“Il carcere è una discarica sociale. Meglio la giustizia riparativa” di Paolo Colonnello La Stampa, 27 dicembre 2022 L’ex magistrato Gherardo Colombo e l’anno record dei suicidi in cella: “Più pene alternative”. Il 2022, tra i vari, tristi, primati, passerà alla storia per essere stato l’anno dei suicidi in carcere: 83 quelli contati finora, il numero più alto da dieci anni a questa parte. Non c’è un motivo preciso, o meglio: ce ne sono fin troppi. Ma quello principale è che forse il sistema carcerario, così come lo conosciamo, non ha più molto senso. Anzi, per niente, come sostiene Gherardo Colombo, che si dimise nel marzo del 2007 dalla magistratura, dopo esserne stato uno dei più validi e noti rappresentanti, anche perii senso di ingiustizia che sentiva nel dover chiedere o confermare una condanna in carcere. Cosa pensa, dottor Colombo, di questo numero abnorme di suicidi dietro le sbarre? “È un dato assurdo che dipende da tante cose, alcune fuori dal carcere, altre dentro”. Cominciamo da quelle “fuori”… “Fuori c’è un grandissimo disagio sociale che crea molto rancore e che in conseguenza divide ed esclude le persone. E i risultati di questa esclusione sono anche il carcere: non si conosce ancora il numero di omicidi commessi nell’anno in corso, ma credo che interromperà la serie iniziata parecchi anni fa che vedeva ogni dodici mesi decrescerne il numero rispetto all’anno precedente. E un segno forte delle difficoltà che si vivono nel dopo Covid”. Come riverbera sul carcere? “Il carcere sta diventando sempre più una discarica sociale: ci va soprattutto chi è particolarmente fragile, debole, e avrebbe bisogno di essere in qualche modo aiutato”. E i motivi “interni”? “Il sovraffollamento, e le condizioni di vita tipiche di quella istituzione totale, che peraltro non cambierebbero di molto anche senza sovraffollamento, essendo il sistema carcerario pensato strutturalmente per punire, per “fare male” a chi vi sta dentro”. Non è quello che la gente vuole? “Certo, però non meravigliamoci se in carcere la percentuale di suicidi è di circa venti volte superiore a quella di chi sta fuori. E attenzione: il carcere è punitivo per tutti, guardie comprese, tanto che anche tra loro il numero di suicidi è elevato”. La riforma Nordio, che tante polemiche sta suscitando, ha tra i suoi perni proprio una “modernizzazione” delle carceri. Che ne pensa? “Il ministro ha parlato di depenalizzazione, la quale, seppure indirettamente, ridurrebbe la frequenza del ricorso al carcere: meno reati ci sono, meno persone vanno in prigione. Però la prima cosa che ha fatto è stato introdurre un nuovo reato”. Per lei il carcere rimane da abolire? “Sì, però intendiamoci. Certo non si possono chiudere le prigioni dall’oggi al domani. Però è necessario cominciare a ragionare in una prospettiva secondo la quale soltanto chi è pericoloso venga messo nelle condizioni di non nuocere, e collocato in un luogo, però, in cui tutti i suoi diritti, che non confliggono con la sicurezza delle persone, siano tutelati. In altre parole solo chi è pericoloso sta altrove, e ci sta finché è pericoloso. Proprio a tutela della collettività. Gli altri devono rispondere dei loro reati in un modo più sensato: bisogna potenziare le sanzioni alternative che già esistono”. Davvero pensa che la società sia pronta a una cosa del genere? “La società italiana pensa che sia giusto retribuire il male con il male. E questo si riflette sui programmi della politica: nessuno oggi proporrebbe l’abolizione del carcere nel senso che dicevo prima. Però vedo che tanti passi sono stati fatti recentemente in una direzione diversa. Teniamo conto che in Paesi più evoluti come la Norvegia non esiste ergastolo, nemmeno per persone come Anders Breivik, responsabile dell’omicidio di 70 ragazzi”. Ed è giusto? “Si è iniziato a prendere le distanze dal vedere la pena come “retribuzione”. Non è detto che alla fine dei suoi 22 anni Breivik uscirà: verrà valutato e se sarà ritenuto ancora pericoloso sarà trattenuto altri 5 anni e poi di nuovo valutato. Le ricordo che, in generale, dove il sistema carcerario si mostra flessibile, interprete di un vero percorso di reinserimento, le recidive sono bassissime”. Diceva che sono stati fatti tanti passi. Per esempio? “Per esempio la valorizzazione della “giustizia riparativa”, di cui dieci anni fa si faceva fatica a parlare negli incontri pubblici perché incontrava dissenso ogni risposta al reato diversa dalla retribuzione”. Andrebbe cambiata la Costituzione? “No, perché la Costituzione - secondo la quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità - non cita mai il carcere inteso come “pena”“. Però prevede una forma motivata di restrizione della libertà personale. “Non significa necessariamente far soffrire la gente. Ci possono essere forme diverse: un carcere come quelli norvegesi in Italia sarebbe chiamato con sarcasmo albergo di lusso. Però lì la recidiva è più bassa che da noi, dove, peraltro, quando il carcere è meno “carcere” - mi riferisco a Bollate - la recidiva è meno frequente”. Lei in cosa crede? “Nelle misure alternative, nella cosiddetta rieducazione (la chiamerei reintegrazione), molto anche nella giustizia riparativa”. In cosa consiste? “In un percorso attraverso il quale il responsabile del reato e la vittima, assistiti da professionisti particolarmente preparati sul tema, arrivino ad un incontro che ripari la vittima dal male subito e renda il responsabile consapevole del male fatto, senza essere travolto dal senso di colpa”. Adulti e ragazzi, se la pena è la stessa che giustizia è? di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 27 dicembre 2022 Era il 1988 quando fu approvato il codice di procedura per minorenni, ispirato a principi di ragionevolezza, adeguatezza alla età in formazione dei ragazzi sotto processo, minimizzazione dell’impatto penale e carcerario, contrasto alla stigmatizzazione del processo e della condanna. Ogni ragazzo o giovane è una vita in evoluzione che non ha ancora portato a compimento il suo percorso di maturazione e responsabilizzazione. Il carcere fa male a chi lo subisce. Fa male come esperienza in sé. Crea dolore. È una pena. E può costituire un ostacolo alle successive tappe di vita in quanto inchioda, a volta anche per sempre, una persona a un momento della vita. Da quel 1988, fortunatamente, il sistema penitenziario minorile italiano si è contratto nei numeri. Da molti anni il numero complessivo dei ragazzi ristretti negli istituti penali per minori è intorno alle quattrocento unità, compresi coloro che hanno un’età tra i 18 e i 25 anni sempre che abbiano commesso il delitto quando erano minorenni. I fatti del Beccaria non devono essere strumentalizzati per giustificare passi indietro a una legislazione moderna, bensì per progettare ulteriori accelerazioni verso un modello sanzionatorio ancora più avanzato. Il campo della giustizia minorile è ricco di professionalità che ben possono chiarire come sono banalizzazioni argomentative quelle che spiegano i fatti di Milano come esito del sovraffollamento o dello scarso numero di poliziotti. Si tratta di interpretazioni fuorvianti. Bisogna invece insistere su un modello pedagogico che metta al centro i bisogni educativi dei minori a costo di fare una fatica immensa. È questo il compito di una società che si pregi a definirsi adulta. Il vero passo in avanti sarebbe quello di costruire non solo un codice di procedura ma anche un codice penale che si fondi sull’interesse superiore del minore. Oggi abbiamo un codice penale che si applica a adulti e ragazzini, permeato di un’idea di pena e di società che nulla ha a che fare con qualsivoglia riflessione pedagogica e con la centralità dell’essere bambino, adolescente, giovane adulto. Il sistema dei reati e delle pene per gli adulti presente nel codice del 1930 non soddisfa minimamente il principio, sancito nella Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia del 1989, del superiore interesse del minore. È necessaria una diversa elencazione di reati e un ben più vario pluralismo sanzionatorio. Un furto di un ragazzino in un supermercato non può essere paragonato a quello in appartamento di una persona adulta. Il primo potrebbe essere depenalizzato, trattato civilmente, o affidandosi a risposte diverse. Ben potrebbe essere trattato fuori dal diritto penale. Che senso ha punire un minore per il delitto di oltraggio? Un minore va educato fuori dalle galere. Il rispetto degli altri non si insegna chiudendo un ragazzo dietro le sbarre. Così lo si incattivisce. Un ragazzo non va punito per oltraggio, ma educato. Educare, non punire. E laddove vi è punizione questa non può essere la stessa prevista per un adulto. Non si tratta solo, come avviene oggi, di prevedere una durata inferiore alla pena della prigionia, ma di immaginarsi una diversificazione delle pene stesse, così lasciando al carcere una sempre maggiore residualità. È una bella sfida culturale, prima ancora che giuridica. Affidiamoci alla saggezza di chi, come don Ettore Cannavera nella Comunità la Collina a Cagliari o don Gino Rigoldi a Milano, hanno investito energie e lavoro in progetti non carcerari dove episodi come quelli del Beccaria è ben difficile che possano accadere. *Presidente dell’Associazione Antigone Lo show di Salvini sull’inferno delle celle di Luigi Manconi La Stampa, 27 dicembre 2022 Fa certamente bene il vicepremier Matteo S alvini a recarsi a visitare l’Istituto Penale per i minorenni Cesare Beccaria di Milano dal quale, negli scorsi giorni, sono evasi sette giovani. Ma questa iniziativa rischia di apparire grossolanamente strumentale dal momento che nulla di analogo lo stesso Salvini ha compiuto in tre circostanze, almeno altrettanto significative. La prima: quando nel carcere di Lanciano, pochi giorni fa, si è verificato l’ottantatreesimo suicidio tra i detenuti nel corso del 2022. La seconda: quando, un mese fa, un poliziotto penitenziario del carcere di Siracusa si è tolto la vita. E va ricordato che sono stati circa cento i suicidi all’interno di quel corpo di polizia nell’arco di dieci anni. La terza: quando, qualche settimana fa, sono stati disposti gli arresti domiciliari per sei agenti della penitenziaria accusati di tortura e lesioni ai danni di un detenuto dell’istituto di pena di Reggio Calabria. L’evasione dal Beccaria è indubbiamente un fatto grave, ma il suo “uso politico” risulta indecente se quella scena di fuga non viene immediatamente ricondotta al contesto generale in cui si ritrovano le vicende appena ricordate. Ovvero una frequenza di suicidi tra i reclusi che è diciotto volte maggiore di quella che si registra all’interno della popolazione libera. Una condizione di frustrazione assai diffusa tra il personale e gli operatori di polizia che determina un numero di atti di autolesionismo come in nessun altro apparato statuale; una situazione di tensione costante e di violenza latente che ha prodotto un dato molto preoccupante: sono circa duecento i poliziotti penitenziari attualmente indagati, imputati o condannati per condotte di violenza. Il sistema penitenziario italiano si conferma così una macchina patogena che produce malattia, depressione, psicosi e autolesionismo, dove il 40% dei reclusi assume psicofarmaci e il 25% è composto da tossicodipendenti. Ed è una macchina criminogena, dove la recidiva raggiunge il 68%. Davanti a tutto ciò, condurre una campagna d’ordine sul fatto che, di quei sette giovani evasi, quattro non siano ancora rientrati in cella è semplicemente irresponsabile. Soprattutto, rischia di far ulteriormente degradare una situazione già oggi non sostenibile. La realtà del carcere è il precipitato ultimo di una condizione fallimentare della giustizia italiana e la cella è il luogo dove si addensano tutte le sperequazioni, le disuguaglianze, le tragedie di una amministrazione del diritto che schiaccia i più deboli e i più deboli tra i deboli. Paradossalmente, la gius tizia minorile è quella che ha recepito per prima alcune delle più innovative istanze di riforma. Nei diciassette istituti penali per minorenni un anno fa erano reclusi 316 giovani, di cui 8 ragazze e 140 stranieri. Meno di mille quelli che si trovavano nelle 637 comunità che ospitano minori. Dunque la scelta fatta è stata quella di privilegiare soluzioni non carcerarie e il ricorso a comunità organizzate secondo un modello familiare, cui collaborano operatori di diverse discipline. Ciò grazie all’adozione dell’istituto della messa alla prova: ovvero la sospensione del processo e l’affidamento del minore ai servizi della giustizia minorile e, in caso di esito positivo, la pronuncia di estinzione del reato. Una simile prospettiva è tra quelle che andrebbero adottate, prioritariamente, anche in materia di giustizia penale ordinaria. Ma, su questo, dell’intero governo e dell’intera maggioranza, solo il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, sembra preoccuparsi. Tutti gli altri, o quasi, sembrano impegnati, piuttosto, nel lanciare allarmi e grida, nel manipolare le emozioni collettive e nel galvanizzare le pulsioni più torve. Matteo Salvini, in questo senso, può vantare un solido primato. Tallonato dal sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro. Il quale, quando emersero le notizie sulla “orribile mattanza” (parole della procura della Repubblica) nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, nell’aprile 2020, ritenne opportuno recarsi sotto l’istituto di pena per portare la propria solidarietà non alle vittime ma ai loro carnefici. Questi “turisti delle macerie”, questi pornografi della violenza sugli inermi oggi trionfalmente al governo, dovrebbero affrontare con serietà la situazione tragica del sistema penitenziario italiano; e di quegli uomini e di quelle donne, di quei ragazzi e di quelle ragazze, e persino di quei bambini (attualmente sono diciotto tra 0 e 3 anni) che vi si trovano, spossessati di tutto, mortificati nella dignità e privi di qualunque tutela. Incontrino pure, come è doveroso, il provveditore regionale delle carceri (il ruolo del direttore del Beccaria è vacante da anni) e i sindacati di polizia, ma - vi prego - trovino il tempo e l’umiltà per ascoltare Don Gino Rigoldi. E il cappellano di quell’istituto minorile da decenni, conosce quel mondo come nessun altro e ha la saggezza delle persone miti e giuste. Spiegherà loro, con la sua infinita pazienza, che il problema è, sì, quello di evitare che i ragazzi fuggano dal Beccaria ma, soprattutto, quello di fare il possibile e l’impossibile perché non vi finiscano dentro. La controriforma del governo. “Istituti solo per i minorenni” di Francesco Grignetti La Stampa, 27 dicembre 2022 Allo studio il ritorno alla normativa precedente al 2018: compiuti i 18 anni, trasferimento nelle carceri degli adulti. Il sistema delle carceri minorili è in affanno, inutile nasconderlo. L’evasione di massa dal Beccaria di Milano è solo l’ultimo eclatante episodio di tanti. Segnali di un sistema che non regge più. E il governo pensa a una riforma che è in realtà una controriforma. Al ministero della Giustizia progettano di tornare alla situazione ante-2018, quando nei riformatori i detenuti erano tutti minorenni. C’è questa intenzione, per dire, dietro le parole del sottosegretario Andrea Ostellari, Lega, che uscendo dal carcere minorile di Milano ieri diceva: “Penso che sulla giustizia minorile dobbiamo accendere un faro importante, non solo come Giustizia, ma anche come governo e come Parlamento”. Un passo indietro. Solo in questa settimana di Natale, oltre a quello di Milano, ci sono stati altri tre episodi scottanti che riguardano le carceri minorili. Due giovanissimi detenuti sono scappati dal carcere di Nisida, che è un’isoletta nel golfo di Napoli, e soltanto perché bloccati dal mare sono stati subito ripresi. A Casal del Marmo, carcere minorile di Roma, c’è stata una maxi-rissa, sedata a fatica dalla polizia penitenziaria. “Sembra una polveriera pronta ad esplodere, gli eventi critici accadono con cadenza giornaliera”, denuncia il sindacalista Donato Capece, del sindacato autonomo Sappe. A Bologna, nel carcere minorile del Pratello, i giovanissimi ristretti si sono ribellati e per due giorni di seguito hanno dato fuoco ad alcune stanze. Anche qui si parla di sovraffollamento. Alcuni agenti sono rimasti intossicati. A seguito dei fatti, tre ragazzi maggiorenni sono stati trasferiti presso la Casa Circondariale di Bologna. Che la situazione sia diventata tesa, lo riconosce anche il capodipartimento, la magistrata Gemma Tuccillo, che regge le carceri minorili dal 2017 ed è alla vigilia della pensione. “Non voglio dare tutte le colpe alla pandemia - commenta Tuccillo - ma è un fatto che le devianze giovanili siano in forte crescita. Accade soprattutto al Nord e accade con giovanissimi italiani e non. Molti sfogano la rabbia e la frustrazione con aggregazioni estemporanee, non baby- gang strutturate ma effimere, dove però si finisce con il commettere reati. E così le nostre strutture sono andate in affanno. Affrontiamo per la prima volta il sovraffollamento”. Ai numeri, si aggiungono tensioni inedite. Una, abbastanza comprensibile, la racconta il Garante per i diritti dei detenuti, Mauro Palma: “I giovani complessivamente sono più fragili che in passato. In particolare, perché costruiscono la propria apparente identità attraverso sistemi virtuali di comunicazione. All’interno di una istituzione detentiva, dove ovviamente si interrompe quel tipo di connessione, anche perché non si ha più il cellulare che sembrava comprendere tutto il proprio mondo, ci si ritrova soli in una situazione che non si sa gestire, se non con rabbia e fuga”. La prima misura a cui pensa il governo è l’abolizione di una riforma che porta la firma di Andrea Orlando, che previde di lasciare nei riformatori minorili anche i neo-maggiorenni fino a 25 anni qualora fossero già detenuti, per non spezzare il percorso di trattamento. “Dobbiamo riportare le carceri minorili a ciò per cui sono state pensate”, dice ora un autorevole esponente dell’esecutivo. “E cioè separare i minori da chi minore non è più”. La scelta del destra-centro è fin troppo facile da spiegare: allontanando la quota di giovani adulti tra 18 e 25 anni, da una parte si deflazionerebbero gli istituti minorili, dall’altra s’immagina che sarebbero più facili da gestire. E a quel punto i trattamenti e la formazione potrebbero dare risultati migliori. La notizia di una contro-riforma in arrivo allarma il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella: “I fatti del Beccaria - dice - non vanno strumentalizzati. I ragazzi vanno educati prima che puniti. Il modello detentivo deve essere per loro residuale anche se sono giovani adulti”. Istituti penali per i minorenni, un modello per l’Ue ma non per la destra di Eleonora Martini Il Manifesto, 27 dicembre 2022 Nelle carceri minorili il 52,5% dei reclusi all’inizio del 2020 era in attesa di condanna definitiva. Secondo gli ultimi dati disponibili, raccolti dall’associazione Antigone, al 15 gennaio 2022 nei diciassette Istituti Penali per i Minorenni (Ipm) d’Italia erano rinchiusi 316 minori e giovani adulti, di cui 140 stranieri e otto ragazze, per metà non italiane. Come spiega Alessio Scandurra, che per l’associazione è coordinatore dell’osservatorio sulle condizioni di detenzione, “si tratta di numeri significativamente più bassi rispetto a quelli che si registravano in passato” negli Ipm della penisola, che sono, per dimensioni e peculiarità, molto diversi tra loro. Nel gennaio 2020, infatti, prima dell’arrivo del Covid, erano 375 i giovani detenuti, il 19% in meno degli attuali, e subito dopo il primo lockdown, nel maggio 2020, erano già scesi a 280. Ma i numeri più bassi, ricorda ancora Antigone, si sono registrati nel 2014, quando si raggiunse il minimo di carcerati stranieri. Allora però, con la legge 117 dell’agosto 2014, si aumentò da 21 a 25 anni il limite di età massimo dei detenuti che, avendo commesso reati da minorenni, potevano scontare la pena negli Ipm. Una legge alla quale si oppose la destra, preferendo una pena più dura per i giovani adulti, possibilmente da scontare in un carcere sovraffollato e con regole più ferree. Malgrado l’impennata di presenze che, come ovvio, si ebbe subito dopo, il numero di ristretti nel circuito penale minorile è andato comunque via via decrescendo negli anni. In ogni caso, la maggior parte dei reclusi in questi istituti ha superato i 18 anni di età: al 15 gennaio scorso i maggiorenni detenuti negli Ipm erano “il 58,5%, un po’ meno tra i soli stranieri, il 56,4%, e decisamente di più tra le sole ragazze, il 62,5%”, secondo Antigone. Se guardiamo la distribuzione, si nota che il 55,9% delle presenze si registra al Sud e nelle Isole, dove è concentrata la maggior parte degli Ipm, ben dieci. Eppure alla stessa data del rapporto (gennaio 2022), solo il 47,6% dei 13.800 giovani che su tutto il territorio italiano erano presi in carico dai servizi sociali per minorenni, risiedevano nel Sud o nelle Isole. “Evidentemente al centro e al nord Italia - riflette Scandurra - le opportunità per percorsi alternativi al carcere sono più diffusi”. Anche perché l’Ipm “è una tappa generalmente breve di un percorso più lungo, che si svolge soprattutto altrove, nelle comunità e sul territorio”. Non a caso, il circuito penale minorile italiano è considerato tra i migliori d’Europa, al punto da aver ispirato il Parlamento europeo e il Consiglio d’Europa nella stesura della Direttiva per le garanzie procedurali dei minori sospettati o accusati nei procedimenti penali approvata nel maggio 2016 con l’obbligo di adozione per tutti gli Stati membri entro tre anni. All’inizio dell’anno in corso, anche negli Ipm la maggior parte dei reclusi, il 52,5%, era ancora in attesa di condanna definitiva. Mentre tra i minorenni detenuti negli Ipm addirittura l’87% era in custodia cautelare. Percentuali che scendono però se si considerano solo le ragazze (il 37,5%) e i giovani adulti (il 28,1%). Questa proporzione non è cambiata affatto, fa notare Scandurra, anche quando la popolazione detenuta negli Ipm era diminuita molto dopo la pandemia. Fuga dal Beccaria, quattro detenuti ancora ricercati di Eleonora Martini Il Manifesto, 27 dicembre 2022 Don Rigoldi: “L’anno vissuta come un’avventura, a quell’età non si rendono conto”. Hanno divelto una tavola di legno nell’area interessata dai lavori di ristrutturazione che vanno avanti da anni, e sono scappati via. Non è stato difficile: dal cortile di passeggio sono saliti sull’impalcatura montata sul muro di cinta. Ieri però dei 7 ragazzi detenuti evasi nel giorno di Natale dall’Istituto penale minorile di Milano “Cesare Beccaria” (due dei quali maggiorenni, 4 su 7 italiani di prima generazione), tre sono stati già rintracciati dal Nucleo investigativo centrale della Polizia penitenziaria, e riportati in cella. Si cercano ancora gli altri, con posti di blocco in tutta la regione Lombardia. “Alcuni di loro avevano avuto il permesso per andare a casa per le feste ma è stato loro revocato in seguito ad una infrazione disciplinare”, riferisce al manifesto il garante dei detenuti di Milano, Francesco Maisto. Subito dopo la fuga, altri detenuti hanno dato fuoco ad alcuni materassi rendendo inagibile una parte dell’istituto, con un bilancio di quattro agenti intossicati per il fumo e ricoverati, ma non in gravi condizioni. La situazione è tornata sotto controllo solo a tarda sera e grazie all’intervento di don Gino Renoldi, storico cappellano del Beccaria. “È stata una spacconata di carattere impulsivo, ma i veri problemi del Beccaria sono altri e cristallizzati da tempo”, spiega ancora Maisto. A parte i lavori in corso che proseguono a singhiozzo da 17 anni, da 15 anni non c’è un direttore stabile, tanto per cominciare. “Pur nella professionalità - puntualizza Maisto - c’è stato un turn over di reggenti che hanno già altri incarichi e sono direttori di istituti penali per adulti, mentre il direttore di un istituto minorile deve avere una formazione diversa”. Inoltre, a causa di quei lavori infiniti, “da almeno due anni e mezzo, i giovani arrestati vengono trasferiti a centinaia di chilometri da casa”. “Intanto era Natale e il Natale mobilita la voglia di essere da qualche altra parte - racconta don Renoldi - Volevano spaccare tutto, sono andato su di corsa e dopo un po’ hanno anche smesso”. E ieri, mentre la Lega, incalzata da alcuni sindacati penitenziari, coglieva l’occasione per promettere più repressione, più soldi e più personale (mentre nella legge di Bilancio ha tagliato proprio ed esplicitamente i fondi previsti per la polizia penitenziaria), “i ragazzi sono tornati tutti blindati, super controllati e sono anche tranquilli”, ha riferito ancora il cappellano. “La vivono come un’avventura, a questa età non sono mica consapevoli - spiega Renoldi - Il fatto che questi sette la pagheranno cara e anche più in generale ci sarà un restringimento della disciplina, non ce l’hanno mica in mente, non è roba da 16-17enni. Non torneranno da eroi perché andranno a finire in altre carceri in giro per l’Italia”. Non che all’interno del Beccaria (46 ragazzi per una capienza massima di 31) non siano rinchiusi giovani anche molto violenti: ad agosto di quest’anno, per esempio, un sedicenne di origine egiziana è stato stuprato e torturato da quattro altri ragazzi, capeggiati da un giovane ivoriano da poco maggiorenne coinvolto anche in un’inchiesta sulle trapper Baby gang e Simba La Ru. Ieri, il direttore del dipartimento giustizia minorile, Cacciapuoti, recatosi al Beccaria, ha annunciato l’assunzione di nuovi educatori e la formazione di 57 nuovi direttori per carceri minorili e di adulti (tutto già previsto da tempo). L’episodio è “grave” ma, avverte il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, è “sbagliato gettare disvalore su un sistema che funziona”. Piuttosto, bisogna riflettere - aggiunge Palma - sulla “maggiore difficoltà che la privazione della libertà determina oggi in giovani complessivamente più fragili che in passato. In particolare, perché hanno costruito - e costruiscono - la propria apparente identità attraverso sistemi virtuali di comunicazione che hanno una scarsa capacità di connessione con la durezza di una situazione reale quale è la privazione della libertà. All’interno di una istituzione detentiva, dove ovviamente si interrompe quel tipo di connessione, anche perché non si ha più il cellulare che sembrava comprendere tutto il proprio mondo, ci si ritrova soli - conclude Palma - in una situazione che non si sa gestire, se non con rabbia e fuga”. Carlo Nordio sulle carceri è garantista della domenica di Liana Milella La Repubblica, 27 dicembre 2022 Il ministro non ha sentito il bisogno di spendere una parola sulle evasioni dal carcere Beccaria a Milano. Ma chi è il Guardasigilli? Carlo Nordio o Matteo Salvini? Il dubbio viene quando, sulle sette evasioni dal carcere Beccaria di Milano, è il ministro delle Infrastrutture a piantare il paletto della linea dura per il governo Meloni. Con la solita tiritera. Onore “agli uomini in divisa”, “mettere in sicurezza” le carceri italiane. Cioè, per dirla alla milanese così lui capisce, “tirà giò la clèr” (e cioè “tirare giù la saracinesca”). Ma Nordio, il loquace Nordio, dov’è finito? In via Arenula dicono che abbia l’influenza, chiuso nella sua magione di Treviso. Malato al punto da non poter dettare due righe? Eppure Sergio Mattarella porta con eleganza il Covid da oltre dieci giorni e non pare scomparso dalle scene. Nordio invece non ha neppure chiamato la responsabile delle carceri minorili Gemma Tuccillo. E al Beccaria ecco andarci il sottosegretario Andrea Ostellari, uomo di Salvini, a conferma della linea dura. Mentre Nordio non ha sentito il bisogno di spendere una delle sue tante parole garantiste. Garantista, come si professa, sulle intercettazioni. Garantista contro la microspia Trojan, quella sì una vera “porcheria” come dimostra il caso Palamara. E sulle patrie galere? Lì il garantismo sfuma come un tramonto. Silurato il direttore garantista delle carceri scelto dalla ex Guardasigilli Marta Cartabia. Carlo Renoldi, racconta chi ha vissuto la scena in diretta, fatto attendere inutilmente in corridoio senza l’onore di un saluto. L’annuncio del suo successore, quel Giovanni Russo guarda caso fratello di Paolo per 26 anni parlamentare di Forza Italia, diffuso prima che Renoldi sapesse da terzi del suo destino. In compenso il regalo, proprio ai berlusconiani, di approvare due totem come il via libera ai benefici penitenziari per i reati di corruzione. E pure via, sempre per lo stesso reato, il Trojan. Non resti nulla, per carità, della Spazzacorrotti di Bonafede, su cui pure FdI si astenne soltanto. Ma Nordio non è garantista per i 700 semiliberi che per tre anni, grazie ai decreti Covid, hanno potuto scontare ai domiciliari la pena senza rientrare in cella la sera. E non si conta un solo sgarro che abbiano commesso. Il che giustificherebbe la punizione di risbatterli dentro. Il 2023 segna 82 suicidi in carcere, un numero spaventoso. Ma i semiliberi sono dei poveracci, magari quelli di colore che Salvini odia. E allora, alla faccia del garantismo, che tornino ad affollare le prigioni. Per salvare una misura giusta non c’è posto nell’unico decreto, non certo garantista, firmato da Nordio, il decreto Rave. Da tre a sei anni di carcere per un meeting musicale. Per i semiliberi, di certo, non spenderà una parola né la garantista Forza Italia, né tantomeno Salvini. E Nordio? Lui ha l’influenza. Da carcere modello a esempio di abbandono, la storia del carcere Beccaria di Milano di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 27 dicembre 2022 Lavori in corso da 15 anni, direttore assente da circa venti. La situazione del carcere di Milano è degenerata nel corso degli anni, passando da modello da seguire a modello da non seguire. Per anni il Cesare Beccaria è stato un istituto penitenziario definito “modello”, un esempio da seguire in tutta Italia. Dal giorno di Natale il carcere minorile è invece al centro della cronaca dopo che sette detenuti hanno approfittato della scarsa sorveglianza e dei lavori in corso nella struttura per scappare. Tre di loro sono di nuovo in carcere, mentre per altri quattro proseguono le ricerche. Ma alla fuga ha fatto seguito una rivolta da parte dei detenuti che hanno incendiato alcuni materassi e oggetti all’interno del cortile della struttura. Il risultato è di quattro agenti ricoverati in ospedali per intossicazione, tre dei quali sono stati dimessi dopo poche ore. Immediatamente il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini ha annunciato la sua visita nel carcere. ”Non è possibile evadere così semplicemente. Ci sarò oggi per incontrare il direttore per capire come mettere in maggiore sicurezza non solo il carcere minorile di Milano ma anche tutte le carceri italiane, perché troppo spesso ci sono episodi violenti. Quindi, bisogna permettere a donne e uomini della penitenziaria di lavorare tranquilli”, ha detto il ministro Salvini mentre nella legge di Bilancio che arriverà il 27 dicembre in Senato è previsto un taglio da 36 milioni di euro per gli agenti della Polizia penitenziaria. Nella giornata del 26 dicembre il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, e il direttore generale del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, Giuseppe Cacciapuoti, hanno eseguito un sopralluogo di circa due ore nel carcere minorile per parlare con la direttrice facente funzione Maria Vittoria Menenti e capire le dinamiche dell’accaduto. I lavori perenni e il direttore mancante - Secondo una prima ricostruzione i fuggitivi hanno sfruttato i lavori per la ristrutturazione dell’ex padiglione femminile dell’edificio. Gennarino De Fazio, segretario generale dell’Uilpa, ha detto che sono scappati dal cortile passeggi approfittando della sorveglianza di un solo agente. Così, i detenuti avrebbero aperto un varco nella recinzione e scavalcato il muro di cinta dandosi alla fuga. Ma il cantiere, aperto da oltre quindici anni all’interno della struttura penitenziaria, sarebbe dovuto durare solo tre anni se non fossero sopraggiunti diversi problemi riguardo all’assegnazione degli appalti all’azienda edile del progetto originario. Fonti del ministro delle Infrastrutture fanno sapere che all’inizio di dicembre è stato firmato un accordo con il ministero della Giustizia per terminare i lavori al carcere minorile Cesare Beccaria di Milano entro aprile 2023. Si tratta dei lavori per la realizzazione del secondo e ultimo lotto fermo dal 2018 anche a causa della pandemia. Ritardi su ritardi che hanno decretato una situazione di stallo all’interno del carcere e hanno quasi dimezzato il numero dei posti a disposizione della struttura passati da 50 a 31. La realizzazione dei lavori, invece, avrebbe aumentato i posti a disposizione fino a 70-80 unità. Un altro elemento critico denunciato più volte dalla società civile e l’assenza da circa vent’anni di un direttore dell’istituto, gestito in maniera “emergenziale” da un direttore facente funzione sostituito più volte. In un rapporto l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale Antigone ha segnalato i problemi legati alla struttura. Tra i problemi identificati dagli operatori celle “anguste” e mancanza di personale interno. ”Piuttosto ambigua la gestione degli spazi detentivi attigui all’infermeria - si legge nella relazione finale - si tratta di celle chiuse e più anguste di quelle dei reparti ordinari che ospitano ragazzi non solo per ragioni sanitarie ma anche disciplinari e di mera organizzazione degli spazi. Le tante attività trattamentali proposte faticano a tradursi in percorsi significativi di inserimento lavorativo. Colpisce l’impegno di risorse umane e materiali da parte degli enti locali, unicum a livello nazionale”. Secondo quanto scrivono gli operatori all’interno del Beccaria ci sono tensioni tra i vari detenuti. “Il clima detentivo appare piuttosto teso, nei due gruppi di “trattamento” in cui è organizzato l’istituto si percepiscono dinamiche volte ad enfatizzare la leadership di alcuni a scapito di altri, ma anche un percepibile livello di apatia e assenza da parte di numerosi ragazzi”. I ragazzi risultano svogliati nel partecipare alle attività formative ed educative che spesso vengono annullate per la mancanza di personale. Il caso di stupro - Non è ancora chiaro chi abbia aizzato i detenuti alla rivolta del 25 dicembre, ma non è la prima volta che all’interno del carcere si verificano episodi di violenza. Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, nella notte tra il 7 e l’8 agosto scorso un ragazzo di 16 anni sarebbe stato accerchiato, picchiato e violentato da altri detenuti all’interno della struttura che hanno approfittato del cambio turno degli agenti. Caso Beccaria. Il Garante dei detenuti: “Episodio grave, ma giustizia minorile funziona” redattoresociale.it, 27 dicembre 2022 In una nota, il Garante nazionale delle persone private della libertà interviene sull’evasione dall’Istituto penale per minorenni Beccaria di Milano. “Sarebbe sbagliato cogliere questo grave episodio per gettare disvalore verso un sistema”. “Certamente quanto avvenuto al Beccaria è episodio grave ed evidenzia una situazione che richiede di essere potenziata sia negli aspetti di rapida risoluzione di questioni ancora in sospeso, relativamente alla conclusione dei lavori e all’assegnazione di una stabile direzione, sia tramite un incremento di progettualità. Altrettanto certo è che una situazione difficile non possa ricadere su chi opera con difficoltà e professionalità. Sarebbe tuttavia sbagliato cogliere questo grave episodio per gettare disvalore verso un sistema - quello della giustizia minorile - che funziona e che ha visto negli anni importanti successi di reinserimento positivo di giovani nella vita esterna. La questione della direzione stabile è in via di soluzione, dopo che è stato completato il concorso e si sta concludendo la fase di formazione dei vincitori”. Così in una nota il Garante nazionale delle persone private della libertà. “Resta però un tema su cui si deve ragionare - aggiunge la nota -: è quello della maggiore difficoltà che la privazione della libertà determina oggi in giovani complessivamente più fragili che in passato. In particolare, perché hanno costruito - e costruiscono - la propria apparente identità attraverso sistemi virtuali di comunicazione che hanno una scarsa capacità di connessione con la durezza di una situazione reale quale è la privazione della libertà. All’interno di una istituzione detentiva, dove ovviamente si interrompe quel tipo di connessione, anche perché non si ha più il cellulare che sembrava comprendere tutto il proprio mondo, ci si ritrova soli in una situazione che non si sa gestire, se non con rabbia e fuga. Occorre ragionare su questi aspetti, oltre che, doverosamente, risolvere quei nodi che garantiscano condizioni dignitose e al contempo sicure, senza limitarsi ad affrontare la questione in termini di rafforzamento dell’esistente o ancor meno di contrapposizione ideologica”. La responsabile delle carceri minorili: “Io, preoccupata per il disagio di questi ragazzi in fuga” di Liana Milella La Repubblica, 27 dicembre 2022 Gemma Tuccillo: “Non sono buonista, ma dobbiamo tenere conto della loro fragilità. Credo profondamente nel valore della giustizia riparativa”. E sulla dinamica dell’episodio di Milano: “Aspetto la relazione finale per tracciare un quadro chiaro”. “Non sono certo buonista nei confronti di questo episodio ma, al momento, il sentimento predominante è l’amarezza, nonché la preoccupazione per il disagio per questi nostri ragazzi e per la loro fragilità”. Gemma Tuccillo è il capo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità perché i 17 istituti penali per i minorenni, gli Ipm, non dipendono dal Dap, che gestisce 200 penitenziari e 55mila detenuti. Nei 17 Ipm, rispetto a 500 posti disponibili, oggi i ragazzi reclusi sono 374 e dieci le ragazze. Tuccillo arriva in via Arenula scelta dall’ex Guardasigilli, Andrea Orlando, e resta con Alfonso Bonafede e con Marta Cartabia. Dopo 41 anni servizio, di cui 25 destinati proprio alla giustizia minorile, dal 15 gennaio Tuccillo lascia e adesso dice: “Per me è un dolore maggiore lasciare in questa situazione”. Ha già parlato con il ministro Nordio delle sette evasioni? “No, non ancora. Ne ho parlato con il capo di gabinetto Alberto Rizzo e con Giuseppe Cacciapuoti, il direttore generale del personale e delle risorse, responsabile dell’esecuzione dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria minorile in ambito penale. E con il sottosegretario Andrea Ostellari”.  Quando ha saputo delle fughe? “Nel tardo pomeriggio di ieri, e ho disposto subito che al Beccaria andassero sia il direttore generale, sia i componenti dell’ufficio ispettivo”.  Come giudica quello che è successo?  “Per una valutazione esauriente, ho bisogno di elementi in più. In questo momento non mi sento ancora di poter tracciare un quadro lucido e chiaro. Devo leggere prima le relazioni. Nei limiti del possibile, ho cercato subito di far partire gli interventi più urgenti. Grazie al cielo né per il personale, né per i ragazzi ci sono state conseguenze fisiche di rilievo. Abbiamo fatto gli accertamenti per chi aveva inalato del fumo, ma non c’è stato comunque alcun caso preoccupante”.  Quanti giovani detenuti c’erano al Beccaria? “Una quarantina. Dalle conversazioni convulse di queste ore, al momento posso dire che tre dei sette evasi sono stati rintracciati, uno è stato riconsegnato dai genitori, per gli altri 4 sono in corso le ricerche. Sette dei ristretti sono stati trasferiti presso altre strutture minorili. E uno di essi - un cosiddetto ‘giovane adulto’, quindi oltre i 18 anni - è stato trasferito in una struttura per adulti”.  Al momento che idea si è fatta di queste fughe?  “Premesso che devo capire bene chi sono questi ragazzi, la mia impressione è che gesti come questi sono riconducibili a una fragilità che si mescola a insofferenza, a ribellione e anche alla necessità di affermare un’opposizione verso l’istituzione e fare una prova di forza verso l’istituzione stessa”.  È stata un’evasione programmata o il frutto di una condizione favorevole? “Guardi, finché non avrò approfondito chi sono questi ragazzi, non mi sento di dare un giudizio. Con i giovani ho lavorato per trent’anni e prima di poter dare un giudizio compiuto devo capire bene chi sono”.  È un fatto però che proprio al Beccaria si sia verificato un bruttissimo episodio, il 7 agosto, quando un ragazzino è stato violentato e seviziato in una cella da tre compagni, e dopo che era stata distrutta anche l’infermeria… “Prontamente, anche in quel caso, è stata disposta un’ispezione straordinaria per fare piena chiarezza sulla vicenda e anche in quel caso sono emersi in piena luce tratti di frustrazione e fragilità oltre che sentimenti di rivendicazione. Per quanto riguarda i ragazzi coinvolti ogni necessario provvedimento è stato adottato”.  Il ministro Salvini, anche stavolta, ha subito detto la sua, e parla di “episodi violenti”… “La interrompo. Sarebbe davvero un gran peccato - senza nulla togliere alla gravità del fatto e all’individuazione di ogni eventuale responsabilità - che un sistema come quello minorile venisse travolto. In considerazione delle tante attività che si svolgono quotidianamente all’interno degli Ipm e dei tanti ragazzi che da queste attività hanno tratto le opportunità per una ripresa di vita improntata alla legalità. Non bisogna mai generalizzare, come quando il mancato rientro di un detenuto da un permesso rischia di inficiare un sistema che ha dato buona prova di sé. E colgo l’occasione per ringraziare il personale tutto per l’impegno instancabile profuso sempre e anche in questo ore molto di più”.  E lei mi dice questo proprio mentre il governo non ha voluto prorogare la misura della semilibertà per circa 700 detenuti che per tre anni, per via delle norme Covid, hanno potuto scontare interamente la pena a casa senza tornare di notte in cella, e senza commettere alcunché, e adesso invece torneranno in galera alla faccia del sovraffollamento...  “Questa è una scelta politica rispetto alla quale non mi esprimo, confermando che ritengo preziosa ogni sperimentazione che riavvicini il detenuto al contesto di appartenenza”.  La accuseranno di essere troppo buonista… “Io credo profondamente nel valore della giustizia riparativa e nell’importanza di non creare un divario troppo profondo tra un periodo di isolamento, spesso anche molto lungo, e il ritorno alla piena libertà. Ferma restando l’importanza di ogni esigenza cautelare per la sicurezza della collettività”.  Da Milano descrivono il Beccaria come un carcere che da anni ha le transenne intorno, quindi quasi un invito alla fuga.. “Non mi sentirei sinceramente di dirlo. Il Beccaria ha lavori in corso, che peraltro sono ripresi qualche giorno fa, proprio ai fini di migliorare e ampliare la struttura. Lavori che hanno avuto tanti rallentamenti, con sollecitazioni continue perché venissero riavviati. Le transenne ci sono da prim’ancora che io arrivassi, quindi al momento non riesco a legare la fuga alla loro presenza. Solo gli accertamenti ce lo potranno dire”.  Ma è vero che anche al Beccaria, come in altri istituti minorili, non c’è un direttore fisso ma solo dei facenti funzione? “Questo è vero. Ma bisogna aggiungere che, proprio per la consapevolezza di quanto sia importante una direzione stabile per gli istituti penali, è stato istituito un ruolo specifico per i dirigenti penitenziari minorili, una carriera ad hoc, per cui è già stato espletato il concorso e i futuri direttori degli istituti minorili entreranno in funzione nel corso del prossimo anno”.  Quando l’allora giudice costituzionale Giuliano Amato, nell’ottobre del 2018, ha visitato il carcere minorile di Nisida, nell’ambito del Viaggio della Corte nelle carceri, quell’istituto è stato portato ad esempio per i risultati ottenuti. Adesso, dopo l’evasione del Beccaria, non si rischia di criminalizzare tutti i detenuti più giovani? “È proprio questo il rischio che bisogna evitare. Perché i ragazzi devono sentire la presenza delle istituzioni come incentivo a recuperare il senso di responsabilità e il desiderio di un rientro nel contesto di appartenenza che non li veda portatori di stimmate che spesso può indurli a sbagliare ancora”. Don Gino Rigoldi: “Speriamo che questo clamore faccia arrivare aiuti e risorse” di Zita Dazzi La Repubblica, 27 dicembre 2022 Evasi dal carcere Beccaria, don Gino Rigoldi: “Speriamo che questo clamore faccia arrivare aiuti e risorse”. Lo storico cappellano racconta cosa accade dietro le mura, cosa è cambiato negli anni e le storie complicate dei ragazzi in fuga. “Con don Burgio ci siamo attivati per convincerli a tornare”. “Io e don Claudio Burgio li stiamo cercando. Dobbiamo riportarli dentro, prima che si mettano ancora più nei guai. Ci stiamo attivando con tutto quello che si deve e si può fare, perché rientrino, senza complicare ulteriormente la situazione. Stiamo facendo arrivare loro questo appello per convincerli, siamo sulla buona strada, spero”. Don Gino Rigoldi da 52 anni è cappellano al carcere minorile Beccaria e conosce benissimo i sette evasi del giorno di Natale. Che storie hanno? “Dei quattro che sono ancora fuori, uno solo è straniero. Hanno tutti famiglie complicate. Oltre che povertà economica, anche povertà affettiva. Qualcuno di loro è stato abbandonato dai genitori o dai loro partner”. Perché sono evasi? “Tenete conto che è Natale, un giorno particolarmente triste da trascorrere in carcere. Essere lontano dagli affetti, è duro. Io ero stato lì tutta la giornata, sapevo che era una situazione difficile. Ero lì anche mentre evadevano. Poi mi hanno chiamato a sedare la rivolta che c’è stata al piano di sopra”. Non ha paura, don Gino, lei che ha 83 anni, quando si trova solo con decine di giovani che hanno commesso reati? “Paura? Neanche per sogno, è tutta la vita che sto con questi ragazzi, so come si fa. Abito in una comunità dove ci sono diversi ex del Beccaria. Il giorno di Natale sono andato da quelli che facevano la protesta e un po’ con le buone, un po’ con le cattive, li ho calmati”. Perché hanno dato fuoco ai materassi? “Si sono agitati quando hanno saputo dell’evasione. È stata una reazione a questa fuga, per molti di loro una grande impresa”. Non si rendono conto delle conseguenze? “Non molto, sono adolescenti, anche se hanno commesso un reato la loro percezione della realtà non è matura. Parlando con quelli rimasti dentro, li ho visti applaudire ai compagni fuggitivi. Non si rendono conto che chi è violento sarà trasferito in un penitenziario più lontano, che i maggiorenni andranno al carcere degli adulti”. Che è peggio del Beccaria? “Di certo, in un istituto minorile c’è più attenzione al recupero della persona, alla sua crescita, al suo futuro”. Questi ragazzi non sembrano averne contezza, però... “Chiaramente anche al Beccaria ci sono tanti problemi. Adesso che ci sono state queste evasioni, tutti si accorgono di quel che io sto denunciando da anni, cioè l’assenza di un direttore incaricato da 20 anni, il personale di custodia che continua a cambiare, forse anche il fatto che ci sono agenti molto giovani, quasi coetanei dei ragazzi reclusi”. Perché è un problema? “Sono agenti bravi e motivati, ma ovviamente, quando tanti anni fa c’era anche personale che aveva una certa età, veniva visto dai ragazzi in cella in un altro modo. C’era qualcuno che aveva una sorta di autorità da padre di famiglia. Oggi c’è un grande turnover. A volte anche a me fermano all’ingresso e mi chiedono dove vado. Dopo 52 anni, non essere riconosciuto al portone, è un po’ strano”. Una volta il Beccaria, quando c’era il direttore Antonio Salvatore, era un modello. Oggi tutto è cambiato... “È vero, anche gli educatori sono un po’ stanchi. Abbiamo in direzione, la tredicesima ‘facente funzioni’, Maria Vittoria Menenti, che è la brava vicedirettrice del carcere di Opera. Facciamo bei progetti, anche a lungo termine, questo è positivo, ma io spero che questa evasione porti almeno, un effetto positivo: cioè la nomina di un direttore stabile”. Di quel che si faceva una volta al Beccaria per dare un futuro ai ragazzi, che cosa è rimasto? “Abbiamo il Teatro Punto Zero che va molto bene, come gli stage con Cidiesse per insegnare a fare quadri elettrici industriali, un viatico per il lavoro vero. Non c’è più il panificio, c’è invece un po’ di attività con la falegnameria e c’è l’orto. Ma per un ragazzo di 18 anni l’orto non è molto attrattivo. C’è una sala musica, c’è la scuola naturalmente, ma insomma, complessivamente si fa fatica a far capire a questi ragazzi che con un lavoro e con lo studio ci si può riabilitare, si può credere nel futuro”. E adesso? “Speriamo che con tutto questo clamore, adesso davvero il governo aiuti il Beccaria, che finiscano i lavori in corso da 16 anni, che si risolvano tutti i problemi, visto che dicono anche che si passerà da 40 a 80 detenuti. Servono risorse, se non vogliamo che questi guai si ripetano”. Beccaria, il grido dei sindacati dopo l’evasione: “L’istituto è a pezzi” di Valentina Stella Il Dubbio, 27 dicembre 2022 Era un carcere modello, ora è allo sbando: sovraffollamento, cantieri sempre aperti e nessun direttore da quasi vent’anni. Sono ancora quattro i detenuti irreperibili fuggiti a Natale dall’Istituto penitenziario per minori Beccaria di Milano. Oggi il terzo dei sette evasi è tornato in carcere, dopo i due presi poco dopo la fuga. Sarebbero stati i genitori a convincerlo a tornare nell’istituto. I fuggitivi sono tre minorenni e quattro maggiorenni: negli istituti minorili, per ragioni connesse anche al sovraffollamento penitenziario, l’età dei ristretti può arrivare infatti fino 25 anni. Intanto nel carcere è tornata la calma: la protesta è stata sedata e i vigili del fuoco hanno domato l’incendio partito da alcuni materassi a cui era stato dato fuoco. Il Sappe fa sapere che un reparto detentivo è inagibile e senza luce. Quattro giovani agenti della penitenziaria sono stati ricoverati per intossicazione. Tre sono già a casa. Oggi è giunto presso l’Istituto anche il presidente del Tribunale dei Minori Anna Maria Gatto con un magistrato di sorveglianza. Sul posto anche il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari e il responsabile per i Minori del Dap, Giuseppe Cacciapuoti. Don Gino Rigoldi, storico cappellano dell’Istituto minorile Beccaria, ne è convinto: “Mi telefoneranno, li riporterò indietro”. L’ex cappellano dell’istituto si augura che questa vicenda “dia uno scossone” al Ministero per un carcere in cui “manca un direttore da 20 anni e ci sono lavori da 16”. I ragazzi sono infatti scappati approfittando delle strutture di alcuni lavori in corso: hanno aperto un varco nella recinzione e poi scavalcato il muro di cinta. Don Gino era stato diverse volte guida all’interno dell’Istituto del sindaco Beppe Sala che su Facebook ha scritto: “Non c’è proprio più spazio per chiacchiere o affermazioni generiche di “sconcerto”. Il Beccaria era un carcere modello. Lo era nel passato, in un passato ormai remoto. Da quasi vent’anni non c’è un Direttore, e ce la si è cavata con dei “facente funzione”. Da una quindicina d’anni ci sono lavori in corso, che non finiscono mai. Questa è la situazione. Chi si vuole scandalizzare per l’accaduto è libero di farlo. Ma la realtà va guardata in faccia”. Secondo Daniele Nahum e Alessandro Giungi, presidente e vicepresidente della Sottocommissione Carceri del Comune di Milano, l’evasione “è stata determinata da una cronica carenza di personale, acuita dalle giornate di festa e anche agevolata dall’infinita ristrutturazione della struttura penale minorile, sia negli spazi relativi al cortile che in quello delle sezioni detentive”. In una nota, i due consiglieri comunali Pd hanno espresso la loro “solidarietà e vicinanza agli Agenti della Polizia Penitenziaria” e sottolineano che “nelle carceri italiane è necessario investire in personale, sia aumentando il numero degli Agenti di Polizia Penitenziaria, sia quello degli operatori sociali”. Resta poi il tema della “fatiscenza dei luoghi di detenzione, in cronica assenza di manutenzione ordinaria e straordinaria e comunque con lavori di rifacimento dai tempi infiniti come quelli che da almeno 18 anni interessano proprio l’IPM Beccaria e che già hanno imposto la chiusura della sezione femminile”. Critiche anche dalla Uilpa con il segretario Gennarino De Fazio: “Da qualche tempo, molte delle problematiche che investono le carceri si ritrovano anche negli istituti penali per minorenni”. In particolare, “sono in vorticoso aumento i casi d’aggressione agli operatori, di sommosse e, come in questo caso, di evasione. Ciò è evidentemente imputabile a una serie di fattori che vanno dal sostanziale disinteresse della politica prevalente e dei governi alle vicende penitenziarie a scelte poco oculate, quale appunto l’innalzamento del limite d’età che consente la detenzione nelle strutture minorili, sulle quali per di più si abbatterà anche la scure della legge di bilancio in corso di approvazione con ulteriori tagli”. Ricordiamo che al Beccaria lo scorso 7 agosto un sedicenne fu torturato e violentato nella sua cella da tre coetanei, tra i quali un gregario violento di una banda di trapper. Proprio due notti fa, ha reso sempre noto la Uilpa, “bombe molotov sono state lanciate nel parcheggio per il personale del carcere romano di Rebibbia femminile”. Ma sul carcere è polemica anche perché il Governo ha deciso di non prorogare i provvedimenti per i semiliberi assunti durante l’emergenza Covid: “È crudele costringere dal primo gennaio le 700 persone, che da oltre un anno oltre a lavorare dormono fuori, a tornare in carcere la notte”, ha scritto su Facebook il vicepresidente dei senatori del Pd Franco Mirabelli. Caso Beccaria. Ma che cosa ci fanno quei ragazzi in galera? di Tiziana Maiolo Il Riformista, 27 dicembre 2022 Potrà sembrare scandaloso ma lo dice lo stesso codice di procedura penale minorile: la detenzione deve essere uno strumento residuale, la famosa ultima spiaggia dopo il fallimento di altre soluzioni. La parola più tremenda è “catturati”. Evoca gli animali nella giungla, le trappole degli uomini cacciatori, i trofei. Invece qui si sta parlando di sette ragazzini che hanno infranto le regole e hanno saltato il muro. Che è non solo il margine dell’istituto minorile Cesare Beccaria di Milano, che un tempo, sotto lo sguardo vigile di don Rigoldi, per tutti solamente Gino, era un modello di quanto più contrario al carcere si sia mai visto. Il “muro” è il simbolo dell’emarginazione di questi ragazzi. Quel che conta è che la giustizia minorile sia capace di tirar fuori questi ragazzi dalla propria identità di soggetto deviante. Perché quando la società dei buoni e onesti repressori ti avrà cucito addosso quel vestito, rischi di non togliertelo più. Siamo noi società degli adulti, né buoni né cattivi, né onesti né disonesti, ma semplicemente adulti, a dover saltare un muro, oggi. Non per gridare la nostra soddisfazione nell’averli “catturati”, nel far loro scontare una condanna ulteriore, ad alcuni per la loro fuga di Natale e agli altri per aver bruciato i materassi. E neanche per usare la pena come deterrente rispetto ai comportamenti futuri. Cosa che non funziona con gli adulti, figuriamoci con i ragazzini. Potrà parere “scandaloso”, ma lo dice lo stesso codice di procedura penale minorile il fatto che la detenzione debba essere uno strumento residuale, la famosa ultima spiaggia dopo il fallimento di soluzioni alternative. Il pericolo è che la detenzione, in luogo di essere utile per un cambiamento, ottenga l’effetto opposto, cioè la conferma della propria emarginazione, il rafforzamento dell’immagine identitaria di sé come soggetto deviante. La parola più tremenda è “catturati”. Evoca gli animali nella giungla, le trappole degli uomini cacciatori, i trofei. Invece qui si sta parlando di ragazzini che hanno infranto le regole e che il giorno di Natale si sono sentiti eroi, e come tali li considerano i loro compagni, e hanno saltato il muro. Che è non solo il margine dell’istituto minorile Cesare Beccaria di Milano, che un tempo, sotto lo sguardo vigile di don Rigoldi, per tutti solamente Gino, era un modello di quanto più contrario al carcere si sia mai visto. Il “muro” è il simbolo dell’emarginazione di questi ragazzi. Che non sono, come si potrebbe pensare, nella gran parte venuti da lontano. Gli immigrati sono solo il 45%, e in genere sono responsabili di reati meno gravi di quelli commessi dai ragazzi italiani. Quello della nazionalità alla fine non è neppure un dato così importante. Quel che conta è che la giustizia minorile sia capace di tirar fuori questi ragazzi dalla propria identità di soggetto deviante. Perché quando la società dei buoni e onesti repressori ti avrà cucito addosso quel vestito, rischi di non togliertelo più. Perché sarai tu stesso a vederti nel tuo personale specchio sempre e solo così. Siamo noi società degli adulti, né buoni né cattivi, né onesti né disonesti, ma semplicemente adulti, a dover saltare un muro, oggi. Non per gridare la nostra soddisfazione nell’averli “catturati”, nel far loro scontare una condanna ulteriore, ad alcuni per la loro fuga di Natale e agli altri per aver bruciato i materassi con la rabbia di non essere riusciti a scappare anche loro, come i loro eroi che hanno saltato il muro. E neanche per usare la pena come deterrente rispetto ai comportamenti futuri. Cosa che non funziona con gli adulti, figuriamoci con i ragazzini. Il punto è proprio un altro, i giudici e gli operatori specializzati del settore minorile non possono avere come orizzonte il puro accertamento del reato, ma l’incontro con persone ancora in formazione. Come sono i minori, e anche i giovani adulti, che da un po’ di tempo, con grande scandalo di alcuni, rimangono per qualche anno negli istituti i minorili anche dopo i diciotto anni. E spesso si salvano la vita, proprio perché vengono tenuti lontano dal carcere. Potrà parere “scandaloso”, ma lo dice lo stesso codice di procedura penale minorile il fatto che la detenzione debba essere uno strumento residuale, la famosa ultima spiaggia dopo il fallimento di soluzioni alternative. Ma il pericolo è che la detenzione, in luogo di essere utile per un cambiamento, se non un difficile ravvedimento, ottenga l’effetto opposto, cioè la conferma della propria emarginazione, il rafforzamento dell’immagine identitaria di sé come soggetto deviante. Non conosciamo, giustamente, l’identità dei ragazzi che hanno saltato il muro del Beccaria il giorno di Natale, e non conosciamo il motivo del gesto. Forse quel ragazzo che, dopo i primi due “catturati”, si è fatto convincere dai familiari a tornare indietro, darà qualche spiegazione. Se ci fidiamo del maggior conoscitore delle vite di questi ragazzi, dei loro pensieri, delle solo fantasie e sogni, cioè di don Gino, possiamo pensare che abbiano vissuto il gesto come qualcosa di eroico, qualcosa che abbia loro dato un’identità positiva. Anche io so fare qualcosa, qualcosa per cui essere ammirato. E pensare che la strada della loro crescita verso la società degli adulti dovrebbe passare proprio di lì, dalla scuola, dalla possibilità di aiutare ciascuno di loro a trovare dentro di sé quella lampadina accesa sulla possibilità di essere capace. Capace di apprendere, capace di fare. Rompere il muro dell’insicurezza, in definitiva, dire a ciascuno di questi ragazzi “tu vali”, tu non sei solo quella cosa lì, la devianza, il reato. Quindi va benissimo che, anche con l’intervento del ministro Salvini, si concludano quei lavori all’interno del Beccaria che paiono fermi da quindici anni. E naturalmente solidarietà agli agenti intossicati dal fumo prodotto dagli incendi. Ma, per carità, pur senza far finta che il gesto di ribellione sia esistito e vada in qualche modo sanzionato, non cominciamo a chiedere pene esemplari anche per i ragazzi. Ricordiamo invece sempre che, accanto ai loro doveri, ci sono i loro diritti: all’educazione, alla formazione, ma anche alla protezione. Perché una società che non sa proteggere i propri figli è una società feroce che pensa solo a “catturare “. Una società sconfitta, alla fine. “Mandiamo in patria i detenuti stranieri per svuotare le celle” di Annarita Digiorgio Il Giornale, 27 dicembre 2022 Il sottosegretario alla Giustizia Delmastro: “Accordi con i Paesi d’origine. Tossicodipendenti in clinica e meno custodia cautelare”. Dopo l’evasione dei sette ragazzi dal carcere minorile Beccaria di Milano, è rimbalzato il dibattito sull’esecuzione della pena in Italia. Ne abbiamo parlato con il sottosegretario alla Giustizia di Fdi, l’avvocato Andrea Delmastro. Onorevole, torna l’allarme sulla condizione delle carceri italiane, come pensate di risolverlo? “Abbiamo ereditato una situazione esplosiva. Noi innanzitutto abbiamo la necessità su 190 carceri di trovare 190 direttori e 190 comandanti, e li troveremo. Come di aumentare educatori e psicologi per evitare i suicidi. Poi serve un intervento serio sull’edilizia penitenziaria”. E per ridurre il numero dei detenuti? “Non siamo indifferenti a interventi per contrastare il sovraffollamento, ma non partendo da qualsiasi tipologia generica di detenuto, ma da quelli in carcere per tossicodipendenza. Per chi vuole sottoporsi alla disintossicazione faremo ponti d’oro per consentirgli di avere un’alternativa alla detenzione presso le strutture di comunità. Peraltro con un notevole risparmio per lo Stato: se un detenuto ci costa 137 euro al giorno, quello tossicodipendente ce ne costa 180. Mentre ricoverarlo in case di comunità costa 80 euro a tossicodipendente. Ho parlato a lungo anche con il ministro degli Esteri ipotizzando in tutti i trattati bilaterali internazionali la possibilità, come avviene per l’Albania, che il detenuto possa scontare la pena nel paese di provenienza anche senza il suo consenso. Cosi avremmo già risolto il sovraffollamento. Se ci sono 19mila detenuti stranieri per 137 euro al giorno per 365 giorni, mandandoli nel Paese di provenienza io ogni anno ho trovato soldi per costruire nuove carceri”. E per gli agenti di polizia sottorganico? “Anche aumentare l’organico di polizia penitenziaria serve per umanizzare la pena, migliorando il servizio. Non essendo figli di un dio minore rispetto ai colleghi delle forze dell’ordine, anche la polizia penitenziaria andrà dotata di taser per contenere gli eventi critici”. Un altro grande gruppo della popolazione penitenziaria è costituito dai detenuti in custodia cautelare, come i ragazzi evasi dal Beccaria per cui non era ancora iniziato il processo. Pensate di intervenire? “La custodia cautelare oggi in Italia è smodata anche solo per aspetti statistici agghiaccianti rispetto al resto d’Europa. A volte anche a fini snaturati rispetto all’esigenza di sicurezza, ma per ottenere una confessione. Va rivista prevedendo un intervento che renda meno discrezionale il ricorso agli arresti preventivi, ma noi di Fratelli d’Italia rimaniamo contrari a ciò che prevedeva il referendum che evitava la custodia in caso di rischio reiterazione, che è invece l’unico modo per fermare spacciatori e stalker”. Pensa che il ministro Nordio possa riuscirci? “È un suo impegno di vita e siamo convinti che sia la persona adatta a intervenire in maniera chirurgica su questo abuso, non deprivando la magistratura di un importante strumento per contrastare pericoli di carattere sociale ma avendo un approccio liberale alla giustizia italiana. Nel centrodestra lo sosterremo tutti”. Che ne pensa del Papa che nella lettera inviata ai capi di stato in vista del Natale ha chiesto un “gesto di clemenza verso quei nostri fratelli e sorelle privati della libertà che essi ritengano idonei a beneficiare di tale misura”? “Sono cattolico ma non uso la fede religiosa quando faccio politica. Altrimenti poi che dobbiamo immaginare una clemenza anche per le feste islamiche? Se invece il Papa intende un appello per rendere le pene più umane sono d’accordo”. Le associazioni a fianco di Cospito. “Il 41 bis una crudele assurdità” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 dicembre 2022 L’anarchico è in sciopero della fame da due mesi. Vista la decisione della magistratura di sorveglianza di confermare il 41bis ad Alfredo Cospito, persona sicuramente non così pericolosa da rendere sensata l’applicazione di quel regime carcerario che equivale ad una vera e propria tortura, Elisa Torresin ed Umberto Baccolo, entrambi attivisti per i diritti dei detenuti e per la Giustizia giusta, hanno deciso di lanciare un’iniziativa nonviolenta che, accompagnandolo nel suo sciopero della fame, spinga a riflettere su disumanità ed incostituzionalità di ergastolo ostativo e 41bis, chiedendo la loro abolizione in linea generale, e nello specifico la non applicazione a Cospito, che sicuramente se ha commesso reati è giusto li paghi, ma non così tanto ed in modo così disumano e sproporzionato. Sono aperte le adesioni, gli attivisti hanno cominciato lo sciopero a staffetta comunicando nome, cognome, città e data di inizio e fine digiuno (minimo 24 ore, massimo quanto si vuole, con possibili 3 cappuccini zuccherati al giorno) tramite un forum online. Il 27 dicembre ci sarà un evento in diretta sulla pagina Facebook garantista Folsom Prison Blues nel quale si parlerà di 41bis e ergastolo ostativo da vari punti di vista. Tra i relatori Mauro Palma, Luigi Manconi, Gherardo Colombo, Sergio D’Elia, Christian Raimo, Vincenzo Maiello, Carlo Taormina, Alessandro Barbano, Enza Bruno Bossio, Elisabetta Zamparutti, Alessandro Capriccioli, Sandra Berardi, Enzo Raisi, Frank Cimini, Lanfranco Caminiti, Roberto Cannavò. Altre realità hanno aderito, come l’Associazione Riforma Giustizia per la difesa dello Stato di Diritto (che è appena nata da quello che era il Comitato per Pittelli), Nessuno tocchi Caino, Yairaiha Onlus, Italia Libera e Il Popolo della Famiglia. I promotori dell’iniziativa, chiedono la massima partecipazione, “perché in uno Stato di Diritto democratico dove non esiste la pena di morte è inaccettabile che si possa morire per pena”. Ricordiamo che Cospito è in sciopero della fame da oltre due mesi. Recluso nel carcere duro di Bancali, dove le celle sono situate sotto il livello del mare, non intende interrompere il digiuno. Un 41 bis che giuristi e intellettuali ritengono ingiustificato. Nella precedente detenzione, infatti, Cospito riceveva libri e riviste, partecipava a dibattiti pubblici mediante contributi scritti, condivideva la sezione AS2 con imputati della medesima area politica e/ o con detenuti politici, godeva di ore d’aria, palestra, biblioteca, socialità. E soprattutto non era stato sottoposto al 41 bis nonostante dal 2016, a seguito dell’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare del Gip di Torino, era stato ritenuto comunque intraneo al sodalizio anarchico denominato FAI, la cui appartenenza, nel 2022, sarà posta a fondamento del carcere duro. Decreto sicurezza. Oggi il tavolo tecnico su Ong, baby gang, taser e violenza contro le donne di Fiorenza Sarzanini  Corriere della Sera, 27 dicembre 2022 La bozza del decreto sicurezza: l’approvazione potrebbe arrivare già nella riunione dell’esecutivo prevista per domani o al massimo in quella della prossima settimana. Per le Ong un soccorso alla volta. Baby gang, cellulari vietati. Ammonimento e pene più severe per chi minaccia le donne e non rispetta i provvedimenti già imposti, daspo esteso ai minorenni che fanno parte delle baby gang, codice di comportamento per le Ong che effettuano salvataggi in mare: il governo è pronto a varare il decreto sicurezza. La riunione tecnica degli uffici legislativi è fissata per questo pomeriggio a Palazzo Chigi.  Dopo l’esame della bozza messa a punto con un lavoro coordinato della presidente del Consiglio Giorgia Meloni e del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, l’approvazione potrebbe arrivare già nella riunione dell’esecutivo prevista per domani o al massimo in quella della prossima settimana. La premier ha chiesto massima condivisione per arrivare a un testo che rispecchi le indicazioni della maggioranza, senza escludere che alcune disposizioni - in particolare quelle di protezione per donne e minori - possano essere votate anche dalle opposizioni.  Certamente più controverso è il capitolo che riguarda l’attività delle Organizzazioni non governative e per questo nella premessa della bozza si parla di “attività conformi alle norme nazionali e alle convenzioni internazionali”, ma è stata eliminata la possibilità di procedere penalmente per chi non le rispetta. Rimangono invece le sanzioni amministrative con multe e sequestri delle imbarcazioni, prevedendo anche la confisca dei mezzi utilizzati da chi soccorre i migranti, che dovranno essere decise dai prefetti.  Le tappe - Già nel programma elettorale la coalizione di centrodestra aveva inserito l’approvazione di un nuovo decreto sicurezza, visto che le norme varate dall’esecutivo gialloverde guidato da Giuseppe Conte con Matteo Salvini al Viminale erano state modificate o abolite. Saranno i capi degli uffici legislativi dei dicasteri coinvolti - Interno, Giustizia, Esteri, Infrastrutture, Lavoro - a mettere oggi a punto gli ultimi dettagli. La bozza è pronta e - se non ci saranno intoppi di carattere tecnico, ma soprattutto politico - potrebbe arrivare in Consiglio già domani. Oltre alle norme sulle Ong si dovrà esaminare con i delegati del Guardasigilli l’attuazione delle disposizioni che riguardano i minori e quelle per stalker e femminicidi. Inasprite le pene - Obiettivo del provvedimento è potenziare l’attività di prevenzione per impedire che persone già segnalate possano compiere atti di violenza nei confronti delle donne. Nella bozza di decreto è previsto l’ampliamento dei casi in cui il questore potrà emettere un provvedimento di ammonimento, in particolare per gli stalker. E ci sarà una norma che consente di imporre, nelle situazioni di pericolo, il divieto di soggiorno e di avvicinamento nei luoghi frequentati dalla vittima. Saranno inoltre inasprite le pene per chi è già stato ammonito e viola le disposizioni. Sarà trasferito in carcere chi è sottoposto al controllo elettronico attraverso il braccialetto ma tenta di manometterlo. Forze dell’ordine e presidi sanitari avranno l’obbligo di informare la vittima sui centri antiviolenza che si trovano sul territorio e dovranno provvedere alla sua sistemazione in una delle strutture se sarà presentata una richiesta di questo tipo. Cambia anche il sistema di risarcimento, prevedendo una provvisionale che diventa una forma di ristoro anticipato, già dopo una prima sentenza di condanna. Il divieto di cellulare - Per combattere il fenomeno criminale delle baby gang è stato deciso di ampliare l’applicazione del daspo anche ai minori, purché abbiano compiuto 14 anni. La misura sarà presa nei casi più gravi e prevederà l’interdizione alla frequentazione di alcune aree proprio come già avviene per i maggiorenni. Sulla falsariga del provvedimento adottato dopo l’omicidio di Willy Montero - massacrato a calci e pugni nel settembre 2020 - anche chi ha meno di 18 anni potrà così subire l’interdizione a entrare nei locali pubblici e stare nei luoghi della movida. Per contrastare gli episodi di bullismo via web potrà anche essere disposto il divieto di utilizzo del cellulare e di altre apparecchiature elettroniche. Una norma prevista sia per i minorenni, sia per gli adulti. Il Taser - Tra le misure messe a punto dai tecnici dei Viminale c’è anche l’utilizzo del Taser - la pistola elettrica che le forze dell’ordine già utilizzano come strumento di dissuasione - in tutte le situazioni di rischio, anche nei Comuni più piccoli dove attualmente non era stato previsto come dotazione per poliziotti e carabinieri. Il codice per i salvataggi - Il governo vara per decreto il codice di comportamento per le Ong e restringe in maniera drastica le possibilità di intervento dei salvataggi in mare. La linea del ministro Piantedosi è stata evidenziata più volte e ribadita dalla presidente Meloni: “Non ostacoleremo il soccorso dei naufraghi, ma non consentiremo alle navi di rimanere per giorni in mare. In questo modo garantiremo anche ai migranti di poter essere subito assistiti”. Chi soccorre le imbarcazioni in difficoltà potrà compiere soltanto un salvataggio e dovrà subito informare la Guardia Costiera e le altre istituzioni di aver effettuato l’intervento, chiedendo contestualmente l’approdo in un porto sicuro. Vietati anche i trasbordi da un’imbarcazione all’altra. Una volta effettuato il soccorso i volontari delle Ong dovranno informare i naufraghi della possibilità di chiedere asilo attivando così la procedura per la ricollocazione. Chi non rispetterà queste regole rischia multa e sequestro della nave. Per chi invece arriva in Italia attraverso il decreto flussi o regolarizza la propria posizione è stata prevista la semplificazione delle norme per ottenere il rilascio del nulla osta al lavoro subordinato e altre agevolazioni. Critiche delle toghe a Nordio, sì. Ma con un fair play da ex colleghi di Errico Novi Il Dubbio, 27 dicembre 2022 Da Santalucia a Gratteri, il confronto fra i magistrati e l’ex pm diventato ministro è serrato. Ma siamo lontani dalle asprezze riservate per esempio a Marta Cartabia dal procuratore di Catanzaro. Un vantaggio? Forse sì. Cosa cambia con un guardasigilli magistrato, o comunque reduce da una lunghissima e solida carriera in magistratura? Intanto, la profonda conoscenza di aspetti dell’ordine giudiziario non facili da cogliere per gli “estranei”. Ma non solo: cambia la dialettica fra via Arenula e la magistratura “corporativamente intesa”. Scagliarsi aspramente contro un ex collega, per l’Anm, è sempre possibile, ma è un po’ più complicato rispetto a quanto avviene di solito con un ministro della Giustizia politico tout court. Certo le critiche a Carlo Nordio, dal fronte delle toghe, non si sono fatte attendere. Ma c’è un tratto nuovo: la personalizzazione del confronto. Non è detto che sia un male. Giuseppe Santalucia, che dell’Anm è presidente, ha ingaggiato un duello a distanza, con il guardasigilli, soprattutto sulle future modifiche in materia di intercettazioni. Santalucia rivendica la bontà delle norme già in vigore, che lui stesso ha in gran parte materialmente scritto, come capo dell’ufficio Legislativo dell’allora ministro Andrea Orando. Si tratta insomma di un dualismo in cui entrano in gioco anche aspetti personali. Così è per Nicola Gratteri, che nell’intervista rilasciata al Fatto quotidiano alla vigilia di Natale, ha sì espresso delusione per le possibili iniziative annunciate dalla maggioranza in materia di lotta alla criminalità (“quando Giorgia Meloni si è insediata, l’aveva indicata come una priorità, ci avevo creduto, ma evidentemente ho sbagliato”); ma il procuratore di Catanzaro ha tenuto i toni assai più bassi rispetto ad altre polemiche sollevate in passato, ad esempio contro Marta Cartabia. Si è limitato a ricordare a Nordio, essenzialmente, delle diverse misure ipotizzate, per risparmiare risorse, da una commissione ministeriale istituita qualche anno fa “della quale ho fatto parte”: ci sono ben altri modi, ha sostenuto, che tagliare le intercettazioni, e “se il ministro vuole, potrà facilmente verificare che le spese maggiori sono quelle per la custodia dei beni sequestrati, per i risarcimenti dovuti a causa della irragionevole durata del processo, per le amministrazioni giudiziarie e molte altre sulle quali sarebbe doveroso intervenire”. Tono collaborativo. Sarebbe lo stesso, se al posto di Nordio ci fosse un ministro che non proviene della magistratura? E soprattutto, questo atteggiamento rispettoso che si assume, nei confronti di Nordio, a “sinistra” (Santalucia) come a “destra” (Gratteri) del mondo togato, è un vantaggio? Forse sì. Siamo un po’ oltre il corporativismo fine a se stesso. Una volta tanto, personalizzare può far emergere i contenuti e far scivolare in secondo piano i politicismi. Anche se, nella sua strada per portare a casa riforme epocali come la separazione delle carriere, a Nordio non basterà certo avere interlocutori che, per la comune provenienza dalla magistratura, preferiscono il dialogo al conflitto totale. Intercettazioni, i parlamentari affilano le armi contro la gogna di Simona Musco Il Dubbio, 27 dicembre 2022 Dalla pubblicazione degli atti all’utilizzo dei trojan: ecco le proposte in campo. L’intenzione c’è e il ministro Carlo Nordio, nei giorni scorsi, l’ha ribadita: le norme sulle intercettazioni vanno modificate. E così, mentre la Commissione Giustizia al Senato avvia un’indagine conoscitiva sul tema, deputati e senatori depositano le prime proposte di legge. A partire da quella del forzista Pierantonio Zanettin, intenzionato a vietare l’utilizzo dei trojan nel contrasto ai reati contro la pubblica amministrazione e cancellare, dunque, definitivamente la norma Bonafede. Ma spulciando le banche dati di Palazzo Madama e Montecitorio sono diverse le idee messe in campo dai partiti. Specie per quanto riguarda la battaglia contro la gogna mediatica, come dimostra la proposta di Tommaso Calderone, deputato di Forza Italia che vuole introdurre l’articolo 379-ter e abrogare il 684 del codice penale, in materia di rivelazione di atti di indagine non coperti da segreto. Il nuovo articolo andrebbe a collocarsi dopo il 379 bis, che disciplina la rivelazione di segreti inerenti a un procedimento penale, inasprendo, dunque, l’attuale norma, che punisce con l’arresto fino a trenta giorni o con l’ammenda da 51 a 258 euro chiunque pubblichi, in tutto o in parte, anche per riassunto, atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata per legge la pubblicazione. “A ogni indagine, per ogni arresto, per ogni incriminazione, si assiste, in tempo reale, alla illegittima pubblicazione di ogni tipo di atto di indagine - ha scritto nei giorni scorsi Calderone sul proprio profilo Facebook. Dichiarazioni testimoniali, conversazioni intercettate, propalazioni di pentiti. Il mostro sbattuto in prima pagina e pubblicazione immediata di atti di indagine. Addirittura conversazioni tra presenti. Va, ovviamente, pubblicata la notizia ma pochi sanno che gli atti di indagine non si possono pubblicare, almeno fino a un certo momento. Il paradosso è che la legge vieta la pubblicazione, anche a stralcio, di atti di indagine fino alla udienza preliminare. L’ulteriore paradosso - ha aggiunto - è che si viola la norma processuale (articolo 114 comma 2 c.p.p.) tutti i santi giorni e il legislatore (ma anche le autorità) non è mai intervenuto”. Da qui la proposta, che mira a sanzionare la violazione di tali norme: “Gli atti di indagine, anche parziali, non possono essere pubblicati - ha concluso il deputato. Il cittadino imputato non è un cane da bastonare”. Un punto sul quale si concentra anche la proposta del forzista Pietro Pittalis, che riprende quella presentata lo scorso anno a prima firma Catello Vitiello (IV) e che introduce nuove fattispecie criminose, come la “rivelazione e pubblicazione delle conversazioni e delle immagini intercettate” (art. 326-bis c.p.). Sul fronte processuale, la norma interverrebbe proprio sull’articolo 114 cpp per circoscrivere meglio il divieto di pubblicazione degli atti, specie in materia di intercettazioni telefoniche e provvedimenti cautelari. La nuova norma vieterebbe la pubblicazione, anche parziale o riassuntiva, degli atti contenuti nel fascicolo del pm o delle investigazioni difensive, anche se non più coperti dal segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare. Stesso principio valido per le intercettazioni. Sul punto il deputato di Azione Enrico Costa ha presentato una proposta complementare, che prevede modifiche all’articolo 114 del codice di procedura penale, in materia di pubblicazione delle ordinanze che dispongono misure cautelari. Ma non solo: il vicesegretario di Azione punta anche a rendere più concreta la direttiva sulla presunzione d’innocenza, proponendo una modifica al codice di protezione dei dati personali, nonché al decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106, in materia di garanzia del rispetto della presunzione di innocenza in relazione alla diffusione di informazioni su procedimenti penali. Secondo Costa, “lo Stato deve svolgere le indagini con mezzi e risorse adeguate, ma deve anche garantire che quando una persona entra nel tritacarne dell’indagine e ne esce da innocente, deve essere la stessa persona che ne è entrata”. Da qui l’idea di istituire il “Garante della Presunzione d’innocenza” per “ristabilire l’ordine laddove c’è stato uno sbilanciamento tra quanto emerso nelle notizie delle indagini e l’effettiva assoluzione al termine del processo”. Le proposte di Calderone riguardano anche l’articolo 192 del codice di procedura penale, in materia di valutazione degli elementi di prova desunti da intercettazioni di conversazioni tra soggetti diversi dall’indagato, e l’articolo 375 del codice penale, in materia di omessa trascrizione di intercettazioni di contenuto favorevole all’indagato. “Per attribuire valore probatorio pieno a una conversazione intercettata a cui non partecipa l’accusato sono necessari, per legge, altri riscontri probatori - ha dichiarato a IlSicilia.it -. È inaccettabile che un cittadino può essere perfino arrestato sul contenuto di una conversazione intrattenuta da due o più soggetti estranei. Io propongo che la conversazione abbia un valore probatorio affievolito e necessiti di ulteriori riscontri. Non mero potere discrezionale di valutazione da parte dei magistrati della conversazione ma necessità di riscontro per legge”. Per quanto riguarda le trascrizioni, invece, “il pubblico ufficiale che ascoltando una conversazione di segno favorevole all’indagato non la trascrive dovrà rispondere, con una fattispecie tipica, ai rigori della legge penale. Se c’è una frase positiva deve essere trascritta. Le garanzie del cittadino imputato in uno Stato di diritto vanno salvaguardate”. Porte girevoli? Fermiamo quelle fra magistratura e apparati statali di Guido Camera* Il Dubbio, 27 dicembre 2022 Senza indipendenza della magistratura non c’è Stato di diritto. Parliamo di uno dei valori costituzionali fondamentali, la cui concreta attuazione è garanzia di primaria importanza per la convivenza sociale e lo sviluppo civile ed economico. Le lesioni al principio costituzionale dell’indipendenza della magistratura sono di varia natura e determinano un’assenza di indipendenza di giudizio nell’esercizio della giurisdizione che è troppo diffusa. Sino a oggi, si è fatto troppo poco per contrastare le patologie del sistema. Deve essere perciò materia di grande attenzione, soprattutto da parte dell’avvocatura, alla quale poi tocca, nella quotidianità, l’effettiva tutela dei diritti dei cittadini e delle loro garanzie costituzionali. Il dibattito pubblico che si è sviluppato nella scorsa legislatura sul tema - che ha prodotto la legge delega n. 71/ 2022 di riforma dell’ordinamento giudiziario, la cui attuazione è uno dei compiti del governo Meloni - si è concentrato sulle “porte girevoli” tra magistratura e politica. È il retaggio culturale della stagione di Tangentopoli, la cui narrazione ha circoscritto il problema dell’indipendenza al conflitto tra poteri e alla giurisdizione penale. Ma il problema è molto più ampio, e trova una delle sue manifestazioni più gravi nel fenomeno dei cosiddetti “magistrati fuori ruolo”, che riguarda l’intero ordine giudiziario. Le sue ricadute negative sono duplici. Da una parte si sottraggono risorse fondamentali alla giurisdizione nella gestione dei carichi di lavoro; dall’altra, si minano i princìpi costituzionali di terzietà e indipendenza del giudice, che rischiano di essere indeboliti dalle porte girevoli con la Pubblica amministrazione non elettiva ancor di più rispetto alle più conosciute, e generalmente oramai stigmatizzate, porte girevoli con la politica elettiva. Il pericolo, molto concreto, è che si radichi irreversibilmente un corto circuito rispetto al principio di separazione dei poteri: i giudici dell’azione dell’Amministrazione si spostano ai vertici degli apparati di governo e del potere legislativo - che, come tutti sanno, è ormai quasi soltanto di iniziativa governativa - apparentemente per garantire la qualità degli atti normativi, regolamentari o amministrativi. In tal modo, tuttavia, i giudici distaccati scrivono le leggi che sono poi chiamati ad applicare, e possono assicurare alla loro azione amministrativa una sorta di vaglio preventivo di benevolenza da parte dell’apparato giudiziario, formato da colleghi. La legge n. 71/ 022, per quanto ancor troppo timidamente, va nella giusta direzione: in particolare, l’articolo 5 contiene la delega al governo a ridurre il numero dei magistrati fuori ruolo, sia in termini assoluti, sia in relazione alle diverse tipologie di incarico. In attesa di comprendere come il governo Meloni intenda attuare la delega, si è recentemente verificato un fatto grave. Il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa ha infatti deciso di autorizzare il collocamento fuori ruolo di magistrati amministrativi in violazione del limite massimo di dieci anni stabilito dalla legge n. 190/ 2012 (legge Anticorruzione). È stata invocata una pretesa “situazione di complessità del quadro normativo” determinata dalla previsione della delega conferita al governo dalla legge n. 71/2022. È però palese che la delega non ha in alcun modo inciso sull’efficacia del limite dei dieci anni introdotto dalla legge n. 190/ 2012, tanto più che ai fini della delega è stata prevista anche la riduzione a sette anni del periodo complessivo massimo di fuori ruolo dei magistrati anche amministrativi. Nei provvedimenti menzionati è stata invocata una disposizione che ha ammesso, per l’attuazione del Pnrr, regole speciali per il “personale che a qualunque titolo presta servizio presso le amministrazioni titolari di interventi previsti nel Pnrr”: si tratta, come è evidente, di una disciplina indirizzata al personale amministrativo, in servizio presso le amministrazioni maggiormente coinvolte dal Pnrr, e certo non rivolta anche ai magistrati. Un magistrato, anche quando sia “fuori ruolo”, non può intendersi come identificabile quale “personale (…) in servizio presso un’amministrazione”! Egli rimane a tutti gli effetti un magistrato ed è perciò soggetto - con le eccezioni espressamente previste dalla legge - alla disciplina che deriva da tale suo stato. La questione sollevata dai provvedimenti in questione è della massima rilevanza, venendo messo in discussione uno dei principi essenziali dello Stato di diritto, cioè l’indipendenza della magistratura - di ogni ordine di magistratura. Principio che esige, come ha ricordato più volte anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, l’osservanza di canoni che assicurino anche l’apparenza di indipendenza, terzietà, imparzialità di chi è chiamato a svolgere una funzione giurisdizionale. A questi fini è fondamentale, fra l’altro, l’osservanza rigorosa dei limiti allo svolgimento, da parte dei magistrati, di attività estranee a quella giurisdizionale, in particolare per quanto concerne quelle svolte dai cosiddetti ‘ fuori ruolo’. Lo svolgimento continuato di attività del genere nuoce al prestigio del magistrato e della magistratura di cui fa parte, avvalorando l’immagine di una persona che sia non occasionalmente al servizio di apparati amministrativi e in stretto collegamento con il potere politico. Per queste ragioni, Italiastatodidiritto ha presentato una formale istanza al presidente della Repubblica - inviata in copia anche al presidente del Consiglio dei ministri - chiedendogli di intervenire, con le modalità e le forme più opportune, per caldeggiare la revisione di una posizione che offusca gravemente l’immagine della giurisdizione di fronte ai cittadini del nostro Paese. Non è tutto. In occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, è nostra intenzione organizzare una grande manifestazione, volta a spiegare pubblicamente le ragioni della nostra azione. L’attività di sostegno per i valori costituzionali della giurisdizione è un elemento fondante di qualsiasi concezione responsabile dello Stato di diritto. Perché detti valori possano trovare piena realizzazione, è indispensabile che proprio da parte dei magistrati di qualsiasi ordine, che pur con competenze diverse sono tutti chiamati a testimoniare di fronte ai cittadini il rispetto della legge, sia necessaria una rigorosa e puntuale osservanza delle regole stabilite dal legislatore per l’esercizio della loro funzione. Perché questa battaglia possa essere vinta, è però necessario uno sforzo importante dell’avvocatura. Per tali ragioni, chiederemo al Consiglio nazionale forense di partecipare alla nostra manifestazione con il ruolo da protagonista che gli è riconosciuto da tutte le istituzioni - e in particolare dalla magistratura - quando sono in gioco valori costituzionali di primaria rilevanza in materia di giurisdizione e diritto di difesa. *Presidente Italiastatodidiritto Minacce e querele temerarie: un anno record per i giornalisti italiani di Lucio Luca La Repubblica, 27 dicembre 2022 Minacce e querele temerarie: un anno record per i giornalisti italiani, più di 500 intimidazioni nel 2022. Il doppio di cronisti rispetto all’anno precedente, anche se le denunce sono in calo. I dati di Ossigento per l’informazione. Minacce e querele temerarie. E sullo sfondo un precariato diffuso che rende ancor più debole una professione sempre più a rischio. Il giornalismo in Italia è in crisi e le classifiche stilate ogni anno da Reporter senza frontiere e altre associazioni simili non c’entrano nulla. Per capire davvero cosa significa fare il cronista oggi nel nostro Paese bisogna leggere invece i dati raccolti ogni anno da Ossigeno per l’informazione, l’osservatorio non governativo sui giornalisti minacciati e le notizie oscurate con la violenza, e compararli con quelli del Centro di documentazione del Viminale. Si scoprirà così che nel 2022 che sta per lasciarci in Italia sono stati minacciati il doppio di giornalisti rispetto all’anno precedente. Contestualmente sono diminuite le denunce presentate alle forze dell’ordine dai minacciati ed è cresciuta la quota di querele e cause per diffamazione a mezzo stampa temerarie e strumentali. Ossigeno per l’Informazione ha presentato questa mattina gli ultimi dati del suo osservatorio sulle minacce ai giornalisti e sulle notizie oscurate con la violenza. Nei primi nove mesi del 2022 sono stati minacciati 564 giornalisti, il 100 per cento più dei 288 dello stesso periodo del 2021. In particolare sono stati rilevati 173 episodi di intimidazioni e minacce nei confronti di 564 operatori dei media (giornalisti, blogger, vide operatori), di cui il 29% è costituito da donne, colpite per il 36% da minacce gender based. È aumentata in particolare la parte di intimidazioni e minacce realizzata attraverso querele e cause per diffamazione a mezzo stampa pretestuose o infondate, frutto di una legislazione anacronistica e ingiusta, che mostrano il lato italiano di quell’ “uso scorretto del sistema giudiziario” denunciato dall’Unesco in uno studio appena pubblicato. Ma non è tutto. Intimidazioni e minacce sono aumentate in proporzione alle altre, cioè a quelle che si sono manifestate con aggressioni, avvertimenti, e altri metodi violenti. Quest’ultimo aspetto rende il quadro italiano ancor più preoccupante. Un andamento che, come detto, trova conferma nei dati pubblicati dal Centro di Osservazione del Ministero dell’Interno che tiene sotto osservazione proprio la parte violenta delle intimidazioni, quella di cui vengono a conoscenza le forze dell’ordine. Che sono inferiori rispetto al 2021 ma non perché le minacce siano diminuite ma soltanto perché quest’anno meno giornalisti hanno denunciato le minacce a loro danno. Un dato che deve far riflettere: perché i cronisti non denunciano? Paura? Hanno soltanto meno fiducia negli interventi delle autorità? O semplicemente sono più rassegnati e perciò subiscono più spesso senza reagire? “Certamente però si può dire che la diminuzione delle minacce registrate dal Viminale non è una buona notizia, non è un segnale rassicurante. È anzi un ulteriore segnale di allarme” spiega Alberto Spampinato, presidente e anima di Ossigeno per l’Informazione. “Noi ci auguriamo che l’allarme venga raccolto, che ciò spinga a capire meglio l’andamento del fenomeno e a intensificare le attività per sensibilizzare il mondo del giornalismo, le forze politiche, il Parlamento, il Governo ad adottare opportune contromisure, ognuno per la propria parte” continua Spampinato. “È triste chiudere il 2022 osservando che anche quest’anno è trascorso senza che si sia fatto alcun passo avanti. Le intimidazioni e le minacce ai giornalisti sono innegabilmente una malattia che indebolisce la libertà di informazione e danneggia la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Le malattie trascurate, non curate possono degenerare e produrre danni peggiori all’organismo. Ed è forse ciò che sta accadendo”. Padova. Lavorare in carcere onorando la Costituzione di Michele Brambilla Il Foglio, 27 dicembre 2022 L’idea di Nicola Boscoletto al Due Palazzi. Contro la politica miope, la riabilitazione. La Cooperativa Giotto dà un’occupazione a cento persone in carcere, che guadagnano e si pagano da vivere. Ma la strada è ancora lunga. All’alba del 14 giugno 1994 il boss della Mala del Brenta Felice Maniero detto “Faccia d’angelo”, allora quarantenne, evade dal carcere di Padova, passeggiando praticamente indisturbato e scortato da una decina di finti poliziotti e carabinieri. È un’evasione clamorosa perché il Due Palazzi di Padova è, o meglio dovrebbe essere, un carcere di massima sicurezza. Maniero ha corrotto un paio di guardie carcerarie, ma c’è perfino chi ipotizza - talmente grossa fu quella faccenda - la collaborazione dei servizi segreti. Per quale motivo non si sa, ma in ogni cosa che non quadra in Italia si tirano in ballo i servizi segreti. Amen. Oggi il carcere Due Palazzi di Padova è, o dovrebbe essere, quasi un carcere modello. E per merito soprattutto di un signore padovano che si chiama Nicola Boscoletto, 60 anni il prossimo febbraio. Un italiano che si è messo in testa un’idea meravigliosa: cercare di fare una cosa che dovrebbe essere normale, cioè applicare la Costituzione della Repubblica italiana, laddove al terzo comma dell’articolo 27 stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Belle parole di cui molti si riempiono la bocca ma che pochi cercano di mettere in pratica. Oggi, all’inizio di uno di quei corridoi che Maniero percorse indisturbato e protetto da chissà chi, c’è una scritta: “Fatti non foste a viver come bruti”. L’hanno fatta mettere Nicola Boscoletto e i suoi collaboratori della Cooperativa Giotto, di cui Boscoletto è presidente. L’hanno fatta mettere per smentire quell’altra scritta (non realmente esposta, ma reale nei fatti) che sta invece all’ingresso di ogni carcere italiano: “Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”. Nelle carceri del nostro paese, infatti, tutto è organizzato affinché il detenuto lasci ogni speranza, e marcisca in cella. Nella quale sta rinchiuso 22 ore al giorno. Due sole sono le ore d’aria: passate in cortili spesso di pochi metri quadrati. Anche i pasti vengono consumati in cella: non pensate alle tavolate in cui i detenuti mangiano tutti insieme, è roba da film americani, non da prigioni italiane (a Padova, invece, alcuni mangiano davvero tutti insieme, per merito appunto di Boscoletto e i suoi: ma questo lo spiegheremo più avanti). In alcune carceri - è vero - si organizzano lodevoli iniziative per alleviare le pene, e quando diciamo pene parliamo delle pene accessorie, supplementari, vendicative e spesso sadiche che subiscono i detenuti italiani: e cioè appunto le condizioni di vita in cella. Troppo spesso si dimentica, infatti - e sia detto a scanso di equivoche accuse di buonismo nei confronti di chi scrive - che chi commette un reato certo che deve pagare, certo che deve essere punito, ma la punizione consiste già nella privazione della libertà. Star chiusi dentro è già una pena. Star chiusi “come bruti” è invece un qualcosa che incattivisce e che fa male a tutti, non solo ai detenuti. Dunque dicevamo che in alcune carceri, è vero, si organizza qualcosa di lodevole e bello: spettacoli teatrali, campionati di calcio, laboratori artigianali. Buone cose. Ma l’idea che si è messo in testa (e ha realizzato) Boscoletto è una storia molto diversa. Far lavorare i detenuti in carcere. Farli lavorare davvero: non far fare loro quei lavoretti tipo pulizie interne che, con tutto il rispetto, servono solo a far passare il tempo. Far lavorare davvero: e cioè assunti in regola da un’azienda vera, un’azienda che non fa beneficenza ma insegue giustamente un utile d’esercizio, una possibilità di stare sul mercato. Assunti in regola e quindi pagati con stipendio uguale a quello dei lavoratori “che stanno fuori”; e quindi così anche loro, i detenuti, pagano le tasse. Ma non solo: si pagano pure vitto e alloggio in carcere, e quindi per lo stato alla fine il saldo è attivo, e anche un detenuto non diventa un costo. Ma non solo: così i carcerati mandano anche dei soldi a casa e hanno modo di sentirsi utili; hanno modo di tenere, con i familiari, un rapporto quasi (quasi) “normale”. “Tutto cominciò per caso”, racconta Boscoletto, “nel 1986, quando un gruppo di neolaureati in Scienze agrarie e forestali creò la Cooperativa Giotto. Dopo un po’ prendemmo un lavoro per la manutenzione dei giardinetti interni del carcere Due Palazzi. Nel 1991 organizzammo un corso di giardinaggio per i detenuti. Nel 2001, grazie alla legge Smuraglia, avviammo la prima attività di lavoro vero all’interno del carcere: era un laboratorio in cui facevamo dei manichini di cartapesta”. E da lì tutto si è moltiplicato. Nel 2003 due cooperative per il servizio mensa. Nel 2004 la Giotto ottiene la gestione dell’erogazione dei pasti ai detenuti, e soprattutto nasce la Pasticceria Giotto, ormai celeberrima, sia perché è la più importante pasticceria italiana all’interno di un carcere, sia perché fa cose buonissimissime: del panettone, per dire, è ghiotto Papa Ratzinger. “Cominciammo così”, racconta Boscoletto, “ad attrarre aziende venete, a convincerle a portare alcuni dei loro reparti all’interno del Due Palazzi. Le Valigerie Roncato. I gioielli della Morellato. I call center. I laboratori per la digitalizzazione dei documenti cartacei. L’assemblaggio di pen drive per la firma digitale. Il montaggio di biciclette per aziende come Bottecchia, Fondriest, Torpado”. E naturalmente i teorici del “bisogna buttare via la chiave” e del “devono marcire in galera” storcono il naso, dicono che i galeotti, maledetti loro, portano via il posto di lavoro agli onesti, soprattutto agli italiani onesti. Ma non è così. Le sunnominate aziende non hanno tolto un solo posto di lavoro a chi sta fuori, e molte altre hanno semplicemente riportato in Italia lavorazioni che avevano “delocalizzato”, come si usava dire, soprattutto nei paesi dell’est Europa. E badate che tutto questo non è fatto solo per astratto spirito di carità. È fatto per vero spirito di carità: il quale, per essere vero, deve - deve! - inseguire anche un profitto economico. Primo, perché altrimenti chi intraprende un’attività salta presto per aria e non può più dar lavoro a nessuno. Secondo, perché i carcerati non devono pensare che lavorano perché qualcuno ha pietà di loro: devono sentirsi utili davvero, utili e responsabili del buon andamento della propria azienda. Altrimenti che rieducazione è. E così, la Giotto oggi dà da lavorare a 620 persone, di cui 100 in carcere, 345 fuori e normodotati, gli altri fuori e “svantaggiati”. “Gli svantaggiati”, spiega Boscoletto, “sono persone con qualche handicap fisico o psichico, ma anche tanti nuovi disagiati. Vittime della pandemia; gente che ha perso il lavoro; donne che si vorrebbero separare ma non possono perché non sono economicamente autosufficienti e non hanno un’occupazione; persone che soffrono di depressione; nuovi poveri”. Ecco, la Giotto aiuta tutte queste persone che hanno bisogno facendo impresa e guardando ai conti. L’anno scorso il fatturato è stato di 13,5 milioni di euro. Ma torniamo al Due Palazzi di Padova. Oggi, fra i reparti aperti gli anni scorsi e quelli nuovi ci sono: la pasticceria Giotto e i call center per la sanità e per i servizi digitali di aziende e privati cittadini, l’assemblaggio della Valigeria Roncato, laboratori di scarpe di alta moda, fabbricazione di componenti per auto e moto (anche per la Ferrari e la Ducati) e per l’edilizia (i famosi tasselli Fischer con i quali ciascuno di noi avrà piantato qualcosa in una parete di casa). Alla Giotto si sono aggiunte, all’interno del carcere padovano, altre due cooperative, la Work Crossing e L’Altra Città. In totale, all’interno del Due Palazzi lavorano 150 detenuti. “Ma purtroppo”, dice Boscoletto, “a volte la nostra sembra una battaglia contro i mulini a vento. Dai vari ministeri e governi che si sono succeduti abbiamo avuto solo proclami, ma niente di concreto. Anzi, nel corso del tempo le cose sono peggiorate. Dieci anni fa, su 56.000 detenuti in tutta Italia, lavoravano in più di mille. Oggi, sempre su 56.000 detenuti, nelle 189 carceri italiane ce ne sono solo 6-700 con un lavoro vero. “Il fatto è che dei carcerati non importa niente a nessuno. Tutti pensano: tanto quelli sono delinquenti, ben gli sta. Non sanno che l’80 per cento dei detenuti sono persone plurisvantaggiate: per contesti familiari spaventosi, per alcolismo, per droga, per ludopatia. Almeno i due terzi dei carcerati dovrebbero stare in comunità di recupero, non in cella: dove - abbandonati a se stessi - si abbrutiscono, si ammalano, diventano farmacodipendenti. “Pochi sanno quanto davvero il carcere, rispetto a qualche tempo fa, abbia cambiato volto. Oggi, su 56.000 detenuti, 17.000 sono extracomunitari. Persone che sono riuscite a entrare in Italia vive: ma che non hanno avuto possibilità di integrazione. Moltissimi hanno patologie psichiatriche. Solo il 5 per cento era già delinquente prima di venire in Italia”. Ma appunto, la gente che sta fuori pensa che chi sta dentro è un problema che non li riguarda. “E invece li riguarda eccome. E non lo dico solo per un fatto di umanità e di responsabilità, cose che a molti non fregano nulla. Lo dico anche in termini di quella sicurezza di cui tanti politici si riempiono la bocca, invocando pene più alte (che non servono a niente) e l’esercito nelle città (idem). “Allora, cerco di spiegarmi. Il detenuto che passa gli anni a marcire in carcere, non solo non viene rieducato, ma accumula un risentimento che lo convince di non essere colpevole di quello che ha fatto, ma vittima di uno stato che lo maltratta. E così, quando esce, nessuno lo prende a lavorare, tutti lo schivano e lui, arrabbiato e disperato com’è, torna immancabilmente a delinquere. “La recidiva di chi esce dal carcere, secondo l’ultimo studio che purtroppo è di dieci anni fa, è del 70 per cento. Ma si tratta di una recidiva ufficiale, che tiene conto solo dei reati scoperti: se si calcolassero tutti i reati effettivamente compiuti, sarebbe superiore al 90 per cento. Bene: per quelli che in carcere hanno avuto e imparato un lavoro vero, e che quindi quando escono conservano il posto, la recidiva è dell’1-2 per cento. Ecco perché le condizioni di vita e di lavoro in carcere riguardano anche coloro che stanno fuori, indifferenti, ma preoccupati che non gli entri un ladro in casa. La delinquenza che li spaventa tanto va combattuta soprattutto dentro le carceri”. E tra l’altro, davvero qualcosa di straordinario accade, con il lavoro, sola cosa che può dare dignità e senso di compimento. Ho girato per i reparti del Due Palazzi, ho visto laboratori con seghe, coltelli, cacciaviti, martelli: eppure non è mai successo niente. E chi ci lavora dentro è gente che deve scontare almeno una ventina d’anni per reati come omicidi, tentati omicidi, rapine, spaccio. Ho anche pranzato, un paio di volte, con tutti questi detenuti: e davvero quando si conoscono le persone, crollano tanti nostri pregiudizi. “Eppure”, conclude Boscoletto, “da dieci anni siamo in caduta libera. Proclami, protocolli e tentate riforme che hanno prodotto solo danni. Il ministero ha approvato protocolli con le aziende per inserire diecimila detenuti nel lavoro in carcere: diecimila che sono solo virtuali. Per dire: è da cinque anni che chiediamo cento detenuti da inserire nel lavoro. Il posto per loro è pronto. Risposte? Zero”. Ed ecco perché applicare un articolo della Costituzione, e cioè fare una cosa normale, diventa una sfida titanica: “Non vogliono. È un sistema fatto per alimentare se stesso. Nulla deve cambiare. In Italia ci sono 56.000 detenuti e almeno il doppio, 112.000, che parlano di detenuti nei convegni”. Perugia. Il Garante dei detenuti Caforio in visita al carcere di Capanne La Nazione, 27 dicembre 2022 Occasione di auguri ma anche per fare il focus sui problemi. All’interno 46 detenute, molte. sono mamme lontane dai figli. Nel giorno di Natale, il Garante regionale dei Detenuti Giuseppe Caforio accompagnato dal direttore Bernardina Di Mario ha portato gli auguri alla comunità carceraria di Capanne salutando il personale in servizio e i detenuti. Soffermandosi in particolare nella sezione femminile dove attualmente ci sono 46 detenute molte delle quali mamme, lontane dai propri figli. L’occasione - spiega Caforio - è stata utile per fare il punto sui “tanti problemi de mondo carcerario umbro, che oltre al sovraffollamento e alla carenza di personale, vede nelle carenze sanitarie l’aspetto più allarmante”. “La certezza e fermezza nella esecuzione delle pene - sottolinea il Garante - non deve far perdere di vista gli obblighi di assicurare dignità e i diritti costituzionali ai detenuti. Un problema tutto umbro, che rende più oneroso il lavoro della polizia penitenziaria già fortemente oberata, è il gran numero di detenuti dalla Toscana trasferiti in Umbria, che spesso presentano personalità complicate e sono forieri di tensioni e incidenti. A ciò si aggiunga la presenza di persone che hanno una manifesta incompatibilità con la detenzione in carcere che a causa di carenze strutturali vivono situazioni di grave disagio che danno luogo a fenomeni di violenza e autolesionismo. E poi rimane il grande tema del lavoro per i carcerati che costituisce la migliore forma verso la riabilitazione e sul quale c’è molto da lavorare. Nel giorno della festa della luce occorre che tutti insieme ci prodighiamo per farla intravedere in fondo al tunnel a chi ha sbagliato, sta pagando e vorrebbe ritornare a far parte della società civile. Alle Istituzioni e ad ognuno di noi - conclude Caforio - l’obbligo di non restare insensibili”. Siracusa. Più sicurezza alla Penitenziaria e dignità ai detenuti, Nicita e Spada visitano le carceri libertasicilia.it, 27 dicembre 2022 L’attuale situazione non consente il monitoraggio delle varie aree dove si trovano i detenuti e sempre più numerose sono le aggressioni a danno degli agenti della Penitenziaria. Il senatore Antonio Nicita e il deputato regionale Tiziano Spada, in queste festività natalizie, si sono recati nella casa circondariale di Cavadonna e al carcere di Brucoli per incontrare i detenuti e fare loro gli auguri. Ma la visita ha rappresentato anche l’occasione “per rilevare una serie di carenze” spiegano i due esponenti del PD. “In entrambe le strutture, per esempio - ancora Nicita e Spada - si registrano delle difficoltà legate alla mancanza di personale, soprattutto tra gli agenti di polizia penitenziaria ai quali non viene garantita la sicurezza. Questa situazione non consente infatti il monitoraggio delle varie aree dove si trovano i detenuti e sempre più numerose sono le aggressioni a danno di tali operatori. Non meno importante l’assenza della consulenza psicologica che dovrebbe essere fornita dall’Asp. Ma è a Brucoli che si registra la situazione peggiore perché a queste criticità si aggiunge una struttura vecchia, anzi che sta letteralmente cadendo a pezzi, con aree interdette e padiglioni che hanno docce comuni e non autonome all’interno delle celle, come previsto dalla normativa”. “Perciò - concludono il senatore e il deputato regionale del Pd - stiamo preparando una serie di interrogazioni sull’argomento e cercando di immaginare un percorso che possa portare alla soluzione di queste problematiche per garantire maggiore sicurezza agli agenti di polizia penitenziaria e condizioni di vita dignitose ai detenuti”. Bari. Si alza il sipario nel carcere: l’attore Nicola Pignataro recita per i detenuti baritoday.it, 27 dicembre 2022 Il popolare comico barese sarà in scena, il prossimo 28 dicembre, nella casa circondariale del capoluogo pugliese con lo spettacolo ‘Scorze e middiche’. L’iniziativa rientra nel progetto ‘Laboratorio Teatrale Urbano’ per favorire il riscatto personale e avviare percorsi di reinserimento. Dopo il primo spettacolo andato in scena il 14 dicembre, l’attore barese Nicola Pignataro tornerà nella Casa Circondariale di Bari il 28 dicembre alle 14.30 con ‘Scorze e middiche’. L’iniziativa, che rientra nelle attività del ‘Laboratorio Teatrale Urbano’, è realizzata dal Teatro Pubblico Pugliese in collaborazione con il carcere del capoluogo. L’evento mette al centro l’arte e la cultura per favorire il riscatto personale e avviare percorsi di reinserimento del detenuto nel mondo esterno.  La Casa Circondariale di Bari ha fortemente sostenuto l’attuazione del progetto che porta il teatro in carcere, attraverso la visione di spettacoli, un percorso laboratoriale e la partecipazione di alcuni detenuti alla Stagione del Teatro Piccinni.  A partire dal 25 gennaio e poi dal primo marzo, per cinque incontri, si terrà anche il Laboratorio ’Il teatro che ripara, il teatro che è riparo’, un progetto di formazione e accompagnamento alla pratica e alla visione del teatro a cura di Damiano Nirchio dell’Associazione Culturale ‘Senza Piume’, in collaborazione con Coop Crisi. Il 12 gennaio, alle 19.30, alcuni detenuti assisteranno, infine, allo spettacolo ‘Azul’, scritto e diretto da Daniele Finzi Pasca, con Stefano Accorsi, in programma al Teatro Piccinni nell’ambito della stagione teatrale 2022/2023 del Comune di Bari in collaborazione con il Teatro Pubblico Pugliese. Il progetto si inserisce nell’ambito del più ampio percorso di formazione del pubblico ‘Laboratorio teatrale urbano’, rivolto agli abitanti dei quartieri Libertà, San Pio e San Paolo e agli ospiti dell’Istituto Penitenziario della città di Bari. L’iniziativa nasce allo scopo di lanciare prospettive, aprire dimensioni collettive e al contempo innovative, coinvolgendo attivamente gli abitanti di alcune zone periferiche della città con la convinzione che la cultura sia una pratica adatta a tutti, oltre lo stereotipo del teatro borghese ed elitario. In questo ambito si inserisce il progetto realizzato in collaborazione con la Casa Circondariale di Bari. Un truffatore, dunque tutti truffatori: è un rozzo sillogismo l’arma contro le Ong di Raffaele K. Salinari* Il Manifesto, 27 dicembre 2022 Diritti sotto attacco. Dall’Europa all’Asia, l’attacco frontale al mondo delle organizzazioni della società civile che in tutto il mondo coinvolgono milioni di attivisti è la cifra costitutiva delle politiche che vedono nella libera espressione organizzata dei cittadini la minaccia più radicale al potere repressivo. Uno spettro si aggira per il mondo: è quello delle Ong. È un fantasma che fa paura a molti, sia ai governi di destra europei, incluso quello italiano, sia alle dittature di ogni tipo, da quella degli autocrati dell’est sino alle teocrazie mediorientali di Iran e Afghanistan. Un evidente filo rosso lega tra loro i fenomeni di crescente intolleranza verso queste organizzazioni e il protagonismo di chi, come le donne iraniane ed afgane, incarna letteralmente gli stessi valori esponendo il proprio corpo al sacrificio della vita. L’attacco frontale al mondo delle Ong, quelle organizzazioni della società civile che, a migliaia e in tutto il mondo, coinvolgono milioni di attivisti sui temi che vanno dalla difesa dell’ambiente a quella del diritto a migrare, dalla necessità di un’informazione trasparente alla salvaguardia della salute nei paesi impoveriti, è dunque la cifra costitutiva delle politiche che vedono nella libera espressione organizzata dei cittadini la minaccia più radicale al loro potere repressivo. Come nella nota pratica della propaganda nazista che teorizzava la “merda nel ventilatore”, ecco allora che una sigla che include un ambito vastissimo di entità, viene fatta coincidere tout court con alcuni casi di corruzione, come il Qatargate, o utilizzata per reprimere ulteriormente le donne afghane che da qualche giorno non possono più lavorare per le tante Ong che cercano ancora di sostenere i processi di autodeterminazione di quel popolo. Queste coincidenze temporali tra scenari apparentemente diversi e lontani tra loro, dovrebbero allora far riflettere chi ha a cuore la democrazia come forma di governo che si nutre soprattutto della partecipazione e dell’impegno civile in quanto le Ong, in tutto il mondo, ne sono l’espressione più fondante, poiché rappresentano la modalità di auto-organizzazione che liberamente viene scelta dai cittadini per esprimere la loro necessità di cambiamento dal basso. Abbiamo assistito in queste settimane ad attacchi rabbiosi, forsennati, al mondo del non governativo, attacchi di chi sa bene che minare con calunnie la credibilità di tante organizzazioni del Terzo Settore, significa rimettere in discussione ambiti di critica costruttiva ad un sistema che produce iniquità crescenti, in Europa come nel resto del mondo. Il falso sillogismo: una Ong è divenuta strumento di truffa, dunque tutte le Ong lo sono potenzialmente, è talmente rozzo che solo una colpevole, e dunque ancora più preoccupante, mancanza di attenzione da parte dell’informazione corretta può lasciarlo circolare senza interrogare direttamente i soggetti e i loro fatti. Basterebbe invece, con un minimo di onestà intellettuale, ascoltare la voce di quanti, ogni giorno, ricevono un sostegno concreto ai diritti fondamentali da queste organizzazioni che lavorano al loro fianco, nei campi profughi, nelle baraccopoli africane, nelle crisi alimentari che colpiscono milioni di persone o, semplicemente, andare ad interrogare i bambini di una scuola nelle periferie di Napoli o Palermo, per capire il valore universale di queste associazioni. La maggior parte delle Ong, inoltre, si finanzia con fondi che derivano direttamente dai cittadini e questo significa essere pienamente responsabili verso i donatori dell’utilizzo stesso di ciò che si riceve. Anche nel caso dei finanziamenti pubblici il livello di controllo è elevatissimo, cosa che ha permesso di smascherare il livello di corruzione sin nel cuore delle istituzioni comunitarie. E dunque, infangare le Ong nel loro complesso significa disprezzare e svalutare il valore di gesti semplici ma di altissima valenza civile sostenuti dalla convinzione che tutti abbiano gli stessi diritti. Ecco che il quadro si compone: le Ong rappresentano, per gli avversari dell’universalità dei Diritti Umani, della partecipazione attiva dei cittadini, del welfare mix tra pubblico e privato sociale, del rispetto degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite sottoscritti da tutte le Nazioni aderenti all’Onu, l’anello più esposto della catena, quello che si muove sul campo per dimostrare che esiste una reale percorribilità di queste istanze, e che sono i cittadini che le animano i veri protagonisti della vita democratica. *Portavoce CINI (Coordinamento Italiano Ngo Internazionali) Un anno di diritti, rivendicati e violati, in Medio Oriente e Africa del Nord di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 27 dicembre 2022 I prigionieri di coscienza egiziani, le proteste in Iran, le oltre cento uccisioni di palestinesi da parte dell’esercito israeliano e i mondiali di calcio in Qatar sono tra i principali temi, per quanto riguarda i diritti rivendicati e più spesso drammaticamente violati, di quest’anno in Medio Oriente e Africa del Nord. Di Israele ho scritto di recente, sottolineando come questo sia stato l’anno peggiore, dal 2005, per il numero di palestinesi uccisi. Un anno che si è concluso, sempre che nei prossimi giorni non accadano ulteriori fatti gravi, con l’espulsione di Salah Hammouri, che il 18 dicembre è stato imbarcato a forza su un volo diretto a Parigi. Hammouri, difensore dei diritti umani franco-palestinese, era stato già sottoposto a detenzione amministrativa solo per il suo incessante impegno nella difesa dei diritti dei palestinesi e nella denuncia del sistema di apartheid praticato dalle autorità israeliane. Il provvedimento di espulsione, che ha stabilito un pericoloso precedente, si è basato sulla norma che autorizza il ministero dell’Interno israeliano a espellere in modo permanente i “residenti” (lo status attribuito alla maggior parte dei palestinesi di Gerusalemme Est occupata) qualora rompano il vincolo di fedeltà con lo stato d’Israele: una norma palesemente contraria al diritto internazionale, giacché non si vede come un cittadino di un popolo occupato debba essere fedele alla potenza occupante. In Iran, le proteste di massa scoppiate in tutto il paese dopo la morte sotto tortura della 22enne Mahsa Amini, “colpevole” di non aver indossato correttamente il velo, stanno subendo una repressione violentissima. I morti ormai sono quasi 500 e uno su 10 era un minorenne: non solo meno che diciottenni, ma anche un bambino di due anni e una bambina di sei. Alla repressione in piazza si è affiancata da settimane quella “giudiziaria”, per mezzo di processi frettolosi e iniqui seguiti da impiccagioni, già due (il numero potrebbe essere salito al momento della pubblicazione di questo post). Tra persone condannate a morte, imputati processati per reati capitali e altri indagati per reati capitali, a rischiare l’esecuzione sono quasi una trentina di manifestanti. Gli arresti sono arrivati a quasi 20mila. Sulla sponda opposta del Golfo Persico, una settimana fa si sono conclusi i Mondiali di Qatar 2022. Terminati come erano iniziati: con una conferenza stampa del presidente della Fifa, Gianni Infantino, che ha esaltato gli organizzatori, stabilito il primato del divertimento dei tifosi sul rispetto dei diritti umani e affermato che, rispetto alla violazione di questi ultimi, non è successo praticamente niente. I lavoratori migranti cui non è successo niente, o meglio quelli sopravvissuti alla costruzione degli otto stadi, ora li stanno smontando, rimpicciolendo, trasformando in altro. Sempre a rischio di sfruttamento estremo. Le poche riforme introdotte negli ultimi anni hanno cambiato assai poco la situazione. Resta inevasa la richiesta di Amnesty International alla Fifa affinché istituisca un fondo di 440 milioni di dollari (briciole, rispetto ai sette miliardi e mezzo di ricavi dai Mondiali) per risarcire i lavoratori migranti che hanno subito violazioni dei diritti umani e le famiglie di quelli morti. A Mondiali in corso, è arrivata la risposta a una domanda che le organizzazioni per i diritti umani si facevano da anni: perché di queste cose non si è mai parlato? Risposta: perché c’erano persone, a Bruxelles, pagate per non parlarne e per promuovere una narrazione del tutto irreale della situazione dei diritti in Qatar. Chiudo questo anno e questo post (quelli precedenti sono qui) con le storie egiziane di Alaa Abd el-Fattah e di Patrick Zaki. Il “Gramsci del Cairo”, col suo ostinato sciopero della fame durato oltre 200 giorni e quello della sete di oltre 10 giorni, ha rischiato di rovinare la reputazione del presidente egiziano al-Sisi, tronfio di orgoglio per aver ospitato la Cop-27. Con le cattive, Alaa è stato costretto a interrompere lo sciopero della fame. Resta in carcere, a scontare una condanna orwelliana: cinque anni per “diffusione di notizie false”, per aver detto il vero. Altrettanto orwelliano è il processo cui è sottoposto Patrick Zaki. Lo studente dell’Università di Bologna, scarcerato poco più di un anno fa dopo 22 durissimi mesi di detenzione preventiva, è sotto processo per lo stesso “reato” di Alaa: “diffusione di notizie false” per aver denunciato la discriminazione subita dalla minoranza religiosa dei cristiani copti. A fine febbraio si terrà l’ennesima udienza, quando Patrick sarà ampiamente entrato nel terzo anno della sua odissea giudiziaria. A lui, ad Alaa, alle donne iraniane, ai prigionieri palestinesi, algerini, marocchini, tunisini, emiratini, sauditi, ai curdi, agli yemeniti, ai siriani, ai libici l’augurio di un anno opposto a quello che sta terminando. *Portavoce di Amnesty International Italia Il coraggio immenso delle donne iraniane di Dacia Maraini Corriere della Sera, 27 dicembre 2022 Vogliamo fermarci un attimo a riflettere e riconoscere che in questo momento le ragazze iraniane ci stanno dando un esempio straordinario di coraggio e idealismo? Le donne sono portate per natura alla pace e agli affetti? È una domanda a cui molti rispondono di sì, ma a me pone qualche dubbio. Due giorni fa è morta Elena Gianini Belotti, una donna dal pensiero originale, che aveva lavorato per anni al centro nascite della Montessori e aveva visto come, anche nelle migliori condizioni, una idea di distinzione dei ruoli sia determinante per la crescita e l’educazione dei piccoli della terra. Non sono gli ormoni, insomma a stabilire i compiti e le tendenze di un sesso ma è l’idea formativa che una società si designa. Fino ai tre anni, racconta Elena, i bambini si comportano nello stesso modo, dividendosi fra allegria, aggressività, tenerezze. Poi cominciano le pressioni per creare i generi: ai bambini si insegna come dirigere la propria aggressività verso i nemici e il mondo; alle bambine si insegna a rivolgere la propria aggressività contro se stesse. E se proprio vogliono ottenere attenzione e considerazione dovranno puntare sulla seduzione. È così che cominciano le discriminazioni, le competenze, che poi verranno considerate dagli stessi interessati, come parte di un destino naturale.Risultato: oggi come oggi, sempre, ripeto, per ragioni storiche e geopolitiche, scopriamo che il mondo maschile dominante non riesce a immaginare un futuro di coesistenza che non sia basato su competizione, scontro, guerra e vittoria del più potente. Eppure gli scienziati ci stanno dicendo che questo sistema patriarcale, una volta glorioso e progressivo, ha preso una strada sbagliata che sta portando il mondo all’autodistruzione. Purtroppo la voce delle donne che hanno imparato a sublimare e ragionare, suscita parecchio fastidio, perché chiede un cambiamento totale di rotta, basato sul rispetto dell’altro, sul controllo dell’aggressività, sui diritti civili, sulla creazione di ponti anziché di fossati e muri divisori. Da qui la paura dei Padri dominanti di perdere il controllo e la conseguente frenesia di punizione che si sta spargendo per tutto il mondo. Vogliamo fermarci un attimo a riflettere e riconoscere che in questo momento le ragazze iraniane ci stanno dando un esempio straordinario di coraggio e idealismo? Ci stanno dicendo che il mondo patriarcale, con la sua mania di onnipotenza è entrato in una fase di confusione. Che se si vuole uscirne bisogna cambiare passo imparando a sublimare e dare ascolto alla creatività anziché alla smania di distruzione.