La vita in carcere per un minore. Quanti sono i detenuti con meno di 18 anni di Stefano Barricelli agi.it, 26 dicembre 2022 Quasi la metà dei reclusi rientrano nella fascia dei “giovani adulti” e più della metà sono stranieri. Poche le donne, appena 10. Ma ogni giorno passano per un istituto di pena 381 ragazzi. Al 15 dicembre scorso erano 400 in Italia i detenuti negli istituti penali per i minorenni (390 uomini e 10 donne): 27 hanno tra 14 e 15 anni, 179 tra 16 e 17 anni, 135 tra 18 e 20 anni e 59 tra 21 e 24 anni; 199 sono italiani e 201 stranieri. Sono dati del ministero della Giustizia, comprendenti anche i cosiddetti “giovani adulti” - ragazzi tra i 18 e i 24 anni compiuti - la cui presenza negli istituti per minori “ha assunto nel tempo un’importanza crescente”. Il maggior numero di detenuti (50) è ospite di Nisida; 45 si trovano sia a Bologna che a Roma, 42 a Milano, 37 ad Airola (Benevento), 35 a Torino e 29 a Catania. Gli ingressi sono stati 1.459 dall’1 gennaio, 381,6 le presenze medie giornaliere. Dei 2.121 reati complessivamente contestati quest’anno ai detenuti negli istituti per minorenni, la stragrande maggioranza (il 61,2%) riguarda reati contro il patrimonio (in particolare, furti, rapine, estorsioni e ricettazione); a seguire i reati contro la persona (il 18,9%, per lo più lesioni volontarie) e quelli contro l’incolumità pubblica (7,3%). Frequenti anche le violazioni delle disposizioni in materia di sostanze stupefacenti. Sempre al 15 dicembre scorso, 21 minorenni erano presenti nelle comunità ministeriali e 908 in quelle private: complessivamente, risultano in carico agli uffici di servizio sociale per i minorenni (Issm) 14.221 ragazzi. Il fantasma delle intercettazioni: catalogo dei ministri che hanno tentato di cambiare la legge di Riccardo Lo Verso Il Foglio, 26 dicembre 2022 Non solo Nordio. Rassegna dei Guardasigilli che si sono schiantati contro il no di magistrati e giustizialisti sulla riforma per evitare lo sputtanamento. “Fusse che fusse la vorta bbona”, ripeteva Nino Manfredi. Chissà, intanto il tormentone è ripartito. Nell’agenda politica - così si dice per attribuire alla faccenda un non so che di solennità - sono rispuntate le intercettazioni. Prima o poi arriva il momento in cui ogni ministro della Giustizia che si rispetti, oggi tocca a Carlo Nordio, debba misurarsi con il più divisivo dei temi. Non c’è neanche il brivido dell’effetto sorpresa. Da vent’anni la politica parla molto e combina poco o niente. Tutti a ripetere che serve una riforma, e pure urgente, ma nessuno che finora ne sia venuto a capo. Incontri, vertici, dibattiti parlamentari si susseguono alimentando scontri fra fazioni. Immancabilmente c’è chi la butta in caciara. Guai a sollevare questioni di civiltà in un paese cresciuto con l’impronta della massima di Piercamillo Davigo secondo cui “non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti”. Chi lo ha fatto è stato a lungo tacciato di essere amico di mafiosi, lobbisti e tangentisti.  Qualcuno sul tema intercettazioni ci ha messo le mani più di altri, ma il risultato nel migliore dei casi sono state delle riforme timide. C’è un’altra certezza, tutta italiana: la magistratura, spalleggiata dai giornalisti, non è mai contenta. Vede sempre aggirarsi lo spettro dell’interferenza della politica nelle indagini, grida al complotto, mette in guardia dai favori che si stanno per fare a criminali di ogni sorta, denuncia attentati all’indipendenza delle toghe. Difficilissimo trovare una sintesi tra chi ritiene troppe le intercettazioni e chi troppo poche. Tra chi contesta (come dargli torto!) l’armamentario da gogna mediatica e chi reputa le intercettazioni un’arma indispensabile per le indagini. E si spinge fino ad autorizzarne un uso spudorato, al di là di ogni garanzia, considerando lo sputtanamento un effetto collaterale e secondario. Eppure sarebbe bastato fissare un punto: le intercettazioni penalmente irrilevanti non dovrebbero essere pubbliche. Invece no, giornalisti voraci per lettori onnivori hanno iniziato a scavare nella melma delle intercettazioni inutili, convincendo il pubblico che è lì, nella spazzatura dei brogliacci, che si nasconde la verità. Scavano con la certezza che un pubblico ministero qualcosa di suggestivo deve avere disseminato, qua e là, in migliaia di ore di trascrizioni.  Sarebbe bastato fissare un punto: le intercettazioni penalmente irrilevanti non dovrebbero essere pubbliche. Invece no, si scava nella melma. La riforma delle intercettazioni, a giudicare dal dibattito politico, è considerata una priorità. Per alcuni un’ossessione. Di sicuro è un fantasma che si aggira attorno al nuovo governo a ogni inizio di legislatura. Sia esso di centrodestra o di centrosinistra, o frutto di maggioranze contro natura. Perché allora non si riesce a risolvere la questione? Gli umori politici ondeggiano, a volte diventano schizofrenici. Non è un caso che l’attuale legge in vigore, quella del ministro Orlando modificata in chiave grillina da Bonafede, muovesse dalla sacrosanta necessità di stoppare il fango della pubblicazione di intercettazioni inutilizzabili e penalmente irrilevanti e abbia finito per dare il via libera, con la stessa riforma, ai trojan nei telefonini e alle reti a strascico sulle conversazioni degli indagati. Da garantista a forcaiola in un attimo.  Si fa sempre un gran baccano, ma in sostanza quasi niente è cambiato. Forse perché niente si vuol cambiare. Mors (intercettazione) tua, vita mea. Scoppia uno scandalo, qualcuno finisce per mesi in prima pagina, ma poi si volta pagina. Carlo Nordio, attuale Guardasigilli ed ex magistrato, ha inserito la questione nelle sue linee programmatiche. C’era da aspettarselo, visto che non sono nuove le sue posizioni. E’ stato caustico nel sostenere che la “diffusione pilotata e arbitraria di intercettazioni non è civiltà, non è libertà, ma è una porcheria e una deviazione dei principi minimi di civiltà giuridica sulla quale questo ministro è disposto a battersi fino alle dimissioni”. Da qui la necessità di una “profonda revisione” del sistema delle intercettazioni che “dovrebbero essere strumento di ricerca della prova”, ed invece “sono diventate strumento di prova e come tali, essendo state inserite nelle ordinanze di custodia cautelare, sono state divulgate nei giornali”. Bisogna arginare la valanga di “porcherie, selezionate, pilotate, diffuse secondo gli interessi di chi le diffondeva”. Le toghe rispondono preparando le barricate. Va così da sempre. Nordio si è mosso con piglio deciso. I suoi predecessori non erano stati da meno, però. Scorrendo gli almanacchi neppure gli altri ministri della Giustizia hanno difettato di buone intenzioni e discorsi dall’alto valore civico. “La gogna mediatica senza processo e senza colpevoli dal punto di vista giudiziario deve finire”, tuonava Roberto Castelli, ministro del terzo governo Berlusconi. Era il 2005 quando il leghista si diceva pronto a mettere dei paletti sull’utilizzo illecito di “una delle armi più efficaci in mano ai nemici della democrazia”. Si pensò a multe salatissime per chi divulgava le intercettazioni coperte da segreto. Idea che aveva trovato sponda anche dall’altra parte della barricata, a sinistra. Il disegno di legge approdò in Parlamento, ma poi ci furono le elezioni. E le idee cambiano in fretta, come i governi. Arrivò l’esecutivo di Romano Prodi, ministro della Giustizia Clemente Mastella dell’Udeur. Nel frattempo fra “Vallettopoli”, “Calciopoli” e scalate bancarie i giornali campavano di intercettazioni. Nel tritacarne ci finiva di tutto, anche le voci di autorevoli esponenti di sinistra, fino ad allora risparmiati, come il vice premier e ministro degli esteri Massimo D’Alema e il segretario dei Ds Piero Fassino. Nei giorni della scalata (fallita) di Unipol alla Bnl il giudice per le indagini preliminari di Milano li aveva definiti “consapevoli complici di un disegno criminoso di ampia portata”. Consapevoli, ma non indagati. Che importava. La sinistra scopriva il voyeurismo giudiziario, che toccò una delle punte più basse con la pubblicazione di un sms d’amore (sì, d’amore) di Anna Falchi a Stefano Ricucci. Era stato trascritto nell’inchiesta e travasato sui giornali. Tutto l’arco parlamentare, da destra a sinistra, si indignò. Sulla scia di questa onda emotiva nell’aprile 2007 sembravano fare sul serio. Alla Camera con 447 voti favorevoli, 7 astenuti e nessun voto contrario, fu approvato il disegno di legge Mastella sulle intercettazioni. “Un grande, esaltante momento della nostra attività parlamentare”, esultò il ministro. Che tratteggiò uno scenario apocalittico. Bisognava salvare l’Italia: “Nell’aria c’era una sorte di nube tossica e le intercettazioni illegali sono la scoria radioattiva della democrazia italiana, con questo decreto abbiamo innalzato una garitta a difesa dei valori costituzionali e per evitare forme di attentato alla democrazia”. Fra “Vallettopoli”, “Calciopoli” e scalate bancarie i giornali campavano di intercettazioni. Nel tritacarne ci finiva anche la sinistra. Il disegno di legge vietava la pubblicazione, anche parziale, degli atti di indagine contenuti nel fascicolo del pubblico ministero o delle investigazioni difensive, anche se non più coperti dal segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari. Chiunque rivelava notizie sugli atti del procedimento coperti da segreto e ne agevolava la conoscenza era punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni. Dopo il voto bulgaro alla Camera, il Partito democratico nel tragitto verso il Senato cambiò idea e l’iter si arenò. C’era da misurarsi con una nuova campagna elettorale. Il garantismo non era una buona carta da giocare. Meglio mostrarsi duri e puri. Destino volle che fosse un’inchiesta della magistratura a travolgere tutto e tutti. I media la presentarono come “Mastella connection”, una maleodorante spartizioni di nomine. La moglie del ministro, Sandra Lonardo, presidente del consiglio regionale della Campania, fu addirittura arrestata. Il ministro si dimise, contribuendo alla caduta del governo Prodi. Nove anni dopo furono tutti assolti. La gogna mediatica ha lasciato cicatrici eterne sulle vite dei protagonisti, mentre gli altri si arrogano il diritto di avere la memoria corta.  Dopo Prodi fu la volta del quarto governo Berlusconi, ministro della giustizia era Angelino Alfano. La legge che portava il suo nome fu subito catalogata come “bavaglio”. Un provvedimento teso nelle intenzioni ministeriali “a riaffermare il diritto alla privacy dei cittadini”. Per le opposizioni - la sinistra nel frattempo aveva cambiato idea - era “la morte della giustizia penale in Italia”. “Non si può intercettare tutto e sempre. Se si dice che più si intercetta più reati si scoprono - tuonava Alfano - allora intercettiamo tutti gli italiani 24 ore su 24. Così scopriremo certamente tanti reati, ma avremo uno stato di polizia”. Alfano prevedeva l’impossibilità di pubblicare, tranne per riassunto, anche atti non coperti più dal segreto istruttorio fino al termine delle indagini preliminari. Divieto assoluto per le intercettazioni. Era davvero troppo per non scatenare reazioni avverse. Mancava di continenza, come quando invece di richiamare i giornalisti al rispetto delle regole, evitando di pubblicare i rigurgiti gossippari delle intercettazioni buone solo nella misura in cui vi incappa qualche politico, si è ventilata l’ipotesi di arrestare i cronisti. Eccessi di un dibattito poco sereno.  Il tentato divieto assoluto di pubblicazione di Alfano mancava di continenza, come quando si è ventilata l’ipotesi di arrestare i cronisti - Dopo una prima approvazione alla Camera e un passaggio al Senato, il ddl Alfano sparì dai radar dopo che il capo dello stato, Giorgio Napolitano, lo aveva stoppato. Anni dopo lo stesso Alfano avrebbe provato sulla sua pelle, nel bene e nel male, la forza delle intercettazioni. Le definì “barbarie illegale” quando fu trascinato nell’inchiesta romana sulla cricca dei raccomandati assunti in Poste italiane. Era il 2016 e Alfano faceva il ministro dell’interno nel governo di Matteo Renzi (allora Pd), entrando in una maggioranza di centrosinistra con il suo partito, Ncd (Nuovo centro destra). Una contraddizione in termini. Sempre da ministro dell’Interno (Alfano è il più longevo della storia della Repubblica, 1.836 giorni consecutivi alla guida di un dicastero), Alfano incassò la solidarietà quando i boss della provincia di Palermo lo minacciarono di morte. Per la verità straparlavano rabbiosi, immaginando di fargli fare la stessa fine di Kennedy perché “è un cane per tutti i carcerati”. La minaccia era poco credibile, ma era pur sempre una minaccia e il circo mediatico si attivò con i colleghi che facevano la fila per mostrare vicinanza ad Alfano.  Alcuni ministri sono stati impalpabili sul tema intercettazioni. Le crisi di governo non hanno lasciato spazio e tempo per agire a Nitto Palma, Paola Severino, Anna Maria Cancelleri. Diverso il discorso per Andrea Orlando, guardasigilli del governo Gentiloni, la cui riforma, seppure stravolta nella sua iniziale idea, è ancora in vigore. Usò una frase ad effetto per rendere l’idea: “Bisogna evitare un Grande fratello permanente. L’Italia è l’unico paese al mondo in cui le intercettazioni telefoniche finiscono sui giornali con tanta facilità, ma la Costituzione non prevede questo strumento come supplemento dell’attività di cronaca”. La sua riforma, varata nel 2017, prevedeva una “selezione” delle intercettazioni “non penalmente rilevanti”, da conservare in un archivio digitale. Forse era un buon compromesso fra la tutela della privacy e le esigenze investigative. Si metteva quantomeno un filtro tra le intercettazioni usate per indagare e quelle usate per altri fini che hanno nulla a che fare con la giustizia. Il ministro Orlando: “Bisogna evitare un Grande fratello permanente”. Poi sono arrivati Bonafede e i trojan nei telefonini - La riforma restò in attesa, fin quando non comparve sulla scena il neo ministro Alfonso Bonafede del governo gialloverde (Movimento 5 stelle - Lega). Il giustizialismo al potere, l’incarnazione politica del partito delle Procure si ritrovava a dare le carte. Ed ecco lo stop alla riforma Orlando. “Impediamo che venga messo il bavaglio all’informazione” perché - disse Bonafede - “la riforma Orlando era stata scritta con l’intento di impedire ai cittadini di ascoltare le parole dei politici indagati”. Ci andò giù durissimo. Nel mirino finirono soprattutto quelli del Pd. Ogni riforma del passato era coincisa con uno “scandalo” e l’ultima, così disse, è stata fatta “in concomitanza col caso Consip”. “Ogni volta che qualcuno del Pd veniva ascoltato, qualcuno del Pd tendeva a tagliare la linea”, accusò Bonafede. Dopo tre anni di rinvii la riforma Orlando, sospesa e modificata da Bonafede, entrò in vigore nel 2020. Era nata con l’obiettivo di tutelare la privacy e la dignità delle persone coinvolte in procedimenti giudiziari, limitando la pubblicazione sui giornali di intercettazioni penalmente irrilevanti, e finì per dare il via libera all’utilizzo del trojan. Il furore giustizialista grillino aveva cambiato la sostanza delle cose. Nel frattempo il governo non era più gialloverde, ma giallorosso. Era uscita la Lega e accanto al M5s c’era il Pd. Sì, gli stessi che secondo Bonafade pur di non essere intercettati “tagliavano la linea”. Ma la politica si sa è compromesso. La norma prevede che sia il pubblico ministero a vigilare affinché nei verbali non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o dati personali sensibili. A meno che non si tratti di “intercettazioni rilevanti ai fini delle indagini”. Chi lo decide? Sempre il pubblico ministero, alla cui professionalità non resta che appellarsi. D’altra parte l’Italia è un paese dove sono stati pubblicati atti mai resi noti alle parti. L’epopea delle intercettazioni va avanti. Nordio ha detto la sua, l’Associazione nazionale magistrati lo ha attaccato. Maggioranza e opposizione si scontreranno. Tutto secondo copione. Il tormentone è ripartito. Spie e server occulti, i misteri mai risolti del caso Palamara di Simona Musco e Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 26 dicembre 2022 Da due anni sono ancora fermi al palo i fascicoli relativi alle violazioni del segreto nei procedimenti sull’ex capo dell’Anm. Né sono mai state chiarite le anomalie sugli ascolti. Ci sono state delle violazioni di legge nella gestione delle intercettazioni, telefoniche e a mezzo trojan, nel Palamaragate? E, soprattutto, che fine ha fatto l’indagine sulla fuga di notizie che caratterizzò la prima fase dell’inchiesta a maggio del 2019 e poi denunciata dal diretto interessato? Nell’intervista rilasciata al Dubbio, il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia ha criticato fermamente le dichiarazioni rilasciate dal ministro della Giustizia Carlo Nordio a proposto delle “illegalità” commesse nell’indagine della Procura di Perugia nei confronti di Luca Palamara, riprendendo l’argomento già speso dal vicedirettore del Domani Emiliano Fittipaldi secondo il quale, prima dell’entrata in vigore della legge Orlando, le intercettazioni erano liberamente divulgabili. Santalucia, in particolare, ha affermato che le “cose non stanno” come le rappresenta Nordio perché “le intercettazioni di quel fascicolo erano regolate dalla legge precedente alla Orlando” ed inoltre “non è poi vero che le intercettazioni non siano state depositate a favore della difesa e che non si sia proceduto alla loro trascrizione nelle forme della perizia in contraddittorio con la difesa” pur premettendo di “non avere il fascicolo in mano”. Sul punto vale la pena ricordare che il giudice per le indagini preliminari di Firenze Sara Farini, con un provvedimento del 27 gennaio 2021, quindi successivo all’entrata in vigore della legge Orlando, a proposito della divulgazione degli atti dell’indagine perugina del 29 maggio 2019, ha testualmente affermato che “sussiste senza dubbio il fumus commissi delicti del reato in iscrizione, considerata la circostanza - non controversa alla luce della documentazione prodotta dal denunciante e dalla scansione temporale dei fatti riferita in querela - della pubblicazione su varie testate giornalistiche di notizie ancora coperte da segreto investigativo. Appare dunque configurabile la fattispecie di cui all’art. 326 c. p.: vi è stata una condotta di illecita rivelazione di dette notizie da parte di un pubblico ufficiale, allo stato non identificato, che, avvalendosi illegittimamente di notizie non comunicabili in quanto coperte dal segreto investigativo, riferibili ad atti depositati presso la Procura della Repubblica di Perugia, le ha indebitamente propalate all’esterno”. A proposito della condotta tenuta dalla Procura di Firenze nella persona del procuratore aggiunto Luca Turco, la medesima dottoressa Farini non ha mancato di precisare che “ad oggi non risultano infatti compiuti atti di indagine volti quantomeno a circoscrivere la platea di soggetti che possono essere venuti in contatto con le notizie segrete indebitamente propalate all’esterno della Procura della Repubblica di Perugia”. Ebbene a distanza di quasi due anni dal provvedimento della dottoressa Farini nulla si è mosso a Firenze, competente per i reati commessi dai colleghi umbri, e le richieste dei legali di Palamara cadono regolarmente nel vuoto. Anche dell’altro fascicolo, allo stato attuale, non si hanno notizie. Ovvero quello sulla presunta manomissione del trojan, denunciata da Palamara e dall’ex deputato Cosimo Ferri a Napoli e Firenze. Le ipotesi avanzate dalle due procure a carico di quattro persone sono gravi: accesso abusivo al sistema informatico, frode nelle pubbliche forniture, errore determinato dall’altrui inganno, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atto pubblico e falsa testimonianza, reati contestati, a vario titolo, ai vertici della Rcs, la società che ha noleggiato il trojan alla guardia di finanza di Roma per le indagini a carico dell’ex presidente dell’Anm. Le difese dei due ex magistrati avevano scoperto l’esistenza di un server “occulto” della Rcs collocato all’interno della Procura di Napoli. Un server non autorizzato, scoperto dopo l’ammissione dell’ingegnere della Rcs Duilio Bianchi davanti ai pm fiorentini, ai quali ha confermato che i dati del telefono di Palamara, anziché finire sul server autorizzato installato nei locali della Procura di Roma, finivano a Napoli, nella memoria di due server collocati nei locali del Centro direzionale. Bianchi, nel corso del procedimento disciplinare a carico di Palamara davanti al Csm, aveva invece negato l’esistenza di un server intermedio. Ma ad indagare è stata la difesa di Ferri, rappresentata dall’avvocato Luigi Antonio Paolo Panella, che si è rivolto a due super consulenti tecnici: l’ingegnere elettronico Paolo Reale, presidente dell’Osservatorio nazionale di informatica forense, e il dottor Fabio Milana, perito iscritto all’Albo del Tribunale di Roma. Dai dati acquisiti dalla procura di Firenze è emerso che la Rcs avrebbe utilizzato differenti architetture di sistema per le intercettazioni con il trojan disposte dalle diverse procure, ipotesi confermata dalle audizioni dei tecnici della società e dalle indagini svolte dal Centro nazionale anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche e dai carabinieri. Nel 2019 la Rcs avrebbe utilizzato un sistema fondato su tre macchine, architettura in seguito modificata con l’eliminazione di uno dei server, rimasto in funzione soltanto per consentire l’attività d’indagine di un’altra procura. Il 4 aprile del 2019, parte dei macchinari di tale sistema è stata trasferita nella sala server della procura di Napoli. Il tutto senza che lo stesso ufficio giudiziario fosse a conoscenza di nulla. Ma non solo. La Procura di Perugia ha, infatti, intercettato oltre che Palamara anche altri indagati ed in particolare gli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore. Ebbene di queste intercettazioni, soprattutto di quelle di Amara, il beneficiario della corruzione di Palamara, non si è mai saputo nulla. Il Gico della guardia di finanza, delegato alle indagini, non ha trascritto neppure una delle centinaia di telefonate fatte da Amara e i legali di Palamara non sono mai entrati in possesso dei relativi file audio sicché non hanno mai neppure avuto la possibilità di chiedere al giudice la “trascrizione nelle forme della perizia”. Tutto ciò a distanza di quasi quattro anni dallo scoppio dell’indagine e quando l’ex zar delle nomine al Csm si trova già rinviato a giudizio davanti al giudice del dibattimento. Forse Nordio - che ha annunciato l’invio degli ispettori ministeriali a Firenze dopo le denunce di Matteo Renzi - non ha proprio tutti i torti quando stigmatizza duramente la gestione di quel fascicolo…. Sospetti, tracce di dna, un identikit ritrovato. C’è una donna nel commando delle stragi del 1993 di Salvo Palazzolo e Luca Serranò La Repubblica, 26 dicembre 2022 Tutti gli indizi del mistero su cui i magistrati continuano ad indagare. L’ultima relazione della commissione parlamentare antimafia mette in evidenza un “buco” di due ore nei movimenti dei killer di mafia condannati per la strage dei Georgofili. Chi incontrarono? All’inizio, è saltato fuori un Dna femminile. Era il 2015, i magistrati di Caltanissetta avevano tirato fuori da un armadio blindato della procura una scatola con due buste sigillate da un timbro, “Gabinetto regionale di polizia scientifica di Palermo”. “Reperto 4 A” e “Reperto 4 B”: sono due guanti in lattice che il 23 maggio 1992 vennero ritrovati a 63 metri dal cratere di Capaci, assieme a una torcia e a un tubetto di mastice. Affidati a uno dei maggiori esperti del settore, Nicoletta Resta, professore associato di Genetica medica dell’Università di Bari, sono saltati fuori due profili genetici. Un Dna maschile all’interno del “Reperto 4 A”, che però non è di nessuno dei mafiosi condannati all’ergastolo. E un Dna femminile nell’altro reperto. “Forse, quei guanti erano lì per caso”, ha detto qualcuno. Forse. Ma accanto ai guanti c’era una torcia, e dentro la torcia una batteria, su cui è rimasta impressa l’impronta di Salvatore Biondo, uno degli stragisti di Falcone. All’epoca, la procura dispose subito degli accertamenti: le verifiche hanno escluso che i profili genetici appartengano a Giovanni Aiello, “Faccia da mostro”, l’ex poliziotto sospettato di essere un killer di Stato, e a una sua amica, tale Virginia, entrambi indagati dalla procura di Catania per alcuni omicidi, ma il fascicolo è stato poi archiviato per mancanza di riscontri alle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Di chi sono allora le tracce trovate dentro i reperti 4A e 4B? La consulenza tecnica della professoressa Resta è articolata e offre davvero tanti spunti di indagine. Altre tracce sono state estrapolate anche all’esterno dei guanti. E il Dna femminile è misto ad altri codici genetici. Ecco cosa è scritto nella consulenza: “I risultati mostrano chiaramente un profilo misto derivante da almeno tre individui diversi dove però la componente attribuibile ad uno o più soggetti di sesso femminile risulta essere maggiormente rappresentata”. Un bel mistero, per la scienza e per chi non ha mai smesso di indagare sui misteri delle stragi di mafia. Per certo, negli squadroni della morte di Cosa nostra non c’è mai stata una donna. Ma quella traccia di Dna femminile non è solo una suggestione. Una relazione del segretario generale del Cesis (l’organismo di coordinamento dei servizi segreti) che risale alla stagione delle bombe mafiose del 1993 esplose fra Roma, Milano e Firenze, parlava di presenze femminili. Una figura veniva segnalata in via Fauro, nello scenario del fallito attentato a Maurizio Costanzo, a Roma, il 15 maggio 1993. Nell’appunto del segretario del Cesis Giuseppe Tavormina all’allora ministro dell’Interno Nicola Mancino (protocollo numero 2119.18.3/453/4 del 6 agosto 1993) si dà atto che fra le “risultanze emerse in sede di gruppo di lavoro interforze” ci sono degli identikit “ricostruiti dalle testimonianze, che riguardano due uomini e una donna”, così è scritto. Anche nella strage di via Palestro, a Milano, del 27 luglio 1993, il Viminale registrò la presenza di una donna. Ecco il passaggio nell’appunto del Cesis, che si trova negli archivi della commissione parlamentare antimafia: “Identikit. I testimoni hanno riferito di una donna bionda sui 25 anni e di un uomo sui trent’anni. Secondo un teste la donna poteva anche portare una parrucca”. E ancora, un approfondimento: “Un uomo con i capelli lunghi, raccolti, e una donna bionda, indicati da due testimoni pochi minuti prima dell’arrivo dei vigili urbani e dei vigili del fuoco, a bordo di una Fiat Uno grigia, nello stesso luogo dove è stata posizionata l’auto per l’attentato”. Misteri su misteri. Nel 2020, da un archivio dei carabinieri di Firenze, sono riemersi l’identikit di una donna e il racconto di un testimone. “Età 25 anni, corporatura magra, capelli scuri, corti e lisci, alta circa 1,70”. Tre giorni dopo la bomba che devastò un’ala degli Uffizi e uccise cinque persone - era il 27 maggio - il portiere di un palazzo di via dei Bardi raccontò che poco prima dell’esplosione era stato svegliato dalle voci di due giovani in strada, che tentavano di aprire il portone, avevano perso una busta gialla. Da una finestra, vide una Mercedes con targa “Ro” da cui scese una donna che indossava un tailleur scuro. Poco più in là, un Fiorino bianco, come quello guidato dai boss, poi saltato in aria in via dei Georgofili. “La donna disse ai due giovani: Ci vogliamo muovere o no?”. Il verbale col “fotofit” l’ha scoperto un consulente della commissione parlamentare antimafia, Gianfranco Donadio, procuratore di Lagonegro, ex aggiunto della Direzione nazionale antimafia ai tempi di Piero Grasso. Nel 1993, il “fotofit” fu trasmesso alla procura, ma non venne mai diffuso (a differenza di altri identikit). E il testimone non fu ascoltato. Il gruppo di lavoro sulla “trattativa Stato-mafia” dell’Antimafia presieduto dal senatore Mario Giarrusso l’ha convocato e ha raccontato: “All’interno del portone, per terra, c’era anche una cartina di Firenze con due punti cerchiati in rosso”. Il portiere la spinse fuori. “Mi affacciai a una finestra, vidi i giovani che consegnavano una borsa a un uomo sceso dal Fiorino”. Sono indicazioni precise su cui lavora anche la procura di Firenze, che ha un fascicolo sulle “presenze altre” nelle stragi del 1993: oggi, il procuratore reggente Luca Turco e l’aggiunto Luca Tescaroli hanno una sospettata, è un’imprenditrice di 58 anni con precedenti per traffico di stupefacenti, nel 1993 portava i capelli biondi. Si chiama Rosa Belotti, suo marito (Rocco Di Lorenzo) è ritenuto vicino al clan camorristico dei La Torre: a marzo i carabinieri del Ros hanno perquisito la loro abitazione di Albano Sant’Alessandro, in provincia di Bergamo. Per i magistrati, lei avrebbe portato la Fiat Uno carica di esplosivo fino in via Palestro. E potrebbe avere avuto un ruolo anche a Firenze. Adesso, è indagata per concorso in strage. I magistrati hanno anche diffuso l’identikit della “biondina” realizzato nel 1993 sulla base delle indicazioni fornite dai testimoni in via Palestro, alla ricerca di nuove informazioni. Ma come sono arrivati i magistrati fino a lei? La nuova indagine è partita da una foto ritrovata dentro un’enciclopedia. Questa è una storia davvero curiosa. Il 29 settembre 1993, la polizia fa un’irruzione in una villa di Alcamo, cuore della provincia di Trapani, e scopre un arsenale, che è nella disponibilità di due carabinieri. Sono il brigadiere Fabio Bertotto, il padrone di casa, e l’appuntato Vincenzo La Colla. A far scattare la perquisizione è un ispettore del locale commissariato, Antonio Federico, che all’epoca ha una fonte davvero particolare, probabilmente è un appartenente ai Servizi: è lui a dargli indicazioni precise per ritrovare anche la foto. Ma il giorno della perquisizione, nessuno dei superiori di Federico ritiene di mettere a verbale il ritrovamento dell’immagine. E addirittura la restituisce all’ispettore. Che non ha mai smesso di farsi domande su quella vicenda. Lui ha segnalato la foto ai magistrati che indagavano sulla donna delle stragi. E dopo mesi di indagine attraverso un sofisticato software che confronta le immagini, i carabinieri del Ros hanno dato un nome alla persona ritratta nella foto: Rosa Belotti. Nel primo interrogatorio, l’imprenditrice ha ammesso di essere lei, ma non si spiega come una sua fotografia sia finita in quella villa di Alcamo. Villa di tanti misteri, su cui aleggia l’ombra di Gladio, nonostante i due carabinieri facciano di tutto, anche oggi, per passare come collezionisti vittime della vendetta di qualche collega. “Sono io in quella foto, ma non ho nulla a che fare con questa storia”, ha continuato a ripetere Rosa Belotti ai magistrati. Ha spiegato che nel 1992 era finita in carcere con il marito per un traffico di cocaina, successivamente era stata scarcerata con l’obbligo di firma, il marito era andato invece ai domiciliari. Il 27 luglio 1993, il giorno della strage di Milano, era dunque libera. “Questa storia è solo un incubo, sono tutte falsità - ha detto in un’intervista - non sono in grado di uccidere neanche una cimice. In quel periodo ero peraltro alle prese con una bimba di pochi mesi e con un’altra avuta da una precedente relazione, di sette anni”. Le indagini proseguono. Dalla perquisizione a casa Belotti, è saltata fuori anche un’altra fotografia, molto simile a quella ritrovata ad Alcamo. Le domande sono davvero tante. Per le stragi del 1993, i mafiosi pentiti che hanno collaborato con la giustizia non hanno mai parlato di presenze esterne. E solo mafiosi sono stati condannati dai giudici di Firenze. Ma, ora, la relazione della commissione antimafia solleva altri dubbi. “Abbiamo elementi di prova per sostenere che quella sera c’erano soggetti esterni a Cosa nostra”, dice senza mezzi termini l’ex senatore Giarrusso. Il gruppo di lavoro che presiedeva ha anche ascoltato nuovamente il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza. L’ex sicario del clan Graviano faceva parte del commando, assieme a Cosimo Lo Nigro e Francesco Giuliano, ma la sera della strage restò a casa, a Prato. E oggi si chiede anche lui il perché del “buco di due ore” fra la partenza dei suoi complici e l’esplosione. Cosa fecero davvero Lo Nigro e Giuliano? Chi incontrarono? La versione ufficiale, consacrata nei processi, dice che il 27 maggio, a mezzanotte, Lo Nigro e Giuliano, alla guida di un Fiorino rubato e di una Fiat Uno, andarono in via dei Georgofili. Un testimone vide parcheggiare il Fiorino alle 0,40. Parlò di un uomo, che però non corrisponde alla descrizione di Lo Nigro, indicato come il mafioso alla guida del mezzo. “Anche sulla quantità di esplosivo ci sono incongruenze”, spiega l’ex senatore Giarrusso: “Gli esperti hanno parlato di 250 chili, una quantità maggiore di quella indicata da Spatuzza”. Misteri su misteri. Sicilia. Carceri, situazione critica: dalle proteste dei detenuti alle aggressioni Giornale di Sicilia, 26 dicembre 2022 Il problema delle carceri è pronto ad esplodere da Nord a Sud. Le sette evasioni registrate il giorno di Natale a Milano sono solo la punta di un iceberg. Un gesto eclatante che dietro cela problemi atavici denunciati da chi è ed è stato detenuto e da chi lavora quotidianamente nelle carceri italiane. La protesta a Palermo - Poteste e manifestazioni, a dicembre, si sono viste anche in diversi Istituti penitenziari siciliani. All’inizio di dicembre, era stato lanciato un appello dal carcere Pagliarelli di Palermo dai detenuti che lamentano di vivere in condizioni di estrema difficoltà relativa alle pessime condizioni igienico-sanitarie in cui versa la casa circondariale. I detenuti sottolineavano che dentro l’Istituto viene meno il diritto alla salute e chiedevano ispezioni immediate per trovare una soluzione alle tante problematiche. Le strutture fatiscenti e i servizi assenti non garantiscono, secondo i detenuti, i bisogni primari. E chiedevano anche l’istituzione del garante dei detenuti a Palermo. Attualmente in Sicilia esiste soltanto un garante regionale dei diritti dei detenuti, che non può garantire ispezioni costanti in tutto il territorio. Lo striscione al Pagliarelli di Palermo - E il 7 dicembre, davanti al carcere Pagliarelli di Palermo, era apparso uno striscione in solidarietà ai detenuti e le detenute. “Se la civiltà di un paese di misura dalle condizioni delle sue carceri… l’Italia è un paese di m…a!”, stava scritto. I militanti di Antudo hanno sottolineato che “i detenuti non solo subiscono la negazione della loro libertà, vivendo in celle sovraffollate, affrontando costi elevati legati all’acquisto dei beni all’interno del carcere, ma devono fare i conti anche con condizioni sanitarie inaccettabili”. La protesta ad Acireale - Nel carcere minorile di Acireale, lo scorso 11 dicembre, due detenuti con problemi psichici hanno protestato appiccando un incendio nella cella. In pochissimi minuti, il denso fumo ha invaso l’intera Sezione, dove erano presenti altri 18 detenuti. Il tempestivo e provvidenziale intervento del personale di Polizia Penitenziaria ha impedito che si potesse verificare una tragedia. Alla fine, 5 agenti sono stati portati al Pronto Soccorso dell’Ospedale per le intossicazioni. In quell’occasione, Calogero Navarra, segretario nazionale per la Sicilia del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, aveva parlato di “tragedia sfiorata a scusa della scellerata gestione di soggetti con problematiche di carattere psichiatrico, che vengono assegnati in istituti penitenziari come quello di Acireale, una struttura totalmente inadatta a contenere simili tipologie di detenuti”. La protesta ad Enna - Altra protesta eclatante, ma a luglio scorso, nel carcere di Enna dove per due ore, di sera, i detenuti hanno battuto a lungo le sbarre delle celle. Il motivo, la mancanza di acqua calda per la doccia, a causa del guasto di una caldaia. Carabinieri e polizia avevano deciso così di cinturare la casa circondariale impedendo il transito a ridosso delle mura. La protesta è cessata poco prima di mezzanotte. Il problema carceri in Sicilia - In tutta Italia, il primo problema è rappresentato dal sovraffollamento delle carceri. In Sicilia sono presenti 23 strutture penitenziarie, ma molte ospitano un numero di reclusi superiore alla capienza regolare: secondo gli ultimi dati, nelle carceri siciliane, alla data del 30 settembre erano presenti 6.018 reclusi a fronte di una capienza di 6.454. Un esempio su tutti, venuto alle cronache: nella struttura di Piazza Lanza, a Catania, alcuni anni fa, in una cella di circa 20 metri quadrati c’erano dalle otto alle dieci persone. Sul sovraffollamento, però, c’è una discussione aperta perchè secondo il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sono regolari tre metri quadrati per ciascun detenuto, mentre la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo emessa contro l’Italia nel 2009, parla di sette metri quadrati. Altro problema che viene lamentato è la qualità del trattamento risocializzante con la carenza di educatori e di psicologi. Agenti aggrediti e suicidi di detenuti - A questi due problemi si aggiunge la carenza di personale nelle strutture, lamentato dai vertici della polizia penitenziaria e dai sindacati. Tutto ciò è gravato, da un alto dalle tante aggressioni di agenti penitenziari da parte di detenuti e dall’altro, dal numero di suicidi di reclusi in cella: 70 al momento in tutta Italia, di cui 10 in Sicilia. Tanti, troppi per un Paese dove il detenuto andrebbe rieducato e messo nelle condizioni di vivere la sua reclusione dignitosamente. Da Augusta a Caltagirone, da Trapani a Enna: quest’anno sono state tantissime le aggressioni alle forze dell’ordine. A Trapani nello scorso mese di ottobre, un detenuto ha minacciato il personale di polizia con un bastone per poi scagliarsi con violenza contro alcuni agenti intervenuti per riportare all’ordine la situazione. Scene simili anche in altre carceri siciliane con le forze dell’ordine obbligate a ricorrere alle cure mediche e al ricovero in ospedale. Milano. Sette giovani detenuti sono evasi dall’Ipm Beccaria. Due già ripresi ansa.it, 26 dicembre 2022 I fuggiaschi avrebbero approfittato dei lavori in corso, che perdurano da svariato tempo, per aprirsi un varco nella recinzione e poi scavalcare il muro di cinta Sono quattro gli agenti di Polizia penitenziaria portati in ospedale dopo essere rimasti intossicati ieri sera dal fumo causato dalle fiamme appiccate nelle celle da alcuni detenuti dell’istituto minorile Beccaria di Milano, dopo che sette reclusi erano scappati. Due dei fuggiaschi sono stati già presi. Gli agenti hanno 25, 26, 27 e 34 anni e sono tutti stati portati tutti all’ospedale San Carlo, nessuno in condizioni gravi. Il 118 ha mandato sul posto cinque ambulanze e altri due mezzi. Intanto è tornata la calma in via Calchi Taeggi e nelle strade intorno al carcere minorile “Cesare Beccaria” di Milano. Adesso ci sono solo pattuglie delle forze dell’ordine che presiedono l’area e che non consentono l’accesso a nessuno. Il fuoco appiccato in alcune celle è stato spento dai vigili del fuoco. Nella serata di ieri i fuggiaschi avrebbero approfittato dei lavori in corso, che perdurano da svariato tempo, per aprirsi un varco nella recinzione e poi scavalcare il muro di cinta. Restano comunque da approfondire circostanze ed eventuali responsabilità dietro la fuga dei 7 giovani nel giorno di Natale. Saranno inviati anche atti alla Procura di Milano. Sindacato Sappe, al Beccaria un’evasione annunciata - L’evasione è in realtà un’ “evasione annunciata”, ha scritto in una nota diffusa in serata il Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe). “Adesso è prioritario catturare gli evasi - afferma il Sappe - ma la grave vicenda porta alla luce le priorità della sicurezza (spesso trascurate) con cui quotidianamente hanno a che fare le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria del Beccaria”. “Da troppo tempo arrivano segnali preoccupanti dall’universo penitenziario minorile”, denuncia il Sappe. “Beccaria, Casal del Marmo a Roma, Nisida, Bologna, Airola... abbiamo registrato e registriamo, infatti, con preoccupante frequenza e cadenza, il ripetersi di gravi eventi critici negli istituti penitenziari per minori d’Italia. È da sottolineare, infatti, che nell’ultimo periodo diversi detenuti delle carceri minorili provocano i poliziotti penitenziari, creando sempre situazioni di grande tensione”. “I vari Governi che si sono alternati negli anni - conclude il Sappe - anziché adottare provvedimenti che garantiscono ordine e sicurezza nelle carceri, hanno dato corso ad una riforma penitenziaria che ha minato proprio la natura stessa di pena e carcere, affidando il carcere ai detenuti e depotenziando anche il ruolo della Polizia Penitenziaria. E questo è grave e inaccettabile”. Uspp, tutti allertati dopo maxi evasione al Beccaria - “Allertato tutto il personale di Polizia Penitenziaria, anche fuori servizio, nonché le altre Forze di Polizia” per l’evasione di 7 persone dal carcere minorile ‘Cesare Beccaria’ di Milano. A darne notizia è l’Uspp (Unione Sindacati Polizia Penitenziaria) della Lombardia. “Non sappiamo ancora - afferma Uspp - se possano esserci responsabilità organizzative o professionali del Reparto o deficit strutturali che hanno indebolito i sistemi di sicurezza, ma possiamo affermare che l’evasione è eclatante. Sette soggetti insieme è un evento che probabilmente non ha precedenti. Ennesimo brutto segnale di un sistema penitenziario da ricostruire, perché ormai al collasso sotto tutti i punti di vista”. “Se l’Amministrazione non intraprende una rifondazione organizzativa dei Reparti e la politica non mette seriamente mani al sistema penitenziario - conclude Uspp - si rischia che notizie come quelle del Beccaria di Milano possano registrarsi all’ordine del giorno”. Milano. Celle e materassi incendiati nel carcere minorile Beccaria: agenti e detenuti intossicati agi.it, 26 dicembre 2022 Alcuni agenti della Polizia penitenziaria sono rimasti intossicati dal fumo causato dal fuoco appiccato nelle celle da alcuni detenuti all’interno del carcere minorile Beccaria di Milano da dove nel pomeriggio sono evasi sette reclusi, due dei quali già presi. Secondo il segretario generale del sindacato Sappe, Donato Capece, sarebbero diversi gli agenti e i detenuti in prenda a convulsioni e vomito per aver respirato il fumo dei materassi incendiati. Capece ha poi ricordato che tutti gli agenti reperibili sono tornati in servizio al Beccaria in queste ore di alta tensione e che sul posto ci sono vigili del fuoco, forze dell’ordine e i soccorritori del 118. Dopo la clamorosa evasione di sette detenuti (4 minorenni e 3 maggiorenni) dal carcere minorile Beccaria di Milano, è in atto una violenta protesta nella struttura. “Alcuni degli altri detenuti hanno dato fuoco alle celle, un Reparto detentivo è inagibile e senza luce. Sul posto sono presenti vigili del fuoco ed altre forze di Polizia a supporto della Penitenziaria”, denuncia in una nota Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. “Diversi Agenti di Polizia Penitenziaria sono rimasti intossicati e la situazione è ad altissima tensione”. Sarebbe comunque sotto controllo l’incendio scoppiato in serata in alcune celle. Lo confermano all’AGI fonti sindacali della polizia penitenziaria. Delle cinque squadre dei vigili del fuoco intervenute in serata, ne è rimasta soltanto una all’interno del carcere. Disordini e principio di incendio sarebbero dunque sotto controllo di vigili e polizia penitenziaria (quasi tutti gli agenti sono stati richiamati in servizio dalla direzione, dopo l’evasione). Dei sette evasi, tre risultano maggiorenni, e cinque sono ancora ricercati. Oggi i vertici del Dipartimento della giustizia minorile del ministero di via Arenula saranno a Milano, presso il carcere Beccaria. In particolare, verso mezzogiorno, per capire come si sia potuta verificare una simile evasione, arriverà al Beccaria il direttore generale del Dipartimento, Giuseppe Cacciapuoti. Trento. “Istituire Provveditorato alle carceri sul territorio provinciale, per dare più garanzie” ildolomiti.it, 26 dicembre 2022 Lo chiedono i consiglieri provinciali Michele Dallapiccola, Paola Demagri e Paolo Zanella dopo la visita, effettuata la vigilia di Natale, nel penitenziario di Spini di Gardolo. Sovraffollamento, difficoltà a garantire visite ed esami esterni al carcere per l’assistenza sanitaria, attività lavorative e percorsi di riabilitazione e reinserimento. È quanto riferiscono i consiglieri provinciali Michele Dallapiccola, Paola Demagri e Paolo Zanella dopo la visita, effettuata la vigilia di Natale, nel penitenziario di Spini di Gardolo a Trento, dove sono stati accompagnati dall’avvocato Fabio Valcanover. “Ad oggi nella struttura di Spini sono presenti 343 detenuti di cui 35 donne e 198 stranieri - spiega la consigliera -. Si tratta di quasi 110 persone in più rispetto a quelle previste dal protocollo firmato da Ministero e Pat. Questo ovviamente si traduce in una serie di gravi problematiche lesive della dignità e del benessere sia dei detenuti che del personale”. Oltre al noto problema del sovraffollamento e alla mancanza di agenti della Polizia penitenziaria, “rimane critica anche la mancanza di educatori, che, anzi, peggiora. Già quest’estate erano rimasti solo 3 educatori, invece che i 6 preventivati, ma oggi in servizio ne rimangono solo 2”, denunciano i consiglieri. Solo 162 detenuti (il 48%) possono inoltre usufruire del servizio di lavoro. Sono invece 70 i detenuti che soffrono di vari disagi psicologici, a cui si aggiungono problemi di tossicodipendenza. Il 90% dei detenuti si sottopone a cure ansiolitiche e psichiatriche, ma l’assistenza non è abbastanza. “Non possiamo chiedere un aumento della Polizia penitenziaria, non essendo questa facoltà della Provincia, ma possiamo far sentire la nostra voce nel chiedere maggiore assistenza sanitaria o l’istituzione del Provveditorato sul territorio provinciale, per dare più garanzie e possibilità di confronto e di interventi concreti”, commentano i consiglieri. Paola (Cs). Una seconda possibilità dopo il carcere, così i detenuti sono diventati pizzaioli di Francesco Frangella lacnews24.it, 26 dicembre 2022 Con questo intento la direttrice della casa circondariale Emilia Boccagna ha portato a compimento una nuova iniziativa, che ha visto i detenuti al centro di un progetto culminato con l’attestazione della qualifica. Si allunga la serie di iniziative che, sotto la guida della direttrice Emilia Boccagna, la casa circondariale di Paola sta mettendo in atto per valorizzare l’esperienza carceraria come sprone utile a rigenerare la coscienza personale dei detenuti. Dopo averli visti all’opera nello splendido contesto di Badia (dove oltre alla cura e alla manutenzione dei luoghi, si occupano anche di un orto sempre più rigoglioso), dopo i pubblici ringraziamenti ricevuti anche dall’amministrazione comunale e dall’Ordine dei Minimi (per il contributo offerto nella pulizia del litorale, del Santuario e delle strade cittadine), dopo averli conosciuti nell’inedita veste di marinai (navigatori capaci di andare anche controvento, grazie alle lezioni teorico-pratiche seguite presso il locale Club Nautico), i detenuti del carcere di Paola si sono recentemente mostrati anche come bravi pizzaioli, in grado di sfornare fragranti delizie che hanno soddisfatto il palato dei tanti ospiti presenti nel locale, che da semplice aula di un istituto di pena, si è trasformato - per un giorno - in una sala di convivialità e festa. In questa atmosfera, che ha sicuramente alleggerito il peso delle sbarre tutt’attorno, si è svolta la cerimonia di consegna degli attestati con cui, l’Associazione Pizzerie Italiane (Api), ha riconosciuto la formazione dei ragazzi del corso seguito tra le mura della casa circondariale, sotto la guida del vicepresidente nazionale Marcello Lamberti. Ad ognuno dei partecipanti è stata assegnata la qualifica di pizzaiolo, che una volta scontata la condanna, potrà essere d’aiuto nella ricerca di un lavoro, attività essenziale per il reinserimento sociale. Sulla scorta di questo intendimento, l’amministrazione penitenziaria ha predisposto, e continua a predisporre, progetti sempre più coinvolgenti, che oltre alle istituzioni stanno vedendo impegnate associazioni e operatori del terzo settore. Dopo quanto di buono fatto a Paola, anche a San Lucido sarà presto possibile assistere agli effetti di una sinergia strategica per l’intero comprensorio, con il sindaco Cosimo De Tommaso (presente alla cerimonia), che ha aperto finanche alla possibilità di predisporre uno stabilimento balneare interamente dedicato alle attività della casa circondariale. Soddisfatto il provveditore regionale per l’amministrazione penitenziaria della Calabria, Liberato Gerardo Guerriero, seduto al tavolo insieme ai primi cittadini di Paola e San Lucido (rispettivamente accompagnati da componenti di Consiglio e giunta), orgogliosa la direttrice Emilia Boccagna, che ha visto confermata - una volta di più - la bontà della scelta di investire sulla formazione, vera e propria leva in grado di scuotere la coscienza dei detenuti, a Paola sempre più distanti dagli stereotipi con cui generalmente vengono immaginati. Perugia. Il Garante dei detenuti in visita al carcere di Capanne nel giorno di Natale umbria24.it, 26 dicembre 2022 Il Garante regionale dei Detenuti, Giuseppe Caforio, accompagnato dal direttore Bernardina Di Mario, nel giorno di Natale ha portato gli auguri alla comunità carceraria di Capanne salutando il personale in servizio e i detenuti. Soffermandosi in particolare nella sezione femminile dove attualmente ci sono 46 detenute molte delle quali mamme, lontane dai propri figli. Sovraffollamento e carenza di personale L’occasione - spiega Caforio - è stata utile per fare il punto sui “tanti problemi de mondo carcerario umbro, che oltre al sovraffollamento e alla carenza di personale, vede nelle carenze sanitarie l’aspetto più allarmante”. “La certezza e fermezza nella esecuzione delle pene - sottolinea il Garante - non deve far perdere di vista gli obblighi di assicurare dignità e i diritti costituzionali ai detenuti. Un problema tutto umbro, che rende più oneroso il lavoro della polizia penitenziaria già fortemente oberata, è il gran numero di detenuti dalla Toscana trasferiti in Umbria, che spesso presentano personalità complicate e sono forieri di tensioni e incidenti. A ciò si aggiunga la presenza di persone che hanno una manifesta incompatibilità con la detenzione in carcere che a causa di carenze strutturali vivono situazioni di grave disagio che danno luogo a fenomeni di violenza e auto lesionismo. E poi rimane il grande tema del lavoro per i carcerati che costituisce la migliore forma verso la riabilitazione e sul quale c’è molto da lavorare. Nel giorno della festa della luce occorre che tutti insieme ci prodighiamo per farla intravedere in fondo al tunnel a chi ha sbagliato, sta pagando e vorrebbe ritornare a far parte della società civile. Alle Istituzioni e ad ognuno di noi - conclude Caforio - l’obbligo di non restare insensibili a queste istanze”. Roma. I detenuti e la “bolletta sospesa” per aiutare chi non riesce a pagare acqua e luce di Laura Martellini Corriere della Sera, 26 dicembre 2022 L’iniziativa della Caritas ha avuto il consenso dei relusi a Rebibbia penale che hanno consegnato il denaro in una busta al termine della Messa di Natale. Al termine della Messa di Natale officiata nella chiesa del penitenziario, si sono avvicinati al cappellano, padre Moreno Versolato, e hanno consegnato in una busta quasi duecento euro, raccolti con il passaparola, un giorno dopo l’altro. È stata vissuta con slancio nel carcere di Rebibbia la “bolletta sospesa”: una raccolta straordinaria della Caritas per sostenere le famiglie che non riescono a affrontare le spese per acqua e energia. Per il cardinale vicario Angelo De Donatis l’iniziativa è un “atto di solidarietà concreto”: “Viviamo in un contesto segnato dalle numerose guerre regionali, dalle conseguenze di oltre due anni di pandemia, dai gravi effetti economici e sociali della crisi energetica che sta colpendo molte regioni nel mondo. Le offerte al Fondo famiglia della Caritas diocesana sono destinate al sostegno delle persone e delle famiglie in maggiori difficoltà. Oggi e nei prossimi mesi a Roma, come nel resto del Paese, per un numero sempre maggiore di persone e famiglie - anziani soli, bambini piccoli, affetti da malattie gravi, e varie disabilità - sta venendo meno la possibilità di pagare i servizi di base”. L’invito non ha lasciato indifferenti coloro che scontano una pena: in breve tempo è stata raccolta una somma destinata ad alleviare la fatica di più di un nucleo familiare. Qualcuno ha mostrato sufficienza, ma in molti si sono prodigati.  Commosso il ringraziamento di Giustino Trincia, direttore della Caritas di Roma: “Vi sono grato di cuore non solo per la vostra generosità ma anche per l’insegnamento che con la vostra testimonianza ci avete donato. San Paolo VI diceva che non abbiamo bisogno di maestri, ma di testimoni. Nel Bambino che nasce Dio padre è sempre accanto a noi, soprattutto nelle prove che la vita pone sul nostro cammino”. Milano. “Necessario agire sulle cause che generano ingiustizia” di Luciano Gualzetti* caritas.it, 26 dicembre 2022 “È necessario evitare di praticare la “generosità del superfluo” o “degli avanzi”, ha dichiarato l’arcivescovo di Milano Mario Delpini in occasione del suo recente Discorso alla città. E in effetti non si può parlare di carità se non la si lega alla giustizia. Non si può dare per carità ciò che è dovuto per giustizia: non si tratta di “restituire” il superfluo, o di condividere ciò che ci avanza. È necessario invece agire sul sistema sociale che genera “scarti”, ingiustizie, disuguaglianze, un sistema in cui siamo tutti immersi e responsabili. Abbiamo però la possibilità di scegliere, almeno in parte, di agire sulle cause che generano le disuguaglianze e le ingiustizie, non solo di “mettere pezze” sulle falle del sistema. Giustizia non è riconoscere a tutte e a tutti le stesse parti. Se la condizione di partenza è di svantaggio, di qualsiasi genere, non si può evitare di battersi perché queste condizioni cambino: alla radice, non solo a valle e sulla scorta di goffi tentativi di redistribuzione. Don Milani insegnava: “Non c’è nulla che sia più ingiusto, quanto far parti uguali fra disuguali.” Perché ciò possa avvenire, sono fondamentali e indispensabili gli interventi caritativi e sociali che colmano le necessità, spesso legate ai bisogni primari e non solo. Ma sono altrettanto necessarie e indispensabili azioni politiche, perché cambino le condizioni che le generano. Noi, responsabili, operatori e volontari di organismi che incrociano la strada delle persone senza dimora, sperimentiamo per esempio ogni giorno che il nostro Paese, la nostra regione e la nostra città, che attraversa anni di rapida e talora spettacolare trasformazione edilizia e urbanistica, ancora non hanno elaborato politiche organiche per garantire il sacrosanto diritto all’abitare a chi è in condizione di fragilità abitativa. Mercato dell’affitto inaccessibile a causa di prezzi stellari, ritardi nell’assegnazione degli appartamenti “sociali”, disponibilità di alloggi pubblici largamente insufficiente rispetto al fabbisogno, ritardi nelle riqualificazioni edilizie ed energetiche, timidezza delle proposte “housing first”: molti fattori convergono nel disegnare un territorio inabitabile, per chi non ha redditi elevati. Non c’era posto per loro nella metropoli: da qui bisognerebbe partire, per edificare una capacità di accoglienza strutturale, che non tradisca, nel resto dell’anno, le buone intenzioni che si esprimono a Natale”. *Direttore di Caritas Ambrosiana Piacenza. Messa in carcere, emozione tra i detenuti. Il vescovo: “Ripartiamo dal presepe” liberta.it, 26 dicembre 2022 Un’omelia incentrata sul valore del presepe: “Dove volete collocarvi nella scena della Natività?”. Così, stamattina, il vescovo di Piacenza Adriano Cevolotto ha sollecitato i fedeli nella messa natalizia organizzata all’interno del carcere delle Novate, insieme al cappellano don Adamo Affri. Una celebrazione suggestiva, accompagnata dal coro dei detenuti diretto dalla volontaria Silvia Sesenna, alla presenza di istituzioni e rappresentanti della collettività. La direttrice della casa circondariale Maria Gabriella Lusi ha auspicato che “il Natale sia davvero una carezza” per le persone recluse nella struttura, ringraziando poi i volontari, le famiglie e la polizia penitenziaria. La messa ha rappresentato un momento significativo - di riflessione e affetto - per i detenuti del carcere cittadino. Una “vicinanza tra Piacenza e le Novate” che è stata rimarcata anche dalla presidente del consiglio comunale Paola Gazzolo. “Così in carcere mi sono sentito libero”: condannato a Bergamo racconta la sua rinascita bergamonews.it, 26 dicembre 2022 Nel libro di Zef Karaci l’incontro con don Roberto Malgesini: “Per tutti ero un rifiuto della società. Lui mi ha dato valore e aiutato a ricominciare”. Paragona l’esperienza del carcere all’inferno dantesco. A una “selva oscura”. Nella quale, però, non si ritrova nel mezzo del cammin della vita, ma a soli 22 anni, quando viene prima arrestato e poi condannato a Bergamo per omicidio. Zef Karaci, oggi, di anni ne ha 39 e in un libro - intitolato “Vai e prendi loro per mano” - racconta l’incontro che gli ha cambiato la vita: quello con don Roberto Malgesini, il prete ucciso il 15 settembre 2020 da uno dei senza dimora che aveva accolto. I due si conoscono a Como, dove Karaci viene trasferito dopo una rissa in carcere a Bergamo. “La chiamavano la ‘prigione spazzatura’, perché è lì che mandavano quelli come me, quelli che creavano problemi”. Ma rovistando nella ‘spazzatura’, don Roberto non trova rifiuti. “Mi disse: Zef, tu non puoi essere uno scarto della società perché hai tanto da darmi. Capii di avere ancora un valore, perché c’era qualcuno che mi voleva bene e che mi dedicava del tempo”. Ed è così che comincia la sua lenta resurrezione. Nel libro, Karaci dedica un capitolo anche al delicato e attuale tema dei suicidi in carcere. A quando “se ne impiccavano anche due a settimana”, perché la solitudine, a volte, è la condanna più difficile da scontare. “Sono dentro da 17 anni - spiega l’autore -, ma è come se avessi fatti due anni di ‘vero’ carcere. Da quell’incontro in poi, da quando qualcuno mi ha abbracciato e perdonato, per me è stato come andare in ufficio. Le sbarre c’erano ancora, ma mi sentivo libero”. Don Roberto - si intuisce dalle pagine del libro - ha ridato un senso alla quotidianità di Karaci, che pensava al carcere come a un “non-luogo”: dove rimpiangere il passato e desiderare ancora un futuro, senza però trovare una ragione per vivere quel presente sospeso, senza spiragli di luce ai quali aggrapparsi. Il prossimo 14 marzo Karaci avrà scontato definitivamente la pena. Alla sua storia ha dedicato delle belle parole il pubblico ministero Giancarlo Mancusi, in forza alla procura di Bergamo. Inizialmente, quel nome stampato sulla copertina del libro lo aveva fatto “saltare sulla sedia”. Perché, come si dice, era un nome “ben noto all’ufficio” a causa di un regolamenti di conti per il controllo della prostituzione. “Brutta storia - ricorda Mancusi. Non follia, né passione, né impeto. Solo una macchina del crimine fredda e ben organizzata, un’impresa del sangue di successo. Così la corte condannò Karaci. E il carcere inghiottì i brandelli della sua vita bruciata a vent’anni. Difficile immaginare che potesse rinascere. Invece l’incontro con Don Malgesini lo ha trasfigurato. E ora ne scrive, con infinita gratitudine”. Il magistrato chiude con una riflessione: “Mi viene da pensare che Dio esiste sul serio, se è riuscito a trasformare Zef Karaci. E che esiste l’Uomo: gli uomini, le donne che si sono assunti la fatica e il rischio di questa scommessa, calandosi nell’oscurità del carcere, ostinandosi a vedere un uomo dove avremmo visto solo un (con)dannato. Non li conosco, ma li ringrazio - conclude Mancusi -. Mi aiutano a credere nel mio lavoro. Nella Costituzione. Nell’umanità. E nei miracoli”. Come Manuel e Noemi, alla ricerca del senso della vita di Annachiara Valle famigliacristiana.it, 26 dicembre 2022 Due giovani in fuga, testimoni di giustizia in un contesto di mafia. Due ragazzi, nell’opera prima di Franco Venturella, che scoprono, attraverso l’incontro con veri Maestri, la spiritualità, l’impegno, la speranza. Un libro a metà tra il giallo, il romanzo, la storia, il saggio. Rocca di luce (edizione asterios), opera prima di Franco Venturella, è un testo da leggere soprattutto in questi giorni di festa. Già presidente del Movimento di impegno educativo di Azione cattolica, a lungo insegnante di latino e greco e poi provveditore agli studi di Padova e Vicenza, Venturella non ha mai dimenticato, pur vivendo in Veneto, la sua Sicilia. Ed è lì, sulle sponde dello splendido mare di Cefalù, che prende vita la storia di due giovani liceali, Manuel e Noemi. Dalle giornate a Cefalù, all’ombra del Borgo medievale incastonato nella Rocca, alla fuga per salvarsi dalle vendette mafiose i giovani attraversano tempi, luoghi e precarietà. C’è l’aspetto pedagogico, c’è quello dell’impegno sociale, ci sono le testimonianze, in questo racconto mozzafiato di cui non sveliamo la fine. I due incontrano vescovi e laici, Fratel Biagio Conte, con la sua opera a favore degli ultimi, a Palermo, Giulia, che segue Anna Maria Canopi, fondatrice dell’Abbazia benedettina dell’Isola di San Giulio sul Lago d’Orta. C’è papa Francesco con il suo magistero sui poveri e gli scartati. C’è la ricerca del senso della vita, c’è una intensa spiritualità accompagnata sempre dalla figura del Cristo Pantocratore che, scrive l’autore, “risplende nei mosaici absidali, come centro di tutto, pur nell’incessante fluire degli eventi umani”. E su ogni cosa, quasi a mettere d’accordo tutti, la Rocca, la rupe mozzafiato che domina Cefalù. Avvolta da una luce che dona grazia e speranza. “In una società in crisi”, annota il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, commentando il testo, “tutto è rimesso in questione, vale dunque la testimonianza: umile, coerente, ferma. Viene alla mente la famosa frase di Paolo VI in una udienza dell’ormai lontano 1974: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri; o se ascolta i maestri, lo fa perché sono dei testimoni”. È l’esperienza di Noemi e Manuel. L’esperienza di tutti noi. Papa Francesco: “Tacciano le armi. Viviamo una carestia di pace” Avvenire, 26 dicembre 2022 Nel messaggio natalizio Francesco guarda ai drammi che si consumano in Siria, Libano, Myanmar, Iran, Yemen, Haiti e in Africa. Quindi l’appello per l’Ucraina: “Porre fine a questa guerra insensata”. Il primo pensiero è stato per l’Ucraina ma il Papa riflette su tutto il mondo, nel quale si vive “la terza guerra mondiale”, c’è una “carestia di pace”. E per questo ha invitato la comunità internazionale ad adoperarsi per la fine dei conflitti. Nel tradizionale messaggio natalizio, nel corso del quale papa Francesco ha impartito la benedizione ‘Urbi et Orbi’, alla città e al mondo, c’è anche un passaggio sull’Iran per il quale si chiede la “riconciliazione” e la fine di “ogni spargimento di sangue”. Non manca lo sguardo al Medio Oriente, dalla Siria al Libano. Ma Papa Francesco prega in particolare per la Terra Santa, affinché riprenda “il dialogo” e “la reciproca fiducia” tra israeliani e palestinesi. Nel giorno di Natale il Papa ha ripercorso le ferite del pianeta e ha indicato le sue priorità geopolitiche, dalla cessazione dei conflitti al sostegno dei Paesi più poveri. Perché le guerre sono legate a doppio filo con la povertà. Ne è una prova la crisi del grano, innescata dal conflitto in Ucraina, che trova spazio nel messaggio natalizio del Papa. “Il nostro sguardo si riempia dei volti dei fratelli e delle sorelle ucraini, che vivono questo Natale al buio, al freddo o lontano dalle proprie case, a causa della distruzione causata da dieci mesi di guerra. Il Signore - ha affermato Francesco - ci renda pronti a gesti concreti di solidarietà per aiutare quanti stanno soffrendo, e illumini le menti di chi ha il potere di far tacere le armi e porre fine subito a questa guerra insensata! Purtroppo, si preferisce ascoltare altre ragioni, dettate dalle logiche del mondo”. “Il nostro tempo sta vivendo una grave carestia di pace” ha continuato il Papa nel Messaggio natalizio ai fedeli presenti in Piazza San Pietro: “Pensiamo alla Siria, ancora martoriata da un conflitto che è passato in secondo piano ma non è finito; e pensiamo alla Terra Santa, dove nei mesi scorsi sono aumentate le violenze e gli scontri, con morti e feriti. Imploriamo il Signore perché là, nella terra che lo ha visto nascere, riprendano il dialogo e la ricerca della fiducia reciproca tra Israeliani e Palestinesi. Gesù Bambino sostenga le comunità cristiane che vivono in tutto il Medio Oriente, perché in ciascuno di quei Paesi si possa vivere la bellezza della convivenza fraterna tra persone appartenenti a diverse fedi. Aiuti in particolare il Libano - ha proseguito Francesco -, perché possa finalmente risollevarsi, con il sostegno della Comunità internazionale e con la forza della fratellanza e della solidarietà. La luce di Cristo illumini la regione del Sahel, dove la pacifica convivenza tra popoli e tradizioni è sconvolta da scontri e violenze. Orienti verso una tregua duratura nello Yemen e verso la riconciliazione nel Myanmar e in Iran, perché cessi ogni spargimento di sangue. Ispiri le autorità politiche e tutte le persone di buona volontà nel continente americano, ad adoperarsi per pacificare le tensioni politiche e sociali che interessano vari Paesi; penso in particolare alla popolazione haitiana che sta soffrendo da tanto tempo”. “Pensiamo alle persone che patiscono la fame, soprattutto bambini, mentre ogni giorno grandi quantità di alimenti vengono sprecate e si spendono risorse per le armi”. È stato l’invito di Francesco in Piazza San Pietro: “La guerra in Ucraina ha ulteriormente aggravato la situazione, lasciando intere popolazioni a rischio di carestia, specialmente in Afghanistan e nei Paesi del Corno d’Africa. Ogni guerra - lo sappiamo - provoca fame e sfrutta il cibo stesso come arma, impedendone la distribuzione a popolazioni già sofferenti”. Quindi Francesco ha sollecitato “tutti, per primi quanti hanno responsabilità politiche, perché il cibo sia solo strumento di pace”: “Mentre gustiamo la gioia di ritrovarci con i nostri cari, pensiamo alle famiglie che sono più ferite dalla vita, e a quelle che, in questo tempo di crisi economica, fanno fatica a causa della disoccupazione e mancano del necessario per vivere”. Gesù viene in un mondo “malato di indifferenza” che lo respinge “come accade a molti stranieri, o lo ignora, come troppo spesso facciamo noi con i poveri”. “Non dimentichiamoci oggi dei tanti profughi e rifugiati che bussano alle nostre porte in cerca di conforto, calore e cibo”, ha concluso il Papa: “Non dimentichiamoci degli emarginati, delle persone sole, degli orfani e degli anziani che rischiano di finire scartati, dei carcerati che guardiamo solo per i loro errori e non come esseri umani”. Migranti. Nel limbo di Ventimiglia, respinti dalla Francia e accampati al confine di Pietro Barabino Il Fatto Quotidiano, 26 dicembre 2022 Restano in media cento persone, ogni giorno, accampate sul greto del fiume Roja di Ventimiglia, bloccati alla frontiera con la Francia. Sono prevalentemente uomini ma non mancano nuclei familiari, donne e minori non accompagnati. Chi è costretto a sostare qui spesso ha esaurito le alternative economiche per passare pagando i “passeur” che portano avanti con efficacia e costanza il loro business illecito, cioè aiutare a superare il confine chi è disposto a pagare (dai 150 euro a salire). Con i militari francesi a presidiare i passaggi, molte persone vengono intercettate e respinte in Italia, talvolta in base al regolamento di Dublino che li “assegna” all’Italia, talvolta violando le regole come nel caso dei minori o delle persone riaccompagnate senza accogliere la domanda d’asilo nonostante vengano identificate in aree più interne della Francia. Così, nell’imbuto di Ventimiglia, sotto il ponte restano gli “scarti” delle politiche che regolano l’immigrazione in Europa, persone che non trovano spazio in Italia a cui è precluso un futuro in altri Paesi comunitari. Se la Francia viola con disinvoltura i limiti che dovrebbe rispettare sulla sospensione del trattato di Schengen, controllando sistematicamente treni e passaggi ai valichi, le istituzioni italiane latitano completamente e a tutti i livelli rispetto a quella che è la cura delle persone in strada. Con il Comune commissariato, ci si poteva immaginare una rapida riapertura di un centro di transito, luogo dove le persone possano trovare riparo e allontanarsi dalla strada e dagli accampamenti ai margini della città che sono insicuri e malsani sia per chi ci è costretto a dormire, seppure per qualche giorno in attesa di trovare un varco, sia per la percezione di chi vive il quartiere delle Gianchette di Ventimiglia, da sempre periferia lasciata a se stessa dalle amministrazioni che si sono succedute, impegnate e concentrate solo sulla parte turistica della città. Quello che chiedono, da mesi, le associazioni che mettono ogni giorno una pezza alla “latitanza istituzionale”, è l’apertura di questo centro, senza attendere che i numeri aumentino con la primavera o qualche episodio drammatico come l’ennesima vittima (se ne contano già 37) di questa segregazione che porta a disperati tentativi di attraversamento lungo i binari o a piedi sull’autostrada verso la Francia. Afghanistan, 20 anni dopo “Viaggio a Kandahar” per le donne è di nuovo eclissi. Nel silenzio dell’Occidente di Maria Serena Natale Corriere della Sera, 26 dicembre 2022 Parchi, palestre, scuole, università, Ong: spazio pubblico negato per le afghane sempre più recluse in un orizzonte fisico e culturale di sopruso e controllo. Era il 2001 degli attacchi alle Torri gemelle e il regista iraniano Mohsen Makhmalnaf raccontava l’eclissi delle donne afghane sotto il regime talebano in un film che scosse il mondo, “Viaggio a Kandahar”. Burqa, scuole coraniche, kalashnikov e gambe finte dal cielo: l’Occidente scopriva che l’Afghanistan amato dai figli dei fiori e poi devastato dalla guerra civile era diventato un buco nero. Venne un’altra guerra, contro il terrore talebano e per la libertà, alla quale abbiamo partecipato anche noi con la coalizione a guida Usa. Vent’anni dopo, gli ultimi americani sono andati via e i talebani si sono ripresi il Paese. Da Kandahar a Herat a Kabul, mentre l’Iran degli ayatollah brucia al grido “Donna, vita, libertà”, per le donne afghane è di nuovo notte. Appena tornato al potere, il regime si è mostrato più aperto e conciliante ma ha tolto presto la maschera. Prima il divieto di accesso a parchi e palestre, poi le scuole chiuse alle bambine in molte province. Infine il bando dall’università. Spazio pubblico negato, l’istruzione primo fronte della repressione, ragazze sempre più recluse in un orizzonte fisico e culturale di sopruso e controllo. Ora tocca alle poche oasi rimaste: il governo proibisce alle afghane di lavorare per le Organizzazioni non governative nazionali e internazionali poiché questi soggetti, spiega un documento del Ministero dell’Economia, non garantiscono il rispetto del codice sul velo. Il potere recide i legami con l’esterno, con le Ong che non sono soltanto vitale riparo da fame e malattie, ma offrono spesso l’unica opportunità di prendere coscienza dei propri diritti. Nel silenzio dell’Occidente, come denuncia il recente appello del mondo accademico italiano contro l’indifferenza delle istituzioni. L’Afghanistan fu il pantano dove affondò la potenza sovietica. Che non diventi l’ultimo specchio dell’impotenza del mondo libero. A Jalalabad gli studenti di Medicina hanno lanciato un primo importante segnale rifiutando di dare gli esami per abbracciare la lotta delle colleghe. La vigilia di Natale le donne hanno protestato a Herat. I Talebani le hanno disperse con cannoni ad acqua, non prima che salisse al cielo un grido: codardi. L’attrice Golshifteh Farahani: “La vita di ogni donna in Iran è una guerra senza tregua” di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 26 dicembre 2022 La diva, esule a Parigi, fa da megafono alle proteste: “È stata una scelta carnale. Credo che non si sia mai visto nella storia dell’umanità: donne che fanno la rivoluzione, e uomini che si schierano dalla loro parte. È straordinario”. Quando Golshifteh Farahani è venuta al mondo, nel 1983, la rivoluzione islamica aveva trasformato l’Iran già da quattro anni, “e come tutte le donne nate in quella dittatura fascista che è il regime dei mullah ho avuto la sensazione di passare dal ventre di mia madre al campo di battaglia. Essere una donna in Iran è il combattimento di ogni giorno, non c’è tregua”. Rifugiata a Parigi dal 2008, quando un giudice le concesse 24 ore per mettersi in salvo dai servizi segreti, Farahani è diventata una grande attrice dal successo internazionale. La morte di Mahsa Amini, il 16 settembre, l’ha trasformata in una delle voci più seguite in sostegno alla rivolta, dall’account Instagram con 15 milioni di follower all’apparizione sul palco dei Coldplay a Buenos Aires, il 28 ottobre, per cantare Barave, l’inno dei manifestanti. Il suo Instagram negli ultimi tre mesi si è riempito di notizie e immagini dall’Iran, i post hanno quasi 300 milioni di visualizzazioni, lei sta diventando un media fondamentale per seguire la rivolta. Ne è consapevole? “Le sue parole mi commuovono perché ogni volta prima di postare qualcosa mi chiedo se abbia un senso... Ognuno ha le sue crisi esistenziali. Ma forse faccio bene. Negli ultimi anni ero rimasta piuttosto riservata riguardo all’Iran”. E perché stavolta invece ha deciso di rompere questo riserbo? “Non è stata neanche una decisione ragionata, ma una scelta carnale. Non sono stata io a decidere, è il corpo che è andato avanti e ha cominciato a scrivere e a denunciare gli orrori della dittatura. Troppo dolore, troppo male. Si comincia a subire e a soffrire subito, dalla nascita, è un’accumulazione continua. A un certo punto non è più possibile sopportare l’ingiustizia. Le ragazze che manifestano a Teheran e nelle altre città sanno che rischiano la vita ma non possono fermarsi, non ci riescono. Sono guerriere, senza saperlo, perché lottano da sempre. L’Iran è come uno strumento al quale sia stata messa una grossa sordina, la voce è rimasta soffocata per decenni e adesso vuole farsi sentire. Siamo diventati tutti attivisti, anche io che sono un’attrice. Non abbiamo scelta, è più forte di noi”. Che cosa pensa del fatto che tanti uomini si siano uniti alla rivolta cominciata dalle donne? “Credo che non si sia mai visto nella storia dell’umanità. Donne che fanno la rivoluzione, e uomini che si schierano dalla loro parte. Non abbiamo mai avuto così tanto sostegno, è straordinario. Quando il regime ha instaurato l’obbligo del velo, un anno dopo avere preso il potere, nessun uomo si è ribellato. Mio padre all’epoca non è sceso in strada, e tutti gli altri hanno fatto come lui. Oggi è completamente diverso, gli uomini difendono le loro sorelle, madri, figlie. Senza il riconoscimento dei diritti delle donne non ci saranno diritti per nessuno”. Perché il velo islamico è così importante? “È il simbolo della tirannia. Il regime è costruito sulla sottomissione delle donne: l’obbligo di portare il velo evoca anche il fatto che un uomo possa sposare una bambina tredicenne, ottenere sempre la custodia dei figli in caso di divorzio, negare alla moglie il diritto di entrare o uscire dal Paese. Il velo è solo la punta della piramide, toglierselo significa lottare per la libertà di tutti, anche degli uomini”. Grazie alla rivolta l’Occidente comincia a conoscere meglio la società iraniana, meno schiava della propaganda anti-occidentale e anti-americana di quanto si potesse immaginare. “Credo che questo processo di apertura e di conoscenza dell’Iran sia cominciato con i film di Abbas Kiarostami, e certo adesso è più facile con Internet e i social media. Forse il mondo può rendersi conto del come mai il regime sia ancora al potere, nonostante sia odiato dal 90 per cento della popolazione”. Qualche giorno fa il “Corriere” ha pubblicato un reportage sconvolgente sulle prigioni iraniane. “Le torture e le violenze alle quali è sottoposto il mio popolo sono inimmaginabili. La repressione è priva di scrupoli, il potere è in mano ai mostri. Ora il Consiglio dei diritti umani dell’Onu ha aperto un’inchiesta sulla repressione in Iran, ma cosa c’è ancora da sapere? Quali altre violenze vanno accertate?”. Che cosa prevede per i prossimi mesi? “Sappiamo che una rivoluzione è una maratona, non possiamo rovesciare un regime in pochi mesi. Non importa. È una questione di perseveranza. Non ci fermeremo”. La repressione è feroce all’interno del Paese, ma gli agenti di Teheran sono attivi anche all’esterno. Lei non ha paura? “Le guardie del corpo mi seguono sul set quando recito, sono in contatto con le autorità francesi per avvisare dei miei spostamenti. Tutti abbiamo un po’ paura. Io e anche i miei famigliari, certo. Cerchiamo di fare attenzione, e andiamo avanti”.