Il Papa chiede clemenza per i detenuti. Qualcuno lo ascolterà? di Valter Vecellio Il Dubbio, 28 dicembre 2022 Mattarella faccia il suo piccolo indulto. Magari concedendo una grazia per ognuno dei detenuti che quest’anno si è tolto la vita. Anche quest’anno praticamente solo i Radicali hanno trascorso parte del loro Natale in carcere con i detenuti e la comunità penitenziaria, in solidarietà con quanto sono costretti a vivere e patire. C’è poi il ministro Matteo Salvini. Non perde occasione per dire quello che pensa, anche se spesso dovrebbe pensare di più a quello che dice. Interviene sui fatti del Beccaria di Milano. Bisogna mettere le carceri in sicurezza. Sì, anche se certamente la “sua” sicurezza è diversa da quella che auspicano la civiltà giuridica, le leggi, la Costituzione. TV e giornali a cadenza quotidiana ci informano di quello che dicono e fanno papa Francesco e i loro collaboratori, gli appelli, le prese di posizione. Uno è stato ignorato. L’invito, a tutti i governanti, in vista del Natale, a concedere un indulto. La richiesta è rivolta a tutti i capi di Stato. L’indulto è un provvedimento che in Italia compete al Parlamento. Tutti presi come sappiamo dalla legge di Bilancio, quest’appello del Pontefice non è stato minimamente raccolto. Qui non si ha nessuna intenzione, ovviamente, di tirare per la giacchetta il capo dello Stato Sergio Mattarella. Si ricorda solo che dispone di un potere, quello di “Grazia”. Faccia lui il suo piccolo indulto. Scelga un certo numero di detenuti a cui concedere la grazia. Magari 81 grazie più tre: una grazia per ognuno dei detenuti che quest’anno si è tolto la vita, 81 appunto; più tre: gli agenti della polizia penitenziaria. Perché anche loro si tolgono la vita, e probabilmente le condizioni in cui anche loro sono costretti a vivere e lavorare incidono in quella loro drammatica decisione di farla finita. Sarebbe un gesto simbolico ma denso di significato, e un segnale inequivocabile a tutta la classe politica, di governo e di opposizione: gli oltre ottanta suicidi in carcere, per non dire di quelli sventati e delle migliaia di atti di autolesionismo, impongono, dovrebbero imporre riflessione e azione di governo. Papa Francesco lancia un appello in favore del miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri “affinché sia rispettata pienamente la dignità umana dei detenuti” e ribadisce “l’importanza di riflettere sulla necessità di una giustizia penale che non sia esclusivamente punitiva, ma aperta alla speranza e alla prospettiva di reinserire il reo nella società”. Un appello rivolto certamente a chi si onora e ci ricorda di essere cristiano e cattolico; ma che vale anche per i laici e i non credenti. E dovrebbe essere l’occasione, per i mezzi di comunicazione, per informare, far conoscere la realtà carceraria, le possibili soluzioni e riforme. Per una vera “sicurezza”, non le intemerate di un ministro che cerca in ogni modo di guadagnare una briciola di visibilità mediatica. I suicidi nelle carceri, un’onta da cancellare di Antonio Mattone Il Mattino, 28 dicembre 2022 Mentre è cominciato il conto alla rovescia dei giorni che mancano all’inizio del nuovo anno, c’è un altro conteggio che emerge in queste ore in tutta la sua crudezza. E’ il numero di suicidi registrato nelle carceri italiane nel 2022, ben ottantuno. Mai da quando si rileva il dato e, probabilmente nella storia della Repubblica italiana, era accaduto che così tanti detenuti avessero messo in atto l’estrema decisione di porre fine alla loro esistenza. Negli anni ‘60 non venivano superati i venti suicidi nell’arco dei dodici mesi, con il minimo storico di 5 casi nel 1966, quando la media dei detenuti fu di 25mila presenze, meno della metà di quelle attuali. Certo anche un solo carcerato che si toglie la vita rappresenta una ferita, tuttavia quando il fenomeno assume queste dimensioni, quando all’interno delle galere ci si ammazza 15 volte di più rispetto a quanto accade nel mondo libero, ci si deve porre qualche domanda, bisogna provare a capire cosa può scatenare questa scelta estrema. Dall’anticipazione di uno studio del Garante nazionale dei detenuti emergono alcuni elementi statistici: sono 76 uomini e 5 le donne; 47 sono di nazionalità italiana, 34 gli stranieri; Quarantanove persone, poco più del 60%, si sono suicidate nei primi sei mesi di detenzione, di cui 15 entro i primi 10 giorni e ben 9 entro le prime 24 ore dall’ingresso; cioè quasi un suicidio su 5 avviene nei primi 10 giorni di carcerazione; inoltre, 40 detenuti avevano una pena residua inferiore ai tre anni. Questo vuol dire che i momenti dell’ingresso e quelli dell’uscita sono quelli più critici. L’impatto con le sbarre delle celle rappresenta uno choc traumatico per chi ci finisce per la prima volta o un ennesimo fallimento per chi ci ritorna. Invece, la paura di tornare in libertà senza alcuna prospettiva, magari con la perdita della stabilità lavorativa o affettiva diventa un trauma insostenibile. Ricordo un giovane che lavorava in una vetreria che temendo che la moglie avesse allacciato una relazione sentimentale, un mese prima di uscire di galera decise di farla finita, con grande sorpresa di coloro che ne conoscevano il carattere e il temperamento. Forse la più grande emergenza riguarda coloro che hanno un disagio psichico o sociale. Sono 33 le persone con queste fragilità che si sono suicidate in carcere. Tra queste il più giovane che, arrestato per il furto di un telefonino, si è tolto la vita nel carcere milanese di San Vittore a 21 anni. Non avrebbe dovuto stare in galera perché da otto mesi attendeva di andare in una Rems, dove non c’era posto per le lunghe liste di attesa. Queste persone sono quelle più abbandonate, senza nessuno che le prenda in carico. Quasi sempre manca il collegamento con i dipartimenti di salute mentale dove erano in cura, e restano in balia della medicina difensiva passando da uno specialista ad un altro. E appena vanno in escandescenza e commettono gesti eclatanti, ecco l’occasione per liberarsi di loro. Vengono trasferiti ad altro istituto, vanificando il lavoro di qualche raro operatore di buona volontà che abbia cominciato a seguirli seriamente. L’estate è il momento più drammatico. La mancanza di operatori e la sospensione di quasi tutte le attività lascia ancora più soli i detenuti Nello scorso mese di agosto si sono registrati ben 17 casi. Non è il sovraffollamento che incide maggiormente sull’aumento dei suicidi. Quando nel 2012 la popolazione detenuta contava quasi 12mila persone in più di oggi si registrarono 25 suicidi in meno. Tuttavia, quando ci sono 600 detenuti in più della capienza regolamentare, come avviene oggi a Poggioreale, diventa più difficile seguire tutti. E’ la mancanza di speranza la ragione di fondo che induce a togliersi la vita in carcere. Quella disperazione che non fa vedere sbocchi e vie d’uscita a esistenze complicate, talvolta segnate dalla malattia mentale, fino a produrre un corto circuito letale. Allora ci sarebbe bisogno di figure specializzate come psicologi, psichiatri e mediatori culturali. Operatori che sappiano intercettare il disagio di questi soggetti fragili e intervenire per tempo. Chi frequenta un po’ le carceri sa quanto ce ne siano troppo poche. Il Governo, nella legge di bilancio che sta per essere approvata ha tagliato 35 milioni in tre anni per l’amministrazione penitenziaria, e questo non è un buon segnale. L’opinione pubblica appare disinteressata al destino dei carcerati, e non mostra alcuna empatia per chi in fondo se l’è voluta. Eppure ogni tanto capita a chi varca quel portone, di scorgere degli sguardi con una domanda inespressa, un desiderio nascosto di ricominciare e rimettere in gioco la propria vita. Non è forse questo il senso più profondo dell’articolo 27 della Costituzione? Carceri, ribelliamoci a questa disumanità. Se è buonismo, ne vado fiera di Ilaria Cucchi La Stampa, 28 dicembre 2022 La senatrice: “La parola sicurezza utilizzata solo per soddisfare un certo elettorato. Bisogna recuperare l’essenza delle vite di quei giovani cresciuti in solitudine e povertà”. Io sono buonista e ne vado fiera. Sì, se esserlo significa ribellarsi al cinismo tracotante, io sono buonista. Se vuol dire ribellarsi alla disumana indifferenza di fronte al disagio ed alla sofferenza di coloro che sono costretti a lavorare o, peggio, a vivere in condizioni disumane, io sono buonista. E di fronte a quella orrenda ed incivile comunicazione di coloro che risolvono tutto reclamando “sicurezza” senza nemmeno sapere di che cosa stanno parlando, usando quella parola a sproposito e col solo intento di compiacere negli anni chi è stato indotto a percepirne la necessità impellente anche quando non ve ne fosse alcun bisogno reale, io mi ribello e urlo: “IO SONO BUONISTA!”. “Sicurezza” è oramai per me diventata una parola sinistra. Essa sì, mi fa paura. Ho ascoltato con ansia i telegiornali che davano con enfasi la cronaca della rocambolesca evasione di sette detenuti da un penitenziario milanese il cui nome mi era inizialmente sfuggito. Solo alla fine mi sono resa conto che si trattava del Beccaria, un istituto minorile. Che quei sette pericolosi evasi erano in realtà dei ragazzi minorenni detenuti per reati comuni quali furto, spaccio, ecc ecc.. Fino a quel momento mi son sentita quasi in pericolo ma, poi, ridicola. Mi sono vergognata di me stessa. Ho provato tanta rabbia. Ancor di più quando ho sentito un ministro commentare l’episodio con queste parole pronunciate con enfasi e con la bocca piegata all’ingiù quasi a sottolineare un po’ il disgusto che provava verso quegli evasi ed un po’ a miglior enfasi della forza violenta del concetto che intendeva esprimere: “Le carceri vanno tutte messe in sicurezza”. Suonavano, più o meno, così. Che significano? Nulla o tutto. Quel ministro non sa proprio di cosa sta parlando. La delinquenza minorile (che termine orribile!) ha, al 30 novembre 2022, questi numeri: 389 sono i ragazzi detenuti negli istituti penitenziari minorili, 20 nelle comunità ministeriali, e 914 presso le comunità private. Oltre 14 mila, inoltre, sono i giovani minori presi in carico dai servizi sociali della giustizia minorile. Per lo più tra i 14 e 17 anni. Vorrei tanto chiedere a quel ministro: ma è possibile che Lei non riesca a condividere con tutti noi cittadini e, soprattutto, con genitori ed operatori che a vario titolo sono costretti ad occuparsi di questi ragazzi senza mezzi ed in condizioni terribilmente precarie, il profondo senso di sconfitta ed abbandono che proviamo per quelle giovani vite che rischiano ogni giorno di essere sprecate? È possibile che non si renda conto che sono cresciuti nella solitudine del disagio sociale e della povertà? Cosa significa metterli in sicurezza? Chiuderli a vita in una gabbia o, meglio, gettarli dalla rupe Tarpea perché nati difettosi? Significa forse questo? Non avremmo forse tutti, Stato in primis, il sacrosanto dovere di misurarci con le loro problematiche, di fornire loro tutta la migliore assistenza affinché se ne possa recuperare la nobile essenza delle loro vite a vantaggio di una società migliore? Sono 20 anni che, invece, questo Paese fa cassa riducendo coerentemente le risorse economiche destinate ad affrontare questi problemi con la conseguenza di ridurre al lumicino la presenza di risorse umane che operano nel settore, ed il rinvio sine die dei lavori di manutenzione dei fabbricati dei 17 istituti penitenziari per minori e delle tre (sic!) strutture di comunità ministeriali e cosi via. Questo per Lei significa “mettere in sicurezza”? Dopo la pandemia, lo saprà certamente, la conflittualità con la legge dei ragazzi è aumentata a dismisura anche per gravità dei fatti commessi. Sono stati pubblicati studi molto interessanti (cito e ringrazio la Cgil Funzione Pubblica) sul problema del disagio minorile e della violenza che sempre più viene utilizzata come mezzo per comunicare la propria identità e il proprio diritto di esistere. Sono concetti molto complessi. Troppo. Non vengono capiti e, comunque, non portano consenso. Vite da considerare, pertanto, perdute. Rifiuti da discarica così come discariche sono oramai concepite le nostre carceri. Nulla da eccepire riguardo alla coerenza ecologica della politica di questo Paese. Ho trascorso Natale e Santo Stefano (giornata molto speciale per noi) da mio padre insieme al suo badante (altra brutta parola) ed al mio compagno. Lo sguardo ammirato e commosso di Fabio verso papà diceva tutto. La terribile sofferenza di una spietata malattia degenerativa unita al dolore immenso per le perdite subìte dalla sua famiglia non gli ha tolto dignità ed umanità profonde. L’amore sconfinato per il figlio perduto era evidente nel suo volto mentre si faceva sfogliare da Fabio gli album con le foto della sua storia di vita. Umanità vera. Così ho deciso di fare, il giorno dopo, una visita a sorpresa ad un istituto penitenziario minorile romano. Volevo vedere quei ragazzi. Ho incontrato il personale, nettamente insufficiente, di una struttura dove sono detenuti anche maggiorenni e disabili psichiatrici minorenni. Attendevano ospiti di altre strutture piene od in ristrutturazione. Lavori in corso ma ambienti ben tenuti. Una parola mi è venuta in mente osservando quegli operatori: resilienza. Nobile, ma inaccettabile concetto se visto nel contesto di un Paese che si ama definire, con orgoglio, civile e democratico. Ma sa quale è il problema caro ministro? Che talvolta la resilienza cede il passo alla frustrazione violenta ed allora accade ciò che non dovrebbe mai accadere. Ecco però puntuale il suo intervento a spada tratta in difesa di coloro che hanno sbagliato. Solidarietà a costo zero. Già. Nella Finanziaria il suo governo opera altri tagli su di loro. In questo caso il costo è umano, ed è altissimo. Detenuti, circa 700 sono in semilibertà. Qual è il senso di farli tornare in carcere ogni sera? di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 28 dicembre 2022 Tra pochi giorni, allo scadere dell’anno, circa 700 persone in semilibertà dovranno rientrare a dormire all’interno delle carceri, dopo che per due anni e mezzo hanno usufruito di licenze continuate che permettevano loro di trascorrere le notti a casa. La semilibertà è una delle misure alternative al carcere che l’ordinamento penitenziario italiano prevede per detenuti che abbiano certi limiti di pena e che il magistrato abbia ritenuto idonei ad accedervi. In tempi ordinari, permette alla persona interessata di uscire di giorno dal carcere per recarsi al lavoro e farvi rientro alla sera. Le misure alternative non significano incertezza della pena, ma certezza di una pena eseguita diversamente rispetto a quella carceraria. Una persona rinchiusa per anni e poi, arrivata all’ultimo giorno di pena, abbandonata di fronte al cancello del carcere è ben più probabile che tornerà a commettere un reato rispetto a chi ha avuto opportunità di riavvicinarsi con gradualità al mondo del lavoro e ad altri contesti sociali. Le misure alternative sono state pensate dal legislatore non in un attacco di buonismo bensì in un’ottica di protezione sociale, di lotta alla recidiva e di conseguente aumento della sicurezza esterna. Con l’arrivo della pandemia, nel marzo del 2020, varie misure furono adottate per mitigare il forte stato di affollamento nel quale versavano le patrie galere. Anche in questo caso, nessun buonismo: lo scoppio di focolai penitenziari, facilmente atto a sfuggire di mano, avrebbe potuto comportare un grave appesantimento della sanità pubblica con conseguenze negative sulla popolazione libera. Tra le misure adottate, la più banale fu quella di non far rientrare la sera in carcere chi in ogni caso già trascorreva l’intera giornata fuori. Ciò aveva l’effetto, da un lato, di evitare la commistione tra esterno e interno e, dall’altro, di liberare stanze e brande per collocarci le quarantene o anche solo chi viveva in sezioni rese rischiose dall’eccessivo affollamento. E tutto ciò senza rischiare di far uscire pericolosi criminali, visto che si trattava di persone che già varcavano la soglia tutte le mattine. Qual è oggi il senso di farle tornare in carcere ogni sera? I numeri della popolazione detenuta sono in continua ascesa, abbiamo oggi 56.500 presenze per 51.300 posti ufficiali, che scendono a circa 47.000 se consideriamo le varie sezioni attualmente chiuse per manutenzione. In questi due anni e mezzo, le circa 700 persone in semilibertà hanno tenuto un comportamento corretto e non hanno fatto parlare di sé. Il mondo del carcere avrebbe ben altri problemi cui pensare: la triste conta dei suicidi continua anche in questa fine anno, nelle scorse ore si è aggiunto un uomo che si è tolto la vita nel carcere romano di Rebibbia a pochi mesi dal fine pena. Mai si era arrivati a queste cifre: abbiamo avuto 81 suicidi in questo 2022 quando lo scorso anno erano stati 58, quello precedente 61, quello ancora precedente 53. Ci sarebbe da interrogarsi a fondo su tutto ciò. Mentre non si capisce invece da dove arrivi la preoccupazione di far rientrare in cella i 700 semiliberi, di farli tornare in carcere dopo due anni e mezzo di vita in famiglia e immersi nella società, con un comportamento che non ha creato alcun problema. Sradicarli da una già avvenuta integrazione sociale per ricondurli in un contesto detentivo e dunque per definizione separato. Se la pena deve tendere alla reintegrazione, ciò è privo di senso. Si dirà dunque: ma hanno commesso un reato, devono scontare tutta la loro punizione ora che l’emergenza sanitaria è finita. Ecco, infatti: se la pena non è che vendetta è proprio così che deve funzionare. Ma non è questo che dice la nostra Costituzione. Siamo ancora in tempo, c’è ancora qualche giorno per poter disporre la proroga della misura. Ci auguriamo davvero un gesto di sensatezza. *Coordinatrice associazione Antigone Ostellari: “Faremo lavorare tutti i detenuti” di Annarita Digiorgio Il Giornale, 28 dicembre 2022 Il sottosegretario alla Giustizia: “Non solo rimpatri per gli stranieri. Chi è in cella lavori”. Andrea Ostellari è il sottosegretario alla Giustizia con delega ai detenuti e provveditorati. Il giorno dopo l’evasione dei 7 ragazzi si è recato al carcere minorile Beccaria di Milano per verificare l’accaduto e ha avviato un’indagine interna. Ma il problema atavico della situazione delle carceri in Italia non si esaurisce con gli eventi di cronaca. Il sottosegretario Delmastro in una intervista ieri su queste pagine ci ha detto che una soluzione su cui stanno lavorando contro il sovraffollamento è il rientro nel Paese di origine dei 19mila detenuti straniere, e il trasferimento dei tossicodipendenti dal carcere alle strutture di comunità per la disintossicazione. Sottosegretario Ostellari, cos’altro si può fare per migliorare la condizione dei detenuti e delle carceri italiane? “L’idea di far scontare agli stranieri la pena nel Paese di origine è sacrosanta, ma ottenere effettivamente i rimpatri è difficile. Aldilà del tema di cui ha parlato il collega sottosegretario Delmastro ve n’è un altro che è direttamente collegato alle mie deleghe. Cosa facciamo fare ai detenuti? Partiamo da un presupposto: l’ozio è il padre dei vizi. Le rivolte in carcere avvengono soprattutto perché la gran parte dei detenuti oggi guarda il soffitto e in carcere non impara alcuna mansione: su 55mila reclusi, solo il 34% lavora (dati al 5.12.2022). Noi diciamo: facciamoli lavorare tutti. Così imparano un mestiere, costano meno allo Stato, risarciscono con parte del loro stipendio l’amministrazione penitenziaria che li ospita e la società. E, particolare non da poco, quando escono probabilmente smettono di delinquere. Su questo i dati sono lampanti: la recidiva per i detenuti che non lavorano è del 70%, per quelli che lavorano scende al 2%”. Investirete su questo? “Non solo su questo, il governo ha già approvato nella manovra l’assunzione di 1.000 agenti dal 2023, poi ci sono investimenti per l’edilizia penitenziaria e circa 10 milioni per il trattamento dei detenuti, tra cui appunto le possibilità di lavoro”. Lavoreranno fuori o dentro al carcere? “Entrambi. Chi ha pene minori deve avere garantita la possibilità di sfruttare a pieno misure alternative con lavoro in articolo 21. Gli altri devono scontare la pena in carcere, ma lavorando. Occorre però aumentare le disponibilità anche di spazi interni agli istituti, con interventi sull’edilizia e coinvolgendo di più il terzo settore. Ad oggi l’84,7% lavora alle dipendenze del Dap, il restante 15,3% presso datori di lavoro esterni, quali per esempio aziende o cooperative”. Tutto questo discorso non vale per i detenuti in attesa di giudizio che oggi non possono lavorare, rendendo anche più difficile la permanenza in carcere per quelli che devono scontare la pena definitiva? “In Italia c’è un abuso evidente dello strumento della custodia cautelare. È ora di cambiare strada. Noi dobbiamo essere garantisti durante tutte le fasi: quella preliminare, con meno misure cautelari preventive, quella processuale, per tutte le parti coinvolte e, nei casi di condanna, quella della pena. Lo ripeto: garanzia durante le indagini, nel processo, e dopo, senza sconti, durante l’esecuzione dignitosa della pena, dando la possibilità al condannato di rieducarsi, come prevede la nostra Costituzione”. Ci riuscirete? “Le carceri non possono essere luoghi fuori dal mondo, dove il diritto e la dignità delle persone vengono sistematicamente violate. Ne va della qualità della vita democratica”. Carceri. La credibilità di Nordio cala, tra silenzi e ritardi di Giulia Merlo Il Domani, 28 dicembre 2022 A due giorni di distanza dai fatti, è comparso il grande assente nel dibattito sulle evasioni dal carcere minorile Beccaria di Milano. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, è intervenuto con un lungo comunicato stampa che raddrizza il tiro rispetto alle esternazioni dell’onnipresente ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, e del viceministro di Fratelli d’Italia, Andrea Delmastro. Sollecitato anche alla Camera da parte del Partito democratico, che ha chiesto che riferisca all’aula sulle fughe dei sette ragazzi, Nordio ha detto che “quanto successo nel carcere Beccaria di Milano è l’ultima spia di un crescente e allarmante disagio giovanile, di cui tutti - ciascuno nel proprio ruolo - siamo chiamati ad occuparci”. Il ministro ha poi auspicato che “gli interventi, attuati e programmati da parte del ministero, possano contribuire a creare le migliori condizioni possibili perché non tornino più a delinquere i ragazzi ospiti degli istituti penali minorili”. Infine ha sottolineato che nei prossimi mesi arriverà il direttore a tempo pieno del carcere e il ruolo positivo della famiglia che ha convinto un ragazzo a costituirsi: “Da qui dobbiamo riprendere il nostro lavoro”. Parole forse tardive, ma che riequilibrano cercando anche risposte sociali e fuori da logiche unicamente securitarie come quelle di Salvini e di Andrea Delmastro di FdI. Il primo aveva ribadito il sempreverde “chi sbaglia paga” e aveva espresso solidarietà solo agli agenti della polizia penitenziaria e il secondo ha teorizzato come soluzione al generale problema delle carceri “il rimpatrio degli stranieri detenuti”. Difficile capire la scelta comunicativa che ha fatto muovere Nordio così in ritardo: certo il ministro è bloccato a Treviso dall’influenza ma gli uffici del ministero lavorano a pieno servizio. L’effetto provocato da questa ritrosia comunicativa - calcolata e non certo caratteriale - è quello di un guardasigilli che detta una linea quotidiana sul carcere ma non ne rivendica lo spazio politico nel primo vero caso di interesse nazionale, lasciandolo a voci culturalmente poco in linea con la sua prospettiva garantista e liberale. L’errore di Nordio in questi giorni concitati, però, rischia di non essere solo questa altalena comunicativa. Da giorni, infatti, e senza risposte ufficiali da parte del ministero, i garanti delle persone private della libertà sono in sciopero della fame a staffetta per sollecitare un intervento del governo contro il rientro in carcere dei detenuti semiliberi. Il caso è un esempio classico di cortocircuito legislativo. La gran parte dei condannati in semilibertà che di giorno lavorano (700 all’inizio dell’emergenza Covid, 500 secondo le ultime stime) ha goduto per due anni e mezzo di una licenza straordinaria che gli ha consentito di non tornare a dormire in carcere, così da evitare contagi. Questo ha permesso anche di ridurre il sovraffollamento e - salvi pochi casi eccezionali - il comportamento dei semiliberi è stato irreprensibile. Il governo, tuttavia, non ha prorogato queste licenze straordinarie che prima erano giustificate dall’emergenza Covid, con il risultato di imporre il rientro dei semiliberi in carcere la notte di San Silvestro. Per scongiurarlo, basterebbe un emendamento in finanziaria o un’iniziativa specifica. Il tempo ci sarebbe ancora e la proroga risponderebbe esattamente alla linea che il ministro a parole ha spesso ribadito: fiducia nella rieducazione dei detenuti e potenziamento delle misure alternative al carcere anche in ottica di diminuire il sovraffollamento. Invece, per ora, il ministero tace. Sarebbe ancora in tempo a intervenire, però, oppure a chiarire le ragioni per le quali questi condannati debbano tornare in carcere. Anche solo per smentire l’accusa che sempre più spesso arriva dalle opposizioni: che Nordio sia un garantista à la carte, pieno di buoni propositi nella quotidianità ma timido nel rivendicarli durante le emergenze o con interventi normativi che potrebbero incontrare la contrarietà di una parte della maggioranza. Così l’esecuzione penale è diventata una priorità. Ora l’esecutivo cerca soluzioni innovative di Errico Novi Il Dubbio, 28 dicembre 2022 Il sottosegretario Delmastro: contro il sovraffollamento, affido alle comunità per i reclusi con tossicodipendenze, e stop agli abusi sulla custodia cautelare. Non c’è solo il Beccaria. E non ci sono solo le polemiche di giornata legate al Dl Rave. Il carcere si rivela di giorno in giorno un impegno gravoso per la maggioranza, assai più di quanto i programmi lasciassero intravedere. Inevitabile che sia così: in realtà l’esecuzione penale è stata un peso soffocante persino per un ministro come Alfonso Bonafede, che aveva idee fin troppo chiare su come trattare la materia. Eppure l’ex guardasigilli pentastellato, quando - sollecitato da umanissimo buonsenso - provvide a consentire il differimento dell’esecuzione per ragioni umanitarie anche per quei reclusi che, condannati per mafia, rischiavano di morire di covid se lasciati in cella, ebbene persino lui, Bonafede, fu fatto passare da parte della stampa italiana come un fiancheggiatore dei boss... Ciò detto, sono ora sul tavolo diverse ipotesi. Ieri in un’intervista al Giornale un’altra figura chiave della maggioranza sulla giustizia, Andrea Delmastro, sottosegretario e prima linea di FdI, ha indicato alcune possibili scelte interessanti in materia di esecuzione penale: dal sovraffollamento contrastato anche attraverso l’assegnazione, per i detenuti con problemi di tossicodipendenza, alle comunità di recupero, alle più problematiche intese con i Paesi d’origine per i reclusi stranieri fino all’auspicabile riforma della custodia cautelare, “oggi in Italia smodata, a volte anche a fini snaturati rispetto all’esigenza di sicurezza”, vale a dire “per ottenere una confessione”. Il titolare di via Arenula, Carlo Nordio, ritiene altrettanto importante che la via carceraria non sia l’unica forma da conferire all’idea di certezza della pena. È quanto afferma la riforma Cartabia, appena ricalibrata da decreto Rave, che oggi otterrà a Montecitorio la decisiva fiducia. Uno snodo importante consisterà nelle scelte che la maggioranza compirà sul provvedimento dell’ex ministra a bocce ferme, dopo che, di qui a due giorni, sarà finalmente in vigore: lasciarla così com’è o limitare alcune, pur non clamorose, concessioni alle pene extracarcerarie. E nel caso, fino a che punto modificare i parametri di efficienza del sistema penale e carcerario stabiliti in quella riforma in vista dl Pnrr. Non è finita qui. C’è l’ergastolo ostativo. Reso ancora più stringente con le modifiche introdotte dalla maggioranza durante la conversione del Dl Rave a Palazzo Madama. Ora l’ergastolano non collaborante che aspiri alla liberazione condizionale deve anche spiegare perché ha scelto di non parlare con i pm, e certificare il proprio ravvedimento. In realtà, già il testo fatto proprio a fine ottobre dal Consiglio dei ministri (e recuperato, con poche variazioni, dall’articolato passato a Montecitorio nella legislatura precedente) era severissimo, con qualche sfumatura a rischio costituzionalità. La Consulta, con l’ordinanza dell’ 8 novembre, ha rimesso il provvedimento al giudice che aveva sollevato la questione di legittimità sul fine pena mai. Quel giudice è un magistrato della Cassazione penale, si chiama Giuseppe Santalucia ed è per, inciso, pure il capo dell’Anm. Sarà lui ora a doversi pronunciare sull’adeguatezza e la costituzionalità, delle nuove norme, così come stanno per essere convertite in legge dal Parlamento. Sarà il primo a valutare se il nuovo ergastolo supera i problemi di legittimità che lui, Santalucia, aveva rimesso alla Corte. Dopodiché la Corte stessa deciderà sugli atti del magistrato. E potrebbe appunto ravvisare altri profili critici, dichiarare le nuove norme parzialmente illegittime. Con eventuali contromosse, da parte della maggioranza, sul fronte delle mai accantonate ipotesi di modifica dell’articolo 27. In tutto questo, prima di Natale, la massima istituzione dell’avvocatura - il Cnf - e il Garante dei detenuti hanno diffuso un appello congiunto affinché il governo si affidi, per arginare la strage dei suicidi in cella, anche alle pene extracarcerarie, in una forma possibilmente più ampia rispetto al testo Cartabia, cioè sostanzialmente ispirata alla vecchia riforma Orlando. Nordio tiene in conto gli avvocati e ha più volte detto che ai tavoli sulla giustizia saranno sempre presenti, insieme con la magistratura. Il punto è capire con quale ordine di priorità, su una materia complicata come il carcere, si presenteranno il governo e la maggioranza, prima ancora che i protagonisti della giurisdizione. L’equilibrio non sarà facile. Ma le parole di Delmastro e gli impegni sempre ribaditi dal guardasigilli sembrano far comprendere come, nel governo e nell’alleanza che lo sostiene, la gravità della questione penitenziaria abbia messo in moto un opportuno attivismo. E che il carcere potrebbe uscire dal cono di invisibilità in cui si rischia sempre di vederlo ritornare. Non minimizzare né strumentalizzare. Un’evasione due tentazioni di Mario Chiavario Avvenire, 27 dicembre 2022 Di fronte all’evasione di gruppo e agli incendi appiccati all’interno del “Beccaria” il giorno di Natale possono essere quelle le tentazioni principali da respingere: tanto per le istituzioni quanto per l’opinione pubblica, sia nell’immediato e sia quando esse saranno indotte a riflettere (e, le prime, a operare) a mente più fredda e con lo sguardo avanti dopo che tutti i giovani fuggiti saranno riportati nel carcere milanese un tempo definito “modello” e quando si saranno del tutto placate anche le conseguenze dell’incendio appiccato all’interno della struttura. Non minimizzare; e non solo perché questi episodi, a quanto denunciano alcune organizzazioni sindacali degli agenti penitenziari, seguono a un crescendo di minacce anche all’interno degli istituti di detenzione che continuiamo a chiamare “minorili” ma che in realtà possono altresì ospitare degli ex-minorenni fino al compimento del venticinquesimo anno d’età. Non minimizzare a priori sulla gravità dei reati addebitati a ciascuno dei fuggitivi (così, se tra quelli contro il patrimonio vi dovessero essere delle rapine non potrebbe sempre parlarsi di bagatelle). Ma soprattutto non minimizzare sulla dimostrazione di inefficienza (se non peggio) che almeno a prima vista parrebbe da riscontrare nel funzionamento dei meccanismi di sicurezza sul posto, con lavori prolungatisi inspiegabilmente nel tempo (venti anni di cantiere aperto!) che, combinandosi con una carenza di personale di sorveglianza, avrebbero fornito una miscela di seducenti incentivi al tentativo di fuga. E però non strumentalizzare rispolverando abusate lamentele contro il cosiddetto “buonismo” alla radice di una politica penitenziaria che sarebbe troppo corriva verso i detenuti e che invece è soltanto tesa a dare davvero attuazione alla finalità di recupero sociale che la Costituzione - ma prima ancora una coscienza civile degna di tale nome - vuole non sia dimenticata né nel momento dell’inflizione delle pene né in quello della loro esecuzione. Tantomeno, poi, strumentalizzare - quasi come se si trattasse di un dare e avere di violenze che si elidono a vicenda o delle quali, addirittura, le une giustificherebbero le altre per reazione - per far cancellare dalla memoria altri episodi inquietanti e sconvolgenti: lo stillicidio quasi quotidiano di suicidi, qualcuno anche di detenuti minorenni; e i maltrattamenti, fino alle vere e proprie torture che si sono dovute registrare in istituti penitenziari o in altri luoghi d’intervento della forza pubblica. Mele marce? Però non isolate, sebbene non sia giusto generalizzare. In ogni caso, rendere le carceri meno disumane e immettere nella dinamica applicativa di qualsiasi pena fattori di autentico reintegro dei condannati: è un obiettivo che non ha affatto da comportare ingenui allentamenti di ragionevoli cautele a prevenzione di pericoli per l’incolumità delle persone e per la sicurezza pubblica. Semmai, può contribuire a proteggere l’una e l’altra diminuendo l’esasperazione all’interno dei luoghi di detenzione e perciò combattendo ciò che, a cominciare dal vergognoso sovraffollamento in locali fatiscenti, favorisce la spirale delle rabbie e delle violenze. Impegno, questo, che dovrebbe essere tanto più sentito in relazione alla situazione di chi sia stato attratto dalla delinquenza in età adolescenziale. Ragazzi nei cui confronti dovrebbe, dunque, raddoppiarsi lo sforzo per una “ri-educazione” non paternalistica. Un lavoro che spesso ha da supplire anche a una mancanza pressoché totale di un’autentica, precedente, “educazione” o a un addestramento a reagire con la logica del “morte tua, vita mia” a condizioni di particolare disagio materiale e morale. Chi ha goduto di ben altro fa troppo presto a liquidare con sufficienza e fastidio queste condizioni e queste storie. Ma è un errore grave, e un tradimento dell’idea stessa del vero fare giustizia. L’alternativa anticrimine è la prevenzione di Marcella Cocchi quotidiano.net, 28 dicembre 2022 Inasprire le pene può avere un effetto deterrente ma la filosofia “legge e ordine” non basta più. Il giro di vite sulla sicurezza allo studio del governo dovrebbe rispondere alla vera inadeguatezza della nostra società complessa, la prevenzione. Daspo per i minorenni delle baby gang, divieto del cellulare per i bulli, pene più severe per gli stalker che violano i divieti? Misure anche comprensibili ma: ragioniamo. I femminicidi si aggiornano da anni allo stesso, macabro, ritmo, ed è proprio questo il dramma: nonostante il codice rosso e quanto di meritevole sia stato disposto, non si vedono progressi nella prevenzione della violenza di genere, che si può combattere solo con la rieducazione, come si sgola da anni Telefono Rosa. Stessa riflessione si può fare per “evitare che tornino a delinquere i ragazzi ospiti degli istituti penali”, tema a cui sembra sensibile il ministro Nordio più che il titolare del Viminale Piantedosi. “È cambiata - spiega la presidente del Tribunale dei minori di Milano, Maria Carla Gatto, intervistata sui nostri giornali da Anna Giorgi - la modalità dei reati commessi dai minori. È lo sfogo di una rabbia che si manifesta con risse e aggressioni”. Una bomba che non si spegne con la repressione senza la rieducazione. Il caso degli evasi dal Beccaria ha acceso il faro sulle carceri, un disastro italiano perché le nostre sono le più affollate d’Europa. Per forza, si dirà, è aumentato il crimine. No. I dati dimostrano che diminuiscono gli ingressi in cella pur in presenza di un aumento dei detenuti, segno che il sovraffollamento è dovuto non all’aumento del crimine, bensì alla durata maggiore delle pene inflitte. Scrive l’associazione Antigone: “Investire sull’educazione e sul welfare nei tempi brevi non produce consenso, ma nei tempi lunghi crea sicurezza”. È così. Chi lavora presso i Tribunali dei minori chiede “più formazione, più assistenza, più comunità”, non la tolleranza zero. “Legge e ordine” sì, ma per prevenire. L’educatore ex detenuto: “I miei anni al Beccaria. I giovani si salvano con un progetto di vita” di Simona Ballatore quotidiano.net, 28 dicembre 2022 Daniel Zaccaro: gli errori, i crimini, la cella. Poi la laurea e il riscatto “Ai ragazzi evasi dico: tornate dentro, qualche adulto crederà in voi. Anche io sono scappato: vivevo di adrenalina senza nulla da perdere”. “È successa la stessa cosa dieci anni fa: evasione più incendio. Unica differenza: fu uno solo a scappare dalle impalcature e non sette. Quando salta il coperchio si dice che il Beccaria ha un problema, ma i problemi sono strutturali, a cominciare dai cantieri infiniti”. Daniel Zaccaro, 30 anni, era un detenuto (prima al Beccaria e poi a San Vittore), oggi è un educatore. “Ero un bullo”, racconta nel libro di Andrea Franzoso, ripercorrendo gli anni più bui di risse e rapine prima della svolta. Fuga di Natale, per alcuni di loro a due passi dalla libertà, che adesso si allontana. Perché? “È una generazione che vive di adrenalina, schiacciata sul presente. Sono affascinati dall’evasione, ma poco consapevoli. Non credo avessero strategicamente deciso un piano di fuga, non avevano condanne pesanti. Credo sia stato dettato dall’impulsività. Per mantenere una vita da latitanti servono un sacco di soldi... Per ragazzini di 18 anni conta solo il qui e ora”. Cos’è scattato quindi? “Provo a mettermi nei loro panni: in mezzo a quel gruppetto, appena entrato in carcere forse sarei uscito anch’io. Dopo no, ho scelto pure di restarci per studiare. Cosa mi spinge così tanto a scappare? Il non avere nulla da perdere. Con un progetto cambia tutto”. Anche lei è stato un fuggitivo, è scappato due volte dalle comunità. Ma non dalla Kayròs con le porte aperte. Perché? “Si scappa quando si sa che domani non cambierà nulla, che non c’è una promessa di futuro per cui valga la pena lottare e farcela. Quando anche in carcere, nel luogo più oscuro, sai che non c’è nessuno che punta di su te, fare un altro reato - l’evasione è un reato - non ha importanza. Ho sentito stamattina don Claudio (Burgio, ndr). Tanti si sono defilati, non hanno voluto partecipare. Non è tutto marcio. Credo sia l’occasione per riflettere su come stanno i giovani”. E come stanno? “Non si conoscono, sono distaccati dalla realtà. Si anestetizzano con le droghe perché hanno paura di vivere in questo eterno presente. Il bene richiede impegno verso l’altro, il male è più facile. E affascina”. Sono i protagonisti della fuga di Natale, come in un film... “Ovvio, ma scontato. Interroghiamoci su quale educazione e trascorsi abbiano questi ragazzi. Spesso, per dirla male, sono prodotti degli adulti”. Quando c’è stata la sua svolta? “Ho passato momenti oscuri, ero pieno di rabbia. Non riuscivo a esprimere le emozioni. Quando non si trovano le parole resta la violenza, quando non sai reggere un incontro resta lo scontro. Ci sono arrivato dopo un sacco di tappe che mi hanno fatto male. La paura e l’amore mi hanno fatto fermare: mi spaventava quella vita che non cambiava mai. Mi hanno fatto rimettere in gioco un brigadiere della penitenziaria, don Claudio, una prof in pensione. Adulti credibili, che hanno creduto in me”. Cosa diresti ai tre fuggitivi? “Tornate dentro. Suonate il campanello. Non c’è un copione già scritto. Ci sono adulti che si interesserebbero a voi, non fa tutto schifo. Paghereste i conti con la giustizia, certo, ma potrebbe essere una ripartenza”. Nel decreto sicurezza si parla di stretta alle baby gang, daspo e divieto di cellulari. Cosa ne pensa? “Ai provvedimenti serve una proposta educativa all’altezza. Giusto invece riparare il danno: commetti un reato contro le persone? Ti mando a fare volontariato, ti insegno a stare in relazione con le persone. Anche in carcere ci sono attività: un tempo obbligatorie, non potevi stare a letto. Ora si può scegliere, rinunciare liberamente. Ecco, su questo siamo tornati indietro. Il fare fa”. Costruire nuove carceri, subito di Fausto Carioti Libero, 28 dicembre 2022 Ha ragione Matteo Salvini a dire che bisogna “mettere in maggiore sicurezza non solo il carcere minorile di Milano”, ossia il Beccaria, dal quale sono fuggiti in sette il giorno di Natale, “ma anche tutte le carceri italiane, perché troppo spesso ci sono episodi violenti”. Il padre di tutti i problemi è il numero dei reclusi, esuberante rispetto alle carceri e a coloro che vi lavorano. Si può risolvere in due modi. Il primo è la diminuzione del numero dei detenuti, che passa anche per la riduzione delle pene. È la soluzione indicata da Carlo Nordio: “Le pene devono essere diminuite perché devono essere rese certe e devono essere eseguite. Oggi se uno imbratta i muri dei palazzi rischia sei mesi, ma il giudice gli dà la condizionale e tutto finisce lì. Io dico: quel condannato non deve andare in prigione, ma deve pulire le strade per un anno” (intervista a Libero del 29 agosto 2022). L’altro è la costruzione di nuove carceri. Ovviamente una cosa non esclude l’altra e la scelta sulla direzione da privilegiare è politica. Ciò che avviene dentro alle carceri è competenza di due diversi dipartimenti del ministero della Giustizia. Quello dell’amministrazione penitenziaria (Dap) è responsabile degli istituti per gli adulti, mentre il dipartimento per la giustizia minorile e di comunità (Dgmc) si occupa dell’esecuzione penale per i minori. I problemi del primo ricadono sul secondo. I dati del Dap risalenti al 30 novembre dicono che nei 189 istituti penitenziari italiani c’è posto ufficialmente per un massimo di 51.333 detenuti, e invece ve ne alloggiano 56.524, ben 2.390 in più rispetto all’inizio dell’anno. Numeri che indicano un sovraffollamento del 110%, ma la realtà è peggiore. Il dato sulla capienza, infatti, non tiene conto delle situazioni, come i lavori di ristrutturazione, che riducono gli spazi utilizzabili. Il tasso di affollamento reale è dunque più alto. Un po’ migliore pare essere la situazione degli Ipm, gli istituti penali minorili, che fanno capo al Dgmc. In questo caso le tabelle del ministero della Giustizia, aggiornate alla data di ieri, dicono che i ragazzi reclusi sono 374, a fronte di una capienza di 389. Uno dei guai, nel caso degli istituti minorili, è che minorili non sono: per alleggerire la pressione nelle carceri degli adulti, molti detenuti tra i 18 e i 25 anni sono affidati agli Ipm. Dove oggi, infatti, la metà dei reclusi è maggiorenne. Col crescere dell’età aumenta la loro pericolosità e questo, assieme ad altri fattori, causa “il vorticoso aumento dei casi d’aggressione agli operatori, di sommosse e di evasione”, come denuncia il sindacato Uilpa. Il Pnrr non sarà la soluzione. Esso prevede lo stanziamento di 133 milioni di euro, tra il 2022 e il 2026, per la costruzione di otto nuovi “padiglioni modello” in grado di accogliere altri 640 detenuti: anche se fossero creati all’istante, non risolverebbero il problema. Pure il personale penitenziario è insufficiente. A partire dai direttori. Nel 2021, si legge nel rapporto di Antigone, “nel corso delle 96 visite svolte, abbiamo rilevato come solo nel 49% degli istituti penitenziari fosse presente un direttore responsabile solo di quell’istituto, per così dire un direttore “a tempo pieno”“. Allo stesso modo, scarseggiano i vicedirettori e gli educatori. Ed è insufficiente il numero degli agenti di polizia penitenziaria, al quale, secondo il sindacato, mancano “ben 18mila unità su 36mila effettivamente presenti”. Tutto questo contribuisce all’aumento delle violenze e dei suicidi: nel 2022 ben 83 detenuti si sono tolti la vita, un numero mai registrato negli ultimi 22 anni. Qualcosa si sta muovendo. Dopo oltre un quarto di secolo in cui non si facevano concorsi per direttori di carcere, a settembre ne sono stati assunti 57, destinati agli istituti minorili (incluso il Beccaria) e non. Non sono ancora entrati in servizio perché stanno seguendo i necessari corsi di formazione. Si stanno ampliando gli spazi nelle carceri minorili di Milano, Treviso e Casal del Marmo, e lo stesso Salvini si è impegnato insieme a Nordio, poche settimane fa, a far concludere entro aprile i lavori di ristrutturazione del Beccaria. Il direttore del dipartimento di giustizia minorile, Giuseppe Cacciapuoti, ieri ha assicurato che è pronta l’assunzione di nuovi educatori. Sono cose importanti, che però non possono bastare. La situazione è aggravata anche dalla presenza crescente di immigrati, pari ormai al 32% della popolazione nelle carceri per adulti e al 50% di quella negli istituti per minorenni. Da anni si parla di fare scontare le loro pene nei Paesi d’origine: con un costo medio di 154 euro al giorno per detenuto (calcolato dagli economisti della Bocconi), il margine per convincere i loro governi, pagandoli per il disturbo, e al contempo risparmiare soldi, ci sarebbe. Ma occorrono accordi bilaterali e la duplice garanzia che quei detenuti scontino la pena e non siano sottoposti a torture o trattamenti inumani. Serviranno tempo, soldi e volontà politica. Il carcere va progettato con umanità di Cesare Burdese La Stampa, 28 dicembre 2022 La Costituzione italiana ammonisce che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Nel caso della pena del carcere, la configurazione dell’edificio ove la si sconta deve essere informata ad umanità. Il senso di umanità è compiuto se l’edificio carcerario soddisfa i bisogni materiali, psicologici e relazionali dei suoi utilizzatori, vale a dire le persone detenute, il personale di custodia, gli operatori, i visitatori e se non è estraneo ai luoghi dove si colloca. In termini architettonici il soddisfacimento di tali bisogni si possono tradurre nella qualità estetica ed ambientale dell’edificato, nella dotazione di spazi adeguatamente attrezzati per i rapporti dei detenuti con il proprio mondo familiare, affettivo e relazionale, di spazi collettivi ma anche di luoghi dove potersi isolare ed estraniare liberamente dagli altri e dallo stesso ambiente detentivo, di spazi ove poter impegnarsi in attività lavorative, culturali e di culto. In assenza di tali condizioni, anche la dignità della persona, così come richiamata dalle convenzioni, regole e raccomandazioni internazionali riguardanti il trattamento dei prigionieri e la gestione delle carceri, alle quali l’Italia aderisce, viene meno. La rieducazione, da intendersi come l’opera da parte dello Stato rivolta al condannato, per fornirgli gli strumenti per non commettere più reati una volta rientrato nella società libera dopo aver scontato la pena, può realizzarsi solamente in presenza di spazi destinati allo scopo. È fondamentale che nell’Istituto detentivo siano presenti spazi per svolgere tutte quelle attività che costituiscono gli “elementi del trattamento” finalizzato alla “risocializzazione” quali: l’istruzione, la formazione professionale, il lavoro, i rapporti affettivi, il culto, i contatti con l’esterno, ecc. Lo scenario architettonico carcerario nazionale in tal senso è contraddittorio e carente. Nel nostro paese sono in funzione 189 Istituti penitenziari con una capienza regolamentare di 51. 333 posti, per una popolazione detenuta che ammonta a complessive 56. 524 unità. Quegli Istituti - distribuiti sul continente e sulle isole - si differenziano tipologicamente tra loro per epoca di costruzione. Il campionario è vario: edifici pre-ottocenteschi - castelli, fortezze e palazzi nobiliari - adattati in passato a carceri cellulari, penitenziari sorti nel corso dell’ottocento, nella prima metà del novecento, dopo la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 e recentemente. Gli Istituti più antichi sorgono nel cuore delle città o alla peggio in aree periurbane, quelli più recenti sorgono alle estreme periferie delle città o a chilometri dai centri urbani. In due casi, una piccola isola è completamente destinata a carcere: si tratta dell’isola di Gorgona e dell’isola di Pianosa, uniche realtà di questo tipo, sopravvissute alle numerose in passato. Il filo rosso che unisce i nostri Istituti penitenziari è rappresentato dal residuo presente nel costruito ed in parte nelle sue modalità d’uso, di una concezione afflittiva e retributiva della pena che ci proviene dal passato. Indistintamente, gli aspetti fisici ed ambientali delle nostre carceri, possono essere riportati ad una situazione media, riassumibile nelle seguenti caratteristiche principali: isolamento assoluto dell’istituto carcerario dal mondo esterno, limitazione e frazionamento dello spazio interno, monotona uniformità del luogo e del modo di vita individuale e collettivo, insufficienza funzionale delle strutture ambientali e indifferenza di esse per le necessità fisiologiche e psicologiche dell’individuo detenuto e di quanti a vario titolo lo frequentano. A questi aspetti si aggiungono la mancanza di posti detentivi rispetto al fabbisogno reale, con conseguente sovraffollamento degli Istituti detentivi, e la carenza di dotazioni spaziali per le citate attività trattamentali. Circostanze queste che peggiorano la condizione detentiva e lavorativa e che inficiano la possibilità di realizzare in pieno la finalità risocializzativa della pena. Tutto questo avviene in un contesto fisico spesso fortemente degradato, carente sotto il profilo igienico sanitario e della manutenzione dei fabbricati e degli impianti. Come è stato ampiamente dimostrato dall’indagine scientifica finalizzata alla comprensione delle dinamiche interne alla “società detenuta”, gli spazi di vita e di lavoro del carcere devono essere risolti oltre i semplici aspetti funzionali, tecnici, fisiologici, per abbracciare una visione della società e dell’architettura più olistica, dove l’utente generico della prigione sia considerato nel suo insieme fisico, emotivo e spirituale. Altrettanto è stato dimostrato che una tale architettura consente lo sviluppo di un buon rapporto tra il personale e i detenuti, fornisce spazio e opportunità per una gamma completa di attività, e offre condizioni di vita e di lavoro dignitose. Se rivolgiamo lo sguardo oltre i confini nazionali, in Europa e Oltre Oceano, possiamo rilevare l’esistenza di carceri che vanno in quella direzione. Gli architetti che li hanno progettati si sono concentrati in particolare sui bisogni dell’utenza e sulla funzione risocializzativa della pena detentiva, senza peraltro trascurare quelli della sicurezza e della funzionalità penitenziaria. In quelle strutture si identificano i temi architettonici del carcere contemporaneo: la cura per la qualità estetica del costruito; l’attenzione per il rapporto fisico con il contesto di insediamento; la suddivisione in zone delle diverse parti della prigione attraverso la codifica dei colori e l’uso di colori psicologicamente efficaci; l’attenzione alla massima valorizzazione della luce naturale e/o della luce artificiale che imita la luce del giorno; un maggiore accesso agli spazi esterni con alberi, piante e giochi d’acqua; l’adozione di soluzioni architettoniche che privilegino la profondità del campo visuale e la possibilità di variare l’esperienza sensoriale nei materiali di finitura e nel rapporto “al chiuso e all’aperto”. L’attenzione e l’impegno che da qualche tempo in maniera sistematica vengono posti al tema della progettazione carceraria dalle Università di Architettura, rafforza l’idea di una maggiore attenzione al tema e di crescita culturale sulla questione. Se guardiamo al carcere, l’anno che sta per finire ha riproposto - addirittura ampliandoli - i drammi ed i problemi di sempre: sovraffollamento, suicidi, ozio forzato, uso arbitrario della forza, organici carenti, violenza, tagli in legge di bilancio, alto tasso di recidiva (oltre al 70%), condizioni di degrado ed inadeguatezza delle dotazioni spaziali degli Istituti detentivi. Un dato è certo ed inconfutabile: in Italia per realizzare da zero un nuovo carcere e per metterlo in funzione, mediamente non sono sufficienti quindici/ venti anni. Diversamente accade in altre realtà nazionali dove, solo per limitarci al continente europeo, i tempi di realizzazione si riducono significativamente. A titolo di esempio cito la costruzione del nuovo carcere belga di Haren costruito a Nord di Bruxelles da 1200 detenuti in sette anni, e la ristrutturazione dello storico carcere La Santè a Parigi realizzata in quattro anni. Nel nostro paese, al momento le vicende edificatorie del nuovo carcere di Bolzano, del nuovo carcere di San Vito al Tagliamento, del nuovo carcere di Nola e della rifunzionalizzazione a carcere della Caserma Bixio di Casale, sono da anni al palo. La compagine DAP fortemente condizionata dal ridimensionamento dei fondi a disposizione, dovrà fornire le nuove linee programmatiche sulle infrastrutture penitenziarie in essere e per quelle che eventualmente verranno. Non resta che attendere e sperare. Dai sacrifici sul Dap alle intercettazioni: tutti i “capitoli Giustizia” della legge di Bilancio di Valentina Stella Il Dubbio, 28 dicembre 2022 Più risorse per la “riparativa”, quasi raddoppiato il fondo per il ristoro delle spese legali agli assolti. Confermate le novità per il patrocinio a spese dello stato. Che cosa prevede in tema di giustizia la Manovra che a breve sarà varata anche dal Senato? Innanzitutto un incremento da 5 a 15 milioni di euro annui, a decorrere dall’anno 2023, delle risorse del fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità, al fine di potenziare le azioni previste dal Piano strategico nazionale contro la violenza sulle donne. La tanto contestata - da magistratura e avvocatura - anticipazione dal 30 giugno al 28 febbraio 2023 dell’applicabilità delle disposizioni di riforma Cartabia del processo civile. C’è poi la riforma della disciplina delle intercettazioni preventive che possono essere effettuate da parte dei Servizi di informazione per la sicurezza. Essa estende il termine per il deposito delle intercettazioni dagli attuali 5 giorni (10 in casi particolari) a 30 giorni dalla conclusione delle operazioni. La novella inoltre introduce la possibilità del differimento del termine di deposito per un periodo non superiore a 6 mesi. Per il professor Gian Luigi Gatta essendo un “intervento che incide su un settore poco noto ma particolarmente delicato per la tutela dei diritti, sarebbe stato più opportuno realizzarlo in altro contesto, con la garanzia di un ampio e meditato dibattito in sede parlamentare”. Non mancherà una dotazione finanziaria, pari a 3 milioni di euro annui, nell’ambito delle risorse già iscritte a legislazione vigente nello stato di previsione del ministero della Giustizia, a disposizione della Direzione nazionale antimafia. C’è poi il rifinanziamento di Fondi per l’edilizia giudiziaria - 100 milioni di euro per il 2023, 150 milioni per ciascuno degli anni dal 2024 al 2026 e 50 milioni per il 2027 e l’istituzione di un Fondo a favore di iniziative di recupero e reinserimento di detenuti, internati, loro famiglie, recupero di tossicodipendenti e integrazione di stranieri sottoposti ad esecuzione penale, con dotazione pari a 4 milioni per il 2023 e 5 milioni per ciascuno degli anni 2024 e 2025. A questi si aggiunge l’incremento di 6 milioni di euro dal 2023 per l’attuazione delle norme per favorire l’attività lavorativa dei detenuti, grazie ad un emendamento del deputato di +Europa, Riccardo Magi. Previste poi le assunzioni straordinarie presso il ministero della Giustizia: di 100 unità di personale del Dap, da inquadrare nei ruoli di funzionario giuridico-pedagogico e funzionario mediatore culturale; di 1000 unità di personale nel Corpo della polizia penitenziaria; di 800 unità di personale non dirigenziale. Ci sarà poi l’incremento pari a 5 milioni di euro annui a decorrere dal 2023 dello stanziamento del Fondo per il finanziamento di interventi in materia di giustizia riparativa, tema molto caro all’ex ministra Cartabia. Grazie poi ad un emendamento del deputato di Azione Enrico Costa la corresponsione del rimborso delle spese legali all’imputato assolto verrà liquidata in un’unica soluzione (anziché ripartito in tre quote annuali, come attualmente previsto) entro l’anno successivo a quello in cui la sentenza è divenuta irrevocabile, e ci sarà l’incremento, a decorrere dal 2023, del relativo Fondo da 8 a 15 milioni di euro. Un punto altrettanto importante è quello relativo al patrocinio a spese dello Stato: sarà possibile compensare gli onorari spettanti per la difesa dei meno abbienti anche con i contributi che il professionista deve personalmente a Cassa forense. Ulteriori disposizioni in materia di giustizia sono contenute nell’ambito delle misure di razionalizzazione della spesa e di risparmio. In particolare si prevede che il ministero della Giustizia - Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria consegua, mediante la razionalizzazione e l’efficientamento dei servizi negli istituti penitenziari, risparmi di spesa non inferiori a 9.577.000 euro per l’anno 2023, 15.400.237 euro per l’anno 2024 e 10.968.518 euro annui a decorrere dall’anno 2025. Il ministero della Giustizia dovrà assicurare risparmi di spesa (non inferiori a 331.583 euro per l’anno 2023, 588.987 euro per l’anno 2024 e 688.987 euro annui a decorrere dall’anno 2025) anche mediante misure di riorganizzazione ed efficientamento dei servizi in materia di giustizia minorile ed esecuzione penale esterna e di razionalizzazione della gestione del servizio mensa per il personale. Infine assisteremo ad una riduzione di 1.575.136 euro annui a decorrere dal 2023 delle spese di giustizia per le intercettazioni e comunicazioni. L’affidamento dei servizi di vitto e sopravvitto nelle carceri sotto la lente dell’Antitrust di Pietro Malesani altreconomia.it, 28 dicembre 2022 Per l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ci sarebbe stato un accordo tra alcune imprese che si occupano del servizio di vitto e sopravvitto all’interno degli istituti penitenziari volto a condizionare le gare di appalto e a garantire guadagni maggiori. L’associazione Antigone non è affatto sorpresa. Ci sarebbe stato un accordo tra alcune delle imprese che si occupano del servizio di vitto e sopravvitto all’interno delle carceri italiane volto a condizionare le gare di appalto e a garantire guadagni maggiori a chi se le aggiudicava. È quanto ipotizzato dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) e che sta alla base dell’avvio di un’istruttoria deliberato a fine novembre 2022 per la supposta alterazione del mercato e violazione dell’articolo 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Le società sotto la lente sono cinque, tutte specializzate nella fornitura di alimenti e nella preparazione di pasti: Domenico Ventura Srl, SAEP Spa, Ra. Pietro Guarnieri - Figli - Srl, Pastore Srl e Impresa D’Agostino Srl. Vitto e sopravvitto rappresentano elementi cruciali nel funzionamento degli istituti penitenziari in Italia. Il primo garantisce ai detenuti i tre pasti principali (colazione, pranzo e cena). Il sopravvitto riguarda invece la vendita di generi alimentari e di conforto. “Include tutti quei prodotti non forniti dall’amministrazione penitenziaria ma acquistati dalle persone detenute con propri soldi”, spiega ad Altreconomia Michele Miravalle, coordinatore nazionale dell’Osservatorio adulti sulle condizioni di detenzione di Antigone, associazione che dalla fine degli anni Ottanta si occupa di carceri e di diritti e garanzie all’interno del sistema penale. Proprio il sopravvitto rappresenta uno dei punti critici nel funzionamento delle carceri, continua Miravalle, che infatti non si dice sorpreso del procedimento dell’Agcm. “Si tratta di uno dei meccanismi meno liberali, a livello di commercio, che esistono nel nostro Paese. Il detenuto infatti non è libero di acquistare i prodotti che vuole: può comperare solo quelli forniti da una determinata ditta, all’interno di una lista specifica”. Alcuni vengono esclusi per ragioni di sicurezza, altri per scelta del fornitore, senza che esistano ragioni particolari. A questo si aggiunge un problema di prezzi: nelle strutture, i costi degli alimenti sono ben più alti di quelli che si possono trovare all’esterno. “Questo produce ancora più discriminazione: di fatto l’accesso al sopravvitto viene precluso ai detenuti più poveri e si dà vita a meccanismi informali -denuncia ancora Miravalle-. Da un lato ci sono gesti di solidarietà, dall’altro questo nasconde dinamiche di potere che sono invece assolutamente deleterie”. In questo settore già di per sé esposto a criticità, quindi, ci sarebbe stata una condotta problematica da parte delle imprese citate: gli accertamenti dell’Agcm avrebbero rivelato infatti come queste dinamiche collusive sarebbero presenti almeno dal 2020 nelle Regioni del Sud e nelle Isole, senza però escludere un interessamento di altre aree. L’Autorità evidenzia come gli enti coinvolti si sarebbero coordinati tra loro, per fare sì che in una specifica zona entrambi i servizi di vitto e sopravvitto venissero affidati a un’unica impresa tra quelle sotto la lente, decisa di volta in volta. Gli atteggiamenti anomali sono stati riscontrati studiando i dettagli delle procedure di appalto, per l’affidamento del vitto, e di concessione per il sopravvitto. Nelle gare gli operatori seguivano diversi metodi per poterne orientare il risultato: spesso le offerte presentate erano estremamente eterogenee, per fare sì che una delle imprese fosse decisamente favorita per l’assegnazione; in altre situazioni, alcuni degli enti evitavano di partecipare alla gara. L’astensione avveniva soprattutto per le concessioni del sopravvitto, in quanto è questo a garantire i margini maggiori. “I prezzi sono infatti più alti di quelli di mercato -spiega Miravalle- e tutto il surplus va alle aziende”. Le condotte contrarie alla legge sarebbero state poi favorite da alcuni elementi, indica l’Agcm. In queste procedure di affidamento la parte economica dell’offerta risulta molto più determinante di quella tecnica. Inoltre, il fatto che le gare si tengano contestualmente rende più facile una sorta di scambio di favori tra gli operatori. Il risultato principale di queste condotte irregolari consisterebbe nell’abbassamento dell’offerta per i detenuti, senza che peraltro il punto di partenza sia affatto ottimale: l’Agcm riporta come l’importo a base d’asta oscilli tra 5,70 e 5,90 euro, somma che deve quindi bastare per i tre pasti giornalieri di una singola persona. Il fatto che la gara si svolga al ribasso, unito alla supposta collusione tra i soggetti che vi partecipano, può portare a una notevole diminuzione rispetto a questa base e quindi a un taglio significativo nell’offerta di vitto. Di conseguenza i detenuti devono effettuare più spese extra, facendo ricorso al sopravvitto: con un aumento delle disuguaglianze interne al carcere ma anche dei profitti delle imprese che vi lavorano per fornire i pasti. “Gli elementi agli atti - si legge nel provvedimento dell’Antitrust - consentono di ipotizzare una concertazione nelle Regioni Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sardegna e Sicilia. Allo stato, però, non si esclude una più ampia latitudine temporale e geografica delle possibili condotte concertative, tale da eventualmente ricomprendere tutte le gare bandite da qualunque stazione appaltante nei settori del vitto e del sopravvitto, anche più risalenti nel tempo. In tal senso, il presente procedimento è volto a verificare ed eventualmente acclarare ipotesi di collusione anche in siffatto, più esteso, ambito operativo-temporale”. Il procedimento dovrà concludersi entro il 31 marzo 2024. La rivoluzione culturale del ministro della Giustizia Carlo Nordio di Claudio Cerasa Il Foglio, 28 dicembre 2022 Saremo una democrazia a sovranità limitata fin quando resteremo in ostaggio di una repubblica fondata sulla gogna. Perché sostenere la lotta di via Arenula contro i politici sonnambuli e i magistrati irresponsabili. C’è una ragione per cui Carlo Nordio promette di essere uno dei volti politici più interessanti dell’anno che si apre. Questa ragione non ha a che fare direttamente con l’incredibile mole di riforme promesse dal ministro della Giustizia, ma ha a che fare con una rivoluzione culturale che l’ex magistrato veneziano ha scelto di rivendicare con forza sfidando a singolar tenzone i suoi vecchi colleghi magistrati. La rivoluzione, e usiamo questa parola non in modo retorico, coincide con la volontà di Nordio di spiegare, in ogni occasione possibile, la vera origine dello squilibrio profondo presente oggi nei rapporti tra potere giudiziario e potere politico: la presenza, in Italia, dice Nordio, di pubblici ministeri dotati di poteri straordinari che nessun altro magistrato al mondo ha; magistrati in grado di esercitare questi poteri in un contesto caratterizzato “dall’assenza di responsabilità in caso di mala gestione”. Come capo della polizia giudiziaria, ha detto Nordio, il pm ha una reale autorità esecutiva, ma come magistrato gode delle garanzie dei giudici, e quindi è svincolato da quei controlli che, in ogni democrazia, accompagnano e limitano l’esercizio di un potere. La battaglia di Nordio contro i pieni poteri dei magistrati, contro la gogna, contro il circo mediatico-giudiziario, è significativa non solo perché a condurla è un ex magistrato ma anche per un’altra ragione: la volontà, da parte del ministro della Giustizia, di mettere sotto processo non la figura del magistrato, troppo semplice, ma la figura del politico sonnambulo, che un giorno si lamenta per lo strapotere dei magistrati e il giorno dopo offre ai magistrati strumenti per esercitare il potere in modo sempre più discrezionale. Si trova qui, e non altrove, l’elemento di interesse del nordismo, per così dire, e il j’accuse messo in campo contro le norme che “difettano di tipicità e tassatività e che consentono l’inizio di indagini così discrezionali da essere arbitrarie, con perniciose invasioni della magistratura nell’amministrazione” e contro tre norme in particolare, abuso d’ufficio, traffico di influenze e concorso esterno in associazione mafiosa, fa impazzire di rabbia la magistratura più ideologizzata perché la costringe a fare i conti con uno specchio chiamato realtà. Una realtà all’interno della quale, grazie all’aiuto dei politici sonnambuli, negli ultimi vent’anni hanno potuto mettere insieme un circo mediatico-giudiziario grazie al quale le prove sono diventate un optional, grazie al quale i processi possono essere fatti sulla base di sospetti, grazie al quale gli indagati possono essere condannati senza rispettare la regola aurea dell’andare oltre ogni ragionevole dubbio. È possibile che Nordio non riesca a combinare nulla di quanto ha promesso (e non si capisce, da questo punto di vista, come sia possibile che l’opposizione non comprenda che il modo migliore per mettere in difficoltà la maggioranza sia sfidare Nordio a fare quello che ha davvero promesso, non contrastare a priori le sue promesse garantiste). Ma è impossibile non notare come il mirino del ministro sia proprio puntato lì: contro il circo mediatico-giudiziario, contro le armi offerte alla repubblica della gogna, contro un sistema di potere, quello dei magistrati, che può usare il suo potere discrezionale a piacimento, in modo arbitrario, senza dover rendere conto a nessuno, senza occuparsi di trovare prove schiaccianti, facendo semplicemente affidamento sulla forza del processo mediatico, sulla forza dello sputtanamento degli indagati attraverso le intercettazioni, sulla forza di norme vaghe, opache, indefinite, che permettono di trasformare un atto in crimine sulla base di un sospetto non supportato da fatti, giocando con l’uso eccessivo e strumentale delle intercettazioni, con la loro oculata selezione, con la diffusione pilotata dell’azione penale diventata arbitraria e quasi capricciosa, con l’adozione della custodia cautelare come strumento di pressione investigativa, con la consapevolezza che lo snaturamento dell’informazione di garanzia diventa condanna mediatica anticipata e persino strumento di estromissione degli avversari politici. La rivoluzione di Nordio è quella di mostrare ai magistrati, ai pubblici ministeri, una verità che pochi magistrati in questi anni hanno avuto il coraggio di mettere nero su bianco: fino a quando sarà ostaggio di un sistema giudiziario costruito per distruggere la presunzione di innocenza, il nostro paese sarà una democrazia a sovranità limitata che non si limiterà a togliere libertà ai cittadini ma che farà l’opposto di quanto sostenuto in questi anni dalle vestali della giustizia: offendere la Costituzione, con la sua natura garantista, negli stessi istanti in cui, storpiandola, deformandola, calpestandola, si sostiene di volerla difendere. La svolta di Nordio non sappiamo se avrà un suo riflesso nelle leggi, ma avere un ex magistrato deciso a combattere una repubblica fondata sulle procure, come quella italiana, dovrebbe spingere tutti coloro che hanno a cuore lo stato di diritto, oltre che la nostra Costituzione, ad aiutare il ministro della Giustizia a ricordare che il problema della giustizia in Italia non ha a che fare con le mele marce ma ha a che fare con l’albero e con un sistema in cui i veri pieni poteri non sono quelli che rivendicano i politici ma sono quelli che i politici hanno regalato ai magistrati. Forza Nordio. Lo spoil system di via Arenula di Paolo Comi Il Riformista, 28 dicembre 2022 A distanza di poco più di due mesi dal suo insediamento, Carlo Nordio ha azzerato quasi tutte le nomine dirigenziali effettuate dai suoi predecessori Alfonso Bonafede e Marta Cartabia. L’ultima dirigente apicale in ordine di tempo a non essere stata riconfermata è Gemma Tuccillo, capo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, ufficio finito nell’occhio del ciclone dopo la maxi evasione dello scorso fine settimana dal carcere Beccaria di Milano. Nominata da Bonafede e poi confermata da Cartabia, Tuccillo, consigliera in Corte di Cassazione, lascerà l’incarico il prossimo 15 gennaio. Al momento al Consiglio superiore della magistratura non è arrivata nessuna richiesta di ‘fuori ruolo’ per il sostituto. Non è escluso, quindi, che Nordio possa scegliere per tale ruolo anche una figura esterna alla magistratura. Il primo ad essere rimosso da Nordio era stato il capo di gabinetto Raffaele Piccirillo. Al suo posto il ministro aveva scelto il presidente del tribunale di Vicenza Alberto Rizzo, affiancandogli come vice Giusi Bartolozzi, ex parlamentare prima di Forza Italia e successivamente nel gruppo misto, e anch’ella magistrato. Poi era stato il turno del capo dell’Ufficio legislativo con il procuratore generale di Roma Antonello Mura in sostituzione della giudice Franca Mangano. Una rimozione che aveva fatto molto rumore era stata quella del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Carlo Renoldi, rimasto in carica nemmeno un anno, sostituito dal procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia Giovanni Russo. Ed infine Gaetano Campo, presidente di sezione lavoro del Tribunale di Vicenza, che ha preso il posto della collega Barbara Fabbrini alla direzione del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria (Dog). L’unica ad essere uscita indenne dal “super” spoil system dell’ex procuratore aggiunto di Venezia, che ha visto anche la nomina di Giuseppina Rubinetti e Valentina Noce rispettivamente capo e vice della segreteria particolare è stata la portavoce del ministro Raffaella Calandra, nominata da Cartabia nel 2021. Dl Rave, il governo pone la fiducia e punta alla tagliola di Simona Musco Il Dubbio, 28 dicembre 2022 Il decreto va approvato entro il 30 dicembre per non rischiare la decadenza. Ma le opposizioni sono pronte a dare battaglia. Il governo pone la fiducia sul decreto rave. A chiederla il ministro per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani, dopo una giornata fitta di interventi, con i quali le opposizioni hanno tacciato più volte di incostituzionalità il decreto, approdato a Montecitorio proprio nel giorno del “compleanno” della Costituzione. Il voto è previsto dunque per domani pomeriggio, alle 15.45, un modo per tamponare l’ostruzionismo delle opposizioni con un possibile ricorso alla “tagliola”, per evitare di slittare oltre il 30 dicembre, giorno entro cui il decreto deve essere necessariamente convertito per evitare la decadenza. Ma la battaglia da parte della minoranza è già annunciata, come dimostrato dalle quattro pregiudiziali di costituzionalità presentate oggi e respinte dall’aula con 170 voti a 127. “La pecca è quella di rischiare di crollare, di naufragare di fronte alla Corte costituzionale”, ha detto il vicesegretario di Azione, Enrico Costa, in merito all’articolo che riguarda l’ergastolo ostativo. Ma è tutto il decreto, ha dichiarato il deputato, a fare acqua. “Questo è un fritto misto in cui ogni ministero e ogni ufficio legislativo ha cercato di introdurre ed inserire le urgenze dei propri ministeri”, ha evidenziato, così come fatto dagli altri deputati dell’opposizione, che hanno contestato la sussistenza dei criteri di necessità ed urgenza. “Spiegateci qual è l’urgenza di intervenire sui rave party, quale allarme sociale particolare destano - ha evidenziato Devis Dori (Avs) -. Vi serviva uno spot? Questa era l’urgenza politica? Mostrare i muscoli nella prima occasione utile, nel primo vero provvedimento del governo?”. Parole che hanno subito suscitato l’ironia dei partiti di maggioranza. “I colleghi delle opposizioni - ha commentato il forzista Pietro Pittalis - hanno riscoperto che per i decreti-legge sono previsti i requisiti di necessità e di urgenza. E lo dico soprattutto con lo sguardo rivolto a quello che è successo nella scorsa legislatura, soprattutto durante i Governi del presidente Giuseppe Conte, che si sono distinti per un uso sistematico della decretazione d’urgenza”. Proprio perché si tratta del primo provvedimento, l’Esecutivo di Giorgia Meloni non ha intenzione di correre il rischio di finire subito sotto in Aula. Ma il voto di fiducia presuppone un nuovo affondo delle minoranze, che domani avranno a disposizione cinque minuti a parlamentare per gli ordini del giorno e 10 per le dichiarazioni di voto. Non è escluso, dunque, che il governo possa fare ricorso alla procedura della ghigliottina parlamentare, che prevede la possibilità, prima che abbia inizio l’esame degli articoli di un disegno di legge, di passare direttamente al voto finale del provvedimento, qualunque sia la fase dell’esame dell’aula in cui si trovi. Un procedimento che zittirebbe l’opposizione assicurando la deliberazione nei tempi previsti. Ma le polemiche ci saranno. “Il dl Rave è il primo atto di questo governo, una sorta di biglietto da visita. Un pessimo esordio lontanissimo dalle priorità degli italiani. Si parla di rave, vaccini, mafie, riforma Cartabia. Una frittura mista; un decreto emanato esclusivamente per ragioni propagandistiche ed identitarie che dimostra un’assenza completa e totale di un’idea qualsiasi di come governare questo Paese - ha detto nel corso del suo intervento Toni Ricciardi, deputato del Pd -. Un obbrobrio giuridico criticato da giuristi e costituzionalisti che hanno espresso grandi preoccupazioni legate all’introduzione di un nuovo reato che, infatti, il governo ha provato a correggere con scarsi risultati, ma anche da stessi esponenti della maggioranza. È grave che il governo abbia varato una misura che apriva e probabilmente continuerà ad aprire le porte alla possibilità di vietare ogni manifestazione, violando così i princìpi elementari della democrazia. Un provvedimento che serve per agitare lo slogan “la pacchia è finita”. Eppure il governo ignora - come dimostra una iniqua legge di bilancio - coloro per i quali la pacchia non è mai iniziata”. Critico sulle nuove norme che riguardano l’ergastolo ostativo il deputato del M5S ed ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho: “Questo decreto, nella parte sull’ergastolo ostativo, doveva certamente essere emanato con urgenza. Il Movimento 5 Stelle voleva collaborare in maniera costruttiva per migliorare il testo e renderlo veramente efficace contro le mafie. Potevamo trovarci qui in aula ad approvare tutti insieme un provvedimento condiviso. Invece da parte del governo e della maggioranza abbiamo trovato un muro inspiegabile, è una scelta assurda e miope. Per di più, hanno anche compiuto il colpo di mano di cancellare i reati contro la Pa dall’elenco di quelli ostativi, abbattendo così un’arma importantissima contro mafie e reti corruttive - ha sottolineato -. Oggi noi non possiamo far passare il messaggio che con la nuova normativa ai non collaboranti sarà riservato un trattamento più favorevole rispetto a quello previsto per i collaboratori di giustizia. È un messaggio devastante per la legalità. Bisognava stabilire l’obbligo per i condannati per reati ostativi di specificare dettagliatamente le ragioni della mancata collaborazione, per capire se sono argomenti accettabili o se, viceversa, si tratta di un chiaro segnale di inalterata adesione al patto mafioso”. Cafiero De Raho: “Queste norme sono un favore ai mafiosi, così non si pentiranno più” di Liana Milella La Repubblica, 28 dicembre 2022 Secondo il deputato cinquestelle ed ex procuratore nazionale antimafia le norme sull’ergastolo ostativo sono più favorevoli ai mafiosi che non ai collaboratori di giustizia e questo provocherà la fine delle collaborazioni. Ostruzionismo, in dirittura d’arrivo del decreto Rave, del M5S alla Camera. Ma Federico Cafiero De Raho non lo chiama affatto così. “Il nostro non è ostruzionismo. Stiamo solo cercando di risvegliare la maggioranza per evitare che demolisca un’importante legge antimafia dello Stato”. Non ha dubbi l’ex procuratore nazionale antimafia, oggi deputato del M5S, nonché vice presidente della commissione Giustizia. Parole di fuoco le sue contro il decreto Rave, soprattutto nel capitolo sulle nuove regole per l’ergastolo ostativo. Il governo Meloni, con questo decreto, sta strizzando l’occhio alle mafie? “Un fatto è certo. Il decreto non si inserisce affatto nel percorso seguito fin qui dallo Stato, dal 1982 a oggi, per garantire gli indispensabili strumenti legislativi scritti appositamente per contrastare Cosa nostra e le altre organizzazioni criminali. Il compito della politica è mettere a riparo i cittadini dalle mafie perché gli stessi cittadini da soli non hanno la forza di reagire”. A quattro giorni dalla conversione del decreto l’ostruzionismo parlamentare è divenuto una via obbligata? “Stiamo cercando disperatamente, con i fatti, di far rimeditare la maggioranza su temi che già nella discussione in Senato abbiamo messo in rilievo, sia in commissione che in aula. Abbiamo già spiegato che si tratta di questioni fondamentali per garantire la sicurezza dei cittadini e il contrasto alle mafie”. E che succede se il governo risponde con la fiducia? “Noi stiamo facendo il nostro dovere per evitare che questo governo approvi una legge dello Stato che chiaramente non si inserisce nel percorso seguito fin qui sin dal 1982. Quindi non parlate di ostruzionismo, ma della nostra volontà di spenderci con tutte le energie possibili perché ci sia un risveglio di coscienza e si cambi subito il decreto nelle sue parti pericolose”. Qual è la “colpa” principale che vede nella nuova formula dell’ergastolo ostativo? “La risposta è molto semplice. Lo strumento legislativo non deve creare dubbi. In questo caso nessuno deve pensare che la legge sia più favorevole di quella sui collaboratori di giustizia. Parlo di una legge che non deve favorire chi resta mafioso, rispetto a chi decide di passare dalla parte dello Stato. Invece il decreto purtroppo ha proprio questo problema, mentre il disegno di legge approvato alla Camera corrispondeva sostanzialmente alla nostra idea. Quando si ha a che fare con la mafia è fondamentale adottare leggi senza ambiguità”. E dove stanno le ambiguità in questo decreto? “Premetto che noi non vogliamo fare né ostruzionismo, né attività dilatoria, ma collaborare con la politica. Il decreto andava emesso, l’esigenza c’era, e tutti la riconosciamo. Ma nel decreto manca qualcosa, e non parlo del passaggio da 26 a 30 anni per poter uscire dall’ergastolo ostativo, questo è un fatto marginale. Il problema è che questa legge diventa un mezzo per far accedere i mafiosi ai benefici più di quanto non possano farlo i collaboratori di giustizia. Quindi il mafioso, che sa che può accedere comunque ai benefici, non collaborerà più”. E questo, per lei, è un danno epocale alla legislazione antimafia?  “Certo, perché l’immediata conseguenza è che ne deriverà la mancanza di collaborazione. Purtroppo già adesso il sistema non regge, per i collaboratori non c’è un euro, e non s’investe sul sistema di protezione. Tutti i detenuti sono consapevoli che diventare collaboratore determina grandissime difficoltà, tant’è che molti di loro, se potessero farlo, tornerebbero indietro. Le modifiche chieste al Senato da M5S non miravano a bloccare il decreto, ma a integrarlo”. Che cosa ha chiesto il M5S? “Il ragionamento è semplice. Se il mafioso rende dichiarazioni sappiamo che si è tirato fuori dal suo ambiente. La legge sui collaboratori chiedeva “il ravvedimento accertato”, e non la “revisione critica”, come invece è scritto in questo decreto. A Giovanni Brusca, giunto a un anno dal fine pena, il tribunale chiese il ravvedimento, un atto morale, per dimostrare che era diventato una persona completamente diversa rispetto alla mafia. E se c’è solo la “revisione critica”, ma non il “ravvedimento”, cioè non hai soddisfatto appieno le esigenze di giustizia riparativa, non puoi uscire dall’ergastolo ostativo. Tant’è che a Brusca viene negata la detenzione domiciliare”. E voi avete chiesto alla maggioranza di parlare espressamente di “ravvedimento” e non di semplice “revisione critica”? “Esattamente, abbiamo chiesto proprio questo. Gli irresponsabili qui non siamo noi, e da neofita della politica non capisco perché la maggioranza non accolga le nostre proposte giuste e non eviti gli errori. Noi abbiamo chiesto che il mafioso dica spontaneamente quali sono i beni di cui dispone, per equipararlo al collaboratore. Cioè di specificare tutti i beni posseduti o controllati, e tutte le altre utilità, e quindi versare il denaro frutto di attività illecite che sono state sequestrate. Se il pentito dice il falso, il suo programma di protezione decade. Invece, in questo decreto, le condizioni per il mafioso sono più favorevoli di quelle garantite al collaboratore. Per questo noi diciamo che il decreto si colloca per noi in un quadro di grande preoccupazione”.  La vicenda di Paola Navone, arrestata per aver ricevuto un cesto di Natale e poi assolta: nessun reato di Tiziana Maiolo Il Riformista, 28 dicembre 2022 Se è dolce il Natale per la dottoressa Paola Navone, ex direttrice sanitaria dell’ospedale ortopedico di Milano Gaetano Pini, assolta in appello alla vigilia, decisamente amarognolo è stato per il pm Eugenio Fusco, smentito nella sua ipotesi, e non è la prima volta. Perché è lo stesso pubblico ministero che aveva contribuito a portare a processo Roberto Maroni per due episodi che non erano reati, ma neanche semplice malcostume o segnalazione che il codice penale ormai definisce “traffico di influenze”. Erano semplici atti di ordinaria amministrazione, tranne per chi non abbia nello sguardo sempre e comunque il reato. La dottoressa Paola Navone era stata posta agli arresti domiciliari nell’aprile del 2018 per corruzione. Era il direttore sanitario di un polo nell’eccellenza dell’ortopedia milanese, il Cto-Gaetano Pini. L’inchiesta, condotta dal pm Cristian Barilli e dall’aggiunto Eugenio Fusco, riguardava l’acquisto da parte degli ospedali Cto-Pini e Galeazzi di presidi ortopedici, in particolare di un dispositivo sanitario anti-infezione creato da due medici, finiti pure loro nell’inchiesta. La direttrice sanitaria era stata accusata di corruzione per aver accettato in dono un cesto di tipo natalizio del valore di trecento euro e per aver partecipato a tre convegni come relatrice, senza compenso ma con il rimborso del viaggio. Si potrebbe non crederci, ma l’accusa era tutta qui. Pure, nelle parole del pm, la dottoressa veniva definita come “un soggetto indispensabile e attraente per via dei suoi appoggi…”. E tra le “utilità ricevute” non erano considerate solo quelle materiali, come un cesto o un rimborso del viaggio, ma anche, in aggiunta, quelle più impalpabili, come “l’interesse ad affermarsi professionalmente” della dottoressa. Corrotta e carrierista! Fatto sta che da quel giorno di aprile del 2018 la vita di un affermato sanitario con brillante carriera finisce nel cestino della carta straccia. Licenziata e processata, con l’umiliazione di vedere come parte civile l’ospedale Cto-Pini, l’Ordine provinciale dei medici e la Regione Lombardia, tutti a chiedere il risarcimento anche per il danno d’immagine. Il mondo che ti crolla addosso. Il giorno prima hai tutto, sei stimata e di buon umore, e racconti al telefono alla figlia della gentilezza di chi ti ha regalato il famoso cesto, e non sai di aver commesso peccato e reato. Non sai che ti ascoltano e deducono. E così finisci in quel vortice su cui potremmo ormai riscrivere l’intero vocabolario dei “casi” dalla A alla Z. Passano due anni dal giorno dell’arresto e il 3 marzo del 2020 Paola Navone viene condannata dalla decima sezione del tribunale di Milano, pur con l’attenuante della “lieve entità del fatto”, a due anni e mezzo di carcere. Nei suoi confronti è disposta anche la confisca di 5.000 euro e l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. Le parti civili, ospedale Cto-Pini, Ordine provinciale dei medici e Regione Lombardia vengono risarcite con 36.000 euro. E intanto trascorrono altri due anni e mezzo, cioè siamo a quasi cinque da quel giorno dell’arresto. In appello cambia tutto. Cambia il pm, che non si chiama più Eugenio Fusco, ma Celestina Gravina, la stessa che ha demolito mattoncino su mattoncino il processo Eni e la costruzione accusatoria del pm Fabio De Pasquale. Si comincia con il modificare l’accusa nei confronti dei due medici, i professori Lorenzo Drago e Carlo Luca Romanò, i quali erano stati condannati in primo grado a sei anni e mezzo di carcere per non aver segnalato all’ospedale di cui erano dipendenti non solo di essere gli inventori del famoso farmaco, ma anche di esser diventati soci del proprietario della ditta che produceva il dispositivo. La pg Gravina chiede la derubricazione della corruzione in abuso d’ufficio e la seconda corte d’appello ratifica il patteggiamento concordato tra le parti. Ma soprattutto assolve, su richiesta della stessa pubblica accusa, che ha parole durissime nei confronti sia di chi l’aveva accusata che del tribunale che l’aveva condannata, la ormai ex direttrice sanitaria Paola Navone perché “il fatto non sussiste”. Il presidente Maurizio Boselli ha ritenuto non solo che il ruolo della direttrice sanitaria non fosse determinante per introdurre quel dispositivo nell’ospedale, ma anche che le famose “utilità” non avevano certo la forza di indurre qualcuno a farsi corrompere. Arriva il momento della verità. Il pianto liberatorio della dottoressa, il rammarico del suo legale Piero Magri, che ricorda il calvario subito dalla sua assistita, saranno sufficienti a inserire questo “caso” tra quelli già citati come vergogna per uno Stato di diritto dal ministro Carlo Nordio? Noi crediamo che lo meriti. Milano. Dopo la rivolta. Soli e arrabbiati. Chi sono i “cattivi ragazzi” del carcere Beccaria di Fulvio Fulvi Avvenire, 28 dicembre 2022 Cresciuti in periferia, alle spalle famiglie fragili, davanti zero prospettive: i giovani detenuti del carcere minorile di Milano si assomigliano tutti: “Non hanno mai trovato risposte”. Al Beccaria fino a ieri sera c’è ancora tensione. I ragazzi dopo la violenta protesta intrapresa nella serata di domenica temono di essere trasferiti. “Sono agitati, sbattono sulle sbarre, chiamano gli assistenti in continuazione per bisogni anche improbabili, sono provocatori a livello verbale” racconta il cappellano dell’istituto di pena, don Claudio Burgio. Una situazione “esplosiva”. “Alcuni mi hanno detto “hai visto che siamo rimasti e abbiamo aiutato a mettere a posto?” - aggiunge il sacerdote - per far capire che non assecondano queste “cavolate”. E il loro giudizio su chi è andato via è impietoso: li considerano bambini, immaturi”. Cattivi ragazzi, facinorosi, come i loro coetanei che nel pomeriggio del giorno di Natale, approfittando del personale ridotto all’osso e con la scusa di giocare a pallone sono andati in cortile, hanno scalato l’impalcatura del cantiere, scavalcato il muraglione e sono scappati. Pensavano di farla franca. Ma non sono andati lontano. Stavano dentro, in attesa di giudizio, per reati contro il patrimonio: furti, rapine, estorsioni, compiuti perlopiù in gruppo. “Cominciano a 14-15 anni quasi sempre rubando al supermercato, per provare un brivido, infrangere le regole, provengono da contesti sociali e familiari poveri dal punto di vista economico, educativo e relazionale” spiega Giovanni Fulvi, presidente del Coordinamento nazionale comunità di tipo familiare per minorenni, che riunisce oltre 300 realtà del settore. “Questi ragazzi vanno intercettati prima che commettano reati più gravi e finiscano in carcere - dice Fulvi -, ma purtroppo non c’è nulla che possa aiutarli perché la scuola non li toglie dalla strada e nelle famiglie, quando ci rimangono, è spesso il padre o un fratello a svolgere attività illecite in cui vengono coinvolti. Poi mancano i servizi nei quartieri: in Italia non si investe più per le nuove generazioni”. Minori, fragili e dimenticati. “Questa condizione di disagio porta spesso gli adolescenti ad avere seri problemi psicologici se non proprio psichici - aggiunge il presidente del Coordinamento delle comunità per i minori - e noi lo vediamo bene quando facciamo le prese in carico sanitario”. Rabbia, depressione, solitudine sono le condizioni che possono far scatenare una reazione che può diventare criminale a tutti gli effetti. Insomma, si devono saper cogliere i “segnali predittivi” di un’evoluzione pericolosa. “Ma nella maggior parte questi adolescenti compiono reati per farsi vedere perché sono dimenticati da tutti - conclude Fulvi - come è successo con chi è evaso dal “Beccaria”: “Nessuno mi trattiene? Se faccio così allora qualcuno forse si accorgerà di me”. Spesso, dunque, basta un po’ di tenerezza per comunicare... Non bisogna lasciarli soli”. Ma va detto che in Italia c’è un basso tasso di recidive grazie a una giustizia minorile che, tutto sommato, funziona: “Al carcere arrivano in pochi, a differenza che a Parigi per esempio, negli Usa o in Sud America”. Rimane essenziale il compito delle comunità, dove i ragazzi non si sentono giudicati e qualcuno si prende cura di loro seguendoli in percorsi formativi e introducendoli nel mondo del lavoro. Ma il fenomeno della criminalità giovanile non va sottovalutato. “Su 300 minori accolti nelle nostre strutture, 180 sono autori di reati” commenta Paolo Tartaglione, pedagogista, dirigente della cooperativa sociale Arimo che opera in Lombardia e si occupa soprattutto del reinserimento di adolescenti in difficoltà. Quali sono i campanelli d’allarme? “Lo stallo di crescita, le frequenti bocciature a scuola, l’uso di sostanze, gli atti di vandalismo”. Come prevenire e come assistere chi ha bisogno? “Le comunità sono essenziali, rappresentano una sfida per questi ragazzi, un’opportunità, anche se non bastano, molte stanno chiudendo perché mancano gli educatori, come è successo a noi in settembre quando abbiamo dovuto smantellare il nostro pronto intervento penale” afferma Tartaglione. E il carcere? “Spesso non è evitabile, e poi lì dentro nessuno chiede loro di cambiare davvero, sono deresponsabilizzati, non si mettono in gioco, è sufficiente che obbediscano agli ordini, facciano le domandine per i permessi e chiedano persino se possono andare in bagno: per molti sta bene così”. Anche se poi evadono, e lo fanno proprio in un giorno di festa, quando si sentono più abbandonati del solito, gli affetti veri non ci sono e le loro ferite fanno male di più. Un grido disperato che può risuonare forte nel giorno di Natale. E che importa se, alla fine, si torna di nuovo là dentro. Milano. Beccaria, undici ragazzi trasferiti in carceri del Sud, uno con gli adulti di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 dicembre 2022 Punizioni dopo la rivolta. Il ministro Nordio interviene dopo due giorni e propone un “tavolo interministeriale”. A due giorni dalla rivolta nel carcere minorile milanese “Cesare Beccaria” e dall’evasione dei sette ragazzi detenuti, il ministro di Giustizia Carlo Nordio trova qualche parola da offrire alla stampa al posto delle tante pronunciate con enfasi per microfoni e taccuini, su carceri e giustizia minorile, dal ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini. Due giorni dopo quei fatti, ancora tra dei ragazzi fuggiti sono latitanti, un quarto è stato rintracciato ieri dai carabinieri per strada, per strada in zona Sesto San Giovanni. Ma la punizione - se così si può chiamare - è arrivata per tutti. Undici dei giovani che il giorno di Natale si sono ribellati contro un permesso natalizio prima concesso e poi vietato, dando fuoco a materassi e suppellettili, dopo la fuga degli altri detenuti, ieri sono stati trasferiti in sei carceri diversi del sud Italia, secondo il criterio della “distribuzione il più possibile diffusa”. Due di loro sono finiti a Catania, e gli altri sono stati distribuiti tra gli istituti minorili di Bari, Catanzaro, Potenza, Palermo e Caltanissetta. Altri trasferimenti erano già da ieri in previsione di esecuzione. Secondo il garante dei detenuti di Milano, Francesco Maisto, almeno un giovane sarebbe stato trasferito addirittura in un carcere per adulti. “Il fatto che siano stati trasferiti al Sud è una notizia che mi preoccupa - commenta Maisto - che siano finiti in carceri per adulti invece mi allarma. Spero, e vorrei sbagliarmi, che i minorenni non vengano trattati così per punizione, come avviene spesso anche per i detenuti adulti”. D’altronde le destre politiche e sindacali fin da subito hanno colto l’occasione per rilanciare una sorta di controriforma sul sistema penale minorile, tornando a limitare a 21 anni (anziché i 25 attuali) l’età dei detenuti che possono scontare la pena negli Ipm. Quanto accaduto, scrive Nordio, “è l’ultima spia di un crescente e allarmante disagio giovanile, di cui tutti - ciascuno nel proprio ruolo - siamo chiamati ad occuparci”. Il ministro “garantista”, che segue “con preoccupazione” (e parole di circostanza) l’evolversi degli eventi, si è limitato a elencare una serie di misure (decise da chi lo ha preceduto): un direttore a tempo pieno per il Beccaria forse a settembre, quando saranno formati i 57 nuovi direttori che hanno superato il primo concorso bandito dopo 25 anni; la copertura dei “vuoti di organico della dirigenza penitenziaria di esecuzione penale esterna, visto che i nuovi assunti stanno terminando la formazione”; mille assunzioni per la polizia penitenziaria; un nuovo istituto minorile a Rovigo e la ristrutturazione di quello di Castel del Marmo; giustizia riparativa “per prenderci cura nei modi più efficaci possibili dei ragazzi entrati nei circuiti penali”. Il Guardasigilli però trova anche “un aspetto positivo” nei fatti di Beccaria: la fiducia nelle istituzioni da parte dei familiari che hanno convinto alcuni ragazzi (“almeno in un caso”) a costituirsi. Poi la chiosa, con la proposta di “un tavolo interministeriale che coinvolga tutte le istituzioni e il terzo settore, per continuare ad osservare in modo costante il fenomeno della devianza giovanile e individuare soluzioni efficaci anche in termini di prevenzione”. Evidentemente non soddisfatto, il Pd chiede che Nordio riferisca (si spera, non ripeta) tutto in Parlamento. Milano. Beccaria, il cappellano: “I ragazzi non ce la fanno più, chiedono farmaci per calmarsi o dormire” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 28 dicembre 2022 Parla fondatore della comunità Kayros di Vimodrone e cappellano del Beccaria. Sembra che l’obiettivo primario di tutti sia, adesso, calmarli. Ma non li calmi, se non dai loro la prospettiva di potersi costruire giorno dopo giorno un futuro che a loro piace e interessa”. Don Claudio Burgio, fondatore della comunità Kayros di Vimodrone e cappellano del Beccaria, ieri pomeriggio usciva sconsolato dall’Ipm di Milano dove si fronteggiava un’altra giornata di forti tensioni dopo la fuga di sette ragazzi e i disordini che sono seguiti. Com’è la situazione?  “Alcuni ragazzi non ce la fanno più, pensano di non avere niente da perdere, sono provocatori a livello verbale, temono nuovi trasferimenti in carceri lontane. Spesso alla richiesta di farmaci per calmarsi o dormire la notte si acconsente ma anche la medicalizzazione, se diventa eccessiva, è un rischio: quando escono e tornano a casa o in comunità sostituiscono gli ansiolitici con le sostanze, pericolose a maggior ragione in presenza di disagi psichici. Dovrebbero riprendere a questo proposito laboratori trasversali e incisivi che informino sui danni dell’alterazione artificiale. I problemi sono molti, bisogna affrontarli uno ad uno con coraggio e spirito positivo, insieme a loro” La detenzione, a maggior ragione per i minori, dovrebbe essere l’estrema ratio...  “Proprio così, ma il sistema fuori fa acqua. Non ci sono abbastanza comunità strutturate al punto da voler accogliere i casi difficili. Servono figure adulte con grande esperienza e predisposizione ma gli educatori sono pochi sia al Beccaria sia fuori”. In istituto penitenziario il minore dovrebbe sperimentare la possibilità di una vita diversa. Succede così?  “Non proprio. Il carcere è l’ultimo presidio totalitario, un sistema dove per definizione si reprime la libertà. Un luogo di violenza, dunque. In particolare mettere un adolescente, pur autore di reato, dietro le sbarre troppe ore al giorno è contro natura. Il rischio è l’effetto stigmatizzante che rafforza l’identità criminale. Oggi, quando sono andato via, battevano tutti contro i blindi, un rumore assordante. Per evitare che la violenza prenda il sopravvento bisogna che i ragazzi non avvertano il Beccaria come luogo solo di reclusione ma che lo vivano come un ambiente formativo costruito per loro: solo così investiranno su se stessi”. Lo scorso agosto c’è stato quell’episodio terribile venuto a galla, il ragazzo ferocemente abusato e picchiato in cella. È un’eccezione?  “Il bullismo che ha portato i ragazzi in carcere si ritrova spesso anche nelle celle e in particolare la prima accoglienza deve essere monitorata attentamente perché i rischi che si replichino certe dinamiche è molto alta”.  Come sono le giornate di quei ragazzi? “Troppo vuote, in particolare nei periodi di vacanza. Le attività, soprattutto dopo il Covid, sono state ridotte e si svolgono quasi solo all’interno delle sezioni, per la paura e la fatica organizzativa di trasferire in sicurezza e gestire gruppi di giovani in cortile o in palestra e teatro, luoghi peraltro ristrutturati e bellissimi che è un peccato non utilizzare con regolarità. Gli agenti sostengono uno sforzo enorme ma cosa deve succedere perché il ministero capisca che serve rafforzare l’organico e dare più stabilità al personale in continuo turnover?”. Che cosa non si riesce a organizzare regolarmente?  “Ad esempio allenamenti e partite di calcio e rugby o partite con esterni, come invece si faceva prima. L’osmosi tra dentro e fuori è oltremodo salutare, appoggio con stima l’idea della direttrice Maria Vittoria Menenti di creare una pizzeria interna. Servono aziende che investano in stage e tirocini: i ragazzi imparerebbero un mestiere e inizierebbero a guadagnare qualcosa con l’idea che iniziano a diventare grandi e dunque più responsabili”. Milano. Fuga dal Beccaria, il procuratore Cascone: “I ragazzi in carcere sono invisibili finché non evadono, e il Pnrr li ignora” di Conchita Sannino La Repubblica, 28 dicembre 2022 Il magistrato che guida la procura minorile di Milano: “Al ministro Nordio dico che di tavoli ne abbiamo visti tanti. Abbiamo immediatamente bisogno di risorse e personale”. E sul trasferimento dei giovani negli istituti di altre città: “Così aumenta il loro sradicamento”. “Ora dovrei cominciare con le solite litanie? Ma intanto i numeri crescono, il malessere tra i ragazzi è aumentato. Per questo non mi posso stancare di ripetere le stesse cose... “. Cosa, procuratore Cascone? “Che un carcere minorile è cosa molto diversa da un carcere per adulti: che occorrono investimenti, risorse, e personale specializzato, con una formazione specifica”. Allarga le braccia Ciro Cascone. Da sette anni procuratore capo dei minori a Milano, il distretto con il maggior carico di lavoro in Italia, sia nel civile sia nel penale, Cascone è il magistrato che coordina, con la Procura ordinaria, l’inchiesta sull’evasione dei sette ragazzi dal carcere Beccaria, a Natale. Due di loro sono stati presi. Altri due, minori, rientrati autonomamente. Ricerche in corso per un 17enne e per altri due maggiorenni. Il ministro Carlo Nordio ha annunciato: tavolo interministeriale... “Veramente, di tavoli e cabine di regia ne abbiamo visti tanti. Forse occorrono delle cosine semplici. Due: far funzionare quello che abbiamo e mettere risorse, risorse, risorse. Mentre il disagio cresce, non sono arrivate politiche di prevenzione, non aumentano le spese. Ecco, poi divento un fiume in piena”. Procuratore, c’è un leader o un babyboss in questa evasione? “Non posso parlare delle indagini, ma è fatale che uno lanci l’idea e altri, per fragilità e mancanza di riferimenti, seguano. Ma ora, mentre tanti chiedono solo di chi sia la colpa, io dico: dobbiamo capire dove stanno le responsabilità del grave episodio - com’è doveroso - ma anche capire come operare in generale per recuperare questa platea. Questo è un interesse della comunità tutta, dei “perbene”. Invece questi minori continuano ad essere invisibili. E, nel migliore dei casi: un problema. Vuole un esempio? Lo sa che il Pnrr ci ignora completamente? Quindi il fattaccio del Beccaria deve servire ad accendere le luci non solo sulle carceri, ma sul mondo minorile: su cui non riusciamo a fare nulla, o quasi, prima che diventino giovanissimi indagati o detenuti”. In che misura il problema si aggrava? “Di molto. Quest’anno ho avuto 4mila procedimenti penali, ed è più o meno in linea, ahinoi. Ma ho avuto ben 9.500 nuovi procedimenti civili. Cosa mai vista. Il nostro massimo era 7.000. Dietro ognuno di quei numeri c’è una famiglia che non funziona, una forma di malessere e di disagio che affligge tantissimi minorenni. Noi sappiamo tutto, li vediamo, anzi è come se sfilassero davanti a noi che abbiamo anche ottime norme, soluzioni che teoricamente altrove ci invidiano, ma è come s e non riuscissimo a intercettarli”. Un sintomo del disastro sono anche i cantieri infiniti. Nel carcere Beccaria durano da quasi venti anni? Perché, secondo lei? “Capisco chi dice, col senno di poi, che avrebbero fatto meglio a demolire e a ricostruire tutto. Ma il senno di poi non è mai un onesto compagno di analisi. I vari cantieri negli anni si riferivano a vari segmenti. Difatti, un primo pezzo realizzato è quello in cui stanno oggi i ragazzi meglio sistemati. L’ultimo dura dal 2018, ma c’è stato il Covid a rallentare. Il tema è anche un altro”. Il personale... “Che manca in tutti gli uffici pubblici, lo so. Ma è peggio che accada negli istituti minorili: se mancano operatori, al Beccaria o altrove, si bloccano le attività con i ragazzi e non riesci più a seguirli. Il che significa una cosa: abbandonarli alla deriva da cui sono stati portati fin lì”. Per i cantieri infiniti, è avvenuta anche la diaspora dei ragazzi detenuti, anche a mille chilometri. “Sì, anche questo abbiamo denunciato. A causa dei lavori che non finiscono molti ragazzi da Milano sono stati mandati a Caltanissetta, a Catanzaro, a Sassari, a Potenza. E questo produce due danni, seri: non solo i ragazzi perdono quel minimo di affettività con un genitore, un nonno, una fidanzatina, per quanto precari siano quei legami; ma finisce la possibilità di progettualità”. Cosa significa? “Un conto è che a Milano hai il servizio sociale ministeriale o del territorio e costruisci per lui un progetto di inclusione; ma se i ragazzi stanno a Sassari o a Caltanissetta, chi vuoi che investa su di loro? Molti vengono da famiglie disgregate, o sono minori stranieri non accompagnati: se non gli offri una via d’uscita dal circolo della devianza, ci resteranno a vita. O pensiamo che si salvino da soli, stando in carcere? “. Tra 48 ore, entra in vigore il neo-processo penale. Reggerete? “Questa riforma, che punta a creare le basi del processo penale telematico, ci mette ancora più ai margini: perché noi uffici del minorile non siamo informatizzati assolutamente. Noi viaggiamo sulla carta. E ci troveremo con incombenze che rallenteranno tutto: altre attese e altri casi senza risposta, quindi altra rabbia che si accumula”. Poi a febbraio sarà la volta del civile: dove siete molto operativi. “Altroché. Ce li troviamo a 15 anni che commettono un reato e li conoscevamo già non per loro colpa, ma per responsabilità degli adulti o del contesto che era stato analizzato sul versante civile”. Procuratore, confidate di trovare anche gli ultimi tre ragazzi in fuga? “Mi auguro si consegnino. Per le loro vite: per arginare il prezzo che dovranno pagare. Già sono invisibili, se poi evadono, molti pensano che bisogna chiuderli in gabbia e buttare la chiave. Ma è questo che serve a loro, e al Paese?”. Milano. Quanto sono affollate le carceri? A San Vittore ci sono 869 detenuti per 450 posti di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 28 dicembre 2022 Il dossier anche sugli altri istituti milanesi: Opera e i tanti soggetti psichiatrici, Bollate “non ha più forza propulsiva”. In ossequio alla consueta regola per cui il mondo di fuori si accorge di quelli che stanno “dentro” soltanto quando ci scappa il morto o l’evaso, l’evasione appunto di 7 ragazzi a Natale dal carcere minorile Beccaria ha avuto almeno l’effetto di fare “scoprire” a molti i tanti problemi incancreniti in quello che una volta veniva additato come un modello del minorile. Ma non è che i penitenziari milanesi degli adulti se la passino meglio: è solo per la dedizione di chi ci lavora che continuano a danzare su un precario equilibrio.  San Vittore, a esempio, è un miracolo continuo: su 705 teorici posti a fine novembre ne andavano detratti 255 non disponibili al momento per ristrutturazioni in reparti chiusi, sicché è nello spazio pensato per 450 posti che vivono 869 detenuti, custoditi e assistiti da un personale di polizia penitenziaria molto sotto organico, 614 agenti sui teorici 780. E 166 agenti in meno non sono una passeggiata soprattutto per un carcere che arriva da due anni di super lavoro durante l’emergenza Covid, essendosi organizzato (unico in Italia come procedura con la cogestione di Medici senza Frontiere) come un vero e proprio hub per i detenuti contagiati dal virus. Un successo pagato però in parte con la riduzione degli spazi, e quindi la quasi totale fine dell’esperimento dei “reparti aperti” in alcuni orari. Le ore di psichiatra disponibili per gli 869 detenuti sono solo 75 a settimana, quelle di psicologo 187 a settimana, e ciò risalta ancor più se si pensa che 122 reclusi hanno diagnosi di disturbi psichiatrici seri, ormai il problema principale negli istituti italiani.  Anche ad Opera, visitata a maggio dall’Associazione Antigone, il personale ha lamentato grosse criticità nella gestione dei soggetti psichiatrici, alla base di 23 episodi di autolesionismo, 2 suicidi, 5 tentati suicidi, 9 colluttazioni, 63 scioperi della fame o della terapia, 4 danneggiamenti, 2 incendi. Eppure i 17 educatori su 22 teorici, e i 557 agenti sull’organico di carta di 696, riescono ad assicurare un momento relativamente positivo per l’istituto quanto a attività scolastiche, lavorative, culturali e sportive. E anche affettive: grazie alla collaborazione con il privato sociale, infatti, è stata creata una “casetta” nella quale i detenuti con le famiglie possono passare una parte della giornata pranzando insieme, svolgendo attività, festeggiando compleanni e comunioni.  Bollate, con 1.396 detenuti in 1.251 posti, è il più grande carcere della Lombardia, nato nel 2000 come istituto a custodia attenuata per detenuti comuni beneficiari di attività trattamentali avanzate che specie nel settore del lavoro (dove impiega alle dipendenze di committenti esterni 242 detenuti e ne vede altri 142 svolgere a turno occupazioni per l’amministrazione) sono giudicate ancora valide: magari non proprio al livello degli anni in cui Bollate era additato a modello di carcere costituzionale per l’abbattimento della recidiva dei suoi detenuti (17% anziché la media del 69%), ma pur sempre ben più se messo a confronto con le altre realtà carcerarie del Paese, nonostante pure qui siano in servizio 435 agenti su 516 teorici, e 35 amministrativi su 51. Storicamente per entrare a Bollate c’era una selezione dei detenuti di altre carceri basata sull’adesione ad un “patto trattamentale”, ma con il Covid anche Bollate ha poi dovuto accogliere (senza “scegliere”) detenuti provenienti direttamente dalla libertà, e quindi ha iniziato a dover affrontare detenuti con problemi complicati che come istituto non era abituato a gestire: così dalle lodi sperticate si è passati ad azzardare critiche sbrigativamente liquidatorie. Quando invece il punto lo ha centrato proprio un “veterano” di Bollate (Michele De Biase) sul denso giornale redatto dai detenuti dell’istituto, CarteBollate, cogliendo mesi fa il rischio che, “pur continuando a distinguersi dagli altri 192 istituti d’Italia”, perda “la sua spinta propulsiva: la sua forza è sempre stata saper progettare un carcere diverso, mentre oggi è un modello che riproduce se stesso, la rivoluzione diventata routine”. Milano. Nordio: “Ora un tavolo sulla devianza giovanile” di Michele Miravalle* Il Riformista, 28 dicembre 2022 Incalzato dalle opposizioni il Guardasigilli annuncia “un direttore a tempo pieno” per il Beccaria e rivendica investimenti per nuove carceri e personale. Negli ultimi anni entrare al Beccaria di Milano aveva un che di paradossale. Fuori dal carcere, la grande Milano, la città che corre, che tenta di far viaggiare il Paese alla velocità dell’Europa e del mondo. Milano è la capitale economica (e dei diritti) in continua trasformazione, capace di costruire alla velocità della luce proprio a Bisceglie, intorno al carcere, l’ennesimo complesso residenziale e commerciale. Capita infatti che di fronte all’ingresso blindato del carcere, dove l’anno prima c’erano campi e radure, l’anno dopo si trovino condomini e centri commerciali. Ma una volta varcato l’ingresso, tutto sembra incredibilmente fermarsi, quasi fosse una città parallela rispetto al fuori. La cosa più evidente è il cantiere, quelle impalcature che pare abbiano agevolato la fuga dei sette giovani detenuti sono lì dal 2008. Immobili o quasi, ormai diventate caratteristica strutturale dell’istituto. La ristrutturazione del carcere doveva durare tre anni. Ne sono passati 15 e siamo ancora lontani dalla “fine lavori”. Quel cantiere infinito, quegli appalti assegnati e annullati e poi ri-assegnti e ri-annullati sono stati un evidente ostacolo che ha trasformato un istituto “modello”, ma sono stati anche un alibi, perché da quando il cantiere è aperto, il carcere è fisicamente “dimezzato”. La struttura è infatti formata da due palazzine gemelle, l’una ospitava il padiglione femminile ed è chiusa da tempo, l’altra, riaperta nel 2017, è oggi l’unica area detentiva agibile. Se e quando saranno conclusi i lavori, il Beccaria potrà ospitare fino a 80 giovani detenuti, diventando il carcere minorile più grande d’Italia, mentre oggi la capienza è di 31 persone. Ma il cantiere compromette anche l’utilizzo delle aree esterne e dei vari laboratori per le attività trattamentali, fondamentali soprattutto quando si tratta di detenzione minorile. Il campo da calcio, da cui è avvenuta l’evasione, proprio a causa del cantiere, può essere utilizzato solo in circostanze eccezionali e la partita di calcio di Natale è, fatalmente, una di queste eccezioni. Per l’”ora d’aria” quotidiana viene invece usato un campetto angusto e spoglio, stretto tra quattro mura e coperto da erba sintetica. Quel cantiere è però anche un alibi, su cui bisogna ragionare in maniera costruttiva. Il Beccaria rimane infatti il carcere minorile italiano che riceve più risorse da enti pubblici e privati esterni. Milano, tra le città più ricche d’Italia, non sembra dimenticarsi del “suo” carcere. Un esempio: a prescindere dal colore politico delle giunte comunali o regionali, il numero di educatori pagati dagli enti locali è pari o superiore a quelli designati dal Ministero della giustizia (caso unico in Italia). Per toccare con mano quanto generosa può essere la città di Milano, basta poi fare qualche passo oltre il carcere e visitare la sede della Fondazione don Gino Rigoldi, una struttura nuova e bellissima, dove lo storico cappellano ha trasferito le sue attività e offre laboratori, occasioni di vita, ma anche solo un tetto e un pasto caldo a persone in uscita dal carcere o in misura alternativa. Anche l’elenco delle attività di formazione e educative al Beccaria è più lungo che altrove, dai panettoni, ai quadri elettrici, passando per il teatro, la ristorazione e il cinema. Quasi tutti “offerti” da enti, fondazioni, associazioni che scelgono di investire lì le proprie risorse. Insomma, delle tante carceri per adulti e per minori osservati da Antigone, il Beccaria non rientra di certo tra quelli “abbandonati” dal territorio. E allora perché proprio a Milano si sono susseguiti una serie di gravi episodi che hanno portato il Beccaria in cima alle agende delle cronache e della politica? Occorre diffidare da chi ha risposte facili. Non basterà una telecamera in più, una rete più alta o l’invio di nuovi agenti. Così come non bisognerà usare l’episodio del Beccaria come una clava per smantellare la giustizia penale minorile, modello a tutt’oggi studiato in tutto il mondo per la sua capacità di ricorrere il meno possibile alla carcerazione (sono meno di 400 le persone detenute nelle 17 carceri minorile del Paese) affidandosi a misure alternative efficaci e non stigmatizzanti. L’evasione di Natale potrebbe diventare piuttosto l’occasione per trovare soluzioni normative e politiche intorno a tre questioni. In attesa, dunque, di conoscere chi sarà il nuovo capo Dipartimento della giustizia minorile, da cui dipende la gestione anche dei centri di prima accoglienza e delle comunità di recupero, il Partito democratico ha chiesto ieri al Guardasigilli di riferire in aula su quanto accaduto a Milano. “Dopo un esordio segnato da tanti proclami e un’azione di governo caratterizzata in direzione completamente opposta, registriamo, non da oggi, un’assenza di proposte del ministro Nordio sul tema carcere”, ha dichiarato Anna Rossomando, vicepresidente del Senato e responsabile Giustizia e diritti del Pd. Sulla stessa lunghezza d’onda anche Luana Zanella, capogruppo dell’Alleanza Verdi e Sinistra alla Camera: “Nordio venga subito in Parlamento a riferire sui sul gravissimo stato del carcere minorile Beccaria di Milano”. Ed in serata è arrivata anche la replica del ministro. “Il Beccaria avrà finalmente un direttore a tempo pieno, stanno terminando la formazione i 57 nuovi direttori di carceri entrati a settembre”, ha sottolineato Nordio, ricordando l’importanza della giustizia riparativa e gli investimenti già in programma per nuove carceri e per assunzioni di nuovo personale della polizia penitenziaria. “E’ mia intenzione proporre il prima possibile l’istituzione di un tavolo interministeriale, che coinvolga tutte le istituzioni e il terzo settore, per continuare ad osservare in modo costante il fenomeno della devianza giovanile e individuare soluzioni efficaci anche in termini di prevenzione”, ha poi annunciato il Guardasigilli. come degli altri 16 carceri minorili italiani. Come si affronta oggi? Esistono strumenti che non siano la sola somministrazione massiccia di psicofarmaci o il confinamento in “zone grigie” del carcere, un po’ celle di isolamento un po’ celle punitive, che al Beccaria, come altrove, esistono? Il tema della salute mentale è legato a quello delle dipendenze e delle droghe. Le politiche di criminalizzazione e di proibizionismo non hanno portato risultati, i servizi sociosanitari di prevenzione sono allo stremo, la circolazione di sostanze tra i giovanissimi è un fatto, anche in carcere. La criminalità minorile cambia. Quale senso ha oggi il carcere nel suo contrasto? È uno strumento davvero educativo oppure di pura, inutile, punizione? Quel muro scavalcato da quei sette ragazzi avrà un senso solo se riuscirà a far ragionare su questi nodi aperti della esecuzione penale minorile italiana. *Ricercatore in Sociologia del diritto, Università di Torino, coordinatore Osservatorio sulle condizioni detentive, associazione Antigone Torino. Il sindaco visita il carcere e invita Nordio: “Attività per dare un senso al tempo sospeso dei reclusi” di Giuseppe Legato La Stampa, 28 dicembre 2022 Emergenza carceri, il sindaco del capoluogo piemontese “Occorre progettare un futuro riparativo, un meccanismo per cui la permanenza da reclusi possa avere anche carattere rieducativo”. Un carcere “vecchio” come quasi tutti i penitenziari italiani in cui “i problemi strutturali condizionano la gestione operativa dei detenuti, ma anche le difficoltà di lavoro della polizia interna rendendo più evidenti gli effetti del sovraffollamento”. Fatta questa premessa “ciò che ho visto di inidoneo mi basta per dire che servono diversi interventi anche sulla formazione e sulle attività all’interno della struttura che aiutino i detenuti a percepire l’elemento rieducativo della pena. Oggi tutto questo l’ho avvertito molto poco”. Infine, a domanda se sia il caso che il ministro Nordio venga a vedere il carcere di Torino, la replica è praticamente un invito: “In tanti anni di politica ho imparato che le cose vanno viste e non basta sentirsele raccontare. È sempre utile osservare direttamente le cose di cui ci si occupa. Sono certo che lo farà”. L’anno scorso fu il 12 dicembre, quest’anno nel giorno di Natale, ma il sindaco Stefano Lo Russo non rinuncia alla sua visita all’interno dell’istituto di pena della città. Perché il tema delle carceri - notoriamente di competenza del ministero - è attuale e stringente anche per chi amministra i territori a prescindere dagli oggettivi limiti di legge che consentano ai primi cittadini di incidere direttamente. Sindaco, il carcere Lorusso e Cutugno è considerato uno dei primi tre osservati speciali del Dap. Cosa ci ha visto dentro lei? “Sicuramente un’inidoneità dei luoghi di detenzione. Architettonicamente e spazialmente ho visto situazioni talvolta non adeguate”. Problemi strutturali o anche altro? “Su formazione, attività rieducative, spazi per consentire che queste ultime vengano svolte in maniera proficua c’è molto da lavorare. Ho visto tanti giovani, reclusi che hanno voglia di riscattarsi ma si dicono schiacciati dalla sensazione di trascorrere dei tempi vuoti”. Cosa fare allora? “Potenziare dove possibile in accordo col Dap, soprattutto le attività dei detenuti. Per tutto quanto possa fare la Città, siamo pronti a dare il nostro contributo. E chiedere alla Regione di rinforzare molto i presidi medici, psicologici e psichiatrici”. Al netto delle valutazioni su strutture e carenze, cosa l’ha colpita di più di questo viaggio dentro il penitenziario? “La difficoltà della popolazione carceraria di individuare un senso di speranza per il loro futuro. Pur consapevoli che non è il sindaco che può risolvere tutto, i detenuti mi hanno sollevato il tema dell’impiego delle ore trascorse: un tempo dilatato da un’inattività forzata”. Le risponderanno, i giustizialisti, che il carcere non è un hotel.. “Il carcere è un carcere: un luogo di detenzione, però - acclarato questo - ho colto la rassegnazione di persone che hanno accettato di dover scontare una pena per riparare il danno che hanno arrecato alla comunità, con una consolidata consapevolezza di aver sbagliato, ma tutti hanno dato disponibilità a utilizzare meglio il tempo che trascorrono reclusi. In modo più utile per loro stessi e anche per la nostra comunità”. In molti, negli ultimi mesi, hanno aperto con insistenza, il fronte per ridurre le pene detentive in favore di misure di espiazione alternative al carcere. Condivide o no? “Non sono un giurista, non mi permetto di entrare nei recinti tecnici delle questioni. Penso però che ci siano cose che si possono fare sia dentro il carcere che fuori dal carcere. Sul primo versante, ho colto nei detenuti una difficoltà oggettiva a pensare a un futuro riparativo, a un meccanismo per cui la permanenza da reclusi possa avere anche carattere rieducativo. Bisogna intervenire su questo senso di indeterminatezza che mi è stato rappresentato e che si percepisce chiaramente. Anche cosi credo si possano ridurre le recidive”. Lo scorso marzo l’ex ministro della Giustizia Marta Cartabia visitò il penitenziario e al termine di un colloquio con lei disse: “le difficoltà sono tangibili, ma se c’è collaborazione e unità d’intenti, possiamo stabilire un nuovo paradigma per il cammino che ci attende”. Immaginiamo lei fosse d’accordo? “Certamente. Lo ero e lo sono”. Non sarebbe il caso che il neo-ministro Nordio venisse a visitare il carcere Lorusso e Cutugno per prendere coscienza di quanto già denunciato dal suo predecessore? “In tanti anni di politica ho imparato che le cose vanno viste e non basta sentirsele raccontare. È sempre utile osservare direttamente le cose di cui ci si occupa. Sono certo che lo farà”. Ci sono due inchieste che ipotizzano diversi casi di presunte torture a danni di detenuti perpetrate da agenti di polizia penitenziaria. Allo stesso tempo sono 41 i casi di aggressione ad agenti registrati nel penitenziario solo nel 2022. Cosa pensa? “Non commento le inchieste. E’ giusto che la giustizia faccia il suo corso e le responsabilità vengano accertate nei tribunali. Rilevo che le criticità che si rappresentano per i detenuti rendono molto complesso anche il lavoro della polizia penitenziaria. E anche su questo versante bisogna intervenire nel supportarli”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Il governo vuole riabilitare i poliziotti imputati per il pestaggio in carcere di Nello Trocchia Il Domani, 28 dicembre 2022 “Non è accettabile che centinaia di agenti di Polizia penitenziaria, già in servizio presso l’istituto di pena di Santa Maria Capua Vetere, risultino sospesi da un anno e mezzo, senza che siano emerse responsabilità dirette. Le posizioni degli agenti vanno riviste singolarmente”. Le parole sono di Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia in quota Lega, e si riferiscono agli agenti penitenziari coinvolti nell’indagine sulle violenze contro i detenuti inermi, avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020. Gli agenti sono sospesi dal giugno 2021 quando è stata eseguita una ordinanza di custodia cautelare nei loro confronti. Il sottosegretario è intervenuto nei giorni scorsi rilanciando la posizione espressa da Lucia Castellano, provveditrice campana delle carceri, con una lunga esperienza nel settore e, in passato, consigliera regionale di centrosinistra in Lombardia. “L’importante è guardare sempre alle storie di ciascuno, quindi anche storie complicate, difficili, pesantissime come quelle di chi ha commesso questi atti. Bisogna diversificare le storie e le posizioni, ed è giusto a mio parere dare attenzione a chi magari non ha materialmente partecipato e che era solo lì”, ha detto Castellano, che ha preso il posto di Antonio Fullone, sospeso dall’incarico e principale imputato nel processo che si è aperto nelle scorse settimane. Castellano ha espresso i suoi dubbi in occasione della visita di un altro sottosegretario alla Giustizia del governo Meloni, il forzista Francesco Paolo Sisto, che occupava la stessa posizione anche durante l’esecutivo Draghi, quando sono state disposte le sospensioni. I sindacati di polizia spingono per la revisione della misura e per il ritorno in servizio degli agenti. Di certo c’è che alcuni poliziotti penitenziari, non interessati da misure cautelari, sono stati sospesi, altri sono rimasti in servizio. Una disparità che vede alcuni agenti a casa con metà stipendio e altri ancora al lavoro, come la dirigente di polizia penitenziaria Nunzia Di Donato, rimasta al suo posto. “Si dispone sia assegnata all’ufficio detenuti e trattamento con l’incarico di responsabile della sezione I - gestione detenuti con decorrenza 26 settembre 2022 fino al 25 settembre 2023”, si legge in un ordine di servizio firmato da Castellano lo scorso 23 settembre. Un incarico che Di Donato potrà svolgere mentre è a processo per tortura in concorso con gli esecutori materiali e per un’altra trentina di capi di imputazione per il suo ruolo di “comandante del nucleo traduzioni, facente parte del gruppo di supporto, in qualità di autore e organizzatore delle condotte di seguito indicate”, si legge nel rinvio a giudizio. La dirigente Tiziana Perillo, anche lei imputata nel processo per una trentina di capi di imputazione, è stata destinataria addirittura di nuovo incarico. “Si designa quale consigliera di fiducia, secondo le linee guida elaborate dal comitato per le pari opportunità e recepite nel documento allegato all’email ministeriale sopra richiamata”, si legge nel decreto. Perillo e Di Donato sono imputate e avevano ruoli di comando, ma non sono state raggiunte da misure cautelari nell’operazione eseguita dai carabinieri. Ma perché la provveditrice ha firmato queste nomine? “Nel caso di Di Donato aveva l’incarico di responsabile del nucleo traduzioni di Santa Maria Capua Vetere e, quando sono arrivata, ho preferito spostarla. Lei non è mai stata sospesa come Perillo, che ha partecipato a un interpello ed è stata nominata a quel ruolo. Incompatibilità perché c’è un processo in corso? Non ne vedo”, risponde Castellano. La provveditrice entra nel merito anche delle posizioni espresse sui sospesi e precisa le sue parole. La provveditrice - “Iniziamo dicendo che quanto accaduto è una macchia indelebile, io non chiedo una rimozione dei fatti, neanche un’assoluzione, sono ben consapevole di quello che è accaduto e della gravità di quella giornata, ma lo sguardo delle istituzioni deve essere sulle singole storie in modo differenziato”, dice. Ma come pensa di riportare in servizio soggetti coinvolti in un processo per tortura? “Le misure cautelari sono tutte cadute, il processo è iniziato, l’amministrazione deve fare dei distinguo, non devono riammettere tutti, ma bisogna valutare caso per caso. Parlo per alcune posizioni, si può stare un anno e mezzo sospesi dal servizio con metà stipendio? Mentre altri imputati, invece, continuano a lavorare. Noi non assolviamo, la tragedia è epocale, ma come si fa con qualunque imputato valutiamo le singole storie, facciamo dei distinguo”, conclude. Ma bisogna capire come il governo vorrà tradurre questi distinguo, visto che è lo stesso esecutivo che ha annunciato la modifica del reato di tortura e incaricato di occuparsi di carceri e penitenziaria l’ex avvocato di Giorgia Meloni, il deputato Andrea Delmastro Delle Vedove, che agli indagati per tortura voleva dare addirittura l’encomio solenne. Sassari. Niort ritenta il suicidio in cella. I genitori: “Nessuno ci ascolta” di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 28 dicembre 2022 Il 25enne è stato soccorso in tempo dagli agenti della polizia penitenziaria di Uta dove è rinchiuso. Un mese fa il tribunale di sorveglianza ha stabilito l’incompatibilità con il carcere. Simone Niort, 25enne sassarese, ha tentato di impiccarsi. Ancora una volta, è il caso di dire. Soccorso in tempo dagli agenti della polizia penitenziaria è stato immediatamente trasportato in ospedale a Cagliari dove i medici sono fortunatamente riusciti a tenerlo in vita. Ma appena dimesso è rientrato nell’istituto penitenziario e per i genitori del ragazzo, che oggi lanciano un appello disperato, si ripresenta l’incubo: “Non è la prima volta che chiediamo aiuto - dicono - ma nessuno ci ha ancora ascoltati, nessuno prende provvedimenti. Nostro figlio sta male, non può rimanere più in carcere, deve essere curato altrimenti la prossima volta non si salverà”. Un mese fa è stata emessa un’ordinanza dal tribunale di sorveglianza di Cagliari, presieduto dal giudice Maria Cristina Ornano, nella quale Niort è stato dichiarato incompatibile con il carcere. Il tribunale ha ribadito “la pericolosità sociale” e ha aggiunto che “l’attuale condizione detentiva risulta assolutamente inidonea e incompatibile con le condizioni di salute mentale del soggetto”. I giudici hanno inoltre stabilito che “è indispensabile individuare un altro istituto di pena nel quale il detenuto possa ricevere cure e trattamento adeguato”. L’ordinanza è stata trasmessa al Dap perché individui una struttura che possa accoglierlo. Nel frattempo il giovane continua a fare le videochiamate ai genitori: “È evidente che non è più in sé e noi non sappiamo più cos’altro fare per aiutarlo. Speriamo solo che il magistrato a cui si è rivolto il difensore di nostro figlio prenda in considerazione il fatto che Simone è un ragazzo che ha gravi disturbi della personalità certificati da tante perizie mediche”. Per smuovere le acque, infatti, è intervenuto anche l’avvocato di fiducia, Marco Palmieri: “Ho mandato una comunicazione scritta al magistrato di sorveglianza - dice il legale - dove ho spiegato che il mio assistito non può più stare in una cella. E non può essere nemmeno trasferito in un altro istituto della penisola, sarebbe deleterio per lui. Potrebbe accadere l’irreparabile in quel caso. Ho chiesto che venga trovata al più presto una struttura adeguata alla sua condizione psichica perché la situazione ormai è drammatica”. Insieme all’avvocato Palmieri si sono mossi anche il garante dei detenuti di Cagliari, Francesco Caput, e la presidente dell’associazione “Socialismo e diritti”, Maria Grazia Caligaris. “La stessa polizia penitenziaria che si occupa del suo controllo - continua il legale - ha chiaramente detto che Niort non può rimanere nell’istituto”. A partire dal 2016, quando era stato arrestato con l’accusa di tentato omicidio per aver picchiato la compagna con un bastone e una spranga di ferro in preda a un raptus di gelosia, il giovane ha cercato di farla finita in più occasioni. Già tre giorni dopo l’arresto, alla vigilia dell’interrogatorio di garanzia, aveva infilato la testa dentro un cappio costruito con un lenzuolo e si era lasciato penzolare all’interno della cella di isolamento. E di nuovo sei mesi dopo quando aveva aspettato che i compagni di cella si addormentassero e dopo essersi tagliato le vene dei polsi aveva arrotolato un lenzuolo, lo aveva legato alle sbarre della finestra e aveva provato a togliersi la vita. Da allora ci sono stati altri tentativi di suicidio. Ultimamente la condizione psichica del 25enne sembra essersi ulteriormente aggravata: “Qualcuno ci ascolti almeno questa volta - chiedono i genitori - non possiamo più stare con le mani in mano mentre nostro figlio rischia di morire da un momento all’altro”. Milano. Folla mai vista alle mense dei poveri: a Natale diecimila persone in coda di Elisabetta Andreis e Giampiero Rossi Corriere della Sera, 28 dicembre 2022 La onlus Pane quotidiano: “Numeri impressionanti, iniziamo a fare fatica a reperire gli alimenti”. A chiedere un pasto molte persone con una casa ma in difficoltà economica tra affitti, bollette e libri di scuola dei figli. Non erano neanche le 7 del mattino di sabato scorso, vigilia di Natale. Faceva freddo, era ancora buio. Eppure più di duemila persone erano già lì, ferme, a formare una lunga coda in attesa che i volontari aprissero il cancello del “Pane quotidiano” di viale Toscana, che ogni giorno distribuisce aiuti alimentari a chiunque si presenti per riceverli. La pasta, il sugo, il latte, il panettone: verso le 11 in tanti avevano già in mano il loro piccolo “regalo” alimentare. E sabato, vigilia di Natale, a mettersi in coda per quel pacco sono state quasi 2.200 persone. E alla sede di viale Monza di “Pane quotidiano” anche di più. Numeri record replicati anche nel giorno di Natale. In tutto fanno diecimila persone in due giorni. Si sono visti anche tanti i bambini al seguito delle mamme, come succede quando le scuole sono chiuse, mentre secondo gli operatori sono pochissimi i clochard che partecipano: in coda si mettono soprattutto persone che la casa ce l’hanno ma si dibattono in difficoltà economiche tra affitti, bollette, libri di scuola dei figli e quindi limano le uscite alla voce pranzo e cena. E allora arrivano così, con il buio, da tutti i quartieri della città. “Numeri impressionanti - dice l’amministratore delegato di Pane quotidiano, Luigi Rossi - e iniziamo a fare fatica a reperire gli alimenti: le aziende stanno più attente ad avere pochi eccessi di produzione, ci regalano meno rispetto alla domanda che è esplosa”. Nel 2022, complessivamente, sono andate a chiedere aiuto al Pane quotidiano 1,3 milioni di persone. E le cifre-spia della povertà milanese andrebbero completate con gli accessi a tutte le mense aperte a chi ne ha bisogno (a partire da quella dell’Opera San Francesco) e dalla distribuzione di pacchi viveri e aiuti d’ogni sorta che si ramifica nell’area metropolitana attraverso associazioni, istituzioni, Ong e reti di volontariato. “Il tema della povertà alimentare è appesantito da quello sopravvenuto della povertà energetica - spiega Luciano Gualzetti, direttore della caritas Ambrosiana - e in questo periodi di feste tradizionali affiorano più visibilmente anche le difficoltà di chi si ritrova anche con relazioni familiari spezzate o rarefatte”. Povertà, fragilità e solitudini. “E gli operatori dei nostri centri d’ascolto segnalano anche maggiori difficoltà nell’intercettare nuove fasce di bisogno, quelle che coinvolgono persone che lavorano, ma in condizioni precarie e sottopagate, e che non hanno mai fatto ricorso a sostegni solidali. È un tema affrontato anche dall’arcivescovo Mario Delpini nel discorso di Sant’Ambrogio, che ha parlato della città che non è alla portata di per tutti per i suoi costi e da parte nostra - conclude Gualzetti - abbiamo cercato di anticipare questa situazione avviando il progetto della “bolletta sospesa”, ma diversi segnali ci fanno temere che l’ondata di persone rimaste indietro possa crescere”. Anche il Comune prosegue con l’attività della sua rete di distribuzione di aiuti alimentari. Il 16 dicembre è stato chiuso il bando per il nuovo dispositivo di finanziamento delle associazioni impegnate su questo fronte. Sono arrivate 22 offerte che sono al momento al vaglio della commissione e si stima che ciascun progetto possa portare all’acquisto di 40/50 tonnellate di aiuti alimentari per un equivalente di circa 45mila pacchi in totale. Al momento sono attivi cinque hub (Isola, Gallaratese, Lambrate, Santa Croce e dentro al mercato agroalimentare) e l’obiettivo è aprirne uno in ogni municipio. E resta operativo anche il “Piano freddo” promosso da Palazzo Marino. Nel frattempo il Comune di Legnano ha offerto sistemazione in due appartamenti all’uomo che insieme alla compagna e due figlie vive da mesi in auto, mentre i servizi sociali di Milano stanno cercando nuovamente di convincere i due ragazzi che vivono alla stazione di San Donato a rivolgersi alla rete di accoglienza.  Catania. Dal 29 dicembre una mostra di opere di giovani detenuti ed ex detenuti lapoltronarossa.it, 28 dicembre 2022 “Acanto”, la mostra delle opere dei giovani detenuti ed ex detenuti di Catania organizzata dalla Poltrona Rossa dal 29 dicembre 2022 all’8 gennaio 2023 in via Plebiscito 881/A a Catania. L’arte come riscatto sociale, questi i temi proposti dall’associazione La Poltrona Rossa in occasione del nuovo evento espositivo aperto alla città di Catania: Acanto, mostra collettiva delle opere pittoriche e i manufatti artistici realizzati dai giovani ospiti detenuti nell’Istituto Penale per Minorenni Bicocca e dai giovani ed exdetenuti presi in carico da U.S.S.M. di Catania. L’evento Acanto è un progetto sostenuto con i Fondi Otto per Mille della Tavola Valdese la cui realizzazione è stata possibile grazie al Ministero della Giustizia - Dipartimento per la Giustizia Minorile, Centro per la Giustizia Minorile per la Sicilia - Palermo, alla disponibilità della direzione e il personale interno dell’Istituto Penale per Minoreni Bicocca di Catania e da U.S.S.M. Catania. Con questo evento si celebra la conclusione dei percorsi creativi fatti per i giovani partecipanti ai laboratori artistici e artigianali condotti dagli esperti dell’associazione La Poltrona Rossa. Durante tutto il 2022 gli incontri sono stati intensi e i ragazzi hanno potuto acquisire competenze attraverso lo studio della storia dell’arte e la sperimentazione di strumenti da disegno e di progettazione. Non è mancato in questa esperienza l’approccio all’artigianato e al restauro di opere ligne in laboratorio con l’utilizzo degli strumenti da lavoro. Tra i corsi in carcere della Poltrona Rossa si è anche concluso un corso teatrale con gli attori detenuti che ha permesso la realizzazione di un cortometraggio teatrale sul tema della guerra Ilio degli Eroi. Infine, grazie alla disponibilità dell’organizzazione del Museo Civico Belliniano sono state possibili le visite guidate con i ragazzi presi in carico dai Servizi Sociali U.S.S.M. di Catania. Si festeggia quindi la conclusione di un anno ricco di attività per i ragazzi e di impegno sociale per gli operatori dell’associazione La Poltrona Rossa. Acanto è un’occasione per creare un ponte fra il dentro e il fuori; un luogo che propone alla città spunti di riflessione sulla condizione minorile nel sud e/o in determinate situazioni di degrado sociale, vite che abitano in quei luoghi dove pensare all’arte può essere una possibilità di reinserimento sociale e lavorativo. Eppure i giovani, questi giovani che si trovano a dover fare i conti con loro stessi a causa della propria condizione giuridica, hanno creduto nella loro creatività e hanno offerto alla società civile un confronto artistico attraverso il loro fare creativo. Tutto questo ha permesso loro di ritrovare la fiducia in se stessi e riprendere il proprio cammino con degli strumenti in più.  La mostra è allestita presso lo spazio espositivo dell’Associazione La Poltrona Rossa a Catania, in via Plebiscito 881/A, e sarà fruibile tutte le mattine dal 29 dicembre 2022 all’8 gennaio 2023. Per info: Ivana Parisi, Presidente di La Poltrona Rossa, Associazione culturale 3400760481 - info@lapoltronarossa.it. Il reddito di cittadinanza e la chimera della congruità di Luca Ricolfi La Repubblica, 28 dicembre 2022 I criteri del lavoro per il reddito di cittadinanza sono sfumati. Se voleva attirare l’attenzione sull’esistenza del suo partito (“Noi moderati”, meno dell’1% dei consensi), forse Maurizio Lupi poteva scegliere una proposta migliore di quella che, per qualche ora, è circolata nei giorni scorsi. Dire, come in un primo tempo è stato detto, che un’offerta di lavoro deve essere accettata anche se “non congrua”, pena la perdita del sussidio, non è certo la via più saggia per riformare il reddito di cittadinanza. Al di là del modo in cui si vorrà rimediare a questo ennesimo infortunio parlamentare, il problema della “congruità” resta. Che cosa è la congruità? In tutte le formulazioni della legge, ossia quella originaria (2019) e quella del governo Draghi (2022), il concetto di congruità è piuttosto pasticciato, e in parte mal definito. Per congruità, infatti, si intende da un lato la coerenza dell’offerta con le esperienze e competenze maturate dal percettore del reddito di cittadinanza, dall’altra la sua adeguatezza in termini di sicurezza, reddito, distanza da casa, il tutto tenendo conto della durata dello stato di disoccupazione e del numero di offerte già ricevute. Nella versione Draghi, ad esempio, la distanza da casa massima è di 80 km da casa se il posto offerto è a tempo pieno e indeterminato, e inoltre costituisce la prima offerta, mentre, se costituisce la seconda offerta, la distanza da casa può essere qualsiasi (purché entro il territorio italiano). La definizione di congruità si complica poi ulteriormente se il lavoro offerto è a tempo parziale o determinato, o se il percettore di reddito di cittadinanza è al secondo utilizzo. Per non parlare delle regole che intervengono al momento di definire il livello minimo di reddito che il posto di lavoro offerto deve garantire. Ma è ragionevole il modo in cui la legge vigente nel 2022 definisce un’offerta come congrua? A mio parere no, per due distinti motivi. Il primo è che l’obbligo di accettare un’offerta in qualsiasi parte d’Italia, che scatta già alla seconda offerta, dovrebbe essere accompagnato da garanzie reddituali differenti a seconda che l’offerta obblighi oppure no a trasferire il domicilio, e a seconda del costo della vita nel nuovo domicilio. Manca, in altre parole, un meccanismo che permetta di misurare il valore economico dell’offerta, e su questa base fissi la soglia che obbliga ad accettarla. Credo che, se questo meccanismo venisse messo a punto in modo ragionevole, molte offerte che ora appaiono congrue cesserebbero di esserlo. E penso che la ragione per cui, finora, il problema delle offerte formalmente congrue, ma in realtà impossibili, non è ancora esploso, sia solo che la macchina che dovrebbe mettere in contatto domanda e offerta di lavoro non è mai stata messa in condizione di funzionare a dovere. Il secondo motivo per cui la normativa attuale mi pare poco ragionevole è la pretesa che l’offerta sia coerente con “le esperienze e competenze maturate”. Questo è un tipico requisito fuzzy, sfumato, o mal definito, che come tale si presta a controversie e interpretazioni soggettive. Rendere obiettiva e impersonale la valutazione del grado di coerenza è praticamente impossibile, anche perché i titoli di studio sono spesso ben lungi dal certificare le capacità, conoscenze e capacità effettive dei loro possessori. Qui le strade mi paiono solo due: o si fornisce una definizione operativa plausibile della coerenza (vasto programma), oppure si taglia la testa al toro e si sopprime questo requisito, almeno nei casi in cui il posto offerto è a tempo pieno e indeterminato, e il salario è al di sopra di una determinata soglia. L’unica alternativa da evitare mi pare quella di aggrapparsi al reddito di cittadinanza com’è, ossia nella versione severa ma tutto sommato iniqua attuale. Non solo il Pd e il Terzo Polo, ma anche i Cinque Stele farebbero bene a prendere atto che quella legge, sia nella versione originaria, sia in quella modificata dal governo Draghi, è piena di limiti, difetti e ambiguità. Prima fra tutte la chimera della “congruità”. Focus sulle Rems, un accordo di luci e di ombre di Pietro Pellegrini* e Anna Pellegrini** Il Manifesto, 28 dicembre 2022 L’Accordo per la gestione dei pazienti psichiatrici con misura di sicurezza approvato il 30 novembre 2022 dalla Conferenza Stato-Regioni è il risultato del dialogo interistituzionale svoltosi presso il Tavolo di consultazione permanente sulla sanità penitenziaria. Il documento prevede la creazione di due organismi: una “Cabina di regia nazionale” che si affianca all’”Organismo di Coordinamento per il superamento dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario (Opg)” presso il Ministero della Salute; e un “Punto Unico Regionale” con l’obiettivo di supportare l’Autorità giudiziaria, di fungere da raccordo con i Dipartimenti di Salute Mentale (Dsm) e di promuovere Protocolli locali. Questi hanno l’obiettivo di elaborare “condivisi percorsi assistenziali” per i quali sono essenziali, oltre ai periti, il consenso e la partecipazione del paziente, nonché l’attività di avvocati, amministratori di sostegno e garanti che andranno coinvolti a tutti i livelli. L’Accordo dà priorità alla cura, al cui interno si colloca la misura di sicurezza, e ribalta la visione per la quale è la misura di sicurezza a contenere il programma terapeutico fino a coincidere con esso, in forma obbligatoria e coercitiva. L’art. 1 conferma il principio di territorialità: le persone sottoposte a misure di sicurezza devono essere prese in cura dal Dsm del loro territorio. Ciò contrasta con la previsione della possibilità della creazione di Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems) nazionali, come quella di Calice al Cornoviglio (La Spezia). Scelte che ledono il principio di territorialità, necessario affinché i pazienti possano essere seguiti dai Centri che li hanno in cura, mantenere rapporti con i loro cari ed essere reinseriti nel proprio tessuto sociale, visto che molti pazienti sono senza documenti, residenza, casa, reddito. L’attenzione posta sulle Rems non deve far dimenticare che queste strutture rappresentano l’extrema ratio e fanno parte dei Dipartimenti di salute mentale, vero core del sistema, i quali seguono circa 6.000 pazienti con misure giudiziarie. “Le attività terapeutico riabilitative, quali elementi costitutivi del percorso di cura, ancorché svolte in luogo esterno alla Rems (…) non necessitano di ulteriore avvallo da parte dell’Autorità Giudiziaria” (art 8). Una svolta per riconoscere la natura di “Residenza” della Rems, la sua integrazione con il territorio e per andare oltre gli aspetti custodiali tramite Regolamenti, Carte dei Servizi e dei Diritti. I criteri per la gestione della lista di attesa per entrare in Rems, oltre a quello temporale, sono le “caratteristiche sanitarie” del paziente, “il livello attuale di inappropriatezza della collocazione” in Istituto Penitenziario o in Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (Spdc) e dell’adeguatezza di “alternative alla Rems”, mentre non viene indicata la gravità del reato. Resta aperto il problema delle misure di sicurezza provvisorie che riguardano il 40% delle persone in Rems e sono causa dell’80% delle detenzioni sine titulo. Il tema della libertà vigilata, spesso prorogata sine die, è rimasto nell’ombra così come la tutela della salute mentale negli Istituti di Pena e nelle Articolazioni Tutela Salute Mentale, facendo venire meno una visione d’insieme dell’intero sistema. I Dsm hanno l’obbligo di presa in carico dei pazienti ma devono farlo ad “invarianza di spesa”. Una contraddizione, un rischio di negare diritti e di inadempienza che grava sugli operatori psichiatrici ai quali invece della “posizione di garanzia” dovrebbe riconoscersi un “privilegio terapeutico”. Pare ancora lunga la via per andare oltre le Rems, dare priorità ai programmi terapeutici con Budget di Salute e creare un sistema di cura e di giustizia di comunità. Un accordo fatto di luci ed ombre, in attesa, come proposto dall’on. Magi (p.d.l. n. 2939/2021, di una riforma radicale dell’imputabilità. *Psichiatra **Giurista Decreto sicurezza, nel testo solo migranti e Ong di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 28 dicembre 2022 Oggi il Consiglio dei ministri con le misure sul soccorso in mare. Tra una settimana gli altri interventi. Il decreto sicurezza messo a punto da Viminale e Palazzo Chigi sarà “spacchettato”. La decisione arriva al termine di una giornata segnata dalle riunioni tecniche per mettere a punto il testo da portare in Consiglio dei ministri e dalle consultazioni tra i ministri competenti. L’ipotesi di un provvedimento che intervenga su materie diverse non piace a una parte dell’esecutivo e alla fine si è scelto il compromesso di rinviare alla prossima settimana le nuove norme studiate per combattere la violenza di genere e le baby gang. Il Consiglio dei ministri convocato per oggi approverà soltanto il nuovo codice per le Ong che effettuano il soccorso in mare prevedendo multe e blocco dell’attività per chi non le rispetta. E varerà anche lo snellimento delle procedure per chi arriva seguendo canali legali - primo fra tutti il decreto flussi - e per chi ha diritto ad ottenere l’asilo politico. Il soccorso in mare - Obiettivo del nuovo regolamento è impedire che le navi delle organizzazioni umanitarie effettuino la raccolta dei migranti durante il viaggio dalle coste africane all’Italia. Per questo è previsto che per ogni missione possano effettuare soltanto un’operazione di salvataggio. Dopo aver soccorso le imbarcazioni in difficoltà dovranno attivare il sistema di assistenza comunicando la propria posizione e il numero di persone prese a bordo. Da quel momento non potranno effettuare altre soste - a meno che non vengano autorizzati dalla centrale operativa - fino all’approdo nel porto che sarà indicato. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi hanno ripetuto più volte di non voler “consentire agli scafisti di scegliere chi può arrivare in Italia”. Per questo nel testo è stata inserita una norma che vieta i trasbordi da un’imbarcazione all’altra. Le Ong avranno anche l’obbligo di informare gli stranieri soccorsi sulla possibilità di richiedere asilo. Si tratta di una norma che mira a imporre l’obbligo di accoglienza per lo Stato di bandiera della nave che effettua il salvataggio, ma su questo alcuni Paesi hanno già avanzato contestazioni in sede di Unione europea. Il blocco e le multe - Nella bozza che sarà portata in Consiglio dei ministri è prevista una gradualità delle sanzioni. La prima volta in cui viene violato il codice la Ong subirà una sospensione di venti giorni. La seconda volta il periodo di blocco arriverà a sessanta giorni. Alla terza volta scatterà invece la confisca della nave. Non ci saranno conseguenze penali, ma l’armatore o comunque l’ente che possiede i mezzi rischia una multa da 10 mila a 50 mila euro. La competenza per questo tipo di sanzioni è stata affidata ai prefetti che dunque saranno i destinatari delle eventuali contestazioni. La Lega avrebbe voluto sanzioni e multe più severe - come del resto era stato previsto dai decreti sicurezza approvati dal governo gialloverde quando a Palazzo Chigi c’era Giuseppe Conte e al Viminale Matteo Salvini - ma le correzioni imposte all’epoca dal Quirinale e le successive modifiche parlamentari hanno escluso che si potesse andare oltre quanto è già stato previsto. Asilo e nulla osta - Proprio per marcare la volontà di favorire l’immigrazione legale sono state previste semplificazioni per gli stranieri che richiedono il nulla osta alla firma di un contratto di lavoro subordinato e per chi dimostra di avere diritto all’asilo. Corsie preferenziali per gli arrivi saranno previste anche per gli Stati che firmeranno accordi per i rimpatri. I femminicidi - C’è accordo tra i ministri sulla volontà di rendere più efficace la prevenzione sulla violenza di genere e su quella domestica, ma su diverse norme inserite nel decreto si è deciso di compiere alcuni approfondimenti. In particolare è stata contestata la possibilità di prevedere una flagranza differita per chi compie atti di aggressione, così come avviene adesso per l’identificazione dei tifosi attraverso i filmati analizzati dopo gli scontri fuori e dentro gli stadi. Gli uffici legislativi dell’Interno e della Giustizia dovranno effettuare alcune correzioni e per questo il testo potrebbe essere presentato nel Consiglio dei ministri che sarà convocato la prossima settimana. Le baby gang - Anche sulle norme che mirano a punire le baby gang si è ritenuto necessario un approfondimento. Rimane confermata la possibilità di sottoporre a daspo i minori che compiono atti di violenza impedendo loro la frequentazione di alcune aree e locali pubblici, così come l’interdizione all’uso del cellulare per combattere il cyberbullismo. Ma perché si tratta di un’estensione ai maggiori di 14 anni di sanzioni che adesso sono previste soltanto per i maggiorenni, si è ritenuto opportuno varare un provvedimento ad hoc che possa anche rispondere ai criteri di necessità e urgenza indispensabili per procedere con un decreto. Migranti. Il pastrocchio del governo prepara una nuova stagione di scontri con le ong di Claudio Cerasa Il Foglio, 28 dicembre 2022 Il Codice di (non) condotta. Scelte governative che non varranno di fronte alle leggi internazionali. E che costringerebbero a violare della legge del mare. Il piano di Piantedosi punta solo a non rendere più sostenibile l’attività delle navi di salvataggio. Con il poco rassicurante intento di regolamentare ciò che lo è già, entra nel vivo la campagna del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, contro le ong. Una sezione del nuovo decreto “Sicurezza”, sottoposto ieri al tavolo tecnico degli uffici legislativi del governo, è dedicata al codice di condotta per i salvataggi in mare. Un codice che si ispira a quello redatto ai tempi di Minniti, ma stavolta dagli effetti ancora più penalizzanti per le attività di soccorso compiute dalle navi umanitarie. Nella bozza del decreto, tra le misure più stringenti c’è quella che obbliga le ong a portare a termine un solo intervento sar alla volta, per di più senza la possibilità di effettuare trasbordi di naufraghi tra le navi. Significa che basterebbe il salvataggio di una sola persona a costringere la nave ong a rientrare subito in porto, ignorando altri eventuali Sos, dopo avere avvisato la Guardia costiera. L’obiettivo del governo è di rendere non più sostenibile per le ong svolgere attività di salvataggio in mare, costringendole a enormi esborsi economici per operazioni dall’impatto umanitario estremamente ridotto. Il tutto violando - ma ormai non fa più notizia - la legge del mare, che non prevede limiti numerici alle operazioni sar consecutive che un’imbarcazione - sia essa ong, mercantile, militare o altro - può condurre una volta ricevuto un Sos. Resta infine da vedere perché le ong dovrebbero sentirsi obbligate a rispettare un codice di condotta imposto per decreto quando basterà loro invocare una qualsiasi convenzione internazionale per legittimare le loro operazioni di salvataggio. Ma se da una parte il governo delegittima le ong, dall’altra - per assurdo - obbliga i loro operatori a bordo a informare i naufraghi della possibilità di chiedere asilo, attivando così la procedura per la ricollocazione. Generando un cortocircuito in cui il soccorritore di una ong diventa un pubblico ufficiale alla stregua di un operatore della prefettura. Lungi dal disciplinare alcunché, il nuovo Codice promette solamente una nuova, interminabile stagione di braccio di ferro con le navi ong.