la scelta del decreto sulle Ong e a placare le tensioni che hanno parecchio agitato la maggioranza. L’impostazione della bozza originaria scritta al ministero dell’Interno non aveva convinto Palazzo Chigi. Il sottosegretario alla presidenza, Alfredo Mantovano, si era messo di traverso sia per il metodo, che per il merito. Intanto ha appreso leggendo il Corriere che il decreto in preparazione al Viminale conteneva le norme più disparate e poi, una volta letto il testo, si è convinto che non avrebbe passato la supervisione del Quirinale: alcune norme erano a rischio di incostituzionalità. In asse con il vicepremier Antonio Tajani e con il ministro della Difesa Guido Crosetto, Mantovano ha lavorato per convincere il Viminale a “spacchettare” le norme, prendendo altro tempo ed evitando di incorrere in errori su temi molto sensibili per l’opinione pubblica. Se la Lega puntava ad accelerare, Forza Italia ha contribuito a frenare, perché secondo gli azzurri sarebbe meglio affrontare la materia dell’immigrazione in sede europea, invece di deliberare la linea dura a livello nazionale. E così, sul tavolo del Cdm, è arrivata solo la regolamentazione delle Ong. Ad alcuni ministri la questione non appare così prioritaria, dal momento che solo il 16 per cento dei migranti arrivano sulle coste italiane a bordo delle navi delle associazioni umanitarie, ma per il governo della destra ha un forte significato politico. Piantedosi ieri mattina si è messo di traverso. Era furioso per lo stop e non voleva più portare in Cdm il suo lavoro, perché costretto a rimandare di qualche settimana alcuni capitoli significativi: “A questo punto non ha più molto senso approvare il decreto, non c’è più nemmeno l’urgenza...”. Ma poi, con la mediazione della premier, lo strappo è stato rammendato e il testo perfezionato. Il resto lo ha fatto Meloni al tavolo con i ministri, ringraziando Piantedosi e dando atto al responsabile del Viminale che “alla fine è venuto fuori un buon lavoro”. Ma poi la presidente del Consiglio si è rivolta a Matteo Salvini, che due giorni fa aveva annunciato “un decreto complessivo sul tema sicurezza, dalle baby gang ai femminicidi, al traffico di clandestini”. E, parlando al leader della Lega, Meloni ha ammonito l’intera squadra, invitando indirettamente i ministri a muoversi con maggiore cautela: “Sulla comunicazione non possiamo sbagliare, dare i messaggi giusti è molto importante”. Quanto alla scelta di dividere il decreto: “Non possiamo mescolare la sicurezza con l’immigrazione, sennò viene fuori un pastrocchio e la gente non capisce”. Parole che autorizzano diversi esponenti del governo a commentare tra loro quel filo di diffidenza che serpeggia a Palazzo Chigi riguardo alla sintonia tra Piantedosi e l’ex inquilino del Viminale: Salvini, appunto. E c’è fibrillazione anche sulla Libia, perché Esteri e Difesa hanno interessi strategici nel Paese nordafricano e Tajani e Crosetto non possono consentire che sia solo il ministero dell’Interno a tenere i rapporti con Tripoli. Nonostante tutto, diversi ministri assicurano che “la riunione è filata via liscia”. La maggior parte del tempo si è discusso di Ilva, poi il ministro Orazio Schillaci ha informato i colleghi sulla recrudescenza del Covid in Cina che sta allarmando il mondo. A margine del Cdm, che dovrebbe essere l’ultimo del 2022 e al quale il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha partecipato in videocollegamento perché influenzato, il responsabile della Salute ha usato argomenti tranquillizzanti: “Il problema è il vaccino cinese, in Italia non c’è alcun tipo di preoccupazione”. Migranti. “Il decreto anti-ong? Il soccorso in mare non si può impedire” di Simona Musco Il Dubbio, 31 dicembre 2022 Parla Gianfranco Schiavone, della Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione: “Questa norma è vacua, non porterà da nessuna parte”. “Questo decreto è quasi un’ammissione di impotenza”. Il giurista Gianfranco Schiavone, dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, non usa mezzi termini: il nuovo decreto anti ong non arriverà da nessuna parte. In primo luogo perché certifica, nonostante le intenzioni del governo, l’obbligo di salvataggio. E anche qualora venisse applicato in senso restrittivo, non potrebbe che soccombere di fronte alle norme internazionali, che cerca di aggirare - ma nemmeno troppo - con frasi ambigue e “mezzucci” che hanno un unico reale scopo: rallentare le attività di soccorso. Nemmeno il tentativo - flebile, a dire il vero - di impedire i soccorsi multipli potrà infatti reggere di fronte alla legge. “È una strada molto stretta quella imboccata dal governo - spiega al Dubbio Schiavone - perché in realtà il messaggio generale che viene fuori da questa operazione rocambolesca è che di fatto il soccorso in mare non può essere impedito. E anche questo governo, che è iniziato con lo slogan “blocco navale”, alla fine deve accettare lo Stato di diritto, riconoscendo che le operazioni di soccorso in mare, svolte a qualunque titolo e da qualunque soggetto, sono ciò che il diritto della navigazione e il diritto internazionale impongono. E che i poteri che un governo nazionale può esercitare devono muoversi dentro questi paletti, che sono invalicabili”. Impedire i salvataggi plurimi è impossibile, aggiunge il giurista, in quanto si tratterebbe di “una delle violazioni più clamorose delle convenzioni delle Nazioni Unite e anche del diritto della navigazione”. Il decreto, stando alla bozza, impone di raggiungere il porto di sbarco assegnato dalle competenti autorità senza ritardo per il completamento delle operazioni di soccorso. Una frase di per sé neutra, anzi addirittura corretta, “perché una imbarcazione non può decidere di non completare il soccorso. Ma se nel tragitto ci sono altri naufraghi che possono essere salvati con una deviazione ragionevole rispetto alla finalità complessiva si è obbligati a salvarli. Che tipo di contestazioni possono essere mosse? - aggiunge - La fattispecie individuata è genericissima. Queste frasi o vogliono non dire niente o vogliono entrare in conflitto con le normative internazionali”. E a questo punto le possibilità di “sopravvivenza”, per il decreto, sono minime: “La finalità superiore è il soccorso - spiega ancora Schiavone -. Sbarcare due giorni dopo per salvare delle persone è qualcosa che nessuno potrà mai contestare. Sulla base di cosa, poi? Non c’è un divieto di salvataggi multipli. Tutto quello di cui si discute sono dichiarazioni politiche, ma si sono ben guardati dallo scrivere nel decreto frasi così sciocche”. Si tratta, dunque, di una norma manifesto, ma “estremamente vacua”. Come mettere nero su bianco che le attività di ricerca e soccorso in mare non devono concorrere a creare situazioni di pericolo a bordo né impedire di raggiungere tempestivamente il porto di sbarco. Un’ovvietà già prevista dalla convenzione Unclos, secondo cui il soccorso deve sempre essere tentato, a meno che non sia evidente il rischio per le persone a bordo della nave. Lo scopo reale del governo è ravvisabile anche dalla scelta di ricorrere ad una sanzione amministrativa e non ad una norma penale. E ciò perché “è molto più facile sollevare una questione di legittimità”, nel secondo caso, che avrebbe inoltre richiesto disposizioni più chiare. “La norma manca del rispetto della tassatività - prosegue Schiavone -. Inoltre l’organo che applica la sanzione, ovvero il prefetto, è lo stesso al quale fare ricorso. Ma come fa il prefetto del territorio ad avere contezza del fatto che, ad esempio, quella nave ha creato situazione di pericolo? E perché dovrebbe essere il prefetto del punto di sbarco? Caso mai dovrebbe essere un’autorità nazionale, perché le fonti informative sono la guardia costiera e il centro di coordinamento”. Il tentativo, ammesso che sia fattibile, è dunque quello di rallentare le operazioni di soccorso, ma “contro il diritto internazionale si perde e si perde tempo”. E anche il refrain che le ong rappresentano un pull factor è solo una chiacchiera. Non solo perché non è mai stato provato, ma anche perché sarebbe del tutto irrilevante per il diritto internazionale. “Persino se esistesse un’ipotesi di questo tipo - continua il giurista -, che è stata largamente smentita, non avrebbe niente a che fare con l’obbligo di soccorso. È solo un argomento politico”. Altra questione è l’obbligo di avviare tempestivamente iniziative volte ad acquisire le intenzioni di richiedere la protezione internazionale. Cosa fattibile già adesso, dal momento che il comandante, sulla nave, è un pubblico ufficiale, senza la necessità di scrivere una nuova norma. “Anzi - aggiunge Schiavone - finalmente si chiarisce che non bisogna indurre le persone a chiedere protezione: è giusto informarle dei loro diritti e in caso raccogliere i dati. Ma questo non vuol dire che le domande vengano prese in carico dal capitano della nave né che la competenza ad esaminarle sia del Paese di bandiera: non è previsto nel diritto dell’Unione europea”. Anche perché se questa interpretazione fosse corretta l’Italia avrebbe già potuto applicare questo principio: basterebbe aprire uno dei tanti contenziosi previsti del regolamento Dublino e sostenere che lo Stato di bandiera è quello di confine. “Facciamolo, qual è il problema? - si chiede Schiavone - Ve lo spiego io: ci si schianterebbe contro un muro. Una norma interna non può modificare il sistema d’asilo europeo”. La soluzione per gestire i fenomeni migratori è una sola: rendere praticabili le vie d’accesso legali all’Europa per motivi diversi dalla protezione. “Il canale dell’asilo è una sorta di imbuto obbligatorio - conclude Schiavone -. Bisogna cercare di diminuire il numero delle persone che vi si infilano in assenza di altre possibilità e consentire l’ingresso regolare con forme nuove. Solo in questo modo ci sarà una diminuzione dei clienti dei trafficanti. A quel punto si potranno fare dei programmi di ingresso protetto dei rifugiati: questo è ciò che un governo saggio dovrebbe fare. E non finanziare la guardia costiera libica perché pensiamo che l’unica cosa da fare sia impedire. Impedire non è possibile, oltre che illegittimo. E l’effetto paradossale è che finiamo per non gestire proprio nulla”. Migranti. Piantedosi: “I soccorsi in mare garantiti dallo Stato. Le Ong fanno la spola solo con la Tripolitania. Come mai?” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 31 dicembre 2022 “La sinistra predica solidarietà e accoglienza sulle agenzie di stampa, ma poi appena decidiamo di far sbarcare i migranti irregolari in tutti i territori italiani, tutti condividono le criticità di un sistema senza regole”. “Nel 2023 aumenteremo la sicurezza nelle città italiane, con più forze dell’ordine e telecamere”. “I soccorsi in mare sono garantiti dalle autorità statali. Le Ong, chissà perché, si concentrano solo sulla rotta dalla Tripolitania e incentivano le partenze. Il 93% delle persone che soccorrono parte da lì. Come mai?”. Nel suo ufficio al Viminale, il decreto-rave appena approvato dalla Camera, quello immigrazione appena varato dal Consiglio dei ministri, Matteo Piantedosi guarda già all’agenda 2023.  “Il governo - dice a Repubblica - vuole attuare una politica sui Paesi di origine e transito dei flussi migratori che possa portare al progressivo svuotamento dei centri in cui finiscono le persone che partono dal Subsahara e dalle altre parti del mondo con il miraggio di imbarcarsi sulle coste africane. È un programma ambizioso che richiede tempo. Siamo in carica da due mesi e ci lavoriamo con convinzione. I contatti con i ministri dell’Interno dei Paesi interessati sono già attivi. Stiamo programmando a breve una serie di incontri diretti”. Ministro, il decreto immigrazione ha già svuotato il Mediterraneo delle navi Ong. Chi parte in questi giorni non trova alcun dispositivo di soccorso se non la guardia costiera libica che riporta indietro i migranti in porti che l’ONU definisce non sicuri. Le Ong ritengono che questo provvedimento farà aumentare i morti in mare. Cosa risponde? “I salvataggi nel Mediterraneo, come dimostrano i dati, sono effettuati soprattutto dalla nostra Guardia di Finanza e dalla nostra Guardia Costiera. Si tratta di oltre il 43% delle persone sbarcate nel corso del 2022 mentre il resto sono per la gran parte arrivate autonomamente. Trovo singolare il ragionamento che tende a dire che le Ong hanno un ruolo statisticamente marginale nel portare i migranti nel nostro Paese per poi dire che senza di loro i migranti sono destinati a a morire in mare. I naufragi, le tragedie in mare e le presenze in Libia si riducono solo se si agisce sul fronte delle partenze irregolari, impedendole. Infatti, le morti in mare si sono praticamente azzerate quando si sono attuate concrete politiche che hanno dissuaso i migranti dall’ammassarsi sulle coste africane per poi affidarsi a scafisti senza scrupoli con l’obiettivo di tentare la traversata”.  Decreto rave a parte, il suo primo provvedimento in questi due mesi da ministro è stato questo decreto immigrazione. Pensa davvero che i 100.000 migranti in arrivo siano una vera emergenza per l’Italia? E se l’intento del governo è fermare i flussi migratori perché limitare l’intervento alle Ong che hanno portato in Italia solo il 12 % delle persone? “Come ho avuto modo di riferire in Parlamento, il sistema di accoglienza sul territorio nazionale è già al collasso. Stanno andando deserte le gare per assicurare nuovi posti di accoglienza. La possibilità di una accoglienza adeguata è una questione di dignità delle persone. Trovo singolare che la sensibilità collettiva sulla dignità delle persone si fermi al momento dello sbarco mentre non c’è attenzione sulla sostenibilità di flussi incontrollati che generano emarginazione.Ho ben presente che il problema non si ferma con la regolamentazione dell’attività delle Ong. Ed è proprio per questo che ci ripromettiamo un più vasto programma di supporto ai Paesi di origine e transito dei flussi. D’altra parte, se certamente gli arrivi in Italia di immigrati attraverso navi Ong costituiscono solo una parte di quelli complessivi, un’analisi relativa agli sbarchi evidenzia il loro incremento in concomitanza della presenza di navi nel Mediterraneo. Per esempio, nello scorso mese di novembre, negli ultimi 10 giorni, in assenza di navi Ong, non si sono avuti sbarchi. Anche nel successivo mese di dicembre una riduzione degli sbarchi si è registrata tra la seconda e la terza settimana, allorché non erano presenti navi Ong in mare”. Su quali dati si basa questa analisi? “L’attività delle Ong è determinante per quanto riguarda gli arrivi provenienti dalla Tripolitania, costituendo circa un terzo degli sbarchi complessivi in Italia. Da questa specifica rotta, nel 2021 sono giunte in totale 27.264 persone, di cui 8.665 (31,78%) attraverso navi Ong. Il trend è risultato in ulteriore aumento nel 2022, con 31.860 immigrati totali, di cui 11.076 per il tramite di navi Ong (34,76%). Quest’anno, le Ong hanno condotto in Italia in totale 11.892 persone, di cui 11.076 provenienti dalla Tripolitania (93,2%) e solo 816 da altre regioni (6,8%). Questi dati dimostrano come l’attività complessiva delle Ong sia concentrata su quella rotta, con un effetto incentivante delle partenze da quell’area. Peraltro non capisco perché l’aspirazione al salvataggio si sviluppi esclusivamente lì”. Sono di questi giorni le foto del corpicino di una piccola migrante morta su una spiaggia libica. Per i tanti bambini che con o senza le loro mamme affrontano la traversata non c’è altro modo per mettersi in salvo. Per loro il decreto flussi non serve. L’uomo Piantedosi cosa prova davanti a queste immagini? “Provo profondo dolore per tragedie come queste che devono assolutamente essere evitate e questo può avvenire attraverso la gestione dei flussi migratori che devono avvenire esclusivamente in maniera regolare, pianificata e sicura. Per chi fugge dalla guerra dobbiamo proseguire con i corridoi umanitari e le evacuazioni, un impegno che l’Italia sta sostenendo insieme alle organizzazioni internazionali e al terzo settore. In campagna elettorale il blocco navale, poi i porti chiusi, poi ancora gli sbarchi selettivi e ora il porto subito, anche se lontano, a tutte le Ong. Come spiega questa marcia indietro? La propaganda che si scontra con la realtà? “Nessuna propaganda. Possono variare gli strumenti in relazione alle circostanze concrete ma l’obiettivo è e rimane difendere i nostri confini, che sono quelli europei, contrastando i criminali che si arricchiscono facendo partire soltanto chi paga ed è costretto a sottomettersi ai loro ricatti”. Gli elettori di questo governo, però, si aspettavano di non vedere più sbarchi... “Le prime mosse del governo hanno già invertito la tendenza all’aumento senza intaccare le attività di soccorso in mare che sono state garantire efficacemente dalle autorità statali. Gli ultimi due mesi del 2022 segnano un abbassamento della curva di incremento rispetto all’analogo periodo dello scorso anno: soltanto del 35%, a fronte di un incremento del +59% dei primi dieci mesi di quest’anno”. Da sinistra sono molto critici sul decreto. Perché mandare le Ong nei porti più lontani possibile?” “Molti predicano la solidarietà e l’accoglienza sulle agenzie di stampa ma poi, quando sul territorio si devono accogliere migliaia di migranti irregolari, tutti condividono le criticità di un sistema senza regole. E questo avviene perché Myanmar. Un’altra condanna: fine pena mai per San Suu Kyi di Theo Guzman Il Manifesto, 31 dicembre 2022 La leader democraticamente eletta processata per corruzione. A niente è servita la risoluzione dell’Onu che invita la giunta a liberare i prigionieri politici. Nonostante il Consiglio di sicurezza dell’Onu abbia appena adottato in dicembre una risoluzione sul Myanmar, la prima in 75 anni, che chiede la fine delle violenze e invita i militari al potere a rilasciare tutti i prigionieri politici, inclusa la leader democraticamente eletta Aung San Suu Kyi, un ennesimo processo alla ex leader birmana l’ha appena condannata per corruzione a sette anni di carcere nell’ultima di una serie di udienze processuali che portano adesso a 33 anni di galera la pena da scontare. La Nobel che per anni ha guidato la lotta democratica nel Paese ha 77 anni e dunque non dovrebbe più uscire dal carcere alla periferia della capitale Naypyidaw dove è stata trasferita nei mesi scorsi dopo l’arresto a Yangon. Arresto nei giorni immediatamente seguiti al golpe militare del 1 febbraio 2021 che ha destituito il suo esecutivo e rese nulle le elezioni del 2020 che ne avevano consolidato il consenso. Secondo una fonte anonima citata dall’agenzia Afp, tutte le accuse - dal possesso di trasmittenti alle violazioni delle leggi sul Covid - sarebbero ora esaurite e dunque l’iter processuale sarebbe terminato. Difficile al momento capire se la giunta militare le concederà, in una parvenza di legalità, la possibilità di fare appello. Nell’ultimo caso, conclusosi ieri, la Lady è stata accusata di aver abusato della sua posizione causando perdite finanziarie allo Stato e di non aver seguito un iter corretto nel concedere il permesso a Win Myat Aye, membro del suo gabinetto, di acquistare e mantenere un elicottero. Le reazioni come sempre non si son fatte attendere. Nel nostro Paese l’associazione Italia-Birmania Insieme riassume la posizione di chi considera questi processi una farsa legale espressione di illegittimi tribunali birmani che porta il totale delle condanne a “33 anni di carcere, di cui tre con lavoro forzato” dopo “una dozzina di accuse infondate, tra cui corruzione, frode elettorale, istigazione al disordine e violazione dei protocolli Covid-19”. Un modo per “cancellare la leader birmana e il suo partito dalla scena politica, fino a quando la dittatura non verrà sconfitta definitivamente dalla forza della resistenza democratica birmana”. L’ultima sentenza è, dice l’associazione, “un’ulteriore provocazione di fronte all’inefficacia delle istituzioni internazionali, dell’Asean e della Ue che, nonostante le numerose dichiarazioni di condanna, si sono sempre mosse con una profonda incertezza, divisione e debolezza politica”. L’associazione chiede un cambio di passo e cioè che Italia e Ue riconoscano il Governo di Unità Nazionale (Nug, clandestino) e decidano di dare “un forte sostegno finanziario al Nug e alle organizzazioni della società civile e sindacali birmane”. Da notare che il governo ombra non ha mai preteso l’invio di armi alla resistenza ma ha sempre chiesto solo sostegno finanziario. Anche albertina soliani, presidente dell’Istituto Cervi e Vicepresidente Anpi, già a capo dell’Associazione parlamentare Amici della Birmania, condanna “un processo illegale e immorale, come il colpo di Stato, gli arresti, le torture, le uccisioni” e ricorda sia la recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu, sia l’altrettanto recente decisione americana di destinare fondi alla resistenza: “Il Myanmar ha bisogno oggi di tutti noi”. Non c’è però molto al di là di queste voci o delle indagini di Ong birmane o di associazioni come Amnesty o Human Rights Watch. La Ue si è limitata a una condanna generica né la risoluzione dell’Onu fa menzione di un embargo sulle armi e sul carburante usato nei raid aerei militari che uccidono civili. Un blocco che dovrebbe estendersi - chiedono le Ong - anche alle assicurazioni e ai prodotti minerari come le gemme o le terre rare.