Persone detenute e famiglie: Trovarsi e poi riperdersi di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 24 dicembre 2022 Le feste sono fatte per ritrovarsi, rivedersi, accorciare le distanze, in qualche caso riappacificarsi. Però oggi in carcere una persona detenuta ci ha fatto pensare quando ci ha detto: “Poter telefonare ogni giorno a casa aveva aiutato la mia famiglia a ritrovarsi. Ora ritornare da una telefonata al giorno a una telefonata a settimana di dieci minuti significa riperdersi. Questo fine anno lo ricorderemo con i miei cari per esserci persi di nuovo”. Dice l’articolo 15 dell’Ordinamento penitenziario che il trattamento del condannato e dell’internato è svolto anche “agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia”. “Trattamento” della persona detenuta non è certo una gran bella parola, però esprime un grande concetto, quello di una pena che non deve tanto “far male”, anche se lo fa, inevitabilmente, ma deve piuttosto accompagnare la persona detenuta a misurarsi con la responsabilità di aver provocato dolore e paura in altri esseri umani. Il dolore delle vittime, prima di tutto, ma anche il dolore dei propri figli, delle proprie famiglie. Ed è per questo che le famiglie sono uno dei pilastri della rieducazione, e l’Amministrazione Penitenziaria dovrebbe essere impegnata a fare di tutto per limitare i danni prodotti dal carcere sui legami affettivi. In questi ultimi anni c’è stato un paradosso: il Covid ha bloccato inizialmente i colloqui, ma poi ha indiscutibilmente dato un’accelerata agli affetti delle persone in carcere introducendo “il miracolo” delle videochiamate e la bellezza della quotidianità delle telefonate. Gente che in venti, anche trent’anni di carcere aveva potuto usufruire dei miseri dieci minuti di telefonata a settimana (erano addirittura sei fino al 2000) si è ritrovata a chiamare casa ogni giorno, e a entrare anche nei luoghi dei propri affetti con le videochiamate. Una grande boccata di ossigeno. Pare però che le telefonate a breve non saranno più quotidiane, e francamente per una Istituzione che deve fare i conti quest’anno con 81 suicidi e che dice di volerli prevenire, sembra una follia non mantenere il più possibile l’unica forma di prevenzione vera, che è quella di rafforzare i legami famigliari. Certo, per chi ha figli minori dovrebbe restare la telefonata quotidiana, ma tutte le persone che sono da anni in carcere, come fanno ad avere figli minori? E quei figli maggiorenni che per anni hanno dovuto accontentarsi della miseria dei dieci minuti settimanali, perché devono essere di nuovo penalizzati dopo aver assaporato un po’ più di “normalità” con la chiamata quotidiana? La Corte Costituzionale nell’ordinanza N.162/2010 definisce la regressione trattamentale “incompatibile con la logica della progressività che ispira il percorso rieducativo del detenuto e che è tutelata e garantita dall’art. 27 della Costituzione, attraverso la previsione della finalità rieducativa della pena”. E invece, cosa sta succedendo? Succede che le Istituzioni, che per prime dovrebbero farlo, non rispettano assolutamente la Costituzione, e permettono così una massiccia regressione nei percorsi rieducativi: - per tutte le persone detenute che potevano telefonare quotidianamente, che hanno vissuto la doppia sofferenza della pandemia in carcere e ora si ritrovano a dover dire ai propri cari che finisce tutto, che si torna ai desolanti dieci minuti a settimana, mentre in tanti altri Paesi dell’Europa le telefonate vengono liberalizzate perché lì almeno hanno capito che è un investimento sulla sicurezza rafforzare i legami affettivi; - per quelle centinaia di persone, semilibere o in articolo 21, che durante la pandemia hanno potuto restare fuori anche la notte, tornare in famiglia, ritrovare una vita più umana, e hanno dato prova di saper gestire bene questa libertà in più, ma ora si troveranno a regredire come soldatini che devono obbedire anche alle regole più incomprensibili della pena; - per tutte quelle persone detenute con reati ostativi che già avevano dimostrato di avere preso le distanze dal loro passato, di aver messo in crisi le loro scelte distruttive, di aver costruito un percorso di riparazione del male provocato, e già accedevano ai permessi, e aspettavano con ansia un Natale con i propri cari. E si sono ritrovate, come nel gioco più sadico, a ritornare alla casella di partenza, e a dover di nuovo sprofondare nell’attesa, nonostante la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 253 del 2019, avesse riaperto la porta a quella speranza, che Papa Francesco invoca anche per gli ergastolani ostativi, i “condannati alla pena di morte viva”. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Il Natale per i carcerati è tornato alla sua terrificante normalità di Giulia Merlo Il Domani, 24 dicembre 2022 Dopo due anni di pandemia il sistema carcerario ha tutti i problemi di prima, aggravati dal silenzio della politica. Sovraffollamento, 82 suicidi in un anno, poche speranze di reinserimento sociale. Il primo Natale in carcere dopo le due anni di restrizioni per il covid è un ritorno alla normalità, per questo non c’è nulla da festeggiare. Le festività coincidono sempre con i momenti più duri per i detenuti e la pandemia non ha fatto altro che amplificarne la durezza, a causa dei divieti di visita e la paura del contagio. Nei giorni di festa la solitudine e le privazioni si sentono di più, insieme alla lontananza o l’assenza degli affetti, e le attività nelle strutture sono ridotte al minimo o azzerate. Ora che lo stato d’emergenza è finito, il corso della vita carceraria è ripreso normalmente, come anche la tradizione dei piccoli festeggiamenti natalizi. A San Vittore, a Milano, ”abbiamo fatto una festa, con cioccolatini e qualche panettone, i detenuti hanno costruito un presepe nella rotonda e in tutti i reparti sono comparsi addobbi e alberi di Natale”, ha detto suor Anna Donelli, volontaria in carcere da più di dieci anni. In buona parte delle carceri, inoltre, alcune delle introduzioni tecnologiche dovute al covid sono rimaste: ”Telefonate più frequenti per sentire meno distanti le famiglie, colloqui anche in alcune domeniche e ora senza il plexiglass a separare le persone, ma soprattutto la possibilità di fare videochiamate”. Una conquista per i detenuti, che così possono con uno sguardo ritornare a casa o vedere di nuovo il viso di genitori anziani o dei bambini, che difficilmente possono raggiungerli in carcere. Eppure, il vero regalo di natale che aspettavano non è arrivato: i 75 giorni di liberazione anticipata ogni sei mesi per i due anni di covid, previsto dalla riforma Ruotolo. Nessuna vittoria - “Tutti aspettavamo un segnale: noi garanti, i detenuti e anche la polizia penitenziaria. Invece non c’è stato”, ha detto Gabriella Stramaccioni, garante dei detenuti del Lazio. Anzi, l’ultimo decreto del governo ha imposto che il 1 gennaio i semiliberi da due anni debbano tornare in carcere. “Noi garanti stiamo scioperando a staffetta contro questa assurdità: che senso ha appesantire un sistema già in crisi rimettendo in cella chi ha dimostrato un buon reinserimento nella società?”. Per correggere questo non senso basterebbe un emendamento del governo in Finanziaria: “Anche all’ultimo minuto, basta la volontà politica” è l’appello. Del resto, questa è la normalità a cui le carceri sono tornate dopo il covid: sovraffollamento, 82 suicidi in un anno e pochissima speranza di reinserimento sociale dei detenuti. ”Non prendiamoci in giro: il carcere, anche prima del covid, era un disastro ed essere tornati così è un fallimento del sistema”, è il commento di Nicola Boscoletto, fondatore della cooperativa Giotto che opera nel carcere di Padova e gestisce il lavoro esterno. Secondo lui, un ritorno alla situazione pre-covid è tutt’altro che una vittoria e anche i piccoli miglioramenti come le videochiamate, pur positivi, non vanno enfatizzati, “anche perché oggi è più razionale, oltre che sicuro: è più facile controllare le telefonate del detenuto rispetto alle lettere”. Eppure il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha mostrato anche con gesti simbolici la sua attenzione al mondo carcerario e la volontà di intervenire sul sistema malato. Secondo, Boscoletto, però, al carcere non servono riforme, ma solo l’applicazione delle regole già esistenti: “Il motto della polizia penitenziaria è vigilando, redimere. Bisognerebbe riportare al centro del carcere il suo scopo: la riabilitazione”. Invece, i dati fotografano una realtà diversa: su 56mila detenuti, quelli che lavorano e sono stati inseriti in un percorso di reinserimento serio sono tra i 600 e i 700, la maggior parte dei quali nel carcere di Padova e negli istituti di Lazio e Lombardia. Nelle altre carceri, le associazioni di volontariato riescono a imbastire progetti che però difficilmente permettono una vera occasione di reinserimento sociale.  Circa due terzi dei detenuti, inoltre, soffrono di patologie di vario tipo: psichiatriche, tossicodipendenza, ludopatia, invalidità di vario grado. “Per cambiare qualcosa bisogna farsi governare dai dati e dall’oggettività: senza lavoro non c’è reinserimento e non c’è recupero. Il resto sono solo chiacchiere, che trasformano il carcere in uno strumento di consenso o di guerra tra politica e magistratura”, è il ragionamento di Boscoletto. Intanto, in ogni carcere le associazioni di volontariato fanno quel che possono, grazie anche alla disponibilità delle direzioni penitenziarie: piccoli pranzi di gruppo nei reparti meno numerosi, un brindisi per gli auguri a Padova con gli oltre cento lavoratori detenuti, il 26 dicembre a Regina Coeli e Rebibbia ci sarà un giro di visite con piccoli regali e pranzo con lasagne. “Ogni piccola cosa serve, per far sentire ancora persone anche coloro che hanno sbagliato”, è la conclusione di suor Anna. Nell’attesa che le istituzioni, dopo tante parole e ancora poche iniziative concrete, inizino a dare risposte. Magari proprio in questa Finanziaria con l’emendamento sui semiliberi. A Capodanno centinaia di ex carcerati tornano in cella di Stefano Anastasìa* Il Riformista, 24 dicembre 2022 Sono già stati contattati: la notte di San Silvestro, invece di prepararsi al brindisi di fine anno, dovranno presentarsi in carcere per la loro prima notte nel vecchio regime, quello di prima della pandemia, di giorno liberi, di notte detenuti, “semiliberi” appunto. Per due anni e mezzo si è sperimentata l’ammissione di centinaia di persone a una sorta di libertà vigilata, sotto controllo dell’ufficio di esecuzione penale esterno e supervisione del magistrato. Nella stragrande maggioranza dei casi, queste persone hanno ripagato la fiducia che è stata loro data, comportandosi correttamente e dimostrando di essere pronte per un reinserimento pieno nella vita civile. E ora li riportiamo a dormire in carcere come se nulla fosse stato? Naturalmente sono già stati contattati: la notte di San Silvestro, tra le 22 e le 23, invece di prepararsi al brindisi di fine anno, dovranno presentarsi in carcere per la loro prima notte nel vecchio regime, quello di prima della pandemia, di giorno liberi, di notte detenuti, “semiliberi” appunto. Qualche dirigente sanitario, ignaro delle peculiarità delle loro condizioni di detenzione, vorrebbe anche applicargli la normativa anti-covid (quella che non gli si può più riconoscere per farli stare fuori anche di notte), e dunque immagina che debbano essere isolati per cinque giorni (come è disposto per gli arrestati), anche se i semiliberi ogni santo giorno escono dal carcere, hanno un’attività lavorativa e quindi non possono stare in isolamento per cinque giorni ogni volta che rientrano in carcere. E peraltro sarebbe anche inutile, visto che le sezioni dove i semiliberi sono ospitati per la notte non comunicano con quelle dei detenuti ordinari, e dunque il loro ingresso in carcere non costituisce un pericolo di diffusione del virus in carcere, e certamente lo è di meno dell’ingresso quotidiano del personale educativo, sanitario e penitenziario che ogni giorno entra in carcere dall’esterno e ha diretto contatto con i detenuti delle sezioni ordinarie. Ma vabbè, questi sono fiscalismi che, anche con l’aiuto delle direzioni e del personale penitenziario, il personale sanitario riuscirà a superare. Il fatto, però, resta che a fine anno centinaia di detenuti dovranno far rientro in carcere dopo due anni e mezzo di ottima prova in licenza straordinaria, che consentiva loro, appunto, di restare a dormire a casa. Ma, si dirà (e si dice), quelle licenze erano straordinarie, motivate dalla emergenza covid che non c’è più, e dunque non si possono protrarre ulteriormente. Ma, così dicendo, si dimentica che quelle licenze sono un fatto che ha cambiato l’esperienza penale di centinaia di persone e l’ordinamento, gli operatori e la politica non possono non tenerne conto. Per due anni e mezzo si è sperimentata l’ammissione di centinaia di persone a una sorta di libertà vigilata, sotto controllo dell’ufficio di esecuzione penale esterno e supervisione del magistrato competente. Nella stragrande maggioranza dei casi, queste persone hanno ripagato la fiducia che è stata loro data, comportandosi correttamente e dimostrando di essere pronte per un reinserimento pieno nella vita civile. E ora che facciamo, li riportiamo a dormire in carcere come se nulla fosse stato? Si tratta, chiaramente, di una cosa priva di senso e contraria a un elementare sentimento di giustizia, oltre che a un principio fondativo del nostro ordinamento penitenziario. La finalità rieducativa della pena prescritta dall’articolo 27 della Costituzione, come qualsiasi processo educativo, si fonda su una progressione nell’acquisizione di competenze e di autonomia della persona. E il patto educativo funziona nella misura in cui i progressi del discente (nel nostro caso, del condannato) vengono riconosciuti dall’autorità educante. Per questo nella teoria e nella pratica penitenziaria si parla di “progressione trattamentale”: i passi si fanno uno per volta, ma - se non ci sono accidenti - si fanno in una direzione, in quella dell’autonomia, delna la responsabilità, del reinserimento sociale. Come è possibile, allora, che persone che hanno fatto uno, due, tre passi avanti, fosse pure a causa del covid, ora debbono tornare indietro? Come si può tornare indietro senza ledere quella fiducia reciproca che si è instaurata tra i condannati in regime di semilibertà, la giurisdizione competente e le amministrazioni dello Stato delegate? Già un anno fa, noi garanti territoriali, nominati dalle Regioni, dalle Province e dai Comuni, avevamo chiesto a Governo e Parlamento di affrontare e risolvere questo problema, e una proroga delle licenze straordinarie fu disposta fino al 31 dicembre 2022. Per questo oggi, a una settimadalla scadenza di quella proroga, torniamo a chiedere che quelle licenze straordinarie siano ulteriormente prorogate, almeno di un anno, auspicando che - nel frattempo - si possa serenamente discutere della opportunità di convertire quelle misure di semilibertà in affidamenti in prova al servizio sociale o in liberazioni condizionali, cioè in misure penali che non prevedano più il rientro in carcere, se non in caso di revoca per gravi infrazioni disciplinari o per la commissione di nuovi reati. Il Parlamento ha già discusso della opportunità della proroga in occasione dell’esame in Senato del decreto-legge anti-rave e la maggioranza ha ritenuto di non dover approvare le proposte in tal senso dell’opposizione, ma ora c’è un nuovo, ultimo passaggio istituzionale, l’adozione del decreto-legge “milleproroghe”. Il Consiglio dei ministri ne ha discusso mercoledì scorso. Nelle prime bozze del decreto, pur rimanendo alcune misure varate durante l’emergenza covid, della proroga delle licenze straordinarie per i semiliberi non c’è traccia, ma noi non demordiamo: come si dice, la speranza è l’ultima a morire. Per questo noi garanti territoriali abbiamo deciso di metterci in fila, dietro il nostro decano Franco Corleone, in un digiuno a staffetta, finché sarà necessario, per sollecitare il Governo a fare la cosa giusta ed evitare il rientro in carcere chi ha dimostrato di poter stare fuori in condizioni di autonomia e legalità. *Portavoce della conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà “Meno carcere, più misure alternative: le celle non siano dei lager” di Simona Musco Il Dubbio, 24 dicembre 2022 La presidente del Cnf Maria Masi e il Garante Mauro Palma al governo: “Basta logica carcerocentrica”. Oggi un altro suicidio a Bergamo: si è tolto la vita inalando il gas del fornelletto. L’ultimo suicidio è di ieri: un uomo di 49 anni è morto nella sua cella a Bergamo, dopo aver inalato il gas del fornelletto in dotazione. Giovedì, invece, Giovanni Carbone si è tolto la vita a Lanciano. Un gesto annunciato, dopo aver chiarito al gip che il suo intento era rivolgere l’arma contro se stesso, dopo aver ucciso la compagna. È un elenco che si allunga costantemente quello dei morti in carcere. Un dramma che sembra non interessare a nessuno, perché l’unica soluzione, nell’agenda politica, sembra essere quella di costruire nuove carceri. E data la “fine dell’emergenza Covid”, come ha spiegato il ministro della Giustizia Carlo Nordio in Commissione Giustizia al Senato, dal 31 dicembre quasi 700 detenuti torneranno dietro le sbarre, aggravando ulteriormente il già cronico sovraffollamento. “Misura di pura coerenza”, ha chiarito il guardasigilli. Ed è a lui, in particolare, e al governo intero che si rivolgono ora la presidente del Consiglio nazionale forense Maria Masi e il Garante delle persone private della libertà Mauro Palma. Con una lettera che chiede un ricorso più ampio alle pene alternative, tanto da invocare, seppur implicitamente, l’attuazione della vecchia riforma Orlando, finita in un cassetto per ragioni elettorali ancor prima di vedere la luce. “L’auspicio - afferma Masi - è che tutte le componenti istituzionali, con il necessario coinvolgimento dell’avvocatura istituzionale e associativa, nonché con il contributo ineliminabile del Garante nazionale, avviino una riflessione seria, che, attraverso interventi normativi organici e funzionali, garantiscano che le condizioni della detenzione siano ispirate al principio di umanità e assicurino che l’esecuzione della pena avvenga in maniera conforme al principio costituzionale della rieducazione del condannato”. I primi obiettivi sono migliori condizioni di vita in carcere, più personale e l’introduzione di esperti per seguire le condizioni di disagio e fragilità, l’inclusione delle persone detenute nel tessuto sociale anche attraverso l’aumento di istituti di restrizione a custodia attenuata; la riabilitazione e la risocializzazione di chi sconta una pena anche attraverso la promozione dell’accesso al diritto allo studio e l’offerta di opportunità concrete di lavoro; la riduzione dei limiti all’accesso alle misure alternative. E solo dopo, dunque, si potrà pensare a nuovi istituti penitenziari, che nell’idea di Nordio potrebbero essere allestiti nelle caserme dismesse, idonee, da un punto di vista strutturale, ad ospitare dei detenuti. “Questo non significa affatto che stiamo diventando carcerocentrici - ha assicurato il ministro -. Abbiamo trovato una fortissima sensibilità verso le misure alternative al carcere quanto meno per i tossicodipendenti”, che costituiscono il 40 per cento dei detenuti. “La pena non deve essere necessariamente carceraria”, ha aggiunto. Ma le soluzioni sul piatto, al momento, sono solo strutturali, pur annunciando la volontà di aprire un confronto tra la politica (opposizione compresa), l’avvocatura e la magistratura. Masi e Palma, per il momento, vanno più sul concreto. Con un occhio alla legge di Bilancio, che prevede al momento tagli ai fondi destinati all’amministrazione penitenziaria, tagli che chiedono alla politica di rivedere. Anche perché le risorse economiche, ricordano, “sono già insufficienti per le attività rieducative e per un accettabile livello di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti”. Secondo Palma, “lo stato della detenzione nel nostro Paese, la cui criticità è segnalata non soltanto dalla densità della popolazione detenuta ma anche dal numero degli atti di suicidio, ad oggi 82, che si sono verificati nel corso di quest’anno, richiede una serie di interventi urgenti e indifferibili che non possono attendere la realizzazione di progetti di natura edilizia, pur necessari in una prospettiva di prossimo futuro”. Progetti che, in ogni caso, dovranno rispettare gli standard dettati dalla Cedu e dagli organi sovranazionali, avvertono Masi e Palma, a partire dal “principio di territorialità dell’esecuzione della pena, della distinzione tra l’esecuzione di misure cautelari, pene brevi e pene superiori ai cinque anni di reclusione”, che possono essere raggiunti semplificando le procedure per le decisioni giudiziarie, rivedendo modalità e presupposti di accesso alle misure alternative e le preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari; aumentando le opportunità di lavoro retribuito dentro e fuori dal carcere e le attività di volontariato; intervenendo, con misure specifiche, a tutela delle donne recluse e delle detenute madri; riducendo la custodia cautelare - da utilizzare come extrema ratio e nei casi di reati gravi - e “abbandonando la logica carcerocentrica”, concludono, limitando il carcere “ai soli casi di effettiva pericolosità sociale”. Mai così tanti suicidi in carcere: come arginare questa strage? di Silvia Lucchetti it.aleteia.org, 24 dicembre 2022 La nostra intervista alla dottoressa Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone: “in carcere entrano sempre più persone disperate ed emarginate, e le sbarre non fanno altro che esasperarne la sofferenza”. I detenuti che si sono suicidati in Italia nei primi undici mesi di quest’anno sono 79, secondo la ricerca del Garante Nazionale dei diritti per le persone private della libertà personale. Ma il mese di dicembre ha purtroppo visto accrescere ulteriormente questo dato che ha ormai superato le 80 unità, e che nella sua drammaticità ci potrebbe far dimenticare che dietro ai numeri ci sono storie e volti. Lo studio “Per un’analisi dei suicidi negli istituiti penitenziari” rileva che, delle 79 persone che si sono tolte la vita fino al momento della ricerca, 74 erano uomini e 5 donne. La popolazione carceraria complessiva alla data del 30 novembre era di 56.524 persone, di cui 2.389 donne che rappresentano mediamente il 4% del totale dei detenuti. I dati statistici del fenomeno - Riguardo alla nazionalità, 46 vittime erano italiane e 33 straniere (18 delle quali senza fissa dimora), provenienti queste ultime da 16 diversi Paesi: Albania (5), Tunisia (5), Marocco (5), Algeria (2), Repubblica Dominicana (2), Romania (2), Nigeria (2), Brasile (1), Nuova Guinea (1), Pakistan (1), Cina (1), Croazia (1), Eritrea (1), Gambia (1), Georgia (1), Ghana (1), Siria (1). Le fasce d’età più rappresentate sono quelle tra i 26 e i 39 anni (33 persone) e tra i 40 e i 54 anni (28 persone); le restanti si distribuiscono nelle classi 18-25 anni (9 persone), 55-69 anni (6 persone) e ultrasettantenni (3 persone). 36 erano state giudicate in via definitiva, e 5 avevano almeno una condanna definitiva e altri procedimenti penali in corso; 31 persone erano in attesa di primo giudizio e 7 appellanti. Tra le persone condannate e quelle con posizione “mista con definitivo”, 39 avevano una pena residuafino a 3 anni e 5 di esse avrebbero completato la pena entro l’anno in corso; altre 4 avevano una pena residua superiore ai 3 anni, mentre 1 soltanto aveva una pena residua superiore ai 10 anni. Risulta che 49 persone, pari al 62%, si sono suicidate nei primi sei mesi di detenzione; di queste, 21 nei primi tre mesi dall’ingresso in Istituto, e 15 entro i primi 10 giorni, 9 delle quali addirittura entro le prime 24 ore dall’ingresso. L’intervista alla coordinatrice dell’associazione Antigone - Per cercare di cogliere le cause del fenomeno e le possibili strategie per affrontarlo, abbiamo intervistato la dottoressa Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, associazione che dal 1991 lavora alla promozione dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario. Quali sono le motivazioni alla base del fatto che quest’anno c’è stato il doppio dei suicidi nelle carceri italiane rispetto alla media degli ultimi 10 anni? Non è possibile rispondere a questa domanda, non ci sono motivazioni specifiche. Ogni suicidio è una scelta individuale, con motivazione spesso estremamente complesse. Quello che possiamo ipotizzare è che ci sia una crescente tendenza all’imprigionamento delle categorie più disperate della società, persone che entrano in carcere già fortemente sofferenti. Questo è un fenomeno che dagli anni 2000 in poi abbiamo sempre più osservato. In carcere ci sono i grandi criminali, ma la massa della popolazione detenuta è fatta da persone provenienti dalla grande marginalità sociale, portatori di una preesistente disperazione dovuta a una condizione di povertà culturale, sociale, lavorativa, economica ecc… Tutte le marginalità sociali le portiamo sempre più nel carcere, cioè affrontiamo con strumenti penali questi problemi. Si entra in carcere già portatori di disperazione, che poi il carcere fa fatica ad intercettare. Perché c’è tanta gente, è sovraffollato, ci sono pochi operatori del reparto dell’area educativa, del sostegno psicologico, del sostegno psichiatrico, ecc… Per cui si fa fatica a venire a contatto con le singole storie di disperazione che la condizione di restrizione poi acutizza. Abbiamo un ufficio del difensore civico dei detenuti a cui si rivolgono i detenuti che credono di vedere violati i loro diritti in fase di esecuzione penale, e le richieste che ci fanno sono relative alla tutela del diritto alla salute (persone malate che lamentano di non essere curate), soggetti sradicati dal contesto familiare per un trasferimento e che non vedono i loro cari. Il carcere peggiora lo stato di disagio e non riesce ad individuarlo, a farsene carico e a capire quando la persona sta per compiere un gesto estremo. C’è una valutazione e un supporto psicologico specialmente nella parte iniziale della detenzione, in particolare per coloro che accedono al carcere per la prima volta? In carcere sono presenti gli psicologi che sono sempre tenuti a fare il colloquio di primo ingresso, questo proprio per valutare il rischio di suicidio. Nelle nostre visite condotte nell’ambito dell’Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione, abbiamo rilevato che la presenza media degli psicologi nelle carceri italiane è un po’ inferiore alle 20 ore settimanali ogni 100 detenuti; come si fa quindi ad avere una vera attenzione al singolo individuo? Sempre più il colloquio di primo ingresso si riduce in qualcosa di burocratico, dove si chiede al detenuto se intende suicidarsi o meno: quello dice di no, e allora lo mandano nel reparto ordinario. Tempo fa quando Luigi Manconi era Sottosegretario alla Giustizia era stata emanata una apposita circolare alla cui stesura aveva partecipato anche Antigone, che prevedeva la costituzione di sezioni “nuovi giunti”. Questo nella considerazione che la persona al momento dell’ingresso in carcere potesse fruire di un periodo cuscinetto prima di essere calato nella più dura realtà del carcere. Sezione più aperta dove potesse trascorrere un po’ di tempo, con maggiore sostegno psicologico, con più ampia possibilità di chiamare la famiglia, di sentire i parenti, ecc… Nacque qualcuna di queste sezioni ma poi come accade in carcere tutto finì nel dimenticatoio. Quali strategie concrete e immediate possono essere messe in atto per contrastare questo fenomeno nelle carceri italiane? Noi avevamo proposto un documento molto articolato che di fatto era una riscrittura del regolamento penitenziario, il regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario. Quello attualmente in vigore risale al 2000, e sappiamo che in 22 anni il mondo è piuttosto cambiato. Per cui in questo documento ipotizzavamo un maggiore contatto con l’esterno, la possibilità per il detenuto di poter telefonare in un momento di disperazione alle persone care, senza dover passare per tutta la trafila burocratica prevista. Attualmente sono autorizzati solo 10 minuti di telefonata a settimana, passando per l’operatore. Invece in un momento di disperazione una telefonata può davvero salvare una vita! In definitiva avevamo richiesto più colloqui, più telefonate, più agilità nei contatti con l’esterno, e soprattutto l’uso delle nuove tecnologie in modalità quotidiana. La pandemia ci ha insegnato che questo si poteva fare e che esse non rappresentano un pericolo per la sicurezza. E inoltre una maggiore possibilità di applicazione delle misure alternative. Era un documento piuttosto complesso che era stato in buona parte incluso nella relazione della Commissione Ministeriale istituita dall’ex ministra Marta Cartabia, e guidata dal professor Marco Ruotolo. Quella prospettiva di riforma si è arenata con la caduta del governo Draghi: bisognerebbe perciò ripartire da lì. Reddito di cittadinanza. Niente soldi agli ex detenuti senza recidive da meno di 10 anni di Luigi Alfonso vita.it, 24 dicembre 2022 Maria Grazia Caligaris, a nome dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, conduce una battaglia in nome di coloro che, pur avendo chiuso i conti con la giustizia e avendo evitato di ricadere in tentazione, non potranno beneficiare del provvedimento che sostiene le persone in difficoltà economica. “Escludere dalla possibilità di fruire del reddito di cittadinanza le persone che hanno scontato la pena e che da meno di 10 anni non sono recidive, è una misura sulla quale è necessario intervenire per rimuoverla o ridimensionarne la portata. Rischia infatti di far reinserire nel circuito malavitoso chi da diversi anni con grande fatica se n’è tenuto lontano”. Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, non ci gira attorno e va al cuore del problema, sollecitata da alcuni ex detenuti che si sono rivolti all’Associazione per lamentare la discriminazione della quale si sentono vittime. “Ho utilizzato il reddito di cittadinanza per far fronte in questi anni a bisogni primari”, spiega A. B., cagliaritano di 65 anni. “Trovare un lavoro per un ex detenuto, anche se non ha commesso un omicidio, non è un violentatore, né un pedofilo e non spaccia droga, è un’impresa difficilissima. I pochi lavori saltuari, che si riescono a svolgere, coprono solo in parte i bisogni. Per pagare l’affitto bisogna chiedere aiuto alla Caritas e gestire una vita così precaria non è facile. In questi sette anni e mezzo, fuori da qualunque circuito malavitoso e sempre attento a non ricaderci, il reddito di cittadinanza mi ha aiutato. Ora però ho scoperto che non ne potrò più usufruire perché è riservato solo a quelli che hanno terminato di scontare la pena da almeno dieci anni”. Il caso di A.B., purtroppo, non è isolato. “Sono diverse le famiglie che, da un giorno all’altro, senza alternative oltre la mensa della Caritas, si sono ritrovate senza quel supporto indispensabile non per acquistare regali o viaggi, ma per affrontare la vita senza dover perdere del tutto la dignità, prima ancora della libertà”, è l’amara considerazione di Caligaris. “Lo Stato, e in questo caso specifico il decreto Aiuti, approvato a luglio ma ormai entrato a regime attraverso l’Inps, non può negare la stessa funzione riabilitativa del carcere. Una persona che ha scontato la pena, a cui era stato assegnato il reddito di cittadinanza, che da oltre un lustro cerca di guadagnarsi onestamente da vivere, nonostante le oggettive difficoltà a trovare un lavoro non può diventare facile preda delle organizzazioni criminali”. “Non si comprende perché lo Stato sembri volersi accanire su chi è in serie difficoltà e tralasci del tutto invece di guardare più da vicino chi non paga le tasse”, conclude Caligaris. “Lascia interdetti anche un mondo politico spesso distratto sui problemi concreti dei cittadini più fragili. La legge di Bilancio può essere un’occasione per rimettere a posto le cose? Restituire dignità alle istituzioni può passare anche dal ridimensionare un provvedimento che così com’è appare sbagliato e forse anche incostituzionale, perché discrimina cittadine e cittadini che hanno pagato il loro debito con la società e hanno diritto a essere alla pari degli altri, persone senza aggettivi”. I figli del carcere di Luigi Manconi La Stampa, 24 dicembre 2022 Negli anni decine di bambini sono nati in cella, privati del loro tempo. Meno minori detenuti: siamo solo all’inizio ma la strada è giusta. C’è una dimensione della nostra società - un luogo preciso, delimitato da un perimetro definito - dove la percezione del tempo è completamente alterata. Quel luogo è il carcere. Si può arrivare a dire che esso costituisca una vera e propria macchina del tempo autonoma e scissa dal tempo generale, quello delle nostre relazioni sociali e della nostra vita ordinaria. In altre parole, se la prigione è un mondo a sé, il suo è un tempo del tutto indipendente. Ora, se questo è vero, come conoscerà il tempo chi sa solo il tempo della galera? Quale tempo saprà chi, per ventura, vi è nato o vi abbia trascorso la prima infanzia o l’adolescenza? Stiamo parlando, sia chiaro, di piccole entità - appena qualche decina i bambini in carcere con le loro madri - e tuttavia, centinaia e centinaia nel corso degli anni: ma la loro sorte richiama quella di quanti trascorrono significativi periodi in stato di privazione della libertà. Perché è proprio quest’ultima che si esprime in primo luogo come imposizione di un tempo tutto particolare. Un tempo inventato rispetto alla vita normale e comunque funzionale a quella forma di esistenza che è la detenzione. Non è certo un caso che, fino a qualche decennio fa, i reclusi non potevano portare al polso l’orologio. Il motivo è semplice: avere un orologio significa poter prevedere, programmare, organizzare la vita, con i suoi vuoti e i suoi pieni, determinare scadenze e scegliere l’ordine delle proprie azioni, inazioni e consuetudini. Decidere, cioè, del tempo. In carcere, è il tempo dell’autorità a decidere del prigioniero. Si pensi, dunque, a come questo tempo esterno ed eterodiretto possa condizionare la vita nascente di chi si trovi in carcere a due, tre mesi. Come sarà il suo ciclo di vita? L’allattamento, la lallazione, il gattonare, lo svezzamento, il conoscere il mondo con la bocca e con le mani: questa enorme esperienza emotiva e cognitiva, che richiede la piena libertà della relazione a due con la propria madre, risulta costretta dentro uno spazio e un tempo - quelli della cella - che ne alterano in profondità misura e ritmo. Oltre a deformare, tendenzialmente, i sensi. Cos’è l’udito di un bimbo nella sezione di un carcere? Cosa sono il suo olfatto, il suo gusto, il suo tatto? Che cos’è la sua vista? Il suono ferrigno e l’odore acido della prigione resteranno nella memoria? Accompagneranno gli anni successivi o si disperderanno? E soprattutto, chi è nato e cresciuto in una cella, acquisterà, una volta uscitone, una propria e autonoma misura del tempo? O esso verrà scandito ancora, nel suo inconscio, da divieti, interdizioni, proibizioni dell’autorità? D’altra parte, l’essere spossessato del tempo è, in carcere, espressione e conseguenza del fatto che, il bambino con la propria madre, così come l’uomo fatto, si trovano in stato di minorità. E la condizione dell’adulto si avvicina a quella del minore. E la finalità, e in ogni caso l’esito della carcerazione, sembra essere l’infantilizzazione del carcerato, a partire appunto dalla privazione della libertà. Infatti, la prima manifestazione di tale privazione è proprio l’impossibilità di decidere dei propri passi, dei propri movimenti, delle proprie azioni. È questo che pone il detenuto in stato di minorità, così come lo è - altra evocazione della condizione infantile - la cancellazione della sfera sessuale. Come già mi è capitato di scrivere più volte, c’è un segnale inequivocabile di questo processo di riduzione del detenuto a bambino: il linguaggio che domina in carcere è un lessico diminutivo-vezzeggiativo che va da domandina, principale forma di comunicazione all’interno della popolazione detenuta, fino a scopino (addetto alle pulizie), spesino (incaricato degli acquisti), concellino (compagno di cella) e secondino (chi segue, sorveglia, controlla). È un sistema verbale che produce integrazione e interdipendenza e definisce quel mondo a sé. Questo processo di creazione di un “tempo prigioniero” si proietta sull’intero sistema penale, determinando una singolare forma a clessidra: nella parte superiore si addensano gli anziani e persino i vecchi e nella parte inferiore si trovano i minori e persino i neonati. La parte centrale di quella popolazione, minori e giovani adulti (18-25enni), è attualmente assai ridotta. Dal 2007 a oggi, come è scritto nel rapporto di Antigone del gennaio 2022, mai così pochi detenuti negli istituti penali minorili: un anno fa erano 316 di cui 8 ragazze e 140 stranieri. Meno di mille quelli che si trovano nelle 637 comunità che ospitano minori: la maggioranza vi entra in misura cautelare dalla libertà o da altre misure nell’ambito di un progetto di messa alla prova (come poi si dirà) o ancora quale pena alternativa. Si tratta di strutture organizzate secondo un modello familiare, presso cui svolgono la propria attività operatori professionali di più discipline. Si può dire che quello della giustizia minorile è l’unico settore del sistema penitenziario italiano dove sono stati introdotti significativi elementi di riforma, grazie alla scelta di ridurre il ricorso al carcere, di estendere le misure alternative e di adottare la messa alla prova. Ovvero la sospensione del processo e l’affidamento del minore ai servizi della giustizia minorile e, in caso di esito positivo, la pronuncia di estinzione del reato. Dunque, meno carcere e una coraggiosa scommessa sull’adolescenza e sulla sua possibile emancipazione dalla marginalità e dal crimine. Siamo appena agli inizi, sia chiaro, ma si tratta di non abbandonare questo percorso e, all’opposto, di sostenerlo, incentivarlo, irrobustirlo. Sono passati oltre trent’anni dal film di Marco Risi, Mery per sempre, che documentò per la prima volta, con sguardo disincantato, un mondo rimasto in ombra. Ora, di esso, sappiamo qualcosa di più. Ma il lavoro è appena iniziato. “Una padella come forno e una cravatta di carta. Ecco il nostro Natale in cella” di Domenico Forgione Il Dubbio, 24 dicembre 2022 “Inalando il gas della bomboletta di un fornellino, pochi giorni fa, Giulio ha deciso di farla finita, nella sezione dei comuni. Con l’avvicinarsi di una ricorrenza, per i più fragili tutto diventa più opprimente e qualcuno finisce per lasciarsi sopraffare dalla disperazione”. Eccoci. Anche noi siamo pronti per il pranzo di Natale. Il direttore ci ha concesso la “socialità”: i detenuti potranno pranzare insieme, fino ad otto in un’unica cella, dove solitamente si sta in due. È uno dei “privilegi” dell’Alta sicurezza: almeno in questo carcere, le sezioni riservate ai carcerati più pericolosi (noi; io) non sono sovraffollate. Tra i comuni è diverso, in una cella vivono ammassati sei, sette detenuti; a volte di più. Il corridoio è un via vai di uomini con lo sgabello sotto il braccio, ognuno porta il proprio, altrimenti gli tocca mangiare in piedi. Sembra un trasloco. In galera il giorno di Natale è pesante. La mente è affollata dai ricordi, da lontananze che provocano sofferenza. Non è festa, non lo è nemmeno a casa, dove il pensiero di noi è lacerante. Fa ancora più male sentirsi responsabili del dolore dei familiari. Comunque ci proviamo. Per l’occasione ci vestiamo bene: pantaloni, camicia e giubbottino invece della consueta tuta sportiva sotto lo smanicato. Gianni, che conserva una sua inspiegabile ironia nonostante una condanna all’ergastolo in primo grado, sfoggia una cravatta realizzata con un foglio di giornale ripiegato. Gigi e Antonio hanno invece modellato i capelli con il gel e odorano di Paco Rabanne, come quando hanno il colloquio con i parenti e si profumano per scacciare via il tanfo di carcere che sentono appiccicato sulla pelle. Ci è andata bene. La socialità non è un diritto riconosciuto ovunque all’interno del sistema penitenziario, è piuttosto un gentile omaggio che dipende dalla sensibilità di chi qua dentro regna come un sovrano assoluto. Ogni carcere è uno Stato a sé e ciò che è consentito al Pagliarelli può non esserlo a Poggioreale. Vale per la socialità, per il numero e la durata di telefonate e videochiamate, per gli acquisti del sopravvitto. Senza alcuna logica apparente, è il caso (capitare in un posto anziché in un altro) a rendere più o meno pesante la detenzione di questa umanità invisibile e dimenticata. Qualche giorno fa il cappellano ha celebrato la messa nella chiesetta adornata di figure religiose dipinte negli anni dagli stessi detenuti. Un quadro riproduce l’immagine di San Leonardo di Noblac, il liberatore dei prigionieri, che compaiono in ginocchio al suo fianco, in catene. Siamo sempre nei pensieri di don Elio: “Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere” (Ebrei 13:3). Stamattina ha fatto arrivare vassoi di bocconcini alla crema, ne mangeremo come minino uno a testa. Non ne assaggio da mesi. Non si possono acquistare dolci di pasticceria, né si può ricevere del torrone con il pacco da casa. I panettoni invece si possono ordinare con la spesa settimanale. Ne abbiamo comprati in buon numero, in modo da scambiarli con altri detenuti, come regalo. Per le torte non abbiamo problemi. Franco si diletta a preparare cheesecake favolose impiegando le confetture monodose che passano la mattina con la colazione. Il portavitto lo sa e gli lascia pure quelle che altri detenuti non ritirano. Oggi ha però elaborato una torta con le gocce di cioccolato, ottenute riducendo in frantumi - a colpi di caldaia della moka - una tavoletta di fondente. Il “forno” consiste in una padella sulla quale va appoggiata la “campana”, una pentola bucherellata come la padella delle caldarroste. Viene posto sopra un fornellino da campeggio, mentre i bruciatori di due fornellini ai quali è stato smontato il piatto vengono inseriti in due fessure realizzate ai lati della campana. Ciò consente di cuocere la torta sia di sopra che di sotto. Un capolavoro di ingegneria carceraria. Inalando il gas della bomboletta di un fornellino, pochi giorni fa, Giulio ha deciso di farla finita, nella sezione dei comuni. Con l’avvicinarsi di una ricorrenza, per i più fragili tutto diventa più opprimente e qualcuno finisce per lasciarsi sopraffare dalla disperazione. Franco ha voluto fare le cose in grande, ha cucinato per metà sezione la carne di agnello ricevuta con il pacco da casa, disossata e confezionata sottovuoto dopo una leggera cottura, suddivisa in pezzi conformi alle indicazioni dell’amministrazione penitenziaria. Anche noi viviamo sottovuoto, come le cotolette e gli insaccati che mamme, mogli e sorelle preparano e imbustano tra le lacrime, con un’attenzione religiosa. Dividiamo il pane, ma non possiamo ripetere la stessa operazione con il vino, che è stato tolto dalla lista della spesa dopo una rissa scoppiata tra diversi detenuti ubriachi. L’alchimista della sezione ha però prodotto un surrogato di limoncello, per la verità imbevibile. Ad essere scoperti si rischia qualche giorno di cella di isolamento, ma un dito di liquido giallognolo, da dividere in otto, è giunto anche a noi. Brindiamo con quello alla nascita del Bambinello e al suo messaggio di salvezza, inumidendoci appena le labbra. Buon Natale. Il ragazzo di Nisida di Annalisa Cuzzocrea La Stampa, 24 dicembre 2022 Emanuele, le coltellate durante una rissa e la rinascita nel carcere minorile. “Ora so perché ho commesso quello sbaglio. E ho capito come rimediare”. Se scavi oltre i “non so” e i “non ricordo”, il ragazzo di Nisida ha due sogni: andare a Cuba, quando potrà viaggiare. E diventare attore, “magari!”. Perché a Nisida, su quell’isola sospesa che è un carcere minorile ma è come un vascello, la cosa che gli piaceva di più era il corso di teatro. “Peccato non aver potuto fare lo spettacolo finale”, dice Emanuele, anche se sa che è stato un bene. Dopo sei mesi sull’isola che guarda Capri senza riuscire nemmeno a immaginarla, un giudice ha riconosciuto che era sulla strada giusta. Aveva 16 anni, Emanuele, quando ha fatto quel che definisce “lo sbaglio”. I 17 li ha compiuti in carcere, “e non c’era niente da festeggiare”. Adesso vive nella comunità Papa Francesco, a Quarto. Una casa per ragazzi difficili voluta e finanziata dalla diocesi di Pozzuoli; animata da don Gennaro Pagano, che di Nisida è stato cappellano; e guidata da Marcello, che prima di farti parlare con lui ti interroga mezz’ora. Perché “i ragazzi che arrivano qui sono dei sopravvissuti, capisci? E io ho il dovere di proteggerli”. Proteggerne il percorso, quindi. Poi, insegnare loro come continuare a vivere. È quel che fanno in questo lembo di terra flegrea, dove a tutti è concessa una seconda possibilità. Se la vogliono. “A volte mi sfidano”, racconta Marcello. “Le regole non sono sempre facili da seguire, anche se arrivano da quelle del carcere che sono molto più dure di qui. Questi ragazzi, quand’erano fuori, si svegliavano all’una, alle due mangiavano e la notte uscivano a fare reati. La vita di comunità è tutta un’altra cosa. Così io se alzano la testa gli dico: “Vai, quella è la porta”. E loro non lo fanno, non lo fanno mai”. È un pezzo del percorso, alzarsi presto, mangiare all’ora giusta, partecipare agli eventi organizzati, interagire con i compagni. Gli altri pezzi sono la formazione, andare a scuola o al lavoro, e il volontariato, per risarcire la comunità che si è contribuito a ferire. I ragazzini condannati che arrivano qui vivono quella che si definisce “messa alla prova”. Emanuele ha davanti a sé ancora un anno in comunità, ma in primavera, se il giudice vorrà, potrà tornare a casa. Con l’obbligo di firma e di non sbagliare più. Torna già dai suoi ogni fine settimana: la fidanzatina è sempre quella che era con lui la notte dello “sbaglio”, i genitori non l’hanno mai lasciato solo. Ha qualche problema con la giustizia anche il papà, ma ne è quasi uscito. La mamma invece è un’orlatrice: lavora le scarpe, anche se a volte il lavoro non c’è. L’unica cosa che gli ha detto, quando la polizia è arrivata a casa a prenderlo, è stata: “Mi dispiace”. O forse altro, “ma sono passati due anni e so solo che era triste, è normale che era triste”. Emanuele faceva l’alberghiero e lo sta finendo. Ogni mattina esce dalla comunità per andare a scuola, poi torna e fa quello che gli viene chiesto. “Ma noi le scelte le facciamo insieme ai ragazzi - spiega Marcello - la strada è costruita con loro, per questo è più facile da seguire”. Così il ragazzo di Nisida parla di sé come avesse davanti solo tappe di futuro: il diploma, la formazione in un centro turistico che “se va bene, poi ci assume”. È convinto di essere cambiato, che non sbaglierà più. E il perché te lo dice subito: “Ho capito come mai è successo. E ho capito come rimediare”. È la “riparazione” che impari in comunità come questa. Sempre che tu sia disposto a dire: ho sbagliato. “Molti lo dicono per finta poi però non vedono l’ora di uscire e di tornare come prima”. E tu come lo sai? “Lo so perché noi ragazzi mica stiamo muti, parliamo”. Eppure le parole si perdono quando si tratta di spiegare cos’è successo. Perché tirare fuori un coltello durante una rissa e ferire tre persone, di cui due gravemente. Persone che non conosci, che passavano lì per caso e hanno detto qualcosa che non ti è piaciuta. “Il coltello lo avevano anche loro però”. Allora è stata legittima difesa? “Diciamo un eccesso”. Se gli domandi perché Emanuele ti risponde come un dispaccio dei carabinieri: “Futili motivi”. “Motivi stupidi”, traduce poi. Non vuol dire quali, se c’entrino con la sua ragazza e col suo orgoglio di sedicenne. “Non saprò dire se è Napoli o se sono io” è l’incipit del romanzo Almarina di Valeria Parrella, che a Nisida è ambientato. Torna in mente quando parli con Emanuele perché lui non ha idea del motivo che lo ha portato ad avere un coltello e a essere pronto a usarlo alla prima occasione. Pensa si faccia ovunque. Non che sia dovuto al suo quartiere, agli amici che frequenta, alle cose che ha imparato. Pensa sia Napoli. Anche se poi dice che se i suoi lo avessero saputo, del coltello, “non me lo avrebbero fatto portare”. Da dove venga il male non lo sa. Ma ricorda ogni data: quelle della rissa, dell’arresto, dell’udienza, del compleanno tradito. Così come quelle che potranno portare nuove svolte. Tra sei mesi, poi a dicembre del 2023. “Ci sono ragazzi che della vita non hanno capito nulla e agiscono in questo modo, a Nisida. Ci sono più ragazzi così che ragazzi che vogliono cambiare. Ma io non ho mai avuto paura perché mi sono sempre fatto volere bene. Sono sempre stato me stesso, non è che fingo di essere una cosa che non sono”. A quelli che si atteggiano a duri crede poco, “ci parli e sono pezzi di pane”. I bulli e i prepotenti non gli piacciono, “io non ho mai preso in giro nessuno anche se si fa molto. Penso sempre che non sai come si può sentire la persona dall’altra parte”. E quindi a scuola, giura, va tutto bene. “A me piace conoscere nuove cose. Non mi piace essere fermo nel mio mondo. In quel limite. Mi piace sapere, mi è sempre piaciuto”. E quindi la prima cosa che farà, quando sarà libero dalle regole, i controlli, i permessi, la comunità, la firma, sarà un viaggio. Magari a Cuba. Magari con la ragazzina che lo andava a trovare anche a Nisida, ai colloqui, una volta a settimana. Perché Cuba? “Perché mi piace Che Guevara e mi piace quella lotta”. E della camorra che pensi? “Non penso, non è cosa mia”. Ho chiesto di Nisida, a Emanuele, ma più delle partite a calcio e del tentativo di vederne qualche sprazzo in tv, anche se non c’era Sky e non c’era Premium, non sa che dirmi. Il mare, che la separa a insieme la congiunge a Napoli, non lo nomina mai. Lavorava in cucina, la sua specialità sono i sughi, si teneva impegnato. “Se non c’erano tutte quelle cose da fare non è che passavano così, sei mesi”, mi spiega. Faccio una domanda stupida: “Com’è stato?”. Lui sorride e dice solo: “È stato”. Che è un verbo al passato, e già questa è una promessa. Presunzione d’innocenza, i pm vanno a scuola di comunicazione di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 24 dicembre 2022 La Procura di Terni avvierà nei prossimi giorni la sperimentazione di un ‘modulo operativo’ per la gestione della comunicazione a seguito dell’entrata in vigore della legge numero 188 del 2021 sulla presunzione d’innocenza delle persone indagate. L’iniziativa, una fra le prime nel suo genere, è stata fortemente voluta dal procuratore di Terni Alberto Liguori che ha così voluto dare una risposta alle criticità sollevate dall’Associazione stampa umbra. Il procuratore di Terni, in particolare, ha proposto di istituire un referente interno all’ufficio rappresentato da un ufficiale di polizia giudiziaria in forza alla locale sezione di pg. Tale referente avrà il compito di segnalare al procuratore le notizie di reato provenienti dal ‘ turno esterno’, veicolate dalle varie forze di polizia sul territorio, per poi inoltrarle agli organi d’informazione. Verrà anche predisposto un format in cui indicare tutte le informazioni d’interesse per esercitare al meglio il diritto di cronaca. Ad esempio, il contesto in cui è accaduto il fatto, il movente del delitto, gli eventuali legami tra i protagonisti. L’iniziativa è stata molto apprezzata dal presidente dell’Ordine degli giornalisti umbro Mino Lorusso L’obiettivo ultimo, comunque, sarà quello di creare un ufficio stampa, presso la Procura generale o presso i due uffici requirenti umbri, con personale specializzato in grado di mediare tra la riservatezza delle indagini, il diritto di cronaca, il principio della presunzione d’innocenza. “Bisogna consentire di essere ‘ sul pezzo’ alla stampa”, ha ricordato Liguori. L’iniziativa del procuratore Liguori è la dimostrazione che il senso di responsabilità e la buona volontà dei singoli prevalgono rispetto alla logica di una norma la cui applicazione ‘rigida’ rischia di penalizzare i diritti collettivi, senza riuscire a tutelare adeguatamente quelli individuali’, ha aggiunto Lorusso. I processi tv come reality show: quando la giustizia è tradita di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 24 dicembre 2022 “A chi dobbiamo dare ragione, al Tribunale o alla Televisione?”: è una domanda che ci siamo posti più volte assistendo agli interminabili processi paralleli che i programmi televisivi si arrogano il diritto di istruire, con il rischio di influenzare indagini e creando un pericoloso corto circuito mediatico-giudiziario. È dell’altro ieri la notizia che Maria Angioni, l’ex pm che indagò sulla scomparsa di Denise Pipitone, la piccola sparita a Mazara del Vallo nel 2004, è stata condannata a un anno di reclusione, pena sospesa, dal giudice monocratico di Marsala. Era imputata di false informazioni al pubblico ministero. Non è nostro compito entrare nei dettagli di un processo; è interessante, però, notare che ad Angioni si contestava l’apparizione in numerose trasmissioni televisive: “Era proprio il magistrato - si legge nella requisitoria del pubblico ministero Roberto Piscitello - a far assumere alla vicenda i connotati di un giallo, la cui mancata positiva soluzione riferiva essere dipesa da errori, da depistaggi, da interessi particolari di questa o quella consorteria criminale e soprattutto dalla infedeltà dell’organo di polizia che aveva condotto quelle indagini (senza dire sotto la sua direzione): il commissariato di Mazara del Vallo”. Il caso di Denise Pipitone, scomparsa quando aveva solo tre anni e mai più ritrovata, ha infiammato tantissimi programmi, generando preoccupanti fenomeni da un punto di vista comunicativo, quali la serializzazione della tragedia, la riduzione del caso a reality show. Se poi a sfruttare l’esposizione televisiva c’è anche un magistrato, che era stato titolare del fascicolo, con accuse e informazioni ritenute devianti, il rapporto fra media e giustizia rischia di deflagrare. La sede dei processi è il Tribunale non la Televisione. Ora temo un programma con Maria Angioni protagonista. “Sostenga la riforma di Nordio, così il Pd si salva” di Franco Insardà Il Dubbio, 24 dicembre 2022 Intervista al filosofo ed europarlamentare del Pci Biagio de Giovanni, che non ha mai fatto mancare il proprio pensiero critico nei confronti del Pd, e con la saggezza dei suoi 91 anni, appena compiuti, propone al Dubbio un’analisi molto puntuale Professor de Giovanni, il Pd e la sinistra dopo le elezioni politiche dello scorso 25 settembre sembravano aver toccato il punto più basso. Alla luce del Qatargate si ha l’impressione che il baratro sia ancora più profondo... Questa situazione è evidente e anche comprensibile, perché il Pd in questo momento è il nulla politico. Nel 2007, quando nacque, con Massimo Cacciari e Giuseppe Galasso scrivemmo un libro e ci confrontammo proprio sul Partito democratico. Già allora io sparavo a palle infuocate su quella operazione, perché ritenevo che formare un partito da due culture sconfitte era un gravissimo errore. Non hanno fatto i conti con la loro storia. Si faceva riferimento ai due riformismi, senza tener presente che avevano fallito, e che la Prima repubblica era finita. Hanno pensato di essere gli eredi di quelle due grandi forze politiche che avevano governato. Con la caduta del muro di Berlino e soprattutto dopo la fine dell’Unione Sovietica il Pci non aveva più ragione di esistere, la sua origine derivava dall’accettazione del 1917. Quindi il Pd nacque con questo peccato originale? È evidente. Da allora a oggi abbiamo assistito al totale mutamento della struttura della società. C’è ancora qualcuno che parla di movimento operaio? Non c’è più la grande fabbrica, il compromesso tra capitalismo e democrazia che avveniva all’interno degli stati sociali. Adesso il capitale finanziario gira libero per il mondo. Così si spiega anche la labilità del voto, con repentini aumenti e cali di consenso dei partiti. Viviamo in una società destrutturata, non ci sono più le classi, non c’è più il lavoro organizzato e i sindacati. A distanza di 15 anni quella sua considerazione sul Pd è una drammatica realtà... Il Pd è cominciato a finire quando ha deciso di guardare ai 5Stelle come alleati politici. Aveva una prateria davanti durante il governo Conte 1 e non avrebbe dovuto deporre le armi per formare il Conte 2. Non avrebbe dovuto guardare a un movimento iperpopulista, il peggio che era nato in Europa: basta ricordare il punto di partenza dei 5Stelle e l’esperienza di governo con la Lega. L’ho scritto già e lo ribadisco: i 5Stelle sono il cancro della democrazia italiana e il Pd accettando un’alleanza con loro ha compiuto un gravissimo errore strategico. Basti pensare che hanno accettato il taglio dei parlamentari senza altre riforme A che cosa avrebbe dovuto guardare il Pd? A un centro liberale, partendo chiaramente da una visione di sinistra. Questa sarebbe stata l’unica strada per tenere in piedi la sinistra, anche perché in quel momento Giuseppe Conte non era il Che Guevara che interpreta adesso, ma era quello che mostrava con orgoglio in tv i “decreti sicurezza” di Matteo Salvini. Quello era il momento cruciale per ripartire con l’unica sinistra esistente, regolando poi i rapporti alla sua sinistra. Ritengo necessario, e l’ho sempre sostenuto, avere anche delle formazioni più massimaliste. La sinistra moderna doveva ripartire guardando al centro liberale che comprende sia una buona parte degli astensionisti, sia pezzi di Forza Italia, sia quello che stava nascendo come Terzo polo. Non sono in grado di stabilire che cosa sarebbe successo, ma in Italia ci sarebbe stata una sinistra-centro: una sinistra liberaldemocratica. Perché lei la parla di liberal democrazia e non di liberalsocialismo? Il liberalsocialismo è un termine un po’ usurato, perché in questo momento non saprei dirle che cos’è il socialismo. Basta guardare il destino che stanno avendo le socialdemocrazie europee, salvo in parte la Germania anche se si stratta di una socialdemocrazia ridotta a poco. Sono da sempre d’accordo con Ralf Dahrendorf, il quale quando cadde il muro di Berlino disse “questa è la fine del comunismo e l’inizio della fine delle socialdemocrazie”. Quindi, secondo lei il Pd avrebbe dovuto percorrere la via liberal democratica... Sì, era una strada difficile e impervia ma andava percorsa. Il Pd, invece, ha aperto la porta ai 5Stelle, solo perché Salvini ha fatto saltare il governo, e ha accettato di creare un nuovo esecutivo con Giuseppe Conte, “avvocato del popolo”. All’indomani del Qatargate il Pd ha un atteggiamento masochista: come lo spiega? Il Pd non esiste più. In questo momento non saprei dire qual è il suo ruolo, il suo gruppo dirigente. Cosa pensa di fare realmente sulle alleanze. Un gruppo dirigente maltrattato fino al disprezzo da Conte, che cavalca un’onda di consenso arrivando quasi al 18% nei sondaggi con un Pd che è ormai al 14%. È del tutto evidente che i 5Stelle hanno più carte in mano da giocarsi con gli elettori. Il Pd sta vivendo una fase di grande debolezza politica e morale e si sente toccato da un avvenimento di una gravità eccezionale. Serenamente il Pd potrebbe sostenere che non ci sono suoi rappresentanti tra gli indagati, ma non ha la forza di dirlo e spera che non vengano coinvolti i suoi. In un momento così difficile in cui parlare di identità politica del Pd è un’impresa eroica, essere toccati da uno scandalo di dimensioni enormi non può lasciare indifferenti. Si sentono di non poter più dire che sono il partito degli onesti: un’altra stupidaggine. E perché la ritiene una stupidaggine, Professore? Il Pd dovrebbe essere un partito politico che sappia cosa dire all’Italia, un Paese che sta vivendo una crisi drammatica. Invece c’è il segretario Letta dimissionario, quattro o cinque persone che puntano a sostituirlo ma per fare che cosa? Nessuno lo sa. Spostare di mese in mese il congresso è un vero e proprio suicidio politico. Fino a quando non eleggerà il suo nuovo segretario, che fa il Pd? Sta diventando un’appendice dei 5Stelle. Il Pd dovrebbe riuscire a sfilarsi da questa sorta di sottomissione, fare una vera e propria lotta anche a costo di enormi difficoltà. Il garantismo ormai è merce rara, eppure prima era uno dei tratti significativi di una parte della sinistra... Più che di garantismo parlerei della necessità di una riforma profonda della giustizia. Mi permetto di fare al Pd una proposta sicuramente eterodossa: collaborare con Nordio. Il ministro della Giustizia sta proponendo tre cose fondamentali: separazione delle carriere, fine della obbligatorietà dell’azione penale e intercettazioni controllate. Se davvero Nordio andrà avanti questa è la strada da seguire anche per un Pd che voglia essere riformista e al passo con i tempi. Nei tanti convegni degli avvocati penalisti ai quali ho partecipato, l’ho sempre sostenuto. Se il ministro Nordio riuscirà a riformare in maniera così profonda la giustizia non significa che si favorirà la corruzione, ma si riuscirà a depoliticizzare la figura del pm e arrivare al processo giusto, garantendo la terzietà delle parti. Il Pd quindi che cosa dovrebbe fare? Fare dichiarazioni importanti su tutti i temi: dalla guerra ai rapporti internazionali, dalle risposte al dramma dell’ineguaglianza sociale alla giustizia. Il Pd dovrebbe intestarsi queste battaglie a cuore aperto e diventarne il protagonista. Deve provare a recuperare un suo ruolo, sia a livello internazionale che nazionale. E ripeto: forse è tardi. Tutto è possibile in politica, ma sarà un processo disperatamente lento e problematico. Lo scenario che abbiamo di fronte è quello di un centrodestra forte, con una sua identità e una leader professionista politica che non è assolutamente da disprezzare. Dall’altra parte c’è la pressione del Movimento 5Stelle con la battaglia del reddito di cittadinanza e il disarmo dell’Ucraina. In mezzo c’è questo Pd, svuotato di pensiero e di uomini, che non ha un compito facile, quasi impossibile, anche se in politica, ripeto, nulla è impossibile. Più che parlare di candidati alla segreteria, bisognerebbe ragionare su che cosa fare per l’Italia. Il Pd, usando una formula retorica, si è allontanato dal popolo, è il partito dell’establishment. Le componenti del centrodestra, pur giocando partite diverse, sono riuscite a trovare una sintesi con una leader intelligente e una politica esperta come Giorgia Meloni. Ha parlato del rapporto subalterno del Pd con i 5Stelle, ma le cose non vanno meglio con il Terzo polo... Pur riconoscendo i limiti del personaggio, ho sempre detto che Renzi è l’unico talento politico uscito dalla crisi della sinistra, ed è stato annientato sì dai propri difetti, ma soprattutto dal fuoco amico. Questa iniziativa, seppur debole con il suo 7-8%, è un punto di riferimento che non dovrebbe essere smarrito dal Pd, sarebbe sbagliato se i dem guardassero altrove. Il problema del Terzo polo è che non riesce ad acquisire una forte fisionomia politica perché Calenda non è un politico. Renzi ha fatto bene a defilarsi, perché sa di essere uno degli uomini più odiati d’Italia, speriamo che Calenda prenda forma come leader. Lei è stato per 10 anni al Parlamento europeo: ha mai avuto il sentore che ci potesse essere corruzione? No, nel modo più assoluto. Sono stato parlamentare europeo dal 1989 al 1999, gli anni più belli dell’Unione europea. Abbiamo vissuto avvenimenti epocali: caduta del muro di Berlino, disgregazione dell’Unione sovietica, allargamento dell’Unione agli ex paesi comunisti. La nostra era una grande delegazione che lavorò molto bene, sono stato presidente della commissione Istituzionale per quasi un’intera legislatura. Si lavorava politicamente e non c’era neanche il sospetto di una corruzione sotterranea. E infatti non c’è mai stata alcuna inchiesta. Oggi la situazione è completamente cambiata, nasce dalla distruzione dei partiti e ogni parlamentare si sente libero di fare quello che vuole, anche di andare in giro con una valigia piena di soldi. Roba da matti… Il Qatargate potrebbe essere un colpo letale per un’Unione europea che già vive un momento di difficoltà? Non arriverei a parlare di colpo letale, perché la cosa potrebbe essere circoscritta a un gruppo di persone. La cosa grave è la permeabilità dell’Unione europea, e un segnale di un’identità debole e dispersa. La Ue si trova in un momento difficilissimo per una ragione molto semplice e terribile: sta cambiando la struttura del mondo ed è nel caos. È arrivato il momento per l’Unione europea di decidere di essere una Unione politica: muore, se vuole rimanere semplicemente mercato più regole. Se nel 2024 si ritornerà al patto di stabilità nella vecchia formula dell’austerità tedesca, il fallimento è dietro l’angolo. Non credo che sarà così perché la Ue ha in sé degli anticorpi, certo il Qatargate l’ha colpita nella sua credibilità. Con il Qatargate il pensiero è andato a “Mani pulite”: vede delle similitudini? “Mani pulite” fu l’inizio della politicizzazione della magistratura. Senza dubbio c’era la corruzione, ma bisognava trovare un compromesso politico e Craxi fu l’unico a proporlo, nel suo famoso discorso in Parlamento del 1993. Non si fece nulla, anche per le difficoltà del Pci dopo la caduta del muro di Berlino, e per la prima volta nella storia delle democrazie parlamentari una inchiesta giudiziaria ha distrutto un sistema politico. Le 3 controriforme di Nordio di Nicola Ferri Il Fatto Quotidiano, 24 dicembre 2022 La relazione svolta in Parlamento dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, il 6 e 7 dicembre e le sue dichiarazioni successive offrono il fianco a più di una critica, specie in materia di azione penale, intercettazioni e separazione delle carriere dei magistrati. Queste le posizioni assunte da Nordio su Pubblica accusa e Ordinamento giudiziario. Azione penale. Sostiene il ministro: “L’obbligatorietà dell’azione penale si è tradotta in un intollerabile arbitrio… il pm può trovare spunti per indagare nei confronti di tutti senza rispondere a nessuno”. Nordio sa bene che l’azione penale non veleggia da sola in mare aperto, ma è sottoposta al controllo del Gip, del Gup, del Tribunale del riesame e di quello ordinario, con l’immediato intervento della Corte di cassazione sulla verifica di legalità delle misure cautelari sulla libertà personale, senza contare l’azione disciplinare disposta dal ministro della Giustizia o dal Procuratore generale della Corte di cassazione nei confronti del magistrato che adotti metodi arbitrari per incolpare gli innocenti. Quanto all’obbligatorietà dell’azione penale sancita dall’art. 112 della Costituzione non occorre ricordare all’onorevole ministro che essa costituisce un primato del sistema italiano nella repressione dei reati, presidio fondamentale del principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge (art. 3 Cost.) e del principio di legalità (art. 25/2 Cost.) per i quali il pubblico ministero, nell’azione di repressione dei reati non deve fare alcuna distinzione tra ricchi e poveri, privati e pubblici funzionari, parlamentari e semplici cittadini (negli altri Paesi occidentali l’azione penale è facoltativa, ispirata a “opportunità” che quasi sempre coincide con la dipendenza del pm dall’esecutivo). Su questi pilastri si regge dal 1948 l’obbligatorietà che la Corte costituzionale ha collegato alla posizione del pm “un magistrato al pari del giudice soggetto soltanto alla legge (art. 101/2 Cost.) appartenente all’Ordine giudiziario inserito come tale in posizione di istituzionale indipendenza rispetto a ogni altro Potere” (sentenze n. 88/1991, n. 84/1979, n. 190/1970 e n. 96/1975). Intercettazioni. Secondo Nordio, “attraverso la diffusione selezionata e pilotata le intercettazioni sono diventate strumento micidiale di delegittimazione personale e politica”. La disciplina delle intercettazioni - strumento assolutamente indispensabile specie nei delitti di mafia, ndrangheta, terrorismo e corruzione nella Pubblica amministrazione - da ultimo, è stata di recente modificata in senso restrittivo e secondo tempi predefiniti, prorogabili ogni volta per giustificati motivi: ove si aggiungessero nuove limitazioni il meccanismo dei controlli sulle linee telefoniche e a distanza ne risulterebbe fatalmente vulnerato, fermo restando che i gravi abusi di cui parla (genericamente) il ministro vanno perseguiti senza remissione. Separazione delle carriere. Il sistema costituzionale attuale colloca il pm (organo requirente) nello stesso ambito istituzionale del giudice (organo giudicante) per cui: 1) la Magistratura, nel suo complesso, costituisce un Ordine autonomo e indipendente da ogni altro Potere, presidiato dal Consiglio superiore di cui fa parte di diritto, accanto al Primo presidente, il Procuratore generale della Corte di Cassazione (art. 104); 2) i magistrati sono inamovibili e si distinguono soltanto per diversità di funzioni (art. 107/1/3), giudici e pm possono chiedere di transitare da una funzione all’altra solo due volte dal loro ingresso nel ruolo unico del ministero della Giustizia; 3) il pubblico ministero gode delle garanzie (uguali a quelle dei giudici) stabilite nei suoi confronti dalle norme sull’Ordinamento giudiziario (art. 107/4). Dall’inquadramento unitario di giudici e pm deriva che l’eventuale separazione delle carriere (di cui, peraltro, nessuno sinora ha seriamente spiegato la necessità e l’utilità per l’amministrazione della Giustizia) avvenga attraverso la riforma della Costituzione. Finora i tentativi in tal senso non hanno avuto seguito, ma può darsi che il ministro Nordio voglia riprovarci, anche se al Corriere (12.12) ha dichiarato che “non è una riforma urgente, ma un obiettivo a cui tendere”. Un precedente di separazione viene dalla Francia, dove il Consiglio Superiore della Magistratura è diviso in due Sezioni, una per i magistrati giudicanti e una per i magistrati della Procura (Parquet). Le carriere sono uguali, i magistrati sono tutti inamovibili ma non esiste l’obbligatorietà dell’azione penale e i magistrati del Parquet sono sottoposti al controllo del ministro della Giustizia, in base all’art. 63 della legge Perben del 1° febbraio 2010: un esempio di separazione da non imitare. Gratteri: “Tradite le promesse di Meloni: addio lotta a mafie e corruzione” di Gianni Barbacetto Il Fatto Quotidiano, 24 dicembre 2022 “Avevo creduto al discorso della premier, ma ora rischiamo enormi passi indietro: basta fake sui pm”. “Quando Giorgia Meloni si è insediata, ha indicato la lotta alla criminalità organizzata come una delle priorità del suo governo. Nonostante io non sia più un ‘giovane magistrato’, ci avevo creduto: ma evidentemente ho sbagliato”. Così reagisce Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, alle scelte del governo sulla giustizia. Procuratore, mentre in Italia stanno smontando gli strumenti di contrasto alla criminalità (le intercettazioni in primo luogo), i magistrati del Belgio (anche grazie alle intercettazioni) hanno scoperto l’incredibile sistema di tangenti e corruzione dentro il Parlamento europeo. Lei si è meravigliato dello scandalo Europa-Qatar? Mi meraviglio che altri si meraviglino. Il decadimento etico e morale della società civile, soprattutto di quella del mondo occidentale, è palese e riguarda tutte le categorie. Ma che la politica si scandalizzi oggi è quasi fastidioso; quello di cui la collettività ha bisogno è un impegno serio per adottare, anche a livello europeo, leggi idonee a contrastare questi fenomeni. Ma non le sembra che in Italia stiano facendo esattamente il contrario? Le intercettazioni sono un fondamentale e insostituibile mezzo di ricerca della prova. E non solo per il contrasto alla criminalità organizzata, ma anche per il contrasto alla criminalità comune, soprattutto in materia di reati contro la Pubblica amministrazione. Limitare l’uso delle intercettazioni ha un solo effetto: ostacolare la lotta alla criminalità, impedendo che sistemi come quello del cosiddetto Qatargate (al di là delle singole responsabilità che dovranno essere vagliate) vengano scoperchiati; significa non volere stare dalla parte dei cittadini onesti. Ritiene che gli strumenti investigativi italiani per il contrasto alla criminalità siano idonei, in materia di intercettazioni, anche in confronto a ciò che fanno gli altri Stati? In Italia negli ultimi anni non si è investito adeguatamente per dotare le forze di polizia di personale preparato da un punto di vista tecnologico e di risorse strumentali. La criminalità è in continua evoluzione e ricorre a strumenti tecnologici sempre più avanzati, come i cosiddetti “criptofonini”. Recentemente, molti quotidiani hanno pubblicato gli esiti di indagini ove gli investigatori hanno “bucato” questi apparati, che i criminali ritenevano non intercettabili. Ebbene questo lavoro, di fondamentale rilevanza investigativa, lo hanno fatto la Francia, l’Olanda, il Belgio, ma non l’Italia. Mentre gli altri Paesi vanno avanti, noi decidiamo di fare passi indietro, addirittura limitando le intercettazioni. Ma come si pensa di contrastare la criminalità? Si dice tanto che si vuole tornare alle indagini tradizionali. Ma secondo voi, per esempio, la corruzione si prova con accertamenti bancari o documentali? Oggi, contratti di consulenza regolarmente fatturati possono mascherare fenomeni di corruzione. Senza intercettazioni come provo gli accordi tra le parti? Come pensate che abbiano operato i magistrati belgi? Con le indagini tradizionali? Sulla pubblicazione delle intercettazioni invece che cosa pensa? Sulla limitazione delle pubblicazioni sono d’accordo, ma lo dico da sempre. È giusto che le trascrizioni non rilevanti non siano pubblicate per ragioni di privacy. Ma c’è già una legge, in vigore dal 1° settembre 2020, che lo prevede ed è molto stringente. Se poi vengono pubblicate telefonate segrete, il danno viene fatto principalmente a chi indaga. Ma c’è una cosa che deve essere ben chiara. Quale? La continua colpevolizzazione e demonizzazione del pubblico ministero. Sono veramente stanco di sentire questi continui attacchi ai pm come se lo scopo delle Procure fosse quello di andare alla ricerca di gossip e raccogliere notizie da pubblicare sui giornali, dimenticando che i pm chiedono e i giudici decidono se intercettare, e quindi esiste un vaglio per il lavoro dei primi. In magistratura, come in tutte le categorie, c’è la mela marcia, ma questa è la patologia. Procure e Tribunali lavorano seriamente per contrastare la criminalità e per dare giustizia, senza guardare in faccia a nessuno. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha detto che le intercettazioni costano troppo, che bisogna limitarne l’uso anche a causa dei costi elevati... Guardi, tra tutti i mezzi di ricerca della prova, al netto, è quello meno caro, oltre a essere quello che assicura la raccolta “del dato” nella forma più oggettiva. Qualche anno fa, grazie a una commissione istituita proprio presso il ministero della Giustizia, della quale ho fatto parte, si è giunti ad accordi che hanno consentito di abbattere moltissimo i costi delle intercettazioni. Se si vuole risparmiare denaro, anzi se si vuole recuperare denaro, ci sono ben altri modi. Se il ministro vuole, potrà facilmente verificare che le spese maggiori non sono quelle per le intercettazioni, ma quelle per la custodia dei beni sequestrati, quelle per i risarcimenti dovuti a causa della irragionevole durata del processo, quelle per le amministrazioni giudiziarie e molte altre sulle quali non solo bisognerebbe intervenire, ma sarebbe doveroso intervenire. Ma di questo nessuno parla. La lotta alle mafie è nell’agenda politica di questo governo? Quando Giorgia Meloni si è insediata, l’aveva indicata come una priorità. Ci avevo creduto, ma evidentemente ho sbagliato. Allo stato non mi pare sia stato fatto nulla in positivo, ma soprattutto - se è vero quello che sento e che leggo sui giornali - si rischia di fare enormi passi indietro. Limitare la possibilità di applicare misure cautelari, limitare le intercettazioni, separare le carriere: sono tutte riforme in aperto contrasto con la lotta alla criminalità organizzata. Che cosa si dovrebbe fare invece? Prima cosa: riempire gli organici dei magistrati, dei cancellieri, delle forze di polizia. Oltre a questo, moltissime altre riforme si possono adottare, la maggior parte a costo zero. Ma sono anni che le enumero e sono anni che nessuno mi ascolta. Non credo, quindi, che sia utile ripeterle ancora. Per lei che futuro vede? Hanno bocciato la sua candidatura a dirigere il Dap, ossia l’amministrazione penitenziaria... Non so dove andrò in futuro e comunque non credo interessi a molti sapere quale sarà la mia sorte. Le posso dire che nei giorni scorsi sono stati pubblicati alcuni posti che si sono resi disponibili; credo che farò la domanda come procuratore generale di Roma. Comunque penso che per qualunque eventuale cambiamento ci vorrà ancora un po’ di tempo: il Consiglio superiore della magistratura deve decidere molti altri posti, quello di procuratore di Firenze, per esempio, è vacante da un anno e ci sono almeno altri 20-30 posti direttivi o semidirettivi che devono essere decisi con urgenza visto che il presidente Sergio Mattarella ha più volte chiesto di seguire l’ordine cronologico delle vacanze di organico. Vedremo, io non ho fretta: come ho detto tante volte, se potessi, non lascerei mai la Calabria. Giustizia, perché va arginato il “potere morale” dei magistrati di Francesco Carella Libero, 24 dicembre 2022 Due fenomeni negli ultimi trent’anni hanno caratterizzato la storia del nostro Paese: la giudiziarizzazione e l’eticizzazione del conflitto politico. Si è trattato del risultato finale di un combinato disposto costituito dalla promozione della morale a elemento centrale del processo politico - così come voluto nei primi anni ‘80 da un Partito comunista alla ricerca di una strategia di sopravvivenza - e dal crescente rilievo sociale assunto dalla giustizia. Una larga fetta degli italiani ha considerato per lungo tempo i magistrati (soprattutto i Pubblici Ministeri) dei veri e propri “controllori della virtù” in grado di trasformare l’Italia in un fecondo laboratorio di ortopedia morale. Una situazione ben descritta nel 2009 dall’ex presidente della Camera, Luciano Violante, quando fa notare che “nei provvedimenti dell’autorità giudiziaria si leggono sui protagonisti del processo che abbiano un qualche ruolo pubblico giudizi morali del tutto estranei alle competenze della giurisdizione”. La mutazione avvenuta sul terreno dei rapporti fra politica e giustizia ha esposto e continua ad esporre il nostro Paese al rischio di dovere fare i conti quotidianamente con un potere autonomo e irresponsabile a dispetto di un principio fondamentale degli ordinamenti liberali secondo cui ogni potere deve incontrare un limite e chilo esercita deve essere chiamato a risponderne democraticamente. “È quanto accaduto dopo il 1993 quando molte indagini rivelatesi successivamente infondate - scrive Carlo Nordio in un breve saggio, Giustizia, pubblicato da Liberilibri - hanno determinatola caduta di governi, di ministri, di sindaci e assessori. Questo insindacabile arbitrio ha generato altri mostri giuridici come l’uso strumentale ed eccessivo delle intercettazioni telefoniche o l’adozione della custodia cautelare come strumento di pressione investigativa”. Allo stato delle cose, sembra davvero difficile - come si ostina a fare la sinistra - continuare ad ignorare che in Italia l’attività del magistrato si collochi a una distanza di ann iluce dalla classica raffigurazione settecentesca dei giudici “come la bocca che pronunzia le parole della legge”. Tal ché, al di là delle polemiche di natura corporativa accese dal sindacato dei magistrati al primo accenno di riforma della giustizia avanzata dal Guardasigilli, non è più possibile procrastinare una seria riflessione su quanto di anomalo sia avvenuto in Italia negli ultimi decenni a partire dai gravi squilibri prodotti nei rapporti fra i poteri dello Stato. Abbiamo appreso dalla storia delle dottrine politiche che affinché un sistema possa dirsi liberaldemocratico è necessario “che sia il potere esecutivo che quello legislativo rispettino le norme, ma è altresì indispensabile che esse vengano applicate da un giudice indipendente”. Il sospetto che la giurisdizione si discosti dai princìpi giuridici in nome della politica può mettere a rischio l’elemento cardine della democrazia: la fiducia dei cittadini nella legalità. Osservava uno dei padri della democrazia americana, Alexander Hamilton, nel Federalist n° 78 che “la magistratura per la natura stessa delle sue funzioni sarà sempre il potere meno pericoloso per i diritti costituzionali. Essa non può dirigere la forza o la ricchezza di una società e non può prendere nessuna iniziativa”. Giusto il contrario di quel che accade oggi in Italia. Avocazione se il pm non sente entro tre giorni la vittima di violenza di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 24 dicembre 2022 Garantire il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria rafforzando in questo modo il “Codice rosso” contro i femminicidi. È con questo obiettivo che un disegno di legge a trazione Lega, ma con ampio consenso anche tra le altre forze politiche, introduce un nuovo caso di avocazione da parte della Procura generale. Garantire il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria rafforzando in questo modo il “Codice rosso” contro i femminicidi. È con questo obiettivo che un disegno di legge a trazione Lega, ma con ampio consenso anche tra le altre forze politiche, introduce un nuovo caso di avocazione da parte della Procura generale quando il pubblico ministero nei casi in cui si procede per delitti di violenza domestica o di genere, non assume, entro il termine dei tre giorni dalla iscrizione della notizia di reato, le informazioni dalla persona offesa. Del provvedimento è appena iniziato l’esame in commissione Giustizia al Senato, ma già è in corso la raccolta delle firme per l’assegnazione in sede referente, a testimonianza del consenso trasversale che c’è intorno all’iniziativa. I reati di violenza domestica o di genere (consumati o tentati) interessati dall’estensione dell’avvocazione sono, nel dettaglio: omicidio; maltrattamenti contro familiari e conviventi; violenza sessuale, aggravata e di gruppo; atti sessuali con minorenne; corruzione di minorenne; atti persecutori; lesioni personali aggravate e deformazione dell’aspetto della persona attraverso lesioni permanenti al viso. Il procuratore generale non può disporre l’avocazione delle indagini nel caso in cui il mancato rispetto del termine dei tre giorni è giustificato, dando luogo a una proroga del termine quando ci sono esigenze di tutela di soggetti minorenni o di riservatezza delle indagini, anche nell’interesse della persona offesa. Di fatto il termine dei tre giorni, introdotto anche per rispettare la direttiva comunitaria sui diritti delle vittime di reato compreso quello a essere ascoltate, è stato considerato ordinatorio, già nelle sue prime applicazioni, vista l’assenza di una sanzione di nullità o inutilizzabilità dell’atto compiuto oltre il termine. Il disegno di legge prevede poi un obbligo di comunicazione ulteriore (rispetto a quelli che tra pochi giorni saranno operativi per effetto dell’entrata in vigore della riforma Cartabia del processo penale) a carico della segreteria del Pm estendendo il vincolo di comunicazione alla Procura generale di tutti gli elementi identificativi del procedimento nel quale non è stata sentita la vittima nei tre giorni previsti. Padova. Ripartire da un panettone L’Osservatore Romano, 24 dicembre 2022 Nel laboratorio “Giotto” del carcere Due Palazzi di Padova. Lo hanno definito il panettone artigianale più “ricercato” d’Italia. Premiato dal Gambero Rosso, acquistato dalle grandi aziende per le strenne natalizie. Negli anni scorsi l’ha ordinato anche Papa Francesco. Si vende in 200 negozi, ma prima di arrivare sugli scaffali deve superare le sbarre e i metal detector del carcere Due Palazzi di Padova. È qui che nel 2005 la cooperativa Work Crossing ha deciso di trasferire il suo laboratorio di alta pasticceria “Giotto”. Una sfida ambiziosa, tra burocrazia e ostacoli. “Decidemmo di puntare su prodotti di alta qualità”, racconta il presidente Matteo Marchetto. “Abbiamo offerto un lavoro vero ai detenuti, con regolare contratto. La nostra non era un’iniziativa di assistenzialismo, dovevamo stare sul mercato e confrontarci con la concorrenza”. Oggi cinquanta carcerati, guidati da quattro chef, sfornano torte, biscotti e pasticcini. Si alternano dalle quattro del mattino alle sei di sera. Tra macchinari pulitissimi e citazioni letterarie sui muri, non sembra nemmeno di essere in prigione. Un’esperienza che il capo pasticcere Matteo Concolato non esita a definire “un miracolo”. Varcando le soglie del Due Palazzi è difficile dargli torto. Qui le barriere umane e carcerarie si abbattono. Ci sono ergastolani, uomini condannati a pene lunghissime. Capita che, tra una sac à poche e una spatola, il boss debba apprendere il mestiere da uno scippatore. “Questo posto è una Babele, arriviamo tutti da storie diverse, ci sforziamo di essere curiosi e impariamo ad accettare chi abbiamo davanti”, conferma Roberto, addetto al confezionamento dei dolci. “L’ozio in cella mi stava lacerando, è la cosa peggiore che possa capitare a un uomo. Adesso quando sono di turno il tempo vola, vorrei fare tutto. La crema pasticcera e gli imballaggi”. Non è una favola. Le regole sono quelle dell’alta pasticceria. Per lavorare con Giotto si fanno colloqui e valutazioni con gli psicologi. Dopo un periodo di formazione arriva l’assunzione con il contratto collettivo nazionale. La possibilità di imparare un mestiere e mandare soldi a casa. Ma soprattutto l’occasione di ricominciare. Una mezza rivoluzione, se si pensa che il figlio di un condannato ha appeso nella sua cameretta la prima busta paga del papà pasticcere, accanto al poster di Ronaldo. Un altro detenuto era entrato in laboratorio non sapendo cosa fosse il panettone. Poi, diventato esperto nella preparazione del dolce natalizio, ne ha mandato uno alla sua famiglia in Marocco per mostrare ciò che aveva imparato. A Padova c’è chi, uscito di prigione, ha cominciato a lavorare nella ristorazione e chi ha aperto una pasticceria. Sono le testimonianze di una dignità ritrovata, da cui non si torna indietro. “Tutto nasce da un incontro, dal modo in cui le persone vengono accolte e accompagnate”. Ne è convinto il presidente di Work Crossing, Matteo Marchetto. “Con questa occupazione molti detenuti guardano in faccia il male che hanno fatto e questo è il primo passo per domandarsi se si può vivere diversamente”. Nell’anno record per i suicidi in carcere, l’esperienza del lavoro dietro le sbarre diventa ancora più importante. Perché, oltre a rieducare, sottrae le persone alla solitudine e alla disperazione. Ma oggi in Italia solo il 4,5 per cento dei detenuti lavora per aziende o cooperative. Una percentuale minima, di cui quasi nessuno si occupa. Eppure basterebbe ascoltare le storie che arrivano da Padova, per provare a invertire la tendenza. Luigi è addetto ai panettoni Giotto. Ha 40 anni e una lunga pena da scontare. A fine turno racconta: “Avete presente una vecchia macchina che sta per essere demolita? Per me questo lavoro è stata la chiave che ha riacceso l’auto facendomi capire che forse quel catorcio può ancora funzionare. Avevo perso tutto, mi sentivo odiato e senza la forza di guardarmi allo specchio. Cosa campi a fare se nessuno si ricorda nemmeno che esisti? Non mi nascondo: senza il lavoro mi sarei tolto la vita da tanto tempo”. Milano. La tecnologia dà lavoro ai detenuti e anche una nuova vita varesenoi.it, 24 dicembre 2022 Prosegue il progetto di inclusione sociale grazie a Eolo e bee.4 altre menti nel carcere di Bollate: 26 detenuti coinvolti nelle attività di formazione e call center. L’iniziativa ha preso vita a settembre 2021 con l’obiettivo di promuovere formazione e lavoro come strumento di reintegrazione con il supporto delle opportunità offerte dalla connettività. La tecnologia si allea, dando lavoro e la possibilità di una nuova vita ai detenuti. Eolo, Società Benefit leader in Italia nella fornitura di connettività tramite tecnologia FWA - Fixed Wireless Access, rinnova la collaborazione con l’impresa sociale bee.4 altre menti a sostegno del progetto di inclusione sociale rivolto ai detenuti del carcere di Bollate. In particolare, visti gli ottimi risultati ottenuti durante il corso del progetto pilota partito a settembre 2021, l’iniziativa non solo verrà riproposta, ma subirà un ampliamento in termini di dimensioni e attività. Infatti, non solo il numero di detenuti coinvolti salirà da 8 a 26, ma, dopo un programma di formazione di circa 10 giorni organizzato da Eolo, i partecipanti non svolgeranno più solo attività di welcome call e controllo qualità come lo scorso anno, ma saranno chiamati a gestire anche una parte di chiamate inbound e di provisioning, aggiungendo quindi un ulteriore tassello alle proprie competenze professionali. “Siamo particolarmente orgogliosi dell’evoluzione e degli splendidi risultati che stanno interessando questa iniziativa e di poter dimostrare ancora una volta il profondo legame che unisce connettività e inclusione sociale” ha dichiarato Daniela Daverio Ceo Service Division di Eolo. “In Eolo siamo fermamente convinti del valore della formazione professionale - aggiunge - nonché delle preziose opportunità che le skills digitali possono fornire al giorno d’oggi nel mondo del lavoro. Progetti come questo si inseriscono perfettamente all’interno della nostra mission e rappresentano anche l’espressione di un altro valore molto importante per l’azienda: quello della restituzione, il give back sui territori dove operiamo attraverso progetti che portino un impatto positivo concreto per le comunità”. “È straordinario verificare quanto entusiasmo e partecipazione sta generando la collaborazione con Eolo - ha dichiarato Marco Girardello di bee.4 altre menti - L’azienda sta investendo su questo progetto in differenti direzioni: partendo dal perimetro del servizio ampliando la gamma delle attività in cui sono coinvolti gli operatori; continuando con quello della formazione e della qualità, dapprima contribuendo al processo di qualificazione professionale dei nostri soci e successivamente verificando in modo puntuale gli standard di servizio offerti dalla nostra cooperativa a Bollate”. E ancora: “Da ultimo sul piano della partecipazione di tutta l’azienda ad un percorso progettuale che oltre alla dimensione più strettamente lavorativa, si apre alla sfera etico/culturale rendendo evidente e tangibile anche e soprattutto la dimensione valoriale di Eolo e della straordinaria comunità di persone che ne fanno parte. Non possiamo che ringraziarli per tutta questa ricchezza di cui siamo onorati e che ci responsabilizza molto”.  Durante il mese di luglio, gli operatori di Eolo hanno organizzato delle visite dedicate presso la struttura per raccontare ed illustrare il progetto. La risposta dei detenuti, così come durante il corso del progetto pilota, si è confermata assolutamente positiva, l’iniziativa, infatti, è stata accolta con grande entusiasmo e voglia di mettersi in gioco, con una forte dedizione e curiosità verso le nuove competenze da acquisire. Torino. Delegazione del Partito Radicale in visita al carcere delle Vallette quotidianopiemontese.it, 24 dicembre 2022 Nell’ambito dell’iniziativa “Natale in carcere” promossa dal Partito Radicale nonviolento, transnazionale e transpartito, anche a Torino una delegazione del Partito Radicale farà visita il giorno di Natale al Carcere Lo Russo Cotugno delle Vallette di Torino. La delegazione che inizierà la visita alle ore 9.30, è composta dagli attivisti del Partito Radicale Sergio Rovasio, Presidente dell’Associazione Marco Pannella di Torino, Marianna Ferrara e Alessandro Macchi. L’iniziativa, promossa in tutta Italia, vedrà delegazioni del Partito Radicale anche nelle carceri di Milano, Roma, Bologna e Napoli, con l’obiettivo di verificare le condizioni della popolazione carceraria. La visita inizierà presso il reparto femminile per incontrare le ragazze che hanno promosso nei mesi scorsi diverse iniziative nonviolente per denunciare le gravi carenze strutturali, di personale e del sovraffollamento del carcere Lorusso Cutugno. Secondo gli ultimi dati nel carcere della Vallette ci sono stati nelle ultime settimane quattro suicidi. La struttura carceraria si trova in una grave situazione di sovraffollamento e tensione. La capienza è di 1.062 detenuti a fronte di una presenza quotidiana di oltre 1.400 detenuti. Le gravi carenze di organico, le tensioni gravissime tra detenuti nell’area ‘nuovi giunti’, le aggressioni che subiscono gli agenti della polizia penitenziaria, i suicidi e i tentati suicidi dei detenuti, sono solo alcuni dei gravissimi problemi del carcere. La visita terminerà alle ore 12 circa. Treviso. Festa di Natale in carcere, anche con le famiglie dei detenuti, fra giochi e regali lavitadelpopolo.it, 24 dicembre 2022 Giornata speciale alla Casa circondariale Santa Bona di Treviso, dove alcuni detenuti hanno potuto trascorrere un pomeriggio di “normalità”, con le famiglie e i figli, in un clima natalizio, organizzato dai volontari. “Oggi pomeriggio vedere l’amore di quelle famiglie mi ha fatto capire molto bene che “Omnia vincit Amor.. l’amore vince ogni cosa”. Le parole dei volontari delle associazioni che sabato 17 dicembre al pomeriggio hanno reso possibile una festa di Natale speciale allestita nel campo esterno della Casa circondariale di Treviso. Una ventina di carcerati con figli minori hanno potuto incontrare le proprie famiglie, “vivere momenti di calore familiare”, accanto all’albero e ai gazebo, organizzati a mo’ dei mercatini che allietano le nostre piazze in questi giorni, con panettoni, dolciumi, cioccolata e tè caldo. Per la gioia dei bambini, è arrivato anche Babbo Natale a portare loro i doni. Anche se, forse, il regalo più bello era essere lì, insieme al proprio papà. “Facendo la parte di Babbo Natale ho avuto la fortuna di avere su di me tanti occhiolini limpidi, ma la cosa che mi ha colpito è stata la richiesta di due bambine che come regalo mi hanno chiesto di far tornare a casa il loro papà, perché a loro manca molto. Non sono riuscito a trattenere le lacrime per questa richiesta fatta. Grazie a “La Prima pietra” e anche alle altre associazioni, tra cui la Chioma di Berenice, che erano presenti per la bellissima e riuscita giornata”. Due clown di “Giocare in corsia” hanno regalato bolle giganti e animaletti realizzati con i palloncini. E’ stata una giornata che ha coinvolto tutta la casa circondariale: “Durante la mattinata è stato inaspettato e rincuorante vedere la comandante Maria Grazia Grassi e gli agenti, gli educatori, collaborare, ognuno a suo modo, con noi. Ho percepito una forte emozione in tutti, eravamo tutti consapevoli che, per quanto semplice, quello che stavamo preparando sarebbe stato un momento forte e importante per le famiglie che lo avrebbero vissuto. Quasi mi sono dimenticata di essere dentro a un carcere... si respirava l’aria di gioia e fibrillazione di quando sai che sta per accadere qualcosa di bello, e lo aspetti, come il sole in una giornata uggiosa. Ho apprezzato quando la comandante ci ha ringraziato, ribadendo che le cose possono funzionare solo se uniamo le forze”. L’obiettivo espresso, infatti, è di poter ripetere esperienze come queste, per dare alle famiglie dei carcerati occasioni di incontro in un clima di serenità: “Vedere i bambini correre ad abbracciare il papà, mi ha fatto tenerezza. È difficile da capire razionalmente perché questi bimbi innocenti debbano subire così tanto dolore. E per questo ha fatto tremendamente male vederli salutarsi alla fine della festa! A volte avrei voluto sparire per poter lasciarli vivere veramente un momento di tenerezza e intimità, senza essere circondati da estranei!”. Una giornata che è stata motivo di riflessione profonda anche per i volontari: “Se penso a me, mi ha aiutata a rendermi conto ancora una volta di quando la vita mi abbia regalato, senza che io lo chiedessi o facessi nulla per meritarlo. Proprio per questo mi sento chiamata a contribuire nel mio piccolo ad aiutare, anche solo distribuendo qualcosa di dolce o regalando un sorriso in più a chi il Natale non sa nemmeno cosa sia!”. Per tutti loro i volti, gli sguardi, gli abbracci sono difficili da dimenticare, saranno un segno tangibile di chi continua ad amare, nonostante le difficoltà. La parrocchia di San Bartolomeo di Treviso, come da tradizione, ha confezionato dei pacchi regalo da portare in carcere: sono state consegnate durante la festa di Natale dei carcerati con le loro famiglie 245 borse, 240 paia di ciabatte. E, poi, biscotti, calzini e asciugamani, frutto della generosità dei parrocchiani. Ma non solo, anche di persone, che, saputo dell’iniziativa, hanno portato la propria borsa di Natale per i detenuti di Santa Bona. Ai regali ha contribuito anche il Soroptimist International Club Conegliano-Vittorio Veneto.  Torino. L’Arcivescovo in carcere per Natale di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 24 dicembre 2022 Martedì 20 dicembre ore 9: nella cappella della Casa circondariale “Lorusso e Cutugno” c’è attesa e anche curiosità tra i detenuti e le detenute (ma anche tra gli agenti penitenziari) per la Messa di Natale. Il coro, guidato dai cappellani don Silvio Grosso e don Guido Bolgiani, è pronto, i ristretti entrano alla spicciolata. In prima fila tre “amici” reclusi che riceveranno il sacramento della Confermazione: Xavier, peruviano, che ha scelto come il padrino il suo catechista, Beppe Bordello, Ananyelis, cubana, con la madrina Stefania, compagna di cella, e Debora: il suo padrino è il marito Antonello. E poi la direttrice Cosima Buccoliero con i suoi collaboratori, i volontari carcerari della parrocchia della Crocetta, le suore vincenziane che seguono le detenute, Paolo Monferino, presidente della Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri, l’ente di Formazione professionale che tiene i corsi per i detenuti. È una Messa speciale non solo per le cresime e perché è Natale: per la prima volta l’Arcivescovo mons. Roberto Repole entra in carcere dopo la sua nomina e non a caso ha scelto la settimana della vigilia della nascita di Gesù per portare il suo saluto e la vicinanza della Chiesa torinese ai reclusi. “Sono contento di essere qui con voi, attendevo da tempo questo momento per dirvi che non siete soli, innanzi tutto perché siete amati da Dio”. Parole pronunciate con un sorriso che è come un abbraccio e che rompono il ghiaccio… “È giovane e simpatico” commenta a bassa voce un ristretto al suo vicino. La Messa prosegue. “In un tempo in cui tutto sembra mutare velocemente, la storia si ripete: ci sono ricchi sempre più potenti, aumenta la povertà, il mondo è insanguinato dalle guerre, una nel cuore dell’Europa. Ma di fronte a tanto dolore avviene qualcosa di nuovo, si compie una promessa: nasce il Figlio di Dio da una donna come noi e arriva per tutti noi. Guardiamo a quel Bambino con occhi nuovi, sentiamoci amati da Dio, rinasciamo con lui perché dove sovrabbonda la colpa regna la misericordia di Dio”. È il momento del sacramento della Confermazione che i tre cresimandi, come spiegano i cappellani, ricevono al termine di un cammino di fede e di rinascita. Commozione nell’abbraccio con i padrini e i catechisti: sembra di partecipare alla Messa in una delle nostre parrocchie. Perché il carcere - sottolinea l’Arcivescovo, richiamando anche il nostro giornale che dedica una rubrica ai temi carcerari ed entra ogni settimana nelle sezioni del penitenziario grazie alla generosità di alcuni lettori che regalano l’abbonamento ai detenuti - “è una parrocchia della nostra diocesi e voi siete parte della comunità della Chiesa di Torino”. Un pensiero in continuità con il predecessore di mons. Repole, l’Arcivescovo emerito Cesare Nosiglia, che ogni settimana da quando è “in pensione” celebra la Messa nella cappella del “Lorusso e Cutugno” per i detenuti. È tempo del congedo: mons. Repole stringe le mani a tutti i presenti, con una promessa “Ci rivedremo presto”. E come in altre 21 carceri italiane, anche al “Lorusso e Cutugno” martedì 20 dicembre si è tenuta la nona edizione de “L’Altra Cucina... per un Pranzo d’Amore”, il pranzo “stellato” preparato da famosi chef per i detenuti e le loro famiglie promosso in occasione delle festività natalizie da Prison Fellowship Italia, Rinnovamento nello Spirito Santo e Fondazione Alleanza del RnS. Nella casa Circondariale torinese, come è accaduto in altre edizioni, ha offerto la sua arte culinaria cucinando per i ristretti Matteo Baronetto, chef del Cambio. Piacenza. Donate attrezzature per palestre del carcere delle Novate Libertà, 24 dicembre 2022 Natale è sinonimo di rinascita, di condivisione e il gesto che ha avuto come protagonisti cittadini, imprenditori e associazioni di volontariato del nostro territorio nei confronti dei detenuti della casa circondariale di Piacenza rappresenta al meglio i buoni propositi che impreziosiscono il clima di festa. Questa mattina Walter Bulla e Bruno Giglio insieme a Enrico Rizzo e Maria Rosa Salamina, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’associazione “Oltre il muro” hanno consegnato quindici attrezzature per le palestre maschili e femminili del carcere delle Novate. “Parliamo di Natale, parliamo del grande cuore dei nostri cittadini - le parole di Maria Gabriella Lusi, direttore del carcere -, chi lavora nel nostro contesto continua a dire che il carcere ha bisogno del suo territorio ed è vero: questa donazione è un esempio bellissimo, l’esempio di una cittadinanza che non dimentica chi esegue la pena e chi lavora dove la pena viene eseguita”. Alla donazione dei macchinari hanno contribuito, oltre a Bulla e Giglio, l’istituto Maugeri di Pavia, l’associazione “Fratello mio”, l’associazione “Cuore generoso”, il negozio “Frutti del grano”, l’azienda “Mulino Ercoli”, la società “metronotte città di Piacenza” e diversi cittadini e volontari dell’associazione “Oltre il muro”. “La sinergia tra associazioni, imprenditori e cittadini è molto importante - sottolinea il direttore della casa circondariale -, il carcere deve lavorare e cooperare con il suo territorio proprio per sviluppare una sensibilità sociale completa, volta ad assicurare percorsi di cambiamento e miglioramento”. “La palestra - continua Lusi - rappresenta il benessere psicofisico, perchè lo sport è un elemento imprescindibile del trattamento penitenziario”. “Sono stato fortunato nella vita e quindi voglio avvicinarmi a chi è stato meno fortunato di me” le parole di Giglio; del suo stesso avviso Walter Bulla: “C’è grande collaborazione con la direzione e cerchiamo di metterci sempre a disposizione attraverso iniziative che migliorino le condizioni dei detenuti”. L’inaugurazione delle nuove attrezzature è stata anche l’occasione per far luce sulle grandi problematiche che affliggono, in chiave generale, le carceri italiane, dai casi di suicidio al sovraffollamento: “Per quanto riguarda i suicidi è un fenomeno triste che possiamo combattere riuscendo a prevenire l’evento critico interagendo a livello multi professionale - spiega il direttore Lusi -, dobbiamo accorgerci per tempo della sintomatologia fermo restando che la responsabilità delle vite delle persone è nelle nostre mani e situazioni di questo tipo sono sconfitte per gli addetti a lavoro”. Sul sovraffollamento Lusi ha sottolineato che alle Novate non c’è questo tipo di problematica: “il nostro istituto non è sovraffollato e non abbiamo difficoltà di spazio”. “Mio figlio bipolare, tossico e violento. Ho paura di lui, qualcuno mi aiuti” testo raccolto da Giusi Fasano Corriere della Sera, 24 dicembre 2022 Sono una madre disperata che non sa più come salvare suo figlio e vi scrivo sperando che rendere pubblica la mia storia possa fare la differenza, anche se - a essere sincera - non so nemmeno bene a chi rivolgere queste parole. Comincio dal finale. Mio figlio ha 23 anni ed è un ragazzo alla deriva, perduto nello spazio indefinito in cui vagano le persone che sono preda di qualche dipendenza. Ha cominciato con la cannabis, da adolescente. Era un ragazzino eccellente in tutto: la scuola, la musica, lo sport. Era la mia felicità, il mio orgoglio. Poi ho capito che qualcosa in lui era cambiato. Il tonfo nei risultati scolastici, piccoli episodi che lo rendevano irriconoscibile e, prima che potessi indagare di più, è stato lui a venire da me a chiedere aiuto. Cannabis, diceva. E sarà anche stato così all’inizio, ma le cose sono peggiorate in fretta e non è servito il percorso psicologico che avevo immediatamente attivato. L’ho visto cadere sempre più in basso e ogni volta mi sono spinta un po’ più in là nel fare cose che mai avrei pensato di fare “contro” mio figlio pur di riportarlo indietro dal buco nero in cui era precipitato. I sevizi sociali, il Servizio per le tossicodipendenze, il tribunale, tutto ciò che si poteva. Finché è stato minorenne era obbligato a seguire un percorso e bene o male lo ha fatto. Ma il burrone, profondissimo, della maggiore età era lì che lo aspettava e lui gli è corso incontro. Da maggiorenni non si è più obbligati a niente, ipercorsi sono volontari e lui ha semplicemente smesso di prendersi cura di sé. Nel frattempo gli spinelli sono diventati cocaina e adesso siamo al crack, con tutto quel che comporta il non essere presenti a se stessi. In mezzo al resto c’è anche un’etichetta psichiatrica: suo figlio è un malato bipolare, ha bisogno di cure, mi dicono. Ma siamo sempre lì: è maggiorenne, non si può costringerlo a curarsi. Salto i mille dettagli che una storia come questa porta con sé e arrivo al dunque. Io sono convinta che lui possa ancora salvarsi, se si lasciasse aiutare. Ma non so più a chi rivolgermi perché possa essere aiutato. E io, oggi, ho paura di lui. È terribile pensare una cosa del genere, da madre. È lacerante mescolare i ricordi del prima con la realtà di adesso. È devastante, e non so proprio più che cosa fare. Mi hanno detto “deve toccare il fondo”, ma credo che l’abbia raggiunto ormai da molto tempo e non è cambiato nulla se non in peggio. Ho dovuto difendermi da lui che ha reazioni incontrollate, violente. Sono arrivata a sbarragli la porta di casa. Lui ha scavalcato il cancello, l’ho denunciato. Non ha più la residenza nella mia stessa casa e vive alla deriva, appunto, in compagnia di gente che aggiunge male al male. Il 30 novembre 2022 era una data in cui avevo osato sperare: era il giorno fissato per l’ingresso in una comunità che tratta le tossicodipendenze. Ma lui non si è presentato e io non vedo più la luce. Non ho più lacrime, sono come svuotata. Devo guardarmi le spalle da mio figlio, tutta la mia famiglia deve difendersi da lui. Assieme ad altri tossicodipendenti ha occupato e devastato la casa in cui è cresciuto. Ci vivevano i miei genitori, anziani e malati, sono fuori casa da mesi. C’è un cumulo di denunce contro di lui, molte firmate da me. Mi ha minacciata di morte e quasi ammazzata, mi arrivano notizie di situazioni molto gravi in cui mette se stesso e gli altri in pericolo. Cos’altro deve succedere? Mi chiedo ogni santo giorno. Serve un reato grave perché qualcuno intervenga? E che cosa posso fare di più e meglio? . Cosa fare? Io e la mia famiglia siamo finiti in un abisso e non abbiamo strumenti, modi per reagire. Mio figlio, il bambino e il ragazzino adorato che illuminava le mie giornate, ha perduto la strada e vaga in un luogo mostruoso e lontano. Io so che può ancora tornare indietro. So che ce la potrebbe fare ma non so più a chi chiedere aiuto per poterlo raggiungere e tendergli la mano. Per questo ho scritto a voi de La27Ora. Perché magari qualcuno dei vostri lettori sa indicarmi la strada che mi riporti verso la vita. Iran. Rivoluzioni femministe che cambiano la storia di Chiara Cruciati Il Manifesto, 24 dicembre 2022 “Noi, donne di Teheran” di Farian Sabahi, edito da Jouvence. Un testo del 2014 rivisitato alla luce della rivolta scoppiata in Iran a metà settembre dopo l’uccisione da parte della polizia morale della giovane curda Jihna Mahsa Amini. “Donna è Teheran. E come ogni Shahrzad, sussurra le parole giuste. Convince. Incanta il suo interlocutore. E incanterà anche voi, se deciderete di viaggiare. E, come miniera di rubini, sarete aperti all’influsso dei raggi del sole”. Che Farian Sabahi, in Noi, donne di Teheran edito da Jouvence (pp. 144, euro 12), abbia deciso di raccontare le donne iraniane attraverso Teheran e i suoi riti sociali, familiari, individuali e collettivi, non è un caso. Né una scelta fuorviante. Perché quei riti, insieme alle peculiarità di società millenarie e alle loro tante identità, sono spesso lo specchio della vita delle sue donne. Le custodi di saperi antichi e di visioni moderne, le depositarie della tradizione orale e allo stesso tempo le protagoniste delle svolte fulminee e decisive, quelle che in tempi brevissimi cambiano percorsi apparentemente cristallizzati. Tanto più vero in Medio Oriente, terra dai mille volti e i mille popoli, luogo di conflitti agiti o latenti e di resistenze mai sopite, dove in innumerevoli casi sono state e sono le donne a tessere le pratiche che cementano società a rischio di disfacimento, a rischio di perdersi, e che garantiscono la sopravvivenza delle reti sociali collettive. È così che scorre la lettura di Noi, donne di Teheran, testo del 2014 della giornalista e accademica Farian Sabahi, rivisitato alla luce della rivolta scoppiata in Iran a metà settembre dopo l’uccisione da parte della polizia morale della giovane curda Jihna Mahsa Amini. Una rivoluzione femminista, delle donne, non solo perché sono loro in prima fila, a togliersi il velo e a bruciarlo in piazza, ma perché non può che essere femminista il processo di costruzione di una società altra, democratica e plurale, equa ed uguale per ognuna delle sue identità. Una visione racchiusa nel messaggio che guida la rivolta, “Jin Jiyan Azadì” (Donna Vita Libertà), coniato dal movimento di liberazione delle donne curde e oggi faro del sogno di ribaltamento di un regime che ha nel controllo sociale e familiare delle donne uno dei pilastri ideologici maggiormente identitari. Nel racconto di Sabahi, Teheran è lo sfondo perfetto alla società iraniana, alle sue mutevolezze e alle sue certezze, una città contraddittoria e meticcia, affatto distante dagli usi dei paesi mediterranei, dai suoi odori e sapori. E anche dalle sue conquiste. Non stupisce dunque leggere di cosa sono state capaci le iraniane negli ultimi secoli, in anticipo su molti paesi europei e in palese contrasto con l’immagine orientalista che tiene l’Iran sotto la cappa di una narrazione statica e inamovibile: cape di insurrezioni popolari e fondatrici delle prime scuole femminili a metà Ottocento; attiviste di associazioni femministe ed editrici di riviste di sole donne agli albori del Novecento; ambasciatrici all’estero mentre in Italia le squadracce fasciste prendevano d’assalto camere del lavoro e case del popolo; registe, avvocate, giuriste a metà Novecento. Il testo si chiude con il lungo dialogo - frutto di diversi incontri - tra l’autrice e Shirin Ebadi, avvocata e magistrata iraniana, premio Nobel per la Pace nel 2003, che ripercorre gli ultimi quarant’anni, dalla rivoluzione khomeinista del 1979 all’accordo sul nucleare iraniano del 2015, prima firmato e poi affossato dagli Stati uniti. E, da musulmana, affronta il tema dirimente della religione e del ruolo che dovrebbe rivestire, sul piano individuale e collettivo, in una società democratica. Un dialogo che non poteva prescindere dal linguaggio profondo dell’Iran, la poesia: è in versi che da secoli la Persia racconta se stessa.