Il record dei suicidi in carcere e le possibili soluzioni di Giulio Cavalli tag43.it, 25 dicembre 2022 Nel 2022 si sono ammazzate in cella 82 persone: mai così tante da quando si registra il dato. Come si può rendere la detenzione più dignitosa? Con reparti ad hoc per i nuovi arrivati, un’accoglienza seria nelle strutture, l’aiuto psicologico e più contatti con l’esterno. A luglio sarebbe stato libero, ma i sei mesi mancanti non sono bastati per farlo desistere dal suicidio. Si è impiccato con un lenzuolo in cella nel carcere di Rebibbia. Era “un ragazzo di 30 anni”, sottolinea la Garante dei detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni, “con una pena breve”. Il trentenne doveva scontare una condanna a meno di due anni per concorso in rapina e sotto i tre è possibile chiedere una pena alternativa al carcere. Il giovane, di origine bengalese, è l’82esima vittima di suicidio del 2022. Sono 195 le vittime in totale: molte morti in corso di accertamento - Secondo il ?segretario generale del Sindacato di polizia penitenziaria (Spp) Aldo Di Giacomo ”il suicidio a Rebibbia squarcia il velo del clima solo ritualmente natalizio per ristabilire il clima vero della “mattanza di Stato” che raggiunge il terrificante numero di 82 suicidi dall’inizio dell’anno. Mai un numero così alto da oltre 20 anni: tra suicidi e decessi sono 195 le vittime in totale, senza sottovalutare che per un buon numero le cause sono ancora in corso di accertamento”. In realtà l’83esimo suicidio è quello di Giovanni Carbone, il 39enne originario di Matera che lunedì scorso ha ucciso a Miglianico (Chieti), la compagna Eliana Maiori Caratella. Serve un ripensamento della funzione della pena - Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe), il primo e più rappresentativo di questa categoria, spiega che “la via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere”. Capece ha richiamato un pronunciamento del Comitato nazionale per la bioetica che ha sottolineato come “il suicidio costituisce solo un aspetto di quella più ampia e complessa crisi d’identità che il carcere determina, alterando i rapporti e le relazioni, disgregando le prospettive esistenziali, affievolendo progetti e speranze”. Molti soffrono di disagi psichici e dipendenze - L’associazione Antigone che di questo si occupa da sempre non ha dubbi: “Ovviamente non è possibile ricondurre l’accelerazione del fenomeno di quest’anno a delle ragioni precise. Ogni storia è a sé, frutto di personali dolori e personali considerazioni. Quello che però possiamo sicuramente dire è che la maggior parte delle persone che entrano in un istituto di pena ha alle spalle situazioni già di ampia complessità: marginalità sociale ed economica, disagi psichici e dipendenze caratterizzano gran parte della popolazione detenuta. In questi ultimi anni, Antigone nelle sue visite ha raccolto un numero sempre crescente di segnalazioni relative all’aumento di persone detenute con patologie psichiatriche e alla difficoltà di intercettare e gestire queste situazioni, spesso per mancanza di risorse adeguate e per l’inadeguatezza del carcere come luogo per la loro collocazione”. Serve più attenzione al momento dell’ingresso e dell’uscita - Il 2022 è stato l’anno peggiore per i suicidi avvenuti in carcere da quando si registra il dato. Una mattanza. In carcere ci si uccide oltre 21 volte in più che nel mondo libero. Quando nel 2009 si suicidarono 72 persone, i detenuti erano circa 7 mila in più. Le proposte sono sul tavolo da anni: una particolare attenzione al momento dell’ingresso e dell’uscita dal carcere, entrambe fasi particolarmente delicate e durante le quali anche quest’anno sono avvenuti numerosi casi di suicidio; reparti ad hoc per i nuovi giunti, un servizio di accoglienza strutturato in cui vengono informati sui diritti e le regole all’interno del penitenziario, la fruizione di colloqui con psicologi e/o psichiatri e maggiori contatti con l’esterno; più telefonate (da poter effettuare in qualunque momento, direttamente dalla propria stanza detentiva, non solo ai familiari e alle persone terze che rappresentano legami significativi, ma anche alle autorità di garanzia) e allo stesso modo più colloqui. E magari avere carceri degne di un Paese degno. Che “custodia” è quella di uno Stato che non riesce a salvare i suoi custoditi? Collaboratori di giustizia: ecco come potrebbe cambiare la normativa di Giulio Marotta La Repubblica, 25 dicembre 2022 L’ultima relazione della Commissione Antimafia al Parlamento suggerisce una più puntuale delimitazione dello status di “testimone”. Il nostro ordinamento prevede da 30 anni uno speciale programma di protezione e assistenza per coloro che forniscono un importante contributo per contrastare le organizzazioni mafiose e risultano perciò esposti a “grave e attuale pericolo” a seguito della loro collaborazione con la giustizia (collaboratori di giustizia, i cd. “pentiti”); la tutela è estesa ai loro familiari. Nel corso degli anni (in particolare con la legge n. 6 del 2018 - che trae origine dal lavoro della Commissione Antimafia della XVII legislatura) sono stati approvati specifici benefici per i testimoni di giustizia: si tratta dei cittadini (e i loro familiari, amici e dipendenti) che rendono dichiarazioni utili alle indagini giudiziarie in qualità di persona offesa dal reato (testimone vittima) o come testimone (testimone terzo). Le relazioni semestrali del Governo al Parlamento (l’ultima risale a luglio 2022) consentono di avere un quadro dettagliato in ordine alla concreta attuazione della normativa e alle principali problematiche emerse. Dal 2000 ad oggi hanno usufruito dei benefici di legge oltre 150.000 persone; di queste, poco meno di 2.000 sono i testimoni di giustizia (6.400 i loro familiari). Il picco è stato raggiunto nel 2016; a partire dall’anno successivo, si registra una costante diminuzione. Le Direzioni Distrettuali Antimafia che negli anni scorsi hanno avanzato il maggior numero di proposte di protezione sono quelle di Napoli (dove il tempo medio di permanenza sotto protezione è di 10 anni, con punte che superano i 16 anni), Bari, Catania e Palermo. L’ultima relazione segnala la recente crescita del numero dei collaboratori nella zona di Roma (anche se con una durata media della protezione inferiore ai 3 anni). La legge è volta innanzitutto a preservare l’incolumità dei collaboratori e testimoni di giustizia, assicurando loro una scorta, documenti di “copertura” ed il trasferimento in una “località protetta”; e poi a sostenerli nel processo di reinserimento socio-lavorativo, attraverso speciali misure di sostegno economico utili a mantenere una condizione economica analoga a quella preesistente. In particolare, chi svolge attività imprenditoriale potrà usufruire del supporto di organismi specializzati in materia. E’ prevista anche la possibilità di assunzione nelle pubbliche amministrazioni, sulla base di intese fra il Ministero dell'interno e le Amministrazioni interessate. Di rilievo le forme di sostegno psicologico, soprattutto ai minori, che soffrono particolarmente il nuovo status e l’abbandono della propria località di origine, ciò che condiziona frequentemente il loro percorso scolastico. La Commissione incaricata dell’applicazione della legge detta periodicamente linee di indirizzo volte ad assicurare uniformità nelle decisioni e una parità di trattamento tra tutti i soggetti coinvolti: tra i documenti recentemente approvati si ricordano quelli riguardanti la specificazione dei requisiti per l’ammissione al programma di protezione, le modalità del cambiamento delle generalità e per la fornitura dei documenti di copertura e della revoca delle misure tutorie. Il Servizio centrale di protezione svolge una delicatissima attività di valutazione delle singole situazioni al fine di valutare il diritto di accedere ai programmi di protezione (o di continuare ad usufruirne) e alle misure di sostegno previste dalla normativa. Non mancano però i casi di contestazione in ordine alle decisioni assunte dall’Amministrazione, che talora hanno anche eco nelle aule parlamentari (vedi la recente interrogazione riguardante un imprenditore calabrese). Ne può nascere un contenzioso di fronte ai giudici amministrativi, che sono chiamati a decidere sui ricorsi presentati dai diretti interessati (vedi, tra le altre, la sentenza del Consiglio di Stato su un caso di mancata proroga del programma di protezione e di richiesta di ulteriori benefici economici). Le possibili modifiche della normativa - L’ultima relazione al Parlamento, sulla base della concreta esperienza, ritiene innanzitutto necessaria una più puntuale delimitazione dello status di “testimone di giustizia”, escludendo i soggetti condannati per gravi reati e che risultino perciò contigui ad ambienti criminali. La relazione evidenzia altresì il fenomeno di coloro che non rispettano le regole di sicurezza e riservatezza previste anche in caso di cessazione del programma di protezione (ad esempio svelando la propria identità originaria), sottolineando la necessità di una sempre maggiore responsabilizzazione dei protetti, affinché acquisiscano la consapevolezza di essere sì titolari di diritti ma anche di precisi doveri. Al tempo stesso, la relazione auspica un miglioramento della normativa per assicurare i documenti di copertura anche al termine del programma di protezione, soprattutto quando il tutelato intende svolgere un’attività lavorativa; attualmente sono invece costretti a rivelare la propria identità. Inoltre appare indispensabile garantire la continuità dell’accesso al credito e adeguate forme di sostegno per coloro che, a causa delle loro testimonianze, hanno subito gravi danni economici e che trovano spesso difficoltà ad ottenere linee di credito da parte degli istituti bancari. Lombardia. Accoglienza genitori detenuti con figli al seguito in case-famiglie protette varese7press.it, 25 dicembre 2022 Approvata venerdì dalla Giunta di Regione Lombardia, su proposta dell’assessore a Famiglia, Solidarietà sociale, Disabilità e Pari opportunità, Elena Lucchini, la delibera per l’accoglienza dei genitori detenuti con figli al seguito in case-famiglie protette e in case alloggio per l’accoglienza residenziale dei nuclei mamma-bambino. “Nelle diverse realtà detentive del territorio lombardo - ha spiegato l’assessore Lucchini - sono attive da anni specifiche progettualità rivolte a madri detenute con figli minori, realizzate in forma coordinata e integrata tra i Comuni e gli enti del Terzo settore, finalizzate a sostenere e rafforzare la dimensione genitoriale e a garantire la tutela dei minori e il diritto ad una crescita armoniosa e stabile”. “Attraverso le risorse del Fondo per l’accoglienza di genitori detenuti con bambini, la cui dotazione finanziaria ammonta a 247.815 euro - ha sottolineato Lucchini - verranno finanziati interventi di accoglienza abitativa e percorsi socioeducativi-riabilitativi per madri e padri in esecuzione penale, in misura cautelare o in differimento pena, insieme ai loro bambini, realizzati, in attuazione della convenzione tra Comune di Milano, Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Lombardia e Associazione C.I.A.O. ‘Un ponte tra carcere, famiglia e territorio’, presso le UdO dell’Associazione, per gli anni 2021 e 2022. Inoltre, si sosteranno interventi di accoglienza abitativa in favore di genitori con figli al seguito presso strutture residenziali e percorsi socioeducativi-riabilitativi di sostegno all’inclusione sociale”. Trento. Dal sovraffollamento al difficile reinserimento dei detenuti ildolomiti.it, 25 dicembre 2022 La situazione nel carcere di Spini: “Cure ansiolitiche e psichiatriche per il 90% di loro”. I consiglieri Demagri, Dallapiccola e Zanella insieme all'avvocato Valcanover hanno visitato la Casa circondariale di Spini di Gardolo alla Vigilia di Natale: “La realtà delle carceri è un aspetto tanto importante quanto trascurato della nostra società. Una comunità che fa parte della più ampia comunità trentina e ad essa vanno dedicate le stesse cure che si dedicano a tutti” “La comunità carceraria rimane parte della comunità trentina e ai suoi membri va garantita la stessa attenzione che viene data al resto della cittadinanza”. Sono queste le parole dei consiglieri di CasaAutonomia.eu Michele Dallapiccola, Paola Demagri, al consigliere di Futura Paolo Zanella che con il collaboratore avvocato Fabio Valcanover hanno fatto visita alla Casa Circondariale di Spini di Gardolo alla Vigilia di Natale. Già nella giornata di Ferragosto la consigliera era stata in visita alla Casa Circondariale e sabato 24 dicembre, ha mantenuto la promessa fatta quel giorno di tornare a controllare lo stato della struttura “visita di sindacato ispettivo”, dove già nell’ultimo controllo aveva riscontrato diverse criticità. “La realtà delle carceri è un aspetto tanto importante quanto trascurato della nostra società - spiega Demagri. Purtroppo ad oggi queste comunità si trovano ad affrontare svariate difficoltà, in particolare legate al sovraffollamento, che rendono complicato, se non impossibile, perseguire il primo e vero scopo delle carceri: rieducare i detenuti e reinserirli all’interno della società. La nostra visita oggi è sì una verifica delle condizioni, ma anche un gesto di umanità e garanzia della dignità dovuta ad ogni cittadino, anche a chi ha sbagliato”. Il principale problema della Casa Circondariale è il sovraffollamento, che va ad impattare ogni aspetto della vita dei detenuti: dalla condivisione di celle inadeguate al numero di occupanti, alla difficoltà a garantire visite ed esami esterni al carcere per l’assistenza sanitaria, attività lavorative e percorsi di riabilitazione e reinserimento. “Ad oggi nella struttura di Spini sono presenti 343 detenuti di cui 35 donne e 198 stranieri - prosegue la consigliera -. Si tratta di quasi 110 persone in più rispetto a quelle previste dal protocollo firmato da Ministero e Pat. Questo ovviamente si traduce in una serie di gravi problematiche lesive della dignità e del benessere sia dei detenuti che del personale”. In primis si riscontra una “mancanza di agenti della Polizia penitenziaria, il cui numero è tarato su quello dei carcerati previsti dal protocollo e di conseguenza risulta insufficiente nel contesto sovraffollato della struttura”. Questo ha delle ricadute sulla vita della comunità carceraria: “Non si riesce più a garantire l’adeguata sorveglianza dei detenuti, l’accompagnamento degli stessi all’esterno e la sorveglianza di percorsi ed attività di rieducazione e riabilitazione, obiettivi primari per la struttura, e un carico eccessivo di lavoro per gli agenti stessi”. Oltre a quella degli agenti “rimane critica anche la mancanza di educatori, che, anzi, peggiora”, sostiene Demagri. “Già quest’estate erano rimasti solo 3 educatori, invece che i 6 preventivati, ma oggi in servizio ne rimangono solo 2”. Questo appesantisce il carico di lavoro dei professionisti, “oltre che diminuire le possibilità di accesso dei detenuti al servizio, risultando in frustrazione, insoddisfazione e progetti di rieducazione limitati. Tra questi ultimi spiccano i progetti di lavoro, estremamente utili e desiderati dai detenuti, ma attualmente limitati. Sono solo 162 infatti coloro che possono usufruire del servizio, appena il 48% della popolazione carceraria”. Passando al tema dell’assistenza sanitaria “stiamo osservando varie defezioni da parte del personale”. La consigliera sostiene: “Siamo arrivati al punto in cui se un solo medico decidesse di lasciare il posto la struttura non potrebbe più garantire turni di 24 ore, ma l’assistenza dovrebbe fermarsi alle 20. Inoltre quasi tutta l’equipe medica è composta da gettonisti, una scelta sempre più diffusa in Apss, che migliora la condizione economica del medico a scapito di continuità e appartenenza all’organizzazione. Il problema si estende anche alle visite specialistiche, per cui ci sono sempre lunghe liste di attesa”. “Questi problemi stanno particolarmente a cuore a me e ai consiglieri Dallapiccola e Zanella - sostiene Demagri -, in quanto nel decreto ministeriale del 2008 si garantisce al carcerato lo stesso diritto all’assistenza medica di ogni cittadino. Molto positiva la figura della nuova Direttrice Sanitaria che, seppure assunta da pochissimo tempo, ha già chiare le difficoltà del carcere e la necessità di avviare dei progetti che vadano a ridurre l’autolesionismo e l’eccessivo uso di farmaci, oltre che ridurre il numero di visite mediche esterne e svolgere alcune valutazioni cliniche attraverso strumentazione quale l’ecografo e la radio diagnostica”. Ma rimanendo sempre in ambito sanitario ulteriori difficoltà emergerebbero nel trattamento dei problemi psichici: “70 detenuti soffrono di vari disagi psicologici, a cui si aggiungono problemi di tossicodipendenza. Il 90% dei detenuti si sottopone a cure ansiolitiche e psichiatriche, ma l’assistenza non è abbastanza: viste le lunghe attese per il Rems era stata prevista l’apertura del Centro Diurno, che purtroppo però non ha ancora visto la luce. Una mancanza piuttosto grave visto il vertiginoso aumento di casi di autolesionismo, ormai eventi praticamente quotidiani e strettamente legati ad un’insufficiente cura della salute mentale dei detenuti”. Tutte queste problematiche sono quindi riconducibili alla ”mancanza di lavoro e attività, all’isolamento e a un programma rieducativo troppo lento e spesso latente”. Fondamentale in questo senso “è il lavoro delle cooperative che quotidianamente si occupano della comunità carceraria - dichiara la consigliera - ma ultimamente faticano a causa del costo delle materie prime e avrebbero disperato bisogno di un aiuto provinciale”. Lo sguardo è stato rivolto anche all'esterno della struttura, che “già nella scorsa visita presentava evidenti segni di crepe e piccoli cedimenti”: “La presenza di ponteggi - dice - suggerisce che alcuni di questi difetti siano stati presi in considerazione, ma la velocità di risoluzione rimane sempre inferiore a quella che si potrebbe considerare ottimale”. In conclusione, dichiara Demagri, “nel nostro ruolo di consiglieri ci è sembrato doveroso effettuare questa visita di controllo, ma soprattutto di sprono laddove ci sia la possibilità di intervenire. Non possiamo chiedere un aumento della Polizia Penitenziaria, non essendo questa facoltà della Provincia, ma possiamo far sentire la nostra voce nel chiedere maggiore assistenza sanitaria o l’istituzione del Provveditorato sul territorio provinciale, per dare più garanzie e possibilità di confronto e di interventi concreti”.  Quella carceraria rimane comunque una comunità “che fa parte della più ampia comunità trentina - conclude la consigliera - e ad essa vanno dedicate le stesse cure che si dedicano a tutti i cittadini, soprattutto se l’intenzione, come dovrebbe essere, è quella di dare ai detenuti la possibilità di reinserirsi nella società”. Busto Arsizio. Il Natale dietro le sbarre, il sogno proibito di una telefonata varesenoi.it, 25 dicembre 2022 Don David Maria Riboldi racconta le festività in carcere e un augurio: che si riesca a garantire una chiamata al giorno, può salvare la vita. “Si toglie la libertà alle persone, ma non alla disperazione”. “Il Natale? È sempre un giorno difficile in carcere, di grande nostalgia”. Don David Maria Riboldi ci porta dentro la festa dietro le sbarre. C'è la pena da scontare, c'è anche però la speranza da offrire o il carcere non porta alcuna chance educativa. Sono giorni duri, anche dal punto di vista della comunicazione con i parenti attraverso anche solo una telefonata. Il presepe vicino alla sala colloqui ricorda che sì, una Luce può nascere e guidare, anche nei contesti più difficili. “Lo abbiamo fatto con il gruppo presepi di Marnate - ricorda il sacerdote - Voglio ringraziarli, tantissimo!”. A sorpresa, i detenuti invece hanno ringraziato lui con un intenso messaggio: una lettera, che culmina con uno slancio, un grido “Preghiamo per te”. Perché tanti sono i motivi per manifestare la riconoscenza, ma in questo periodo natalizio la messa e la preparazione alla festa diventano ragione primaria. Aiuta ad affrontare un periodo delicato appunto, con la persona che magari per la quinta volta di seguito non può tornare a casa dai familiari: “Questa modalità di esecuzione della della pena carceraria difficilmente rende migliore”. La telefonata salvavita, una battaglia di don David, che la condivide con altri a livello nazionale. Fuori da Busto, ci sono realtà diverse. “Un telefono nella quarta deve bastare a 80 persone - precisa - non è facile garantire di chiamare, per quanto ci siano operatori che si facciano in quattro. Si toglie la libertà alle persone, ma non alla disperazione”. Quella, è sempre in agguato.  I racconti del dolore scivolano dentro anche quest'anno, questo Natale: c'è chi si è mutilato alle orecchie nei mesi scorsi, chi si è tolto la vita. L'emergenza suicidi, lanciata a livello nazionale. “Certo ci piacerebbe che la struttura potesse riuscire a garantire una telefonata al giorno per ogni carcerato, non è ancora tecnicamente possibile ma una telefonata ti può salvare la vita” continua don David. Gli appelli sono risuonati anche online e la vicinanza del cappellano, della Diocesi avviene con un dono cruciale come le ricariche delle tessere telefoniche: 10 euro, che sono un tesoro perché possono mettere in comunicazione con la famiglia. “L'augurio è questo - dice don David - anzi un regalo che chiediamo a Gesù Bambino, che anche l'istituto di Busto Arsizio si possa tecnicamente attrezzare per riuscire a garantire una telefonata al giorno come Bollate San Vittore”. Perché è anche questo che aiuta a guardare a una nuova vita. A prendere una svolta e proseguire sul sentiero del bene. Come Bruno alla Camera, nel presentare il calendario ha detto con orgoglio: “Sono due anni e tre mesi che non delinquo”. L'altro augurio è dunque che continui a sbocciare questo fiore, di cui si sta prendendo cura la Valle d'Ezechiele: con un lavoro, cambiano le esistenze. “Delle 14 persone arrivate da noi, e abbiamo dato disponibilità per una quindicesima, nessuno ha commessi nuovi reati. Ci auguriamo che tanti, come Bruno, possano andare nella sala stampa della Camera a esprimere questa gioia”. Torino. Natale in carcere, il Partito Radicale incontra i detenuti di Pasquale Quaranta La Stampa, 25 dicembre 2022 L’attivista Rovasio domani alle Vallette: “Una tradizione storica nel segno di Pannella”. Iniziative a Milano, Roma, Bologna e Napoli. “Il giorno di Natale Marco Pannella lo passava sempre a Regina Coeli. Per noi è una tradizione storica dal ‘76, quando i radicali entrarono in Parlamento. Quando tutti vanno in vacanza, anche a Ferragosto, noi radicali andiamo nelle carceri”. Sergio Rovasio, storico militante radicale, già cofondatore dell'Associazione Certi diritti e attuale presidente dell’Associazione Marco Pannella di Torino, fa parte della delegazione che insieme a Marianna Ferrara e Alessandro Macchi visiterà domani, nel giorno di Natale, il Carcere Lo Russo Cotugno delle Vallette. ”L’iniziativa si chiama “Natale in carcere” ed è promossa dal Partito Radicale nonviolento, transnazionale e transpartito. La nostra delegazione torinese inizierà la visita alle 9.30 e terminerà alle 12, ma ci saranno iniziative in tutto il Paese, nelle carceri di Milano, Roma, Bologna e Napoli”. Con quale obiettivo? “Verificheremo le condizioni della popolazione carceraria. Incontreremo le donne, entreremo nel reparto femminile per incontrare le ragazze che hanno promosso nei mesi scorsi diverse iniziative nonviolente per denunciare le gravi carenze strutturali, di personale e del sovraffollamento del carcere”. Nel carcere delle Vallette ci sono stati quattro suicidi nelle ultime settimane. Cosa sta succedendo?  “La struttura si trova in una grave situazione di sovraffollamento e tensione. La capienza è di un migliaio di detenuti a fronte di una presenza quotidiana di oltre 1.400 detenuti. Ci sono carenze di organico, tensioni tra detenuti nell’area “nuovi giunti”, aggressioni che subiscono gli agenti della polizia penitenziaria, suicidi e tentati suicidi dei detenuti”. Tra crisi economica, Covid e guerra, c’è chi pensa che la condizione dei detenuti sia davvero l’ultimo dei problemi... “Non sono d’accordo. Voltaire diceva che il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri. Quello del sovraffollamento è un problema di democrazia. In contesti di questo tipo, nessuno rispetta il dettato costituzionale sulla rieducazione e sulla possibilità di migliorare in carcere, anzi un uomo, una donna, ne esce anche peggio di com’è entrato. Questo è uno dei problemi più gravi che c’è in Italia”. Teramo. Il giudice nega la scarcerazione per motivi di salute: detenuto in sciopero della fame di Isabella Maselli Gazzetta del Mezzogiorno, 25 dicembre 2022 È in sciopero dalla fame dal 15 dicembre nella sua cella del carcere di Teramo dove è recluso, perché le sue condizioni di salute richiederebbero - secondo lui, la sua famiglia e diversi medici che lo hanno visitato - una assistenza sanitaria che una struttura penitenziaria non può offrirgli. Il detenuto in protesta è il 36enne Giuseppe Franco, affiliato al clan Strisciuglio di Bari e coinvolto negli ultimi anni in diversi blitz per reati di mafia. È in carcere da settembre 2020 e negli ultimi mesi la patologia cardiaca di cui soffre si sarebbe aggravata. Per questo i suoi difensori hanno chiesto a tutti i giudici dinanzi ai quali pendono i procedimenti penali che lo riguardano di concedergli di lasciare il carcere e continuare a curarsi a casa, agli arresti domiciliari. Due giudici, gup del Tribunale di Bari, hanno detto sì, mentre il terzo, la Corte di Appello, ha rigettato qualche giorno fa la richiesta di sostituzione della misura cautelare. Franco, cioè, deve restare in carcere, perché “in relazione al giudizio sulla compatibilità dello stato di salute con il regime detentivo, attualmente il ristretto è ancora gestibile all’interno dell’istituto, mediante somministrazione di apposita terapia farmacologica”. A luglio la gup Anna Perrelli gli aveva concesso i domiciliari con braccialetto elettronico e solo qualche giorno prima del no dei giudici della Corte di Appello anche la gup Antonella Cafagna aveva ritenuto di poter concedere a Franco di tornare a casa, sulla base soprattutto della relazione trasmessa dalla casa circondariale che descriveva “un quadro clinico complessivo grave”, addirittura peggiorato in poche settimane, nonostante “il detenuto aveva ripreso ad assumere regolarmente la terapia farmacologica necessaria a diminuire il rischio cardiovascolare, in monitoraggio costante con ecg”. Secondo la giudice, quindi, “a prescindere alla idoneità a fondare un giudizio di assoluta incompatibilità delle condizioni di salute con la detenzione in carcere”, gli arresti domiciliari sono “sufficienti a contemperare le esigenze di difesa sociale con la tutela della salute e della dignità umana”. Si attendeva la decisione della Corte, che è arrivata il 15 dicembre: no alla scarcerazione. I giudici hanno disposto una nuova perizia medico-legale, eseguita il 6 dicembre dal dottor Claudio Volpe. “Eventuali tentativi di ripristino del normale ritmo cardiaco richiederebbero ulteriori procedure ablative transcatetere non eseguibili in alcuna delle case circondariali italiane” ha concluso il perito, evidenziando però che “l’opzione terapeutica farmacologica, mirata al solo controllo della frequenza cardiaca, invece, potrebbe essere attuata anche in carcere, ma sarebbe certamente meglio praticabile al domicilio; non foss’altro che per il fatto di escludere quell’atteggiamento oppositivo, ai limiti dell’autolesionismo, che il paziente ha già tenuto e che ha minacciato di assumere anche in futuro”. Infatti nei mesi scorsi Franco ha deciso di rifiutare i farmaci e questo potrebbe aver contribuito al peggioramento delle sue condizioni. Ed è proprio questo ad aver convinto i giudici a rigettare la richiesta di revoca della misura, “ritenuto che l’atteggiamento oppositivo alla opzione farmacologica è una scelta dell’imputato” e comunque “in caso di necessità di intervento chirurgico, potrà sempre essere autorizzato”. Franco ha paura di morire in cella e i suoi genitori sperano ancora in un ripensamento dei giudici baresi, ai quali i difensori del detenuto hanno rinnovato l’istanza. “Non si comprende - dicono - come mai in una situazione così grave che compromette la vita, la salute e la possibilità di cura, il detenuto viene privato di ogni dignità e diritto costituzionalmente garantito”. Franco, in cella, ha iniziato uno sciopero della fame per protesta, come lo stesso pregiudicato ha spiegato alla Corte di Appello in una lettera manoscritta trasmessa loro qualche giorno fa. Pescara. Un lavoro ai detenuti. Ecco l’iniziativa che regala la seconda vita  di Cinzia Cordesco Il Centro, 25 dicembre 2022 E dal carcere di Pescara arriva l’appello di Laszlo, 48 anni La promotrice del piano: “Sgravi fiscali a chi lo assume”. Potrebbe essere un lavoro nel campo della fotografia, sua grande passione e talento, o come cameriere, lavapiatti, imbianchino o bagnino, la seconda chance di Laszlo, 48 anni, ungherese, con un passato criminale che si è lasciato alle spalle 13 anni fa. Attualmente è detenuto nel carcere di San Donato, proveniente dai penitenziari di Catanzaro, Secondigliano, Campobasso. A Rebibbia, Laszlo, che parla quattro lingue, si è anche diplomato. A Pescara il suo fine pena (doveva scontare 10 anni e 18 giorni per una serie di reati) è previsto per il 2025. “Ma otterrebbe uno sconto di pena, accorciato al luglio 2024”, spiega il suo legale, Ornella Troiano, “se riuscisse a trovare una occupazione” perché così potrebbe puntare a “un reinserimento sociale dopo un’esistenza scandita da dipendenze e drammi familiari”. Ma ci vorrebbe un imprenditore disponibile a conoscerlo in carcere e ad offrirgli un contratto usufruendo di sgravi contributivi e fiscali. Qui entra in gioco “Seconda chance”, il progetto ideato e promosso dalla giornalista del TgLa7, Flavia Filippi, che con l'aiuto della documentarista Alessandra Ventimiglia Pieri e dell’imprenditrice di Ethicatering, Beatrice Busi Deriu, è stato trasformato in una associazione del Terzo Settore, operante in tutta Italia, che aiuta i detenuti a reinserirsi nel mondo lavorativo. “Seconda chance”, spiega Filippi, “è un progetto trasversale che permette a grandi e piccoli imprenditori di abbattere il costo del lavoro compiendo un gesto di grande valenza sociale. Una sorta di cerniera tra le carceri e le aziende disposte ad agevolare il reinserimento lavorativo dei detenuti a fine pena usufruendo dei benefici concessi dalla legge Smuraglia”. Nel suo curriculum Laszlo si propone come una “persona affidabile, responsabile, corretta ed entusiasta”. Al Sud ha una compagna e una figlia che lo aspettano. In passato, prima di incrociare i suoi destini con il mondo criminale, ha svolto vari lavori: imbianchino, giardiniere, cameriere. L'avvocato Troiano spiega l’iter che potrebbe portare Laszlo alla redenzione: “A oggi, con un contratto regolare di lavoro, considerato il suo fine pena dicembre 2025, si può chiedere la semilibertà al Tribunale di sorveglianza dell'Aquila, per conoscenza al magistrato di sorveglianza di Pescara. Laszlo ha diritto di fruire della liberazione anticipata di 90 giorni di sconto di pena, terminando a luglio 2024”. Nel frattempo, “dovrà rientrare a dormire in carcere dove trascorrerà tutte le festività”. Milano. Natale alla mensa dei poveri: gli sguardi della dignità riconquistata di Settimio Benedusi Corriere della Sera, 25 dicembre 2022 Il Natale quotidiano della dignità riconquistata alla mensa dei poveri. Le testimonianze: “Noi, accolti con gli occhi”. “L’accoglienza parte dallo sguardo” mi dice fra Domenico, il frate cappuccino che da diciotto anni gestisce, con organizzazione e piglio manageriale, il Servizio docce e guardaroba per i bisognosi che si rivolgono all’Opera San Francesco (Osf) di viale Piave, una realtà che dal 1959 offre un pasto caldo a più di duemila persone ogni giorno nella sua mensa storica. Questo servizio, come dice fra Domenico, trasforma le persone, ridando loro non solo la possibilità di lavarsi e cambiarsi ma anche e soprattutto la certezza di riacquistare la propria dignità. Oggi sono solo cinque i frati cappuccini impegnati attivamente nei servizi dedicati ai poveri e ai fragili, ma affiancati da oltre mille volontari: una squadra che fa sì che tutto proceda al meglio. È la vigilia di Natale ma qui, dice ancora fra Domenico, “ogni giorno dell’anno è Natale, perché ogni giorno rinasce un uomo”. Se “l’accoglienza parte dallo sguardo” noi con orgoglio vi mostriamo il loro sguardo, ricco della dignità dell’uomo vivo. Un documentario per raccontare l’insegnamento dentro al carcere di Ferrara di Alessio Falavena filomagazine.it È stato presentato il 5 di dicembre all’istituto Vergani “La scuola come scelta” documentario di Alejandro Ventura, girato nel maggio del 2022, per raccontare l’esperienza della scuola nel carcere di Ferrara, un percorso che pare quanto di più aderente all’articolo 27 di quella che normalmente ci piace considerare la più bella costituzione mai scritta, ovvero quella italiana: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Nel carcere di Ferrara il progetto è da diversi anni gestito dal CPIA che con questo progetto ha voluto raccontare l’importanza di poter dare diritto di parola e pensiero a chi sta scontando una pena o attendendo un giudizio. Ne abbiamo parlato con Marzia Marchi, docente Cpia e referente comunicazione del progetto. Prima di addentrarci nel documentario, qual è il contesto della scuola nel carcere di Ferrara? Quanti docenti e detenuti coinvolge e da quanti anni? La scuola in carcere c’è da sempre, in quanto prevista dalla costituzione. Da diversi anni è gestita dal CPIA: parliamo di una scuola che va dalla primaria a tutto il ciclo della scuola dell’obbligo, quindi fino al primo biennio delle superiori. Dopo quel momento in carcere entrano gli istituti professionali, attualmente ad esempio l’istituto Vergani protagonista di questo documentario, che porta avanti la formazione con il terzo, il quarto e il quinto anno delle superiori. Esiste una forte connessione tra il CPIA e l’istituto professionale, con un lavoro coordinato che ci consente di mantenere la continuità tra i percorsi. La scuola al momento coinvolge circa venti persone a cui si aggiunge il fatto che esistono detenuti che iniziano il percorso in carcere e poi lo terminano fuori, essendo nel frattempo usciti di prigione, mentre il numero di docenti coinvolti è intorno ai dodici. Per quanto riguarda la scuola primaria si è man mano trasformata in un corso di italiano e di alfabetizzazione di base. Questo perché esiste l’esigenza di alfabetizzare gli stranieri che si trovano sempre più frequentemente ad essere una maggioranza in carcere. Il documentario racconta molta speranza: le persone parlano delle grandi possibilità che gli vengono aperte dall’imparare la lingua, le nozioni scolastiche e anche quelle più professionalizzanti. Non c’è il rischio che una volta uscite le persone rimangano deluse se non riescono a reinserirsi e tornino quindi a commettere reati? Noi come CPIA abbiamo prettamente una funzione giuridica, ma dentro il carcere collaboriamo attivamente con gli educatori che hanno proprio questa funzione di connettere l’istruzione con tutte le altre attività che vengono fatte, alcune delle quali sono l’orientamento del post carcere. Ed esistono anche dei corsi di formazione professionale, come il corso per diventare barbieri, meccanici, che vengono svolti in parte in carcere in parte all’esterno, per preparare le persone una volta che siano uscite. Questa parte è maggiormente in carico a diverse associazioni e enti di volontariato ma la nostra esperienza ci porta a dire che una volta che questi detenuti hanno acquisito la lingua italiana e che hanno un titolo di studio a livello sociale tutti i percorsi di uscita dal carcere diventano in discesa. Nella parte iniziale del video lei racconta il salto dall’insegnamento per vent’anni in una scuola primaria a questo che è molto diverso: che impatto c’è stato all’inizio? Il documentario sembra quasi raccontare come la scuola in carcere sia più un percorso umano di integrazione: cosa restituisce a livello umano? La differenza è tanta. Passare dai piccoli nella fase dell’apprendimento è mettersi a confronto con l’entusiasmo dell’apprendimento, in particolare appunto nella scuola primaria. La scoperta dell’apprendimento è un gioco, una gioia, pur nelle sue difficoltà. Invece l’impatto del carcere è piuttosto forte: entrare all’interno è difficile per il contesto, oltre che per le persone. Bisogna adeguarsi, assumere una serie di atteggiamenti che si imparano solo con l’esperienza. Con gli adulti in carcere è tutto diverso: io lo chiamo un secondo incanto. Soprattutto nel caso della lingua, come nel mio caso, quando vedono il risultato immediato, imparano a leggere, scrivere, sono persone che escono con delle parole, parole che prima non potevano usare, si rendono conto che hanno imparato qualcosa di importante. Quello che bisogna imparare a gestire è il rapporto con persone prive della loro libertà: in questo senso molto del video è nel rapporto tra dentro e fuori, perché fino a quando una persona non entra in contatto con la realtà carceraria percepisce l’esistenza di un mondo fuori e uno dentro dalla prigione. Per le persone normalmente il carcere non esiste, nessuno si pone il problema di entrarci. Quando si entra dentro per lavoro o con esperienze di volontariato comincia a svilupparsi una quotidianità e cadono delle barriere mentali, inizi a interrogarti su molti aspetti. Tutti gli insegnanti che entrano magari per la prima volta nel percorso (e succede frequentemente, proprio come ogni anno si ruota nelle scuole) arrivano a dire che cade la questa barriera che divide dentro e fuori. Dopo qualche settimana o mese si ragiona in termini di persone, aspettative, speranze. Non è che non si percepisca più la differenza quando si varcano i numerosi cancelli, ma mentalmente questa barriera salta e ci si inizia a fare tante domande. Si inizia a pensare: non è cosi difficile finire in carcere, ci sono tanti motivi per cui può succedere, conoscendo le storie delle persone si capisce quanto sia possibile entrare in carcere per una situazione o un errore. Esiste tra l’altro il tema della condanna definitiva: in Italia, con una percentuale maggiore rispetto ad altri paesi, circa un terzo delle persone detenute non ha ancora attraversato tutti i gradi di giudizio... Esattamente: il carcere di Ferrara è una casa circondariale, tante persone sono in attesa di giudizio, esiste anche una estrema variabilità di studenti, le persone entrano, poi escono dal percorso perché magari sono state assolte o hanno concluso la loro pena, capita purtroppo anche di ritrovarle più avanti negli anni se rientrano e una eventuale recidiva è molto triste. In Italia abbiamo il settanta per cento di recidive, e se questo percorso in carcere viene fatto male, se uno ritorna dentro allora il periodo in carcere non ha avuto nessuna utilità. Perché noi ci impegniamo tanto a dare degli strumenti? Perché queste persone non ritornino più. Molti dei detenuti nel video dicono: con la scuola mi viene data la possibilità di esprimermi, oltre il percorso scolastico c’è quello umano... Si, assolutamente è una cosa molto forte. La maggioranza sono persone straniere (ma non solo) oltre agli italiani che non hanno avuto la possibilità di avere un percorso scolastico. Succede anche di avere persone già diplomate che si iscrivono e frequentano ugualmente perché diventa un contesto culturale, un luogo dove ci si scambia le informazioni, in un percorso che si mescola con le attività di formazione, di teatro, barberia, cucina. L’istruzione è la chiave che apre delle altre porte, se hai una conoscenza linguistica, una capacità di scrivere e comprendere questa ti consente di iscriverti alle altre attività. Il lavoro che noi facciamo è l’apertura per tutto il resto. Si fa fatica a volte a coordinare questo percorso: i tempi che hanno i carcerati sono ristretti, ci sono solo alcune ore e in quelle ore c’è tutta l’offerta formativa: io ho uno studente che in una giornata avrebbe contemporaneamente l’ora di scuola e quella di sport e lui sceglie la seconda, con enorme dispiacere perché sente il bisogno di muoversi. Quando siamo fuori tendiamo a dire: quelle persone hanno fatto degli errori, problema chiuso. Invece le possibilità di recupero ci sono e tutto quello che si fa dentro al carcere è la chiave per aprire la porta giusta per quello che queste persone faranno poi. E qui torniamo alla prima domanda, a quel rischio di trovare una “delusione” una volta usciti, dopo aver messo in campo un proprio cambiamento... Posso dire che noi seguiamo le persone: ad esempio già due dei protagonisti del documentario sono usciti nei mesi successivi. Teniamo i contatti attraverso le educatrici, sappiamo dove sono, cosa stanno facendo. Il tempo della scuola è importante comunque anche mentre sei dentro: è un tempo di distacco dai tuoi pensieri e problemi, di lettura, di pensiero… accedi a delle cose che altrimenti non potresti avere, tutto quello che si ha in quel momento è utile e resta utile dopo. C’è anche chi ci dice: passa il tempo meglio, con la scuola in carcere. Ci sono tantissime depressioni, situazioni di forte disagio mentale. E quel tempo, che passa meglio, ha anche una utilità, una resa, per quanto poi dipenda anche da tante condizioni il poter usare o meno quella conoscenza. Il sogno di una giovane donna: vincere la criminalità seguendo Falcone e Borsellino di Lucio Luca La Repubblica, 25 dicembre 2022 In “La ragazza che sognava di sconfiggere la mafia” la magistrata Annamaria Frustaci racconta dell'educazione “civica” di Lara, 13enne calabrese con il sogno di fare la giornalista. Lara è una ragazzina di 13 anni che da grande vuole fare la giornalista. Ma anche fare la scrittrice le piacerebbe molto. Vive in una terra difficile, impenetrabile, misteriosa come la Calabria. Una terra nella quale, spesso, anche soltanto pronunciare la parola “giustizia” diventa quasi un’impresa. Lara l'ha capito presto, tra gli ulivi del nonno, alle prese con i soprusi del vicino di casa, e sui banchi di scuola, dove a dettare legge sono Totò - un coetaneo della ragazza - e i suoi amici. Un giorno, in un edificio abbandonato, Lara e Totò trovano un cagnolino bianco e morbido, che guaisce chiedendo aiuto. È lei a vederlo per prima, eppure il ragazzo reclama il suo diritto di tenere il cucciolo tutto per sé. Lo fa con la rabbia e la prepotenza del bullo, del “malacarne” che ha un destino segnato. Non ci sta Totò a farsi portare via il cucciolo da quella ragazzina che lo affronta a testa alta, senza paura. Ma Lara ha ormai intuito che il solo modo per sconfiggere la mafia, che si insinua tra le case e le vie del paese, è guardarla in faccia con onestà e coraggio. Così decide di fare a Totò una proposta che non può rifiutare. Lara sceglie insomma da che parte stare, sceglie il destino suo e, con esso, cambia quello del suo intero mondo. La ragazza che sognava di sconfiggere la mafia scritto da Annamaria Frustaci, magistrata del pool guidato a Catanzaro dal procuratore Gratteri, è un libro per bambini che ha il grande pregio di far riflettere i grandi. Frustraci, nata proprio a Catanzaro ma cresciuta a Sant’Andrea Apostolo dello Ionio, le zone che racconta le conosce bene. Tanto che, dopo la laurea a Pisa, in Calabria è voluta tornare per lavorare in quella squadra di magistrati che ha rivelato i legami tra criminalità organizzata, politica e imprenditoria. L’incontro che le ha cambiato la vita è stato quello con Gherardo Colombo: aveva soltanto 14 anni quando il magistrato protagonista dell’inchiesta su Tangentopoli andò a parlare di legalità nella scuola di Anna Maria. “Quelle parole - racconta lei - mi hanno insegnato che è sempre possibile cambiare le cose e lottare per la legalità, anche quando si vive in territori difficili”. Come succede a Lara, e allo stesso Totò. Per questo l’autrice ormai da mesi sta girando l’Italia per parlare con i ragazzi delle scuole medie e superiori. Ricordando soprattutto le figure straordinarie di Falcone e Borsellino, magistrati vittime della mafia nel 1992, che aprono il libro con due frasi-simbolo: “Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola” diceva Falcone. “Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo” ricordava Borsellino. Parole che Lara - e la sua autrice Anna Maria Frustraci - hanno trasformato in scelte di vita. Hannah Arendt e il senso del Natale di Sergio Belardinelli Il Foglio, 25 dicembre 2022 Ragioni per festeggiare ogni nuova nascita, cardine della nostra libertà. “Il miracolo che salva il mondo, il dominio delle faccende umane, dalla sua normale, naturale rovina è in definitiva il fatto della natalità in cui è ontologicamente radicata la facoltà dell’azione. È in altre parole la nascita di nuovi uomini, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana, che l’antichità greca ignorò completamente. È questa fede e speranza nel mondo, che trova forse la sua gloriosa e stringata espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la ‘lieta novella’ dell’avvento: ‘un bambino è nato per noi’”. Da almeno quarant’anni, da quando cioè l’ho letto per la prima volta, considero questo brano di Hannah Arendt come l’espressione più profonda del senso del Natale. Che è festa di fede e di speranza certo, ma sorprendentemente anche di libertà. Nella storia del pensiero occidentale soltanto la Arendt ha avuto il genio e l’ardire di incardinare l’umana libertà, diciamo pure “la facoltà dell’azione”, nel “fatto della natalità”. La libertà è ciò che dà sapore e specificità alla vita umana; solo la libertà impedisce che il mondo si riduca spinozianamente a “sostanza”, a qualcosa di omogeneo, a qualcosa come un continuo fluire; solo la libertà è capace di introdurre nel mondo un elemento di novità, un imprevisto, una sorpresa, capaci di sottrarci al dominio della necessità. Ma udite udite, per la Arendt è il nostro stesso venire al mondo, la nascita unica e irripetibile di ciascuno di noi, a rappresentare la prima e più immediata forma di novità, il primo vero affronto al potere di ananke (la necessità dei greci) o anche solo alla noiosa routine della vita. Una ragione in più per festeggiare il Natale, dunque. Ma c’è anche dell’altro. In questa prospettiva infatti, non è soltanto la nascita di Gesù, ma quella di qualsiasi bambino a rappresentare un segno di speranza nel mondo. Ogni bambino che nasce è l’irruzione nel mondo di una “novità”, che reclama quasi di essere rinnovata, una volta diventati adulti, nell’esercizio della nostra libertà, nella nostra capacità di incominciare qualcosa che senza di noi non incomincerebbe mai. Un’esortazione a essere liberi che è anche un’apertura di credito nei confronti di noi stessi e del mondo che abitiamo. Facile immaginare dunque, come ho avuto modo di sottolineare più volte anche su questo giornale, la tragedia reale e simbolica che si consuma allorché in una società non nascono più bambini. Prima o poi, in tale società sono destinate ad avvizzire anche la speranza e la libertà. “Initium… ergo ut esset creatus est homo”, diceva Agostino, autore assai caro ad Hannah Arendt. L’uomo è stato creato affinché ci fosse un inizio. Il che significa che nasciamo, non per morire, ma per incominciare, per far nuove di continuo tutte le cose grazie alla nostra libertà e agli imprevisti che essa porta sempre con sé. È questo il grande dono del Natale, il grande dono di Gesù bambino, che ci esorta alla vita, alla speranza, alla libertà, a guardare il mondo con gratitudine e benevolenza, nella convinzione che, anche nella situazione più difficile e più drammatica, ci può essere un bambino che, nascendo, e nascendo per noi, ci ricorda che possiamo essere liberi per davvero. Buon Natale a tutti. La povertà non va sostituita col lavoro povero e a ogni costo di Andrea Ciarini e Roberto Rossini Il Domani, 25 dicembre 2022 Non passa giorno senza che annuncino ulteriori strette al reddito di Cittadinanza. L’ultima riguarda il pasticcio intorno alla congruità dell’offerta, prima scomparsa e poi ripristinata per un errore nella preparazione dell’emendamento. Ma la volontà politica, come si sono affrettati a dire gli esponenti del centro-destra, resta. In pratica la prima offerta di lavoro non potrà essere rifiutata, senza bisogno di considerare né le esperienze e le competenze maturate, né la distanza dal domicilio. Insomma, qualunque lavoro pur di mettere fine alla dipendenza da un sussidio. Attualmente la normativa considera congrua un'offerta a determinate condizioni ma con notevoli differenze. Nella migliore delle ipotesi - ad esempio - può capitare un lavoro a tempo indeterminato raggiungibile con il bus, nel peggiore dei casi un part time in somministrazione per quattro mesi a 100 minuti da casa. Tenuto conto che stiamo parlando di persone estremamente fragili sarebbe necessario semmai essere meno rigidi nel valutare il grado di congruità sulla base della reale situazione, ad esempio permettendo a chi prende in carico il caso di considerare discrezionalmente cosa sia congruo e cosa no. Ecco perché sarebbe utile reintrodurre l'analisi preliminare del nucleo beneficiario con la possibilità di verificare il grado di congruità dei lavori proposti, disponendo anche di percorsi di accompagnamento al lavoro. Alle persone in condizioni di fragilità vanno fatte proposte che offrano loro un futuro possibile, non quattro mesi e poi il baratro. Ricordiamo che oltre il 70 per cento dei beneficiari ha un titolo di studio non superiore alla terza media ed è fuori dal mercato del lavoro da tre anni. Il problema dell’inserimento lavorativo non si risolve con la minaccia del lavoro a qualunque costo. È bene ricordare, d’altra parte, che di offerte agli attivabili ne sono arrivate e ne arrivano tutt’ora ben poche e questo nonostante la presenza di incentivi alle imprese che decidono di assumere un beneficiario. Gli incentivi sono di due tipi: l'esonero contributivo a favore del datore di lavoro per ogni beneficiario assunto e una somma pari a sei mensilità per l'autoimprenditorialità. Ad oggi non si sono dimostrati efficaci nel favorire l’attivazione. Non si capisce quindi come la previsione di ulteriori incentivi possa invertire il trend. Né si capisce cosa si intenda con i corsi di formazione che vengono annunciati. Già oggi i beneficiari soggetti al Patto per il Lavoro sono tenuti a seguire corsi di formazione e l’entrata a regime di Gol già prevede un rafforzamento di queste azioni nei loro confronti. È davvero singolare che vengano proposti strumenti già previsti come fossero soluzioni nuove a un problema irrisolto. Desta inoltre perplessità la reintroduzione dei voucher per il lavoro accessorio. Prima che venissero aboliti nel 2017, la liberalizzazione del 2012 era stata presentata come un modo per agevolare le assunzioni regolari nei settori ad alta intensità di lavoro e bassa produttività, replicando il modello dei minijobs tedeschi, impieghi pagati 450 euro al mese senza versamenti contributivi. In Germania, tuttavia, un minijobber ha la possibilità di cumulare due fonti di redditi, una da lavoro, l’altra proveniente dal Reddito minimo. In Italia si pensa di togliere il Reddito minimo per gli attivabili senza la possibilità di vedersi riconosciuta alcuna integrazione salariale. Così facendo il rischio è quello di andare a ingrossare ulteriormente l’area del lavoro povero. Le offerte vere di lavoro - quelle congrue - non possono essere basate sulla logica dei voucher. Nessuno mette in discussione l’idea che un beneficiario di Reddito di Cittadinanza debba essere accompagnato al reinserimento lavorativo. Ma vanno costruite le condizioni perché il lavoro per questi soggetti fragili ci sia. Lavoro a qualsiasi costo - Pensare di risolvere il problema solo con le politiche attive del lavoro è illusorio, tanto meno lo è con versioni punitive del workfare. Piuttosto bisognerebbe agire sui problemi che rendono difficile trovare una occupazione per i beneficiari di sussidi. Invece di continuare finanziare programmi per l’occupabilità sarebbe il caso di pensare a qualcosa di radicalmente diverso, ad esempio una vera job guarantee europea, un programma finanziato dall’Europa per creare non stage e tirocini fini a sé stessi o lavoro gratuito nei servizi di comunità, ma lavoro vero e utile per rispondere ai bisogni emergenti che impattano sui territori, spesso però rimanendo a uno stato di latenza per l’assenza di una vera strategia per la creazione diretta di nuova occupazione. L’alternativa che sembra profilarsi è un'altra ed è il lavoro a qualunque costo. Ma ammesso che i centri per l’impiego siano in grado di fare delle offerte (cosa non scontata visti i precedenti) rimane il problema della congruità. Sarebbe grave se i voucher per il lavoro accessorio venissero utilizzati come offerta congrua per i percettori di Reddito di Cittadinanza, magari in agricoltura o nel settore alberghiero come sembra indicare il disegno collegato alla legge di bilancio. Torna in Italia l'imprenditore Andrea Costantino: era stato scarcerato ma non poteva lasciare gli Emirati di Clemente Pistilli La Repubblica, 25 dicembre 2022 Torna in Italia l'imprenditore Andrea Costantino: era stato scarcerato ma non poteva lasciare gli Emirati. Dopo le accuse di finanziamento del terrorismo il 50enne milanese era stato privato del passaporto e viveva all'interno dell'ambasciata. Il racconto dell'orrore vissuto in carcere: “Morso dai topi e costretto a mangiare cibo buttato a terra”. Natale a casa per Andrea Costantino, l'imprenditore italiano rimasto bloccato per mesi all'interno dell'ambasciata italiana negli Emirati Arabi Uniti dopo essere stato rilascio dal carcere di massima sicurezza di Al Wathba. Ad annunciare il rientro in Italia è stato lo stesso Costantino, intervenuto questa mattina, 24 dicembre, in diretta ai microfoni di Radio Libertà e soddisfazione è stata espressa da Palazzo Chigi. L’imprenditore ha ringraziato il vicepresidente del Consiglio e ministro delle infrastrutture, Matteo Salvini, il direttore generale per gli italiani all'estero della Farnesina, Luigi Vignali, e l'ambasciatore d'Italia ad Abu Dhabi, Lorenzo Fanara. Costantino, 50 anni, di Milano, era stato arrestato con l'accusa di finanziamento del terrorismo in Yemen il 21 marzo scorso, mentre si trovava in un hotel di Dubai, dove soggiornava con la famiglia. Era tornato negli Emirati arabi uniti per rinnovare il visto di residenza in scadenza ed era finito nel penitenziario di Al Wathba. Rilasciato nel maggio scorso, grazie alla mediazione della diplomazia italiana, l’imprenditore ha vissuto sinora in una dependance dell'ambasciata d'Italia, essendo stato confiscato il suo passaporto dalle autorità emiratine. “Devo ancora realizzare di essere finalmente in Italia. Sono ancora in una bolla e non me ne rendo conto. Ma rivedere in aeroporto dopo due anni mia moglie Stefania e mia figlia è stato qualcosa di indescrivibile”, dichiara Costantino. Ancora: “Mia figlia mi ha portato una cornice con un disegno dove ha scritto “che bello che ci sei”. Ritrovarla è stata una sensazione fantastica dopo tanti momenti difficili”. Il racconto della detenzione è pesante. Quei giorni nel penitenziario vengono descritto da costantino come più che orribili. “Sono stato morso dai topi - afferma - detenuto in una cella da 4 con altre 14 persone, il cibo ci veniva dato per terra. Ho visto il mio avvocato solo una volta in un più di un anno di carcere. Un'esperienza incancellabile nel senso negativo del termine”. L'imprenditore guarda però ora al futuro: “Voglio passare più tempo possibile con la mia famiglia, poi mi dovrò rimettere in piedi e lavorare. Intanto mi godo questi momenti di pura gioia”. Iran. Un centinaio di persone rischiano la pena capitale ansa.it, 25 dicembre 2022 La Cnn: denunciati abusi e torture, appelli delle famiglie. Potrebbero essere un centinaio gli iraniani che rischiano in questi giorni la pena capitale, e molti di loro sono giovanissimi o addirittura minorenni. Lo riferisce la Cnn, precisando di avere ottenuto questo numero mettendo a confronto notizie dai media e informazioni diffuse dalle autorità. Tuttavia, molte famiglie non hanno avuto il coraggio di confermare la presenza dei propri cari tra i detenuti a rischio, ma quelli certi sono almeno 43. Tra loro due fratelli di 23 e 24 anni, Farzad e Farhad Tahazade, la cui madre ha diffuso un video per chiedere il loro rilascio, un gesto non privo di rischi per lei stessa. Nel solo tribunale regionale del Khuzestan, a ovest di Isfahan, la Cnn ha confermato - in collaborazione con 1500Tasvir - attraverso documenti del tribunale che 23 persone sono state accusate di reati punibili con la morte. A Karaj, vicino a Teheran, si è scoperto che altri cinque iraniani rischiano l'esecuzione. Tra loro c'è il 21enne campione curdo-iraniano di karate Mohammad Mehdi Karami. La sua famiglia ha lanciato un appello per la sua liberazione, denunciando che è stato anche torturato in prigione. Un altro detenuto, il rapper curdo-iraniano di 27 anni Saman Yasin, ha tentato il suicidio in carcere. La Corte suprema dell'Iran ha intanto respinto il ricorso di Mohammad Ghobadlou, confermando la sua condanna a morte e autorizzando quindi la sua esecuzione. “Il ricorso è stato respinto dalla Corte suprema e non ci sarà nessun secondo processo contro di lui. La sua sentenza verrà perciò eseguita”, fa sapere l'alto tribunale. È stato invece accolto il ricorso del rapper curdo Yassin (Saman Seyyedi), e pertanto sarà processato di nuovo, fa sapere la Corte suprema di Teheran. Come ci dimentichiamo dei curdi di Alberto Negri Il Manifesto, 25 dicembre 2022 Comunità curda in piazza a Parigi. Un tempo i curdi che a Kobane resistevano al Califfato erano i nostri eroi. Allora la bandiera nera dell’Isis sventolava a 400 metri dalla città. Resistere resistono ancora contro l’Isis. Un tempo i curdi che a Kobane resistevano al Califfato erano i nostri eroi. Allora la bandiera nera dell’Isis sventolava a 400 metri dalla città. Resistere resistono ancora contro l’Isis che è tutt’altro che sconfitto, ma ora pure sotto le bombe dei turchi nel Rojava, ai confini tra Siria e Turchia. Ce li siamo dimenticati presto i curdi, visto che pur di fare entrare Svezia e Finlandia nella Nato siamo disposti a sacrificarli ai ricatti del Sultano Erdogan. La strage dei curdi al centro culturale di Parigi non è soltanto il gesto xenofobo di un estremista, è il frutto avvelenato di un clima generale: “Per noi si tratta di un attacco terrorista, si inserisce in una escalation di tensione alimentata scientemente dalla Turchia”, è stata la dichiarazione del portavoce Agit Polat puntualmente riportata nella corrispondenza di Anna Maria Merlo da Parigi. Dove, come in altre città francesi, per il secondo giorno consecutivo la comunità curda è scesa in piazza per protestare, con scontri tra i manifestanti, che portavano i ritratti dei tre militanti assassinati, e la polizia in pieno centro e forti momenti di tensione. Così come non fu certo un caso l’uccisione nel gennaio 2013, sempre a Parigi, di tre donne del Pkk: freddate con un colpo alla nuca. Un’esecuzione. Oggi è anche peggio di allora. Basta vedere le estradizioni dei curdi da Svezia e Finlandia - nonostante l’alta Corte svedese abbia bloccato un solo “trasferimento”. Gli accordi stipulati tra i tre paesi durante il vertice Nato di Madrid, infatti prevedono, in cambio del placet di Ankara all’ingresso dei due paesi nella Nato, la consegna di una lunga lista di persone appartenenti all’opposizione curda e turca al regime di Ankara attualmente residenti in Finlandia e Svezia oltre che l’impegno a cambiare, radicalmente, l’approccio di accoglienza e di solidarietà verso la causa curda manifestato storicamente dai governi di Stoccolma. Erdogan ha approfittato del ruolo acquisito con l’invasione russa dell’Ucraina per mettere il coltello alla gola di svedesi e finlandesi. Che in parte si sono rimangiati la loro decennale posizione di critica e accusa nei confronti dell’autocrate turco di condurre una guerra spietata non solo contro i curdi ma contro ogni opposizione interna. Sì perché non ci sono solo i curdi ma la questione di un intero Paese, la Turchia, che il prossimo anno va a elezioni calpestando tutti i criteri democratici: il sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, membro del partito repubblicano Chp e uno dei più popolari oppositori a Erdogan, è stato da poco condannato a due anni e sette mesi di carcere per aver insultato alcuni funzionari pubblici nel discorso che fece nel 2019 dopo aver vinto le elezioni comunali. Se la condanna sarà confermata, Imamoglu verrà rimosso dalla carica di sindaco e non potrà candidarsi. E aggiungiamo che la leadership del partito curdo Hdp resta in carcere, sottoposta a una repressione sempre più intensa dopo l’attentato del 14 novembre nel centro di Istanbul a Istiklal Caddesi (6 morti) attribuito alla guerriglia al Pkk, per altro senza prove convincenti visto che l’attentatrice veniva dalla zona siriana controllata dalla Turchia e dalle milizie filo-Ankara. La Nato ha in casa il suo Putin ma fa finta di niente perché oggi, come ieri, gli torna utile anche quando vìola ogni principio delle alleanze occidentali. Come denunciava un recente appello del coordinamento dei curdi ospitato dal manifesto. Erdogan non soltanto continua i raid aerei sul Rojava, la zona autonoma curda dove è in corso una esperienza politica e sociale senza eguali nel cuore del Medio Oriente, ma si prepara anche a un attacco di terra come fece già nel 2019. In Siria e nel Nord dell’Iraq la Turchia in questo ultimo anno ha lanciato quattromila attacchi costringendo le popolazioni curde ad abbandonare centinaia di villaggi. Con che cosa la Turchia fa la guerra ai curdi? Ma con le nostre armi naturalmente. Dopo l’invasione del Rojava nel 2019 (centinaia di morti e 300mila profughi), l’Europa e l’Italia avevano promesso un embargo sulle vendite di armi ad Ankara. Non solo non se ne è fatto nulla ma la Turchia, il secondo esercito Nato con 400mila uomini, è stata da noi ulteriormente rafforzata. Dopo avere acquistato il sistema anti-missile S-400 da Mosca, la Turchia ha accelerato le forniture belliche anche dall’Europa. Nel quinquennio 2016-21 l’Italia ha fornito ad Ankara circa un miliardo di euro di armamenti, tra cui 92 elicotteri da combattimento assemblati dalla Turkish aerospace industries su licenza Agusta/Westland. Le armi italiane ed europee sono in prima fila nel colpire i curdi del Rojava che avevamo esaltato come gli alfieri dell’Occidente e i combattenti per la libertà. E come se non bastasse, i curdi sono entrati nel mirino anche del regime iraniano quando è stata uccisa Masha Amini originaria del Kurdistan iraniano (Jinha il suo nome curdo) la cui morte in settembre è stato il fattore scatenante delle proteste popolari contro il regime. L’obiettivo di Teheran sono i militanti dei partiti curdi di opposizione all’interno ma anche di base oltre i confini con l’Iraq. Si vede che la parola curda e persiana “azadì”, libertà, ovunque sia pronunciata, fa ancora troppa paura ai regimi di Turchia e Iran ma anche a noi, gli ipocriti esportatori di armi e democrazia. Afghanistan. “I Talebani temono le donne che studiano. Li combatteremo” di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 25 dicembre 2022 Intervista a Samia Walid dell’associazione femminista Rawa: ”Ci reprimono con prigione e tortura, ci vietano scuola e lavoro. Il non riconoscimento internazionale del governo islamista di Kabul è la richiesta della maggioranza degli afghani: lo consideriamo un gruppo terrorista”. Le donne afghane non sono disposte ad accettare l’ultima decisione oscurantista del regime dei taleban, la chiusura delle università. “L’educazione è un nostro diritto”, hanno urlato decine di studentesse riunite ieri davanti all’università di Kabul. “Il gruppo medioevale e misogino dei taleban ha paura dell’educazione delle donne, ma il popolo afghano non è ignorante e si solleverà contro questa banda terrorista e brutale imposta dalla Nato e dagli Usa”, sostengono le donne di Rawa (Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan), impegnate da decenni nella difesa dei diritti delle donne afghane. Una nuova sfida dei taleban anche a quei paesi che condizionavano il riconoscimento dell’emirato alla formazione di un governo “inclusivo” e all’apertura delle scuole. Una possibilità ormai superata dagli eventi, chiediamo a Samia Walid di Rawa. “I taleban sono un gruppo terrorista che non può dare al popolo afghano un governo accettabile. I governi occidentali parlano solo di governo inclusivo, ma cosa significa? Includere nel governo altri gruppi jihadisti? Si tratterebbe comunque di un governo che non riconosce i diritti delle donne e i diritti umani, quindi non deve essere riconosciuto”. Un anno e mezzo fa i taleban sono tornati al potere e il popolo afghano sta vivendo una crisi umanitaria causata dall’isolamento internazionale. L’Afghanistan non fa più notizia, se non per gli eccessi dei taleban. Qual è la situazione? Da quando l’Afghanistan è stato riconsegnato ai taleban il popolo afghano deve far fronte a una tremenda crisi umanitaria, le strutture economiche e sociali sono collassate e la gente ha perso quei pochi diritti umani di cui godeva. Dopo un anno e mezzo l’Afghanistan è dimenticato mentre la tragedia umana continua, milioni di persone vivono sotto il livello di povertà, soffrono la fame, molti emigrano per trovare lavoro in Pakistan o in Iran. Ma anche in quei paesi la situazione è difficile: gli afghani sono discriminati dai pakistani e dagli iraniani. Peggiore è la condizione delle donne e dei bambini: alle donne è vietato andare al lavoro e a scuola, i taleban reprimono le proteste delle donne con la violenza, la prigione e la tortura. Le forze democratiche, a livello internazionale, chiedono di non riconoscere il governo dei taleban, che infatti finora non è stato riconosciuto. Questo però pregiudica il sostegno alla popolazione. L’Onu riesce a inviate aiuti? Il non riconoscimento è la richiesta della maggioranza degli afghani che considera i taleban un gruppo terrorista. Tuttavia le potenze, inclusi gli Stati uniti, dicono di non avere riconosciuto i taleban ma sono in contatto con loro e fanno arrivare finanziamenti sotto forma di aiuti umanitari. Le Nazioni unite hanno dichiarato di aver dato ai taleban due miliardi di dollari negli anni. Ma questi aiuti non vanno alla popolazione, i taleban usano gli aiuti solo per mantenere in piedi il loro governo. Negli ultimi 20 anni i fondi della comunità internazionale non sono stati usati per la ricostruzione delle infrastrutture ma sperperati da governi afghani corrotti e jihadisti. Ancora oggi i soldi sono utilizzati per sostenere criminali. I taleban, secondo quanto rivelato da un giornale famoso (il britannico The Telegraph, ndr), hanno anche investito nella costruzione degli stadi per la Coppa mondiale di calcio in Qatar. A Doha, dove si sono svolti i negoziati con gli Usa, i taleban sono ben piazzati. L’Afghanistan comunque continua a essere terreno di batPtaglia di diversi paesi, come la Cina e la Russia. Quali sono i loro interessi nel paese? Purtroppo, l’Afghanistan è un terreno di battaglia tra Cina, Russia e Pakistan che vogliono ritagliarsi uno spazio nel paese. Cina e Russia hanno interessi strategici ed economici. Pechino punta sulle risorse naturali di cui l’Afghanistan è ricco, Mosca gioca la partita contro gli Stati uniti, entrambi i paesi hanno stretti contatti con i taleban. La Cina ha problemi con i fondamentalisti islamici uiguri, la Russia con i fondamentalisti che agiscono in Tagikistan. Quello che chiedono ai taleban è di non appoggiare questi gruppi. Ma a questi paesi non interessa cosa fanno i taleban in Afghanistan. Quello che sta accadendo in Iran quali ripercussioni può avere in Afghanistan, soprattutto per la lotta delle donne? “Jin Jiyan Azadì”, “donna vita libertà”, lo slogan creato dalle donne curde, sta diventando oggi lo slogan per il sostegno internazionale non solo alle donne iraniane, ma anche afghane... La lotta delle donne iraniane e il loro coraggio sono di grande ispirazione per noi. Il regime fascista degli ayatollah e dei mullah ha oppresso per decenni il popolo iraniano e se cadrà avrà grandi ripercussioni in Afghanistan. Il regime di Teheran è un sostenitore dei fondamentalisti afghani; se cadesse, i taleban perderebbero un grande sostegno. Fin dall’inizio della protesta le donne afghane hanno appoggiato le iraniane rischiando la loro vita con manifestazioni anche davanti all’ambasciata iraniana a Kabul, con lo slogan “Donna, vita, libertà”.