In semi-libertà anche di notte, l’eccezione diventi buona regola di Martino Liva Avvenire, 29 dicembre 2022 In questi giorni di Natale e di feste di fine anno, ricchi di doni e tavole imbandite, un gruppo di persone ha scelto di non sedersi a degustare le prelibatezze di stagione. Sono i Garanti dei detenuti, guidati dal loro portavoce nazionale, Stefano Anastasia, garante della Regione Lazio. Uno sciopero della fame a staffetta, per sfidare il Governo su un tema specifico, che difficilmente lascia indifferenti e, ancor meno, può essere derubricato a questione di nicchia. Di che si tratta? Tra due giorni, il 31 dicembre, scadrà una norma transitoria, figlia della legislazione del periodo del Covid-19, che ha consentito a circa 700 persone detenute, in regime di semi-libertà, di passare più di due anni al lavoro fuori dal carcere. La pena alternativa della semi-libertà, infatti, prevedrebbe che la persona detenuta sia durante il giorno al lavoro, fuori dalle mura carcerarie e la sera rientri in cella, per la notte. Con l’arrivo del Covid-19 e il rischio di contagi, i “semi-liberi” beneficiari della norma transitoria, sono rimasti fuori, anche la notte. Per due anni. Dando buona prova di reinserimento in società: salvo casi eccezionali, in cui la licenza straordinaria non è stata rinnovata o è stata revocata, il comportamento registrato è stato irreprensibile. Ora, passato il Covid-19, scade la norma transitoria. Qui incomincia la sfida dei Garanti, iniziata dopo che il Senato ha bocciato alcune settimane fa un emendamento del Senatore Giorgis per prorogare la norma. L’ultima occasione è il cosiddetto Decreto Milleproroghe, che il Governo ha approvato subito dopo Natale, prima dei titoli di coda del 2022, come ogni anno. Il testo c’è questa proroga no, ma si può rimediare. È ovviamente ammessa l’obiezione: era una norma transitoria, è scaduta, nulla di strano nel tornare al regime ordinario. Ma qui sorge la contro-obiezione, che muove i Garanti a digiuno e, con loro, tutti coloro che credono nel valore rieducativo della pena previsto dalla Costituzione. Si fonda sulla concretizzazione di tale principio costituzionale che la Consulta ha insegnato sin dagli anni Ottanta del Novecento. Richiedendo un continuo “adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti, in termini di uguaglianza e/o differenziazione di trattamento” (Sentenza 50/1980). Dando colore al principio di proporzionalità delle pene inflitte, che rende possibile un loro “adeguamento individualizzato”. Avanzando il concetto di “progressività trattamentale” e quello della pena come “strumento dinamicamente volto ad assicurare la funzione rieducativa” (Sentenza 445/1997). Ma a quale a rieducazione punta uno Stato che, dopo aver messo alla prova delle persone detenute con una licenza temporanea figlia della pandemia, ora, senza colpo ferire, fa scadere la deroga in assenza di fattori di rischio? E, peraltro, rioccupa dei posti letto in carceri già notoriamente sovraffollate? Si tratta di circa 700 persone. Hanno beneficiato di un percorso di reinserimento accelerato da una circostanza eccezionale. Non c’è motivo di sbarrare il loro cammino e di costringerli a rientrare in cella proprio la notte di San Silvestro, ma semmai di rallegrarsene, respingendo ogni idea di regressione nell’applicazione della pena, se non ci sono elementi di fatto che la giustificano. Oggi, poi, che il Ministero della Giustizia è guidato da Carlo Nordio, un competente ex magistrato, dedicatosi una vita al diritto penale, già a disagio per la situazione delle nostre carceri, il permanere della svista nel Milleproroghe avrebbe un gusto amaro. Assaporabile, paradossalmente, anche da chi, in questi giorni, ha saltato il panettone. I ragazzi in carcere? Un errore di Don Antonio Mazzi Corriere della Sera, 29 dicembre 2022 Il sistema penitenziario minorile non è il metodo migliore da attivare per i ragazzi che sbagliano. Non vorrei collegare le mie riflessioni a seguito dei fatti successi al Beccaria. Da tempi vado dicendo che il sistema penitenziario minorile non è il metodo migliore da attivare per i ragazzi che sbagliano. Evito con attenzione le parole: pena, colpa, crimine, cioè tutto quel tipo di vocabolario da sempre usato per nascondere la voglia di affrontare seriamente una situazione così importante, delicata, culturale, sociale, educativa e adolescenziale. Certamente i fatti che vediamo e sentiamo manifestano irregolarità e afasia di coscienza. Credo, comunque, che si debbano attivare, cercare e scovare con particolare attenzione strutture intermedie e già in parte esistenti che hanno educatori e metodologie che non hanno nulla a che vedere con le “recinzioni” penali. Le storie di quasi tutti questi giovani risentono di infanzie di povertà, di ambienti, di trapianti e di sofferenze che vanno capite, ascoltate, interpretate e solo dopo risolte senza la fretta, la superficialità e la supponenza di tante persone che tengono sul tavolo queste carte trasudanti di tragedie umane. Più di un ragazzo è arrivato nelle mie comunità dopo aver attraversato parecchie carceri, anche minorili, e sono fermamente convito che se fosse arrivato prima avrebbe guadagnato molto, ma molto di più. Non voglio riferirmi a tutti e non voglio parlare di miracoli, solo cito casi che mi tengo dentro, con nome e cognome. Non ho nessun interesse nel raccontare favole e tantomeno ho voglia di esagerare. Parlano quarant’anni di vita e non un giorno. Nelle strutture carcerarie c’è la corsa a chi è più mafioso e la sa più lunga di tanti altri, soprattutto se novizi. Non mi pare tanto educativo giocare a chi si merita la medaglia di eroe, perché conosce molto bene i giochini possibili e impossibili. Non credo, inoltre, che non dipenda del tutto dai lavori finiti o da finire, dall’ambiente più o meno carino e dalla quantità e qualità delle guardie e degli educatori. Create certe strutture, le conseguenze sono già preannunciate. A credere alle carceri-modello faccio tanta fatica, come faccio fatica a credere ai quartieri dove nascono ottimi giovani. Certe strutture, una volta nate, hanno già gli effetti consequenziali. Smettiamo di prenderci in giro e di far gare per chi racconta prima i misfatti. Forse educare è più difficile che punire, anche se io, da quarant0tt’anni sulla breccia, posso testimoniare che ogni volta che ho scelto la punizione ho ottenuto meno risultati di quando ho tentato di inventare attività educative. Per farvi ridere, le nostre punizioni sono togliere le dieci sigarette giornaliere! Tornando alle attività rieducative, noi di Exodus abbiamo, diversamente da altri, le Carovane. Siamo nati nel 1984 con una carovana durata nove mesi, con quattordici ragazzi tolti dal Parco Lambro di Milano. Da allora, ogni anno, ogni comunità deve fare una carovana di almeno un mese. Li chiamiamo “cammini educativi”, faticosi, senza regolette da vecchie comunità, senza alimentazioni particolari e senza attrezzature raffinate. È un’avventura che fa sia chi è in comunità da un anno, come chi è in comunità da una settimana. È il periodo più efficace e migliore dell’intero anno. Forse quelli del Beccaria se l’avessero fatta, non sarebbero caduti in un’azione così infantile e inutile. Vogliamo rischiare? Trovare una decina di comunità disponibili e preparate per accogliere questi ragazzi delle carceri minorili in gruppetti di tre, non di più? I fuggitivi dal “Beccaria” e il dovere di accogliere e formare al lavoro di Luigi Patronaggio* Avvenire, 29 dicembre 2022 Nulla so dei sette minorenni fuggiti dal carcere “Beccaria” a Milano e nulla so dei delitti di cui gli stessi devono rispondere e tuttavia queste due circostanze sono assolutamente ininfluenti rispetto al ragionamento che voglio sviluppare come padre e come magistrato. So infatti nella mia duplice veste di quanta immaturità e fragilità vi sia in un adolescente e so allo stesso modo come la via del crimine sia fatta di solitudine, povertà economica e di affetti, di mancanza di valori e di esempi da seguire, di assenza di vita sociale all’interno di una vera comunità dove si respiri solidarietà ed amicizia. So ancora che la punizione è solo una, e forse la meno importante, delle modalità della rieducazione. Ma so anche che l’ascolto, la guida nella crescita, la formazione e l’offerta di una occasione sono metodi di rieducazione sicuramente più complessi della repressione eppure assolutamente più efficaci. E so ancora che è facile e poco costoso costruire gabbie - specie se invivibili - mentre è molto più dispendioso costruire scuole e formare educatori e psicologi. Allo stesso modo so che dalla gabbia esce un cane più rabbioso e incattivito di prima mentre da una buona scuola e da una comunità di accoglienza esce un uomo e un cittadino con una minore propensione a delinquere e una maggiore voglia di provarsi nel lavoro. Ho infine la certezza che fra le tante strade che il legislatore e il giurista possono tracciare ve n’è una che non può fare a meno di tre concetti guida: accoglienza, formazione e lavoro. Ma per accogliere occorrono psicologi, per formare occorrono educatori e per offrire lavoro occorre incentivare i datori di lavoro, garantendo loro la sicurezza dell’investimento. Che in questo nuovo anno si cominci quindi a parlare del carcere con occhi e criteri nuovi, reprimendo dove non c’è altra alternativa alla sicurezza sociale, ma investendo tutte le energie economiche e intellettuali possibili per far sì che le carceri, e soprattutto le strutture dedicate ai minorenni, diventino luogo di crescita che, alla fine del disegnato percorso educativo, consegnino alla società un uomo con la sua dignità di cittadino e di lavoratore. E ciò al netto del rispetto che è dovuto alle varie energie, poliziotti e operatori penitenziari vari, che attualmente si prodigano in situazioni difficili, e talvolta pericolose, con carenza di organici e mezzi. *Magistrato Dalle prigioni alle comunità: il sistema penale per i minorenni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 dicembre 2022 Il sistema giudiziario sembra aver imboccato il superamento della detenzione come risposta alla devianza giovanile. Lo dimostrano i dati del rapporto “Ragazzi dentro” di Antigone. “Il Beccaria non sembra più l’istituto penale minorile modello che era stato in passato”. Così scrisse in tempi non sospetti l’associazione Antigone, mettendo già in guardia le autorità competenti sulla situazione tesa e precaria dell’istituto di Milano. Che ora è da giorni al centro della cronaca per l’evasione di Natale da parte dei sette ragazzi. Quattro di loro sono stati già ripresi. Ma la punizione già è arrivata nei confronti di undici giovani che il giorno di Natale si sono ribellati contro un permesso natalizio prima concesso e poi vietato, dando fuoco a materassi e suppellettili: sono stati trasferiti in sei carceri diverse del Sud Italia. Due di loro sono finiti a Catania, e gli altri sono stati distribuiti tra gli istituti minorili di Bari, Catanzaro, Potenza, Palermo e Caltanissetta. Almeno un giovane sarebbe finito nel carcere per gli adulti. Una punizione che fa regredire il senso della pena. Molti di loro sono più che ventenni, i cosiddetti “giovani adulti”, quelli che hanno commesso il reato da minorenni. Adulti nella teoria. L’adolescenza di oggi si è dilatata e va oltre i vent’anni. Tra i sette ragazzi evasi, invece, si contano due 18enni, un 19enne e quattro 17enni: quattro sono italiani, due di origine nordafricana, uno è nato in Ecuador. Nel processo di transizione verso l’età adulta entrano in gioco e interagiscono tra loro fattori di natura biologica, psicologica e sociale. Un momento difficile, e diventa ancora più problematico per chi vive in contesti ambientali non favorevoli. La cosiddetta “devianza” giovanile entra in gioco in questo momento. Non a caso il carcere minorile non dovrebbe avere più senso, e dal Partito radicale all’associazione Antigone ne chiedono il suo superamento. Lo stesso ex cappellano del carcere minorile di Milano Beccaria, don Gino Rigoldi, ha spiegato che quei ragazzi evasi non dovevano stare reclusi a Natale e neppure prima. Di fatto, è lo stesso sistema giudiziario che sembra aver imboccato la strada del superamento della detenzione come strumento di intervento contro la delinquenza dei giovani. Gli ultimi dati del rapporto “Ragazzi dentro” di Antigone ci aiutano a capirlo: in Italia sono appena 316 i minori e i giovani adulti (fino a 25 anni) detenuti in 17 strutture. Di questi, 8 sono ragazze, 140 stranieri, 131 davvero “minori”, 128 hanno dai 18 ai 20 anni e 57 dai 21 ai 24. I detenuti, nel complesso, risultano appena il 2,3 per cento del totale dei 13.611 giovani che, a diverso titolo, hanno a che fare con la giustizia penale minorile. Altri (oltre 1.500) vengono accolti in una delle 637 comunità che garantiscono una risposta diversa dal carcere, e oltre tremila usufruiscono della “messa alla prova” con cui il giudice ferma il processo e stabilisce un periodo in cui il giovane deve comportarsi bene e impegnarsi in attività di volontariato. Alla fine, se la valutazione è positiva, il reato viene del tutto cancellato. La “messa alla prova” rappresenta ormai circa il 20 per cento delle decisioni prese in procedimenti che riguardano i giovani. Anche il numero di 316 detenuti è frutto di un continuo calo che inizia e rimane costante dai primi anni Duemila. Prima del Covid i detenuti erano 375. Gli altri giovani arrestati usufruiscono spesso di sospensioni condizionali della pena o la scontano ai domiciliari o vengono assolti. Ma l’allarme sociale della criminalità giovanile esiste? Se da una parte le bande giovanili, o baby gang, sono una realtà in aumento in Italia, originata prevalentemente da situazioni di disagio familiare o sociale e da mancata integrazione piuttosto che da legami con la criminalità, dall’altra i numeri ci dicono che i reati commessi dai giovani sono in continuo e netto calo: nel 2016 furono arrestati 34.366 minorenni; nel 2020 se ne contarono 26.271. Una diminuzione che non deriva (se non in parte) dal fattore Covid. Già nel 2019, infatti, Antigone ha rivelato che gli arresti erano scesi del 15% rispetto al 2016, stabilizzandosi sotto quota trentamila. L’evasione dal carcere minorile Beccaria di Milano rischia però di creare risposte sbagliate. Da una parte c’è il guardasigilli Nordio che ha promesso l’invio di più educatori e di un direttore in pianta stabile, osservando che bisogna focalizzarsi sulla prevenzione; dall’altra il sottosegretario Andrea Ostellari ha colto l’occasione per rilanciare la vecchia proposta di limitare a 21 anni (al posto dei 25 attuali) l’età dei detenuti che possono scontare la pena negli Ipm, gli Istituti penali minorili. Una proposta, quest’ultima, che costituirebbe un passo indietro. I reati commessi da minorenni non posso essere equiparati a quelli commessi in età adulta. Non è un caso che il fenomeno delle baby gang viene studiato attraverso un parametro diverso rispetto alla criminalità degli adulti. Ci viene in aiuto un recente studio dal nome “Le gang giovanili in Italia”, una mappatura a livello nazionale del fenomeno elaborata da Transcrime, il centro di ricerca interuniversitario sulla criminalità transnazionale delle università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Alma Mater Studiorum di Bologna e di Perugia. Si apprende così che il “modello” più diffuso sui territori è quello caratterizzato dalla mancanza di organizzazione verticistica, composto in maggioranza da ragazzi minorenni italiani tra i 15 e i 17 anni, che infieriscono su coetanei. Più diffuso nel centro-Nord è invece un terzo tipo di banda giovanile che si ispira a gang criminali estere, composto prevalentemente da ragazzi stranieri, di prima o seconda generazione, non integrati a livello sociale. L’ultimo tipo di baby gang mappato è quello diffuso nelle aree urbane, caratterizzato da una struttura definita e dalla gravità dei reati commessi, pur non avendo legami con la criminalità. La risposta delle istituzioni denota la mancanza a oggi di un approccio specifico, mentre il quadro complessivo del fenomeno evidenzia, secondo il prefetto Vittorio Rizzi - direttore centrale della Polizia criminale che, tramite il Servizio analisi criminale, ha già dedicato diversi report alla devianza minorile - la necessità di un approccio integrato alla devianza di cui le baby- gang sono espressione, che tenga conto di molteplici aspetti: familiari, sociali, psicopatologici. “Un’efficace strategia di prevenzione della devianza giovanile - ha affermato il prefetto Rizzi nella prefazione allo studio - richiede la promozione, da parte di tutte le istituzioni coinvolte, di iniziative didattiche, sociali, culturali, sportive e religiose nonché di educazione alla legalità rivolte ai minori”, facendo rete per orientare i giovani verso altre “forme di impegno che esercitino una forza attrattiva, disinnescando contestualmente l’avvio di percorsi criminogeni”. In sostanza ci vuole un approccio preventivo, non le solite risposte securitarie che non fanno altro che aggravare il disagio. In aiuto ci viene anche un documento del Tribunale per i minorenni di Milano, in cui viene sottolineato che l’attività di prevenzione e ri- educazione resta cruciale per contrastare il fenomeno, con particolare attenzione a ciò che succede nel mondo del web. Si osserva, a questo proposito, che l’istituzione scolastica è un’agenzia privilegiata, in ragione della sua idoneità a formare le nuove generazioni alla cittadinanza digitale e a promuovere un corretto esercizio di diritti e doveri nello spazio di azione e di espressione di Internet. In sostanza serve una stretta sinergia fra scuole e famiglie e grande attenzione ad intercettare i primi segnali di disagio, intervenendo il più tempestivamente possibile. In questo, il ministro Nordio, è stato chiaro: ci vuole la creazione di un tavolo interministeriale che coinvolga tutte le istituzioni e il terzo settore, per continuare ad osservare in modo costante il fenomeno della devianza giovanile e individuare soluzioni efficaci anche in termini di prevenzione. Sempre che il resto del governo non si lasci sedurre da quell’unica, solita parola d’ordine: inasprire le punizioni. “Non è la cella la risposta per quei ragazzi del Beccaria” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 29 dicembre 2022 “Dare fiducia ai ragazzi non è buonismo, ma un investimento per il nostro futuro”. Parte da queste considerazioni la Garante per l’infanzia e l’adolescenza, Carla Garlatti. “La giustizia minorile in Italia è un’eccellenza in Europa. Lo dimostra il basso numero di persone minorenni in carcere. Ai ragazzi va data sempre una nuova occasione di riscatto. Dare fiducia e cercare di far uscire i ragazzi dalle situazioni di disagio, che li portano a commettere atti illeciti, non è buonismo, ma è un investimento per il nostro futuro”. Parte da queste considerazioni la Garante per l’infanzia e l’adolescenza, Carla Garlatti, nel commentare la fuga di sette detenuti del carcere minorile di Milano “Cesare Beccaria”. Dottoressa Garlatti, la fuga dal Beccaria è un segnale preoccupante anche per quanto riguarda la condizione carceraria minorile? Io credo che qualunque ragazzo, ma anche qualunque adulto in condizione di ristrettezza della libertà personale, sogni l’evasione come un gesto molto trasgressivo, ai limiti della bravata. Non credo che si debba attribuire, ricollegandoci ai fatti di Milano, un significato più ampio di quello che ha, vale a dire la bravata. Un elemento sul quale bisogna riflettere riguarda il perché dell’evasione e il motivo per cui i ragazzi evasi si trovavano in carcere. Vorrei ricordare che da noi il carcere è una misura residuale. Forse, dovrebbe diventare ancora più residuale, in quanto non è la risposta adatta a dei ragazzi in fase formativa e per i quali deve esserci una vera e propria rieducazione alla legalità. Ma, prima ancora, ci dovrebbe essere una attività di prevenzione che deve essere condotta in maniera adeguata nelle aree più a rischio. La fuga di Natale dal Beccaria ci induce a riflettere ulteriormente sul disagio giovanile. Quali misure si possono adottare per contrastarlo? Il disagio giovanile è caratterizzato da molti fattori. Per questo motivo il tavolo interministeriale proposto dal ministro Nordio è molto utile, dato che intende mettere insieme più istituzioni e il terzo settore. Il disagio minorile può avere delle matrici diverse che vanno affrontate tutte. La prevenzione è pertanto un aspetto fondamentale. Bisogna intervenire in quelle aree marginali in cui è necessaria una educazione prioritaria. Cosa suggerisce l’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza? Occorre, prima di ogni cosa, rendere la legalità più attrattiva della illegalità. Bisogna attrarre i giovani in luoghi di aggregazione, dove possano essere ascoltati, dove possano riscoprire la fiducia nei loro confronti da parte degli adulti. La legalità serve pure ad arginare il preoccupante fenomeno della dispersione scolastica, che del disagio minorile è una conseguenza frequente. I ragazzi vanno ascoltati e coinvolti in certe scelte. L’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza in più occasioni ha voluto portare un esempio: se si decide di costruire una palestra per attrarre dei giovani e toglierli da situazioni di marginalità, sarà utile coinvolgere chi saranno i diretti fruitori della palestra. Nel momento in cui i ragazzi vengono coinvolti si sentono partecipi di certe decisioni e le vivono in maniera più intima. Utilizzare strumenti alternativi nel caso di commissione dei reati da parte dei minorenni è anche un investimento nel futuro? Sicuramente. La giustizia riparativa, introdotta con la riforma Cartabia, realizza il momento in cui l’autore del reato e la vittima, in presenza di determinate condizioni, si incontrano. L’autore del reato in questo modo si rende effettivamente conto di ciò che ha fatto. Tante volte nei ragazzi manca la percezione dell’illiceità e del danno arrecato all’altro. La giustizia riparativa va in una direzione ben precisa: ha una capacità di evitare la reiterazione del reato. Non si tratta di buonismo. È un investimento nel futuro per ricollegarmi alla sua domanda. La stragrande maggioranza dei ragazzi sono recuperabili. Servono impegno e fatica. Le periferie e non solo sembrano sempre più abbandonate al loro destino. I minori sono anche in balia di esempi negativi? Gli esempi negativi ci sono e ci sono sempre stati. Un aspetto a mio parere fondamentale è avere fiducia nei ragazzi e ascoltarli. I ragazzi hanno molte cose da dire. È utile far capire che per loro un futuro c’è. Non devono sentirsi senza futuro e senza speranza. Il futuro li deve vedere protagonisti perché può essere costruito con le loro mani. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha annunciato un tavolo interministeriale per contrastare il disagio giovanile. L’unione fa la forza… È proprio così. Il disagio giovanile ha delle matrici diverse. Per questo deve essere affrontato a 360 gradi per individuare le origini e gli strumenti volti a fronteggiare il fenomeno. Tra le mie proposte c’è stata anche quella di pensare a pene alternative per i ragazzi. Pensare a pene completamente diverse potrebbe realizzare una giustizia minorile sempre più a misura di minore. Don Rigoldi: “In carcere non c’è più chi sa parlare ai ragazzi” di Eleonora Martini Il Manifesto, 29 dicembre 2022 Parla il cappellano del Beccaria, da cinquant’anni: “Non ci sono operatori adatti e mancano neuropsichiatri infantili. A Milano sono arrivati più di mille minori stranieri non accompagnati. In centinaia sono rimasti a vagabondare, senza casa né lavoro. Ovvio che, uno a uno, arrivino in istituto”. Al Beccaria è il tempo del silenzio. “Ora è tutto più tranquillo, che vuole, nei gruppi principali la metà sono stati trasferiti, sono rimasti in dieci laddove erano in venti. Quelli che hanno pochi mesi di pena residua dormono, non fanno molto altro. Adesso però spero solo di riuscire a convincere gli altri tre evasi a tornare indietro, in modo da evitare l’aggravamento di pena”. Don Gino Rigoldi, da cinquant’anni cappellano del carcere minorile milanese, e fondatore di una fondazione che si occupa soprattutto di minori, sembra solo amareggiato. È preoccupato per quei ragazzi che conosce uno a uno: i tre detenuti che ancora sono latitanti, e tutti gli altri che sono rimati o tornati dentro, nel carcere minorile di Milano o trasferiti al Sud chissà dove. Martedì è tornato in cella il quarto evaso. Era semplicemente in una piazza ad ascoltare musica con altri giovani: un atteggiamento molto adolescenziale. Qual è lo scopo di riportarlo in carcere, in quel tipo di carcere? Lo scopo? Beh nessuno, ha commesso un reato e ha avuto una condanna, ma per il resto… È un ragazzino modesto, mica un criminale incallito. Bisogna tenere presente una cosa: a Milano sono arrivati ultimamente più di mille ragazzi minori stranieri non accompagnati. In qualche centinaio non hanno trovato posto negli alloggi comunali e sono rimasti a vagabondare, senza casa né lavoro. Questi, uno dopo l’altro, arrivano tutti in carcere, ovviamente. Cosa devono fare? Il ragazzetto evaso e rintracciato martedì aveva commesso qualche furtarello, poi ha deciso di andare a sentire musica in piazza. Quindi non c’è stato un drammatico progetto di evasione, non hanno dietro una rete criminale che li sostiene. Adesso uno dopo l’altro chiederanno di tornare indietro, perché non sanno dove andare. La famiglia, quando c’è - perché molti non ce l’hanno - spinge perché ritornino. Al Beccaria non abbiamo mica grandi criminali. Le destre chiedono una controriforma sul carcere minorile: limite d’età a 21 anni; dopo in cella con gli adulti, secondo loro. Lei che ha dedicato la vita ai ragazzi di tante generazioni, ci spiega quando finisce l’adolescenza al giorno d’oggi? un’adolescenza molto, molto lunga. E lo sanno tutti. Anche perché si diventa grandi non perché passano i giorni ma perché qualcuno discute con te, esalta le tue competenze, ti insegna ciò che serve per dare a te stesso anche un nome un po’ più preciso… L’adolescente ha sempre l’impressione di non valere, di essere inadeguato, di non essere considerato a sufficienza. Mi pare che al giorno d’oggi i giovani debbano diventare grandi da soli, o con i social che è anche peggio. È assolutamente demenziale pensare che a 18 anni, o a 21, possano andare nel circuito penale per adulti. Lo sarebbe perfino per coloro che compiono il reato appena maggiorenni, ma addirittura pensare di trasferire un ragazzo che ha commesso un reato da minorenne - 16 o 17 anni, questa è l’età della maggior parte dei giovani che finiscono in un carcere minorile - prima che completi il trattamento iniziato con tanta fatica in un Ipm, è davvero una grande sciocchezza. Allora tanto vale chiuderli, questi istituti. Non avrebbe alcun senso tentare un progetto di vita con loro, peraltro in un Paese dove gli alloggi per l’autonomia sono pochi, il lavoro non c’è e le comunità chiudono. Il ministro Nordio dice che affronterà la questione della devianza giovanile con un tavolo interministeriale. Quale ministero dovrebbe fare di più, secondo lei? Quello dell’istruzione per esempio. Se vogliamo occuparci dei giovani dobbiamo andare dove stanno, è lì che dobbiamo mettere qualità. Dopo è troppo tardi. Sono tanti i ragazzi oggi con problemi psicologici e anche psichiatrici. E dunque bisogna mettere attenzione anche sulla salute mentale. In che modo? Intanto a livello universitario, facendo sì che la specializzazione di Neuropsichiatria infantile non abbia i numeri risicati che ha adesso. Noi abbiamo avuto un neuropsichiatra infantile per venti anni e con lui, che aveva passione e competenza, i casi psichiatrici erano crollati. Adesso noi abbiamo neuropsichiatri ma non infantili, e non è la stessa cosa. Poi bisognerebbe riuscire ad avere comunità terapeutiche molto miste, integrate: un po’ dentro e un po’ fuori. Come quella di un mio amico che mette i ragazzi problematici continuamente a contatto - con partite di pallone e altro - con coetanei del quartiere. In questo modo, mentre vengono trattati, i ragazzi problematici iniziano ad abituarsi ad una normalità che non conoscono. La classica clinica messa in collina dove tutti sono vestiti di bianco e somministrano gocce non va bene per un adolescente. Un concetto che dovrebbe valere anche per le carceri, o no? Tanto più per un minorile. Vede, uno dei problemi più scottanti in questo campo è che le comunità stanno chiudendo perché non riescono a “tenere botta” a questo tipo di ragazzi che arrivano, perché fanno fatica a trovare educatori. C’è bisogno di ricambi, ma non persone qualunque: c’è bisogno di personale esperto e preparato, che abbia competenze e passione. Oggettivamente, abbiamo operatori appena laureati ma le persone che riescano ad avere autorevolezza e sappiano gestire questo tipo di ragazzi sono molto rare. Cosa manca: i muscoli o la capacità psicologica? Manca l’empatia. E quando manca, la relazione viene sostituita dal regolamento. E se c’è una cosa che viene presa come una sfida da affrontare, da parte di un adolescente, è il regolamento. Un conto è avere una relazione nella quale si discute, si litiga, ci si dà anche uno schiaffo e poi ci si abbraccia, e un conto è usare il regolamento. Che poi è un problema che abbiamo anche al Beccaria: lì chi sta più con i ragazzi sono gli agenti di polizia penitenziaria. Quando sono arrivato 50 anni fa, i padri di famiglia erano gli agenti di 40/50 anni. E non c’era dubbio che fossero dei punti di riferimento. Oggi abbiamo dei capigruppo di 23/25 anni, che si spaventano e non sanno come affrontare certe situazioni. E poi rimangono molto poco, c’è un grande turn over. Cosicché ogni volta bisogna ricominciare da capo e non si riesce a stabilire alcune relazione significativa. È quello che avviene a livello governativo, dai rave alle baby gang. Alla devianza o esuberanza giovanile si risponde con la sola repressione. Senile. È d’accordo? Sì, sì, ci ho pensato anche io l’altro giorno quando ho risentito del daspo ai ragazzini di San Siro. Ma come si fa a impedire loro di andare a piazza Selinunte? Ma perché non vanno a vedere come don Claudio Burgio, che è il sacerdote che sta con me al Beccaria, con tre locali ha trasformato certe baby gang in ragazzini che giocano con lui a pallone. Ma a chi vengono in mente certe pensate? Non mi sembrano idee così brillanti. Il cappellano del Beccaria: “Bisogna dare un senso al tempo che i ragazzi vivono in carcere” di Roberto Zichittella Famiglia Cristiana, 29 dicembre 2022 “Se i minori vengono abbandonati a sé stessi, è chiaro che appena possono evadono. Nella mia comunità le porte sono aperte ma nessuno fugge. Mancano fuori e dentro gli istituti di pena figure di educatori. Spero che il Governo intervenga”. Don Claudio Burgio, 53 anni, è il cappellano del carcere minorile “Beccaria” di Milano, dal quale, il giorno di Natale, sono evasi sette detenuti. Don Claudio è anche il responsabile della comunità Kayros che si occupa di minori in difficoltà. Don Claudio, quali sono le ultime notizie dal “Beccaria”? “Ieri sera è stato preso un quarto ragazzo evaso, quindi tre ragazzi mancano ancora all’appello. Sempre ieri nove ragazzi sono stati trasferiti a Bari, e altri saranno ulteriormente smistati su altre carceri italiane del Sud”. Si trasferiscono i ragazzi per allentare la tensione? “È chiaro che che il ‘Beccaria’ in questo momento è molto in affanno per molti motivi, come l’assenza di personale. Ma i cappellani segnalano che ci sono problemi in altri carceri minorili, a Bologna, a Roma, in Sicilia. Ci sono diversi problemi di contenimento di questi ragazzi. C’è una situazione di forte tensione che si respira in tutte le carceri”. Da dove nasce questo disagio diffuso? “Per almeno due motivi. Il primo è il fatto che chiaramente mancano le risorse per il personale e per sostenere le proposte formative, quindi i ragazzi quando passano troppo tempo nelle celle in una sorta di abbandono, non vivono il tempo del carcere come un tempo che possa preludere una vera libertà, a un cambiamento della personalità. Il secondo motivo è che all’interno del carcere, essendo l’estrema ratio, arrivano ragazzi sofferenti dal punto di vista psichico, consumatori di sostanze, quindi ragazzi molto irrequieti, difficili da gestire. In questo periodo mancano presidi di accompagnamento, aiuto e sostegno dal punto di vista medico e neuropsichiatrco. Direi che il Beccaria, come altre realtà penitenziarie minorili, vive l’assenza importante di tutte queste figure. Manca ad esempio un mediatore linguistico e culturale. Uno dei ragazzi evasi è un minore straniero non accompagnato e come tale un ragazzo che ancora non parla bene la lingua italiana, non capisce dove è, quindi è ovvio che se mancano figure che possano fra comprendere al ragazzo che cosa sta avvenendo, al primo buco nella struttura, quel ragazzo si infila ed evade. Fra l’altro si tratta di un ragazzo che aveva mostrato grande educazione e grande impegno”. Le comunità esterne al carcere, come la sua Kayros, possono essere di aiuto? “Ci sono ragazzi che attendono da molto tempo di essere inseriti nelle comunità. Ma qui al nord, e questo è un atro gravissimo problema di cui si parla poco, le comunità sono in chiusura per l’impossibilità di reperire educatori. Molti educatori si rivolgono ad altre attività, nessuno vuole farlo in comunità”. Quindi manca accanto ai ragazzi la presenza di figure adulte? “Sì. il primo problema parte fuori dal carcere, molti di questi ragazzi sono in carcere perché sono rientrati dalle comunità. Se le comunità fuori, fondamentali per la giustizia minorile, non funzionano o chiudono, non riescono comunque a contenere questi ragazzi e a dar loro prospettive concrete di vita buona, è chiaro che questi ragazzi ritornano a delinquere e ritornano al Beccaria. Quando entrano per una seconda o terza volta questi ragazzi hanno uno sguardo disperato, non hanno più niente da perdere”. Nella sua comunità come va? “Io ho 50 ragazzi, non ho gli agenti di polizia penitenziaria, ho i cancelli aperti giorno e notte, eppure non scappa nessuno. Sono comunque adolescenti e magari fanno piccole trasgressioni, ma dove c’è una proposta seria di di formazione, di vita bella comunitaria, i ragazzi non hanno necessità di scappare”. Quindi la soluzione al disagio dei giovani detenuti è dare prospettive credibili? “Se il carcere rimane solo una struttura di reclusione è chiaro che da una parte non corrisponde al dettato costituzionale, perché non c’è nessuna rieducazione, poi alimenta in questi ragazzi un’identità criminale. Quindi in un momento dell’adolescenza in cui uno forma una propria identità, c’è il rischio che lo stigma del carcere alla fine alimenti questa immagine di sé da criminale che in qualche modo si cristallizza e porta a molte recidive, all’impossibilità di uscire dal circuito penale”. La vicenda di questi giorni, questa attenzione sul “Beccaria”, potrà favorire la soluzione di qualche problema? “I problemi da risolvere sono profondi, ci vorrà molto tempo, non colpevolizzo nessuno. Ma vedo il rischio che l’istituto minorile rischi di essere minore in tutti i sensi. Confido che il ministero della Giustizia, che conosce la situazione, apra delle prospettive concrete. Ora attendiamo almeno la fine dei lavori di ristrutturazione a maggio (ci sono lavori che si protraggono da vent’anni e questo provoca continui trasferimenti di ragazzi). C’è poi la promessa di avere finalmente entro settembre un direttore stabile per questo istituto che per anni era considerato un modello”. Le carceri minorili sono da abolire? di Enzo Sossi* elbareport.it, 29 dicembre 2022 Una provocazione. In Italia ci sono 17 carceri minorili con 391 detenuti di cui 10 donne minorenni. Facendo di conto circa 23 per istituto, a Bari sono in 8. Forse quanto avvenuto al Beccaria di Milano in questi giorni delle festività natalizie dovrebbe permettere un dibattito alla società civile per ragionare e discutere la funzione del carcere minorile nel XXI secolo. Viviamo nell’era della modernizzazione, della rivoluzione tecnologica, dei social media, di internet, dello smartphone, della videosorveglianza, dell’intelligenza artificiale (AI), dei robot, degli algoritmi, dei droni, dei braccialetti elettronici, dei GPS. In tale contesto il carcere appare come un’istituzione totalizzante forse obsoleta, forse da rivedere, forse da riformare. Diventa difficile solo immaginare che il Beccaria considerato fino a qualche anno fa un modello, un simbolo, se non addirittura un esempio della metropoli meneghina, epicentro economico e finanziario italiano, da 20 anni non ha un direttore. Surreale. Sorge spontanea la domanda. Come mai? I report del Ministero dicono che nelle carceri minorili italiane viene assicurato un trattamento specialistico con personale altamente preparato. L’oggettività. I colloqui sono limitati, mancano i direttori, gli educatori, i mediatori culturali, gli psicologi, i sociologi. Il personale di Polizia penitenziaria pare assegnato sul territorio con criteri che sembrano come dei bizantinismi. Servono figure che intendano lavorare in equipe, in gruppo, in sinergia. La società civile già in fibrillazione a causa del Covid-19, della guerra in Ucraina, dell’inflazione a volte pare latitare. Si corre il rischio che se lasciati a loro stessi i giovani-adulti del minorile esplodano per solitudine in edifici vuoti. Fuori le differenze sociali stanno aumentando nel dopo pandemia creando un forte disagio che produce rancore e di conseguenza divide ed esclude le persone. Il carcere sembra sempre più diventare una discarica sociale, ci va chi è particolarmente fragile, debole e avrebbe bisogno di essere aiutato. Viene pensato strutturalmente per punire per fare del male a chi vi sta dentro. Si parla sempre più di depenalizzazione, meno reati ci sono meno persone vanno in carcere. Non si possono chiudere gli istituti minorili. La società italiana pensa che sia giusto retribuire il male con il male. Questo si riflette sui programmi della politica. Forse sarebbe opportuno cominciare a ragionare in una prospettiva secondo la quale chi è pericoloso venga messo in condizioni di non nuocere, e collocarlo in un luogo sicuro, in cui tutti i suoi diritti che non confliggono con la sicurezza delle persone, siano garantiti. Per la tutela della collettività. Gli altri dovrebbero rispondere dei loro reati in modo più sensato. Potenziando la messa in prova al Servizio Sociale, le misure alternative, i lavori c.d. socialmente utili, la giustizia riparativa. Tanti passi sono stati fatti recentemente in questa direzione. Si è cominciato a prendere le distanze dal vedere la pena come retribuzione e si è dato impulso alla valorizzazione della giustizia riparativa. Un percorso non facile attraverso il quale il responsabile del reato e la vittima, assistiti da specialisti particolarmente preparati sul tema, arrivino ad un incontro che ripari la vittima dal male subito e renda il responsabile consapevole del male fatto. Facendo una comparazione, dove il carcere si mostra flessibile ed interprete di un vero percorso di rieducazione e di reinserimento, le recidive sono bassissime. Tuttavia, in questi ultimi anni sembra di assistere ad un sistema carcerario che pare essersi autorelegato ai margini con lo sguardo rivolto al passato, privo di una visione per il futuro. Compito della politica imprimere la svolta per cambiare rotta. Fare tornare in gioco il sistema penitenziario italiano con la videosorveglianza, i droni, gli algoritmi, l’intelligenza artificiale, i braccialetti elettronici. Con misure alternative, la rieducazione, la giustizia riparativa superando quella visione d’antan del carcere legata al secolo passato. *Funzionario carcere Porto Azzurro La fuga di un detenuto ci stupisce, come se non fosse un uomo di Giusy Santella mardeisargassi.it, 29 dicembre 2022 Chiunque abbia sfogliato i giornali in questi giorni si sarà trovato di fronte a una notizia scritta più o meno così: sono evasi sette detenuti dal carcere minorile di Milano. Sette persone si sono sottratte alla custodia dello Stato. Sette giovani ragazzi hanno approfittato dei lavori che interessano l’istituto ormai da tempo per tentare la fuga, per alcuni di loro conclusasi dopo appena poche ore. Sette minori, con un gesto forse tipico della loro età e della natura umana, hanno provato a raggiungere una libertà che probabilmente sognano da anni, mesi o semplicemente giorni. Poche parole e i punti di vista cambiano. Eppure, ci si stupisce tanto che un uomo, la cui libertà personale è ristretta in un luogo insalubre e sovraffollato, tenti, anche se irrazionalmente, di fuggire. La fuga di un detenuto ci fa paura forse perché non riusciamo in alcun modo a vedere quest’ultimo come uomo? Siamo davvero convinti che chi è condannato a una pena, più o meno grave che sia, sia così diverso da noi, tanto da non poter avere i nostri stessi desideri di libertà? Il tentativo di disumanizzare chi è privato della libertà non è una novità e si registra continuamente, ogni volta che si negano le condizioni di vita impietose degli istituti di pena, ogni volta che si trattano come lussi quelli che dovrebbero essere diritti fondamentali. Poter vedere la propria famiglia, poter sentire i propri cari, essere curato, insomma vivere. E, così, la prima reazione di fronte alla fuga è lo sconcerto, la rabbia, l’indignazione. Perché chi ha sbagliato non può certo permettersi di trasgredire ancora, tradendo uno Stato tanto generoso. E la rabbia viene assecondata e nutrita da quei rappresentanti politici che solo per ottenere consenso portano avanti narrazioni tossiche e repressive, che rischiano di farci fare ancora passi indietro, in un mondo già martorizzato. A ciò si aggiunga che si tratta di minori e giovani adulti per cui il nostro ordinamento prevede un trattamento rieducativo e penitenziario che privilegi l’esigenza educativa e formativa tipica di quell’età, innanzitutto limitando lo stesso utilizzo dello strumento detentivo. Non a caso, già da molti anni il numero di persone detenute nelle carceri minorili (perché minori o perché abbiano fino a 25 anni e abbiano commesso il reato quando erano minori), si è assestato intorno alle 400 unità, prediligendo invece istituti di comunità. Un approccio che, data l’inefficacia del carcere, dovrebbe essere esteso anche al mondo penitenziario adulto. Invece con una simile strumentalizzazione politica si rischiano addirittura passi indietro, nel solco della repressione e dell’imbruttimento che caratterizza anche l’attuale compagine governativa. La stessa attenzione mediatica e simili passerelle non si sono però registrate quando è stata superata la soglia di ottanta persone suicidatesi tra le mura penitenziarie, sia tra la popolazione detenuta che tra il personale, né in tutti i casi in cui sarebbe stata invece necessaria una presenza politica. Lungi da noi minimizzare la fatica di chi lavora in carcere, e in qualche modo finisce immerso in quelle stesse logiche di segregazione perpetrate all’infinito, ma non si può ridurre quanto avvenuto al Beccaria alla semplice necessità di più controllo, più custodia, più restrizioni. Anziché indagare le eventuali responsabilità individuali, che non spetta a noi sindacare, e puntare il dito, sarebbe forse il momento di avviare una riflessione più ampia sull’universo carcerario, e in questo caso anche sulle diverse esigenze di rieducazione di cui ragazzi e adulti necessitano. Una maggiore attenzione sarebbe necessaria alle condizioni inumane di detenzione, all’inefficacia del carcere come strumento di rieducazione oltre che di prevenzione della recidiva, ai continui episodi di violenza emersi in questi ultimi mesi e che non sono altro che l’espressione più schietta di un mondo violento che della sua stessa violenza si nutre. Ma una riflessione più profonda e umana non produce consenso né accresce la condizione di paura e repressione a cui oramai la rappresentanza politica ci abitua per fomentare una miserabile guerra tra poveri. La fuga di un detenuto ci fa paura perché ci mette di fronte a una realtà umana, ci fa vedere i reclusi per quello che sono, crea sgomento perché produce in noi la sensazione di non avere il controllo e di non essere sicuri. Ci mostra l’inutilità degli strumenti che la società ha scelto per difendersi. Bisogna forse scalfire l’idea che una società repressiva sia più sicura e indagare le cause profonde di simili gesti, di migliaia di atti di autolesionismo, di una percentuale di suicidi di gran lunga maggiore di quella che si registra nel mondo esterno. Solo superando la superficie, le strumentalizzazioni e una distinzione tra cittadini di serie a e di serie b, sarà possibile avere una visione realmente umana. Sul carcere il governo punta a tagli, edilizia e agenti. Le opposizioni: “Lontani dal problema reale” di Lorenzo Sangermano La Repubblica, 29 dicembre 2022 35 milioni di tagli al Dap, sblocco di mille agenti in quattro anni e fondi per l’edilizia. Il sindacato degli agenti penitenziari Uilpa: “Esterrefatti e increduli della manovra”. Cucchi (AVS): “Al peggio non c’è mai fine”, Magi (+Europa): “Per loro il carcere non è reinserimento, ma afflizione ed espiazione”. “Razionalizzare le spese”, chiedeva a novembre la prima bozza della legge di bilancio riguardo il Dap e la polizia penitenziaria. L’obiettivo: tagliare più di 10 milioni di euro l’anno. Dopo pochi giorni il Dpcm che sbloccava le assunzioni nelle carceri: 250 poliziotti l’anno, dal 2023 al 2026. Un numero che, a fronte di 18 mila unità mancanti, Gennarino De Fazio, Segretario Generale della UILPA Polizia Penitenziaria, definiva “una goccia nel deserto”. All’ultimo momento, quasi al tramonto della manovra in commissione bilancio, il ministro della giustizia Carlo Nordio annunciava per l’edilizia penitenziaria nuovi fondi “strappati con le unghie e con i denti”. “Lontani dal vero problema delle carceri”, commentano però deputati e organizzazioni del settore. Il taglio dei finanziamenti - Una volta depositata la legge di bilancio alla Camera, sono bastati pochi giorni prima che i sindacati del comparto penitenziario ne dessero il loro parere. Lo sconforto precedente per mancati finanziamenti si è presto trasformato nella condanna dei tagli. “A fronte di 18mila unità mancanti al Corpo di polizia penitenziaria, 85 suicidi (80 fra i detenuti e 5 fra gli operatori) dall’inizio dell’anno, strutture degradanti, penuria e inefficacia di automezzi, equipaggiamenti e strumentazioni, siamo letteralmente esterrefatti e increduli”, ha commentato Gennarino De Fazio. A generare lo stupore, “sotto forma di razionalizzazioni, riduzioni al personale carcerario per quasi 11 milioni di euro (15.400.237 nel 2024), - precisa il segretario - nonché tagli alle mense degli operatori del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità per circa 700mila euro”. Anche dal ministro Nordio partì la richiesta di “evitare tagli in manovra e devolvere al settore penitenziario eventuali residue risorse disponibili”, poi decaduta perché “il taglio lineare che é stato fatto non era trattabile. Come é giusto che sia, - ha commentato Nordio - l’emergenza economica impone di devolvere queste risorse a chi non riesce ad arrivare alla fine del mese”. Dalle opposizioni si è levata una critica serrata che ha compattato gli schieramenti. “Al peggio non c’è mai fine”, diceva la senatrice di AVS Ilaria Cucchi. Dal Partito Democratico Paolo Ciani commentava: “Questo governo promette più carcere ma con meno operatori: un disastro”. Sul fronte pentastellato, i membri della commissione giustizia hanno lanciato un appello al governo: “Se non vogliono ascoltare il Movimento 5 Stelle, ascoltino i sindacati della Polizia Penitenziaria che hanno già lanciato l’allarme, constatando la totale assenza di risposte alle esigenze di funzionalità del sistema sicurezza e del sistema penitenziario e dei diritti del personale, a cui verrà chiesto di compiere ulteriori sforzi rispetto a quelli già gravosi cui sono costretti ogni giorno”. Gli sblocchi: edilizia e personale - Dall’esecutivo un pacchetto di emendamenti ha provato a rilanciare la manovra sul fronte carcerario. Mille i posti per agenti penitenziari sbloccati, 250 ogni anno fino al 2026. A renderlo pubblico il vice-ministro della giustizia Andrea Ostellari, che evidenziava come “senza risposte per i cittadini ingiustamente detenuti, senza carceri sicure e senza processi veloci il Paese non riparte. La giustizia non deve essere considerata un costo, ma un investimento del quale beneficiano tutti”. Una risposta, a fronte di una carenza d’organico di 18 mila agenti, definita da De Fazio “una goccia nel deserto”. Non solo personale, ma anche edilizia. Ed è proprio il ministro Nordio a comunicarne l’aumento dei fondi. “Sono cifre arrivate all’ultimo minuto, possono essere suscettibili di variazioni ma ci sono, - commentava l’ex magistrato - e sono state strappate con le unghie e con i denti in una situazione che dal punto di vista finanziario è estremamente delicata”. A intervenire sui finanziamenti anche 5 stelle e +Europa. I Primi con un emendamento che sblocca l’assunzione di cento posti per profili pedagogici e di mediazione culturale. Il secondo, a firma di Riccardo Magi, con una proposta che aumenta di 6 milioni il fondo per gli sgravi fiscali alle aziende che assumono detenuti ed ex detenuti. “Un frangente essenziale perché è l’unica reale proiezione verso l’esterno per i detenuti. E solo una minoranza esigua di loro riesce ad accedere a un lavoro”, commenta a Repubblica Magi. Per il segretario di +Europa, “l’attenzione mediatica di questi giorni verso le carceri è solo strumentale, serve unicamente a sottolineare la questione della sicurezza”. “Al contrario di ciò che dice Nordio - continua Magi - chiunque si occupi di carcere sa che le sue patologie sono lontane dall’essere risolte con edilizia e agenti”. A esprimere al meglio la visione del governo sulla questione, Magi indica una proposta, a nome del deputato Cirielli di Fratelli d’Italia, che interviene sull’ articolo 27 della Costituzione, proprio quello che illustra la funziona rieducatrice del carcere. “La comprensione del problema è talmente lontana dalla realtà che, - secondo Magi - al posto di trovare soluzioni, si vuole agire sul principio costituzionale dei penitenziari. Non più reinserimento, ma afflizione ed espiazione”. Un salvacondotto per Meloni e Nordio di Enrico Sbriglia* oralegalenews.it, 29 dicembre 2022 Ogni giorno, all’interno delle carceri italiane, numerosissime leggi sono letteralmente violate e non c’è, probabilmente, nessuna realtà penitenziaria che possa per davvero tirarsi fuori. Né giova la circostanza che tale situazione cronica sia, verosimilmente, addebitabile a tutte quelle forze politiche che, da sole o in costretta comitiva, hanno esercitato il potere esecutivo dal 1975 (anno della grande riforma penitenziaria) ad oggi. Verosimilmente, non c’è un solo istituto penitenziario, ripeto uno e non di più, in cui davvero siano rispettate tutte le norme e tutte le regole contemplate sia dall’ordinamento penitenziario che da quelle dettate in materia di sicurezza sul posto di lavoro, a mente del D.L. n. 626/1994, del successivo n. 81 del 2008 e ss. È evidente che la perfezione non sia di questa Terra. Però, vivaddio, sarebbe stato d’attendersi, e non certamente da oggi, che per davvero si avviasse una strategia sistemica finalizzata a risolvere tali problemi, accompagnandola, a regime, con le necessarie risorse finanziarie, consentendo, nell’arco di un tempo che non sarebbe stato certamente breve, quantomeno l’effettiva risistemazione dell’esistente. Purtroppo non è andata così, seppure, a fasi alterne, siano stati annunciati miracolosi “piani-carceri”. Probabilmente con il solo scopo di assicurare una schermatura politica al crescere esponenziale delle emergenze penitenziarie e delle inevitabili responsabilità, quantomeno erariali. Per realizzare una pianificazione strategica, francamente, non sarebbero neanche occorsi straordinari tavoli di lavoro, oppure le commissioni più diverse, spesso tronfie di accademici che neanche da lontano avevano mai conosciuto le carceri nei suoi aspetti più vergognosi. Né tantomeno i più temerari rassemblement ideologici e di cassetta politica. Più semplicemente, sarebbe bastato consultare architetti, ingegneri, tecnici edili, direttori penitenziari, funzionari giuridico-pedagogici, comandanti di reparto e gli addetti alla manutenzione, sempre meno ordinaria del fabbricato, che pure erano già presenti, prima degli inevitabili e cadenzati pensionamenti, nell’amministrazione penitenziaria. Certo che, per la realizzazione dei soli eventuali nuovi istituti, sarebbe stato necessario talvolta allargare la platea degli interlocutori, includendo obbligatoriamente, per ogni territorio, l’azienda sanitaria, l’amministrazione comunale, il prefetto, accanto a quelli già contemplati, quali il provveditorato regionale penitenziario e quello delle opere pubbliche, rectius delle infrastrutture. Ma occorreva farlo, farlo per davvero, e sistematicamente. Cosa fare, quindi, adesso e c’è ancora un qualche serio spazio d’intervento? Forse sì. L’attuale Governo, in verità, potrebbe provarci, perché la Premier Meloni è, dopotutto, la rappresentante di un partito che non ha mai governato il Paese. Per quanto qualche critico potrebbe dire che la stessa non risulterebbe assolutamente nuova a tale esperienza. Ma se il passato va ascritto al passato, che passato sia, per cui, obiettivamente, non potranno attribuirle, almeno per qualche tempo, delle responsabilità dirette. Idem per il Ministro della Giustizia Nordio, al quale, francamente, consiglierei di non assumere ancora alcuna iniziativa, se non dopo avere verificato la bontà dei suggerimenti che dovessero pervenirgli, copiosamente, da ambienti radicati nel potere amministrativo. Insomma, credere solo “con riserva”. Ma la verità sullo stato reale delle carceri andrà rappresentata senza alcuna ulteriore reticenza. Suggerirei la seguente formula: “Signore e signori, abbiamo un sistema di strutture penitenziarie poco funzionale, il quale non solo non garantisce la tanto declamata sicurezza nel presente, attraverso il serio controllo e la costante attività rieducativa verso le persone detenute, prima che, immancabilmente, ritornino in libertà (sempre che non si suicidino prima), ma che ipoteca, in termini ancor più negativi, la sicurezza del futuro, delle nostre città, delle nostre case, non essendo noi riusciti ad assolvere i compiti assegnati dalla Costituzione. Rischiamo, infatti, di rimettere in libertà persone che non hanno trovato in carcere alcuna seria opportunità di riscatto. Siamo consapevoli che molti di essi usciranno con un animo peggiore e perfino vendicativo rispetto al momento in cui furono sottoposti alla nostra custodia”. Ciò chiarito, occorrerà costituire il famoso tavolo, ma di tregua, di alleanze e di concertazione, al quale dovranno essere invitate anzitutto le OO.SS. di tutto il personale penitenziario, le autorità giudiziarie, l’ordine forense, le associazioni non governative rappresentative dei diritti delle persone detenute, il mondo della scuola e della formazione professionale e quello degli enti locali, perché tutti si convenga ad una onorevole componenda. Il patto sarà che nessuno sollevi alcun polverone (rectius, azioni legali) fino a quando non si perverrà alla riqualificazione del patrimonio immobiliare esistente e, ove occorra, alla costruzione di nuovi funzionali e dignitosi istituti penitenziari. Insomma, un ultimo e grande compromesso che tutte le parti, responsabilmente, dovranno accettare, offrendo altresì la propria leale collaborazione al programma di rinascita delle strutture penitenziarie. Poi si avrà l’onere di “spiegarlo”, anzitutto alle persone detenute, le quali dovranno sapere di dovere, ahimè, in molti casi attendere ancora, rischiando non poche volte che il tempo di cantiere possa perfino risultare maggiore rispetto al proprio fine pena: c’est la vie, c’est la vie! Certamente, con qualche saggio artifizio, potrebbero farsi delle ragionevoli concessioni alle persone ristrette, cogliendo spunto dalla spinta innovativa della Riforma Cartabia, attualmente in stand-by. La riforma ha allargato la possibilità di concessione di misure alternative alla detenzione per i reati per i quali sia prevista una condanna fino a quattro anni di reclusione: praticamente quasi tutti i reati, con esclusione di quelli gravissimi. A ribasso, si potrebbe pensare di predisporre un qualche strumento deflattivo per svuotare gli istituti di pena, se e quando inizieranno i lavori, sempre che si definisca un piano-carceri davvero strutturato e finanziato. In tal modo si eviterebbe anche una nuova stagione di contenzioso a Strasburgo, semmai “alimentata” da quanti, non più al potere, hanno interesse a fomentare la rabbia sociale e anche legale delle persone detenute, finora rabbonite con la mistica ideologica di sempre. Ma, nel contempo, dovrà per davvero immaginarsi, sul piano legale, una sorta di salvacondotto per il Ministro Nordio e per la Premier Meloni, avendo gli attuali governanti la sola colpa di avere ereditato non un fondo agricolo sano, ma un campo dove si sono sversati per decenni fanghi tossici e mortiferi. Insomma, un buco nero penitenziario. *Presidente dell’Osservatorio Internazionale sulla Legalità di Trieste - Presidente Onorario del Centro Europeo di Studi Penitenziari di Roma La destra vuole più penitenziari, la sinistra più penitenze e nessuno pensa alla vita dei detenuti di Iuri Maria Prado linkiesta.it, 29 dicembre 2022 Per i partiti al governo la violenza e l’illegalità del carcere sono considerate il congruo corrispettivo dovuto alle canaglie, mentre Pd e Cinquestelle vogliono applicare le cure carcerarie con equanime trasversalità sociale: più catene per tutti. Sul sistema delle carceri la destra è nettamente riformatrice: ne vuole di più, vuole che ne siano costruite altre. E ovviamente non perché i detenuti stiano più larghi o vivano in strutture più decenti: ne vuole di più perché purtroppo quelle che ci sono non bastano a contenere tutta la gente in più che la destra forcaiol-riformatrice vorrebbe ficcarci dentro. In argomento, la sinistra è invece fermamente conservatrice. Da quelle parti, lo stato delle carceri forma la materia di qualche editoriale compassionevole, di una convegnistica routinaria ed ecumenica, una specie di ventriloquìa cappellana che mormora sulle sofferenze dei detenuti, ma senza che tutto questo neppure pallidamente assomigli a quel che ci vorrebbe se non ci si limitasse, appunto, alla deplorazione che allarga le braccia davanti al sistema tanto cattivo. E quel che ci vorrebbe è andare contro la destra dei piombi e contro il primo polo giustizialista cui invece la sinistra si inchina, vale a dire il partito delle procure e della reazione giudiziaria che senza sosta ormai da decenni, e anzi sempre più fortemente, è il garante della continuità dell’inciviltà carceraria in questo Paese. La contaminazione prodotta a sinistra dal neofascismo grillino c’entra abbastanza poco con una piega avversa alla civiltà giuridica e alla tutela dei diritti individuali che a sinistra è piuttosto autonoma e originaria. E verosimilmente non era soltanto il consenso in fuga verso i Cinquestelle, né soltanto un servile omaggio in favore dei pm influencer, a far dire al segretario del Partito democratico che non ci si può dividere tra giustizialisti e impunitisti: era appunto quel conservatorismo di fatto, lo stesso che accetta quale fisiologico effetto collaterale di una malintesa legalità la sistematica violazione della Costituzione punto e basta, una cosa diversa rispetto a quella più bella del sistema solare che affonda le radici nell’antifascismo, nell’Associazione nazionale partigiani italiani (Anpi), nell’Atac e nei palinsesti di Raitre. Almeno a destra (non è un merito: è una differenza) la violenza e l’illegalità del carcere sono considerate il congruo corrispettivo dovuto alla canaglia, da monitorare tutt’al più quando c’è caso che tocchi alla gente dabbene, generalmente e alternativamente tale per censo o appartenenza alla cerchia familiare o di cosca partitica. A sinistra si tratta invece tutt’al più di redistribuire quell’ingiustizia, e sulla constatazione che in carcere c’è soprattutto povera gente il rimedio è garantire che le cure carcerarie si applichino finalmente con equanime trasversalità sociale, in buona sostanza più catene per tutti. Stupirsi che le cose non migliorino quando a contrapporsi sono simili impostazioni non è neppure da ingenui, è da gente che vuol credere e far credere di essere nel giusto quando imputa rispettivamente a una parte o all’altra i mali del sistema penal-carcerario: mentre così una parte come l’altra sono soltanto la diversa pronuncia dell’identico verbo reclusivo. Semmai da aggiustare, da destra, con qualche penitenziario in più e, da sinistra, con qualche penitenza in più per i colpevoli che la fanno franca. Rave, sì della Camera alla fiducia. Ma è polemica in Aula di Simona Musco Il Dubbio, 29 dicembre 2022 Seduta fiume e caos: ad annunciare la tagliola ci pensa il ministro Ciriani: “Falliti i tentativi di mediazione”. La Camera ha confermato la fiducia al governo, con 206 sì contro 145 no. Una votazione che ha richiesto tre chiame e che si è chiusa con la polemica per l’annuncio del ministro per i Rapporti col Parlamento Luca Ciriani del ricorso alla ghigliottina sul decreto Rave, dal momento che “tutti i tentativi per trovare una mediazione sono falliti”. “L’opposizione intende andare allo scontro in maniera irragionevole - ha annunciato a “Oggi è un altro giorno”, su Rai Uno -, dovremo per forza ricorrere a questo strumento”. Parole stigmatizzate subito dall’opposizione, che ha accusato di arroganza la maggioranza. “Vorrei ricordare ai colleghi, nell’interesse del Parlamento tutto, ma soprattutto a tutela delle prerogative del presidente - ha affermato la deputata dem Debora Serracchiani -, che la tagliola non è una prerogativa del governo ed è inaccettabile che il ministro per i Rapporti con il Parlamento dica una cosa del genere. Non è possibile che ci sia un’invasione di questo tipo nelle prerogative del Parlamento”. Un atteggiamento che ha colto di sorpresa anche lo stesso presidente Lorenzo Fontana, che ha chiarito di voler chiedere a Ciriani delucidazioni sul punto. “In questo momento (la tagliola, ndr) ancora non è stata avallata”, ha sottolineato, ed “è chiaro che per evitare uno strumento di questo tipo servirà la buona volontà da parte di tutti i deputati, a cui io mi rimando”. Ma la tensione è rimasta palpabile, anche a seguito della proposta di Maurizio Lupi (poi approvata con 52 voti di differenza) di andare avanti con la seduta fiume. Dopo il voto, dunque, la seduta è proseguita con l’illustrazione dei 157 ordini del giorno, che verranno posti in votazione da oggi alle 19. E soltanto dopo si passerà alle dichiarazioni di voto sul provvedimento, che va convertito in legge entro venerdì 30, pena la decadenza. Un rischio che potrebbe spingere Fontana a confermare l’annuncio di Ciriani e impedire alle opposizioni di fare ostruzionismo. Per Riccardo Magi (+Europa), si tratta infatti del “peggiore dei provvedimenti che perfino questo governo di destra, guidato da uno spirito dichiaratamente repressivo, punitivo e illiberale potesse concepire”. Dura anche Valentina D’Orso (M5S), che ha parlato di “una norma fortemente ideologica, di pura propaganda, volta a solleticare la pancia di un certo elettorato sensibile al motto “ordine e sicurezza”, ma che non risponde a nessun allarme sociale e a nessuna emergenza criminale”. Nessuna urgenza, ha dunque ribadito Alessandro Zan (Pd), che ha puntato il dito contro i colleghi di Forza Italia, “che hanno parlato e sbandierato in questi anni il garantismo”. Accuse rispedite al mittente da Massimo Ruspandini (FdI): “Non è un manifesto politico, non è uno spot, non abbiamo bisogno di propaganda: è l’eredità per chi, come noi, è cresciuto ricordando Borsellino, Falcone e tutti i martiri dello Stato caduti per combattere le mafie”. Archiviato Bonafede, torna la “vecchia” prescrizione di Simona Musco Il Dubbio, 29 dicembre 2022 Da Costa (Azione) un ordine del giorno, accolto dal governo, che impegna lo stesso esecutivo a reintrodurre la norma sull’estinzione dei reati soppressa dall’ex guardasigilli 5stelle. Cancellare la riforma Bonafede per tornare alla prescrizione sostanziale in tutti i gradi di giudizio della riforma Orlando. È questa la proposta del gruppo Azione-Italia Viva, che ha presentato un ordine del giorno per rimuovere “le criticità attuali derivanti dalla “Spazzacorrotti”“, ha spiegato Enrico Costa, primo firmatario della proposta contro il “fine processo mai” e attuale presidente della Giunta per le autorizzazioni di Montecitorio. “Se passa è un grande risultato”, ha affermato il deputato, che ha votato no alla fiducia. Ma poco dopo ha assicurato sostegno al governo sul tema, qualora lo stesso si impegnasse a portare avanti la sua proposta. Dubbi ce ne dovrebbero essere pochi: l’ordine del giorno è stato infatti concordato con l’Esecutivo, confermando l’asse tra maggioranza e terzo polo su alcuni temi della giustizia, come l’annunciata modifica del reato di abuso d’ufficio e della disciplina delle intercettazioni. E lo stesso sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro aveva dichiarato apertamente pochi mesi fa, al Dubbio, che il ritorno alla prescrizione sostanziale è un principio di civiltà. “I diritti incomprimibili dei cittadini rispetto alla forza dello Stato vanno ripristinati - aveva sottolineato -. Esiste il diritto all’oblio: non posso creare un universo concentrazionario di imputati a vita. Non è possibile che 7 anni e mezzo non siano sufficienti ad accertare un’ipotesi di furto al supermercato”. Punto di vista ribadito da Fratelli d’Italia, che ha confermato la volontà di votare sì all’ordine del giorno, così come Lega e Forza Italia. La proposta parte dall’inserimento, nel decreto Rave, degli articoli da 5-bis a 5-terdecies, “volti ad ovviare ad alcuni dubbi interpretativi di diritto intertemporale” sorti in merito alla riforma Cartabia. Che contiene anche le disposizioni in materia di prescrizione, con le quali il precedente governo aveva voluto “rimediare alle criticità” della legge Spazzacorrotti, che sospendeva il corso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. “La riforma Cartabia, tuttavia, non ha modificato il principio di sospensione della prescrizione sostanziale dopo la sentenza di primo grado fissato dalla riforma Bonafede, configurando piuttosto un’ipotesi di improcedibilità in appello”, si legge nell’odg, che mentre scriviamo non è ancora stato votato. Una scelta per “ovviare alle macroscopiche criticità” della norma Bonafede e trovare un compromesso con il M5S, allora parte di quella maggioranza, ma non sufficiente, secondo il Terzo Polo, a sanare tutte le storture. Anche perché “l’allungamento dei tempi processuali non solo collide con gli obiettivi del Pnrr che, al contrario, ne impongono una significativa riduzione, ma si pone altresì in aperto contrasto con i princìpi costituzionali di presunzione d’innocenza, funzione rieducativa della pena e ragionevole durata del processo”. L’intento è dunque “predisporre, con una rivisitazione organica, il ripristino della disciplina della prescrizione sostanziale in tutti i gradi di giudizio”, tentativo che Costa porta avanti sin dal 2019, quando fu approvata la Spazzacorrotti. Una barbarie giuridica, secondo il deputato, dal momento che la prescrizione rappresentava “un punto di riferimento per il giudice, una spia per cercare di celebrare tempestivamente i processi”. Inoltre, tale norma “fa pugni con una serie di principi costituzionali” che richiedono “una compressione dei tempi del processo” in parte raggiunta con la riforma Cartabia, che ha messo in campo meccanismi “tesi a contenere il perimetro delle indagini entro tempi certi”. Ma rimangono delle lacune da colmare, ha sottolineato Costa, così come aveva tentato di fare la commissione Lattanzi, con la proposta che prevedeva, dopo la sentenza di primo grado di condanna e dopo la sentenza di appello di conferma della condanna, la sospensione della prescrizione per due anni, nel primo caso, e per un anno, nel secondo. La proposta non passò, ma ora, secondo Costa, è possibile porre rimedio. “Se ci sono le condizioni e c’è una maggioranza oggi che può ripristinare l’ordine della prescrizione - ha concluso - penso che si debba arrivare a questo e lo dico non soltanto alla maggioranza di oggi, lo dico anche all’opposizione di allora, perché quando c’era il governo gialloverde il Partito democratico fu protagonista di un’opposizione ferrea” alla riforma della prescrizione. “Mi stupirei, oggi, se non ci fosse da parte loro un consenso su questo ordine del giorno. L’auspicio è che ci sia un accoglimento e che in seguito all’accoglimento ci sia poi un impegno consequenziale da parte del governo per il quale noi assicuriamo certamente un sostegno su questo tema”. Prescrizione, ecco l’ordine del giorno Costa che ripristina la legge Orlando di Liana Milella La Repubblica, 29 dicembre 2022 Prescrizione, si torna alla legge Orlando. E si cancella la Bonafede. Non più la prescrizione bloccata definitivamente dopo il primo grado, con il meccanismo della improcedibilità in Appello inventata dall’ex Guardasigilli Marta Cartabia, ma la vecchia e storica prescrizione che dura fino al terzo grado di giudizio e, se il processo è lento, lo porta direttamente all’estinzione. Come anticipato da Repubblica, ecco l’ordine del giorno di Enrico Costa di Azione - porta il numero 705-A - sottoscritto da tutto il Terzo polo, su cui lo stesso Costa in aula ha trattato ieri con il sottosegretario alla Giustizia, il leghista Andrea Ostellari.  Ed ecco il passaggio chiave che porterà alla fine della Bonafede: “Non può non rilevarsi la necessità di ripristinare definitivamente la disciplina sulla prescrizione in un quadro di coerenza sistematica. L’allungamento dei tempi processuali non solo collide con gli obiettivi del Pnrr che, al contrario, ne impongono una significativa riduzione, ma si pone altresì in aperto contrasto con i princìpi costituzionali di presunzione d’innocenza, funzione rieducativa della pena e ragionevole durata del processo”. L’ordine del giorno impegna il Governo “a predisporre, con una rivisitazione organica, il ripristino della disciplina della prescrizione sostanziale in tutti i gradi di giudizio, rimuovendo le criticità attuali derivanti dalla legge 3/2019”. E cioè la legge Spazzacorrotti dell’ex Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede.  Già prevedibile come questa richiesta di Costa - che da sempre è in battaglia contro la Bonafede - scateni ulteriormente la collera di M5S, già furibondo per le modifiche introdotto nell’ergastolo ostativo che, come ha detto Federico Cafiero De Raho a Repubblica rappresentano un duro colpo alla legislazione antimafia perché non ci saranno più collaboratori ma solo mafiosi che ottengono la liberazione condizionale.  Nell’ordine del giorno, Costa spiega anche le ragioni per cui la proposta è compatibile con il decreto Rave e quindi può essere ammessa, visto che proprio il decreto ha rinviato di due mesi, fino al 31 dicembre, l’entrata in vigore della riforma penale di Cartabia.  Scrive Costa che, nel decreto Rave, vi sono gli articoli per il rinvio della Cartabia, “sulla base di difficoltà organizzative che gli uffici giudiziari avrebbero potuto riscontrare nell’attuazione delle disposizioni immediatamente applicative del provvedimento”. Quindi la materia dell’odg è compatibile con il decreto e può essere ammesso.  Inoltre, scrive ancora Costa, proprio nella riforma Cartabia vi sono “le disposizioni in materia di prescrizione, intese a rimediare alle criticità della legge 9 gennaio 2019, n. 3 - la così detta “Spazzacorrotti” - la quale aveva modificato l’articolo 159 del Codice penale, prevedendo che il decorso della prescrizione subisca una sospensione dopo la pronuncia della sentenza di primo grado”. E ancora: “La riforma Cartabia, tuttavia, non ha modificato il principio di sospensione della prescrizione sostanziale dopo la sentenza di primo grado fissato dalla riforma Bonafede, configurando piuttosto un’ipotesi di improcedibilità in appello”. E cioè la Spazzacorrotti resta comunque.  Secondo Costa, “pur dovendosi apprezzare la scelta di ovviare alle macroscopiche criticità derivanti dalla Spazzacorrotti, non può non rilevarsi la necessità di ripristinare definitivamente la disciplina sulla prescrizione in un quadro di coerenza sistematica; l’allungamento dei tempi processuali non solo collide con gli obiettivi del PNRR che, al contrario, ne impongono una significativa riduzione, ma si pone altresì in aperto contrasto con i princìpi costituzionali di presunzione d’innocenza, funzione rieducativa della pena e ragionevole durata del processo”.  Et voilà. La maggioranza sottoscrive l’ordine del giorno e s’impegna a cambiare la prescrizione tornando alla legge Orlando. Che prevedeva il seguente meccanismo. La prescrizione si ferma per complessivi 36 mesi, 18 in Appello e 18 in Cassazione, per consentire al processo di andare avanti. La norma, in Appello, vale solo per i condannati e non per gli assolti. Ecco perché la prescrizione serve al sistema giustizia di Tiziana Maiolo Il Riformista, 29 dicembre 2022 L’utilizzo di questa norma non è il fallimento della pretesa punitiva dello Stato. Ma dell’obbligatorietà dell’azione penale, che concede potere illimitato ai pm. La prescrizione è il risultato di un fallimento. Non, come si legge nei testi giuridici, della pretesa punitiva dello Stato. Ma dell’obbligatorietà dell’azione penale. E della inevitabile e conseguente dilatazione all’infinito dei comportamenti definiti come reati, spesso da norme che, mancando dei principi di tipicità e tassatività, rendono solo smisurato il potere del pubblico ministero a mettere il naso ovunque e comunque. Ecco dunque sui tavoli dei procuratori fascicoli alti qualche metro. E poi l’arbitrio con cui ogni singolo pm estrae, quasi a sorte, un foglio cui dare la precedenza sugli altri. A ogni foglio, non dimentichiamolo, corrispondono reati e anche nomi di persone da indagare, perseguire, magari arrestare e poi processare. Se è vero che ogni anno in Italia si commettono alcuni milioni di reati, o meglio si tengono comportamenti che vengono qualificati come delitti o contravvenzioni, è altrettanto vero che il solo strumento penale non è sempre il più adeguato ad affrontare lo stato delle cose. Ed ecco che, mentre la metratura dei fascicoli aumenta e si impolvera sul tavolo del pm, a un certo unto non resta che alzare le braccia e arrendersi: prescrizione. Cioè fallimento e bandiera bianca. Fallimento del principio costituzionale che obbliga a indagare su tutto e a perseguire tutti. Il primo risultato è che più del 60% delle prescrizioni si consuma nella fase delle indagini preliminari. Quindi la prima selezione avviene non, come sarebbe logico in uno Stato di diritto, tramite l’uso di soluzioni alternative al mero strumento repressivo, ma attraverso la rinuncia tout court, alla faccia dei tanto conclamati diritti delle vittime. A processo dunque i reati, e gli imputati, arrivano già selezionati. Ma non da una legge che esiste in tutto il mondo occidentale tranne l’Italia, cioè quella sulla discrezionalità dell’azione penale, ma da una prassi che concede un potere illimitato a un organo, quello dei procuratori, che non è sottoposto a nessuna forma di controllo. Agiscono come forze di polizia ma godono di tutte le guarentigie della casta togata. E ogni anno si contano le vittime di giustizia, che non sono solo coloro che vengono assolti dopo anni di carcere e gogna, ma anche coloro, imputati o parti civili, che non possono avere giustizia perché il reato è stato estinto per prescrizione. L’iniziativa dell’instancabile deputato Enrico Costa, che con un ordine del giorno vuole impegnare il governo a spazzar via il mostriciattolo della legge Bonafede che bloccava la prescrizione alla fine del processo di primo grado, ci riporterebbe, qualora approvata e poi trasformata in legge, alla situazione tradizionale. Cioè indietro di cinque anni, ai tempi del governo Gentiloni e del ministro Orlando, i quali non avevano comunque dato grande prova di garantismo, tanto da rischiare la caduta della legislatura a causa dei dissensi con Matteo Renzi e i malumori del gruppo di Angelino Alfano. La famosa “legge Orlando” infatti, che oggi ci appare come il paradiso terrestre, aveva innalzato di un anno e mezzo il tetto degli anni necessari per dichiarare prescritto un reato e in parte equiparato, con spirito grillino, alcuni reati contro la pubblica amministrazione a quelli, come la mafia e il terrorismo, di grande allarme sociale. Infatti proprio Enrico Costa, che all’epoca era nel governo come ministro degli Affari regionali, aveva votato contro la sua stessa maggioranza. “Per alcuni reati - aveva detto-bloccare il conto alla rovescia di un anno e mezzo per ogni grado di giudizio ci porta a un passo dal processo perpetuo”. Ma anche la controriforma Bonafede, dal nome ridicolo di “spazzacorrotti”, sulla prescrizione aveva provocato qualche mal di pancia, nel governo giallo-verde. Mal digerita dalla Lega, che l’aveva barattata con l’approvazione del decreto sicurezza e che ne aveva ottenuto l’entrata in vigore solo al primo gennaio del 2020, dopo la riforma del codice penale, avevano detto Matteo Salvini e a ministra Giulia Bongiorno. Cosa mai avvenuta. Possiamo dunque contare oggi sul ministro Nordio? Non tanto, visto che in un articolo sul Messaggero aveva semplicemente proposto di fissare la data “a quo” per calcolare la prescrizione, al momento non della commissione del reato, ma dell’inizio delle indagini. Dando quindi di nuovo il potere al pm, che deciderà quando iscrivere la persona sul registro degli indagati. Guardia di finanza, gli occhi sui detenuti al 41-bis di Giovanni Galli Italia Oggi, 29 dicembre 2022 Si estende la platea dei soggetti nei confronti dei quali la Guardia di finanza ha la facoltà di procedere ad indagini fiscali e patrimoniali, ricomprendendovi tutti i detenuti ai quali sia stato applicato il regime carcerario previsto dall’art. 41-bis. E’ una delle novità contenute nel decreto legge 31 ottobre 2022, n. 162, recante misure urgenti in materia di divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia, nonché in materia di entrata in vigore della riforma del processo penale, di obblighi di vaccinazione anti SARS-COV-2 e di prevenzione e contrasto dei rave party, sul quale la Camera ha confermato ieri la fiducia al governo con 206 voti a favore, 145 contrari e tre astenuti. In merito ai raduni illegali si prevede che chiunque organizzi o promuova l’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati al fine di realizzare un raduno musicale o avente altro scopo di intrattenimento, è punito con la reclusione da tre a sei anni e la multa da euro 1.000 a euro 10.000, quando dall’invasione deriva un concreto pericolo per la salute pubblica o per l’incolumità pubblica a causa della inosservanza delle norme in materia di sostanze stupefacenti ovvero in materia di sicurezza o di igiene degli spettacoli e delle manifestazioni pubbliche di intrattenimento. L’articolo 6 del dl rinvia dal 1° novembre 2022 al 30 dicembre 2022 l’entrata in vigore del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, di attuazione della delega per la riforma del processo penale, mentre viene ridefinita la disciplina relativa alla concessione dei benefici su detenuti e internati, con riferimento ai delitti commessi “per terrorismo” e per i “reati di mafia”: ai benefici penitenziari sono ammessi anche i condannati per reati contro la p.a., anche se non hanno collaborato con la giustizia. Sospese infine le sanzioni ai no vax e riaperte le porte degli ospedali a medici e infermieri non vaccinati. Cospito ricorre in Cassazione: “Il 41bis viola la libertà di pensiero” di Frank Cimini Il Riformista, 29 dicembre 2022 L’applicazione dell’articolo 41 bis relativo al carcere duro con il blocco della corrispondenza sia in entrata sia in uscita viola il principio della libertà di pensiero. Questo sostiene l’avvocato Flavio Rossi Albertini nel ricorso depositato ieri in Cassazione con cui viene impugnata la decisione del Tribunale di Sorveglianza sull’anarchico Alfredo Cospito in sciopero della fame dal 20 ottobre scorso. I tempi della Suprema Corte per decidere sul ricorso vengono definiti dal legale “incompatibili” con le condizioni di salute di Cospito che comunque saranno verificate ancora domani 29 dicembre in una visita dal medico di fiducia Angelica Melia nel carcere di Sassari Bancali. “Lo strumento del 41bis viene utilizzato per interrompere e impedire a Cospito di continuare a esternare il proprio pensiero politico ovvero per sanzionare l’istituzione o comunque il proselitismo e pertanto per arginare un pericolo che poteva essere diversamente contenuto tramite strumenti allo scopo proporzionati meno invasivi e meno limitativi” scrive l’avvocato. “Stiamo parlando di un’attività interamente pubblica che viene dal detenuto apertamente diffusa all’esterno ovvero destinata non agli associati bensì a soggetti gravitanti nella cosiddetta galassia anarchica” aggiunge l’avvocato ricordando che si va oltre la stessa ratio della norma nata per recidere i contatti con l’organizzazione di appartenenza. Dal ministro dell’epoca Marta Cartabia e successivamente dal tribunale di Sorveglianza è stata fatta una interpretazione estensiva. Secondo il legale il Tribunale non aveva tenuto conto degli eventi critici portati dalla difesa nel reclamo. Cospito è il primo anarchico sottoposto al regime del 41bis che era nato per recidere i collegamenti con le organizzazioni mafiose. La Fai, Federazione Anarchica Informale di cui Cospito per l’accusa sarebbe l’ideologo non è neanche una organizzazione sulla cui perdurante vitalità appare necessario nutrire molti dubbi. Il ricorso in Cassazione comunque non sembra avere molte speranze di successo (eufemismo) a causa del “clima” creato intorno al caso dai media e dalla politica. Insomma se si trattano ferocemente 4 ragazzini scappati dal Beccaria figuriamoci con Cospito. Milano. Carceri, la rivoluzione di Bollate: “Così ha retto alla pandemia” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 29 dicembre 2022 Giorgio Leggieri, il direttore dell’istituto a custodia attenuata: “Durante l’emergenza Covid accolti anche detenuti con un profilo molto diverso dal solito, ma abbiamo saputo reggere”. Se si guarda a Bollate come a una rivoluzione del carcere, sempre in cerca di rinnovata carica propulsiva, sempre proverbiale per i suoi invidiati tassi di recidiva incomparabilmente inferiori a quelli degli istituti meno aderenti alla Costituzione, “a volte si dimentica che la “rivoluzione ordinaria” non era scontato reggesse allo sconquasso di due anni di pandemia Covid, e invece il carcere è riuscito a restare in equilibrio nel mantenere la centralità dell’attenzione alla persona con la lettura dei suoi bisogni reali e delle sue fragilità”.  Giorgio Leggieri, il direttore dell’istituto a custodia attenuata per detenuti comuni beneficiari di attività trattamentali specie nel settore del lavoro, rivendica che Bollate a inizio Covid “si sia fatto carico e abbia mostrato capacità di adattamento alle esigenze del territorio metropolitano”, iniziando ad accogliere anche detenuti che prima mai sarebbero arrivati a Bollate, e cioè “con un profilo molto diverso da quello che sino a quel momento costituiva il target” dell’istituto.  E tuttavia, “pur messo a dura prova”, Bollate “ha saputo reggere in termini di sostenibilità del progetto”. La riprova è non soltanto nel fatto che “non si è verificato quell’aumento degli eventi critici” (suicidi, autolesionismi, aggressioni) “che ci si sarebbe potuti aspettare proporzionalmente all’aumento delle presenze in due anni da 1.200 a quasi 1.400 detenuti”, ma anche nella constatazione che “non ne ha risentito il principale obiettivo del carcere: nel senso che, anzi, “c’è stato un incremento dei detenuti in lavoro esterno, aumentati sino a 220, per di più con un ampliamento del sistema di offerta lavorativa per abbracciare anche la fascia di detenuti più fragili perché con minori risorse culturali” rispetto al lavoro.  E neppure il Covid ha spezzato l’altra caratteristica di Bollate, e cioè “l’osmosi tra dentro e fuori, con iniziative trattamentali volte a portare la città dentro il carcere, ma anche a far sì che i detenuti (specie proprio quelli meno abituati a questo) fossero presenti nella città in contesti di eventi esterni”. Milano. Ipm Beccaria, l’evasione e il carcere “ostaggio” del cantiere infinito di Elisabetta Andreis e Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 29 dicembre 2022 La ristrutturazione è iniziata 18 anni fa. Devono essere messi a nuovo i padiglioni per le attività ricreative e la palestra, ora non agevole. Ne restano ricercati ancora due. L’ultimo a consegnarsi alla polizia, ieri pomeriggio, è italiano, ha 19 anni, è originario del Pavese (ma residente vicino a Como) ed è accusato di maltrattamenti in famiglia. Quella dei sette giovani scappati dal Beccaria il pomeriggio di Natale è una storia di fughe (e lavori in corso), che rimanda al 29 luglio del 2010, quando ci fu un clamoroso tentativo di evasione da parte di due giovani detenuti che si arrampicarono sulle impalcature di un cantiere e scavalcarono il muro di cinta. All’epoca i lavori erano cominciati da sei anni. Dodici anni dopo il cantiere è ancora presente all’interno del Beccaria, ma si è spostato nelle due palazzine gemelle. Quella volta - nel 2010 - gli agenti di polizia penitenziaria riacciuffarono subito i due ragazzi. Stavolta no.  Un primo cantiere è durato 13 anni e un altro iniziato nel 2018 è ancora in corso. I lavori del primo lotto partirono nel 2004 e si interruppero varie volte fino al fallimento della ditta che aveva vinto l’appalto. Per l’occasione l’intera sezione femminile venne trasferita a Pontremoli, in Toscana, e i 50 ragazzi presenti erano stati “compattati” nella parte vecchia (oggi in ristrutturazione). Nel 2015 subentrò un’altra azienda: promise di terminare entro cinque mesi, furono invece quasi tre anni. Alla fine del 2017 (dopo 13 anni) era stato creato un unico piano per le attività sanitarie e gli uffici e altri tre con le celle, gli spazi per attività formative e il reparto di “orientamento” in cui ora si trovano i due gruppi più numerosi oltre al reparto “avanzato”, riservato ai ragazzi che hanno il permesso di uscire per motivi di studio e lavoro. Francesca Perrini, direttore del Centro per la giustizia minorile della Lombardia che si è tuffata anima e cuore nel suo incarico, si prese la responsabilità di chiedere la consegna anticipata delle palazzine anche prima del collaudo visto che le altre due cadevano a pezzi. I ragazzi furono trasferiti nel maggio del 2018 iniziò il cantiere per i lavori del secondo lotto che dovevano durare tre anni ma che sono ancora in corso. Interessate sono le due palazzine che guardando da via Calchi Taeggi, si trovano dietro al piccolo campo di calcio. In mezzo al complesso, a dividere le due palazzine “ristrutturate” dalle altre due, c’è la staccionata che i sette ragazzi hanno scavalcato entrando nel cantiere.  La data di fine lavori ora è a maggio 2023. Si potrà riaprire il Centro di prima accoglienza, evitando il trasferimento dei ragazzi fermati o arrestati in attesa dell’udienza di convalida, che oggi vengono spostati in altre città con dispendio di agenti e costi. Si potrà usare il campo sportivo grande (oggi viene usata solo una piccola parte ricavata dall’area di cantiere). E saranno risanati i padiglioni delle attività consentendo passaggi più agevoli per arrivare alla palestra ristrutturata da Fondazione Francesca Rava, che oggi non si può usare con regolarità. La capienza aumenterà fino a 80 posti. Torino. Boom di giovani detenuti in carcere, superate Napoli e Roma di Federica Cravero La Repubblica, 29 dicembre 2022 Al “Lorusso e Cutugno” gli under 25 sono il 10%: membri di bande fluide o maggiorenni da poco giunti qui da soli. Uno su due è di Barriera. Prima di essere un dato statistico, l’aumento dei detenuti giovani nel carcere di Torino è stata una sensazione. “Una visita dopo l’altra, un colloquio dopo l’altro, ne trovavamo sempre di più. È iniziato più o meno un anno fa e non era mai accaduto prima”, racconta la Garante dei detenuti Monica Cristina Gallo per spiegare la genesi dello studio “Giovani dentro e fuori” che, primo in Italia, ha voluto approfondire il caso dei detenuti tra i 18 e i 25 anni. “Volevamo capire il fenomeno di cui eravamo testimoni: chi sono questi giovani adulti, perché sono detenuti, che storie hanno alle spalle? Sicuramente la pandemia ha giocato un ruolo e abbiamo anche notato un preoccupante aumento nell’uso di psicofarmaci. Ma finora nessuno aveva acceso un faro sulla condizione di questi ragazzi”, spiega Gallo, che ha realizzato la ricerca con Cecilia Blengino, sociologa coordinatrice della Clinica legale Carcere e diritti I dell’Università di Torino. La percezione era corretta. L’aumento di questa fascia della popolazione carceraria è un fenomeno nazionale, ma al Lorusso e Cutugno è più evidente: i giovani detenuti sono il 9,8%, contro il 6,7% di Poggioreale, il 5,3% di Rebibbia e il 4,4% di Santa Maria Capua Vetere. A Torino il 74,5% dei giovani detenuti è straniero, di questi l’88,3% non ha un permesso di soggiorno e il 54% è arrivato in Italia come minore non accompagnato. E c’è un numero che impressiona più di altri: il 43,14% prima di entrare in carcere viveva a Barriera di Milano. Tra loro ci sono i componenti delle cosiddette bande fluide ma anche i minori arrivati in Italia con migrazioni da incubo. “Non siamo noi a decidere chi va in carcere - rileva la Garante - ma questa situazione impone che venga sfruttato al meglio il periodo della detenzione, alfabetizzando chi non è mai andato a scuola e sfruttando chi ha delle proprie capacità”. Al momento dell’arresto il 30,2% dei giovani detenuti viveva con la famiglia di origine e l’8,7% era senza fissa dimora. Il 53,7% degli intervistati ha la licenza media e il 49% aveva un lavoro. Il 70,5% non era mai stato preso in carico dai servizi sociali. Il 53,7% non ha precedenti penali ed è alla prima carcerazione per spaccio (28,9%), rapina (28,2%) e furto (12,8%). La ricerca (dedicata alla memoria di Alessandro Gaffoglio, che ad agosto si è suicidato in cella a 24 anni) è stata condotta tra gennaio e maggio di quest’anno su 149 ragazzi (di cui 5 donne) con un programma basato sulla social analysis del reparto di Investigazioni tecnologiche della polizia municipale, che da tempo lavora sulle devianze giovanili. Alle interviste hanno lavorato gli studenti della Clinica in collaborazione con Lisa Massaferro e Carolina Di Luciano dell’Ufficio Garante. L’ordinamento penitenziario prevede che i giovani al di sotto dei 25 anni siano separati dai detenuti più vecchi, tenendo conto che sono ancora in una fase di maturazione, ma le cautele previste, nei fatti, non esistono. Il 53,7% non fa alcun tipo di colloquio con familiari o amici, ma il 45% non ha incontri nemmeno con figure di supporto dentro il carcere. Solo il 21,5% studia dietro le sbarre e appena il 16,8% lavora. “I dati meritano attenzione - spiega Cosima Buccoliero, direttrice della casa circondariale di Torino - Il carcere anticipa i fenomeni sociali e questo dato è un campanello d’allarme, un effetto di ciò che accade nelle nostre strade. L’indagine può aiutare gli amministratori locali a mettere in atto delle politiche di prevenzione e di sostegno per i giovani e per le loro famiglie”. Gianna Pentenero, assessora con delega alla Polizia municipale e al carcere, conclude: “Questa ricerca è uno strumento utile per capire un fenomeno significativo e preoccupante. Finora non avevamo numeri da cui partire e un quadro chiaro della situazione. Negli anni sono stati fatti molti investimenti sui giovani e su Barriera di Milano e dobbiamo capire quali hanno funzionato e quali no, per capire quale strada prendere. E soprattutto dobbiamo attivare politiche che non siano a macchia di leopardo ma siano legate tra di loro da un filo conduttore”. Cagli (Pu). “Le voci di dentro”, installazione musicale con testi dei detenuti-attori di Elisabetta Marsigli Corriere Adriatico, 29 dicembre 2022 L’affascinante evento conclusivo del Festival regionale di teatro in carcere nelle Marche si terrà, oggi (dalle 18 alle 20) e domani (dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 20), al teatro Comunale di Cagli. “Le voci di dentro” è una installazione di teatro sonoro realizzata da Fabrizio Bartolucci e Anissa Gouizi, che ha realizzato il progetto musicale, mentre le voci e i testi sono dei detenuti attori del laboratorio teatrale della Casa di Reclusione di Fossombrone. Il progetto prende a prestito il titolo dall’opera di Eduardo, e in qualche modo anche il muoversi tra sogno e realtà per dar voce al ‘dentro’ personale e collettivo. Un’istallazione teatrale composta da una serie di quadri sonori per voci e suoni appunto che da “dentro” si aprono verso l’esterno per descrivere altri interni. “Si tratta di un lavoro nato in pieno lockdown, quasi come risposta all’impossibilità fisica di fare laboratorio, così come da anni facciamo con i detenuti del carcere di Fossombrone”, spiega Bartolucci che lavora da oltre 10 anni con la sezione di Levante del carcere. Un laboratorio integrato con detenuti, alcuni attori e laboratoristi esterni che produce ogni anno una rappresentazione aperta al pubblico. È di qualche anno fa il docu-video ‘Moliere dentro’ che attraverso “Il malato immaginario” riportava al pubblico l’esperienza teatrale in carcere. In questa occasione, dalla lettura del testo teatrale di Eduardo da cui il progetto ha preso a prestito il titolo, si è lavorato sul racconto, con particolare riferimento alla narrazione orale: dalla tradizione letteraria e popolare a storie e personaggi evocati dalla memoria dei partecipanti. Voci e parole hanno costruito, stanza per stanza, una casa raccontata attraverso le immagini sonore. “Casa” è il nome dato all’unica clip nella quale si possono ravvisare dei riferimenti ad un luogo materiale: “sono descrizioni, ricordi, riflessioni, che abitano lo spazio, componendo una scena di parole e musica. Un ponte di immagini sonore che evocano luoghi della memoria, luoghi che erano o che vorrebbero essere, luoghi che risiedono nei ricordi e in proiezioni mentali dove anche la cella finisce per essere inevitabilmente un luogo della mente”. L’ingresso, la cucina, la sala, il bagno, la camera da letto, ogni interno è divenuto occasione di un racconto sonoro personale tra memoria e presente. “Con Anissa, che si è occupata della parte musicale - conclude Bartolucci - abbiamo creato due percorsi laboratoriali che si sono mossi in parallelo sino a confluire nel prezioso lavoro di montaggio realizzato dagli allievi del Corso di Processi e Tecniche dello spettacolo Multimediale della Accademia di Belle Arti di Macerata”. Ogni traccia vive di un’essenza autonoma, tecnicamente trattata in maniera indipendente dalle altre, ma unita da un filo rosso che accompagna l’ascoltatore. La musica diviene parte del racconto stesso: scompare in altre tracce, facendo percepire la propria assenza, sostituita da effetti sonori che giocano l’elemento descrittivo del non-luogo: una vecchia televisione che narra di un evento sportivo, l’acqua che riempie una vasca da bagno, mentre le voci, in sovrapposizioni polifoniche, trascinano l’ascoltatore in un ambiente plurale che fonde narrazioni ed esperienze personali, anche molto diverse tra loro, in un unico ‘dentro’. Montaggio e design audio sono a cura di Alessia Trasarti, Simone Alvear Calderon, Michele Casalino, Francesca Casalino (dell’Accademia di Belle Arti di Macerata). L’ingresso all’installazione è gratuito e prevede piccoli gruppi. La morsa del bisogno, nuovi poveri scivolano verso la cronicità di Adriana Pollice Il Manifesto, 29 dicembre 2022 File alle mense nel periodo natalizio. De Capite (Caritas): “Cresce l’utenza del 7% e aumentano anche le persone che non si erano mai rivolte prima ai nostri servizi. Una misura di contrasto alla povertà serve ma va adeguata al contesto, senza ripartire d’accapo”. Le lunghe file alle mense nei giorni di Natale sono diventate il simbolo di quella parte di paese che continua a scivolare verso le povertà. Nunzia De Capite, sociologa dell’ufficio Politiche sociali Caritas: “Nelle grandi città nei periodi a ridosso delle feste c’è sempre un aumento dell’affluenza perché alcuni servizi si contraggono, non ci sono ad esempio le mense parrocchiali, e quindi cresce il numero di chi si rivolge alle strutture più grandi. Quest’anno però può aver contributo l’aumento dei prezzi generalizzato. Siamo in un periodo di affaticamento economico per molti, soprattutto per chi versa in condizioni già difficili. E poi i giorni di festa attirano un numero maggiore di persone, c’è voglia di stare insieme anche da parte di chi normalmente non andrebbe in mensa”. Il Rapporto Caritas su povertà ed esclusione sociale dà la misura di quanto la situazione sia difficile: “Nel 2021 la povertà assoluta conferma i suoi massimi storici toccati nel 2020, anno di inizio della pandemia. Le famiglie in povertà assoluta risultano 1 milione 960mila, pari a 5.571.000 persone (il 9,4% dei residenti). L’incidenza è più alta nel Mezzogiorno (10% dal 9,4% del 2020) mentre scende al Nord, in particolare nel Nord-Ovest (6,7% da 7,9%). L’incidenza delle persone straniere si attesta al 55%, con punte che arrivano al 65,7% e al 61,2% nelle regioni del Nord-Ovest e del Nord-Est. Di contro, nel Sud e nelle Isole prevalgono gli assistiti di cittadinanza italiana che corrispondono rispettivamente al 68,3% e al 74,2% dell’utenza”. Se questo è il quadro di partenza, i dati 2022 e le prospettive per il 2023 non sembrano offrire molte speranze: “La situazione non ci lascia ben sperare - prosegue De Capite -. Nel 2021 abbiamo censito 227mila persone, che sono solo una parte di quelli che si rivolgono alla rete Caritas: c’è stato un aumento rispetto all’anno precedete di circa il 7%. Cresce l’utenza e crescono anche le persone che non si erano mai rivolte prima alla Caritas, un trend in aumento dal 2018 che nel 2021 ha raggiunto quota 40%, rimane invece stabile la quota di persone che seguiamo da più di 5 anni: 40% di nuovi poveri e 25% di cronici. Una morsa da cui le persone non riescono a uscire”. Gli interventi del governo invertiranno la situazione? “Le persone che si rivolgono alla Caritas sono prevalentemente famiglie con figli, con figli minori in particolare (rispettivamente il 64 e il 70%) - spiega De Capite. Nell’ultima legge di bilancio è stato previsto l’aumento dell’assegno unico per le famiglie con Isee basso. Ci sarà un sostegno pubblico più sostanzioso resta il fatto che la situazione di questi nuclei è critica. Un altro tema che emerge in modo esplosivo è quello della casa: sono anni che abbiamo bisogno di politiche strutturali e anche le previsioni del Pnrr sono parziali. Ci vuole un intervento sull’edilizia residenziale pubblica e sugli affitti. Siamo preoccupati e ci aspettiamo che la situazione non migliori”. E poi c’è il tema del lavoro, nel rapporto Caritas si legge: “Si rafforza nel 2021 la consueta correlazione tra stato di deprivazione e bassi livelli di istruzione. Cresce infatti il peso di chi possiede al massimo la licenza media, che passa dal 57,1% al 69,7%; tra loro si contano anche analfabeti, senza alcun titolo di studio o con la sola licenza elementare. Nelle regioni insulari e del Sud, dove lo ricordiamo c’è una maggiore incidenza di italiani, il dato arriva rispettivamente all’84,7 e al 75%”. De Capite: “Bisogna immaginare percorsi di formazione per persone che spesso sono lontane dal mondo del lavoro e hanno un basso livello di istruzione. Non hanno contratti di lavoro da 1, 2, 3 anni, non hanno qualifiche e hanno perso anche quelle competenze relazionali, le soft skills, così non sanno cercare lavoro e non si sanno neppure approcciare al lavoro. Sono fasce particolarmente deboli che richiedono un accompagnamento per un periodo lungo con percorsi graduali, non un tirocinio di un mese. L’altro intervento andrebbe fatto sulle imprese: servono strumenti di cerniera altrimenti non si crea comunicazione tra domanda e offerta. Il programma Gol (Garanzia occupabilità lavoratori) del Pnrr dovrebbe andare in questa direzione ma dobbiamo aspettare la parte di applicazione delle regioni. Interfacciassi con realtà come la nostra permetterebbe di disegnare dei percorsi formativi che tengano conto della reale situazione di queste persone”. Resta il nodo di come intercettare le persone a rischio o già in povertà: “Fondamentale una presenza sul territorio, un lavoro che fanno spessissimo i servizi sociali. Ma negli ultimi anni, e con la pandemia in misura maggiore, si è creata una distanza molto forte tra le persone in condizione di bisogno e il sistema di risposte pubblico. Molti non sanno che aiuti possono ricevere e a chi si devono rivolgere. Un effetto anche del processo di digitalizzazione del sistema di welfare con il passaggio alle piattaforme. Certo, ci sono i Caf e i patronati ma non basta. Alla fine i più esclusi restano fuori dal sistema. Se sei stato in grado di ottenere l’Isee e hai superato i primi ostacoli, alcune cose le hai in automatico: Reddito di cittadinanza, assegno unico, il bonus elettrico. Ma i passaggi iniziali sono un problema soprattutto per i nuovi poveri. L’avvicinamento al sistema di tutele pubblico è un tema che si risolve potenziando gli operatori, una mediazione fondamentale perché avvicina alla Cosa pubblica. Senza, avremo cittadini esclusi, arrabbiati e un forte scollamento sociale”. A pagare la mancanza di personale è il Sud e, in generale, le realtà (anche del Nord) in difficoltà. Emblematico il caso della finanziaria del 2020 rispetto ai fondi per le assunzioni degli assistenti sociali nel 2021 (poi corretto nella legge di bilancio successiva): il meccanismo premiava i territori che avevano già un operatore ogni 5mila abitanti, offrendo la possibilità di arrivare a uno ogni 4mila. Mentre bloccava le assunzioni per chi aveva un rapporto inferiore a uno ogni 6.500 abitanti penalizzando chi aveva più bisogno. È possibile dismettere il Reddito di cittadinanza se la situazione è questa? “Una misura di contrasto alla povertà serve - conclude De Capite -, c’è in tutti i paesi civili. Il Reddito richiede grossi ritocchi sulla parte dei criteri, delle soglie e serve il rafforzamento dei centri per l’impiego. Va resa adeguata alle situazioni di povertà che ci sono nel nostro contesto nazionale. È un tema che va affrontato a patire dai dati che abbiamo e dai difetti di funzionamento individuati, non c’è bisogno di ripartire d’accapo. Valorizziamo piuttosto quello che già sappiamo”. Migranti. Decreto Piantedosi sulle Ong. Multe, sequestri e confische di Giansandro Merli Il Manifesto, 29 dicembre 2022 Intorno alle 20 di ieri il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legge sull’immigrazione che introduce nuove regole per le navi delle organizzazioni umanitarie attive nel Mediterraneo. Contestualmente a un’altra misura analoga che riguarda impianti di interesse strategico e nazionale. In una logica opposta a quella dei “porti chiusi” salviniani, il regolamento garantisce “transito e sosta in territorio nazionale” a condizione che le Ong rispettino sette requisiti. Questi varranno soltanto per i mezzi che effettuano attività di ricerca e soccorso di natura sistematica. In caso di violazioni sono previste multe fino a 50mila euro, il sequestro dei mezzi, fino alla confisca. L’obiettivo principale del governo è quello di impedire alle organizzazioni umanitarie di realizzare più soccorsi durante la stessa missione. Per questo il porto di sbarco va chiesto nell’immediatezza del primo intervento e raggiunto senza ritardo. Inoltre le modalità di ricerca e soccorso non devono aggravare situazioni di pericolo a bordo - tradotto: le navi non devono continuare a pattugliare le acque internazionali davanti la Libia con i naufraghi a bordo - e nel caso di operazioni plurime queste devono rispettare l’obbligo di notifica e quello di arrivo nel luogo di sbarco senza ritardo. Un punto, quest’ultimo, che risulta ambiguo e sembra voler ostacolare la possibilità, o meglio il dovere, di rispondere a casi Sar (search and rescue) ancora aperti dopo aver già effettuato un soccorso. Per comprendere in pieno questa disposizione bisognerà vedere cosa accade in mare perché è proprio in casi simili che la normativa italiana potrebbe entrare in conflitto con quelle internazionali di rango superiore. Già da due settimane il Viminale ha adottato la prassi di indicare un porto, lontanissimo, subito dopo il primo salvataggio: mentre Life Support e Sea-Eye 4 navigavano verso Livorno hanno risposto a degli Sos salvando i migranti in pericolo su due diversi barconi. Difficile credere che con il nuovo regolamento sarebbe cambiato qualcosa: se il comandante non offre assistenza a chi chiede aiuto si macchia di omissione soccorso. Altri punti del regolamento prevedono che le navi rispettino alcune condizioni di sicurezza e idoneità alla navigazione nelle acque territoriali e che i capitani raccolgano le intenzioni di richiesta di protezione internazionale tra i naufraghi e forniscano tutti gli elementi necessari a ricostruire nel dettaglio le fasi del salvataggio. L’aspetto che riguarda le richieste di asilo è controverso e rischia di aprire un nuovo scontro a livello europeo, se l’intenzione del governo è insistere affinché i paesi di bandiera delle navi, almeno quelli Ue, se ne facciano carico. Il secondo elemento si riferisce alla collaborazione dell’equipaggio nell’identificazione degli scafisti. Ruolo che non ha nulla a che fare con quello dei trafficanti, come spesso si crede, e tende a ricadere sui migranti più poveri che non riescono a pagare il viaggio o su quelli che hanno delle competenze nautiche di base. In ogni caso non sarà semplice per personale che non è formato a ruoli di polizia concentrarsi su questo aspetto. Le misure punitive previste dal provvedimento saranno di tipo amministrativo, come già nei decreti sicurezza di Salvini e differentemente dalla riforma Lamorgese. È una questione centrale perché, oltre a privare le Ong delle più ampie tutele garantite dal diritto penale, assegna il potere di imporre le sanzioni ai prefetti. Rendendole dunque più efficaci. Quelle previste sono multe fino a 50mila euro, fermi amministrativi e addirittura confische delle navi in caso di recidiva. Da notare che nei casi di blocco dei mezzi è stabilito esplicitamente che i custodi dovranno essere armatore, comandante o altri soggetti obbligati in solido. Questo per scaricare su di loro le spese di custodia. Evidentemente il governo è memore dello schiaffo che il giudice per le indagini preliminari di Trapani ha dato alla locale capitaneria di porto stabilendo che, in quanto custode giudiziario, deve ristabilire le condizioni originali della nave Iuventa sequestrata ad agosto 2017. Dal decreto sono rimaste escluse, per dissidi tra i partiti di maggioranza, le misure contro baby gang, cyberbullismo e violenza sulle donne. Saranno discusse nelle prossime settimane. Migranti. Codice Ong: sanzioni fino a 50mila euro e sequestri per le navi che violano le norme di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 29 dicembre 2022 Il nuovo regolamento garantisce “transito e sosta in territorio nazionale” per i soccorsi in mare che devono essere “immediatamente comunicati” insieme alla richiesta di un porto di sbarco che deve essere raggiunto senza ritardo. Il governo si appresta ad approvare per decreto il nuovo codice per le Ong che effettuano il soccorso in mare. Regole e sanzioni sono previste sia per il comandante della nave sia per l’armatore. Ma anche norme semplificate per la richiesta di asilo e di permesso di soggiorno o per chi dimostrerà di aver i requisiti. Ecco cosa prevede la bozza portata in consiglio dei ministri.  Il soccorso - Secondo il nuovo regolamento “il transito e la sosta in territorio nazionale sono comunque garantiti ai soli fini di assicurare il soccorso e l’assistenza a terra delle persone prese a bordo a tutela della loro incolumità”. Le operazioni di soccorso devono essere “immediatamente comunicate al centro di coordinamento competente per il soccorso marittimo nella cui area di responsabilità si svolge l’evento e allo Stato di bandiera ed effettuate nel rispetto delle indicazioni delle predette autorità”.  I requisiti - Le navi che effettuano “in via non occasionale attività di ricerca e soccorso in mare devono:  1) avere i requisiti di idoneità tecnico-nautica alla sicurezza della navigazione nelle acque territoriali; 2) aver avviato tempestivamente iniziative volte ad acquisire le intenzioni di richiedere la protezione internazionale;  3) aver richiesto all’Autorità SAR competente, nell’immediatezza dell’evento, l’assegnazione del porto di sbarco; 4) il porto di sbarco individuato dalle competenti autorità è raggiunto senza ritardo per il completamento dell’intervento di soccorso; 5) devono fornire alle autorità per la ricerca e il soccorso in mare italiane, ovvero, nel caso di assegnazione del porto di sbarco, alle autorità di pubblica sicurezza, le informazioni richieste ai fini dell’acquisizione di elementi relativi alla ricostruzione dettagliata delle fasi dell’operazione di soccorso effettuata;  6) le modalità di ricerca e soccorso in mare da parte della nave non devono aggravare situazioni di pericolo a bordo né impedire di raggiungere tempestivamente il porto di sbarco; 7) nel caso di operazioni di soccorso plurime, le operazioni successive alla prima devono essere effettuate in conformità agli obblighi di notifica e non devono compromettere l’obbligo di raggiungimento, senza ritardo, del porto di sbarco. Le sanzioni  - Se si violano le regole “si applica al comandante della nave la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 10.000 a euro 50.000. La responsabilità solidale si estende all’armatore e al proprietario della nave”.  - Alla contestazione “della violazione consegue l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria del fermo amministrativo per due mesi della nave utilizzata per commettere la violazione. L’organo accertatore, che applica la sanzione del fermo amministrativo, nomina custode l’armatore o, in sua assenza, il comandante o altro soggetto obbligato in solido, che fa cessare la navigazione e provvede alla custodia della nave a proprie spese”. - Contro il fermo amministrativo della nave “è ammesso ricorso, entro sessanta giorni dalla notificazione del verbale di contestazione, al Prefetto che provvede nei successivi venti giorni”.  -In caso di reiterazione della violazione “commessa con l’utilizzo della medesima nave, si applica la sanzione amministrativa accessoria della confisca della nave e l’organo accertatore procede immediatamente a sequestro cautelare”. - Quando il comandante della nave o l’armatore “non fornisce le informazioni richieste dalla competente autorità nazionale per la ricerca e il soccorso in mare o non si uniforma alle indicazioni della medesima autorità si applica la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 2.000 a euro 10.000. Alla violazione consegue l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria del fermo amministrativo per venti giorni della nave utilizzata per commettere la violazione. In caso di reiterazione della violazione, la sanzione amministrativa accessoria del fermo amministrativo è di due mesi.  Lavoratori stranieri - Per semplificare le procedure “il nulla osta è rilasciato in ogni caso qualora, nel termine indicato, non sono state acquisite dalla questura le informazioni relative agli elementi ostativi”. Se poi si dimostra che non ci sono i requisiti viene disposta “la revoca del nulla osta e del visto, la risoluzione di diritto del contratto di soggiorno, nonché la revoca del permesso di soggiorno”.  Corsi di formazione - È consentito “il rilascio del visto di ingresso e del permesso di soggiorno per lavoro subordinato allo straniero che supera un corso di formazione organizzato nei limiti delle richieste, anche nominative, di assunzione comunicate allo sportello unico per l’immigrazione dai datori di lavoro tramite le associazioni di categoria del settore produttivo interessato”. I lavoratori “sono ammessi al corso qualora non sono state acquisite dalla questura le informazioni relative agli elementi ostativi. La domanda di visto di ingresso è presentata, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla conclusione del corso ed è corredata dalla conferma della disponibilità ad assumere da parte del datore di lavoro”. Se emergono elementi ostativi “consegue la revoca del visto, la risoluzione di diritto del contratto di soggiorno, nonché la revoca del permesso di soggiorno”. Migranti. Una misura odiosa di Carlo Bonini La Repubblica, 29 dicembre 2022 Il decreto anti-Ong del governbo Meloni non risolve il tema dei migranti, destinati a vivere maggiori difficoltà. Diciamolo per quello che è. Il decreto migranti - che è più esatto definire il decreto Ong - licenziato dal Consiglio dei ministri - è una misura di bandiera ed è, per giunta, una misura odiosa. Nel metodo e nel merito. Un governo privo anche solo di un semplice straccio di disegno politico utile a fronteggiare una vicenda epocale e complessa come quella dei flussi migratori dal Sud del mondo, sceglie infatti la scorciatoia autarchica di ridurre la questione a un regolamento di conti con le Organizzazioni non governative, già additate a feticcio di campagna elettorale. E, per farlo e per giustificare il ricorso allo strumento della decretazione di urgenza, trasforma le attività di soccorso umanitario nel basso Tirreno in potenziale minaccia all’ordine pubblico e alla sicurezza nazionale. Anche a dispetto del dato oggettivo che le vuole responsabili soltanto di un modesto 11 per cento del totale degli arrivi di migranti nel nostro Paese. Di più: nel farlo, impone per legge norme di comportamento e relative sanzioni che hanno una funzione esclusivamente afflittiva. Non dunque quella - ragionevole - di incardinare il soccorso umanitario in una cornice più ampia di coordinamento del soccorso in mare. Ma, più crudelmente, di rendere quell’attività umanitaria sempre più difficile. Se non impossibile. Con un unico risultato: svuotare il Mediterraneo di occhi e orecchie in grado di testimoniare o anche solo di provare a impedire che il nostro mare continui ad essere un immane e silenzioso cimitero di innocenti. Né è utile a ripulire il decreto dall’odioso cinismo che lo ispira l’affermazione, ripetuta dal governo dal giorno uno del suo insediamento, che le nuove norme siano necessarie a colmare un vuoto regolamentare di cui le Ong avrebbero abusato nelle loro operazioni di soccorso. Per un semplice motivo. Che un codice di comportamento “pattizio” tra Stati e Ong esiste da tempo, è stato adottato dai 27 Paesi dell’Ue ed è regolarmente richiamato in ogni summit dedicato al tema dei migranti. Il ministro dell’Interno sa bene che il decreto che rende impossibile la vita agli equipaggi delle navi delle Ong non solo non risolve il tema dei flussi e degli sbarchi (la cui geografia si è per altro modificata nel tempo, come testimonia l’aumento degli approdi sulle coste calabresi). Ma, soprattutto, sa bene, per esperienza, che non esiste una “via italiana” alla questione migratoria. Mettere dunque la faccia e il suo nome su questa misura non solo non gli renderà il lavoro più agevole ma, se possibile, glielo renderà ancora più complicato. Il messaggio che, da ieri sera, Meloni torna a mandare all’Europa è infatti quello di un Paese, l’Italia, la cui supponenza autarchica è pari solo al suo isolamento. Introdurre la possibilità di chiedere asilo politico al Paese la cui bandiera batte la nave Ong, battezzare come “porto sicuro” l’approdo possibilmente più lontano dal punto di primo salvataggio, serve infatti solo a riproporre un’idea infantile, coatta, dei rapporti tra Stati partner in Europa. Per altro, dimostrando di non aver imparato nulla dalla crisi con Francia e Germania del mese scorso. Quando il braccio di ferro con Parigi e Berlino è servito solo a non ottenere alcunché in sede europea e a ricacciare in fondo all’agenda di Bruxelles il tema dei migranti. È quello che accade a chi, come Meloni, si illude che il vuoto pneumatico di visione, progetto e ascolto di un governo, possa essere riempito, appunto, da qualche norma di bandiera da agitare di fronte agli occhi della propria base elettorale. Soprattutto se accompagnata da qualche indecente spin da veicolare sui social. Sarebbe confortante sapere che qualcuno, a Palazzo Chigi, abbia la voglia e la forza di bucare la bolla di devozione narcisista in cui la premier è assisa per interrompere questa drammatica coazione a ripetere. Che oggi misuriamo sui migranti e, da domani, misureremo con la minaccia che il Covid torna a portare alle nostre esistenze. Ma questo presupporrebbe la consapevolezza che un governo, per quanto politico, ha il dovere di rispondere anche e soprattutto a chi non lo ha scelto ed opera in un quadro che non è delimitato soltanto dalle nostre acque territoriali o dai nostri confini terrestri. Evidentemente, non accadrà. Nel frattempo, potremo addormentarci ogni sera sapendo che abbiamo reso la roulette russa con la vita di chi prende il mare fuggendo dalla disperazione una sfida ancora più impari. Che poi saperci feroci non ci avrà reso più forti è naturalmente un dettaglio. Movimenti. Repressione senile degli eccessi giovanili di Marco Perduca Il Manifesto, 29 dicembre 2022 “Non è vandalismo ma il grido d’allarme di chi non si rassegna ad andare incontro alla distruzione del Pianeta e, con esso, della propria vita”. Queste le parole usate per rivendicare le azioni nei musei di Just Stop Oil, Extinction Rebellion e Ultima Generazione (le ultime della rete A22 attiva in 13 Paesi) che aggiornano la nonviolenza classica contro il collasso climatico in un mondo che pare assuefatto a qualsiasi cataclisma e non si rende conto di dove sta andando. La direzione di chi milita in questi gruppi è invece chiara: l’irritazione, anche manesca, dell’opinione pubblica e la restrizione della libertà personale. Il 3 dicembre, su richiesta della questura di Pavia, il Tribunale di Milano ha fissato al 10 gennaio l’udienza per decidere l’applicazione di misure di sorveglianza speciale per Simone Ficicchia, ventenne militante di Ultima Generazione che ha partecipato a blocchi stradali, verniciate della Scala di Milano e incollamenti agli Uffizi. In 76 pagine il decreto della Questura descrive Ficicchia come “soggetto socialmente pericoloso” perché “denunciato e condannato più volte” - circostanze smentite dal suo legale. Le misure di prevenzione (desunte dai codici antimafia!) sono previste per la tutela della sicurezza pubblica indipendentemente e a prescindere dalla precedente commissione di un fatto criminoso. Ficicchia ha accumulato decine di “fogli di via” e confronti, ma non scontri, con le forze dell’ordine, maledizioni di automobilisti e passanti e appelli dai direttori dei musei ma non condanne. Mentre si veniva a conoscenza di questo caso, la Camera convertiva in legge il decreto “anti-rave” e sette giovani evadevano dal Carcere minorile di Milano. Nell’Italia del 2022 si continua ad affidare al diritto penale la gestione di fenomeni che sfuggono schemi “classici” - della nonviolenza, dello stare insieme o del punire minorenni. Il Governo con l’età media tra le più alte della storia repubblicana non fa tesoro di quanto ha vissuto ma riafferma in toto misure volte a tranquillizzare una parte dell’elettorato, senza tentare di comprendere quanto è chiamato a governare. Ma non è il solo. A novembre l’international Council of Museums aveva diffidato dall’imbrattare le opere d’arte perché “patrimonio dell’umanità”. La lettera confermava in toto il motivo di quelle azioni, talmente evidente era il distacco dalla realtà e dalle finalità delle attiviste che qualche giorno dopo ne uscì un’altra per ribadire che “i musei hanno un ruolo da svolgere nel plasmare e creare un futuro sostenibile. La società civile è un attore chiave nell’azione per il clima. Dobbiamo agire per il pianeta collettivamente perché non esiste soluzione climatica senza una trasformazione del mondo”. Un raro ravvedimento operoso per ora sconosciuto a politica, istituzioni o intellighenzia. In giorni in cui in molte località italiane si prende il sole in costume da bagno e le strade negli Usa sono paralizzate da gelate mortali, occorre un salto di qualità attivista. Andreas Malm, docente di Ecologia umana all’Università svedese di Lund, descrive due tipi di “pacifismo”: morale e strategico. Per il primo la violenza è sempre un errore, per il secondo la nonviolenza è il mezzo più efficace fino a quando, però, non aliena le simpatie dell’opinione pubblica. Imbrattare Van Gogh o bloccare raccordi stradali istiga antipatie acculturate e non. Un po’ come ballare per ore con la musica a tutto volume. Ultima Generazione si chiama così perché ritiene che solo qui e ora si possa ancora agire per bloccare concretamente il collasso climatico e garantire un futuro. Nessuno come loro pare esser in grado di espandere il repertorio nonviolento e praticare il gandhiano “essere il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo”. Con buona pace della Questura di Pavia ci vediamo il 10 al tribunale di Milano. Turchia. Confermato l’ergastolo per Osman Kavala, il “miliardario rosso” odiato da Erdogan di Anna Lombardi La Repubblica, 29 dicembre 2022 La preoccupazione degli Usa. Per il filantropo si erano spese le cancellerie occidentali e la Corte dei diritti umani aveva bocciato la condanna. La sua reazione: “Omicidio giudiziario”. Nel mirino delle autorità per il supporto al movimento di Gezi Park nel 2013. Osman Kavala finirà i suoi giorni in carcere. Un tribunale di Istanbul ha infatti confermato ieri in appello la condanna all’ergastolo per il 64enne editore filantropo, il miliardario attivista per i diritti umani grande oppositore del presidente Recep Tayyip Erdogan. Era stato arrestato nell’ottobre 2017 e detenuto nel carcere di massima sicurezza di Silivri per aver sostenuto le proteste antigovernative del movimento “Gezi” (dal nome del parco dove avvenivano le proteste) nel 2013. Assolto nel 2020, era stato immediatamente riarrestato con l’accusa di aver tentato un presunto colpo di Stato nel 2016. Secondo la stampa filogovernativa, il “miliardario rosso” come lo hanno dispregiativamente soprannominato, avrebbe poi rapporti con il filantropo americano di origine ungherese George Soros, e avrebbe “finanziato terroristi” su suo mandato. Come sottolineano i suoi legali, nessuna prova concreta in tal senso è mai stata fornita. Ciò nonostante, i giudici hanno confermato la sua condanna e quelle a 18 anni inflitte in primo grado, a fine aprile, pure ai suoi sette coimputati, accusati di averlo sostenuto. Resta ora una flebile speranza: sun ennesimo appello, alla Corte di cassazione. Se anche quello sarà rigettato, le porte del carcere si chiuderanno definitivamente. Lui finora non si è dato per vinto. E durante il processo ha perfino denunciato quello che ha definito “assassinio giudiziario” nei suoi confronti. Mentre i suoi tre avvocati hanno sostenuto nelle loro memorie la mancanza di prove e le motivazioni squisitamente politiche del processo, tanto più che la condanna all’ergastolo è accompagnato da una “clausola di sicurezza” che esclude ogni remissione della pena. Nel febbraio scorso pure la Corte europea dei diritti dell’uomo era intervenuta, avviando una “procedura per inadempimento” contro la Turchia, che potrebbe perfino portare a sanzioni contro Ankara. Già allora, infatti, le cancellerie occidentali si mobilitarono in suo favore. Ora sono gli Stati Uniti a protestare: in una nota il Dipartimento di Stato dice di essere “turbato e deluso” dalla conferma della condanna “Incompatibile con il rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto”. E torna a chiedere alla Turchia di rilasciare Kavala “in linea con le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, nonché di liberare tutti gli altri detenuti arbitrariamente. Il popolo turco merita di esercitare i propri diritti umani e le libertà fondamentali senza timore di ritorsioni”. L’editore di Iletisim, la più prestigiosa casa editrice turca, creatore pure della fondazione Anadolu Kültür nata per discutere questioni spinose della società turca e fondatore del centro culturale Depo, nato in un ex magazzino del tabacco nel centro di Istanbul, è noto per il suo impegno sulla questione curda e armena.