Nuove carceri nelle caserme? Ci ha già provato Bonafede di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 dicembre 2022 La settimana scorsa, nel seguito delle comunicazioni sulle linee programmatiche in commissione al Senato, il ministro della giustizia Carlo Nordio ha spiegato che le carceri non sono sufficienti e non lo saranno per i prossimi dieci anni a tenere detenuti tutti quelli che vengono condannati. “Vi sono in Italia decine di caserme che sono state dismesse. Le caserme per definizione hanno una struttura che è abbastanza simile e compatibile con quelle delle carceri, hanno il muro di cinta e le baracche interne”, ha sottolineato il guardasigilli. In realtà già ci ha provato l’ex ministro grillino Alfonso Bonafede attraverso un piano della riconversione legittimato dall’articolo 7 del decreto semplificazioni, poi convertito in legge. Risultato? Non è stato fattibile. L’articolo 7 articolo disponeva che, ferme restando le competenze del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti in termini di infrastrutture carcerarie, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria concorresse attivamente alle attività relative alla ristrutturazione e/ o alla costruzione di nuovi istituti nei prossimi due anni (termine 31 dicembre 2020). E tra i compiti assegnati al Dap dall’articolo 7 (comma 1) c’era anche la “individuazione di immobili, nella disponibilità dello Stato o di enti pubblici territoriali e non territoriali, dismessi e idonei alla riconversione, alla permuta, alla costituzione di diritti reali sugli immobili in favore di terzi al fine della loro valorizzazione per la realizzazione di strutture carcerarie”. Per dare seguito al progetto, l’ex ministro ha anche siglato un protocollo d’intesa con l’allora ministra della difesa Elisabetta Trenta per individuare aree inutilizzate come, appunto, le caserme dismesse. Le opere militari inutilizzate sono sparse in tutto il territorio italiano e per lo più abbandonate al degrado: vecchie caserme, polveriere, poligoni, postazioni dei battaglioni d’arresto, alloggi per i militari, che da anni aspettano una riconversione per diventare musei, addirittura parchi fotovoltaici, oppure frantoi. Ma tali edifici rispondono alle logiche del carcere moderno che deve avere strutture architettoniche adeguate al nuovo concetto della pena? Non solo. Il ministro Nordio ha anche giustamente osservato che costruire nuove carceri in Italia è impresa ardua, e se tutto va bene ci vogliono 10 anni. Ecco perché ha proposto la conversione delle caserme dismesse. Il problema è che non possono essere riconvertite proprio perché non hanno una struttura conforme. Abbiamo un esempio concreto. A San Vito al Tagliamento, nel Friuli, al posto della caserma sarebbe dovuto nascere un nuovo carcere. Ricordiamo che la caserma è stata individuata nel 2013. L’iter iniziale è stato lunghissimo, con non pochi intoppi, tanto da ricorrere alla Corte dei Conti che poi dette il via. Ma la caserma, ovviamente, non risponde ai canoni moderni del carcere, per questo deve essere abbattuta per rifare da zero il nuovo carcere. È stata recuperata solamente la palazzina già sede del Comando del Battaglione Piccinini e ospiterà la parte amministrativa della nuova struttura. I lavori sono iniziati ufficialmente nel maggio del 2018, però il bando è stato presentato alla Gazzetta Ufficiale Europea nel 2013. Il costo era di circa 25 milioni di euro già stanziati dai precedenti ministeri. Finisce qui? No. I lavori non sono più partiti grazie al ricorso sull’aggiudicazione dell’appalto. Ad agosto 2021 è stato indetto un nuovo bando che ha innalzato inevitabilmente i costi a quasi 40 milioni di euro. La travagliata storia ha finalmente un lieto fine? No. Dal sito del ministero delle infrastrutture si apprende che, per ordine del Provveditore alle OO. PP. Triveneto, Veneto, Trentino A. A., Friuli Venezia Giulia, la procedura in oggetto viene sospesa a data da destinarsi. Siamo oramai arrivati quasi nel 2023 e tutto è rimasto fermo. Ancora una volta, nonostante le buone intenzioni del ministro Nordio, emerge con forza che costruire nuove carceri (e anche le caserme dismesse, come abbiamo visto, sono da ricostruire completamente) è una ricetta arcaica e non fattibile per risolvere il sovraffollamento. Come abbiamo già dato notizia su Il Dubbio, c’è anche il problema che non si riescono a finire i lavori per rifacimento di nuovi padiglioni come quello di Poggioreale nonostante i milioni di euro già stanziati. Importante puntare al carcere come extrema ratio. Ottima la proposta del sottosegretario Andrea Delmastro sull’assegnazione dei detenuti con problemi di tossicodipendenti alle comunità di recupero. La grande sfida dovrebbe essere quella che punti a chiudere diverse carceri come è avvenuto in Svezia, non a costruirne di nuove. Dare una chance a chi sbaglia. Ecco la vera sfida di una democrazia di Paola Balducci Il Dubbio, 30 dicembre 2022 In questi giorni si è molto detto sulla “evasione” di sette ragazzi dall’istituto Beccaria. Si è da taluno rivendicata l’esigenza del carcere più sicuro, della sanzione esemplare, insistendo sull’efficacia deterrente della pena per chi viola le regole, in questo caso scappando da una struttura penitenziaria minorile. Si è risollevato il tema sempre vivo del binomio “più carceri più sicurezza”; tema che è tanto caro a chi intende il carcere come neutralizzazione dell’individuo, trascurando la esigenza costituzionalmente tradotta delle pene che devono tendere alla risocializzazione. Ma arriviamo brevemente al Beccaria: da carcere modello a modello in negativo di una struttura carceraria minorile. Si solleva la polvere di una criticità endemica di questa struttura: lavori in corso perenni, assenza di un direttore a tempo pieno, mancanza di personale competente e specializzato che possa capire e interagire con i minori, ognuno con problematiche diverse, assenza di speranza. Rinchiudere minorenni senza un trattamento che li rieduchi, facendo espiare una condanna nell’ozio, nell’abulia, sicuramente non li farà uscire migliori. Le storie individuali sono le più diverse: spesso manca un nucleo familiare di riferimento, le famiglie vivono disagi di ogni tipo, il tema serio della dispersione scolastica, spesso trascurato. Ben vengono le parole del ministro della Giustizia Carlo Nordio che ci ricorda che bisogna lavorare ed insistere sulla prevenzione, che le sanzioni per i minori devono avere una finalità rieducativa ampliando anche l’esperienza di istituti come la messa alla prova o la giustizia riparativa. Una sfida anche per i giovani che sono incorsi in percorsi devianti e deviati: si può ricostruire un’esistenza diversa, un messaggio di fiducia da far cogliere a chi vorrebbe cambiare la propria esistenza. La democrazia di una Nazione passa anche attraverso segnali importanti: che chi sbaglia, specie se minore, può avere una nuova chance nella vita. “Io, direttrice penitenziaria, dico: il carcere ai ragazzi fa male” di Tiziana Maiolo Il Riformista, 30 dicembre 2022 Cosima Buccoliero, pioniera dell’istituto modello di Bollate, è autrice del libro “Senza sbarre”. Parla all’indomani del rientro in prigione anche degli ultimi “fuggitivi” del Beccaria. Mentre parliamo è già diffusa la notizia che ormai tutti e sette i ragazzi dell’Istituto Cesare Baccaria di Milano sono, in modo più o meno volontario, tornati. La fuga della notte di Natale è durata poco più dello spazio di un mattino. E lei, Cosima Buccoliero, dirigente penitenziaria, pugliese trapiantata a Milano, è perentoria nel dire che per i minori il carcere non è solo inutile, ma addirittura “dannoso”. “I danni della reclusione sono sicuramente superiori alle opportunità che la struttura può mettere a disposizione. Anche se sono tante e importanti le iniziative che luoghi come il Beccaria possono offrire, ci sono poi i tempi morti, il vuoto che non sai come riempire. E la noia, la grande nemica del carcere. La noia che produce angoscia e poi autolesionismo o aggressività”. La fuga di Natale è tutta lì. A mostrare il non senso della gabbia che rinchiude, l’assurdità, condivisa anche da una persona che di mestiere fa la “carceriera”, di tenere prigionieri ragazzi che hanno tutta la fragilità dell’adolescenza, accompagnata ormai da forti disagi psichici, moltiplicati dopo l’epidemia di covid. Che fare dunque di questi 400 adolescenti che stanno rinchiusi? “Rafforzare l’organizzazione delle comunità, dedicare maggiore attenzione ai problemi della tossicodipendenza e della salute mentale, per come si presentano oggi, nel 2022”. Ma prima di tutto, questi 400 tirarli fuori. Per loro “il carcere è dannoso”. La dottoressa Buccoliero è provvisoriamente direttrice del carcere torinese Le Molinette. “Provvisoriamente” non lo dice lei, ma lo sappiamo noi, vista la sua candidatura come capolista “civica” del Pd alle prossime elezioni regionali in Lombardia. Non vuole parlarne, in questa intervista, per non mescolare i ruoli. Oggi indossa il suo vestito di “carceriera”, e non è un abito arcigno, perché lei è una pioniera, insieme a Luigi Pagano e Lucia Castellano che ne furono i primi direttori, della nascita di Bollate. Quell’istituto che un giorno il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri definì un semplice “spot”. Che ne pensa, dottoressa? “Noi abbiamo sempre agito e costruito, prima di comunicare, con esperimenti a volte anche andati male. Ma abbiamo continuato a provare”. I risultati sono arcinoti, a fronte di una generale recidiva del 70% dei casi gli ex detenuti, per quelli di Bollate non si arriva al 20%. Un’altra proposta del procuratore Gratteri, e non è il solo, è quella di costruire nuove carceri, per ovviare al problema storico del sovraffollamento. Cosima Buccoliero inorridisce: “Assolutamente no, magari per metterle in mezzo al nulla, nel vuoto di luoghi separati e disumani? Meglio far crescere le misure alternative, come del resto la legge prevede. Bisogna ridurre al minimo il numero dei detenuti. Fare in modo che le persone proprio non entrino”. Pensiamo di aver fatto bingo. Invece. Ma allora lo aboliamo l’orrore del carcere? Serve a qualcosa? “Come comunità in questo momento non possiamo liberarci da questa necessità. Ma si può ridurla al minimo e poi trasformare e riformare”. È ancora Bollate che ritorna. La direttrice ha scritto un libro, con la giornalista Serena Uccello, e il titolo Senza sbarre (Einaudi) dice tutto. Ci sono particolari che colpiscono, come l’uso della parola “camera” invece che cella. “Lo dicono anche le circolari, perché si tratta di stanze di pernottamento, dove si va solo a dormire, e questo è un valore”. Sorride nel ricordo di aver scandalizzato un collaboratore dell’ex presidente della Camera Laura Boldrini, in visita all’istituto, quando le aveva sentito dire che gli ergastolani avevano diritto a una camera singola. Come mai? “Perché così stanno meglio”, aveva semplicemente risposto la direttrice. Che è stata anche dirigente nel carcere di Opera, dove di condannati al “fine pena mai” ne ha incontrati parecchi. Inutile sottolineare l’angoscia di chi cerca di impegnare in un programma persone che non possono avere progetti se non da rinchiusi. Ma la domanda sull’ostativo è un po’ obbligata. “Bisogna fidarsi dei giudici e tribunali di sorveglianza. Abbiamo visto casi di persone che con il trattamento hanno fatto percorsi straordinari. E questi magistrati hanno tutti gli strumenti e gli elementi per valutare”. Aprire, quindi. Ci sono due concetti che stanno alla base della possibilità di vincere la scommessa del cambiamento con chi ha rotto il patto di solidarietà con la società. Uno è il concetto di comunità. A Bollate, la formazione professionale del personale, le porte aperte e il grande impetra gno nello studio e nel lavoro, hanno creato una comunità in cui non esistono quelli che sono chiusi e quelli che chiudono e gettano la chiave, ma programmi realizzati insieme. L’altro concetto è quello del patto, un vero contratto scritto tra l’istituzione e il detenuto. “Io ti scrivo tutto quello che ti offro e tu ti impegni nella responsabilità di mantenere il patto”. In questo modo si rovescia il cliché del carcere. Ma come è venuto in mente a una giovane laureata pugliese, una che è nata nel 1968 mentre i giovani erano più nelle piazze che a scuola e che racconta di non esser quasi mai lei stessa, quando ne ha avuto l’età, andata a manifestazioni, di diventare una “carceriera”? “Ho sempre avuto fretta, prima di laurearmi, poi di fare concorsi. Ho pensato alla magistratura, ma poi mi ha colpito quel che diceva il professor Onida, che il diritto è carne e sangue, e ho capito quel che volevo fare. Il mio primo incarico è stato a Cagliari, dive il carcere era una struttura fatiscente. Ma nei primi incontri con i detenuti ho intuito come calare il diritto nella vita e come farlo diventare carne e sangue”. Gaetano Pecorella: “Nordio ha ragione: solo la prevenzione salverà quei ragazzi” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 30 dicembre 2022 “Il ministro Nordio si sta dimostrando molto attento alla realtà carceraria. Spero che l’intero apparato gli dia la possibilità di realizzare quanto ha in mente. Nordio ha una concezione moderna del carcere e del processo penale. Servono però investimenti. I buoni propositi rischiano di rimanere tali se mancano le risorse. Anzi, potrebbero trasformarsi in promesse non mantenute: niente di peggio per la politica e le istituzioni”. Gaetano Pecorella, penalista con cinquant’anni di esperienza, apprezza l’impegno del guardasigilli all’indomani della fuga di sette reclusi dal carcere minorile di Milano. Al tempo stesso auspica un cambio di mentalità per affrontare con pragmatismo la questione carceraria minorile. “I ragazzi reclusi - dice al Dubbio - devono potersi costruire lo stesso un futuro”. Avvocato Pecorella, la fuga dal Beccaria ha acceso i riflettori sulla condizione delle carceri minorili. Non siamo all’emergenza, ma è scattato un campanello d’allarme? È proprio così. Mi meraviglio che non ci si sia accorti prima della situazione delle carceri minorili. Tanto dipende dalle attività rieducative che si mettono in campo e che riguardano la possibilità di avere un insegnamento, una scuola efficiente, un titolo di studio e un lavoro. Le carceri minorili dovrebbero preparare i giovani reclusi ad avere un futuro. Questo è un dato essenziale. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha mostrato subito attenzione rispetto a questi profili di prevenzione. Il guardasigilli, dopo i fatti di Natale, ha anticipato la creazione di un tavolo interministeriale. Famiglie scuola e terzo settore vanno coinvolti. Una prima risposta concreta da parte di via Arenula? Direi di sì anche se a me pare che il tavolo suggerito dovrebbe essere completato con il coinvolgimento del ministro dell’Interno e del ministro dell’Economia. Il problema non è il carcere, ma chi va in carcere. Di solito dietro le sbarre finiscono quei giovani che fuori dal carcere non hanno un lavoro o una preparazione tale da entrare nel mondo del lavoro e vivono in situazioni ambientali in cui la principale attività è quella di commettere reati. Bisognerebbe intervenire in quelle aree delle grandi città, a partire da Milano, in cui il comportamento criminale è all’ordine del giorno. I primi interventi vanno fatti fuori dal carcere per fare in modo che le aree in cui i giovani imparano la criminalità, anziché studiare o approcciarsi ad un lavoro, siano risanate. Noi pensiamo tanto, giustamente, a risanare l’ambiente, ma esiste anche una esigenza a risanare le aree sociali, dove alligna la criminalità e dove molti giovani vedono il loro futuro solo in funzione di comportamenti criminali. Questo, secondo me, è un tipo di intervento al quale di solito non si pensa. Il criminale non nasce tale, ma si forma in ambienti sociali in cui la criminalità è una attività possibile per garantirsi un futuro. La fuga dal Beccaria ha posto l’accento sul tema della scopertura dei ruoli apicali negli istituti penitenziari. Alcune problematiche nascono anche dall’organizzazione? Evidentemente questo è il segno della poca attenzione che ha avuto la politica. È impensabile che ci sia una struttura in cui manca un insieme di soggetti che si occupano individualmente di ciascun detenuto. È il segno di promesse non mantenute. Durante la mia esperienza al Parlamento, presentai un disegno di legge per l’organizzazione degli agenti di custodia e di tutto il sistema carcerario dal punto di vista della corporazione. Il fatto che ci vogliano anni e anni per avere un direttore stabile e competente ha fatto emergere una situazione chiara, ma l’attenzione dimostrata dal ministro della Giustizia fa ben sperare. Il direttore di un carcere minorile deve instaurare un rapporto educativo non repressivo. Un ragazzo che finisce nel carcere minorile rischia di rovinarsi per sempre? In passato si accomunava il carcere ad una scuola di delinquenza. Me lo ricordava sempre il mio maestro, Giandomenico Pisapia. Chi entra nel carcere anche se non è un vero delinquente lo diventa per i rapporti che si instaurano in quell’ambiente. La questione ruota attorno a un tema preciso: in carcere, prima di tutto, si dovrebbe andare nei casi in cui è assolutamente necessario e indispensabile. Da noi si va in carcere in misura cautelare anche per reati che non meritano la carcerazione, perché la persona non è pericolosa e può restare all’esterno. Questo discorso dovrebbe essere ancora più valido per i minori. Il minore dovrebbe essere affidato più che al carcere a delle comunità di rieducazione. Il carcere non solo non rieduca, ma peggiora le abitudini e i rapporti criminali. Ricordo il caso di un mio assistito, in carcere per motivi politici, che fu avvicinato per organizzare una rapina, in quanto ritenuto più intelligente degli altri reclusi. Nella luccicante Milano si fanno i conti con i fenomeni delle baby gang, che creano non poco allarme sociale. Le periferie e i centri cittadini come si avvicinano per impedire la creazione di sacche di disagio e di devianza? Le sacche sociali di criminalità nascono da fenomeni di grave disagio, che, prima di colpire il minore, interessano la sua famiglia e l’ambiente circostante. Una volta la presenza di altre realtà, come le parrocchie, riusciva a contrastare certi fenomeni. Bisognerebbe creare dei centri sociali in cui i giovani possano essere seguiti e guidati. Si deve partire dall’esterno del carcere per combattere il fenomeno della criminalità minorile. Il carcere è l’ultima spiaggia e deve essere concepito come un luogo sociale e non come un luogo di restrizione e basta. Il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, si è espresso sulla possibilità, per contrastare il sovraffollamento, di destinare alle comunità i detenuti tossicodipendenti disponibili ad un percorso alternativo alle sbarre. Cosa ne pensa? In verità è quello che accade anche oggi. L’alternativa tra il carcere e la comunità per i detenuti tossicodipendenti induce a scegliere naturalmente la comunità. È una buona soluzione. Spesso le comunità sono affidate a sacerdoti e sono espressioni della chiesa... Pensare a comunità di altro genere, più aperte e più sensibili anche alle esigenze giovanili, non sarebbe sbagliato. Le comunità insegnano un mestiere, aiutano a stare insieme ad altri soggetti e a pensare alla vita fatta di lavoro onesto. Lo Stato dovrebbe svolgere una funzione propulsiva per le comunità anche di tipo laico. Sarebbe opportuno pensare a percorsi in comunità rieducative non solo per i tossicodipendenti. L’evasione della ragionevolezza dall’Istituto per minorenni “Cesare Beccaria” di Milano di Enrico Sbriglia* L’Opinione, 30 dicembre 2022 Quanto accaduto presso l’Istituto per minorenni di Milano dovrà essere accuratamente analizzato dal decisore politico, in particolare dalla premier Meloni e dal ministro Nordio, perché l’evasione di sette giovani detenuti, durante il periodo delle festività natalizie, obbliga ad una riflessione, evitando la pratica di scaricare le eventuali responsabilità sugli anelli deboli dell’organizzazione penitenziaria dei minori. Per evitare polemiche, mi atterrò ad informazioni Osint (Open Source Intelligence) disponibili al pubblico e divulgate dalla stessa amministrazione interessata. Il primo dato è che, allorquando parliamo di detenuti minorenni o assimilati (come nel caso di quelli maggiorenni che permangono, negli Istituti per i minori, fino al compimento del 25 anno di età) ci riferiamo ad una popolazione complessiva la quale, alla data del 15 novembre scorso, era costituta da sole 391 unità, di cui 10 donne. Un numero insignificante che, distribuito in ben 17 istituti dedicati, si traduce in un contingente neanche presente in una ordinaria classe delle scuole di primo o secondo grado della Repubblica. In particolare, presso l’istituto per minorenni di Milano, alla data del 15 novembre, si registravano soltanto 44 unità, tutte di sesso maschile. Il Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità precisa come gli istituti predetti costituiscano dei contesti concepiti “strutturalmente in modo da fornire risposte adeguate alla particolarità della giovane utenza ed alle esigenze connesse all’esecuzione dei provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria”, chiarendo come le attività trattamentali connesse siano svolte da un’equipe multidisciplinare, in cui è presente un operatore socio-educativo di riferimento stabile, appartenente all’Amministrazione. Sottolinea, inoltre, come le attività formative, professionali, culturali e di animazione, siano effettuate in collaborazione con operatori di altri Enti e avvalendosi di associazioni del privato sociale e del volontariato; infine, ricorda che negli Ipm è presente personale del Corpo di Polizia Penitenziaria adeguatamente formato al rapporto con l’adolescenza. Come vedete, viene descritta un’altra verità rispetto a quella che sembrerebbe riferirsi alla situazione presente nella giornata della grande fuga di Natale, quantomeno ove dessimo fede agli organi di stampa, alle dichiarazioni di persone “informate sui fatti”, alle Oo.ss. della stessa Polizia Penitenziaria e ai ministri di culto cattolico che, per contratto celeste, si dovrebbero ritenere certamente affidabili. Dalle fonti “orali”, infatti, compresa qualche intervista giornalistica del board burocratico, si è appreso come mancasse in quell’Ipm un direttore, in pianta stabile, da circa 20 anni: per ben venti anni si è consentito ad una nave di solcare, tutti i giorni, il mare tempestoso penitenziario (che, com’è noto, è indifferente ad ogni ricorrenza), senza che vi fosse al timone uno stabile Comandante; ma non si sarebbero assicurati neanche i nostromi e buona parte dell’equipaggio. La cosa dovrebbe essere vera, perché c’è stata poi una rincorsa nell’assicurare che, finalmente, verranno assegnati, ovviamente con atto da venire, e prelevate chissà dove, le risorse umane necessarie. Però, se così fosse, ci si troverebbe innanzi ad una autodichiarazione di colpevolezza amministrativa, perché significherebbe che non si sia precedentemente destinata attenzione nella distribuzione delle risorse umane, permettendosi che alcune realtà lavorative, semmai, fossero tronfie. Insomma, ci si troverebbe innanzi ad una ipotesi di responsabilità di gestione complessiva del personale, in quanto esso non deve e non può essere in sovrappiù in alcune sedi, né tantomeno in numero carente, ma dovrebbe corrispondere perfettamente a quello stabilito con decreto ministeriale quale dotazione organica, perché quest’ultima congrua, giusta, calibrata ai bisogni, anche in una visione prospettica. Ove, però, mancasse, dovrà attendersi la conclusione di eventuali concorsi pubblici già in atto, la nomina dei vincitori, l’assegnazione delle sedi, il compimento dei periodi di formazione professionale. Insomma, altri giorni, mesi, forse finanche anni, sempre che non spuntino micidiali ricorsi ordinari o giurisdizionali da parte di candidati esclusi. Pertanto, legittima è la preoccupazione che si stia parlando del vuoto cosmico, mentre l’opinione pubblica, allarmata, pretende risposte ora per allora, e non per un domani che è già un dopodomani indefinito. A questo punto, sarebbe da chiedersi se sia una scelta sensata quella di continuare ad avere tanti istituti per minorenni (con costi rilevanti per il loro mantenimento), a fronte di così pochi, come si usa dire, “utenti” e se non sia, invece, più ragionevole realizzare dei poli penitenziari, probabilmente non più di tre, ove far affluire questa popolazione davvero così contenuta, onde poter assicurare un migliore impiego del personale tutto, in particolare delle equipe trattamentali multiprofessionali. Così come ci si dovrebbe interrogare se continui ad essere una scelta razionale, “sostenibile”, quella escogitata nel 2014, con l’avvallo dell’allora ministro della Giustizia, cioè di avere costituito un ulteriore nuovo dipartimento, come quello della Polizia di Stato, come quello dell’Amministrazione Penitenziaria per Adulti, come quello della Protezione Civile, etc., rivolto alla gestione della popolazione detenuta minorile e ai minori, pur ove quest’ultimi non fossero sottoposti a misure privative della libertà, quando, fino a quel momento la sua organizzazione non era altro che una delle tante onorevoli branche della stessa unica amministrazione penitenziaria, con la quale, tra l’altro, condivideva la medesima Polizia. È indubbio, però, che con la creazione di un nuovo dipartimento (mentre, all’epoca, tutti si lamentavano del taglio lineare del personale) è certamente accresciuto lo Stato Maggiore, ergo le posizioni apicali dirigenziali, comprese quelle generali, mentre per i fanti e le fantesche, rimaste sul fronte delle carceri e degli uffici periferici, praticamente la prima linea del fronte, non è stata riservata analoga attenzione: ma c’est la vie, quella che va dall’ombelico in giù. Insomma, malvagiosetta, ma non stupida, potrebbe essere la sensazione che, per dare un maggiore peso al Moloch amministrativo che si stava ideando nel 2014, si sia pensato di elevare l’età massima degli “utenti” degli istituti per minori, portandola a 25 anni, quindi di fatto consentendo la devastante coesistenza di minori davvero minori, tante volte di adolescenti, con altri ospiti che hanno un’età ben maggiore e personalità criminali già sviluppatesi (non poche volte soggetti anche sposati e/o conviventi, già genitori a loro volta), e tutto questo in un contesto dove addirittura mancavano, e mancano tuttora, gli agenti, gli educatori ed i direttori: praticamente i fondamentali punti istituzionali di riferimento, quelli che andrebbero ascoltati dai detenuti minorenni i quali, invece, avranno come loro modelli i loro compagni detenuti adulti, con storie già strutturate di vita criminale, semmai già affiliati a cosche criminali organizzate o a bande giovanili delle periferie suburbi, se non anche in odore di fondamentalismo religioso o altro ancora. Ma perché farsi il sangue amaro, dopotutto c’è sempre un Godot d’additare: il Codice Rocco, un Codice “fascista”, seppure fu realizzato da “giuristi” apprezzati, né ricordare come il nostro sistema attuale continui a non corrispondere a quei modelli ideali succedutesi nel tempo, a seguito di Riforme che riposano nei codici; ma tanto nessuno, passata la buriana, se ne accorgerà e quindi via, si continui così, fino alla prossima evasione o a peggiori inevitabili criticità. *Penitenziarista, già presidente dell’Osservatorio Internazionale sulla Legalità di Trieste Alfredo Cospito, qualcuno prova a rompere l’omertà: questo silenzio è imbarazzante di Giuseppe Mammana Il Fatto Quotidiano, 30 dicembre 2022 In queste ultime settimane, nelle strade della capitale, appaiono con sempre più frequenza sui muri della città e dentro ai parchi scritte per “Alfredo Cospito libero” e “no al 41bis”. Ma non soltanto, anche nei giornali, seppur in modo più timido, qualche personaggio pubblico prova a rompere il muro di omertà che aleggia su questo tema. Tra questi ricordiamo Zerocalcare (sempre molto sensibile ai temi sulle condizioni carcerarie), Patrizio Gonnella (associazione Antigone), Luigi Manconi, Adriano Sofri - che in alcuni articoli provano a denunciare quanto sta accadendo al detenuto anarchico rinchiuso nel carcere di Sassari. Ma partiamo dall’inizio. Chi è Alfredo Cospito? Alfredo è un anarchico condannato per l’attentato alla scuola allievi dei Carabinieri di Fossano nella notte tra il 2 e il 3 giugno 2006. Un fatto di cronaca “irrilevante” nelle sue conseguenze: poiché gli esplosivi a basso potenziale all’interno della caserma non hanno provocato nessun morto e nessun ferito. Nel 2017, la Corte d’Assise di Torino smonta in parte l’impianto accusatorio condannando Alfredo Cospito a 20 anni e qualifica l’attentato come strage semplice. Ma nel 2022, la Cassazione accoglie la richiesta del Pubblico Ministero e il reato viene riqualificato come strage contro la sicurezza dello Stato. Nella sentenza di terzo grado il giudice di Cassazione decide di fare ricorso all’art.285 del Codice Penale, ovvero l’ergastolo ostativo, il “fine pena mai”. Un articolo (che risale al codice fascista Rocco) che afferma come chiunque commetta un fatto volto ad attentare la sicurezza dello Stato è punibile con l’ergastolo. Dopo questa sentenza, a maggio del 2022, Alfredo Cospito transita nel carcere sardo dal regime di alta sicurezza al 41-bis. Il provvedimento infligge un colpo mortale al detenuto, e per questo motivo per protestare contro la sua condizione detentiva l’anarchico comincia uno sciopero della fame che dura da più di 50 giorni. Nel frattempo, l’avvocato di Cospito fa ricorso (contro il 41-bis) al Tribunale di Sorveglianza, ma il 6 dicembre il giudice rigetta il provvedimento. Ma perché questa sentenza fa discutere? E perché questa vicenda riguarda la tenuta democratica del paese? In primo luogo, notiamo da parte della Cassazione un utilizzo strumentale e politico dell’art. 285, cui non si è fatto ricorso né negli attentati di Capaci né di Via D’Amelio, dove diverse tonnellate di tritolo fecero saltare autostrade e piazze e dove morirono due giudici e le loro scorte. In secondo luogo, preoccupa l’ampliamento del campo di applicazione del 41-bis (un provvedimento nato negli anni ‘90 dopo la strage di Capaci per colpire i condannati mafiosi). L’utilizzo di tale strumento, in questo caso, appare una forzatura giuridica a fronte dell’assenza del requisito oggettivo (il delitto di mafia). E da qui è evidente il “black-out giudiziario”: infatti, mentre la Corte d’Appello riconosceva l’assenza di legami con le organizzazioni operanti negli ultimi attentati, la Cassazione smentiva la sentenza affermando che Alfredo è il capo di un’organizzazione anarchica verticistica attualmente operante nel territorio. Una tesi del tutto discutibile: poiché parliamo di organizzazioni che operano in modo caotico e orizzontale spesso difficilmente identificabili in cellule collettive vere e proprie. Ma non solo: il 41-bis mette in discussione l’art. 27 della Costituzione in cui si afferma che le pene dovrebbero tendere alla rieducazione. Così, mentre nel regime di alta sicurezza il detenuto non perde completamente i propri diritti - può comunicare con l’esterno, partecipare al dibattito con la sua area politica, scrivere e ricevere corrispondenza - con il 41-bis viene annullata la funzione rieducativa e messo il silenziatore ad Alfredo. Il detenuto con questa misura può avere una sola visita al mese (contro le sei di un detenuto normale) e solo dietro un vetro; la maggior parte del tempo (circa 22 ore al giorno) lo passa rinchiuso in cella; le ore d’aria sono ridotte a due da trascorrere in uno spazio di pochi metri quadrati e delimitato da muri alti che creano uno stato di vera e propria deprivazione sensoriale; la socialità è limitata ad un’ora al giorno con soli tre detenuti; le lettere verso l’esterno vengono trattenute, le corrispondenze vengono sequestrate e interrotte le comunicazioni con l’esterno. Inoltre, quest’ultimo punto entra in contraddizione con la sentenza del 2017 della Corte Costituzionale, che non mette dei limiti per i detenuti al 41-bis di ricevere e tenere con sé delle pubblicazioni. Insomma, in un momento di “crisi carceraria” è importante tenere alta l’attenzione su questa questione. Basti pensare che secondo l’associazione Antigone al 1 novembre risultano 74 i suicidi (13 casi ogni 10.000 persone detenute) e circa 200 gli agenti penitenziari indagati per tortura. Per questo è importante continuare a parlare di Alfredo Cospito e del 41-bis. Ma non soltanto: è arrivato il momento che tutte le istituzioni di questo paese prendano una posizione politica precisa. È imbarazzante il silenzio del corpo accademico di alcune università. A La Sapienza, gli studenti provano, da diverse settimane, a chiedere alla rettrice di prendere una posizione ufficiale, cosi come accaduto per Giulio Regeni. Ma la risposta è stata una netta chiusura da parte della rettrice e di tutto il corpo accademico (che continua ad ignorare il problema) insieme all’aumento consistente di forze di polizia agli eventi organizzati su Alfredo Cospito e sul 41-bis. Nel frattempo, mentre la Corte d’appello di Torino accoglie la richiesta dell’avvocato di Cospito chiedendo alla Consulta la concessione delle attenuanti (che convertirebbero l’ergastolo ostativo in una pena fra i 21 e i 24 anni), non possiamo tralasciare le “voragini” a cui andiamo incontro e di cui tutti siamo corresponsabili. Come afferma Zerocalcare nel suo fumetto su Alfredo: “Sono davvero i buoni quelli che riescono a vivere senza battere ciglio accanto ad una voragine di brutalità fisica e psicologica che inghiotte la vita di migliaia di persone?”. Da oggi in vigore la riforma penale Cartabia: le nuove regole sull’attività dei tribunali di Valeria Di Corrado Il Messaggero, 30 dicembre 2022 Anno vecchio, vita nuova per gli uffici giudiziari italiani. Da oggi, a due giorni dall’inizio del 2023, entra in vigore la riforma Cartabia del processo penale. Le nuove regole avranno un impatto dirompente sull’attività di magistrati, cancellieri e polizia giudiziaria. Fortunatamente in questo periodo, complici le festività natalizie, le udienze nei tribunali sono diradate e i dirigenti degli uffici hanno un po’ più di tempo per riorganizzarsi. Inoltre, in sede di conversione del decreto legislativo n. 150 del 10 ottobre 2022, sono state inserite alcune norme transitorie che risolvono i problemi applicativi della riforma. In materia di indagini preliminari, udienza pre-dibattimentale ed esclusiva procedibilità a querela per una serie di reati, le novità introdotte dalla legge non potranno infatti essere applicate ai procedimenti pendenti, ossia a quelli iscritti al ruolo fino a ieri. “Ogni riforma comporta uno stress organizzativo - commenta il presidente dell’Associazione nazionale dei magistrati, Giuseppe Santalucia - ma almeno la disciplina transitoria ha risolto una serie di criticità”. Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza si sottolinea che “l’efficienza del settore giustizia rappresenta una condizione indispensabile per lo sviluppo economico”. Proprio per questo, alla base della riforma Cartabia c’è la necessità di arrivare a una più ragionevole durata del processo e di ridurre i procedimenti penali del 25% entro il 2026. Il primo cambiamento riguarda la prescrizione: si interrompe dopo la sentenza di primo grado, sia in caso di assoluzione sia di condanna. È stato introdotto, inoltre, un tetto massimo di due anni per i processi d’appello e di un anno per quelli di Cassazione (nell’ultimo grado di giudizio è prevista una proroga di un anno e sei mesi per i reati gravi, quali per esempio concussione e corruzione, violenza sessuale, associazione a delinquere semplice o di stampo mafioso). Una volta superati i termini previsti, scatterà l’improcedibilità e l’imputato non potrà più essere condannato. Tra le più significative innovazioni della riforma Cartabia, c’è l’introduzione di un’udienza pre-dibattimentale che dovrebbe filtrare quei casi in cui gli elementi probatori - acquisiti dai pm durante le indagini preliminari - non consentono una ragionevole previsione di condanna. Nella pratica, prima del giudizio a citazione diretta, ci sarà un’udienza in camera di consiglio, alla presenza di un giudice diverso rispetto a quello con cui sarebbe previsto il dibattimento. “Questo comporterà, soprattutto nei tribunali più piccoli, una difficoltà a comporre i collegi giudicanti per via di incompatibilità che verranno a crearsi”, osserva il presidente dell’Anm. In merito alla durata delle indagini preliminari, non si potranno superare sei mesi per i reati ordinari (con eventuale proroga fino a diciotto mesi) e un anno nel caso di reati più gravi (con proroga fino a due anni). L’altra rivoluzione introdotta dalla legge è il regime di procedibilità a querela per una serie di reati per i quali prima il pubblico ministero poteva procedere d’ufficio (restano salvi i casi in cui ricorrano determinate aggravanti). In sostanza, in mancanza di una querela della vittima, non si potrà procedere con le indagini - nemmeno in caso di arresto in flagranza - per i reati di furto, truffa, frode informatica, appropriazione indebita, lesioni personali colpose stradali gravi o gravissime, lesioni personali dolose, violazione di domicilio, violenza privata e sequestro di persona. “Questa modifica nel codice di procedura penale permette di ricomporre il conflitto tra le parti in qualsiasi momento, dando la possibilità alla parte offesa di rimettere la querela anche durante il processo”, spiega Giuseppe Santalucia. Rave: il ritorno della “ghigliottina” spunta le armi all’ostruzionismo di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 30 dicembre 2022 Alla Camera. L’opposizione tiene viva la seduta fiume nella notte a Montecitorio, ma il presidente Fontana ha già fissato il voto non prima delle undici di oggi il che consente alla maggioranza di dormire tranquilla senza temere agguati. Nel pomeriggio, a poche ore dalla scadenza, potrà scattare per la seconda volta nella storia parlamentare la forzatura che salva in ogni caso il decreto legge. “Mi dispiace aver visto un’opposizione così dura su un provvedimento di questo genere”. Quando Giorgia Meloni parla a Montecitorio del “decreto rave”, durante la conferenza stampa di fine d’anno, con l’imbarazzo di chi dall’opposizione ha sempre criticato le forzature parlamentari della maggioranza, i lavori nell’aula della camera dei deputati sono sospesi. Sono andati avanti nella notte precedente fino alle quattro del mattino quando, conclusa l’illustrazione dei 157 ordini del giorno, quasi tutti di minoranza, anche la seduta fiume imposta dalla maggioranza per fiaccare l’ostruzionismo va in pausa. La chiusura anticipata della discussione generale, il voto di fiducia, infine la seduta fiume, ancora non rassicurano la maggioranza sulla conversione del primo decreto del governo entro la scadenza dei sessanta giorni, che scatta oggi a mezzanotte. Per cui oggi pomeriggio si attende la decisione del presidente della camera di azionare, per la seconda volta nella storia parlamentare, la “ghigliottina”. Vale a dire la fine autoritaria del dibattito, e dunque dell’ostruzionismo, e l’immediato passaggio al voto del decreto in scadenza. L’unico precedente è quello del febbraio 2014, presidente Boldrini (gli altri, richiamati dalla maggioranza, come quello del 2010 con Violante alla presidenza, furono interventi minacciati ma non attuati). Boldrini negli ultimi giorni del governo Letta, per salvare il decreto Imu-Bankitalia, applicò per analogia una norma del regolamento del senato, non presente in quello della camera, (il quinto comma dell’articolo 78) originariamente prevista per le prime letture dei decreti: scattava infatti dopo trenta giorni per lasciarne altrettanti all’esame del decreto alla camera. La decadenza di un decreto legge, infatti, è un fatto normale, lo ha ribadito anche la Corte costituzionale in più occasioni, è un evento fisiologico legato alla straordinarietà dello strumento legislativo in mano all’organo esecutivo. In questo caso, poi, la decadenza del decreto sarebbe perfettamente sopportabile. Il trascorrere del tempo infatti ha già esaurito gli effetti sia del richiamo anticipato in servizio dei medici no vax, sia del rinvio dell’entrata in vigore della riforma penale Cartabia. Quanto al terzo argomento del decreto, la norma che ha introdotto il reato penale (punito fino a sei anni!) di rave party, è così poco indispensabile che lo stesso governo l’ha completamente riscritta rispetto al testo uscito dal Consiglio dei ministri. Che si era tenuto proprio mentre un rave party, a Modena, veniva sciolto pacificamente e senza bisogno di una nuova norma penale. Su tutto questo Meloni ha sorvolato durante la conferenza stampa, preferendo concentrarsi sul quarto punto del decreto: le modifiche all’ergastolo ostativo che trasformano da assoluta a relativa la presunzione di pericolosità dei detenuti che non collaborano con la giustizia. Modifiche che hanno aggravato, però, le condizioni in base alle quali queste detenuti - condannati per mafia, terrorismo o altri reati gravissimi, non più quelli contro la pubblica amministrazione - possono chiedere l’accesso ai benefici penitenziari. “Se non si converte questo decreto avremo un buco nell’ordinamento per la lotta alla criminalità organizzata”, ha detto Meloni, che però nella scorsa legislatura si rifiutò di votare un testo sostanzialmente identico a questo. In realtà il decreto in questione è servito soprattutto alla Corte costituzionale, che da maggio 2021 ha individuato l’incostituzionalità dell’attuale disciplina, per rinviare ulteriormente (alla Cassazione) una decisione nel merito. Ieri, alle sette di sera, è cominciato il secondo tempo dell’ostruzionismo, stavolta nella fase delle votazioni. Con deputate e deputati di opposizione che chiedevano in continuazione di sottoscrivere gli ordini del giorno e poi, una volta sottoscritto, di togliere la firma. Molto lentamente, con la conduzione ancora acerba dell’aula da parte del presidente Fontana, il capitolo degli ordini del giorno si è avviato a conclusione, lasciando poi spazio nella notte alle dichiarazioni di voto per le quali ogni deputato, si iscrivono in 134 tutti di opposizione, ha dieci minuti a sua disposizione. Ma Fontana, come gli consente di fare la seduta fiume, ha già fissato il voto finale per oggi “non prima delle 11”. Il che consente alla maggioranza di dormire tranquilla, disertando l’aula senza temere agguati, mentre l’opposizione dovrà tenere viva la seduta intervenendo tutta la notte e anche oggi fino a costringere il presidente a far scattare la ghigliottina. E siamo solo al primo decreto legge. “Giustizia, la riforma si farà”. Giorgia Meloni rilancia la separazione delle carriere di Valentina Stella Il Dubbio, 30 dicembre 2022 La presidente del Consiglio dei Ministri: “Abbiamo un ottimo ministro e varie anime che in quest’ambito danno equilibrio”. “La riforma della giustizia è una priorità, è una di quelle riforme per le quali serve un governo coraggioso e deciso, e il coraggio e la decisione non ci difettano”. Così ieri la premier Giorgia Meloni nella conferenza stampa di fine anno. Il suo messaggio sembra chiaro: andremo avanti anche con quelle riforme che possono essere considerate invise da parte della magistratura: immaginiamo, ad esempio, quelle di matrice costituzionale. “Nei prossimi mesi - ha infatti proseguito la presidente del Consiglio - lavoreremo per mettere a punto la riforma della giustizia secondo capisaldi che sono quelli storici del centrodestra, penso alla separazione delle carriere”. Anche perché, ha sottolineato, “abbiamo scelto un ottimo ministro della Giustizia che è coadiuvato dai partiti della maggioranza, e che è molto deciso ad andare avanti”. Su questo non avevamo dubbi viste le dichiarazioni - e il tono che le ha accompagnate - del guardasigilli in queste ultime settimane. Ma, se all’inizio del mandato, Nordio aveva lasciato intendere che le riforme costituzionali non sarebbero state tra le priorità perché bisognava prima concentrarsi su come far lavorare meglio gli uffici giudiziari, ora Meloni fa un balzo in avanti e parla di “mesi”. Da una parte l’accelerazione su questo obiettivo potrebbe mettere in allarme la magistratura associata, tanto è vero che il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, in una intervista a questo giornale, non aveva escluso uno sciopero qualora il governo si fosse deciso a proseguire con determinati provvedimenti che “cambierebbero l’assetto di questa democrazia”, ci disse il vertice del ‘ sindacato’ delle toghe. Dall’altra parte è pur vero che la premier, oltre al termine “coraggio” ha evocato anche il paradigma dell’equilibrio: “Ovviamente” quella della giustizia “è una materia delicata che va maneggiata con molta cura: però credo che questo governo, mettendo insieme le anime della sua maggioranza, abbia complessivamente una visione molto equilibrata di questa materia”. Questo, ha proseguito Meloni, “penso possa aiutare l’Italia nel rapporto tra il cittadino e lo Stato, gli investimenti, il Pnnr, tutto quello che una giustizia un po’ lenta in questi anni ha limitato. Una giustizia che ha bisogno di un tagliando”. Insomma, la giustizia va riformata ma non creando frizioni pericolose con uno degli attori interessati, la magistratura. Si tratta un po’ dell’interpretazione che aveva dato qualche giorno fa, sempre a questo giornale, il professor Giorgio Spangher quando, riflettendo sull’avvio di Nordio a via Arenula, aveva sottolineato “il suo intimo e forte convincimento riformatore” ma accompagnato dal dialogo, “preannunciando” ad esempio “la convocazione in tempi brevi di un tavolo comune, composto da rappresentanti anche dell’avvocatura e della magistratura, sul tema della riforma del processo”. Meloni è poi tornata su un tema che sta tenendo banco in questi ultimi giorni, quello delle intercettazioni: “Non intendiamo privare la magistratura di questo strumento - ha voluto rassicurare - ma “occorre evitare gli abusi e il cortocircuito nel rapporto tra media e intercettazioni finite sui giornali”. Sempre in materia di giustizia la premier ha rivendicato il provvedimento sul “fine pena mai” e ha replicato a chi in questo periodo ha accusato il governo di essersi dimenticato del contrasto alla criminalità organizzata: “La battaglia per la legalità, contro la mafia, sarà a 360 gradi. Confermo che tutta la mia carriera politica è stata ispirata a Borsellino e continuerà ad esserlo. Sono stata fiera e contenta che il mio primo provvedimento ha riguardato il contrasto della mafia, con la messa in salvo del carcere ostativo. Mi dispiace aver visto una opposizione così dura su un provvedimento di questo genere. Si è tentato in tutti i modi di impedire una conversione del decreto”. E poi un attacco diretto al Movimento 5 Stelle: “Non me la faccio fare la morale da chi, quando era al governo, ha liberato tanti boss mafiosi al 41 bis con la scusa del covid e ha approvato il condono di Ischia. Ognuno risponde per la propria coscienza”. Il riferimento è alla famosa circolare del 21 marzo 2020, con cui il Dap del ministro Bonafede chiedeva ai direttori delle carceri di segnalare detenuti con patologie particolari a rischio complicanze da covid. Poi il solito mantra: “Vogliamo garantire sempre lo Stato di diritto: certezza della pena per i condannati e certezza del diritto per gli innocenti”. Prescrizione, sì all’Odg Costa ma non dal Pd: “A rischio il Pnrr...” di Simona Musco Il Dubbio, 30 dicembre 2022 L’affondo del responsabile Giustizia di Calenda contro i dem: “Inseguono i grillini su tutto, è una figuraccia”. E Richetti: “Azione e Italia viva non sono la stampella del governo”. “Il Pd aveva avversato fortemente la Bonafede, aveva votato contro e protestato in modo acceso. Oggi insegue il M5S su tutto, anche sulla giustizia, a costo di fare una figuraccia”. Il vicesegretario di Azione Enrico Costa non le manda a dire. E accusa il Pd di incoerenza, rispedendo al mittente le accuse di fare da stampella al governo, dopo il parere positivo all’ordine del giorno (nel momento in cui scriviamo è in corso il voto, al quale seguirà quello al dl Rave) che mira a impegnare l’esecutivo a cancellare la riforma dell’ex guardasigilli grillino in tema di prescrizione, per ripristinare quella sostanziale. Giorgia Meloni lo ha confermato ieri, nel corso della conferenza stampa di fine anno: la proposta del Terzo Polo, ha affermato, “è un’indicazione di buon senso. La prescrizione rimane un fondamento dello Stato di diritto altrimenti si rischia un sistema nel quale si possono avere indagati e imputati a vita, secondo scelte che sono abbastanza discrezionali”. Ma i dem non ci stanno, nonostante tra le possibilità ci sia quella di tornare alla prescrizione pensata da Andrea Orlando, ex ministro della Giustizia proprio del Pd. Che dopo un primo momento di confusione ha scelto la strada del no: “La Bonafede già non esiste più” e smantellare la Cartabia “metterà a rischio i fondi del Pnrr perché allungherà i processi e diminuirà l’efficienza della giustizia penale”, ha dichiarato la capogruppo del Pd alla Camera, Debora Serracchiani. Anche perché, secondo Alessandro Zan, l’approdo non sarebbe la riforma Orlando, ma “quelle volute da Arcore a firma Cirielli”. E a confermare il voto contrario è anche la vicepresidente del Senato e responsabile Giustizia dem, Anna Rossomando. “Il Pd aveva fatto una promessa in merito al superamento della Bonafede sulla prescrizione e l’ha mantenuta con la riforma del processo penale, riforma che tra l’altro prevede interventi diretti proprio sulla riduzione dei tempi del processo - ha dichiarato -. Non è chiaro dunque a quali promesse faccia invece riferimento l’ordine del giorno Costa con la delega in bianco al governo Meloni per mettere di nuovo mano alla prescrizione. Peraltro notiamo con sorpresa che ad aprire la porta all’evidente tentativo di picconamento di una delle riforme più importanti in ambito di Giustizia approvate durante il governo Draghi sono proprio gli apologeti dell’agenda Draghi”. Costa, intanto, ha già depositato una proposta di legge che ricalca l’ordine del giorno, come annunciato ieri nel corso di una conferenza stampa. Dove non sono mancate le frecciatine al Pd. “Capisco che è nell’imbarazzo di non voler scontentare i nuovi amici del M5S e cercare di non contraddirsi rispetto all’essere stati all’opposizione fermissima di Bonafede quando ha approvato la Spazzacorrotti - ha sottolineato -. Però venirci a dire che la riforma Cartabia ha risolto tutto quanto non è molto onesto”. Il limite di quella riforma era, infatti, la necessità di tenere insieme tutte le posizioni, compresa quella del M5S, indisponibile a smantellare la Spazzacorrotti. E proprio per tale motivo è stato introdotto l’istituto dell’improcedibilità, che però consente di consumare il tempo di prescrizione nel primo grado di giudizio, producendo comunque, specie per alcuni reati, processi lunghi. L’obiettivo è, invece, quello di garantire la ragionevole durata del processo. E se ciò è possibile trovando un’intesa con la maggioranza “non è un problema”, ha evidenziato Costa, perché è “quello che abbiamo scritto nel programma”. “Misureremo la maggioranza su questo - ha aggiunto Costa -, poi se il Pd vuole votare contro la riforma Orlando è libero di farlo. Magari lo stesso Orlando voterà contro se stesso. Tutto è possibile quando si è alleati con i 5 Stelle”. L’intesa sulla prescrizione è però solo il primo passo. L’intento del Terzo Polo è, infatti, fare la differenza sui temi della giustizia e mettere in pratica la linea dichiarata dal ministro Carlo Nordio. Un obiettivo non semplice da raggiungere, anche perché oltre ai magistrati, secondo Costa, “si metterà contro anche una parte della maggioranza, che mi pare che viva con un certo fastidio le sue posizioni”. La convergenza del governo sul tema della prescrizione, però, “dimostra che siamo un’opposizione capace di incidere nella vita del Paese e che agiamo con credibilità ed affidabilità. Ripristinare una colonna del nostro sistema penale abbattuta dai 5 Stelle era un impegno assunto con gli elettori. Anche in questa legislatura continuiamo ad essere un punto di riferimento sulla giustizia. Ma ciò non vuol dire fare da stampella al governo, come dimostra il voto contrario alla fiducia e al dl Rave”. Un concetto confermato con forza dal presidente di Azione Matteo Richetti. “Siamo in una fase di piena opposizione e di contrasto di merito di un decreto Rave che fa schifo e che è sbagliato su tutti i temi che affronta - ha affermato -. Se il governo apre una discussione sulle riforme istituzionali, non può esistere una opposizione che si sfila dal partecipare a quel dialogo, il che non vuol dire votarle insieme, condividerle preventivamente. Se c’è un tavolo di dialogo nel merito sulle riforme, spero ovviamente che tutte le opposizioni ci saranno”. L’unico “giustificato” nelle polemiche, secondo Richetti, sarebbe il leader del M5S Giuseppe Conte, secondo cui “si sta andando verso un sistema della giustizia che distingue cittadini di serie A e cittadini di serie B”. “Comprendo che gli stiamo smontando un giochino fatto dal peggior ministro della giustizia negli ultimi anni - ha commentato Richetti ma la giustizia di seria A e di serie B forse c’è oggi, rispetto a chi un appello se lo può permettere e chi no. Si ripristina un principio costituzionale”. Mentre al Pd si è rivolto anche il deputato di Azione Roberto Giachetti. “È in corso il congresso del Pd e la giustizia sarebbe un tema per dare corpo a un dibattito che, fino ad oggi, è stato tutto fatto di figurine - ha evidenziato -. La giustizia sarà certamente un tema che caratterizzerà questa legislatura”. Sulla giustizia bene Nordio, servirà determinazione per le riforme. Parla Guzzetta di Federico Di Bisceglie formiche.net, 30 dicembre 2022 L’ordinario di diritto pubblico a Tor Vergata sulla Spazzacorrotti: “L’ordine del giorno del Terzo Polo serve a smascherare un episodio in cui il sistema si è chiaramente incartato, nell’incapacità di trovare soluzioni lineari a problemi reali, e ricorrendo alla fuga per la tangente dell’ideologizzazione dello scontro”. E il dl Rave? “Affrontare la questione evocando lo smantellamento dei presidi della legalità costituzionale in materia di diritti fondamentali è una reazione assolutamente sproporzionata” Se sulla valutazione della Manovra si è consumata più di una frattura, tra la maggioranza e il Terzo Polo il vero terreno comune sembra essere quello della giustizia. Come abbiamo già scritto su Formiche.net, il deputato di Azione Enrico Costa, ad esempio, pare aver sposato la linea impressa dal ministro Carlo Nordio. Ci sono, in questi giorni, diversi passaggi legati alla giustizia - dalla spazzacorrotti all’approvazione del dl Rave - sui quali i voti di una parte dell’opposizione potrebbero essere decisivi. Con Giovanni Guzzetta, ordinario di diritto pubblico all’Università di Roma Tor Vergata abbiamo cercato di capire fino a che punto questo esecutivo potrà incidere. Sulla Spazzacorrotti si sta costruendo un’intesa tra Terzo Polo e maggioranza di centrodestra. La legge voluta da Alfonso Bonafede è superata? Il problema della giustizia in Italia è un dramma nazionale non solo per la strutturale incapacità di offrire le risposte che da essa i cittadini si aspettano, ma perché rappresenta un paradigma dello scollamento tra il discorso pubblico, intriso di retorica ideologica, e la realtà dei problemi per affrontare i quali sarebbero necessarie risorse economiche, infrastrutturali, deontologiche che non sono presenti. La vicenda della “spazzacorrotti” è appunto emblematica, perché ruota tutta intorno ad una semplificazione ideologica che divide il mondo in giustizialisti e garantisti e sulle quali la politica affannosamente cerca di inseguire il consenso. Ciò che è accaduto in questi anni sul tema della prescrizione sin dalla riforma Orlando e sul quale fior di giuristi a cominciare da Giovanni Fiandaca, per nominarne uno su tutti, hanno disperatamente cercato di risvegliare il sentimento di civiltà giuridica, è solo un esempio. È dunque abbastanza inutile e frustrante entrare nei dettagli. Il problema è molto più profondo. È necessario spezzare la spirale della banalizzazione ideologica dello scontro, funzionale solo a nascondere l’impotenza decisionale ad affrontare i problemi strutturali. Se non matura un approccio diverso, fondato su pragmatismo e concretezza, se non si ha il coraggio di trasformare in decisioni concrete e coraggiose i principi costituzionali quali l’effettività della tutela, la ragionevole durata dei processi, un’idea condivisa su quale sia l’obiettivo principale della funzione penale e sanzionatoria, ogni ragionamento è destinato a risolversi nell’ennesima polemica. L’odg presentato dal terzo polo ha certamente un significato importante. Serve a smascherare un episodio in cui il sistema si è chiaramente incartato, nell’incapacità di trovare soluzioni lineari a problemi reali, e ricorrendo alla fuga per la tangente dell’ideologizzazione dello scontro. Ma si tratta pur sempre di una goccia in un mare di incongruenze che hanno costi di sistema ormai insostenibili. Il problema in Italia è che si è essiccata la capacità di riformismo sano e di sistema, sostituito da soluzioni congiunturali e spesso pasticciate che complicano ulteriormente questioni già estremamente complesse. Il ministro Nordio è certamente, a mio modo di vedere, la persona giusta al posto giusto, ma i vincoli di contesto e la tentazione della fuga ideologica sono talmente forti che la strada è e rimane in salita. Il dl Rave va verso l’approvazione. Giuridicamente che ne pensa? Secondo lei perché ha creato tutta l’ondata di polemiche? Questo è un altro esempio paradigmatico. La misura è frutto di una scelta politica, e dunque è lecito assentire o dissentire a seconda delle posizioni ideali di ciascuno, ma affrontare la questione evocando lo smantellamento dei presidi della legalità costituzionale in materia di diritti fondamentali è una reazione assolutamente sproporzionata che si può spiegare solo con l’ennesimo cedimento alla tentazione di ideologizzazione dello scontro pubblico, il vero cancro della nostra democrazia. La linea del ministro Nordio sulla giustizia è piuttosto netta. L’abuso d’ufficio per gli amministratori pubblici è davvero possibile toglierlo? Da tecnico non sono abituato a discutere di ipotesi, perché so troppo bene che ciò che conta è la concreta formulazione dei provvedimenti e i margini interpretativi che essi lasciano. L’abuso d’ufficio com’è applicato oggi è la classica norma che realizza il rischio di “buttar via il bambino con l’acqua sporca”. E non ho dubbi che, così come vive nella realtà dell’ordinamento, dia luogo a molte più distorsioni di quanti problemi non risolva in termini di lotta alla corruzione. Si arriverà secondo lei alla separazione delle carriere dei magistrati? Anche qui la questione è strettamente politico-istituzionale. La storia ci insegna, drammaticamente, che quanto più sono ambiziose le riforme, indipendentemente dal merito, tanto più difficile è realizzarle a causa delle infinite trappole e imboscate che il nostro assetto istituzionale debole e arcaico consente. La determinazione politica è certamente fondamentale, ma le variabili che possono paralizzare quella volontà, con il sistema politico-istituzionale che abbiamo, sono praticamente infinite. Questa impostazione, come si inserisce nell’ambito della riforma costituzionale di stampo presidenzialista che il Governo Meloni si pone l’obiettivo di realizzare? Quando si parla di riforme istituzionali, in Italia, ci si trova di fronte a una distesa di fallimenti. Per esorcizzare le quali, in molti compiono un salto logico arrivando a sostenere la tesi che di esse non ci sia in realtà bisogno perché il problema è squisitamente politico e che le istituzioni contano relativamente. La storia della Francia, dove si è sviluppato il modello semipresidenziale è la prova dell’esatto contrario. Senza quella riforma i nostri vicini d’oltralpe sarebbero probabilmente nella stessa situazione di fragilità, se non di coma, in cui si trova il nostro sistema politico. Oggi, per una serie di circostanze, che non sono certo merito delle regole istituzionali, ci troviamo in una situazione in cui esiste una maggioranza legittimata dal voto popolare che potrebbe, se lo vorrà, cercare di imprimere una svolta, quantomeno costringendo le forze politiche a misurarsi con questi temi. Ancora una volta la volontà politica di non sprecare le opportunità di cambiamento è fondamentale. Dopodiché è necessario creare le condizioni per cui concretamente le riforme si facciano e su quel piano, come dicevo, la storia è lastricata di fallimenti. Ci vorrà molta determinazione e molta fantasia per cambiare lo schema di gioco che ha condotto, sempre, a quei fallimenti. Io da tempo sostengo che sarebbe necessario far precedere l’impegno riformatore da una forte legittimazione popolare su una precisa proposta. Del resto i nostri padri costituenti affrontarono così il problema quando si trattò di scegliere tra monarchia e repubblica. Una scelta divisiva che avrebbe probabilmente paralizzato l’assemblea costituente. E ci volle l’intelligenza e il coraggio di De Gasperi per cambiare lo schema di gioco che si era originariamente previsto. Si fece un referendum preventivo e la questione fu risolta. La domanda è se la classe dirigente di oggi ha risorse di coraggio e fantasia paragonabili a quelle che mostrò De Gasperi in quell’occasione. Verini: “Altro che garantismo. Vogliono smantellare la riforma Cartabia” di Valentina Stella Il Dubbio, 30 dicembre 2022 Il senatore del Partito democratico spiega perché il suo partito ha deciso di votare contro l’ordine del giorno proposto dal deputato di Azione Enrico Costa. L’ordine del giorno dell’onorevole di Azione Enrico Costa che “impegna il Governo a ripristinare la “disciplina della prescrizione sostanziale in tutti i gradi di giudizio”, rimuovendo le criticità attuali derivanti dalla Spazzacorrotti” è stato approvato ieri alla Camera. Hanno votato a favore Terzo Polo, +Europa ma anche tutta la maggioranza, ossia Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia. Il Governo aveva dato parere favorevole. Voto contrario scontato da parte del Movimento 5 Stelle. Meno ovvio il no del Partito democratico. Ne abbiamo parlato con il senatore dem Walter Verini. Mentre parliamo viene accolto un ordine del giorno che mira a tornare alla legge che porta la firma di un esponente di spicco del Pd come Andrea Orlando. Come avete potuto dire di no? Intanto non c’era scritto da nessuna parte il riferimento alla Orlando. Ma non è stato difficile. Era una nuova tappa di una manovra strumentale, cui Costa - da anni - si applica con particolare tenacia. Stavolta - ma non è la prima - in stretta intelligenza con questa destra che si autodefinisce garantista, ma demolisce presìdi di legalità: nel codice appalti, nel contrasto alla corruzione, nel gravissimo decreto contro le Ong, nella politica carceraria, nello stesso decreto rave. La vicenda dei semiliberi che dovranno tornare a dormire in carcere dopo due anni è semplicemente vergognosa. L’ordine del giorno cui, giustamente, il gruppo Pd ha detto no non era contro la ‘ Spazzacorrotti’, una bruttissima legge voluta da 5 Stelle e Lega nel Conte 1, insieme ai decreti sicurezza, ma contro le riforme Cartabia. La soluzione dell’improcedibilità si è resa necessaria politicamente ma tecnicamente persino Giorgio Lattanzi non l’avrebbe certamente preferita. Perché allora scommettere su di essa? La riforma del penale è stata un punto di sintesi (come quella del Civile e quella ordinamentale) certamente migliorabile. Ma il tema, adesso, non è quello di demolire queste riforme, ma di applicarle. Dando risorse, mezzi e persone agli Uffici giudiziari, per rendere più veloci i processi, per giungere ad esiti in tempi ragionevoli, sia per gli imputati - presunti innocenti - sia per le vittime dei reati, che non vanno dimenticate. Anche, e a volte soprattutto, quando la vittima è la collettività, come nei reati di corruzione e contro la pubblica amministrazione. Una volta applicate e sperimentate, Governo e Parlamento dovranno e potranno decidere ‘ tagliandi’ e cambiamenti che si rendessero necessari. Sull’improcedibilità si sono trovati d’accordo accademia, avvocatura e magistratura nel criticarla. Invece di rendere efficiente il sistema lo avrebbero complicato. Come replica? Vale la risposta che ho già dato. Quella è certamente la parte meno “brillante” della riforma, ma è comunque radicalmente diversa dalla “Spazzacorrotti”. Ho il sospetto che dietro questa ossessione di demolire le riforme Cartabia ci sia in realtà la voglia di riprendere la guerra politica- magistratura, che l’ultima legislatura e il clamoroso fallimento dei referendum sulla Giustizia avevano seppellito. Come Pd abbiamo contribuito a isolare e battere gli opposti estremismi del populismo penale, del giustizialismo da una parte e di un garantismo sbandierato, ma che aveva ed ha poco a che fare con il rispetto autentico delle garanzie dall’altra. È malizioso ritenere che dietro il vostro voto contrario si celi la volontà di mantenere aperto un filo di comunicazione sulla giustizia con il M5S? E se sì ha senso preoccuparsi di questo se il Movimento è ormai un concorrente e non un vostro alleato? Più che malizioso è infondato. Certi estremismi di 5 Stelle in materia di giustizia sono stati e sono il supporto più efficace per quel garantismo á là carte che in questi anni è stato agitato. E che ora vede lo stesso ministro Nordio agitarlo un giorno sì, e l’altro pure. Questo clima ha sempre impedito riforme di sistema. Le riforme Cartabia lo sono, pur con i limiti detti. E noi cercheremo dall’opposizione di impedire che la guerra riprenda. Oggi è il momento di coinvolgere avvocatura, magistratura, accademia nell’applicazione delle riforme, accentuare i temi unificanti e non quelli divisivi e aiutare quella autorigenerazione della magistratura di cui il Paese ha bisogno. Ieri Meloni nella conferenza stampa ha parlato anche di giustizia. Ha detto che tra qualche mese il Governo metterà sul tavolo anche riforme come la separazione delle carriere. Voi vi opporrete o cercherete un dialogo? È un’altra di quelle bandierine. È un tema di fatto inesistente. Si contano sulle dita di una mano i reali passaggi, e quasi sempre dopo le prime assegnazioni dei giovani magistrati che vogliono avvicinarsi. E la riforma Cartabia ha già ridotto ad uno solo i passaggi. E io penso (come dicono anche illustri esponenti dell’avvocatura) che la cultura della giurisdizione debba essere unitaria: passare da requirente a giudicante e viceversa è un arricchimento, è una acquisizione di diversi punti di vista che possono solo aiutare un magistrato. E poi c’è il rischio, reale, di colpire l’indipendenza della magistratura, subordinandola all’esecutivo di turno. Il ministro Nordio ha detto molte cose in queste settimane. Che bilancio fa di questo suo avvio? Negativo per la prova orale: troppe le interviste e le esternazioni, spesso proclami. Negativo per la prova scritta: come ha potuto firmare certi provvedimenti come il decreto rave, i tagli alla polizia penitenziaria e così via? La magistratura è preoccupata da diverse esternazioni del Guardasigilli: il presidente dell’Anm Santalucia in una intervista a questo giornale ha detto che avrebbero preferito un ministro vicino alla magistratura alle prese con diverse riforme e non un ministro che li attacchi ingenerosamente. Condivide questa preoccupazione? Un ministro non deve essere vicino alla magistratura. Deve rispettarne l’indipendenza. Deve rispettare spirito e lettera della Costituzione, come tutti noi parlamentari. Teme anche lei che questo Governo voglia abbassare la guardia sui reati di corruzione? Non lo temo: l’ha già abbassata. E penso, invece, che si debba alzare molto l’asticella della prevenzione e del contrasto alla corruzione e alle mafie, oggi più che mai agguerrite e in piena attività con rischi forti di penetrazione nell’economia reale, negli appalti, negli stessi programmi del Pnrr. La verità sulle stragi? Al Ministero dei Trasporti l’archivio non c’è più di Daria Bonfietti* Il Manifesto, 30 dicembre 2022 Un colpo alla nostra Storia. Il periodo di cui mancano i documenti è proprio quello delle stragi più sanguinose che colpirono i trasporti: gli attentati ai treni, la stazione di Bologna, Ustica. Manca completamente l’Archivio del Ministero dei Trasporti per gli anni delle Stragi (1968-1980) e ancor più in specifico, manca addirittura tutta la documentazione del Ministro e del suo Gabinetto. Questa la notizia più clamorosa sulla quale soffermarsi con particolare attenzione storico-politica, contenuta nella relazione annuale del Comitato consultivo sulle attività di versamento all’Archivio Centrale dello Stato della documentazione relativa alla direttiva Renzi\Draghi, che ha concluso nell’ottobre scorso i suoi lavori. Si tratta di una notizia che deve far riflettere: da un lato è un grave “colpo” per la Storia del nostro Paese. Bisogna sottolineare che il periodo di cui si certifica la mancanza di documenti è proprio quello che comprende le Stragi più sanguinose: e i trasporti sono stati particolarmente colpiti, pensiamo agli attentati sui treni, alla stazione di Bologna fino ad Ustica. Ma credo anche sia importante sottolineare come ci si trovi totalmente fuori da ogni applicazione della legislazione esistente sulla conservazione e trasmissione agli Archivi di Stato della documentazione delle Amministrazioni Pubbliche. Non si può insomma non rilevare questo dato estremamente inquietante come sintomo negativo della situazione della documentazione archivistica nelle Amministrazioni dello Stato. La conoscenza di questa situazione è il prodotto di un percorso di desecretazione della documentazione relativa alle Stragi iniziato nel 2014, - con la direttiva Renzi- e a cui il Governo Draghi ha dato ulteriore forza con la decisione di rendere pubbliche anche le carte relative alla P2 e a Gladio, rendendo così più completo l’arco di interesse storico; e ponendosi direttamente, la presidenza del Consiglio, “alla testa” dei lavori del Comitato, delegandone la direzione al Segretario Generale Roberto Chieppa Nell’ultimo anno quindi si è avuto un periodo di lavori davvero importante che ha portato indubbiamente all’acquisizione di un grande patrimonio di conoscenza -documentazione, ma che comunque ha dovuto fare i conti con tutte le contraddizioni, mancanze, deficienza di materiale, sempre denunciate negli anni. Proprio cercando di affrontare le tematiche relative alle mancanze denunciate, In particolare dai rappresentanti delle Associazioni vittime della Stragi, si e è avuto un serrato confronto “archivistico” con il Ministero dei Trasporti. E da questo confronto, da rinnovate ricognizioni, la definitiva consapevolezza della mancanza dell’Archivio stesso che avvalora, rafforza e conferma le critiche fin qui avanzate. Va ricordato che la direttiva del 2014 (direttiva Renzi) era stata accolta con aspettative positive da parte delle Associazioni delle Vittime e con qualche perplessità e ritrosia del mondo archivistico. E in questi anni di lavoro all’interno del Comitato, abbiamo dovuto avanzare più volte molte critiche sulla sua travagliata attuazione e soprattutto sulla inadeguatezza del materiale reso disponibile; ad esempio, per quel che riguarda la Strage di Ustica si è subito denunciata la grande assenza di materiale coevo ai fatti nelle varie Amministrazioni pubbliche. Bisogna ricordare che l’insufficienza della documentazione è sempre stata al centro delle critiche e delle denunce delle Associazioni, ed è stato negli anni la causa del contendere all’interno del Comitato nei confronti con le Amministrazioni. Una continua disputa-scontro tra carte mancanti, elenchi di nominativi non consegnati, carte clamorosamente censurate, intere parti coperte con vistose cancellature proprio nel momento della loro desecretazione! Fino, come si diceva, alla mancanza dell’intero Archivio del Ministero dei Trasporti! E quindi per l’anno che verrà, bisognerà chiedere che si prosegua e si intensifichi l’impegno per l’effettiva attuazione di quelle direttive (prima Renzi e poi Draghi), per far piena luce e delineare un documentato contesto storico su una stagione terribile e sanguinosa della Storia del nostro Paese. E su questo vanno richiamati alle loro responsabilità sia Governo che Parlamento e, a mio avviso, anche Magistratura, per quel che concerne la tenuta di documentazione in totale difformità dalla legge *Presidente dell’Associazione parenti vittime Strage di Ustica La pm del caso Yara sotto indagine: “Ipotesi depistaggio sul dna di Bossetti” di Annalisa Costanzo Il Dubbio, 30 dicembre 2022 Clamorosa svolta: la vicenda riguarda la conservazione dei reperti dell’inchiesta che ha portato alla condanna all’ergastolo del muratore di Mapello. L’ordine di Letizia Ruggeri fu legittimo? Un’indagine dal doppio fine: quello per permettere al magistrato Letizia Ruggeri “una compiuta valutazione anche della sua posizione in relazione a tutte le doglianze dell’opponente” e anche per “permettere alla stessa un’adeguata difesa”. È quanto deciso dal gip di Venezia, Alberto Scaramuzza, che ha ordinato l’iscrizione nel registro degli indagati della pm che indagò sull’omicidio di Yara Gambirasio. È proprio in relazione alla conservazione dei reperti di dna rinvenuti sul corpo e sui vestiti della 13enne di Brembate, trovata senza vita il 26 febbraio 2011 in un campo di Chignolo d’Isola, che adesso si dovranno muovere le indagini. Bisognerà infatti valutare se, come sostengono i difensori di Massimo Bossetti, condannato in via definitiva all’ergastolo per l’efferato omicidio, ci siano state o meno eventuali responsabilità nella malconservazione dei campioni di dna. “Sono sempre garantista e lo sono anche in questa circostanza, vedremo”, dice l’avvocato Claudio Salvagni, storico difensore di Bossetti, che la procura dopo una lunga indagine ha identificato essere “ignoto 1”, quello della traccia di dna rinvenuta sugli indumenti intimi di Yara. Il muratore di Mapello, però, da sempre si dichiara innocente e, per tramite dei suoi legali, ha chiesto più volte che venisse confrontata nuovamente la prova regina dell’accusa, ossia il dna di “ignoto 1”, con il suo. Una richiesta, questa, che il giudice dell’esecuzione ha autorizzato soltanto il 27 novembre 2019: tredici mesi dopo la condanna definitiva di Bossetti e cinque giorni prima che quei reperti biologici venissero distrutti. Se il profilo genetico di “ignoto 1” sia davvero quello di Massimo Bossetti, come affermano i tre gradi di giudizio, o no, come lo stesso afferma, non si potrà mai più accertare. “Questi esami non potranno più essere fatti perché il dna è stato distrutto”, dice con amarezza l’avvocato Salvagni, ricordando come i reperti biologici disposti in 54 provette siano stati “portati da una temperatura di meno 80 gradi ad una temperatura ambiente e così il materiale biologico si è in automatico distrutto. La gravità sta proprio in questo aver deliberatamente o meno distrutto quel Dna”. In virtù di ciò, il pool difensivo di Bossetti, ipotizzando il reato di depistaggio, ha sporto denuncia nei confronti del presidente della Corte d’Assise, Giovanni Petillo e della dottoressa Laura Epis, funzionaria dell’ufficio corpi di reato. La procura di Venezia (competente sui magistrati di Bergamo) ha chiesto l’archiviazione. “A seguito della richiesta di archiviazione - ripercorre l’avvocato Salvagni - abbiamo avuto accesso agli atti di indagini di Venezia e quando li abbiamo letti siamo saltati sulla sedia perché a nostro giudizio emerge chiarissima la responsabilità della dottoressa Ruggeri”. Da qui l’opposizione, con un documento di 70 pagine e la decisione del gip: da un lato ha archiviato le posizioni per depistaggio doloso di Perillo e di Epis e dall’altro ha rimandato gli atti in procura per il reato di depistaggio nei confronti del pubblico ministero Ruggeri. Nelle nuove indagini che la procura di Venezia dovrà compiere giocheranno un ruolo cruciale alcune date, tre in particolare. La prima, quella della Corte di Cassazione, che il 12 ottobre 2018 ha condannato in via definitiva Massimo Bossetti quale assassino di Yara Gambirasio. Cinque mesi dopo il pubblico ministero Ruggeri chiede al giudice di poter spostare tutti i reperti all’ufficio corpo di reato. Una richiesta accolta e autorizzata dal giudice nel settembre del 2019. C’è ancora un’altra data importante: il 21 novembre 2019 quando i carabinieri di Bergamo procedono a spostare “fisicamente” tutti i reperti dell’omicidio Gambirasio, compreso i 54 campioni di dna, dal laboratorio San Raffaele di Milano, dove erano conservati ad una temperatura di -80 gradi, all’ufficio corpo di reato. “Quando i carabinieri li ritirano dal San Raffaele allertano il pubblico ministero che lo spostamento dei reperti da una temperatura ad un’altra li avrebbe distrutti - evidenzia Salvagni - ma il pm fa procedere. I carabinieri però, per scrupolo, portano e conservano i campioni nei freezer della compagnia”. Nel frattempo la difesa di Bossetti, il 27 novembre 2019, ottiene l’autorizzazione del giudice ad analizzare il dna: “La dottoressa Ruggeri - evidenzia Salvagni - era a conoscenza che la difesa fosse stata autorizzata a procedere con l’analisi perché io stesso, sabato 30 novembre 2019, sono stato a Bergamo per notificare l’autorizzazione del giudice dell’esecuzione ad esaminare quei reperti. Lo sapevano”. Cinque giorni dopo, il 2 dicembre, i reperti, compreso il dna che poteva togliere oltre ogni dubbio sul profilo genetico di “ignoto 1” e mettere la parola fine al caso, sono stati portati all’ufficio corpo di reato. “Fino al 2 dicembre erano in freezer correttamente custoditi e analizzabili” è il rammarico della difesa di Bossetti, che spera venga “certificata la distruzione dei reperti che - ricorda l’avvocato Salvagni - è un fatto illecito”. Conviene a tutti se dal carcere usciamo migliori di prima di Massimo Zanchin* Il Riformista, 30 dicembre 2022 Crediti e debiti, bene e male, vittime e prigionieri. È ora che finisca il tempo della bonaccia. È arrivato il tempo di capire che siamo sulla stessa barca, è arrivato il tempo di issare le vele perché, ne sono certo, è questo il tempo di un vento nuovo, il vento portatore di una vera e nuova giustizia. Deve finire il tempo dell’afflizione, della punizione come unico mezzo di deterrenza e giustizia. Deve finire il tempo dei luoghi comuni, dei pregiudizi, delle umiliazioni, delle pene e delle torture. La fase esecutiva di una pena parte dal dispositivo di condanna. Sul mio dispositivo vi è questa frase: “si condanna il reo al fine pena MAI”. Il MAI scritto in stampatello maiuscolo, in grassetto. Ora: il giudice pretende un po’ troppo. Insomma, avesse scritto “fino all’ultimo respiro”, la condanna poteva essere attuabile, a meno che quel giudice sia convinto che esistano carceri anche nell’aldilà, e che nel giorno del mio trapasso possa sostituirsi a Dio sedendo sull’assise per giudicarmi di nuovo. A mio avviso, quel giudice nel dispositivo non avrebbe dovuto scrivere “si condanna alla pena”, quanto piuttosto “al miglioramento”. Un crimine, anche se commesso per vendetta, viene comunque perseguito attraverso la legge. Se togli la vita a una persona, anche se per vendetta, rimane sempre un crimine. Allo stesso modo, se ti appropri della vita di una persona, anche se per vendetta, crimine resta. Quando un giudice condanna al fine pena MAI, trasforma una richiesta di giustizia da parte della comunità in un vero e proprio crimine di vendetta: persegue un crimine commettendo un altro crimine. La differenza è solo una. Lo Stato si sente legittimato in forza del 4bis, quindi il suo è un crimine non punibile (anche se lo stesso 4bis è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale). Pensateci: in Iran è legittimo soffocare le proteste pacifiche con l’uso della forza più spietata e disumana, arrivando persino a uccidere i manifestanti. Ma, pur se legittimo, non vuol dire che sia giusto. Non sempre la legittimità può dare la licenza di commettere un crimine contro un essere umano. E quando un giudice dispone quella pena firma sì, con il suo nome, ma lo fa anche a nome vostro, a nome della comunità. Vestendosi con abiti da sadico assetato di vendetta, quel giudice crede di farsi interprete del desiderio della comunità di voler infliggere pene e torture al reo per tutti i giorni che vivrà come risarcimento per il torto subito. È questo il vero senso di giustizia che serve, che è utile al vostro bene? Ma da quando il vostro bene può essere figlio del male? I prigionieri che hanno sbagliato, o ritenuti tali, sono vostri, sono esseri umani che vi appartengono, ed è un vostro diritto vi vengano restituiti migliori di prima. Lo Stato ve lo deve. È ora che finisca il tempo delle strumentalizzazioni per mantenere in vita l’utilitaristico allarme sociale. È ora di finirla di spacciare la propaganda della vendetta come unico mezzo per la lotta alla mafia. Il fenomeno del male non si può abolire, tantomeno si può convertire in bene con la tortura. Il male si esprime attraverso le persone, ed è trasformando e migliorando le persone che lo si può isolare e sconfiggere, sottraendogli i suoi strumenti. Date, piuttosto, ai prigionieri mezzi e occasioni di fiducia affinché diventino esseri umani migliori. L’attuale metodo è anacronistico. Non ci appartiene più. Questo è il tempo per sviluppare un pensiero nuovo, che mira a trasformare lo scarto in materia prima, le persone in esseri umani. E ai parenti delle vittime cosa raccontiamo? Dove li mettiamo? Quale conforto si può dare alla sofferenza per l’ingiustizia subita? Io credo che il male, quando aggredisce e distrugge le nostre vite, non ha volto. E non sarà dalle pene altrui che avremo beneficio per noi. Una cosa è la giustizia, un’altra la vendetta. Comprendo e rispetto la sofferenza di chi ha subito un torto, e bisogna vestirsi di coraggiosa umiltà per poterlo sinceramente abbracciare. Si sa, non possiamo modificare il passato, ma scegliere come andare avanti sì, e una scelta giusta è giusta davvero solo quando è libera, e per essere libera è utile avere tutto il nutrimento informativo e formativo. La vera forma del male è l’atto, non la persona che compie quell’atto. Ed è per questo che si deve migliorare per elevare l’animo del reo, perché un giorno possa riabbracciare la comunità che ha ferito, e la comunità sia pronta ad accogliere quell’abbraccio. Lo stato ha il dovere di mettere in atto questo approccio, ha il dovere di fornire gli strumenti che rendano possibile quell’abbraccio, interrompendo una propaganda dell’afflizione come unico mezzo di giustizia. Il terreno è fertile, ne sono certo. Questo è il momento di essere padri del nostro tempo, il momento giusto per gettare il seme del cambiamento, il momento per fondare una giustizia nuova. *Ergastolano detenuto a Opera “Io disabile non riesco a far visita ai miei figli in carcere, aiutatemi” di Francesca Lagoteta lacnews24.it, 30 dicembre 2022 Franco è costretto su una sedia a rotelle a causa di una grave patologia e ha difficoltà a raggiungere i due istituti penitenziari in cui sono detenuti i suoi congiunti. ”Troppo lungo il tragitto tra cancello e porta d’ingresso e quando piove è un calvario, ma non posso abbandonare i miei ragazzi”. “Vivo su una sedia a rotelle, ho due figli rinchiusi in carcere e non riesco a vederli quanto vorrei a causa delle distanze, per me insormontabili, che intercorrono tra il cancello e l’ingresso principale dei penitenziari. Aiutatemi!”. È una pena nella pena quella che descrive Franco, un papà cetrarese costretto a vivere in carrozzina a causa di una grave malformazione congenita. I figli, anche loro disabili, stanno scontando le rispettive pene in due istituti penitenziari calabresi, quello di Paola e quello di Vibo Valentia. Papà Franco ha la possibilità di vederli sei volte al mese ma non sempre riesce a farlo perché il percorso che è costretto a compiere in carrozzina, soprattutto nei mesi invernali, quando piove o c’è molto vento, “è un vero e proprio calvario”. Così descrive le sue visite. Un dolore nel dolore. “Prigioniero anch’io” - “Il mio è un accorato appello - sottolinea l’uomo alla nostra testata -, chiedo alle direttrici degli istituti penitenziari in questione un po’ di supporto affinché possano facilitarmi l’accesso ai colloqui. Per le mie condizioni di salute, mi viene difficile muovermi senza l’aiuto di qualcuno e non riesco a percorrere lunghe distanze. Dal cancello principale fino alle porte della casa circondariale di Paola, ci sono circa 40 0metri e, per un disabile come me, sono davvero troppi. La stessa cosa succede a Vibo Valentia, lì i metri da percorrere con le stampelle o in carrozzina sono circa 700. Nell’istituto vibonese c’è un parcheggio per disabili ma mi è sempre stato negato l’accesso. Devo parcheggiare fuori e proseguire da solo. Ho inviato pec chiedendo più volte di poter entrare in auto, anche con il supporto della polizia penitenziaria, ma non ho avuto risposte, perciò mi rivolgo a voi. Mi sento un prigioniero anch’io”. Visite ridotte - “Le mie visite, attualmente, si sono ridotte a tre a causa di questi disagi. I miei figli - conclude papà Franco - hanno bisogno del mio supporto. Uno dei due è affetto dalla mia stessa patologia, invalido al 75%; dell’altro sono il tutore legale in quando ha una disabilità psichica convalidata al 100%. Non posso abbandonarli”. Piemonte. Fondi per le carceri, i Garanti: “Prima di costruire recuperare le 200 stanze inutilizzate” di Raphael Zanotti La Stampa, 30 dicembre 2022 Nelle carceri del Piemonte, al 31 novembre scorso, c’erano 4.125 detenuti per una capienza massima di 3.998. Il sovraffollamento è da sempre un problema. Ora arriveranno soldi e finanziamenti, ma i garanti dei detenuti in Piemonte mettono in guardia: questi soldi bisogna usarli bene perché le carceri attuali, vecchi e obsolete, hanno ancora spazi inutilizzati. “Non è tollerabile scoprire che ad Asti ci siano 5 stanze dell’area infermieri che non vengono utilizzati, oppure che ci siano locali abbandonati perché ci piove dentro e non ci sono i soldi per le riparazioni, torniamo a insistere perché sia fatto un monitoraggio e una valutazione affinché questi soldi vengano usati bene” ha dichiarato questa mattina Bruno Mellano, garante dei detenuti del Piemonte. L’occasione, la presentazione del dossier “Gli spazi del carcere contemporaneo”, ha permesso ai garanti piemontesi di affrontare il tema dei finanziamenti e della situazione delle 13 case circondariali piemontesi. Per le carceri di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta è prevista una linea di finanziamento di un milione di euro per la manutenzione ordinaria e straordinaria. Ed è su questo che Mellano ha sollevato il tema dell’inutilizzo degli spazi prima di cominciare a pensare alla costruzione di nuovi edifici. Il problema, infatti, si “mangia” circa 200 stanze per circa 315 unità per i detenuti. Al Ferrante Aporti, la casa di detenzione minorile, arriveranno invece 25 milioni di euro per lavori di ristrutturazione. Una quota cospicua dei 100 milioni di euro dei fondi europei che arriveranno anche gli istituti di Roma, Bologna e Benevento. Fondi per migliorare architettura, servizi, estetica e visibilità della struttura di corso Unione Sovietica. Negli scorsi mesi è stata bandita una gara europea in modo da selezionare il progettista delle opere previste, progettista individuato a luglio. Nei prossimi mesi verrà quindi elaborato il progetto che sarà la base per il bando dei lavori di adeguamento sismico, consolidamento strutturale, riqualificazione energetica, ottimizzazione degli spazi esistenti e nuove costruzioni (come la sezione di custodia attenuata), oltre a cantieri per rivedere le aree esterne. Le linee progettuali tengono conto anche di spazi polifunzionali e luoghi adatti alle visite prolungate dei giovani detenuti, oltre alla riqualificazione degli spazi per gli agenti di polizia penitenziaria. La riqualificazione è un tassello fondamentale per migliorare le condizioni di vita all’interno delle carceri piemontesi, problema urgente considerando il numero di suicidi avvenuti negli ultimi mesi. Un fenomeno che investe lo stesso Piemonte con cinque episodi nel 2022, quattro al Lorusso e Cutugno di Torino e uno al carcere di Saluzzo, tutti da luglio in poi. Si tratta di numeri in crescita: nel 2020 si erano infatti uccisi quattro detenuti e nel 2019 erano stati tre. Proprio ieri il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, rispondendo a un’interpellanza presentata dal deputato di Sinistra Italiana e Verdi, Marco Grimaldi, aveva annunciato di aver avviato un’indagine interna sulle morti di due detenuti torinesi: Tecca Gambe e Alessandro Gaffoglio.  Sardegna. Sovraffollamento ma meno recidive con il teatro di Luigi Alfonso vita.it, 30 dicembre 2022 La Fondazione di Sardegna co-finanzia due progetti nazionali, portati dalla compagnia teatrale Cada Die all’interno della Casa circondariale di Uta, a due passi da Cagliari. Detenuti veri protagonisti e non semplici comparse. Ma resta il problema di fondo: buona parte delle persone rinchiuse negli istituti di pena giungono da fuori e, paradossalmente, le colonie penali funzionano a mezzo regime. Il 70 per cento delle persone ospiti di un istituto di pena cade in recidiva, una volta lasciato il carcere. Questo dato ha rafforzato la riflessione della compagnia “Cada Die Teatro” di Cagliari, una delle più importanti della Sardegna, che partecipa a due progetti mirati nel carcere di Uta (Cagliari). “Non tutti hanno accesso a strutture alternative, come la comunità La Collina di Serdiana guidata da don Ettore Cannavera”, sottolinea Pierpaolo Piludu, cofondatore di Cada Die insieme ad Alessandro Mascia. “Non è certo un caso se lì si registrano recidive molto più basse, intorno al 4-5%. La nostra scommessa è far sì che il teatro diventi uno strumento di emancipazione per uomini e donne che, al di là delle scelte fatte in passato, sono alla ricerca di un’opportunità di rinascita. Ecco perché stiamo portando avanti due progetti finanziati dalla Fondazione di Sardegna e sostenuti da Cpia Karalis 1 e Ufficio di esecuzione penale esterna - Uepe: “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” (dove protagonisti sono i detenuti del carcere di Uta in un programma nazionale che vede impegnate 14 compagnie teatrali con altrettante Fondazioni bancarie e istituti di pena) e “Teatro oltre le sbarre” (riservato ad allievi attori in regime di semilibertà). Il sistema carcerario non solo è dispendioso, ma in tutti questi anni non ha neppure funzionato. Costa molto e non permette ai detenuti di uscire migliori rispetto a quando sono entrati la prima volta”. “I progetti culturali lasciano sempre qualcosa, per lo meno la sensazione di far parte di un percorso con regole differenti”, è il commento di Alessandro Mascia. “E questo vale per il carcere ma anche per certi quartieri e certi tipi di strutture sanitarie, dove ci rendiamo conto che ciò che facciamo vale sino a un certo punto, poi non ha più effetto. In carcere questo aspetto è ancor più marcato: fare teatro in una struttura dove ci sono pesanti limitazioni nella libertà di pensiero, spazio e movimento, a volte ti sembra di sbattere contro un muro e tornare indietro. Occorrerebbe un intervento più strutturato e organico, mentre oggi ci sono progetti parcellizzati dove ognuno va per conto suo. “MI ha molto colpita vedere i risultati di questo progetto attraverso la rappresentazione dello spettacolo portato in scena nei giorni scorsi alla Casa circondariale di Uta”, sottolinea Maria Grazia Caligaris, da tanti anni impegnata delle strutture detentive isolane con l’associazione “Socialismo diritti riforme”. “In quella occasione ho visto soltanto degli attori, e non detenuti a cui è stato assegnato un ruolo per cui fingono di fare gli attori. Hanno assaporato la vera libertà: essere se stessi all’interno di un contesto in cui sviluppano un ruolo che è riconosciuto. Per quanto sembri paradossale, il problema non è costituito dai detenuti in condizioni di alta sicurezza, bensì dagli altri, perché i primi hanno la consapevolezza di aver commesso reati di una certa gravità, quindi hanno sviluppato la capacità di guardare a se stessi. In carcere abbiamo un 50 per cento di persone con problemi psichiatrici, incompatibili con la permanenza in queste strutture. Abbiamo tante persone in doppia diagnosi, cioè tossicodipendenti con problemi di natura psichiatrica. Per non parlare della povertà culturale, umana e sociale che deriva dall’esterno. Caligaris rimarca anche un altro aspetto: “In Sardegna abbiamo un sovraffollamento nascosto nelle carceri: si dice che ci siano oltre 2.600 posti disponibili in queste strutture, ma solo il 49 per cento dei detenuti è composto da sardi, in barba alla territorialità della pena. E nei seimila ettari a disposizione nelle nostre colonie penali ci sono soltanto 298 detenuti sui 598 che si potrebbero accogliere. Una vergogna nazionale. Se lo Stato ritiene inutili le colonie, restituisca le proprietà terriere alle amministrazioni comunali e si destinino alle cooperative sociali. Il caso Sardegna fa discutere anche perché le Case circondariali di Oristano e Tempio Pausania sono state trasformate in Case di reclusione, dove ci sono soltanto persone detenute in alta sicurezza. Tutto ciò comporta costi altissimi e l’isolamento affettivo di questa gente. Sono perciò d’accordo con gli operatori di Cada Die: dobbiamo unire le forze e lavorare insieme, possibilmente coinvolgendo di più le sezioni femminili. Perché il tempo in carcere non sia inutile ma fruttuoso, si ha bisogno di iniziative culturali di un certo spessore. Diamo un senso alla vita di queste persone. Ci sarà pure un motivo se nelle carceri italiane siamo arrivati a contare 82 suicidi nel corso del 2022”. Giovanni Malagutti, psicoterapeuta e presidente della Fondazione “Malagutti” di Curtatone, ricorda che “il carcere è un luogo di sconto di pena sociale, ma per parlare serenamente di un problema così complesso, ciascuno di noi dovrebbe riflettere sulla capacità di poter gestire il nostro sentimento di vendetta. Occorre un sistema differente, non c’è dubbio, e servono le proposte giuste, che richiedono sacrificio e dedizione. Abbiamo tanto bisogno di investire nei figli e nelle famiglie dei detenuti, in una società che tenga conto che l’istruzione, la cultura, l’arte e la conoscenza siano elementi importanti per venirne fuori”. Pavia. Detenuto 20enne si impicca: in dodici mesi è il sesto suicidio a Torre del Gallo di Adriano Agatti La Provincia Pavese, 30 dicembre 2022 Il giovane italo-albanese ha utilizzato un lenzuolo che ha girato più volte intorno al collo: soccorso, il decesso al San Matteo. Soffocato da un lenzuolo nella sua cella in un reparto del carcere di Torre del Gallo. Aldo Latifaj, un detenuto che aveva 20 anni ed era italo-albanese, si è tolto la vita in questo modo nonostante l’intervento dei medici. Un decesso per soffocamento avvenuto al pronto soccorso dell’ospedale San Matteo dove i sanitari del 118 lo avevano portato ancora vivo. È il sesto suicidio avvenuto nell’ultimo anno all’interno del carcere di Torre del Gallo. Un numero decisamente alto considerato il fatto alla fine di luglio a livello nazionale i suicidi in carcere erano stati 37. Gli agenti della polizia penitenziaria hanno aperto un’inchiesta ed hanno inviato un primo rapporto al magistrato di turno della Procura della repubblica di Pavia. È stata disposta l’autopsia che dovrà chiarire le cause del decesso. È successo, mercoledì sera verso le 20, in un nuovo reparto di Torre del Gallo. Il giovane era ospite di una sezione istituita recentemente nell’istituto penitenziario pavese destinata ad accogliere detenuti da tutta la Lombardia che non possono essere ospitati in cella con carcerati comuni. Il lenzuolo - Il giovane, detenuto per reati contro il patrimonio, mercoledì sera è rimasto da solo: i due compagni erano in altre celle perché avevano usufruito del permesso di socialità. Il 20enne, che probabilmente aveva studiato nei dettagli il piano per togliersi la vita, non ha incontrato ostacoli. Ha afferrato un lenzuolo e se l’è avvolto intorno al collo. Poi l’ha girato più volte con forza sino a stringersi in un modo che non gli ha lasciato scampo. “Persone che scelgono di morire in questo modo - spiegano dal carcere - non hanno possibilità di tornare indietro. Se ci ripensano, infatti, non riescono a liberarsi dalla morsa”. Gli agenti della penitenziaria si sono accorti di quel giovane steso sul pavimento e hanno subito aperto le porte della cella. Pronto soccorso - Hanno chiamato il medico del carcere ma per il 20enne italo albanese non c’era molto da fare. In ogni caso è stato chiesto l’intervento del personale del 118 e la centrale operativa ha inviato automedica e ambulanza. Aldo Latifaj è stato rianimato sul posto, intubato e trasportato in codice rosso al pronto soccorso. Ma la sua lotta contro la morte si è conclusa pochi minuti dopo. Il medico ha constatato il decesso. Intanto gli agenti della penitenziaria hanno eseguito i primi accertamenti e hanno cercato di ricostruire come era avvenuta l’ennesima tragedia all’interno della struttura carceraria pavese. Il cappellano del carcere: “Fragile, lo conoscevo” - “Lo conoscevo, gli avevo parlato più di una volta. Era un detenuto molto fragile, mi spiace moltissimo per questa tragedia”. Parole di don Dario Crotti, il cappellano del carcere di Torre del Gallo. Ieri pomeriggio non sapeva ancora del decesso del giovane detenuto perché era impegnato in una giornata di preghiera. “Me lo avevano segnalato gli agenti di polizia penitenziaria - continua il racconto di un sacerdote molto attento ai problemi dei detenuti di Torre del Gallo - e gli avevo parlato. Purtroppo non è stato sufficiente”. Il lavoro di don Dario nel carcere pavese è molto importante. Fa visita ai detenuti (circa 650 persone) tre volte la settimana e, in media, organizza circa venti colloqui ogni settimana per andare incontrare il più possibile alle esigenze di tutti. È aiutato al mercoledì da padre Marco. In due cercano di portare aiuto ai detenuti che ne hanno più bisogno. “Ricordo che era un ragazzo molto educato - continua don Marco - che non aveva mai dato problemi al personale. Purtroppo il carcere, e questa non è certo una novità, non un luogo adatto sia è per la rieducazione che per la custodia. C’è un disagio notevole che vale anche per il personale purtroppo abituato a lavorare in condizioni non facili. Guardiamo a quello che è successo, in questi giorni, all’istituto Beccaria di Milano con la fuga dei sette ragazzi. Da anni in un istituto così importante non c’è un direttore stabile e sempre da diversi anni ci sono lavori in corso. Non è possibile portare avanti un lavoro importate a favore dei detenuti in quelle condizioni”. Ancora suicidi - L’ultimo suicidio nel carcere pavese era avvenuto il 20 luglio scorso. Si era tolto la vita Michael Mangano, un uomo che aveva 33 anni e abitava a Vigevano. Era stato condannato a otto anni per omicidio preterintenzionale per la morte dell’amico Filippo Incarbone. Si era soffocato con un sacchetto di plastica. Lo aveva durante la notte e il corpo era stato trovato, la mattina seguente, dagli agenti. Quaranta giorni prima si era tolto la vita Emilio Di Fabio, un 40enne che si era soffocato con un lenzuolo attaccato al letto. L’uomo era in una cella singola e quanto gli agenti lo avevano visto era troppo tardi. Ivrea (To). Detenuto ha bisogno di un pace-maker ma da luglio attende ancora di essere visitato di Liborio La Mattina giornalelavoce.it, 30 dicembre 2022 Il problema della sanità che in carcere non funziona, delle visite che non si riescono a fare perché mancano automezzi e uomini per l’accompagnamento, è stato uno degli argomenti di cui ha parlato il Garante dei detenuti Filiberto Orso Giacone durante la recente relazione al consiglio comunale di Ivrea. È noto a tutti, ma leggere le parole da chi il problema lo vive sulla propria pelle fa davvero un altro effetto. “Nel mese di febbraio 2020 - scrive Gianluca Z. - durante gli accertamenti di preparazione ad un’operazione a cui stavo per essere sottoposto, i medici casualmente hanno scoperto che soffrivo di tale patologia stabilendo - come risulta dai referti - che ne ero affetto da un paio d’anni, però non me ne ero mai reso conto. Il primo sintomo è stato notevole e si è manifestato nel mese di febbraio 2022, quando ho fatto rientro a casa dal lavoro. Quella volta mi hanno ricoverato all’ospedale d’urgenza e ci sono rimasto per due giorni”. Il 22 maggio 2022 viene arrestato e condotto nel carcere di Novara. Qui dopo avere fatto presente il suo stato di salute i medici lo sottopongono a una visita accurata. A giugno Gianluca ha un attacco cardiaco e il medico lo fa ricoverare d’urgenza all’Ospedale per tutti i controlli del caso, comprese le analisi del sangue. L’esito non lascia spazio all’immaginazione: per evitare ricadute è necessario l’innesto di un pace-maker. “Per questo quando il 5 luglio 2022 è stato disposto il mio trasferimento nel carcere di Ivrea, pensavo che il motivo fosse quello di agevolare l’imminente intervento e che avrei anche ricevuto le cure più adeguate - scrive Gianluca Z - Invece sono stato visitato dal medico del carcere di Ivrea per la prima volta due giorni dopo il mio ingresso. Soltanto due giorni dopo l’ingresso e solo perché ho accusato dei forti dolori al petto...” Il 07 luglio il medico gli prescrive una visita cardiologica da eseguirsi con la massima urgenza. Spero che chi di dovere si metta una mano sulla coscienza e che presto mi fissino la data di questa visita che si può definire di vitale importanza. “Visita che fino al momento in cui scrivo, cioè 04/12/2022, nonostante a settembre abbia avuto un nuovo attacco - sto ancora aspettando. Nel carcere d’Ivrea, seppur con altre patologie, non sono il solo ad essere in tale situazione. Questa è la seconda volta che entro in un carcere (la prima volta accadde tanti anni fa e - grazie al cielo - ci sono rimasto pochi giorni) quindi non sono pratico di regolamenti... Spero che chi di dovere si metta una mano sulla coscienza e che presto mi fissino la data di questa visita che si può definire di vitale importanza.”. Nel frattempo Gianluca ha presentato un esposto denuncia alla Procura della Repubblica. “Fino ad oggi - conclude - non ho avuto alcun riscontro, quindi per adesso non mi resta che sperare. Fortunatamente esiste la redazione “la Fenice”, tramite la quale possiamo raccontare la nostra situazione. Praticamente è la nostra voce, altrimenti non avrei avuto la possibilità di dare sfogo all’ingiustizia che sto subendo io e tanti come me...”. Milano. Fuga dal carcere Beccaria: catturati anche gli ultimi due evasi, si erano rifugiati da amici di Andrea Siravo La Stampa, 30 dicembre 2022 Sono stati tutti ripresi i sette giovani evasi dal carcere minorile Cesare Beccaria. Gli ultimi due, un diciottenne e un diciassettenne, sono stati rintracciati e arrestati nella tarda mattinata di giovedì 29 dicembre in provincia di Monza Brianza. Erano insieme in un appartamento di un loro conoscenti quando gli agenti del Nucleo investigativo regionale della polizia penitenziaria. I due giovani, uno con precedenti per rapina, l’altro per spaccio di droga, erano compagni di cella al Beccaria e - dalle indagini - sarebbero rimasti sempre insieme in questi quattro giorni di latitanza. Ora il maggiorenne comparirà davanti al giudice per le direttissime di Monza mentre l’altro davanti al tribunale per i minorenni di Milano. Il quinto evaso rintracciato, il diciannovenne nato a Pavia ma residente nel Comasco, in carcere per maltrattamenti in famiglia, si era costituto la sera prima in Questura a Milano. Dopo il giudizio per direttissima dove è stato convalidato l’arresto, eseguito dalla Squadra mobile, il ragazzo ha già patteggiato in accordo con il pm di turno una pena a dieci mesi di reclusione per evasione. Gli altri quattro compagni di fuga, chi catturato dalle forze dell’ordine, chi si è consegnato di sua spontanea volontà, erano stati già rintracciati nei giorni scorsi. “Ringrazio chi ha collaborato, a partire dalla Polizia Penitenziaria, dal Nic, dalle altre Forze dell’ordine e da quanti si sono adoperati in questi giorni - ha commentato il senatore leghista, Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia con delega al trattamento detenuti e agli istituti minorili. Ora l’impegno deve essere profuso per chiudere il prima possibile il cantiere interno all’Istituto e per garantire che l’esecuzione della pena per i minori sia dignitosa, punti alla rieducazione e non abbia solo le forme di un castigo”. È stata proprio la presenza del cantiere “senza fine” ad agevolare l’evasione plateale dei sette. Erano in cortile per l’ora d’aria in dodici quando uno di loro ha distratto l’unico agente della penitenziaria, in servizio per la sorveglianza. Approfittando del diversivo, i sette sono riusciti a rimuovere la paratia di legno che copriva il ponteggio e a saltare dall’altra parte, in un campetto da calcio in disuso. Da lì, con l’aiuto di un lenzuolo che si erano portati dietro, hanno provato a superare il muro di cinta. Uno soltanto di loro ce l’ha fatta, poi il lenzuolo si è strappato. Gli altri hanno seguito il piano B: si sono diretti sull’altro lato del campo, hanno rimosso ancora un’altra copertura in legno e hanno saltato con facilità la recinzione più bassa delle mure perimetrali. Bologna. Carceri minorili, Lepore scrive a Nordio: “Più educatori e agenti. E coinvolga i Comuni” La Repubblica, 30 dicembre 2022 La lettera del sindaco al ministro sull’emergenza carceri minorili che coinvolge anche il Pratello a Bologna. “Sovraffollamento, pochi agenti, mancanza di educatori: così fallisce la finalità degli istituti penali”, denuncia il primo cittadino. “Non abbandoniamo una generazione”. “Sento l’urgenza morale, prima ancora che politica, di non abbandonare una generazione”, per questo “metto a disposizione il Comune di Bologna, da anni luogo di impegno e sperimentazione nel campo dei progetti educativi e culturali dentro e fuori gli istituti penali minorili” .”Ministro Nordio, coinvolga anche i Comuni” nel tavolo interministeriale sulla devianza giovanile e i problemi delle carceri minorili: è l’appello del sindaco di Bologna Matteo Lepore in una lettera aperta al Guardasigilli e alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. In queste settimane, ricorda Lepore, “diversi istituti penali a livello nazionale sono stati oggetto di disordini, tra loro anche Bologna e il Beccaria di Milano”; a seguito di questo il ministro Nordio ha lanciato il progetto di un’interlocuzione che coinvolga le istituzioni, nella quale Lepore chiede che siano coinvolti i Comuni, candidando Bologna a fare da apripista. “Mi è apparso subito chiaro, parlando con molti adolescenti della mia città, che tra il dentro e il fuori spesso non c’è molta distinzione. Dobbiamo avere il coraggio di riconoscere la realtà anche quando ci appare amara ad una prima istanza. Perché i punti di riferimento rischiamo di non essere noi ma altri, i riferimenti che possono e debbono dare l’esempio. Un dovere degli adulti quest’ultimo, attorno al quale riflettere. Riflettere seriamente. Anche relativamente alla questione delle cosiddette “‘baby gang’, termine quanto mai sbagliato per occuparsi di un fenomeno giovanile”. Lepore: “Senza educatori fallisce la finalità delle carceri” I problemi che si registrano negli istituti penali, sottolinea Lepore, non sono soltanto il sovraffollamento e la carenza di agenti di polizia penitenziaria. “Raddoppiare in pochi mesi la presenza di ragazzi detenuti in molti istituti, senza proporzionalmente aumentare il numero di educatori, operatori e agenti di polizia, è stata una scelta incauta che ha lasciato sulle spalle di tutti un peso enorme da gestire. Il peso della burocrazia giudiziaria a cui gli educatori devono provvedere è enorme, assorbe un tempo che è inevitabile ma è sottratto alla cura diretta dei ragazzi”. Così “le attività sono poche e quindi si fallisce la finalità regina che giustifica l’esistenza stessa degli Istituti penali per i minorenni: mostrare la possibilità di una vita altra, bella, costruita sui binari dell’istruzione e del lavoro”. “Servono progetti per la fiducia reciproca” - “La scelta della violenza di questi giorni ci ha sconfitti tutti, ma da adulti abbiamo il dovere di scorgere i bisogni espressi dai ragazzi anche nell’inopportuna scelta che hanno preso. Senza un progetto che miri a costruire un rapporto di fiducia reciproca consegneremo anche il nostro Pratello a divenire, collocato nel cuore di Bologna, un luogo di sofferenza, dolore e frustrazione per i ragazzi reclusi e per chi è “parzialmente” recluso con essi. La risposta dello Stato, ha detto un rappresentante dell’ordine degli avvocati di Milano, se fatta unicamente di muri e di chiavi, quella sì rimarrà il problema da risolvere. Sui muri vicini all’Istituto del Pratello qualcuno ha scritto: ‘Lo Stato sparisce/ Se hai un problema/ Lo Stato ti punisce/ Se crei un problema’. Caro Ministro e Caro Governo - conclude Lepore nella sua lettera aperta -, servono un’educazione fatta di cuori e di mani che si esercitano. Mettiamoci risorse, idee e impegno. Io sono pronto a mettere da parte le nostre distanze politiche perché credo che le nuove generazioni ci salveranno”. Torino. Un cantiere in carcere: 25 milioni di euro per riqualificare il Ferrante Aporti di Simona Lorenzetti Corriere della Sera, 30 dicembre 2022 Presentato il settimo rapporto sulle criticità strutturali dei 13 penitenziari piemontesi. Il garante Mellano: “Spazi inutilizzati, serve un monitoraggio”. Lo stato dell’arte mostra che nel carcere minorile Ferrante Aporti c’è un’intera sezione inutilizzabile per i danni provocati dai detenuti nella rivolta avvenuta nei primi giorni di novembre. Ma non è questa l’unica lacuna che emerge dal dossier - il settimo - sulle “criticità strutturali e logistiche delle carceri piemontesi” illustrato dal garante regionale dei detenuti Bruno Mellano. Mancano spazi dedicati all’accoglienza dei familiari e ne servirebbero di più adeguati per la formazione. Può apparire un mero libro dei desideri quanto descritto nel monitoraggio, in realtà oggi questo elenco di interventi è suggerimento in vista della trasformazione che subirà il complesso carcerario di Mirafiori. In arrivo, infatti, c’è un investimento di 25 milioni di euro (fondi europei) destinato alla riqualificazione dell’intera struttura. Ad annunciare la rivoluzione edilizia è lo stesso Mellano: “Quello che chiediamo è che venga attentamente studiata una progettazione architettonica e urbanistica per l’intero compound”.  Tra gli interventi più significativi - così come riportato nel documento di indirizzo alla progettazione, contenuto nel bando di gara - sono previsti l’efficientamento energetico, l’ottimizzazione degli spazi esistenti e il rifacimento delle aree esterne. Ci sarà, poi un nuovo ingresso. Quello attuale, niente più che una piccola porta, sarà sostituito da un ampio accesso in corso Unione Sovietica, tra il Tribunale dei Minori e il palazzo storico La Generala. Un cambiamento che imporrà anche modifiche alla viabilità nel tratto tra corso Tazzoli e corso Cosenza. Verranno quindi creati spazi più confortevoli per gli incontri tra giovani detenuti e la loro la famiglia. Attualmente la sala colloqui è una stanza senza finestre, con quattro tavoli di plastica. Verranno poi ridefiniti gli spazi dedicati agli uffici e agli agenti. E il Centro di Prima Accoglienza, che avrà un ingresso indipendente dal carcere.  Nel rapporto vengono messe in luce le criticità dei 13 penitenziari piemontesi, dove ai problemi di sovraffollamento si aggiungono quelli strutturali: edifici fatiscenti, spazi inutilizzati e spesso anche carenze igienico sanitari. In questa chiave è previsto un finanziamento di un milione di euro per opere di manutenzione straordinaria. “La richiesta - spiega Mellano - è fare prima un monitoraggio attento e puntuale degli spazi, così da intervenire in maniera mirata”. Torino. Donne in carcere, diritto alla cura della persona e necessità di pene alternative di Claudio Raffaelli comune.torino.it, 30 dicembre 2022 Simza, Marta, Iruwa, Antonietta e le altre. I nomi sono di fantasia, ma queste donne esistono e sono recluse nella sezione femminile del carcere mandamentale di Torino, il “Lorusso e Cutugno” a poca distanza da quel quartiere Vallette che per lungo tempo aveva dato il proprio nome al carcere. Un nome che a quest’ultimo è rimasto cucito, tanto da figurare ancora nei suoi account di posta elettronica. Questa mattina, la presidente del Consiglio comunale, Maria Grazia Grippo ha incontrato le detenute della sezione femminile. Dopo la recente visita della commissione consiliare Legalità, è stato un ulteriore atto di testimonianza di quanto Palazzo Civico e il suo Consiglio comunale considerino il carcere una parte integrante della comunità. “Mura e recinzioni, per quanto inevitabili, non devono interrompere la continuità tra l’insieme della società e questo suo segmento problematico e dolente” ha spiegato la presidente Grippo, che ha portato alle donne carcerate un piccolo aiuto pratico messo a disposizione dall’ufficio della Garante dei detenuti Monica Cristina Gallo, costantemente impegnata nella tutela dei diritti delle persone private della libertà. In particolare, si è trattato di confezioni di shampoo, detergente intimo, latte detergente e crema per le mani, articoli necessari per l’igiene quotidiana. “Tra i diritti fondamentali che vanno garantiti a chi si trova in carcere, restano centrali quelli alla salute e alla cura della persona”, ha commentato la presidente Grippo, aggiungendo: “Anche alla luce dell’incontro di questa mattina, auspico fortemente che il nuovo governo eviti di interrompere le misure straordinarie in precedenza assunte, con l’emergenza Covid, in materia di pene alternative per i reati di minore entità (come la detenzione domiciliare o la semilibertà anche notturna), misure che andrebbero anzi rese strutturali o almeno prorogate. Questo al fine di migliorare le condizioni di vita dei detenuti e delle detenute nonché del personale di custodia stesso, data la situazione di sovraffollamento e carenze strutturali che caratterizza il sistema penitenziario del Paese”, ha concluso la presidente. Nelle prossime settimane, l’ufficio della Garante dei detenuti della Città di Torino consegnerà palloni, scarpe da calcetto e borse sportive agli ospiti dell’istituto “Ferrante Aporti”, poiché la pratica sportiva non solo è un diritto per i giovani ma anche un veicolo per affermare valori quali il rispetto delle persone e delle regole di convivenza. Parma. Rinviato il Consiglio comunale per discutere la nomina del Garante dei detenuti Gazzetta di Parma, 30 dicembre 2022 Non viene inviata la convocazione tramite Pec e salta il Consiglio comunale di oggi. La Cavandoli e Vignali: “Così non ci sarà la nomina del Garante dei detenuti”. Il Consiglio comunale, che si doveva tenere oggi alle 18, è saltato e si svolgerà lunedì 9 gennaio 2023 sempre alla 18 (e in seconda convocazione in caso di mancanza del numero legale il 10 gennaio) per un errore di notifica ai consiglieri comunali che non sono stati avvertiti nei modi dovuti da regolamento. Oggi si doveva discutere la nomina del Garante dei detenuti. In merito, si registra - informa un comunicato stampa del Comune di Parma - la presa di posizione del Presidente del Consiglio Comunale, Michele Alinovi, che ha precisato, rivolgendosi ai Consiglieri Comunali: ”Nonostante la convocazione del Consiglio Comunale odierno sia stata regolarmente firmata dalla Presidenza del Consiglio nel rispetto dei tempi dettati dal Regolamento per il funzionamento del Consiglio Comunale - oltre a essere stata inviata una e-mail di convocazione ai Consiglieri Comunali, alla Giunta, ai Dirigenti Comunali, ai Consigli dei Cittadini Volontari e agli organi di stampa - a causa di un mero errore materiale di mancato invio della PEC di convocazione, il Consiglio Comunale di oggi non potrà avere luogo. Mi scuso personalmente e anche in nome e per conto degli uffici per il disguido e vi comunico fin da ora che ci siamo immediatamente attivati per una nuova convocazione per il giorno 9 gennaio 2023 alle ore 18.00 al fine di garantire la più ampia partecipazione dei Consiglieri Comunali, consapevoli che la nomina del “Garante delle persone private della libertà personale” riveste grande importanza per la nostra comunità tutta”. “Il consiglio comunale di Parma - scrivono in una nota Laura Cavandoli e Pietro Vignali - deve, secondo regolamento, essere convocato tramite PEC almeno cinque giorni prima della riunione. La convocazione per la riunione odierna non è stata inviata in modo conforme come abbiamo evidenziato agli altri capigruppo, pertanto non è valida e la riunione non deve tenersi”. “Non sussistono nemmeno - continua la nota - le ragioni di una immediata convocazione d’urgenza, come è stato ventilato dalla Presidenza del consiglio comunale, dal momento che è prevista la discussione di una unica deliberazione, quella di votazione del garante dei detenuti, che non risulta tale non essendoci una scadenza di legge e, del resto, non essendo prevista come urgente dal foglio di convocazione del consiglio comunale odierno erroneamente notificato. Alla luce dell’importanza della votazione e della delicatezza della delibera che coinvolge i nove soggetti che hanno mandato la propria candidatura a garante appare evidente il necessario rispetto di leggi e regolamento”.  Reggio Calabria. Il Tribunale per i minorenni sigla Intesa con Camera Minorile, Agape e Save The Children di Mirko Spadaro strettoweb.com, 30 dicembre 2022 Un Tribunale amico dei minori e delle famiglie. Accordo di collaborazione con Save the Children, Camera minorile, Agape. Continua la politica di apertura del Tribunale per i minorenni alla comunità tesa a valorizzare tutte le risorse possibili del territorio nella tutela dei minori attraverso la creazione di nuovi spazi di ascolto in grado di dare informazioni e consulenza su una serie di materie che coinvolgono la vita dei minori e delle loro famiglie. E’ stato infatti siglato un protocollo d’intesa tra il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, la Camera Minorile, il Centro Comunitario Agape, Save The Children con l’obiettivo di attuare una trasversalità operativa a supporto dei bambini in difficoltà e delle famiglie in crisi. Secondo il Presidente Marcello D’Amico, che ha fortemente voluto rinnovare un protocollo che aveva già dato in passato buoni risultati, va cambiata “l’ immagine del Tribunale per i minorenni spesso percepita come punitiva, che emette sentenze e provvedimenti, per sostituirla come organo che mette al centro la cura dei minori e della famiglia stringendo alleanze con le agenzie educative. In linea con una giustizia che vuole essere di prossimità, sempre più vicina ai cittadini”. Raffaella Milano, referente nazionale di Save The Children, unitamente a Carla Sorgiovanni referente regionale ha confermato l’adesione ad una un’esperienza pilota in Italia che dovrebbe estendersi anche in altri distretti. La stessa si è subito resa disponibile ad “offrire una serie di supporti formativi per i soggetti che opereranno per la realizzazione del protocollo e che hanno deciso di mettersi in rete per migliorare i servizi a favore dell’infanzia e dell’adolescenza”. Anche il Presidente dell’Agape Mario Nasone ha sottolineato “l’importanza di creare attorno al Tribunale per i Minorenni e agli Enti Locali delle reti associative che mettano a disposizione un volontariato sempre più qualificato in grado di contrastare il disagio ambientale, familiare e sociale che produce dispersione scolastica, devianza e la delinquenza minorile”. Un ruolo importante all’interno del protocollo verrà svolto dalla Camera Distrettuale Minorile rappresentata da Alessandra Callea che ha espresso “grande soddisfazione per la prosecuzione di una esperienza di collaborazione istituzionale già avviata con l’Autorità Giudiziaria minorile, che adesso si arricchirà di percorsi formativi e d’interventi rivolti alle scuole ed agli operatori sociali, con l’obiettivo di calarsi nel mondo dei ragazzi, dei bambini e delle loro famiglie, ascoltando le loro istanze e supportando i soggetti che istituzionalmente sono preposti alla prevenzione dei disagi manifestati”. Un contributo qualificato continuerà ad essere assicurato anche dal gruppo di avvocati volontari della “Marianella Garcia” dell’Agape la cui referente Lucia Lipari, ha sottolineato “l’importanza del coinvolgimento dei professionisti che credono nel valore sociale dell’attività professionale gratuita, a salvaguardia dei più deboli Per il giudice onorario Giuseppe Marino, che ha curato il rinnovo del protocollo la volontà del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, unitamente a tutti i magistrati che vi operano, è quello di concedere ai minori l’opportunità di progettare il loro futuro, offrendo però le ‘istruzioni d’uso’ e tutti gli strumenti possibili a tutti coloro che intervengono per la loro tutela”. Questi i servizi che in base all’accordo saranno attivati gratuitamente con l’inizio del nuovo anno all’interno del Tribunale per i minorenni e c/o il Centro Comunitario Agape: - Ascolto e consulenza per le famiglie, gli operatori scolastici e per i soggetti che operano per la tutela dei diritti dei minori - Segnalazione e collaborazione reciproca con i servizi sociali del Comune, con gli istituti scolastici e con il Tribunale per i Minorenni - Incontro c/o gli Istituti scolastici con insegnanti e studenti a cura del Tribunale per i minorenni, della camera minorile e delle associazioni - Consulenza legale su appuntamento nei casi non coperti dal gratuito patrocinio, ove ricorra la necessità supporto processuale Formazione a cura di Save The Children che curerà l’organizzazione di eventi inerenti le tematiche oggetto del protocollo rivolti a operatori della giustizia minorile, degli enti locali, della scuola e delle associazioni Orari Sportello: c/o il Tribunale per i Minorenni di via Marsala a cura della Camera minorile il Mercoledì dalle 09,30 alle 12,30c/o il Centro Comunitario Agape via P.Pellicano 21/h il Martedì ed il Giovedì dalle ore 15.00 alle ore 18.00. Contatti Utili: 0965/894706, segr.agape@gmail.com;avvocatimarianellagarcia@gmail.com. Migranti. Decreto Ong, conseguenze e dubbi di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 30 dicembre 2022 La tendenza a spostare sul piano amministrativo le sanzioni le sottrae al controllo del magistrato. Fuga dalla giurisdizione, vissuta con insofferenza alla stregua di una zavorra di lacci e lacciuoli da aggirare, se non addirittura percepita pregiudizialmente ostile ai programmi governativi: è la tendenza evidente nel decreto legge sulle Ong, con il quale il governo Meloni sposta dal terreno penale a quello amministrativo le sanzioni per le navi che soccorrano naufraghi con modalità diverse dalle regole poste dal ministro dell’Interno Piantedosi. Ma è una tendenza che, pur nella diversità degli ambiti, permea ad esempio anche la riproposizione delle norme che sterilizzano i rischi penali per gli amministratori di aziende di “interesse strategico nazionale” come Ilva; o nella legge di bilancio la transazione agevolata delle controversie tributarie con l’Agenzia delle Entrate pendenti in Cassazione; o, negli auspici del Guardasigilli, la preferenza teorica accordata alle intercettazioni preventive rispetto a quelle giudiziarie. È una deriva certo non iniziata con questo governo: ma mentre precedenti esecutivi, vergognandosene, la ammantavano di discutibili motivazioni utilitaristiche (all’insegna di una sorta di “non c’è abbastanza giustizia per tutti e dunque come l’acqua va razionata”), questa maggioranza ne rende palese la cornice finalistica ideologica in particolare in tre conseguenze del decreto legge sulle Ong, la cui bozza mette in mano al prefetto una progressione di sanzioni pecuniarie (a seconda dei casi da 2 mila a 10 mila oppure da 10 mila a 50 mila euro), di fermi amministrativi delle navi da venti giorni a due mesi, e persino di loro confisca in caso di recidiva. Come prima conseguenza, l’autorità amministrativa che infligge queste sanzioni (prima di qualunque vaglio giurisdizionale anche solo cautelare) non ha le garanzie di indipendenza dei magistrati, perché è chiaro che il prefetto di turno fa quello che vuole il ministro dell’Interno da cui dipende gerarchicamente. La seconda conseguenza è la mancanza di tassatività (rispetto alla norma penale) del precetto di condotta asseritamente violato, e quindi la gassosità degli indici di inosservanza che l’autorità amministrativa ritenga di punire: sanzioni per navi che “non forniscano una ricostruzione dettagliata” dei soccorsi, o non abbiano “idonei requisiti tecnici-nautici”, o non si dirigano “tempestivamente” verso il porto (assegnato anche molto lontano) senza indugiare a salvare magari altri naufraghi, nel penale non potrebbero mai esistere, per quanto sono vaghe e per quanto dunque diventa discrezionale l’applicazione contingente da parte del prefetto. La terza è l’inversione della tempistica delle sanzioni. Poiché il vero obiettivo (bloccare le navi) non è stato raggiunto in passato quando la cassetta degli attrezzi era quella penale, applicata da magistrati che in conformità al diritto internazionale finivano quasi sempre per concludere le proprie istruttorie in termini favorevoli ai soccorritori marittimi, ecco che allora si fa invece decidere ai prefetti una sanzione subito eseguibile, contro la quale saranno le Ong a doversi attivare per contestarne la legittimità al Tribunale amministrativo regionale, ma con a loro carico sia i non brevi tempi sia i costi, visto che in attesa dell’esito del ricorso le norme accollano all’armatore le spese di mantenimento della nave sotto fermo. Può darsi che la pur minima rimodulazione delle sanzioni sia sufficiente a dribblare quella parte di preoccupazioni esposte dal Presidente della Repubblica l’8 agosto 2019, quando accompagnò la conversione del decreto Salvini-bis (che “chiudeva i porti” a pena di confisca della nave e di multe da 150 mila a 1 milione di euro) con il biasimo della mancanza di qualunque criterio distinguesse “tipologia delle navi, condotta concretamente posta in essere, ragioni della presenza di persone a bordo”. Ma resta il dubbio se appaia “ragionevole, ai fini della sicurezza dei cittadini e della certezza del diritto, affidare alla discrezionalità di un atto amministrativo la valutazione di un comportamento che conduce a sanzioni di tale gravità”. Migranti. Cattolici e Ong: il decreto Piantedosi farà più morti di Giansandro Merli Il Manifesto, 30 dicembre 2022 Sea-Eye: “Non rispetteremo norme contrarie al diritto internazionale e di bandiera”. A Tripoli una delegazione italiana guidata dal capo della polizia Giannini. “Dice il governo che così diminuiranno le partenze, ma non è vero: la gente continuerà a partire sempre, come può. Saranno gli arrivi a ridursi e il saldo sarà quello, insostenibile, di altre vittime in mare”. Chi al Mediterraneo ha dedicato lavoro e passione non fatica a vedere in anticipo gli esiti più nefasti del decreto anti-Ong voluto dal Viminale. Il breve commento è dell’ammiraglio in congedo Vittorio Alessandro, 31 anni nella guardia costiera e ora componente del comitato per il diritto al soccorso. In attesa di leggere il testo definitivo pubblicato in Gazzetta ufficiale cattolici, Ong e rappresentanti dell’opposizione attaccano duramente la misura. “Questo decreto cadrà presto, è costruito sul nulla, soprattutto su un segnale di insicurezza che è fasullo”, dice l’arcivescovo Gian Carlo Perego, presidente di fondazione Migrantes e commissione Cei per la Migrazione. Per il governo è un attacco atteso, ma non indolore. Nell’intervista a Vatican News Perego ribalta radicalmente il piano narrativo delle destre, definendo le Ong uno strumento di sicurezza per almeno il 10% di chi sbarca in Italia e denunciando come a fronte di nuovi limiti ai soccorsi manchi completamente un impegno delle istituzioni. “Il provvedimento farà aumentare morti in mare e respingimenti in Libia”, accusa Emergency, da poco tornata nel Mediterraneo con la nave Life Support. Secondo l’Ong fondata da Gino Strada il governo limita drasticamente le attività di soccorso e moltiplica i costi delle missioni. Intanto Medici senza frontiere annuncia che tra oggi e Capodanno la sua nave ripartirà per la ventunesima missione. Le due organizzazioni vivono momenti difficili anche nell’Afghanistan dei talebani, nonostante non rientrino espressamente nella legge che vieta alle donne di lavorare per le Ong. Anche lì, comunque, hanno annunciato che non abbandoneranno il campo. Durissime le considerazioni dei legali di Sea-Eye: “L’Italia interferisce pesantemente e senza alcun fondamento nel diritto internazionale con la libertà di navigazione della Germania”, afferma Valentin Schatz, giurista della Università di Lüneburg e membro del team giuridico di Sea-Eye. Secondo l’avvocato l’Italia può regolamentare i soccorsi solo nelle sue acque territoriali e non in alto mare su navi che non rientrano nella sua giurisdizione. L’Ong annuncia che non seguirà alcun codice di condotta o direttiva amministrativa contraria al diritto internazionale o alle leggi dello Stato di bandiera tedesco. E proprio alla Germania rivolge l’appello di tutelare le organizzazioni umanitarie. “Il decreto segna la sconfitta di porti chiusi, blocco navale e sbarchi selettivi, cioè della peggior propaganda - sintetizza Luca Casarini di Mediterranea - Ma il governo invece di promuovere la cooperazione per salvare quante più vite possibile attacca il soccorso civile”. I senatori Pd Graziano Delrio e Antonio Nicita si dicono “sconcertati” da un provvedimento che viola i trattati internazionali, ostacola l’obbligo di salvare vite, criminalizza le Ong e viene approvato nonostante manchino completamente le ragioni per una decretazione d’urgenza. “Norme illegali da chi porta un carico residuale di odio e razzismo”, taglia corto Nicola Fratoianni (Verdi Sinistra). Per Riccardo Magi (+Europa) i decreti del governo su rave e Ong sono “da Stato di polizia”. Esultano invece dai banchi delle destre. Per la premier Giorgia Meloni il provvedimento “serve a far rispettare il diritto internazionale alle Ong”. “Andava dato un segnale di fermezza”, dichiara Maurizio Gasparri (Fi) secondo il quale le navi umanitarie sono “centri sociali del mare che svolgono una funzione di supporto ai trafficanti”. Mentre per il sottosegretario all’Interno Emanuele Prisco “la madre di tutte le battaglie è fermare le partenze”. Per lavorare in questa direzione mercoledì una delegazione italiana è volata a Tripoli, incontrando il sottosegretario agli interni del governo di unità nazionale Emad Trabelsi. A guidarla, si vede nelle foto pubblicate dai libici, il capo della polizia Lamberto Giannini. Ieri, senza ong in mare, Alarm Phone ha segnalato tre barconi in pericolo nelle zone Sar italiana e maltese con 500, 98 e 45 persone. E a Lampedusa c’è stata una raffica di sbarchi: quasi 1.500 i migranti nell’hotspot. Migranti. Un’altra morte in un Cpr napolimonitor.it, 30 dicembre 2022 Il 19 dicembre scorso un 38enne di origini marocchine, di cui non conosciamo il nome, è morto al Cpr di Restinco, a Brindisi. Secondo le notizie che questura ed ente gestore hanno dato alla stampa locale, l’uomo è morto intossicato durante una protesta scoppiata all’interno del centro nel cuore della notte. La dinamica non è chiara, ma si sa che diversi materassi erano stati dati alle fiamme nel tentativo di manifestare tutta l’insofferenza verso questa forma di reclusione. Oltre alla persona morta, almeno un’altra è rimasta ferita. Da febbraio 2020, quando è scoppiata la sindemia da Covid-19 e i Cpr sono diventati dei luoghi ancor più impenetrabili di quanto già non fossero, questa è l’ottava morte di detenzione. Otto persone, in poco meno di tre anni. Aymen Mekni, morto nel Cpr di Caltanissetta per non essere stato curato; Vakhtang Enukidze e Orgest Turia, morti nel Cpr di Gradisca d’Isonzo dopo violenze poliziesche il primo e a seguito di una overdose da farmaci il secondo; Wissem Ben Abdel Latif, morto in contenzione all’ospedale San Camillo di Roma, dove era stato portato dal Cpr di Ponte Galeria; Moussa Balde, morto suicida nel Cpr di Torino, dove era finito dopo essere stato vittima di un brutale pestaggio a Ventimiglia; Ezzedine Anani e Arshad Jahangir, portati al suicidio sempre a Gradisca.  A prescindere dalla sua posizione geografica, dalla quantità di informazioni che gruppi e reti solidali possono raccogliere e divulgare su cosa succede dietro queste spesse mura e alte grate, dalle azioni di solidarietà attiva, il Cpr continua a uccidere. Secondo i dati pubblicati nel recente libro Dietro le mura. Abusi, violenze e diritti negati, redatto da LasciateCIEntrare, questa è la quarantatreesima morte nei Cpr dalla loro apertura nel 1998. La morte in questi luoghi è ampiamente normalizzata da autorità, stampa e opinione pubblica. Eppure, alcuni degli elementi che negli scorsi giorni sono emersi delineano un quadro inquietante. Pochi giorni dopo la stringata notizia della morte dell’uomo, agenzie di stampa e quotidiani locali hanno dato conto di come lo stato ha risposto alla protesta. Due detenuti, uno georgiano e uno tunisino, sono stati arrestati e portati nel carcere di Brindisi con l’accusa di aver causato la morte dell’uomo marocchino dando fuoco ai materassi. Al reato di danneggiamento si è aggiunto l’omicidio colposo. Altri tre detenuti sono stati denunciati: uno con l’accusa di aver appiccato per primo il fuoco all’interno del centro; un altro per resistenza e un terzo per lancio di oggetti contro i poliziotti. Tutti gli altri detenuti, riporta la stampa, sono stati trasferiti in altri Cpr sul territorio nazionale. Quello che si intuisce, ma che non è per ora confermabile, è che il Cpr sia stato svuotato perché i danneggiamenti sono stati ingenti e vada quindi verso una (temporanea) chiusura. Quello che si evince, è che lo stato ha imputato la morte di un recluso alle azioni dei suoi compagni e non alle condizioni in cui si vive reclusi all’interno della struttura, di cui è lo stato a essere responsabile. Quanto successo a Restinco conferma quanto il governo dei corpi delle persone detenute sia basato su un’inversione di quello che dovrebbe essere il principio di legittima difesa. Il Cpr produce soggetti che non possono difendersi e la cui r-esistenza è indifendibile. Gli accusati sono coloro che hanno cercato di agire nel tentativo di difendersi dalla condizione in cui si trovavano, reclusi in un Cpr per chissà quale motivo e per chissà quanto tempo, abbandonati alla routine di questi centri fatta di psicofarmaci, cibi scaduti, condizioni igieniche e ambientali ostili, assenza di cure mediche e violenze poliziesche. Il responsabile della morte di quest’uomo, così come dei quarantadue precedenti, è il Cpr. Ovvero le leggi che l’hanno istituito, allargato, ridefinito nel corso degli anni; il sistema politico, con alcuni nomi in particolare, che da destra a sinistra si sono fatti portavoce delle campagne xenofobe che hanno creato il clima discorsivo che giustifica l’esistenza di questi luoghi; gli enti gestori dei centri; le forze dell’ordine. Tutti questi soggetti, i legislatori, i politici, i manager e i dirigenti delle cooperative, gli operatori e il personale sanitario, i poliziotti e carabinieri, seppure a livelli e in modi diversi, sono riconosciuti dallo stato come titolari legittimi di un diritto di autodifesa. Se venissero aggrediti, o anche solo insultati, da chi nei Cpr ci è rinchiuso, se venissero criticati oppure ostacolati dalle persone solidali, questi attori si troverebbero legittimati a chiedere protezione e riparazione. Chi si ritrova reclusa/o, no. Quello che resta sono gesti di auto-difesa in molti casi estremi, perché mettono radicalmente in pericolo la vita stessa di chi li attua: dagli atti di violenza contro di sé, ai tentativi di evasione, fino alla pratica, molto comune, di bruciare i materassi. Sono questi gesti di difesa ultima della propria vita a essere criminalizzati. Non sappiamo come siano andate le cose all’interno del centro, ma sappiamo che due persone sono state arrestate e tre denunciate per aver provato a ribellarsi contro i pericoli quotidiani della reclusione e la minaccia della deportazione. La criminalizzazione nei confronti delle persone migranti si interseca anche in questo caso a un’altra forma di criminalizzazione, altrettanto comune in Italia, quella del dissenso, sia esso organizzato o spontaneo. E così, per due persone il percorso è stato da un luogo di reclusione a un altro, dal Cpr al carcere. Anche questo è un elemento importante. Il Cpr è infatti praticamente sempre, e da qualsiasi posizionamento, narrato come qualcosa di slegato dai meccanismi di regolazione delle società europee contemporanee. Un luogo d’eccezione. Eppure, questo luogo è parte integrante delle istituzioni statali, non un’anomalia della democrazia da sanare. In molte occasioni il Cpr funge da surrogato al carcere. Durante il primo lockdown, per esempio, si è visto come le uniche persone rimaste all’interno dei Cpr fossero quelle provenienti dalle carceri e quelle che erano state arrestate in strada perché senza dimora. Ma il Cpr ha da sempre una funzione di “gestione” di marginali e pericolosi, senza documenti, e in questo senso ha sempre operato all’interno del continuum detentivo. In un incontro avvenuto in novembre al Csoa Gabrio a Torino su confini e frontiere, Giulia Fabini, ricercatrice in criminologia critica, riportava che il maggior numero di detenuti stranieri nelle carceri italiane sono marocchini. Proprio come l’uomo morto a Brindisi. E così non c’è da sorprendersi della provenienza geografica dei detenuti, né del fatto che in un attimo le persone possano fare avanti e indietro tra le due istituzioni. Nelle carceri, nell’ultimo anno sono morte settantanove persone (di cui cinque donne). L’aspettativa di vita di una persona diminuisce nel momento stesso in cui varca le soglie di queste istituzioni totali. Eppure, nonostante le morti, i Cpr continuano la loro espansione. Come riporta Luca Rondi su Altreconomia, il governo Meloni nella finanziaria ha stanziato oltre quaranta milioni da investire nei centri di detenzione per i prossimi tre anni. Una scelta simbolica ancora più che materiale, che fa il paio con l’ennesima riproposizione nel dibattito pubblico dell’apertura di un nuovo Cpr in Toscana, dove da anni gli amministratori locali vorrebbero un centro per poter meglio gestire la sempre maggiore presenza straniera nella regione. È un discorso che si riapre ciclicamente, e che richiede una mobilitazione e un monitoraggio costanti. E così, più di quaranta associazioni locali hanno dichiarato di opporsi all’apertura del centro. L’opposizione al Cpr in Toscana è stata centrale anche durante la manifestazione antirazzista “Sconfiniamo” tenutasi a Milano il 18 dicembre scorso, organizzata dalla rete Mai più Lager - No ai Cpr. Dalla riapertura del Cpr di Milano, l’intensa attività di monitoraggio e supporto fatta dalla rete ha permesso di denunciare molti episodi di violenza e abbandono all’interno del centro, facendo emergere quanto queste strutture siano perfettamente inserite nelle logiche di gestione socio-economica attuale; non solo il ruolo dei Cpr all’interno del regime di frontiera, ma anche la loro connessione con il carcere e la centralità economica per il sistema produttivo e di welfare. Gli stessi temi e discorsi sono emersi in altri contesti importanti. In varie piazze e occasioni è stato portato il tema della violenza psichiatrica nei Cpr, soprattutto in relazione alla morte di Wissem, dopo la quale si è costituito il Comitato verità e giustizia per Wissem Abdel Ben Latif, per chiedere che venga fatta chiarezza sulle cause delle morte del giovane. Un comitato che ha avuto una grande eco anche in Tunisia, paese di origine di Wissem. Giustizia, un termine ambiguo quando si parla di migrazioni e Cpr, ma che è quella che si sta cercando anche a Imperia. Lì, è iniziato il processo nei confronti dei tre uomini accusati del pestaggio ai danni di Moussa Balde, per i quali il pubblico ministero ha chiesto due anni e otto mesi riconoscendo la gravità dei fatti. Fuori dal Tribunale c’era un nutrito presidio in sostegno della famiglia di Moussa. Per il processo è arrivato dalla Guinea-Bissau anche il fratello, Thierno, che tra novembre e dicembre ha girato il nord Italia per raccontare la lotta che la sua famiglia sta portando avanti dall’Africa, e in Africa, per ottenere verità e giustizia per suo fratello. Cancellata la pena capitale: il dono di Natale dello Zambia di Sergio D’Elia Il Riformista, 30 dicembre 2022 La legge che abolisce per sempre, non solo l’uso, ma il pensiero stesso della forca in Zambia è arrivata come regalo di Natale ai detenuti del braccio della morte. Quale modo migliore per festeggiare la Natività, la venuta al mondo dell’uomo delle buone novelle? “Non giudicare!”, ha detto, per non incatenare vittime e carnefici al ciclo assurdo della vendetta, del delitto e del castigo, della violenza e della pena. “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”, ha ammonito, per non ridurre i rapporti umani a storie di lapidazioni e il mondo a un mucchio di sassi. “Non uccidere”, ha esortato, neanche in caso di legittima difesa. L’abolizione della pena di morte segna la vera fine dell’era coloniale. Lo Zambia restituisce al suo conquistatore quel che non era mai stato parte della propria cultura e tradizione millenarie. I coloni inglesi erano arrivati all’inizio del secolo scorso invertendo il senso di marcia, imponendo punizioni corporali, costruendo penitenziari e marchingegni patibolari. Degli usi e costumi dell’epoca rimane ora solo la guida a sinistra sulle strade, mentre il retaggio più sinistro, la forca eretta nel carcere di Mukobeko, è stato smantellato per sempre. “Un inferno in terra” l’aveva definita un Presidente dopo aver visitato la prigione qualche anno fa. Quando l’ho visitata io, nel braccio della morte erano ammassate centinaia di condannati. Ne ho visti anche sei in una cella destinata in origine a ospitarne uno. Non avevo mai visto concentrato in uno spazio così ristretto e contro le leggi elementari della fisica e sulla dignità umana un tale carico di corpi e di sofferenza. Il pavimento della cella risultava completamente coperto dai due materassi stesi per terra. Dormire lì era una sfida e i detenuti erano costretti a fare i turni. Per la notte come bagno c’era solo un bugliolo da svuotare ogni mattina. Come rancio, una volta al giorno, sempre la stessa “sbobba” di fagioli, riso, polenta o pesce fritto. In una tale promiscuità la malattia di uno - tubercolosi, scabbia o Aids - diventava il destino di tutti. Con l’abolizione della pena di morte è stato abolito anche questo padiglione della morte. Rimane ancora il carcere di Mukobeko. Il nome, nella lingua locale, significa “punizione”. In effetti, varcare la porta del carcere, anche solo per visitarlo, è una pena intollerabile. Da quando lo Zambia è diventato indipendente nel 1964, sono state impiccate 53 persone. L’ultima volta nel gennaio 1997, quando l’ex Presidente Chiluba mandò alla forca otto detenuti nello stesso giorno. Da allora lo Zambia non ha giustiziato più nessuno grazie a una serie di moratorie e perdoni presidenziali inaugurati da Levy Mwanawasa, un cristiano battista convinto abolizionista. “Le persone non possono essere mandate al macello come fossero polli,” ha detto. Per questo nel 2004 gli abbiamo conferito il Premio “L’abolizionista dell’Anno”. La linea di Mwanawasa è stata poi confermata dai suoi successori Rupiah Banda, Michael Sata ed Edgar Lungu che si sono sempre rifiutati di firmare decreti di esecuzione, commutando centinaia di condanne a morte. Il dono della vita offerto a Natale ai condannati a morte è anche merito nostro. Come “Nessuno tocchi Caino” e un po’ anche per conto del Signore che “pose su Caino un segno perché non lo colpisse chiunque lo avesse incontrato”, in Zambia siamo tornati più volte negli anni successivi per sostenere la linea del Governo a favore della moratoria delle esecuzioni in vista dell’abolizione della pena di morte. L’attuale Presidente, Hakainde Hichilema, conosce bene il carcere di Mukobeko. Nel 2017, accusato di tradimento, aveva trascorso centoventisette giorni in un camerone con oltre cento detenuti, dormendo sul pavimento e senza accesso a un bagno. Dal sottoterra infernale di Mukobeko è salito al palazzo più alto del Paese, ma non ha dimenticato la straziante situazione dei suoi ex compagni di sventura. Per “contrastare il sovraffollamento delle carceri”, ha preso a graziare condannati e commutare pene. L’ultima volta, nel maggio scorso, ne ha graziati 2.045 e ne ha commutate 807. Per progredire in direzione dello stato della vita e del diritto aveva promesso anche di chiudere il braccio della morte e di emendare il Paese dalle leggi arcaiche e antidemocratiche. Dopo sei mesi ha mantenuto la promessa. Alla vigilia di Natale ha firmato l’abolizione della pena capitale e cancellato anche il reato “coloniale” di vilipendio nei confronti del capo dello Stato. È la parabola felice di un Paese dove non abita più Caino. È anche una lezione di civiltà per il nostro dove, invece, si ragiona all’incontrario. Dove si fa di tutto per affollare le carceri, mantenere leggi arcaiche e regredire dallo Stato di Diritto. Dove si ignora l’appello del Papa per un atto di clemenza natalizio e si maledice la Natività carcerando 700 “semiliberi”, ribadendo il “carcere duro” e il “fine pena mai”, la pena fino alla morte.