Suicidi in carcere, Nordio prende tempo: “Ne parlerò martedì” di Valentina Stella Il Dubbio, 2 dicembre 2022 Il Guardasigilli rinvia la discussione, ma denuncia l’aumento delle morti: “Confligge con il diritto, la razionalità e l’etica”. E Zanettin rilancia l’appello del Dubbio. Il tema del carcere è stato al centro del question time al Senato, il primo per il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Se sulla faccenda sollevata da Matteo Renzi sul caso Open il Guardasigilli è stato molto incisivo nella risposta, annunciando una azione dell’Ispettorato generale, sul carcere non è entrato nel dettaglio e ha sorvolato per due motivi: mancanza di tempo per tematiche così complesse e rispetto per quanto avverrà il prossimo 6 dicembre, quando illustrerà con dovizia di particolari le sue linee programmatiche alle Camere per i prossimi cinque anni. “Ma saranno cinque anni?”, si è chiesto sorridendo. Il caso di Alfredo Cospito, anarchico al 41bis - La prima interrogazione era di Ilaria Cucchi (Alleanza Verdi e Sinistra) sul caso di Alfredo Cospito, l’anarchico detenuto presso il carcere di Bancali, a Sassari, e che dal 20 ottobre ha iniziato uno sciopero della fame “per denunciare le condizioni di vita in cui si trova costretto, a causa del regime cosiddetto 41-bis e contro l’ergastolo ostativo comminatogli di recente”. “Questa dolorosa situazione - ha replicato Nordio - si concretizza nella protesta del detenuto contro l’ergastolo ostativo. Va precisato che il signor Cospito è sottoposto al regime speciale del 41bis, applicato con decreto del ministro della Giustizia il 4 maggio 2022 per 4 anni, a seguito del previsto iter procedimentale, con l’acquisizione dei plurimi pareri dell’autorità giudiziaria e di polizia in seguito alla sentenza della Cassazione”. Infine “il ministro non ha alcun potere sulla indipendenza della giurisdizione”, ha sottolineato Nordio, che ha ricordato che Cospito “ha proposto reclamo davanti al tribunale di sorveglianza di Roma, che nell’udienza di oggi si è riservato” e la decisione “è attesa ad horas”. Suicidi in carcere, Zanettin rilancia l’appello del Dubbio - Il secondo atto di sindacato ispettivo è stato presentato da Forza Italia e illustrato da Pierantonio Zanettin. Tema: suicidi in carcere, arrivati quest’anno già ad 80. Vista la curva crescente, lui e gli altri interroganti hanno scritto: “Pare evidente che su questo impressionante aumento di casi possa aver inciso una politica ispirata ad una concezione carcerocentrica della pena, che ha finito con aggravare l’annoso fenomeno del sovraffollamento degli istituti carcerari italiani”. Il senatore ha poi ricordato l’appello lanciato dal Dubbio per fermare la strage di esseri umani negli istituti di pena e, sottoscrivendolo in prima persona, ha invitato tutti i colleghi parlamentari a fare lo stesso. Terza interrogazione è stata quella del Partito democratico illustrata da Andrea Giorgis e che chiedeva “quali iniziative il ministro intenda intraprendere per porre rimedio alla drammatica situazione del sovraffollamento delle nostre carceri, per assicurare una piena ed effettiva tutela della salute dei detenuti a partire da quelli psicologicamente più fragili, e per accelerare e rafforzare l’assunzione di personale”. Sovraffollamento penitenziario al 117% - Sull’overcrowding penitenziario Nordio ha detto che al momento la popolazione detenuta è di 55.573 reclusi a fronte di una capienza di 51.333. “Il sovraffollamento è pari al 117%. Nel passato è stato anche peggio, ma di certo la situazione non è tollerabile”. Sulla spending review: “Sappiamo quali siano le restrizioni economiche, le situazioni di emergenza e le precedenze che sono state date per venire incontro alle difficoltà di chi non arriva alla fine del mese per il costo delle bollette. Questo - ha osservato Nordio, ribadendo quanto affermato anche mercoledì durante un convegno della Fondazione Einaudi - non significa affatto giustificare una riduzione degli stanziamenti delle carceri ma può orientarci verso una rimodulazione delle spese all’interno del bilancio in modo da sopperire alle esigenze più pressanti. Tra queste ovviamente le carceri, intese sia come struttura, che come personale e polizia penitenziaria”. Ha poi annunciato una task force per immettere in tutti gli istituti impianti di videosorveglianza. Suicidi in cella, Nordio: il loro numero “confligge con il diritto, con la razionalità, con l’etica” - Sui suicidi, il loro numero “confligge con il diritto, con la razionalità, con l’etica”. Ha poi ricordato le varie circolari del Dap, tra cui quella adottata anche con le autorità sanitarie locali, per prevenire gesti autolesionistici. Comunque, “quando esporrò le linee programmatiche per i prossimi 5 anni ci sarà un’ampia risposta e un ampio dibattito” sul tema, ha assicurato il ministro. Al Pd non è piaciuta la risposta del Guardasigilli. In replica è intervenuto il senatore Walter Verini: “Non siamo soddisfatti, Nordio si ribelli ai tagli previsti dalla manovra. Sarebbe stato meglio evitare di strizzare l’occhio agli evasori e da lì recuperare risorse per la situazione delle carceri italiane”. Più diplomatico il forzista Zanettin: “Mi dichiaro soddisfatto solo per la fiducia che ho nei suoi confronti e per quei principi che tante volte ho applaudito nei convegni o in televisione mentre l’ascoltavo. Per quanto riguarda la risposta sui suicidi lei ha citato provvedimenti dei tempi recenti e meno recenti che però non hanno sortito grandi effetti. Rimando quindi a quei concetti che lei spesso ha espresso come depenalizzazione, misure alternative e la invito ad affermare quei grandi principi di natura liberale e garantista che insieme condividiamo”. Sempre in tema di esecuzione penale, ieri durante una conferenza stampa a Firenze, Magistratura democratica ha presentato un documento che annuncia una serie di visite in carcere. Prima tappa Sollicciano lo scorso 25 novembre, insieme a rappresentanti della Camera penale cittadina e Antigone. “Il carcere - leggiamo - dovrebbe essere oggi solo una delle forme di esecuzione della pena: quella riservata ai delitti più gravi”. Esso “non è invece la soluzione per le pene detentive brevi o, il più delle volte, per il contenimento di soggetti affetti da disturbi sociali della personalità. Per questi casi la legge prevede la presenza di strutture amministrative che si occupino della esecuzione esterna delle pene sostitutive (l’Uepe) e, nel secondo, di strutture sanitarie e socio-assistenziali che individuino e seguano un percorso terapeutico e di sostegno da affiancare alla pena (SerD, Csm). Ancora oggi queste strutture sono, però, gravemente insufficienti e prive di risorse”. Per questo Md ha dato avvio “ad una serie di visite negli istituti penitenziari che, non solo la cronaca, ma ripetute denunce di addetti ai lavori, segnalano come inadatti a svolgere la funzione loro affidata dalla Costituzione”. Cospito e suicidi in cella, Nordio sfugge. Soddisfa solo Renzi sull’indagine Open di Eleonora Martini Il Manifesto, 2 dicembre 2022 Alfredo Cospito, l’anarchico torinese condannato all’ergastolo ostativo e dal 4 maggio scorso detenuto in regime di 41bis, “non tocca cibo da 40 giorni - ci dice il medico che ieri lo ha visitato nel carcere di Sassari, la dott.ssa Angelica Milia - assume solo qualche pizzico di sale e di zucchero. Ma beve e per fortuna l’ho trovato abbastanza bene, idratato e con meno crampi e tremori del solito”. Mentre a Genova e a Roma qualche decina di anarchici manifestava per sostenerlo, ieri il tribunale di Sorveglianza di Roma ha analizzato l’istanza proposta dal suo legale contro il carcere duro che Cospito dovrebbe scontare per quattro anni, e si è riservato di decidere nei prossimi giorni. Il 5 dicembre tra l’altro la Corte d’Appello di Torino potrebbe confermare la condanna all’ergastolo (ostativo, in questo caso) della Cassazione. Secondo l’avvocato Rossi Albertini, quello di Cospito “è il primo caso di un anarchico al 41 bis, regime che nasce per combattere la mafia stragista ma che oggi, invece, viene applicato ad un anarchico”. Ma ieri al Senato il ministro Nordio, rispondendo ad un’interrogazione di Ilaria Cucchi e Peppe De Cristofaro, ha spiegato che il delitto di cui è accusato Cospito (strage contro la sicurezza dello Stato) rientra tra quelli per i quali può essere applicato il 41 bis. È una “dolorosa situazione” ma, secondo il Guardasigilli, la decisione dell’allora ministra Cartabia di sottoporre l’anarchico al regime duro è stata confermata con “plurimi pareri dell’autorità giudiziaria e di polizia”. Detto ciò, Nordio se ne lava le mani: “Il ministro - ha detto - non ha alcun potere sulla indipendenza della giurisdizione”. Sono cinque le interrogazioni a cui il Guardasigilli ha risposto durante il question time di ieri. A Zanettin (FI) che gli chiedeva conto dell’assurdo numero di suicidi nelle carceri (80 dall’inizio dell’anno, mai così alto), e al Pd che chiedeva cosa intendesse fare sul problema del sovraffollamento, sull’applicazione della riforma Cartabia che depenalizza una serie di reati, e sui tagli al personale penitenziario, Nordio ha risposto costernandosi, indignandosi (il numero record di suicidi “confligge con il diritto, con la razionalità, con l’etica e anche con la convenienza”, ha detto) e poi, senza gettare la spugna con gran dignità, come cantava De André, ha però rinviato al piano nazionale contro i suicidi del 2017, alla circolare del Dap sulla prevenzione emessa ad agosto di quest’anno, e alle “linee programmatiche sulla giustizia per i prossimi 5 anni” che “presenterò tra pochi giorni in commissione al Senato”. E dopo aver annunciato l’aumento della videosorveglianza, ha giustificato la “revisione delle spese” in ambito carcerario previsto nella legge di Bilancio. Infine a Matteo Renzi che, riguardo all’indagine sulla Fondazione Open, gli chiedeva quale iniziative intendesse prendere nei confronti della procura di Firenze che avrebbe inviato al Copasir materiale informatico sequestrato all’indagato Marco Carrai ma che la Cassazione aveva dichiarato “non trattenibile” (un atto “eversivo o anarchico”, lo ha definito Renzi), il ministro ha promesso “accertamenti rigorosi” e “decisioni rapide”. Renzi si è dichiarato “molto soddisfatto”. Suicidi in cella, si muove Nordio. Ma i tagli al carcere dividono di Vito Salinaro Avvenire, 2 dicembre 2022 Il numero dei suicidi “confligge con il diritto, conia razionalità, con l'etica”. Così il ministro della Giustizia Carlo Nordio al question time al Senato, rispondendo a due interrogazioni, una di Forza Italia sui suicidi in carcere e l'altra del Pd sui fondi per l'amministrazione penitenziaria. “Quando esporrò le linee programmatiche per i prossimi 5 anni ci sarà un'ampia risposta e un ampio dibattito” sul tema, ha assicurato il ministro. La popolazione carceraria, ha spiegato, è di 55.573 persone rispetto alla capienza di 51.333: “Nei tempi passati la situazione è andata anche peggio, questo non significa che sia buona e tollerabile, anche perché, al di là della proporzione tra posti disponibili e posti impiegati, sussiste una differenziazione strutturale tra carcere e carcere”. Ce ne sono “alcune moderne, altre più antiquate, altre che dovrebbero essere ristrutturate da cima a fondo. Sappiamo quali siano le restrizioni economiche, le situazioni di emergenza e le precedenze che sono state date per venire incontro alle difficoltà di chi non arriva alla fine del mese per il costo delle bollette”. Questo, ha osservato Nordio, ribadendo quanto affermato anche mercoledì durante un convegno della Fondazione Einaudi, “non significa giustificare una riduzione degli stanziamenti delle carceri ma può orientarci verso una rimodulazione delle spese all'interno del bilancio in modo da sopperire alle esigenze più pressanti. Tra queste ovviamente le carceri, intese sia come struttura, sia come personale e polizia penitenziaria”. La risposta non è piaciuta al Pd Walter Verini per il quale “Nordio si deve ribellare ai tagli previsti dalla manovra. Sarebbe stato meglio evitare di strizzare l'occhio agli evasori e da lì re - cuperare risorse per le carceri”. Rispondendo, poi, a un'interrogazione di Ilaria Cucchi (Si) sulla vicenda di Alfredo Cospito, detenuto nel carcere di Sassari al 41bis dopo una condanna per terrorismo e in sciopero della fame da ottobre, Nordio ha precisato: “Il signor Cospito è sottoposto al regime del 41bis”, applicato con decreto del precedente ministro della Giustizia “per 4 anni”, dopo “l'acquisizione dei pareri dell'autorità giudiziaria e di polizia in seguito alla sentenza della Cassazione. Il ministro non ha alcun potere sulla indipendenza della giurisdizione”, ha sottolineato Nordio, che ha ricordato che Cospito “ha proposto reclamo davanti al tribunale di Sorveglianza di Roma, che ieri si è riservato” e la decisione. Intanto, con una lettera allo stesso ministro, sono arrivate le scuse del magistrato di Agrigento Walter Chiarini, che aveva usato l'espressione “cosca di parte” nei confronti di agenti della polizia penitenziaria. Si è trattata di un'“infelice e inopportuna espressione” riferita “non ad un giudizio generalizzato - che sarebbe inammissibile oltre che ingiusto - nei confronti di Servitori dello Stato, ma a fatti specifici, svoltisi in Santa Maria Capua Vetere”, ha scritto il giudice, esprimendo il suo “profondo rammarico” se le sue parole “hanno offeso legittimi sentimenti”. Le affermazioni di Chiarini erano state giudicate di “inaudita gravità” dal Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe), che aveva annunciato “iniziative di tutela dell'onorabilità di chi in carcere lavora in prima linea”. Non ne vale la pena morire così di Vito Castagna oltreimuri.blog, 2 dicembre 2022 Intervista a Carlo Mazzerbo, già direttore della Casa di reclusione di Gorgona. Continua il nostro interesse per il mondo carcerario, soprattutto alla luce dei tanti suicidi che quest’anno segneranno un picco mai rilevato in passato (79 al momento). Una strage silenziosa che è un chiaro atto d’accusa per una politica “distratta”, che ha smesso da tempo di occuparsi degli ultimi. Nell’intervista seguente, Carlo Mazzerbo, già direttore della Casa di reclusione di Gorgona (Livorno) dal 1989 al 2004, e poi dal 2013 fino al luglio scorso, per la casa editrice Nutrimenti ha scritto “Ne vale la pena. Gorgona, una storia di detenzione, lavoro, riscatto” (2013): frutto di un’esperienza lunga quasi 40 anni. Da anni si parla di una riforma in grado di rinnovare il sistema carcerario. Purtroppo, tutt’oggi questa esigenza rimane inascoltata. Cosa ne pensa al riguardo? Durante la mia attività, ho notato la mancanza di una politica che rivedesse l’esecuzione penale e giudiziaria, e che si interrogasse su quale senso dover dare alla condanna. Non voglio farne un discorso politico ma, di fatto, nel corso degli ultimi vent’anni, il sistema carcerario ha vissuto sulle eredità passate, senza ricevere investimenti materiali ed umani. La mancanza di visione ha colpito molto la Giustizia, così come la Sanità. Nel mondo degli addetti ai lavori, vi sono stati cambiamenti significativi sulla gestione dei detenuti? Nel 2020, si è tentato di sganciare in linea gerarchia la figura del Comandante da quella del Direttore. Ciò comporta che quest’ultimo, che è un civile, sia responsabile dell’istituto e al contempo sia il solo a comandare il personale, compreso il capo degli agenti. Questa operazione può essere intesa come la volontà di far prevalere una visione più “custodiale” del carcere e non “trattamentale”. Purtroppo, così facendo, si è cercato di preservare la sicurezza degli istituti, mettendo in secondo piano la rieducazione dei detenuti. La popolazione carceraria è in costante mutamento. Ciò ha generato ulteriori problematiche? Certamente, basti pensare che i detenuti che provengono dalla criminalità organizzata costituiscono solo il 5% della popolazione dei distretti. Invece, la massa è composta da stranieri, tossici, malati mentali, che nel carcere trovano un contesto inadeguato alla loro condizione. La nostra amministrazione è del tutto impreparata alla gestione di un nucleo così alto di casi di questa natura. Molti detenuti potrebbero ottenere l’affidamento ai servizi sociali e alle comunità terapeutiche se ci fossero strutture in grado di accoglierli. Ma la scarsezza di fondi e di strutture attrezzate costituisce un problema atavico. In questi undici mesi, il numero dei suicidi in carcere è salito a 79 persone. Può il contesto di abbandono essere uno dei possibili responsabili di questo dato spaventoso? Per spiegare questo fenomeno potremmo mettere insieme diversi elementi. Innanzitutto, le strutture sono fatiscenti. Ad aggravare la situazione vi è la concezione che sta dietro alla loro costruzione, volta alla sola custodia e non al recupero, poiché il detenuto è costretto a passare venti ore al giorno chiuso in una cella sovraffollata, lontanissima dagli standard imposti dalla legge. A ciò uniamo la mancanza di educatori, psicologi e medici. Ad ogni educatore sono affidati circa 50 detenuti, i quali avranno possibilità di dialogare con lui solo una volta al mese. Si è parlato tanto di carcere della speranza, ma togliendo anche quella il suicidio può divenire purtroppo una soluzione. In che modo si potrebbe combattere l’inadeguatezza delle carceri italiane? Non c’è una ricetta precisa, ma credo che bisognerebbe limitare il carcere a chi è estremamente pericoloso. I dati hanno dimostrato che chi termina la pena in due alternative, in semilibertà o ai domiciliari, ha il 70% di possibilità di non tornare in carcere, mentre chi trascorre tutta la sua detenzione in galera all’80% vi fa ritorno. In secondo luogo, bisogna avviare attività scolastiche, laboratori teatrali, guidare i detenuti nel mondo del lavoro, incentivare con convinzione i colloqui con i familiari. In pratica, il carcere dovrebbe avere continue relazioni con l’esterno. In conclusione, potrebbe parlarci del modello virtuoso di Gorgona (Livorno), del quale è stato direttore per molti anni? Gorgona in quanto isola ha mille potenzialità ma al contempo può essere un posto infernale. È una questione di prospettiva. Lì non abbiamo fatto altro che applicare la legge, cercando di creare una piccola comunità, nella quale ognuno aveva un proprio compito. Ciò era possibile anche grazie al numero contenuto della popolazione carceraria, che potevi conoscere e seguire. Noi operatori eravamo rigorosi e al contempo elastici e cercavamo di trovare un giusto rapporto tra legge e umanità. Fondamentalmente, il nostro obiettivo è stato quello di dimostrare che lo Stato è lì per aiutarti e con convinzione abbiamo cercato non di formare dei buoni detenuti ma dei buoni cittadini. Le misure del Dap per migliorare la qualità della vita negli istituti di pena di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 dicembre 2022 Incrementare il lavoro penitenziario, rendere più accessibili e pratici i colloqui tra detenuti e famigliari, compresi quelli nei luoghi di cura. L’utilizzo di piccoli frigoriferi nelle celle, dare più ampio accesso al digitale terrestre, l’installazione delle lavatrici a gettone. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), tramite la circolare diramata lo scorso 18 novembre, sulla base della relazione finale della Commissione Ruotolo per l’innovazione del sistema penitenziario, ha formulato una serie di possibili iniziative operative indirizzate ai propri territori e destinate a migliorare la qualità della vita detentiva e a favorire la crescita della qualità del lavoro in carcere. Si fa sempre più urgente migliorare la qualità della vita, anche a fronte di un numero mai registrato di detenuti suicidati. Ben 79 dall’inizio dell’anno. Incrementare il lavoro penitenziario - L’attività lavorativa, come premette il Dap nella circolare, costituisce uno dei pilastri del trattamento rieducativo. Tuttavia, esso viene realizzato, in netta prevalenza, attraverso attività svolte alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, mentre il lavoro alle dipendenze di soggetti privati e significativamente sottorappresentato. Il Dap sottolinea che le ragioni di tale situazione sono molteplici e riguardano, da un lato, l’indisponibilità di spazi adeguati, all’interno degli istituti, da destinare allo svolgimento di lavorazioni; e, dall’altro, la scarsità dell’offerta lavorativa da parte dei soggetti privati, spesso totalmente all’oscuro delle notevoli opportunità concesse dalla legge Smuraglia. Quanto al primo profilo, il Dap rende noto che sta compiendo, in stretta collaborazione con i Provveditorati regionali, una mappatura di tutte le sedi penitenziarie nelle quali e possibile realizzare nuove attività lavorative attraverso un efficace utilizzo di tutti gli spazi disponibili. A tal fine e stato costituito un Gruppo di lavoro che opera in stretta collaborazione con il Vice Capo del Dipartimento, la Direzione generale dei Detenuti e del Trattamento e gli stessi Provveditorati, per avere un quadro esaustivo degli spazi disponibili e per agire, altresì, come punto di contatto con il mondo imprenditoriale. Per favorire la legge Smuraglia, il Dap chiede ai Provveditori a dare il necessario impulso alle Commissioni regionali per il lavoro penitenziario, al fine di favorire l’incontro tra i soggetti istituzionalmente competenti all’attuazione delle politiche di inserimento socio- lavorativo e le realtà imprenditoriali attive sul territorio. La circolare sottolinea che, in particolare, è necessario organizzare presso la propria sede o in altro luogo all’uopo individuate, periodici open day a cui invitare le organizzazioni imprenditoriali e le specifiche realtà del mondo industriale e commerciale delle proprie Regioni, sfruttando la conoscenza che i loro Uffici hanno delle singole realtà territoriali. Ciò al fine di illustrare direttamente alle realtà imprenditoriali organizzative quel che si può realizzare all’interno degli spazi penitenziari e al fine di valorizzare e potenziare le attività già in corso, onde favorire la vendita di prodotti e la creazione di nuovi servizi. Attività sportive e teatrali - Valorizzare le attività di sport e teatro. Il Dap spiega che costituiscono momenti importantissimi del percorso trattamentale, favorendo, le prime, la cura del se e il miglioramento delle condizioni di vita delle persone detenute e internate e, i secondi, la possibilità di conoscere e di sperimentare modelli di comportamento alternativi, fondati sulla dimensione fisico-emozionale, con una rimodulazione dei ruoli e una diversa consapevolezza di se stessi e delle proprie capacita relazionali. In questa prospettiva, per il Dap appare necessario fornire un forte impulso a tali attività, in particolare favorendo gli opportuni interventi di ristrutturazione o di recupero degli spazi necessari alia realizzazione di queste attività, anche avvalendosi della disponibilità della Cassa delle Ammende a sostenere le progettualità elaborate dalle Direzioni degli Istituti. Per quanto riguarda, specificamente, le attività sportive, Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ordina che le Direzioni verificheranno la possibilità di implementazione, a livello locale, del protocollo stipulate il 12 febbraio 2021 dal Dipartimento con Sport & Salute S.p.A. Semplificare i colloqui detenuti - familiari - Il Dap sottolinea che da diversi anni, in molte sedi penitenziarie sono state avviate attività di semplificazione dei colloqui tra familiari e persone detenute. Uno degli aspetti di maggiore criticità riguarda le prenotazioni dei colloqui dall’esterno, che vengono generalmente effettuate attraverso una chiamata telefonica o l’invio della richiesta a un indirizzo mail dedicato. Per il Dap appare preferibile ricorrere a un applicativo telefonico, valorizzando le esperienze specifiche del territorio, quali l’app di prossima attivazione presso la Casa circondariale di Napoli Poggioreale, le cui specifiche tecniche verranno a breve condivise con gli altri Istituti penitenziari. Appare, inoltre, necessario che nei grandi istituiti o nelle sedi in cui si registra una elevata affluenza giornaliera di colloqui in presenza si ricorra al controllo c. d. biometrico, già operativo presso le Case circondariali di Roma - Rebibbia Nuovo Complesso, Lecce e Taranto, attraverso il quale e possibile velocizzare e rendere molto più sicure le operazioni di ingresso e di uscita dall’istituto dei familiari. Il Dap invita le carceri interessate ad interagire con i Provveditorati. Frigo, lavatrici a gettoni e digitale terrestre - Per migliorare la qualità di vita, il Dap chiede di ragionare sull’opportunità di dotare le celle di frigoriferi di piccole dimensioni per garantire la conservazione di alcuni generi alimentari. Così come allargare l’esperienza che già coinvolge alcune carceri, dell’utilizzo della lavatrice a gettoni. Per l’utilizzo del digitale terrestre, in alcune carceri c’è ampia scelta dei canali, in altre meno. Per tale ragione, il Dap chiede ai Provveditorati di realizzare rapidamente un’azione di coordinamento tra gli Istituti dei rispettivi distretti al fine di garantire il più ampio accesso ai canali televisivi del digitale terrestre. L’anarchico al 41bis: il tribunale prende tempo, lui perde chili di Frank Cimini Il Riformista, 2 dicembre 2022 Ieri a Roma l’udienza sul reclamo degli avvocati di Alfredo Cospito contro l’applicazione del carcere duro. I giudici si sono riservati decidere. L’uomo è in sciopero della fame da un mese e mezzo. L’anarchico Alfredo Cospito è in sciopero della fame da un mese e mezzo per protestare contro l’applicazione dell’articolo 41 bis, carcere duro, con divieto di corrispondenza che viene bloccata sia in uscita sia in entrata e il diritto a solo due ore d’aria in un cunicolo dal quale si fa fatica a vedere il cielo. Ieri mattina davanti al Tribunale di Sorveglianza di Roma, l’unica autorità abilitata a decidere in merito al 41bis sull’intero territorio nazionale (parlare di una sorta di tribunale speciale non pare proprio azzardato) il difensore Flavio Rossi Albertini ha discusso il ricorso in un’udienza durata un paio d’ore. Il Tribunale si è riservato di decidere e non ha termini perentori da rispettare a livello di tempi. Per cui la situazione in cui si trova Cospito, che ha già perso 24 chili digiunando, sembra destinata a peggiorare. Secondo l’avvocato Rossi Albertini “le limitazioni imposte a Cospito non sono strettamente correlate e con le esigenze di sicurezza perseguite e assumono natura ingiustificatamente e puramente limitativa divenendo ingiustificate deroghe all’ordinario regime carcerario con una porta puramente afflittiva non riconducibile alla funzione attribuita dalla legge al provvedimento ministeriale”. Per la difesa siamo oltre la ratio della norma che serve per impedire i contatti con l’esterno in modo da evitare che siano commessi altri reati. Cospito si vede bloccare la corrispondenza che era fatta di interventi politici da pubblicare sulle riviste dell’area anarchica e non certo di pizzini o strani geroglifici da decrittare. Non è accertato inoltre che la Federazione anarchica informale di cui fece parte Cospito sia tuttora operante e comunque non si tratta di una organizzazione strutturata. “È il primo caso di un anarchico al 41 bis - aggiunge il difensore - regime che nasce per combattere la mafia stragista ma che viene applicato a un anarchico” Ieri sia davanti al Tribunale di Sorveglianza di Roma sia a Genova ci sono stati presidi di solidarietà con Cospito organizzati dagli anarchici. E qui bisogna fare attenzione perché come ricorda l’avvocato Margherita Pelazza, esperta delle questioni relative all’articolo 41bis, in passato le manifestazioni di solidarietà fuori dalle carceri e dai palazzi di giustizia sono state considerate una sorta di “aggravante” perché dimostrerebbero la pericolosità sociale delle persone destinatarie dei provvedimenti. Gli anarchici nel capoluogo Ligure hanno esposto striscioni contro il carcere duro definito “tortura di Stato”. L’articolo 41bis ha preso il posto dell’articolo 90 che aveva contrassegnato il carcere duro nel corso dei cosiddetti anni di piombo. A firmare il decreto del provvedimento per Alfredo Cospito era stata Marta Cartabia ministro della Giustizia nel governo presieduto da Mario Draghi che si era sempre espressa per meno carcere e il meno afflittivo possibile. A parole. Carcere e tortura: “Certi agenti come cosche”. È bufera sul giudice Carlisi di Eleonora Martini Il Manifesto, 2 dicembre 2022 Parlava del trattamento penitenziario dei detenuti, il giudice di sorveglianza di Agrigento Walter Carlisi, quando lo scorso 26 novembre, durante un convegno organizzato a Canigattì dalla locale Camera penale e dall’associazione Nessuno tocchi Caino, in un discorso generale ha spiegato che l’azione disciplinare nei confronti dei detenuti “negli istituti penitenziari locali, ultimamente, è scaduta. Si crea così un caos e chi deve essere rappresentante delle istituzioni dello Stato dimentica di esserlo e si convince di essere solo appartenente - uso le virgolette - a una “cosca di parte”. Ed ecco che si verificano casi come Santa Maria Capua Vetere. Ci sono le cosche dei camorristi e le cosche che portano una cosa blu addosso”. Parole dure ma non certo riferite a coloro che nel Corpo della polizia penitenziaria svolgono in modo integro - e sono la maggioranza - il proprio lavoro. Eppure, la reazione dei sindacati è stata durissima contro il giudice accusato di aver “espresso un parallelismo tra la Polizia penitenziaria e le cosche mafiose”. Dalla Fp Cgil Pp alla Uilpa o al Sappe, tutte le sigle hanno chiesto come minimo al magistrato di scusarsi con i lavoratori delle carceri. E naturalmente a far loro da megafono ci ha pensato Fd’I (lo stesso partito che nella Manovra ha appena tagliato i posti degli agenti in carcere) che ha chiesto l’intervento del Csm per “punire un tale atteggiamento”. Ieri il giudice Carlisi ha dovuto esprimere “profondo rammarico” per quelle frasi che “al di là delle intenzioni” possono aver offeso “legittimi sentimenti” anche se, ha precisato, le sue parole andavano ascoltate “all’interno del contesto” del discorso. Quella frase, ha dovuto ripetere, era “riferita non ad un giudizio generalizzato” ma a “fatti specifici” come quelli di S.M. Capua Vetere. Il capo del Dap, Carlo Renoldi, che potrebbe rientrare nello spoil system del ministro Nordio, accoglie “con piacere la rettifica”. E forse spera così di mettere fine alla questione. Laboratori “Spes contra Spem”. Il cambiamento attraversa tutti: liberi e detenuti di Giulia Ferranti Il Riformista, 2 dicembre 2022 “Spes contra Spem”, questo il motto del laboratorio del Cambiamento che, da sei anni, Nessuno tocchi Caino tiene con cadenza mensile nelle sezioni di alta sicurezza degli istituti penitenziari italiani. L’iniziativa si rivolge tanto ai detenuti quanto ai partecipanti esterni, ne promuove l’incontro e il dialogo, con l’obiettivo comune di difendere il diritto alla speranza negato ai condannati all’ergastolo ostativo. Raggiungo il carcere di Opera, è il 15 novembre e Milano non ci ha fatto dono di una delle sue giornate migliori: un primo gruppo di partecipanti si ripara dalla pioggia nella stanza adibita al controllo documenti, presto troppo affollata per contenerci tutti. Mi sembra un buon segno. Si fanno le 13, è ora di entrare. Lasciamo borse, zaini e i tanto immancabili quanto invadenti “dispositivi elettronici”, qualcuno dimentica un caricabatterie portatile in una tasca della giacca e viene fermato al metal detector: mi viene spontaneo pensare a quanto sia difficile per noi esterni liberarci del superfluo o anche solo renderci conto di cosa lo sia. Con me ho un taccuino e una matita, “Posso portarli?” penso. Passo il controllo senza problemi e mi imbarazzo per l’ingenuità del mio stesso dubbio. Proseguiamo nel nostro tragitto, attraversiamo il lungo corridoio dell’area pedagogica con le finestre dipinte, le pitture che decorano le pareti, ci lasciamo alle spalle l’austerità grigia dell’edilizia carceraria, lo spazio si trasfigura a distanza di pochi metri grazie ai colori. Finalmente raggiungiamo il teatro. Le prime file sono già occupate dai partecipanti interni, sono tanti e subito ci accolgono, mani calde che stringono le nostre, mani grate di ritrovare quelle note, ospitali con le nuove. Ci sediamo e prende la parola l’avvocato Maria Brucale, risponde alle domande dei partecipanti sulla decisione pilatesca dell’8 novembre della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo: benché ne avesse a suo tempo accertato l’incostituzionalità, la Corte ha deciso di non decidere restituendo alla Cassazione gli atti per la valutazione del decreto. Tiro fuori il taccuino e la matita, controllo la mina, è appuntita e mi pungo un polpastrello. Comincio a scrivere ossessivamente perché la memoria è inaffidabile, rielabora, ricostruisce e quasi mai riporta la verità delle cose. Sale sul palco Sergio D’Elia che ci parla di cambiamento, delle sue molteplici dimensioni e della necessità di intervenire su ognuna di queste, da quella istituzionale a quella personale, affinché si concretizzi. Il laboratorio è proprio questo: un percorso di creazione e conquista del nuovo, del diverso da sé, dentro e fuori la coscienza del singolo grazie all’intreccio di storie e di vite, all’impegno condiviso per il superamento dello status quo illegale e crudele che condanna e dimentica, isola, vendica, uccide. Lo conferma Rita Bernardini con la brutalità dei numeri: 78 suicidi in carcere al 15 novembre, giorno del laboratorio, 80 a poco più di due settimane, da gennaio 2022. Un record tragico della storia penitenziaria italiana. Questi sono i nostri morti di prigione. Quanto tempo dobbiamo ancora aspettare per ristabilire la legalità di questo sistema putrescente? Quante morti può sostenere ancora la nostra coscienza? Esiste un numero? Dentro alla convenzione del segno matematico, 80, ci sono le vite interrotte di uomini e donne di cui ora, mentre scrivo, vorrei riuscire a immaginare i visi, dar loro un corpo per sottrarli all’astrazione dell’unità anonima. Spes contra Spem significa essere speranza, dare forma nel corpo dei detenuti al diritto negato, farlo vivere di carne e ossa così come ci ha insegnato Marco Pannella, opporre l’umanità alla disumanità della sentenza a morte dell’ergastolo ostativo. Nel teatro del carcere di Opera ascolto le parole dei partecipanti interni. Mi colpisce l’intervento di Massimo, anche lui condannato al “fine pena mai”, che ci invita a riflettere sul senso di quest’espressione, come se fosse possibile che il tribunale dell’Uomo possa eternare la punizione e quindi lo stigma della colpa. D’Elia cita Aldo Masullo (che a sua volta aveva citato Marguerite Yourcenar) definendo il tempo come “il grande scultore”: siamo la creta modellata dalle mani dei giorni, dei mesi, degli anni. Nasciamo materia informe e moriamo opera d’arte. Esistiamo nel mutamento della forma che diventa sostanza, questa è la condizione umana e definisce tanto i liberi quanto i detenuti. Il laboratorio del Cambiamento ce lo ricorda. Riforma Cartabia, pronta la fase transitoria. Scarcerazioni solo dopo avviso alle vittime di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2022 Il ministero della Giustizia fornisce le indicazioni per l’entrata in vigore. Dalle nuove condizioni di procedibilità alle indagini preliminari, dall’udienza predibattimentale all’inappellabilità, dalle videoregistrazioni alle impugnazioni, il ministero della Giustizia interviene sulla riforma Cartabia e, con un emendamento di 40 pagine al decreto legge con le misure antirave, declina un’articolata fase transitoria per l’entrata in vigore del nuovo processo penale. Da sciogliere con urgenza c'era infatti una serie di nodi. A partire dai due più delicati, le conseguenze del cambiamento del regime di procedibilità, con l'estensione della querela, per alcuni reati (in primo luogo il furto), con le ripercussioni sulle misure cautelari in corso e la relativa possibilità di scarcerazioni. Ora, nei procedimenti pendenti, invece di fare gravare sulle Procure l'obbligo di contattare le persone offese per l'eventuale presentazione della querela, dovranno essere le stesse persone offese ad attivarsi senza il diritto a una preventiva informazione. L'onere di ricerca della persona offesa a carico dell'autorità giudiziaria invece rimane quando è in corso di esecuzione una misura cautelare personale. Complesso il tema delle indagini preliminari, dove la relazione all'emendamento lascia trasparire la possibilità di (future) modifiche anche sostanziali, una volta compiute le verifiche già in corso. Intanto si chiarisce che le novità, sia in materia di durata, proroga compresa, con relativi effetti in caso di mancato rispetto e di definizione della notizia di reato, non trovano applicazione per i procedimenti pendenti. Esclusione peraltro estesa anche alle indagini relative a notizie di reato iscritte dopo l'entrata in vigore della riforma in caso di connessione o di collegamento investigativo quando le indagini riguardano i gravi reati, per quali già oggi il Codice di procedura prevede termini più ampi. L'estensione dell'inappellabilità alle sentenze di non luogo a procedere per delitti puniti con la pena della multa o con pena alternativa si applicherà poi alle pronunce emesse dopo l'entrata in vigore del decreto. Per quanto riguarda poi l'innesto nel sistema processuale della nuova udienza predibattimentale l'immediata applicazione della novità creerebbe seri problemi di coordinamento rispetto alle udienze già fissate perché le parti non sarebbero state avvisate della nuova natura dell'udienza per il deposito della lista dei testimoni. Così, l'emendamento del ministero della Giustizia stabilisce che le disposizioni sulla udienza di comparizione predibattimentale non si applicano nei procedimenti penali nei quali alla data di entrata in vigore della riforma il pubblico ministero ha già emesso il decreto di citazione a giudizio con le forme precedenti. Slitta poi di 6 mesi l'entrata in vigore a tutti gli effetti dei vari percorsi di giustizia riparativa delineati dalla riforma, una decisione presa dal ministero per rendere effettivamente fruibili gli istituti di giustizia riparativa, nel corso del procedimento e in fase di esecuzione della pena, solo una volta che le strutture pubbliche e i mediatori saranno effettivamente disponibili. Alle impugnazioni per i procedimenti nei quali l'impugnazione è stata proposta prima del 31 dicembre continuano ad applicarsi le misure “emergenziali”, mentre il nuovo rito cartolare avrà esecuzione solo partire dal 1° gennaio 2023. Chiariti anche i termini di entrata in vigore delle novità in materia di videoregistrazioni delle dichiarazioni in caso di cambiamento del giudice nel corso del dibattimento: le novità si applicheranno solo dal 1°gennaio 2024. “Modificheremo la Severino”: Il Pd si schiera col “partito” dei sindaci di Simona Musco Il Dubbio, 2 dicembre 2022 Le proposte dei dem: stop alla decadenza dopo la sentenza di primo grado e responsabilità amministrative più chiare. E al governo: “Sulla giustizia movimenti scomposti, così si mette a rischio il Pnrr”. Aiutare i sindaci ad operare con più tranquillità, ma senza colpi di spugna che allontanerebbero l’Italia dagli “standard comuni alle altre principali democrazie”. Il Pd si schiera con il partito dei sindaci, depositando due proposte per modificare la legge Severino e in materia di responsabilità politica e amministrativa. Due proposte, secondo la vicepresidente del Senato Anna Rossomando, il senatore Dario Parrini e i capigruppo di Camera e Senato, Debora Serracchiani e Simona Malpezzi, che consentirebbero di eliminare la paura della firma, senza la necessità di intervenire ulteriormente sull’abuso d’ufficio. Dibattito, quest’ultimo, al quale comunque i dem si dicono pronti a partecipare, pur non nascondendo la convinzione che le modifiche plausibili sono già state tutte fatte con la riforma del 2020. Il primo ddl punta a modificare la parte della legge Severino - gli articoli 8 e 11 - che prevede la sospensione dalla carica dei sindaci, condannati per reati non colposi contro la pubblica amministrazione e altri reati gravi, dopo la sentenza di condanna in primo grado, dunque suscettibile di cambiamento nel corso dell’iter processuale. Una proposta che parte dall’analisi della casistica degli ultimi anni, dalla quale è emerso “un problema oggettivo di bilanciamento tra lotta all’illegalità da una parte e salvaguardia dell’efficienza e della stabilità delle amministrazioni dall’altra”. Per tale motivo, “risulta opportuno un nuovo bilanciamento che rispetti parimenti le esigenze di legalità e il principio di garanzia costituzionale di cui all’articolo 27 della Costituzione, in particolar modo in relazione ai reati che appaiono senza dubbio di minore pericolosità sociale”. Il secondo, invece, prevede una modifica dell’articolo 50 del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali in materia di competenze del sindaco e del presidente della provincia, “ridisegnando la responsabilità politica e amministrativa dei suddetti soggetti e prevedendo, in modo chiaro e netto, che il sindaco e il presidente della provincia sono gli organi responsabili politicamente dell’amministrazione del comune e della provincia”. Verrebbe dunque chiarito il confine tra responsabilità politica e responsabilità dei dirigenti amministrativi, sopprimendo quell’articolo del Tuel che attribuisce all’organo politico il compito di sovrintendere al funzionamento dei servizi e degli uffici e all’esecuzione degli atti. E ciò per evitare casi come quello della sindaca di Crema, finita sotto indagine per lesioni colpose dopo il ferimento di un bambino in un asilo. “Sappiamo che c’è anche un dibattito sul reato di abuso d’ufficio - ha evidenziato Rossomando -. Noi non abbiamo nessuna preclusione a discutere, tuttavia, dopo le modifiche che sono intervenute in particolar modo nel 2020, che ne ha ristretto molto l’ambito, e dopo l’entrata in vigore della riforma Cartabia, che prevede che non si richiede il rinvio a giudizio se non c’è una ragionevole certezza della probabilità della condanna” il reato può dirsi svuotato. Se ne può parlare, dunque - magari distinguendo meglio tra atti vincolati e atti discrezionali - ma i due interventi pensati dal Pd - e che nascono da una riflessione avviata già nella scorsa legislatura - dovrebbero bastare, secondo i firmatari, ad affrontare le questioni più sentite dai sindaci. E anche a raccogliere il consenso di quelle forze politiche che precedentemente stavano al governo proprio con i dem. D’altronde un’abolizione della legge Severino non è pensabile - questo il messaggio inviato al centrodestra - anche all’esito del referendum, rispetto al quale i dem hanno rivendicato la loro scelta di affrontare la questione in Parlamento. “Mi pare che il popolo si sia espresso facendolo fallire”, ha evidenziato Parrini. Ma certamente questo “non impedisce di correggere un punto specifico”, ovvero i 18 mesi di sospensione attualmente previsti dalla norma, che rappresentano “una lesione spesso irreparabile nel lavoro di un sindaco alla guida di una comunità. Ci sono sproporzioni ed eccessi che vanno assolutamente modificati e questo disegno di legge in maniera puntuale va in questa direzione. Riproponiamo il nostro punto di vista, sicuri di essere nel giusto e speranzosi di incontrare consenso largo”. Anche perché “viene un po’ da mangiarsi le mani - ha aggiunto Malpezzi -, perché la richiesta forte dei sindaci rispetto a norme che noi avevamo preventivato di riuscire a fare nella scorsa legislatura” e naufragate quando erano quasi arrivate al traguardo “fa sentire quasi la politica impotente”. L’altro disegno di legge, invece, riprende l’esito di un lavoro avviato dal Viminale nella scorsa legislatura per riformare il Tuel e punta anche a rendere permanente la norma che prevede l’imputabilità per responsabilità erariale degli amministratori soltanto in caso di dolo, superando dunque la scadenza oggi fissata al 30 giugno 2023. Sono scelte “nell’ottica della continuità, non c’è nessuna improvvisazione”, ha evidenziato Serracchiani, che ha lanciato un appello al governo per attuare la riforma Cartabia, che oggi “darebbe soluzione a molti dei problemi sollevati dai sindaci”. Un’occasione per manifestare preoccupazione di fronte a “questi atteggiamenti scomposti di stop and go” da parte della maggioranza e “in contraddizione con quelle che in campagna elettorale erano in qualche modo le linee politiche” in tema di giustizia, “che è uno dei pilastri del Pnrr”, messo in crisi dall’atteggiamento del governo. Ma a mettere in difficoltà il ministro Carlo Nordio sono soprattutto “il ministro stesso e la maggioranza, dove ci sono spinte contrapposte”, ha sottolineato Rossomando. Non sono mancate le stoccate a Carlo Calenda dopo l’incontro con Giorgia Meloni a Palazzo Chigi. Perché i principi, hanno sottolineato i dem, non sono negoziabili. “Se quello che ci aspetta sulla giustizia sono tagli e modifiche all’articolo 27 - ha concluso Serracchiani - il Pd non andrà a palazzo Chigi. Il luogo in cui le forze politiche di opposizione cercano punti di intesa con le forze di maggioranza sia il Parlamento: non ci interessano le gite fuori porta”. Reati contro la Pa, l’ok di Mantovano a Zanettin: “Non siano più ostativi” di Valentina Stella Il Dubbio, 2 dicembre 2022 Espungere i reati contro la Pa da quelli che impediscono l'accesso ai benefici penitenziari, come prevede oggi la legge “Spazzacorrotti” voluta dal Governo Conte: questo l’auspicio del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, intervenuto alla presentazione del libro “Stato essenziale, società vitale” di Alberto Mingardi e Maurizio Sacconi. Mantovano ha preso spunto dalle parole dell'ex presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato, che aveva ricordato un caso giunto all’attenzione della Consulta: “Un imprenditore aveva preso un contributo pubblico finalizzabile solo alla ristrutturazione dello stabilimento industriale ma poi si era ristrutturato l'appartamento per sé medesimo e la famiglia. Reato contro la Pa assoggettato a quella regola della collaborazione per ottenere benefici, “ma ho fatto tutto da solo”“. “Togliere quei reati dalla quella stringa (a cui si applica il 4bis, ndr) - ha proseguito Amato - è una di quelle operazioni che mi stupirei venisse ritenuta un favore alla mafia dalla opposizione”. Ha risposto Mantovano: “Il presidente Amato ci invita a attenerci al senso di realtà, alla misura e alla proporzione, che significa provare a governare e a legiferare senza essere condizionati dagli slogan. L’avere attaccato il vagone dei reati contro la Pa alla locomotiva della mafia è qualcosa che va corretto. Non perché ci piacciono i reati contro la Pa ma per un senso elementare di adesione alla realtà. Equiparare l'abuso d'ufficio alla mafia mi sembra un tantino esagerato. Mi ricorda quel generale che ai soldati che non avevano le munizioni disse “fate la faccia feroce”“. Soddisfazione è arrivata dal senatore di FI Pierantonio Zanettin, che ha presentato proprio un emendamento all’ergastolo ostativo che va in quella direzione: “Non posso che apprezzare l'apertura del sottosegretario Mantovano in merito all'esclusione dei reati contro la Pa dal novero di quello ostativi. Il sottosegretario si conferma giurista raffinato e politico sensibile. Mi auguro che ora sia questa anche la posizione del ministro Nordio”. Commento positivo anche da parte di Enrico Costa, visto che Azione e Iv hanno presentato lo stesso emendamento al dl 31 10 2022: “Ho apprezzato molto le dichiarazioni di Mantovano, soprattutto perché ben argomentate, anche in chiave costituzionale, come abbiamo sempre addotto anche noi. Questo ero lo spirito dell’emendamento che avevamo già presentato la scorsa legislatura proprio in tema di ostativo. Purtroppo era stato respinto anche a causa di FI”. A proposito di emendamenti, quello sull’inappellabilità delle sentenze di assoluzione da parte del pm, presentato sempre da Zanettin è stato dichiarato ammissibile, grazie anche al fatto che proprio il Governo ha presentato un suo emendamento sull'estensione dell'inappellabilità delle sentenze di non luogo a procedere ai delitti puniti con la pena della multa o con pena alternativa. Giustizia, il reato non è tutto di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 2 dicembre 2022 Partiti, pm e realtà. Il nostro Paese, patria del diritto, ha dovuto farsi dettare da una direttiva europea del 2016 i criteri minimi di decenza per assicurare che la comunicazione pubblica di un’indagine non diventi una gogna per chi è finito nelle sue maglie. Icasi di cronaca con forte impatto politico accendono spesso un derby tra cosiddetti garantisti e cosiddetti giustizialisti. L’aggettivo “cosiddetti” qui è d’obbligo perché accade non di rado che opposte fazioni si scambino le parti secondo convenienza: chiedendo punizioni per gli avversari e invocando tutele per gli alleati. La presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio (per tutti, non solo per amici e affini) è già prevista dall’articolo 27 della Costituzione. E tuttavia in Italia la teoria è spesso contraddetta dalla prassi. Così, dopo decenni di conferenze stampa usate da pubblici ministeri e investigatori per esibire arrestati e indagati (neppure rinviati a giudizio) quali trofei del Male sconfitto, è stato necessario correre ai ripari. Il nostro Paese, patria del diritto, ha dovuto farsi dettare da una direttiva europea del 2016 i criteri minimi di decenza per assicurare che la comunicazione pubblica di un’indagine non diventi una gogna per chi è finito nelle sue maglie. Abbiamo impiegato cinque anni per raggiungere il “compiuto adeguamento” dell’ordinamento interno alle previsioni dell’Unione europea e ci siamo riusciti con un decreto legislativo accorto e forse perfino più restrittivo della direttiva da cui origina, tanto da sollevare qualche perplessità tra gli addetti ai lavori. In realtà, al netto di sempre possibili miglioramenti, non si può che essere lieti se un perimetro garantito di civiltà giuridica viene ripristinato nel rapporto tra la giustizia penale e l’informazione. E però non si può non ricordare che l’informazione ha doveri a prescindere dalla sfera giuridica di una vicenda. Il vizio consolidato di pescare a strascico dalle “carte” della Procura lacerti di verbale o di intercettazione contro l’indagato per spararli in pagina, così contribuendo a una gazzarra politica dove non si capiscono più torti e ragioni, non va confuso in alcun modo con gli obblighi che l’informazione ha verso i cittadini: il principale dei quali resta quello nei confronti del cittadino-elettore. In democrazia i media (suoi “cani da guardia” secondo un’immagine un po’ retorica ma sempre viva) servono a segnalare a chi deve esercitare il diritto di voto se il politico che sta per essere eletto ne sia degno o se il politico già eletto stia facendo con dignità e onore il suo mestiere (ex articolo 54 della nostra Costituzione). E tutto questo, si badi, a prescindere dall’esistenza o meno di un’indagine della magistratura. Se il candidato Tizio fa campagna elettorale sostenendo di essere una bicicletta, non è inappropriato che i giornalisti vadano a controllare se abbia due ruote al posto delle suole. Se entra in Parlamento un sindacalista con gli stivali coperti del fango dei campi, per segnalare al mondo che il suo mandato sarà tutto rivolto a proteggere i diritti degli ultimi e il lavoro di braccianti e immigrati, il minimo che deve attendersi è che i media vadano nei campi e nei ghetti da cui è venuto per verificare la qualità delle sue promesse. Non lo si fa sempre, è vero, e questo è sbagliato. Ma è esattamente ciò che si è fatto nel recente caso dell’onorevole Aboubakar Soumahoro. A prescindere dai suoi esiti, la vicenda del neoparlamentare eletto con Alleanza Verdi e Sinistra è preziosa perché segnala alcune peculiarità: ma, attenzione, non nel circuito tra giustizia e informazione quanto piuttosto in quello tra informazione e politica. A differenza di tante altre vicende in cui è sacrosanto invocare il garantismo perché la stampa si muove al traino di un’inchiesta giudiziaria, qui è l’inchiesta che s’è mossa, con cautela, al traino della stampa. I cronisti sono andati alla fonte diretta della notizia, da quei migranti e da quei rifugiati che si presumeva fossero protetti nei centri d’accoglienza gestiti dalla suocera e dalla compagna di Soumahoro e che negli anni s’erano ribellati più volte per le pessime condizioni delle strutture. Il resto, dalle borse griffate della signora Soumahoro sino alla difficoltosa autodifesa del deputato, è contorno e si iscrive alla voce delle umane debolezze. La sostanza è una finzione svelata, che chiama in causa da una parte la cronica opacità di molte cooperative che si occupano di migranti e dall’altra la difficoltà crescente nella selezione della nostra classe politica. Perché solo ora, dato che le proteste nei centri d’accoglienza erano reiterate negli anni? Perché adesso il ruolo dell’onorevole rende lecito il pubblico scrutinio anche sugli affari di famiglia. Questa non è in alcun modo una vicenda penale (il deputato non è indagato e non ha parte attiva nelle cooperative della suocera e della compagna): è una vicenda tutta politica. E lo è anche per un altro motivo, segnalato da Alessandro Campi sul Messaggero: ci costringe a riflettere sulla costruzione in laboratorio di un falso mito ad uso di un’ideologia o di una leadership, rimandando ad altri casi, il più assonante dei quali è quello di Mimmo Lucano. Anche l’ex sindaco di Riace venne innalzato dalla sinistra radicale e dal sistema mediatico (non solo italiano) come simbolo della giustizia sociale, salvo rifiutare un seggio europeo sicuro, che pure gli era stato offerto, ed essere risucchiato poi dalle sue stesse leggerezze di gestione dentro un processo che ha già portato a una condanna in primo grado. L’ostensione della bontà è un potente prodotto da veicolare in un mondo politico la cui profondità di visione si ferma a un tweet. Ma fa un salto di specie quando incrocia una pessima legge elettorale. Soumahoro, sul conto del quale erano già arrivati segnali di perplessità dai territori fino alle orecchie dei leader che lo hanno candidato, era stato bocciato dagli italiani nel confronto diretto: il 25 settembre aveva perso contro Daniela Dondi di Fratelli d’Italia, nel collegio uninominale di Modena, storico feudo della sinistra. Ma era stato ripescato in Lombardia nella lista plurinominale del centrosinistra grazie al proporzionale: con quel meccanismo sempre deprecato e sempre immutabile che assegna ai segretari di partito diritto di vita o di morte sui candidati in virtù della posizione nel listino. E che, di fatto, spezza il rapporto tra eletto ed elettore, base di qualsiasi dialettica democratica, almeno in teoria. Inchiesta Open, Nordio annuncia accertamenti sui pm di Maria Teresa Meli e Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 2 dicembre 2022 Il caso dei documenti di Carrai finiti al Copasir. Renzi soddisfatto: “I magistrati rispettino le regole”. “Adesso basta con questi tentativi di farmi passare per il cavaliere nero. I magistrati devono smettere di violare le regole. E deve passare il concetto che chi tocca Renzi muore”. Non in senso letterale, ben s’intende: “Se gli ispettori del ministero della Giustizia dovessero appurare le violazioni si dovrebbe procedere a un’azione disciplinare contro il pubblico ministero Luca Turco, e potrebbero anche trasferirlo via da Firenze”. Non riesce a contenere la soddisfazione il leader di Italia Viva. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha appena deciso di aprire un’indagine ispettiva sulla scelta compiuta dal pm che ha chiesto il rinvio a giudizio proprio di Renzi e dell’imprenditore Marco Carrai per finanziamento illecito ai partiti nell’inchiesta Open. Un’ispezione che il Guardasigilli ha annunciato ieri in risposta a un’interrogazione parlamentare dello stesso Renzi, calcando su due termini: “rigorosa” e “approfondita”. Ma che il leader Iv già definisce “una bomba”. Al punto che Renzi dice di preferire il Guardasigilli del governo Meloni all’ex ministro dem della Giustizia, Andrea Orlando. Una sintonia ritrovata col governo che i dem attribuiscono al fatto che il Terzo polo vuole sostituire FI nella maggioranza. L’antefatto lo aveva ricostruito l’ex premier in Aula al Senato: “Di fronte a una sentenza della Cassazione che aveva annullato senza rinvio un sequestro compiuto a Marco Carrai, imponendo di “restituire il materiale sequestrato senza trattenerne copia”, il pm ha scelto di prendere il materiale e mandarlo al Copasir”. Una scelta, quella del pm di inviare il contenuto di pc e telefonini sequestrati a Carrai, sui finanziatori di Open, al Comitato di controllo sui servizi che ne aveva fatto richiesta, definita da Renzi “o eversiva o anarchica”. Parole alle quali il ministro non aveva fatto cenno nella risposta. Nordio precisa di avere “una conoscenza degli atti parziale”, ma dà atto che “il 18 febbraio 2022 la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio l’ordinanza, il decreto di perquisizione e di sequestro, del 20 novembre 2019 nei confronti di Carrai”, disponendo la restituzione senza trattenimento di copia. Su quello che è successo dopo il Guardasigilli intende indagare. “Gli ulteriori fatti enunciati saranno oggetto di immediato e rigoroso - e sottolineo rigoroso - accertamento conoscitivo, attraverso l’Ispettorato Generale. Successivamente, questo dicastero procederà ad una approfondita - e sottolineo approfondita - valutazione di tutti gli elementi acquisiti al fine di assumere le necessarie iniziative”. E ancora: “L’indagine conoscitiva avrà assoluta priorità nell’attività ispettiva. E le determinazioni che ne deriveranno saranno adottate con consequenziale rapidità”. Prima di diventare ministro, Nordio, a Radio Leopolda, aveva detto: “Quello nei confronti di Renzi è il primo processo politico al quale assistiamo”. Il cappio dell’ingiustizia di Vincenzo Andraous L'Opinione, 2 dicembre 2022 Tu pensi che in carcere si va per scontare la pena che ti è stata inflitta a causa dei tuoi comportamenti sbagliati. Invece non è così, ne sconti una più del dovuto, ne sconti un’altra che non è contemplata in alcuna riforma penitenziaria, in alcun codice penale, in alcuna costituzione. La pena è una cosa, l’ingiustizia, l’illegalità, la violenza sono ben altre aggravanti che nessuna magna carta contempla. Ci sono menzogne, negazioni improponibili, giustificazioni, accuse, rivendicazioni, ognuno coinvolto in questa prassi del fare di conto disordinato di suicidi, di assenze e carenze di dignità, tenta con ogni mezzo di tirarsene fuori. La conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà parla di un dato impressionante, il numero di morti ammazzati più alto di sempre, 80, è l’indice di una generale mancanza di speranza nelle nostre carceri. Eppure la sintesi sbrigativa di un’eventuale indagine conoscitiva parla di strutture obsolete, di organico insufficiente numericamente; sempre e comunque di numeri si parla, sì, di numeri, di cose, di oggetti. Mai di persone. Ognuno a dire e disfare di pena certa, di galere che vedono uscire chiunque in un batter d’occhio, e per questo di giustizia a tutto tondo offesa e umiliata. Eppure in carcere ci si va e come, anche per una banalità, ci si rimane per decenni, oppure si “esce” prima con le gambe in avanti, con un cappio al collo, sotto un carico insopportabile di sofferenza e indifferenza. Ma la verità, quella che non si deve dire, continuiamo a metterla di traverso, persistiamo a colorare di giustificazioni una incultura che ormai ha travolto e sconvolto gli istituti penitenziari; non si tratta più della solita eccezionalità, casualità, dei soliti eventi critici con cui si licenzia il malcapitato di turno. Quell’incultura che ha ormai messo radice profonda, che autorizza ogni insubordinazione della coscienza, che mette al primo posto di ogni dis-valore l’indifferenza, non è la risultanza di una impossibilità a rispettare le norme, le regole, che impongono a ognuno e ciascuno il rispetto della dignità delle persone, il rispetto del valore della vita umana, anche quando queste esistenze sono detenute. Inoltre se non si affrontano le questioni legate alla tossicodipendenza, al bacino di utenza detenuta borderline, se non da doppia diagnosi, con persone che dovrebbero trovare una soluzione diversa dal carcere, continueremo a parlarci addosso. Ottanta suicidi da gennaio di quest’anno, ottanta persone morte ammazzate, ottanta cadaveri tra giovani, adulti, anziani, ottanta esseri umani cancellati sommariamente più ancora della loro colpa da espiare con una qualche possibilità di essere trattati in quella umanità che dovrebbe contraddistinguere il dettato costituzionale della rieducazione. La tendenza sta non soltanto nel restringere spazi e diritti dei detenuti, ma pure a togliere il dovere di ogni cittadino detenuto a fare ricorso a tutte le proprie energie interiori per affrontare il cambiamento, l’esigenza di appropriarsi di una vista prospettica improntata soprattutto alla riparazione e al rispetto di sé stessi e degli altri. Il carcere, un male da cui liberarsi di Claudio Bottan Voci di Dentro, 2 dicembre 2022 Tossicodipendenti e ladri di biciclette, truffatori e rapinatori, assassini e spacciatori, ergastolani e giovani in custodia cautelare, magari alla prima carcerazione. Tutti insieme appassionatamente a condividere gli stessi spazi giorno e notte pur avendo bisogni completamente diversi. Dentro ai sacchi neri dell’immondizia che trascinavo c’erano le poche cose che avevo deciso di portarmi a casa, soprattutto i libri e le lettere che mi avevano accompagnato in una detenzione pesante come un macigno. Sei mesi, tre carceri e dodici settimane di isolamento Covid, mi avevano provato più dei sei anni e mezzo che avevo già scontato per bancarotta. Questa no, non era in preventivo. Una nuova carcerazione a quattordici anni di distanza dal reato non aveva alcun senso, anzi, interrompeva un faticoso e irreprensibile percorso di reinserimento sociale. Quel pomeriggio sonnecchiavo e nel dormiveglia mi era parso di sentire una voce: “Prepari le sue cose e scenda in matricola che va a casa”. Appena ho realizzato che non si trattava del solito scherzo dei concellini, in pochi minuti avevo già fatto “le valigie”, un rapido giro di saluti, e mi avviavo verso l’uscita accompagnato dall’applauso riservato ai “liberanti”. Alla fine di un’estate interminabile trascorsa in una cella rovente di Rebibbia era arrivata, ormai insperata, la concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale. Scendendo le scale che portano alla matricola ho incrociato Gabriele, uno dei presunti responsabili della morte di Willy Monteiro. Niente domande, bastavano i miei sacchi neri e il fatto che non fossi accompagnato da una guardia per capire che me ne stavo andando. Una pacca sulle spalle e due parole, le uniche che mi sono uscite in quell’istante: “Tieni duro”. Passo incerto, quasi timoroso, e sguardo basso. Nella sua andatura nemmeno l’ombra della camminata tracotante del bullo che pratica Mixed Martial Arts, le arti marziali che sarebbero state usate come un’arma dai fratelli Bianchi per massacrare, insieme ad altri, il ragazzo intervenuto per difendere un amico. “Il calcio frontale al petto, inferto da Gabriele Bianchi ricorrendo a tecniche da arti marziali che consentono di caricare il colpo anche sfruttando come leva un cartello della segnaletica stradale, è inequivocabilmente indicativo del dolo omicidiario”, scrivono i giudici nelle oltre 70 pagine di motivazioni in cui affermano che Gabriele Bianchi “sapeva di sferrare contro il povero Willy un colpo che, in quanto vietato, era potenzialmente mortale. E, nonostante tale consapevolezza, egli lo sferrava con estrema violenza, posto che tutti hanno descritto quel calcio come potentissimo. In definitiva l'azione delittuosa principiava con un calcio frontale, portato con tecnica ad opera di un esperto di arti marziali, molto robusto, diretto contro un punto vitale del corpo umano con estrema violenza. E per di più contro un ragazzo esile come il povero Willy”. Gli imputati “avevano la percezione del concreto rischio che attraverso la loro azione Willy potesse perdere la vita, e nondimeno hanno continuato a picchiarlo”, aggiungono i giudici secondo i quali i quattro “tenevano il livello della violenza sulla persona del povero Willy” sullo stesso “crudele, livello impressogli da Gabriele Bianchi” e lo “colpivano con violentissimi calci al capo ed al corpo”. Una vicenda, quella di Colleferro, che ha scatenato i commentatori seriali sui social. Qualcuno invoca la pena di morte, altri, invece, vorrebbero “solo” che si buttasse la chiave applicando pene esemplari: meglio una morte lenta. I più sono convinti che tanto ci penseranno i carcerati a “fare giustizia” paventando soprusi indicibili a suon di coltellate e sodomia. Credenze popolari, alimentate anche da certa informazione abile nello sfornare sistematicamente fake news sugli argomenti che “tirano”. La realtà è completamente diversa. Solitamente lo vedevo durante l’ora d’aria, alle prese con il sacco che pendeva ad un angolo del cortile dei “passeggi”. Colpiva forte, con violenti calci e pugni. Pettorali scolpiti, tronfio e appagato dal consenso che avvertiva in chi lo osservava, Gabriele Bianchi pareva sentirsi a suo agio in quella nuova palestra. Poco più in là altri lo imitavano mimando combattimenti, intanto dal balcone soprastante l'agente della polizia penitenziaria commentava i colpi incitandolo: “Dai Bianchi, ancora, più forte, picchia duro!”. Vicino al presunto assassino di Willy passeggiavano i presunti responsabili dell’uccisione del carabiniere Cerciello, quelli accusati di aver sparato a Luca Sacchi e altri ancora dei quali le cronache si sono ormai dimenticate. Dalla finestra del corridoio ogni tanto faceva capolino il comandante Schettino. Luciano, invece, stava sempre seduto su una panchina appoggiato alla sua stampella. Ogni giorno speravo di non dover ascoltare lo stesso racconto di quell’ultraottantenne di cui ormai conoscevo a memoria ogni dettaglio: insoddisfatto per l’esito di una causa civile aveva infilato la canna della pistola in bocca al suo avvocato; poi lo sparo, ma non prima di essere certo che il malcapitato se la fosse fatta sotto per la paura. Qualcuno intanto giocava a pallone, altri si trascinavano lentamente sotto l’effetto di psicofarmaci e metadone. I più anziani di solito erano impegnati con gli scacchi, mentre la maggior parte camminava compulsivamente su e giù, come automi, da un lato all’altro dell’incandescente cortile di cemento. Intanto si parlava di sentenze e operato degli avvocati, di calcio e pastasciutta, ma soprattutto di reati. Di tecniche da affinare per ottimizzare il risultato di spaccio e rapine, di accorgimenti da adottare per non farsi “bere” dalle “guardie”. Tossicodipendenti, ladri di biciclette, truffatori, rapinatori, assassini e spacciatori. Tutti insieme appassionatamente: ergastolani e giovani in custodia cautelare, magari alla prima carcerazione, a condividere gli stessi spazi giorno e notte pur avendo bisogni completamente diversi. Nessun circuito separato, nemmeno tra persone condannate definitivamente e presunti innocenti. È Rebibbia Nuovo Complesso, che di nuovo ha ben poco. Una casa circondariale che risente delle stesse problematiche della maggior parte degli istituti di pena italiani: 1450 persone ristrette a fronte di 1100 posti regolamentari, celle progettate per quattro persone in cui ne vivono sei e altre celle singole con il bagno “a vista”. Il G8 è il salotto buono di casa, quello da far visitare a chi ci mette il naso per capire cosa succede oltre le mura. Lì sono concentrati laboratori, corsi universitari e detenuti famosi. Per il resto nulla di nuovo sotto il sole: carenza cronica di educatori, psicologi e agenti completano il quadro desolante di un luogo in cui si cerca di ammazzare il tempo per non farsi ammazzare dal tempo. Basterebbe una passeggiata tra i corridoi delle sezioni, oppure ai cortili dell’aria, per chiarire le idee a gran parte dell’opinione pubblica ma anche a molti addetti ai lavori. Si potrebbe osservare un pezzo di umanità abbandonata a sé stessa, occupata nella replica della commedia grottesca che quotidianamente va in scena in un mondo parallelo e surreale, un non-luogo in cui vengono relegati la povertà, il disagio sociale, la malattia fisica e quella psichiatrica. Si è trattato dell’ultima tappa del mio lungo tour delle prigioni e dell’ennesima conferma che il carcere, così com’è concepito, rappresenta il fallimento della società. Un male da cui liberarsi. La Carcerite, male comune e quotidiano di Fabrizio Pomes bandieragialla.it, 2 dicembre 2022 L’orologio segna le otto e trenta ma l’agente della penitenziaria addetto all’apertura dei blindi è in leggero ritardo. Allora non passa un minuto che si sente battere il blindo con potenza ed insistenza, come se qualcuno avesse un appuntamento in perfetto orario al quale non può mancare. Subito dopo è possibile vedere una cella di pochi metri quadri invasa da tanti, troppi, metri cubi di acqua insaponata e il detenuto armato di tira acqua e paletta smanioso di raccoglierla. Un po’ più avanti ce n’è un altro che pulisce quotidianamente le pareti della cella e i blindi con il lysoform. Anche la cucina è in ritardo con la colazione, e allora detenuti smaniosi di far colazione, armati di bicchieri e bottiglie, attendono l’ingresso trionfante del carrello in sezione. Altri hanno dormito vestiti con abiti da lavoro per essere già pronti al mattino per correre a lavorare come se non ci fosse un domani. Alcuni alzano i materassi sui letti per farli arieggiare o almeno così dicono ma in realtà lo fanno per scoraggiare altri a sedersi sul proprio letto. Non sono tanti i detenuti che scelgono invece di stare chiusi in cella, buttati sul letto a consumare un tempo che sembra infinito in attesa della visita dell’avvocato o della chiamata dell’infermeria. In genere sono fruitori della terapia, e consumano cronicamente ansiolitici per riuscire a dormire anche durante il giorno in quella grotta chiusa dal blindato. È poi frequente vedere già ciondolare i primi coraggiosi camminatori, che percorrono le vasche del corridoio con ritmi cadenzati, prima soli e poi in due e anche in tre. Si sviluppano allora scontati discorsi su continuati, articoli ventuno e affidamenti. Il tutto intervallato da fantasiose descrizioni del proprio vissuto in libertà. Guai ad incrociare quello che, incurante di avertelo già detto decine di volte, ti relaziona sul proprio stato di salute, critica l’assistenza sanitaria e ti illumina sulla pressione arteriosa. Un gruppo invece decide di impossessarsi della doccia per diverse volte al giorno e per troppo tempo, alla ricerca di un improbabile sbiancamento e incurante dell’eccedenza d’acqua che si consuma. Altri invece per compensare hanno deciso di mettere il divieto d’incontro con la doccia. Se fuori piove a dirotto non manca comunque quello che imperterrito deve fare i suoi giri di campo. Mentre se il tempo è più clemente ci sono quelli che si affliggono con flessioni e sollevamenti da fare invidia ad un ginnasta come Yuri Chechi. Poi può arrivare la spesa, che se viene consegnata con un articolo mancante può far sbarellare la mente a chi da anni segue pedissequamente lo stesso menù per ogni giorno della settimana. Le telefonate ai familiari invece durano dieci minuti, ma c’è chi trova tempo e modo per chiamare tre o quattro volte perché pone domande ed esige risposte. E c’è quello che, consapevole che i suoi genitori soffrono di diabete, non andrebbe mai al colloquio senza portare dolci e cioccolate. Per non parlare della tv. All’orario prefissato sono in tanti a godersi la telenovela pomeridiana, per passare a “Uomini e Donne”, “Amici”, e il cuore della D’Urso. Per finire, in serata, soprattutto gli ergastolani, si sorbettano “Un posto al sole”. Ma anche “Striscia la notizia” nei suoi trentacinque anni ha accompagnato il preserata di tantissimi detenuti. Insomma direbbe Totò che in “Questo manicomio succedono cose da pazzi” e nonostante l’impegno e la professionalità dei medici non è possibile diagnosticare la malattia né studiarne una cura. Sì, perché questo male si chiama “Carcerite” ed è patrimonio comune solo e soltanto dei detenuti. È lo stato di convalescenza del detenuto ossia quel tipico atteggiamento di impotenza, di auto giustificazione della propria inattività, di dispensa dal fare. Con quella momentanea e obbligatoria sospensione dell’agire e una nuova forma mentis che il carcere imprime con gradualità. Perché in carcere il detenuto è obbligato a una quotidianità e una compagnia livellata, scandita da tempi precisi e da rapporti piuttosto limitati. Il detenuto in carcere non è messo in condizione di volere, di poter scegliere e neanche di decidere. Sardegna. Non c’è il Garante dei detenuti: i Consiglieri di opposizione in sciopero della fame L'Unione Sarda, 2 dicembre 2022 In sciopero della fame fino a quando il presidente del Consiglio regionale non nominerà il Garante regionale delle persone sottoposte a restrizione della libertà personale. La protesta è del gruppo Più Europa di Cagliari insieme ad alcuni consiglieri regionali, all'associazione radicale Diritti alla follia ed è aperta ai cittadini. Hanno aderito finora Piero Comandini (Pd), Laura Caddeo (Demos), Desirè Manca (M5s), Antonio Piu (Progressisti), componenti della seconda commissione consiliare Diritti civili e i componenti della segreteria nazionale di Più Europa. L’elenco è in aggiornamento. Sciopereranno “a staffetta”, un giorno per ciascuno, per denunciare la mancata nomina delle tre figure di garanzia previste dall’ordinamento regionale; oltre al Garante delle persone private della libertà personale, anche il Garante dell’adolescenza-infanzia e Difensore civico. Per quanto riguarda il primo “la Sardegna è l'unica regione in Italia che non ha ancora questa figura, dal 2011 anno della sua istituzione con una legge regionale”, ha spiegato Piero Comandini, consigliere del Pd e componente della seconda commissione che ha aderito all'iniziativa non violenta.  “Abbiamo cercato di smuovere in qualsiasi modo il presidente Pais che è l'unico responsabile di questa situazione - ha aggiunto Comandini - nel 2021 abbiamo proposto una risoluzione, abbiamo sollecitato in Aula continuamente il presidente Pais sin da quando ci siamo insediati nel 2019”. Il Garante delle persone sottoposte a restrizione delle libertà personali non è mai stato nominato in tre legislature: “Non è un fatto marginale quando si parla di diritti - chiarisce Nicola Carboni, coordinatore del capoluogo e candidato al Senato alle scorse Politiche - faremo di tutto per smuovere il presidente”. “Siamo ostaggio di questa politica che sta governando la Regione e il Consiglio regionale - ha tuonato Manca (M5s) - il motivo è squisitamente politico, non si mettono d'accordo sui nomi da scegliere”. L'elenco dei partecipanti allo sciopero e ogni altra informazione saranno disponibili sulla pagina Facebook del gruppo +Europa della Città Metropolitana di Cagliari. Palermo. I detenuti del carcere Pagliarelli: “Senza acqua calda e riscaldamento” agi.it, 2 dicembre 2022 Una lettera di tre pagine dei detenuti dell’alta sorveglianza, che include anche i reclusi con accuse di mafia, per sottolineare l’inciviltà delle loro condizioni: 310 detenuti del carcere palermitano di Pagliarelli, dopo essersi rivolti a una serie di indirizzi istituzionali, sollecitano interventi seri per la situazione in cui versa la struttura, che pur essendo relativamente nuova (aprì i battenti tra la fine degli anni 80 e l’inizio dei 90) patisce una serie di problemi di minima vivibilità. “L’istituto - scrivono nella missiva - non è funzionale nelle grandi cose come nelle più piccole e banali della quotidianità. Qui patiamo il freddo in inverno, essendo l’impianto di riscaldamento non funzionante da un ventennio, il caldo torrido in estate, non avendo a disposizione un piccolo ventilatore per trovare refrigerio, quando siamo chiusi dalle 18 alle 20 ore al giorno in piccole e invivibili celle. Patiamo anche la fame, dato che il vitto che ci viene distribuito è immangiabile”. Altro problema della difficile quotidianità è il diritto alla salute: “C’è un solo medico di base per 1300 detenuti, possiamo chiedere la visita ogni 15-30 giorni e mancano i medici specialisti. Per una visita cardiologica, oculistica, ortopedica, esami di laboratorio bisogna attendere anni”. Cosa che mette a rischio, causa diagnosi tardive, rispetto a patologie gravi come “tumori, malattie genetiche, cardiovascolari e metaboliche”. I detenuti citano Nelson Mandela e Sergio Mattarella, e si rifanno alle parole con cui lo storico statista sudafricano e il presidente della Repubblica avevano ricordato che per misurare la civiltà di un Paese bisogna partire dalle carceri (Mandela) e che la sicurezza dei cittadini dipende anche dal reinserimento e dalla rieducazione del condannato (Mattarella). Come raggiungere questi obiettivi, si chiedono i firmatari della lettera, se “ci viene negato pure il diritto di mantenere l’igiene personale”, visto che “le celle sono sprovviste di acqua calda e docce” e ci si può lavare solo “in locali affollati e dove non c’è un minimo di riservatezza?”. “In queste condizioni - conclude la lettera - il principio riabilitativo della pena è solo pura utopia. Qui siamo al Pagliarelli, ci viene detto, come se questo penitenziario non fosse sul suolo italiano”. Per tutti questi motivi, i 310 firmatari, chiedono un’ispezione che potrebbe servire a capire se al Pagliarelli ci sia una “lesione dei diritti umani. Aiutateci a essere trattati come persone umane”. Con una grafia diversa, alla fine, qualcuno ha aggiunto che nei bagni manca il ricambio d’aria, le ventole per l’aspirazione sono rotte, e “i cattivi odori rimangono”. Firenze. Sollicciano sotto i riflettori “Servono pene alternative. Così è inadatto alla funzione” di Giovanni Spano La Nazione, 2 dicembre 2022 Iniziativa di Magistratura democratica. I ruoli sinergici dell’associazione Antigone. Camera penale, dell’Osservatorio Carcere. A Firenze 500 detenuti, ma tre sezioni sono Sollicciano perché? Perché le cimici, quel maledetto tetto piatto la cui copertura è stata sempre fatta male. Perché le cimici tutto l’anno, la scarsa ventilazione anche per gli ambienti bassi, d’estate caldo e afa opprimenti. Perché l’acqua calda che non c’è, o l’acqua che scende dalle docce tramite soffioni improvvisati perché molti di quelli normali sono chiusi, o non funzionano più, ’sostituiti’ da bottiglie di plastica rovesciate. Perché l’acqua che fuoriesce e striscia fino ad allagare le celle; perché la muffa che verdeggia in quei locali prolifera e rende malsani gli ambienti. Non è certo finita. La lista è lunga. Denunce di detenuti e addetti ai lavori, episodi di cronaca drammatici, anche recenti - 951 eventi lesivi, tra questi i casi di suicidio - hanno indotto Magistratura democratica a programmare una serie di visite negli istituti penitenziari della regione (in cui sono detenute al momento 3100 persone), con la collaborazione della dirigente della Casa Circondariale di Sollicciano Antonella Tuoni, di funzionari amministrativi e ufficiali di polizia penitenziaria, del presidente del Tribunale di Sorveglianza Marcello Bortolato, di Alessio Scandurra (per Antigone) del presidente della Camera Penale Luca Maggiora, dell’Osservatorio carcere avvocato Leonardo Zagli. Prima tappa Sollicciano, e non poteva essere diversamente, pur essendo ben presente anche la drammaticità della situazione al carcere Le Sughere di Livorno. Unica eccellenza, Massa. Come in Lombardia Bollate. “I detenuti si arrangiano. L’arte di arrangiarsi è la vera cartina al tornasole di tutte le mancanze” dice l’avvocato Maggiora. I numeri: 500 detenuti, 463 uomini e 37 donne. “Ora finalmente niente bambini”. Però tre delle sezioni maschili sono chiuse per il rifacimento dopo i lavori a quelle femminili. Dunque più che il numero in assoluto conta il tasso percentuale: alta, al 115% rispetto a quella che dovrebbe essere la soglia normale, il 98%. “I detenuti sono stipati”. Altri dati: 319 gli stranieri (69%), 208 quelli in attesa di giudizio, 255 i definitivi. Molti i tossici, molti con disagi. Problemi psichiatrici: non dovrebbero stare dentro, bensì in una struttura territoriale. Per i pazienti con problemi di salute mentale, 8 (sono tanti) occorrerebbe una Rems. “Mancano corsi di socializzanti, ma il limite più grande è la carenza di psicologi, mediatori culturali e altre figure professionali. La comunicazione è difficile, è difficile una progettualità che porti all’uscita dal carcere. E lavoro: uno ogni 6-7 mesi che dura al massimo 1-2 con una mercede bassa, non aiuta la funzione rieducativa. La coperta non è troppo corta. Semplicemente, non c’è”. Con una situazione penitenziaria del genere che non garantisce i diritti dei detenuti occorrerebbe almeno una diminuzione del numero degli stessi, attraverso gli strumenti di legge certo. Pene alternative. Misure come i braccialetti elettronici. Dice ancora Maggiora: “Sono ben applicabili, una soluzione importante. Il numero delle violazioni è minimo”. Palermo. Droga e minori, allarme in città. La procuratrice: “Fenomeno in crescita” di Saul Caia Il Fatto Quotidiano, 2 dicembre 2022 Dall’inizio dell’anno sono almeno 18 i bambini finiti in overdose per aver assunto accidentalmente hashish, marijuana o addirittura cocaina. Ma non sono solo tragedie legate alla tossicodipendenza dei genitori, che spesso spacciano dentro casa. Claudia Caramanna: “I più giovani mettono a tacere il malessere con le sostanze, senza neanche sapere cosa assumono”. Ingerisce della droga e finisce in overdose. Potrebbe sembrare una comune storia di tossicodipendenza, se non fosse che parliamo di un piccolo di appena 13 mesi. Il bambino ha ingerito della cannabis ma adesso è fuori pericolo, resterà ancora ricoverato per aver riportato una frattura cranica. L’episodio successo sabato scorso a Palermo non è un caso isolato. Dall’inizio dell’anno sono almeno 18 i minori finiti in overdose per aver assunto accidentalmente hashish, marijuana o addirittura cocaina. Giustizia di Fatto ha deciso di approfondire questo tema, per questo abbiamo parlato con la magistrata Claudia Caramanna, procuratrice presso il Tribunale dei minori di Palermo, che negli ultimi mesi ha denunciato con insistenza il fenomeno. Procuratrice, sabato c’è stato l’ennesimo episodio, un minore di appena un anno ricoverato d’urgenza per overdose. Qual è l’attuale situazione in città? Il fenomeno che abbiamo riscontrato a Palermo e provincia riguarda bambini della fascia d’età tra gli 8 mesi e i 2-3 anni: spesso sono stati trasportati al pronto soccorso in gravi condizioni perché accidentalmente hanno assunto sostanze stupefacenti. È un fenomeno che si era già presentato negli ultimi anni. Dall’inizio dell’anno sarebbero 18 i casi accertati, circa 2 al mese... I casi che finiscono sui giornali sono solo la punta dell’iceberg: in un confronto che abbiamo avuto con il personale ospedaliero è emerso un quadro di forte preoccupazione perché i minori vengono accompagnati al pronto soccorso solo quando sono in condizioni critiche, ovvero svengono, collassano e non si svegliano, ma ci sono molti altri casi in cui i bambini hanno una situazione meno grave e non finiscono in ospedale. Il dato è molto più inquietante, perché abbiamo avuto una media di 2 casi a settimana. Com’è possibile che un minore così piccolo ingerisca della droga? Dagli accertamenti che abbiamo svolto nell’immediatezza degli episodi, risulta che i genitori sono spacciatori o consumatori. Il fenomeno non riguarda solo l’hashish, ma anche cocaina e crack. A quell’età i bambini piccoli quando vedono un oggetto lo prendono in mano e lo mettono subito in bocca, è una modalità di conoscenza e scoperta del mondo, per questo motivo accidentalmente ingeriscono le dosi che trovano in casa preparate dai genitori. Il fatto che i minori entrino così facilmente in contatto con le droghe dimostrerebbe l’ampia diffusione delle sostanze stupefacenti nelle case palermitane? Temo proprio di sì. C’è stato un forte aumento di casi, e credo che la pandemia l’abbia incentivato, perché probabilmente molte famiglie hanno iniziato a svolgere questo genere di attività in casa, magari dettata dalla necessità di sostentamento, con i bambini che accidentalmente entrano in contatto con le sostanze. Le scuse dei genitori che spesso sentiamo sono inverosimili: dicono che il bambino l’ha presa da terra, per strada o che non sanno chi possa essere stato. Questi episodi riguardano solo i minori o c’è dell’altro? L’età in cui si inizia a consumare la sostanza stupefacente si è abbassata: oltre al fenomeno degli infanti, abbiamo rilevato anche bambini tra 10-12enni che assumono droghe, e non solo marijuana e hashish, ma anche crack e altre droghe sintetiche che hanno effetti devastanti dal punto di vista fisico e psicologico. La Società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza ha evidenziato che i tentativi di suicidio dei minori sono aumenti dell’82% rispetto al 2019, i pensieri suicidi dei minori sono aumentati del 200%, e l’accesso ai servizi di neuropsichiatria dell’84%. Ci sono un fortissimo disagio minorile e una profonda solitudine, e le sostanze stupefacenti sono utilizzate dai minori come una ‘cura’ per mettere a tacere il malessere. La diffusione avviene per lo più nelle zone periferiche della città, considerate spesso le più emarginate, oppure anche nella ‘Palermo bene’? Assolutamente anche nella ‘Palermo bene’: questo è un fenomeno trasversale che colpisce tutti gli strati sociali, anche i minori che vivono in contesti molto agiati dove c’è un ‘disagio nell’agio’. Ormai sono tantissimi i minori segnalati per il consumo sostanze stupefacenti. Crede che sia un fenomeno in forte espansione? I giovani non hanno la percezione della pericolosità di queste sostanze, non è più come per il consumo dell’eroina per cui chi ne faceva uso era facilmente riconoscibile: aspetto trasandato e camicie lunghe per coprire i buchi sulle braccia. Oggi il crack è una droga che si trova più facilmente, costa poco, ha un forte effetto ma che dura però pochissimo, e chi la consuma pensa che non crei dipendenza, ma non è così. Se in passato le istituzioni nel contrasto all’eroina hanno adottato interventi massicci, secondo lei oggi con la cocaina e il crack c’è una sottovalutazione del problema, anche per quanto riguarda i minori? E come si può intervenire? Si, c’è soprattutto un problema di conoscenza, perché un ragazzino prima di assumere una sostanza dovrebbe sapere quello che sta consumando, quindi serve un’attività di formazione. Mi sono fatta promotrice dell’istituzione a Palermo di un tavolo tecnico con la Prefettura, le forze dell’ordine, il responsabile dei Sert dell’area palermitana e le scuole, perché l’idea è quella di fare una campagna di prevenzione, spiegando ai minori di che sostanze si tratta e che cosa provoca il consumo. Per combattere un fenomeno devi prima conoscerlo, devi comprenderne i presupposti, gli aspetti essenziali e le conseguenze. Napoli. Oggi il convegno: “La riforma Cartabia tra efficientismo e garanzie” retenews24.net, 2 dicembre 2022 L’evento, organizzato dal Garante campano Ciambriello insieme alla Conferenza nazionale dei Garanti, si pone come una riflessione a più voci sul futuro della riforma destinata a cambiare il funzionamento della giustizia. “La riforma Cartabia tra efficientismo e garanzie”: è questo il titolo del convegno in programma oggi 2 dicembre 2022, dalle ore 9:30, presso l’Aula Auditorium - Torre C3 del Centro direzionale di Napoli. Una giornata di studio, divisa in due sessioni: la mattinata interamente dedicata ad una riflessione a più voci sulla riforma Cartabia, in tutti i suoi punti salienti, finalizzata a interrogarsi e offrire spunti alla politica sulla sua completa attuazione, anche alla luce del rallentamento e del rinvio della stessa, a seguito dell’insediamento del Governo Meloni. Il pomeriggio, invece, ha come focus la giustizia riparativa, la riconciliazione tra vittima e reo attraverso un percorso di mediazione penale. All’evento, in qualità di relatori, prenderanno parte professori universitari, magistrati e porteranno la loro esperienza alcuni dei Garanti italiani delle persone private della libertà personale e appartenenti del Terzo settore. Il Garante Ciambriello: “Un importante momento di confronto sulla spinta riformatrice avviata dalla riforma Cartabia, che adesso ha subito un rallentamento. Proprio per questo ho ritenuto doveroso ritrovarci intorno ad un tavolo, perché le idee, anche contrastanti, se condivise divengono proposte, che indirizziamo a chi, da oggi in poi, si troverà ad occuparsi di giustizia e che dovrà tenere conto di questo nuovo vento di speranza che aveva iniziano a spirare con la riforma Cartabia. Nel nostro Paese, quando si parla di giustizia, di esecuzione penale, di privazione della libertà personale e di carcere, bisogna fare i conti con una cultura, che, ahimè, negli anni è stata impregnata di populismo. Bisogna invertire la rotta, così da preparare la collettività ad abbracciare con convinzione il cambiamento della giustizia, che non è più rinviabile”. Catanzaro. Poesia, rap e nuova biblioteca per il carcere minorile ansa.it, 2 dicembre 2022 Progetto Fondazione Treccani cultura e Fondazione Trame. Laboratori di poesia e rap e una nuova biblioteca a disposizione dei giovani detenuti, dotata di un'ampia raccolta di libri di ogni genere. È questo, riporta una nota, il frutto del lavoro che Fondazione Treccani Cultura, con il supporto della Fondazione Trame, ha realizzato per i ragazzi dell'istituto Penitenziario Minorile di Catanzaro Silvio Paternostro. Il progetto - “Ti Leggo. Le frontiere della lettura negli istituti penitenziari minorili” - ha coinvolto minori e giovani adulti che hanno avuto l'opportunità di partecipare ai laboratori del rapper e autore di progetti educativi musicali nelle scuole e in carcere Amir Issaa e a quelli di lettura ad alta voce dell'attore Achille Iera, allo scopo di offrire occasioni di riscatto e contribuire e abbattere stereotipi e pregiudizi attraverso la possibilità di esprimere in versi le proprie storie ed emozioni. I ragazzi sono stati coinvolti anche nel lavoro di catalogazione dei volumi donati nel tempo all'istituto, con l'obiettivo di avvicinarli ai libri e alla cultura e accompagnarli in un cammino di reinserimento sociale realmente alternativo all'illegalità. Le attività rientrano in un'iniziativa più ampia promossa da Treccani cultura che ha coinvolto i ragazzi degli istituti minorili di 5 città utilizzando la lettura per il perseguimento della finalità rieducativa che l'art. 27 della Costituzione attribuisce alla pena. “Il percorso, iniziato nel 2020 e interrotto dalla pandemia - prosegue la nota - è ripreso negli ultimi mesi non senza difficoltà grazie all'entusiasmo dello staff coinvolto e alla disponibilità degli operatori dell'IPM, e si è concluso con un incontro nella stessa biblioteca che ha visto la partecipazione di Loredana Lucchetti, referente dei progetti culturali della Fondazione Treccani Cultura e curatrice del Progetto, di Iera e Issaa, e di una delegazione della Fondazione Trame composta dalla direttrice Cristina Porcelli, da Claudia Caruso, Maria Francesca Gentile e dai volontari di Servizio Civile del centro culturale Civico Trame Veronica Palmieri, Alberto Falvo, Antonio Ruberto e Antonio Lanzo, alla presenza dei detenuti, del vicedirettore Gennarino Del Re e dell'educatrice Chiara Crociani”. Sciacca (Ag). Un corso di scrittura per detenuti, così i giovani possono scegliere altri percorsi Giornale di Sicilia, 2 dicembre 2022 Si intitola “Liberarsi dalla violenza” un progetto di lettura e scrittura creativa destinato ai detenuti della casa circondariale di Sciacca (Agrigento). A coordinarlo: la psicoterapeuta Maria Grazia Bonsignore. “I partecipanti al progetto - dice - sono giovani poco più che ventenni. Il nostro obiettivo è quello di sensibilizzarli svolgendo insieme a loro, attraverso la letteratura, azioni di prevenzione e cura delle relazioni funzionali e disfunzionali, della sofferenza, delle opportunità e degli stimoli per dare loro delle alternative rispetto ad un destino che non può e non deve essere segnato”. Ne sono venuti fuori confronti ed espressione dei sentimenti dei detenuti sotto forma di scritti, poesie e riflessioni. Come quella di Carmelo, 23 anni, di Canicattì, tuttora in attesa di sentenza di primo grado nel processo in cui è imputato per spaccio di droga: “Siamo noi a scegliere cosa fare della nostra vita, io per ora sono in carcere, ma vorrei che questo fosse il punto da cui ripartire per una vita migliore con la mia ragazza, che mi aspetta fuori”. È in attesa di sentenza anche Giovanni, ventenne di Motta Camastra, piccolo comune del Messinese, coinvolto insieme al padre (detenuto in un altro carcere) in un’operazione antidroga. Ed è proprio al padre che Giovanni ha dedicato una poesia, che in un passaggio dice: “Papà, non smettere di sognare. Un giorno torneremo ad abbracciarci”. Sta scontando una pena definitiva a 3 anni e 8 mesi per rapina infine Gaetano, anche lui 20 anni, di Catania, quartiere Librino: “Frequento istituti di pena da quando avevo 15 anni, ma ora mi sono stancato. Ho tutta la vita davanti, quando uscirò vorrò viverla al meglio”. Alcune delle poesie sono state presentate al concorso letterario riservato ai detenuti delle carceri italiane “Carlo Castelli”, promosso ogni anno dalla società San Vincenzo De Paoli con il patrocinio di Camera e Senato. Concorso nel quale il progetto “Liberarsi dalla violenza” ha ottenuto una menzione speciale. “Questo progetto - dice Giovanna Re, direttrice della casa circondariale di Sciacca - dimostra che è possibile intraprendere altri percorsi di vita, avendo come riferimento modelli comportamentali che non siano quelli della sopraffazione, della prevaricazione e dell’abuso. I nostri detenuti, attraverso questo progetto di lettura e scrittura creativa, hanno avuto gli strumenti per conoscere forme espressive virtuose. I risultati sono arrivati, e di questo siamo orgogliosi, perché indicano la via verso il riscatto sociale di questi ragazzi”. Durante la Giornata contro la violenza sulle donne i detenuti hanno prodotto un lavoro contenente pensieri e considerazioni. E all’interno del progetto “Liberarsi dalla violenza” è stata organizzata la presentazione del romanzo della giovane scrittrice Valeria Gargiullo dal titolo “Mai stati innocenti”, pubblicato da Salani, che racconta una storia di marginalità sociale nel quartiere di Campo dell’Oro, nel comune di Civitavecchia, dove l’autrice è nata. “Io per prima mi sono salvata grazie alla cultura”, ha detto la Gargiullo. All’interno del progetto, infine, la titolare della libreria Ubik di Sciacca Ornella Gulino ha donato alla biblioteca del carcere una cinquantina di libri. Parma. “Sono io”: negli istituti penitenziari uno spettacolo contro la violenza di genere parmadaily.it, 2 dicembre 2022 In conclusione del laboratorio teatrale dell’anno 2022, la decisione di attori-detenuti e registi è stata quella di mettere in scena un’azione teatrale, che riguardasse episodi di violenza sulle donne. A poca distanza dal 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza di genere, i detenuti-attori hanno scelto di fare sentire in modo corale la loro voce per mostrare solidarietà e vicinanza a chi vive questa esperienza. Si è trattato di un’occasione per intensificare la vicinanza tra il contesto penitenziario e il resto della società civile. La rappresentazione, che ha registrato il tutto esaurito per entrambe le serate, è stata introdotta da altri detenuti, che stanno svolgendo con esperti un percorso di riflessione sulle condotte violente nei confronti delle donne e che apriranno l’evento con la lettura di loro scritti. Al termine delle rappresentazioni gli assessori comunali Beatrice Aimi, Ettore Brianti e Francesco De Vanna hanno consegnato agli “attori” gli attestati di partecipazione al laboratorio teatrale. “Sono io” è l’azione teatrale con la quale, dopo due anni di restrizioni a causa della situazione data da covid 19, gli Istituti penitenziari, in sinergia con Comune di Parma e Progetti&Teatro, hanno riaperte le porte alla cittadinanza di Parma, mettendo al centro un tema intra - generazionale e intra - culturale, sul quale è fondamentale lo sguardo e l’attenzione di tutta la collettività, compresa quella di chi è in carcere con obiettivi ri-educativi e di re-inserimento, finalizzati a favorire il mantenimento di legami solidi con il proprio contesto d’appartenenza. Il laboratorio teatrale è un’esperienza ormai consolidata da anni negli Istituti penitenziari di Parma che ha sempre coinvolto con molto entusiasmo sia i partecipanti all’attività, che, una volta la settimana, si sono riuniti per sperimentarsi nel ruolo di attori. Il pubblico esterno tramite quest’iniziativa si può avvicinare alla realtà del carcere, eliminando per alcune ore le distanze e le barriere tra chi vive la nostra città liberamente e chi si trova costretto in carcere. Si tratta di un’occasione in cui la comunità dentro e fuori le mura degli Istituti penitenziari si incontra per condividere un evento speciale, come quello di un’azione teatrale, su un tema che coinvolge l’intera cittadinanza. Per i crimini di guerra ci vogliono processi imparziali di Daniele Archibugi* Il Manifesto, 2 dicembre 2022 Crisi Ucraina. Per la prima volta nel mezzo di un conflitto si stanno svolgendo indagini e minacciando processi penali. È forse l’alba di una nuova cultura giuridica. Non era mai successo che nel mezzo di un conflitto si svolgessero indagini e si minacciassero processi penali. È forse l’alba di una nuova cultura giuridica, a condizione che la giustizia penale non sia usata come mezzo di guerra. E si usino gli strumenti esistenti, quali la Corte penale internazionale. Nell’aprile 2022, il Presidente Usa Joe Biden ha accusato Vladimir Putin di genocidio e ha minacciato di voler avviare un processo internazionale. Arriva oggi una più articolata posizione della Presidente Ursula von der Leyen, la quale ha segnalato la volontà della Commissione europea di istituire un Tribunale ad-hoc per il crimine di aggressione commesso dalla Russia. Eppure, sembra che i due intendano esautorare la Corte penale internazionale (Cpi). La von der Leyen ha addirittura menzionato possibilità alternative, quali l’istituzione di un nuovo tribunale ad hoc oppure ibrido. Entrambi le opzioni sono da scartare. Mai nel corso di un conflitto si era data tanta importanza alla giustizia penale. In Ucraina, i soldati russi Vadim Shysimarin, Alexander Bobikin e Alexander Ivanov sono già stati condannati per crimini di guerra, anche se verosimilmente usciranno di prigione in uno scambio tra prigionieri. Non è mancata la risposta russa: nel maggio 2022, Denis Pushilin, il leader del territorio controllato dalla Russia nel Donetsk, ha dichiarato che intendeva istituire un Tribunale Norimberga 2.0, dove gli imputati sarebbero stati i “nazisti” del Battaglione Azov per i loro ripetuti attacchi alla popolazione civile del Donbass dal 2014 al 2022. Pushilin dichiarava addirittura che la Russia avrebbe istituito un Tribunale internazionale, anche se difficilmente sarebbero riusciti a trovare sodali per tale avventura, e evocava come precedenti i processi del 1943 contro prigionieri di guerra tedeschi e collaborazionisti ucraini (tutti terminati con l’impiccagione degli imputati). La giustizia penale è così diventata la continuazione della guerra con le toghe? I tribunali sono utili solo se sono imparziali. Proprio per questo, è necessario che siano istituzioni terze a gestire le indagini e i processi. La Cpi, istituita solo nel 2002, in questa occasione è stata assai tempestiva. Si può lamentare che è stata latitante nel corso dei conflitti in Iraq, Libia, Palestina e tante altre parti del mondo. Ma è un progresso che in questa occasione, solo una settimana dopo l’inizio dell’invasione russa, abbia avviato indagini sui crimini di guerra. Appena le truppe ucraine hanno riguadagnato la città di Bucha, la Cpi ha spedito sul posto investigatori forensi avvalendosi anche di specialisti messi a disposizione da autorità nazionali (ad esempio, sia il governo olandese che quello lituano hanno fornito i propri esperti). Anche se difficilmente la Cpi potrà processare Putin, è questa l’istituzione che si deve incaricare di svolgere le indagini e celebrare i processi. Istituire un nuovo Tribunale ad hoc, come quelli istituiti nel 1993 e 1994 per i crimini nella ex-Jugoslavia e il Rwanda, sarebbe un colossale passo indietro che riporterebbe la giustizia penale internazionale indietro di 30 anni, perché un nuovo Tribunale sarebbe meno autorevole e più facilmente influenzabile da scelte politiche. E poi, per quale ragione i Paesi europei, che si sono fatti faticosamente paladini dell’istituzione della Cpi, anche quando gli Stati uniti si sono tirati indietro, dovrebbero usare un altro strumento? Verrebbe ancora una volta meno quell’imparzialità indispensabile per dare autorevolezza ai processi e alle Corti che li celebrano. Né sembra preferibile istituire una Corte ibrida (ossia composta da autorità nazionali e internazionali). Come in tutte le guerre, i crimini li commettono entrambi i belligeranti. Per quanto ci sia una ovvia distinzione tra quelli commessi dall’aggredito (l’Ucraina) e dall’aggressore (la Russia), occorre che essi siano valutati da autorità indipendenti. La stessa Ucraina, ad esempio, ha aperto un’indagine per i fatti di Makiïvka, dove apparentemente alcuni soldati russi che si erano arresi sono stati uccisi da quelli ucraini. Se Unione europea e Stati uniti intendono seriamente rafforzare la giustizia penale internazionale hanno ben altre possibilità di farlo. Prima di tutto, gli Stati uniti dovrebbero finalmente aderire alla Cpi, accettando non solo di processare i propri avversari, ma di poter finire, come tutti gli altri, sul banco degli imputati. Per inaugurare un nuovo corso, l’amministrazione Biden avrebbe dovuto garantire l’immunità a Julian Assange e Edward Snowden piuttosto che al principe saudita bin Salman Al Sa’ud, ritenuto da un Rapporto dell’Onu il mandante dell’assassinio del giornalista Khashoggi. Mentre manca la volontà di arrivare ad un cessate-il-fuoco e al ritiro delle truppe russe dall’Ucraina, è quanto mai necessario rafforzare gli strumenti del diritto e della legalità. Il Tribunale dei popoli della Fondazione Basso ha una gloriosa tradizione nell’istituire processi quando nessuno aveva il coraggio di farlo. Potrebbe oggi tempestivamente individuare le responsabilità dei principali artefici della guerra, condizione necessaria per giungere ad un progetto di pace condiviso tra le società ucraina e russa. *Co-autore di “Delitto e castigo nella società globale”, Castelvecchi Ricordare Julian Assange nella giornata Onu dei diritti umani: perché è importante di Patrick Boylan Il Manifesto, 2 dicembre 2022 Lottare per la liberazione di Julian Assange, co-fondatore del sito WikiLeaks ora imprigionato, significa lottare per difendere tutti i nostri diritti umani, così spesso negati o violati, a partire dal nostro #DirittoDiSapere i misfatti dei nostri governanti - anche quelli coperti ingiustamente dal Segreto di Stato. Da tre anni e sette mesi, Julian Assange, giornalista investigativo australiano, viene sottoposto ad un regime di carcere duro nella prigione britannica di massima sicurezza di ”Belmarsh” - senza processo e quindi senza aver ricevuto una sentenza che possa giustificare una pena che anche il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria biasima come “sproporzionata.” La sua detenzione costituisce, dunque, una palese negazione del suo diritto alla giustizia. E ciò nonostante, perdura. L’isolamento totale inflitto ad Assange dal Regno Unito - e quello che gli Stati Uniti vorrebbero infliggergli a vita in un loro carcere di massima sicurezza, qualora riuscissero ad estradarlo - dimostrano quanto i due governi anglosassoni temono Assange e ciò che egli potrebbe ancora rivelare dei loro crimini e illeciti, qualora egli fosse libero o, perlomeno, qualora egli avesse accesso ad un computer o ad altri strumenti di comunicazione. Donde il bavaglio, fino alla morte. Ma se la severa e ingiusta prigionia di Julian viola il suo diritto alla libertà e alla parola, al contempo viola anche i nostri diritti umani, a partire dal nostro #DirittoDiSapere ciò che i nostri governanti fanno realmente nel nostro nome. Non solo, ma l’esempio di quella prigionia serve chiaramente ad intimidire tutti i giornalisti investigativi: “Se cercate di smascherarci,” dicono in sostanza i due paesi anglosassoni a costoro, “finirete come Assange”. Perciò, la prigionia di Julian rappresenta anche un attacco alla libertà di stampa, di cui all’articolo 19 nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Ma i diritti umani negati dalla persecuzione giudiziaria di Julian Assange comprendono anche molti altri. Negli anni precedenti alla sua incarcerazione, infatti, Assange è stato perseguito con inaudita ferocia e accanimento dai servizi segreti Usa/Uk, che hanno fatto scempio totale della Dichiarazione Universale. Infatti, i due paesi anglosassoni hanno spiato Assange, senza autorizzazione, per sette anni, 24/7, e persino durante le sue conversazioni privilegiate con i suoi avvocati. L’hanno privato del suo diritto alla salute durante il suo asilo politico. L’hanno calunniato a mezzo stampa. Con la complicità delle autorità svedesi, hanno messo in opera una montatura giudiziaria diffamante. Hanno corrotto un testimone per screditare (falsamente) la figura professionale di Assange quale giornalista investigativo. Hanno bloccato, senza ordinanza giudiziaria, tutti i canali di finanziamento del sito WikiLeaks per farlo fallire e così fermare le rivelazioni. Infine, stanno commettendo, proprio ora, un palese sviamento di potere imputando a Julian atti di spionaggio in base ad una legge statunitense che si applica solo a chi risiede negli USA nonché ai cittadini statunitensi residenti all’estero, ma che gli USA vorrebbero ora, creando un precedente con la complicità dei tribunali britannici, estendere unilateralmente ai giornalisti e ai privati cittadini di qualsiasi nazionalità in tutto il mondo. Un bel po’ di diritti calpestati, non c’è che dire. Certo, ci sono nel mondo molti altri casi di diritti umani sistematicamente negati. E difatti, i nostri governanti e i nostri mass media amano puntare il dito continuamente contro i diritti negati a giornalisti e ad attivisti in Russia, in Iran e in Cina, vuoi per assolversi (“Vedete? C’è di peggio altrove.”), vuoi per creare steccati e polarizzare il mondo in due campi, noi i buoni e loro i cattivi. Non c’è dubbio: tutti i perseguitati politici (che non siano agents provocateurs) meritano la nostra solidarietà, perciò anche quelli in Russia, in Iran e in Cina. Ma puntare il dito di continuo contro i tre paesi appena elencati e soltanto loro, spesso esagerando le loro colpe o addirittura inventandone, sa di strumentale ed è chiaramente in malafede. È significativo, per esempio, che i nostri governanti e i nostri mass media non puntino il dito continuamente contro i diritti negati da Israele ai propri cittadini arabofoni, per non parlare dei palestinesi. Nè puntano il dito contro i diritti negati dal “governo amico” di Kiev ai propri cittadini: sono 80 i giornalisti e blogger ucraini fatti sparire perché dissidenti dal 2014, cioè ben prima dell’attuale conflitto, ma di loro abbiamo notizie solo dagli ucraini fuggiti all’estero, non dai nostri media. E, neanche a dirlo, non puntano il dito contro i diritti negati dagli Stati Uniti ai propri cittadini. Infatti, oltre a incarcerare o comunque perseguitare sistematicamente i tanti whistleblower che hanno osato denunciare il governo statunitense (oltre a Assange e Manning, ricordiamo Snowden, Hale, Drake, Jin-Woo Kim, Kiriakou, Leibowitz, Sterling e Winner tra i casi più recenti), gli USA hanno anche il primato poco invidiabile di tenere in galera la più alta percentuale della propria popolazione rispetto a qualsiasi altro paese nel mondo, dittature comprese. Più della Corea del Nord. Più dell’Arabia Saudita. In certi Stati, i carcerati, che sono soprattutto di colore, vengono fatti lavorare da schiavi nei campi di cotone gestiti dalle prigioni - a vederli sembra di tornare nuovamente all’epoca dello Zio Tom. Tra questi prigionieri-schiavi spiccano molti attivisti e dissidenti neri che sono stati condannati per qualche inesistente reato comune, per toglierli di torno senza che risultino “prigionieri politici”. Due torti non fanno una ragione. Perciò, le violazioni dei diritti umani da parte dei paesi appena elencati certamente non assolvono le violazioni in Russia, in Iran o in Cina. Tuttavia va contestata l’ipocrisia dei nostri politici e dei nostri media nel condannare esclusivamente i paesi da loro considerati “avversari”. Soprattutto perché questo continuo martellamento ha uno scopo preciso: mira a inculcare in noi una insofferenza verso la Russia, l’Iran e la Cina. In pratica, veniamo mobilitati contro, sin da ora. Ciò tornerà utile ai nostri governanti un domani in vista del sostegno popolare di cui avranno bisogno per le loro future guerre - peraltro già allo studio - contro questi tre paesi. Si passa dall’attuale guerra fredda con loro ad una guerra guerreggiata in un istante e perciò i nostri governanti hanno bisogno di tenerci pronti. Per dire “Basta!” a queste invocazioni strumentali e ipocrite dei diritti umani negati altrove, abbiamo una arma molto potente: esigere che i nostri governanti mettano in ordine la propria casa, prima di pronunciare anatemi contro gli altri. Ciò significa necessariamente, dunque, porre fine alla persecuzione di Julian Assange, vittima di una serie di abusi che il relatore ONU sulla tortura, Nils Melzer, ha qualificato in questi termini (maggio 2019): Nils Melzer: “In 20 anni di lavoro con vittime di guerra, violenza e persecuzioni politiche non ho mai visto un gruppo di Stati democratici riunirsi per isolare, demonizzare e abusare deliberatamente di un singolo individuo per così tanto tempo e con così poca considerazione per la dignità umana e lo stato di diritto”. Ripetiamolo ancora una volta, a scanso di equivoci: tutti i perseguitati politici (che non siano agents provocateurs, anche involontariamente) meritano senz’alcun dubbio la nostra solidarietà. Tuttavia è giusto e opportuno che il caso Assange rimanga comunque la nostra priorità, proprio perché, come si è appena detto, abbiamo il precipuo dovere di mettere in ordine dapprima casa nostra e, inoltre, perché il caso Assange è la quintessenza dei diritti negati. Ma il co-fondatore di WikiLeaks non è soltanto il simbolo in Occidente del giornalista/attivista privato dei suoi diritti umani. Egli è anche il simbolo in Occidente del giornalista/attivista che, più che qualsiasi altro, ha lottato contro la privazione dei nostri diritti umani, calpestati così spesso dai nostri governanti e dalle multinazionali che li sorreggono. Per esempio, attraverso il suo lavoro di giornalismo investigativo, Assange ha difeso il nostro diritto alla salute rivelando le pratiche irregolari dei due colossi dell’agribusiness, Bayer e Monsanto, che volevano commercializzare prodotti nocivi. Ha difeso il nostro diritto alla privacy rivelando come la Cia e la Nsa - ma anche un qualsiasi nostro rivale in affari che possiede il loro spyware che una ditta israeliana commercializza - possono leggere persino i dati riservati che conserviamo nei nostri cellulari, se non adoperiamo contromisure. Ha difeso il nostro diritto alla sicurezza di fronte ai cambiamenti climatici, rivelando le pratiche illecite usate dai paesi più inquinanti per svuotare gli accordi Cop. Ha difeso il nostro diritto alla pace smascherando i tentativi dei nostri governanti a “venderci” le loro guerre con falsi pretesti. E via discorrendo. La giornata che celebra i diritti umani, dunque, deve essere soprattutto una giornata che ricorda: - sia i diritti negati a Julian Assange, - sia i diritti negati a tutti noi e che Assange ha cercato di difendere. A Roma, ad esempio, gli attivisti di Free Assange Italia stanno preparando, in vista del 10 dicembre, una festa natalizia in piazza per Julian, per ringraziarlo di tutti i doni che ci ha fatto, ovvero le sue rivelazioni che hanno inchiodato il potere. Creeranno una pila di scatole- regalo, leggendo nel microfono le relative etichette, ognuna delle quali menzionerà una rivelazione di WikiLeaks e il corrispondente diritto umano che è stato così tutelato - come nei quattro esempi appena elencati. Durante questa attività, altri attivisti ricreeranno la statua di Davide Dormino, “Anything to say?”, per celebrare non solo Assange ma anche Manning e Snowden, ricordando il loro coraggio nel denunciare i nostri diritti umani negati. Così a Roma. Ma la Giornata dei Diritti Umani verrà celebrata ricordando Julian Assange in molte altre città d’Italia e nel mondo. Il comitato 24hAssange ha creato una mappa in via di completamento sulla quale, cliccando sui vari numeri, si potrà leggere i nomi delle diverse città e gli eventi previsti per il 10 dicembre. Anzi, i promotori invitano tutti coloro che vorranno organizzare un evento, grande o piccolo, di inviare una mail a 24hAssange@proton.me per segnalare l’attività prevista, indicando luogo, titolo, orario e mail di un responsabile. L’attività verrà inserita nella mappa. Un’attività che sta riscuotendo molto interesse è il flashmob proposto dal gruppo internazionale Free Assange Wave e Davide Dormino, intitolato “Bring Your Chair”; per sapere come realizzarlo: La “Giornata Mondiale dei Diritti Umani” viene promosso il 10 dicembre di ogni anno dall’ONU con un determinato tema; quest’anno esso sarà “Dignità, Libertà e Giustizia per Tutti”. I gruppi Assange nel mondo hanno semplicemente colto questa occasione per ribadire i contenuti proposti dall’Onu, ma focalizzandosi sul caso Assange in quanto particolarmente esemplificativo. Mohamed Bazoum: “Per gestire i migranti serve un nuovo accordo tra Europa e Africa” di Maurizio Molinari La Repubblica, 2 dicembre 2022 Il presidente del Niger a Roma per la conferenza della Fondazione Med-Or: “Dobbiamo basarci sul numero di africani di cui hanno bisogno i mercati del lavoro di Francia, Italia e Spagna”. Mohamed Bazoum è seduto su un vulcano. Nel Sahel infestato da gruppi jihadisti, mercenari russi e trafficanti di uomini il Niger è uno dei pochi partner con cui l'Europa può lavorare per promuovere stabilità e sviluppo. Se la Nato nel summit di Madrid ha identificato il Sahel in una delle principali aree di crisi del “Mediterraneo allargato” è per i motivi che il presidente nigerino, classe 1960, ci spiega di persona: i jihadisti proliferano nelle aree periferiche, i russi si fanno largo con sofisticate operazioni di influenza e i migranti vengono sfruttati da ogni sorta di traffici illeciti. Arrivato a Roma per la conferenza “Italia-Niger, Europa-Africa, due continenti un unico destino” della Fondazione Med-Or, Bazoum è grato all'Italia per l'invio della missione militare e guarda all'Europa in cerca di aiuti strategici, a cominciare da una nuova ricetta “per contenere in maniera legale il flusso di migranti attraverso il Mediterraneo”. Di che ricetta di tratta? “Serve un accordo assai diverso da quello siglato alla Valletta nel 2015, l'idea che possano bastare degli investimenti europei in Africa per portare allo sviluppo e bloccare i migranti nei Paesi di origine è irrealistica. Lo sviluppo dell'Africa è qualcosa di assai più complesso del tema dell'immigrazione”. E allora quale accordo può aiutare Africa ed Europa a contenere i migranti? “Un accordo basato sul numero di africani dei quali ogni Paese europeo ha bisogno per il suo mercato del lavoro. In Francia, Spagna e Italia avete molti posti in settori dell'occupazione dove gli africani possono lavorare. Bisogna stabilire questi numeri, Paese per Paese, e poi affidare ai consolati la responsabilità di farli rispettare. Così avremo un accordo fra Stati, africani ed europei, per regolare l'immigrazione regolare e non avremo più a che fare con quella irregolare che alimenta i peggiori traffici. In attesa che ciò avvenga il Niger fa rispettare in maniera severa gli accordi sul transito delle persone: chi non ha i documenti in regola viene rimandato nel Paese di origine”. Il Niger è al 189° posto su 191 nell'indice di sviluppo umano dell'Onu. Come combattete la povertà? “L'indice di sviluppo umano dell'Undp è calcolato sulla base di tre parametri: il reddito nazionale pro capite, l'aspettativa di vita e l'efficienza del sistema educativo. Tra questi il coefficiente assegnato al terzo parametro è di gran lunga il più alto ed è proprio quello in cui il Niger ha ottenuto un punteggio molto basso. Se vogliamo combattere la povertà, dobbiamo investire nel nostro sistema educativo per renderlo più efficiente, in modo da garantire una buona formazione ai giovani, per consentire loro di acquisire le competenze che daranno loro accesso a posti di lavoro e redditi dignitosi. Investire nell'istruzione, soprattutto per le ragazze, è il modo migliore per combattere l'altissimo tasso di natalità che è la causa principale della povertà nei Paesi del Sahel. L'Italia e l'Unione Europea potrebbero sostenerci aiutandoci, ad esempio, nell'attuazione del grande programma di riforma che stiamo portando avanti per migliorare il nostro sistema educativo”. Quali le prospettive della partnership con l'Italia? “La cooperazione con l'Italia è cresciuta negli ultimi anni. Vogliamo invitare le aziende italiane a guardare all'Africa in modo diverso, svincolandosi dalla visione classica secondo cui l'Africa è solo un luogo di conflitti e la terra d'origine dei migranti”. Il Niger è circondato da Paesi instabili. La pressione dei gruppi jihadisti aumenta in Mali e Burkina Faso. Chi sostiene i gruppi terroristici e come intendete combatterli? “I gruppi terroristici stanno conquistando territori sempre più vasti in prossimità dei nostri confini e questo ha un impatto negativo sulla sicurezza dei cittadini del nostro Paese che abitano in quelle aree. Questo ci costringe a dispiegare più truppe. Un tale impegno ci impone di assumere più personale all'interno delle forze di difesa e di sicurezza, di investire molto denaro nella loro formazione, nella loro assistenza e soprattutto nel loro equipaggiamento, che è molto costoso. In tempo di pace, questo denaro sarebbe stato speso per i settori sociali. Ovunque vi siano gruppi armati, essi creano un ambiente propizio per lo sviluppo di un'economia criminale da cui traggono sostegno. Nel Sahel, i gruppi terroristici sfruttano il traffico trans-sahariano della droga, il contrabbando di carburante e di cibo, il traffico di armi. Inoltre, questi gruppi terroristici sono, non dimentichiamolo, propaggini dello Stato islamico (Isis) e di Al-Qaeda e quindi ricevono finanziamenti da queste organizzazioni, presumibilmente dalle loro roccaforti in Libia”. Perché i gruppi jihadisti proliferano nel Sahel, quali sono le condizioni che li favoriscono? “I cambiamenti climatici hanno modificato l'economia pastorale nel Sahel. Il fatto che i giovani di alcune comunità pastorali abbiano una moto e un kalashnikov e possano mangiare meglio è vissuto come una vera e propria emancipazione sociale. Questo spiega il gran numero di reclutamenti all'interno di queste comunità. Anche le vittorie relativamente facili sugli eserciti statali contribuiscono ad accrescere il potere di attrazione sui giovani da parte dei gruppi terroristici. A queste motivazioni va aggiunto il fatto che questi giovani sono analfabeti e possono facilmente cedere alla promessa del paradiso dopo il martirio”. Quanto teme Boko Haram nella regione del Lago Ciad? “Boko Haram è molto indebolito, è diventato un gruppo più di tipo criminale, almeno in Niger. Questo vale anche per gli altri tre Paesi del bacino del Lago Ciad: Nigeria, Ciad e Camerun. La Forza congiunta multinazionale (Multinational Joint Task Force, Mjtf) compie sforzi di coordinamento su larga scala, più o meno ben organizzati a seconda della situazione, per combatterli”. Quali sono le conseguenze in Sahel della fine dell'operazione “Barkhane”, guidata dai francesi, in Mali? “Negli ultimi tempi, in Mali, si è verificata una recrudescenza dell'insicurezza nelle regioni di Gao e Menaka. In particolare nella regione di Menaka, dalla fine di marzo, la situazione è peggiorata e il gruppo terroristico Isgs (Stato islamico del Grande Sahara) ha commesso crimini su larga scala che hanno fatto migliaia di sfollati, molti dei quali si sono rifugiati in Niger. I terroristi hanno rubato migliaia e migliaia di capi di bestiame, lasciando così la popolazione in una situazione umanitaria drammatica. E la violenza è lungi dal placarsi. Personalmente temo che la situazione che ho appena descritto non sia estranea al ritiro dell'operazione “Barkhane” dal nord-est del Mali”. Qual è l'impatto della presenza dei mercenari russi della Brigata Wagner in Mali e che lettura dà delle manifestazioni popolari filorusse in Mali e Burkina Faso? “Dietro questa “domanda” di Russia nei Paesi saheliani afflitti dalla violenza terroristica, che si traduce poi nella presenza di bandiere russe nelle manifestazioni di piazza, deve esserci un business di influenza. La Russia è un Paese assente in Niger: non c'è un'ambasciata, né un progetto, né una presenza culturale o mediatica. Tuttavia, ogni volta che c'è una manifestazione della società civile, si vede qualche bandiera russa sventolata da persone che spuntano dal nulla. È un'osservazione basata sui fatti, senza esprimere il minimo giudizio nei confronti della Russia, con la quale il Niger ha relazioni molto amichevoli”. In Niger c'è una presenza significativa di truppe europee, con l'Italia in prima linea: quali sono le sue prospettive? “I soldati europei presenti in Niger, ad eccezione di quelli francesi, sono qui in base ad accordi che mirano principalmente a fornire addestramento per le forze speciali di cui il nostro esercito ha grande bisogno nella lotta al terrorismo. Le forze italiane stanno facendo un lavoro eccellente che è molto apprezzato dal nostro esercito”. In Niger una grande percentuale di ragazze si sposa prima di raggiungere la maggiore età, e ciò ha un impatto significativo sul tasso di natalità: come invertire questa tendenza? “Il nostro piano si basa sulla modernizzazione del sistema educativo. Abbiamo un programma che consiste nella costruzione di collegi femminili annessi alle scuole di campagna, da cui le bambine sono tradizionalmente escluse in tenera età. L'obiettivo è creare un ambiente protetto che permetta loro di continuare a frequentare la scuola. Una ragazza che termina la scuola secondaria raggiunge i 18 anni ed è quindi protetta da una media di due gravidanze precoci, altrimenti le ragazzine sono spesso costrette a matrimoni molto precoci”. Cina, Turchia e Russia sono sempre più influenti in Africa. Avviene anche in Niger? “Cina e Turchia sono presenti con aziende che investono in Niger, a differenza delle aziende europee che ritengono che i nostri Paesi non offrano loro l'indispensabile contesto di sicurezza legale e di sicurezza in senso generale di cui hanno bisogno. In questo, gli europei si sbagliano completamente”. Alcuni esperti ritengono che il Sahel abbia un grande potenziale di energie rinnovabili. È d'accordo? “Sì, il Niger dispone di grandi quantità di acque sotterranee con un tasso di soleggiamento molto elevato. Ma questo non è sufficiente. Il sistema finanziario internazionale funziona in modo tale che non avremo mai accesso ai capitali necessari per gli investimenti nelle energie rinnovabili. Le attuali condizioni del credito sono un ostacolo importante per questi investimenti. È di conseguenza improbabile che vengano attuate le cosiddette misure di adattamento. Come si vede, la battaglia sul cambiamento climatico è tutt'altro che conclusa”. Migranti in marcia verso la frontiera Usa, come e più di prima di Andrea Cegna Il Manifesto, 2 dicembre 2022 Il flop delle politiche di Trump e Biden per arginare i flussi dal centroamerica. A Tegucigalpa, San Salvador, San Pedro Sula o a Città del Guatemala si vedono, per le vie del centro e delle zone “per turisti”, centinaia di venezuelani e venezuelane chiedere supporto per raggiungere gli Stati uniti. È così da quando a metà ottobre l’amministrazione Biden ha cambiato le regole migratorie decidendo di concedere a chi viene dal paese governato da Maduro 24mila visti d’ingresso, per lo più a chi arriva in aereo o chi ha già parenti nel territorio. È un numero risibile se si pensa che tra ottobre 2021 e la fine di quest’agosto 150mila persone con il passaporto del Venezuela sono state arrestate al confine tra Messico e Stati Uniti. La misura non ha avuto il risultato di ridurre il flusso di migranti: secondo i dati diffusi dal National Migration Service di Panama, nel 2022 sono già 211.355 i migranti che hanno attraversato il Paese diretti negli Usa, 59.773 solo lo scorso ottobre. Quasi tutti hanno passaporto venezuelano, ecuadoriano o haitiano. Ben 10.918 erano minorenni, ovvero il 18%, come denuncia l’Unicef. A questo va aggiunto che la situazione socio-economica del Nicaragua, irrigidita dalle nuove sanzioni Usa, sta aprendo le porte a un nuovo flusso migrante. Non è un mistero che proprio dal Nicaragua inizi, spesso, il viaggio migratorio di cubani e cubane. Nel 2022 le pattuglie di frontiera statunitensi hanno fermato 2.766.582 persone. Ai primi tre posti ci sono persone provenienti da Messico (757.860), Guatemala (217.541) e Honduras (200.286). Al quarto, quinto e sesto posto però troviamo Cuba (197.870), Venezuela (155.553) e Nicaragua (146,331). Sono numeri che dicono tre cose, la prima è che le politiche anti-migratorie di Trump e Biden non stanno facendo altro che accrescere il numero di migranti che cerca di viaggiare verso gli Usa; la seconda è che l’impoverimento e la mancanza di sicurezza (fenomeni spesso accresciuti dall’imposizione del neoliberismo negli anni 70’-80? o con il rimpatrio dei pandilleros detenuti negli Usa), generano disperazione e violenza e così aumentano le persone disposte a rischiare la vita per migrare; la terza è che nonostante le pressioni su Guatemala e Messico e la militarizzazione della risposta dei due paesi per bloccare i migranti, nonostante i controlli serrati ai confini meridionali statunitensi, la porosità delle frontiere rende impossibile fermare il flusso migratorio. Martedì 15 novembre il giudice federale Usa, Emmet Sullivan, ha bloccato il “titolo 42”, la norma con cui gli Stati uniti hanno espulso rapidamente migranti privi di documenti usando a pretesto la pandemia. Nella sentenza la norma è stata descritta come “arbitraria e capricciosa”. L’articolo 42 è stato scritto, votato e applicato nel 2020 durante l’amministrazione Trump ma è stato mantenuto dal governo Biden. È la norma che ha permesso di rimandare in Messico, per motivi sanitari e senza processo, oltre 2 milioni di persone. Una norma d’emergenza, che ha solo moltiplicato i tentativi di attraversamento della frontiera. Guardando alle recenti scelte in tema di pollitiche migratorie, pare stravagante la scelta dell’amministrazione Usa di legare alla sola migrazione venezuelana una normativa numerica precisa e stringente, mentre, per esempio, non solo non si è mai praticamente applicato l’articolo 42 a chi con passaporto del Nicaragua è stato fermato al confine, ma è anche stato permesso loro di fare richiesta d’asilo negli Usa dopo il fermo. Scelte che alimentano e rompono al tempo stesso la semplicistica narrazione secondo cui le politiche Usa avrebbero un occhio di riguardo per chi scappa da “paesi nemici”. con il fine politico di destabilizzarne i governi. “Gli studenti cinesi sono un vulcano pronto a esplodere” di Fausto Della Porta Il Domani, 2 dicembre 2022 I funerali di Jiang Zemin, l’ex segretario del Partito comunista cinese morto l’altro ieri all’età di 96 anni, dovrebbero svolgersi martedì 6 dicembre nella Grande sala del popolo di Pechino. A Shanghai - che godette di particolari attenzioni e ingenti finanziamenti durante l’era Jiang (1989-2022) - in questi giorni di lutto potrebbero esplodere nuove proteste, dopo quelle dello scorso fine settimana contro la politica “contagi zero” e il presidente Xi Jinping. Come altre metropoli della Cina, Shanghai è militarizzata: le aree centrali sono presidiate giorno e notte da centinaia di poliziotti, mentre le università ordinano agli studenti di lasciare i campus, ufficialmente per limitare la diffusione dei contagi, in aumento in tutto il paese. Sun Chunlan, la vicepremier delegata a coordinare la risposta all’epidemia, ha aperto a un cambiamento dell’inflessibile politica fin qui seguita. “Stiamo affrontando una nuova situazione e nuovi compiti man mano che la patogenicità del virus Omicron diminuisce, la vaccinazione diventa più diffusa e aumenta l’esperienza nella prevenzione e nei controlli”, ha dichiarato l’altro ieri Sun. Gli studenti hanno chiesto la fine della politica “contagi zero”. Il governo ricorre a ogni espediente nel tentativo di depotenziare la protesta. La tv di stato che trasmette i mondiali del Qatar non inquadra il pubblico per nascondere che nell’emirato non indossano mascherine. Migliaia di bot hanno inondato Twitter di contenuti relativi a prostitute, porno e scommesse con gli hashtag della protesta, in modo che chi cerca informazioni sulle manifestazioni si ritrova su ben altra strada. Nonostante ciò, Zhou Fengsuo ritiene che la rete sia il terreno della lotta, quello in cui gli studenti stanno prendendo coscienza e lo strumento grazie al quale metteranno in crisi il regime. Zhou è uno dei leader del movimento di piazza Tiananmen del 1989. Cresciuto in un sobborgo di Xi’an, nella primavera 1989 era all’università pechinese Tsinghua, dove promosse l’elezione diretta delle rappresentanze studentesche. Dopo la repressione del 4 giugno divenne il quinto studente più ricercato dalle autorità. Arrestato, fu rinchiuso per un anno nel carcere di massima sicurezza di Qincheng. In seguito riuscì a riparare negli Stati Uniti, dove oggi, a 55 anni, unisce al lavoro nella finanza l’attivismo per i diritti umani. Signor Zhou, si aspettava manifestazioni studentesche come quelle dello scorso fine settimana a Pechino, Shanghai e in altre metropoli cinesi? Che effetto le ha fatto rivedere gli studenti in piazza 33 anni dopo il movimento di Tiananmen? No, non mi ha sorpreso il fatto che ci siano state delle manifestazioni, ma è stupefacente la rapidità con cui si sono allargate. Dico “allargate” perché, a mio modo di vedere, le proteste che sabato e domenica hanno coinvolto migliaia di giovani rappresentano il seguito di ciò che è successo il 13 ottobre scorso, quando Peng Lifa è riuscito a esporre sul ponte Sitong di Pechino due striscioni di protesta (invitando con il megafono studenti e lavoratori a scioperare contro il “dittatore e traditore nazionale Xi Jinping”, ndr)... Quell’uomo ha dato il la alle manifestazioni e alle proteste studentesche degli ultimi giorni, che chiedono libertà invece della politica “contagi zero”, e libertà politiche. L’eco del suo gesto si è diffusa all’interno della Cina e all’estero. Come sopravvissuto di Tiananmen sono colpito e sono commosso per l’attaccamento alla libertà di questi giovani, che hanno lo stesso sogno di una Cina libera e democratica che io ho vissuto 33 anni fa a piazza Tiananmen. Una nuova generazione sta insorgendo in Cina. Quali differenze vede tra gli studenti cinesi che si battono per la democrazia nel 2022 e quelli della sua generazione? Penso che la differenza stia soprattutto nella tecnologia. Oggi tutto avviene attraverso internet. Twitter, Telegram, Instagram sono i luoghi attraverso i quali vengono scambiate le informazioni, si affermano le rivendicazioni, e nei quali vengono condivise le idee. Questa volta è una rivoluzione che si svolge nel cloud, si tratta di una modalità di protesta “decentralizzata”, molto diversa dalla nostra, che si esprimeva in una piazza fisica, piazza Tiananmen, dove noi ci ritrovavamo per discutere e lottare. Oggi la piazza è virtuale, è il cyberspazio. Cosa sanno dell’esperienza di lotta della vostra generazione gli studenti cinesi di oggi? Cosa hanno lasciato i ribelli del 1989 ai giovani che sono tornati a protestare? Ciò che successe a piazza Tiananmen è sempre stato fonte di ispirazione per i cinesi che amano la libertà, in particolare per i giovani. Conosco molti dei giovani che protestano sia online che fisicamente. Grazie a Telegram continuo a battermi per la democratizzazione della Cina e posso rappresentare un esempio per i giovani. Nei gruppi Telegram mi confronto con loro. Il mio compito è quello di condividere con loro una visione di una Cina democratica Sembra davvero difficile che possa aprirsi lo spazio per un movimento politico democratico in un paese il cui regime ha speso anni e cifre inimmaginabili per dotarsi dell’apparato repressivo più tecnologico e massiccio della storia dell’umanità... Penso che sia cambiato tutto. Prima di quest’ultima ondata di proteste la gente era profondamente pessimista, è per questo che Peng Lifa (il fisico quarantottenne che ha inscenato la protesta del 13 ottobre a Pechino, ndr) è stato così importante, perché è stato un esempio grandioso di ciò che, nonostante tutto, è possibile fare. Quell’uomo ha fatto tutto da solo, è stato capace di mettere in scena la sua spettacolare protesta a Pechino, nel cuore del potere politico della Cina, mentre Xi Jinping stava facendo un’importante riunione, c’erano la polizia, le telecamere, tutto l’apparato repressivo, eppure… Peng Lifa ha dimostrato che c’è sempre un modo per agire: se t’ingegni e hai cuore, puoi fare grandi cose. Allo stesso modo, adesso i giovani stanno cercando modalità clamorose di protesta; è ciò che abbiamo visto con quella che è stata chiamata la “rivoluzione dei fogli bianchi”: quella di mostrare i fogli bianchi per protestare contro la censura è una nuova idea, che è nata nel corso delle manifestazioni. Il partito comunista di Xi Jinping però rivendica ufficialmente la sua lotta per prevenire la diffusione in Cina di valori come la democrazia liberale e i diritti umani intesi come concetto universale... Credo che debba esserci una rivoluzione che cambi il modo di pensare delle persone. E questo sta già succedendo, soprattutto tra gli studenti cinesi, nelle comunità di giovani cinesi che studiano all’estero: molti di loro fino a qualche anno fa sostenevano il Partito comunista cinese, ma ora hanno cambiato completamente opinione, stanno prendendo il futuro nelle loro mani. È grazie al loro attivismo che Instagram, Telegram, Twitter sono diventate le piattaforme principali per la diffusione del pensiero libero. A partire da queste piattaforme, il pensiero libero viene trasferito nelle app cinesi mainstream come WeChat, Weibo, Douyin (gli attivisti cinesi utilizzano software Vpn per accedere all’internet globale e una varietà di “messaggi in codice” per diffondere idee che altrimenti verrebbero bloccate dalla censura, ndr). Quali tattiche potranno utilizzare gli studenti dopo le dimostrazioni dello scorso weekend? Non so, davvero. Ma ognuno deve trovare la sua strada. Credo comunque che vedremo un’escalation in futuro. Avranno bisogno di un po’ di tempo, ma troveranno un modo per continuare, perché è nella natura umana, è come la lava che scorre all’interno di un vulcano, che deve trovare una crepa per eruttare. Lei vive negli Stati Uniti da decenni, qual è la sua opinione sulla politica dell’amministrazione Biden nei confronti della Cina? Non credo che l’amministrazione Biden abbia fatto abbastanza. Anche se nel rapporto con la Cina hanno cambiato politica, nel modo giusto rispetto all’amministrazione Trump. Io riconosco a Biden soprattutto il merito di aver varato la legge sui semiconduttori, che è un provvedimento del quale avevamo bisogno, perché deve esserci trasparenza nell’operato di chi investe in Cina, che deve esserne responsabile. Per quello che mi riguarda direttamente, ovvero il mio desiderio di una Cina libera e democratica, negli ultimi 33 anni gli Stati Uniti si sono limitati soprattutto a degli appelli. Gli Stati Uniti devono mettere la democratizzazione della Cina al centro della loro politica nei confronti della Cina.