Suicidi in cella record e buon diritto. Vera sicurezza è la clemenza di Danilo Paolini Avvenire, 23 dicembre 2022 Perché scartare a priori l’ipotesi di un provvedimento d’indulto e/o amnistia, mirato e limitato a determinati reati, tale appunto da dare a queste persone una speranza e un’opportunità di ricostruirsi una vita? In nome di quale pretesa e sbandierata “certezza della pena”, se manca la certezza del diritto? Ogni ex detenuto recuperato è una vittoria per lo Stato. Ogni suicida, ogni recidivo, è molto peggio di una sconfitta: è una vergogna. C’è da stancarsi, a scrivere di quel microuniverso dolente che è il carcere, delle sue endemiche emergenze, delle sue storie di varia umanità, delle incredibili perle di solidarietà che possono nascondere spesse mura e pesanti cancelli. Da anni, infatti, sembra che la situazione possa soltanto peggiorare. Ma non abbiamo il diritto di stancarci, se c’è chi dietro quelle sbarre muore ogni giorno, di suicidio, di malattie che “fuori” non sarebbero state contratte o forse non sarebbero state letali, di droga (che entra nei modi più disparati e con le complicità più diverse), di solitudine, d’indifferenza. Non è pietismo, qui ne va della dignità umana e del rispetto dello stato di diritto, quale l’Italia dovrebbe essere. Anzi, se vogliamo è pure questione di convenienza, perché oggi chi sconta la pena interamente in cella - senza l’opportunità di poter imparare un vero mestiere, senza contatti che possano agevolarne il reinserimento in società una volta uscito - ha un tasso di recidiva altissimo: secondo il rapporto di Antigone, al 31 dicembre 2021 solo il 38% dei detenuti era alla prima carcerazione; il restante 62% era già stato “dentro” almeno una volta; il 18% era alla quinta esperienza di detenzione o più. Al contrario, con le misure alternative al carcere il tasso di recidiva si abbatte. L’ennesima dimostrazione di come - anche questo sulle nostre pagine l’abbiamo scritto fin quasi a stancarci - più carcere non voglia affatto dire più legalità, né più sicurezza. Mercoledì scorso a Rebibbia si è tolto la vita l’ottantaduesimo detenuto dall’inizio del 2022: aveva 30 anni, ne scontava meno di due per rapina, sarebbe uscito a luglio. Non ce l’ha fatta a resistere altri sette mesi, forse spaventato anche da un “dopo” privo di prospettive che fossero diverse da altre rapine, altri arresti, altro carcere. Ottantadue suicidi in un anno, ai quali vanno aggiunti quelli di cinque agenti penitenziari: è un tremendo record nella storia dell’Italia repubblicana. Un record che non dà onore né gloria. Altro che stancarsi, più che mai è necessario far sentire la voce di chi dietro le sbarre sopravvive e di chi vi lavora; è necessario ascoltare i cappellani, figure di riferimento dei reclusi non solo per il conforto spirituale, ma anche per piccoli aiuti concreti come qualcosa di decente da mangiare, per una pacca sulla spalla o un sorriso quando servono. E servono sempre.Certo, il sovraffollamento, la carenza degli organici della Polizia penitenziaria, la mancanza di educatori, mediatori culturali e psicologi sono tutti problemi terribilmente gravi, ma s’illudono quelli che pensano di realizzare un sistema di esecuzione penale funzionante (che non sia cioè criminogeno come quello attuale, ma produttore di legalità e di rigenerazione umana) soltanto costruendo nuove prigioni e assumendo altro personale. Si tratta di misure che possono servire a migliorare la situazione, indubbiamente. Ma ciò che serve, innanzi tutto, è una poderosa iniezione di speranza. E non soltanto qui in Italia. Perciò, in vista del Natale, papa Francesco ha scritto a tutti i governanti, Italia compresa, “per invitarli a compiere un gesto di clemenza verso quei nostri fratelli e sorelle privati della libertà che essi ritengano idonei a beneficiare di tale misura, perché questo tempo segnato da tensioni, ingiustizie e conflitti, possa aprirsi alla grazia che viene dal Signore”. Il Pontefice parla al mondo e parla ai cuori, non fa il giurista né il legislatore. E la clemenza può essere espressa in vari modi, a cominciare da un’esecuzione della pena rispettosa della dignità propria di ogni essere umano. Ma per restare in Italia, perché scartare a priori l’ipotesi di un provvedimento d’indulto e/o amnistia, mirato e limitato a determinati reati, tale appunto da dare a queste persone una speranza e un’opportunità di ricostruirsi una vita? In nome di quale pretesa e sbandierata “certezza della pena”, se manca la certezza del diritto? Ogni ex detenuto recuperato è una vittoria per lo Stato. Ogni suicida, ogni recidivo, è molto peggio di una sconfitta: è una vergogna. Suicidi in carcere. Intervista ad Alessio Scandurra, di Antigone Onlus di Morena Di Giulio ilquotidianodellazio.it, 23 dicembre 2022 È di stamattina la notizia dell’ennesimo suicidio in carcere, Giovanni Carbone, detenuto a Lanciano, che aveva ucciso la compagna qualche settimana fa a Chieti, aveva anche espresso la volontà di uccidersi al momento dell’arresto. Parliamo della condizione delle carceri con Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio sulle condizioni di detenzione per l’associazione Antigone... Purtroppo tante persone che si sono tolte la vita nel corso del 2022 avevano fatto dei tentativi, compiuto atti di autolesionismo, erano persone “attenzionate”. Ma la domanda è, per quanto tempo riesci a sorvegliare una persona 24 ore su 24? Se esiste la volontà di compiere un gesto così estremo la verità è non riesci a impedirglielo. Bisogna arrivare prima che si decida, cercare di farlo venire meno a quella volontà. Ci sono casi che sono finiti sotto indagine di suicidi che avevano diagnosi di disturbi psichiatrici importanti ed evidenti. Come mai il sistema carcerario non riesce a intercettare questi malesseri? L’amministrazione penitenziaria e tutte le persone che lavorano in carcere mettono tanto impegno per evitare queste cose, anche per loro è una grande tragedia, il contrasto a questo fenomeno è in cima alle loro priorità e questo va riconosciuto. Assistere al suicidio di queste persone è una tragedia per chi ci lavora a contatto ma anche per i compagni di cella, tutti si sentono in parte responsabili di non essere riusciti a “salvare” una persona. Immagini di vedere una persona che sta condividendo una parte di vita con lei, stare psicologicamente male. Poi magari ci provi a tirarlo fuori dalla cella, a coinvolgerlo nelle attività del carcere, qualche volta un po’ te ne freghi come facciamo tutti. Un giorno ti svegli e quella persona si è suicidata. C’è un filo conduttore nelle storie di queste persone che scelgono di compiere un gesto così? Ogni detenuto è diverso dagli altri, ci sono molteplici storie che li hanno, per molti motivi, condotti in carcere. La sofferenza e il malessere delle persone nel carcere è reale. Non dobbiamo pensare che le persone che si tolgono la vita fossero in condizione di malessere mentre chi “resiste” sta facendo la bella vita in carcere. Queste persone hanno tutti un po’ la stessa caratteristica. Sono gli ultimi, quelli che fuori dal carcere non hanno niente, che vedono di fronte a loro un futuro fuori fatto di niente. Rapporti famigliari di grande degrado che durante la detenzione peggiorano ancora di più, e come potrebbero migliorare con 10 minuti di telefonate a settimana o se per una visita i tuoi cari devono fare anche 250 km. Con le norme emergenziali pandemiche, carceri chiusi ma 5 - 6 telefonate a settimana. Ora siamo tornati al vecchio sistema, ma immagini che molti detenuti non sono dentro da molti anni e per loro non è un “ritorno” alla condizione di prima, per loro è una perdita dei legami. la cella di un suicida Parliamo di una emergenza suicidi? Il dato dei suicidi in carcere è un dato strutturale, fa parte della storia del sistema penitenziario italiano. Il tasso di suicidi nelle carceri è incomparabile rispetto al tasso di suicidi cui assistiamo fuori. In questo momento però siamo nell’eccezionalità dei numeri. Il paradosso è che abbiamo meno detenuti ora che nel passato, in momenti storici di grande affollamento non abbiamo raggiunto numeri come quelli di questo 2022. Esiste un pregiudizio per cui, in fondo, la percezione di un suicidio in carcere non è grave come un suicidio che avviene fuori? Sicuramente sì, banalmente se prendi una persona che sta al bar, quello che dice “un po’ se lo merita” e lo porti a fare un giro di due ore in un carcere, senza che debba vedere situazioni estreme, vedrai come cambia percezione. Il carcere è un luogo molto astratto, un luogo fatto di niente dove ognuno di noi può coltivare la propria idea di cosa accade dentro le mura. L’opinione che si ha non è sulle persone vere che sono lì. Quando porti le persone dentro, l’atteggiamento cambia. È come aprire gli occhi e scoprire improvvisamente che ci sono delle persone vere lì dentro. Saranno anche stronzi ma quello che si è suicidato era marito di qualcuno, figlio di qualcuno. Non possiamo ignorarlo no? Niente licenze straordinarie per i detenuti semiliberi, il digiuno di protesta dei Garanti redattoresociale.it, 23 dicembre 2022 Il 30 novembre scorso erano 1076 le condannate e i condannati in semilibertà. Gran parte di loro (700 all’inizio della emergenza Covid, 4-500 secondo le ultime stime) ha goduto per due anni e mezzo di una licenza straordinaria che gli ha consentito di non tornare a dormire in carcere, come invece previsto dalla misura della semilibertà. “Salvo casi eccezionali, in cui la licenza straordinaria non è stata rinnovata o è stata revocata, il comportamento di queste persone è stato irreprensibile e ha ripagato nel migliore dei modi la fiducia che è stata loro data. Per questo appare incomprensibile e contrario al principio della progressività del trattamento penitenziario la mancata proroga delle licenze straordinarie per i semiliberi che li costringerebbero al rientro in carcere addirittura, in alcuni casi, la notte di San Silvestro”. Ad affermarlo è una nota a firma dei garanti territoriali delle persone private della libertà, che ricordano come nella giornata di ieri il Governo ha approvato il decreto legge “milleproroghe” i cui contenuti non sono ancora noti. La Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, istituita presso la Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative delle regioni e delle province autonome, rappresenta gli organismi di cui si sono dotati regioni ed enti locali, in base alla legislazione nazionale e regionale. Ne fanno parte 72 Garanti, di cui 16 di regioni e province autonome, sei di province e aree metropolitane e 50 di comuni che hanno istituito garanti delle persone private della libertà ovvero ne hanno formalmente affidato le funzioni ad altri organi di garanzia a competenza multipla. La Conferenza elegge un portavoce: attualmente ricopre tale carica Stefano Anastasìa, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio. La sede operativa della Conferenza attualmente è nella sede del Consiglio regionale del Lazio. Nella speranza che il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e il Consiglio dei ministri abbiano tenuto in considerazione questo problema, già sollevato durante la discussione parlamentare del decreto-legge ‘anti-rave’, i Garanti territoriali dei detenuti si associano all’iniziativa di sensibilizzazione intrapresa dal collega Franco Corleone, già sottosegretario alla Giustizia e attualmente Garante per il Comune di Udine, e si impegnano a digiunare a staffetta in questi giorni, in attesa della pubblicizzazione della decisione del Governo. Tra le prime adesioni al digiuno troviamo: Franco Corleone, Garante di Udine; Stefano Anastasìa, Garante per la Regione Lazio; Antonio Bincoletto, Garante di Padova; Alice Bonivardo, Garante di Alessandria; Giuseppe Caforio, Garante per la Regione Umbria; Sonia Caronni, Garante di Biella; Laura Cesaris, Garante della Provincia di Pavia; Samuele Ciambriello, Garante per la Regione Campania; Gianmarco Cifaldi, Garante per la Regione Abruzzo; Sofia Ciuffoletti, Garante di San Gimignano (SI); Eros Cruccolini, Garante di Firenze; Giovanni Fiandaca, Garante per la Regione Sicilia; Maria Losito, Garante di Belluno; Francesco Maisto, Garante di Milano; Maria Mancarella, Garante di Lecce; Alberto Marchesi, Garante di Pisa; Margherita Michelini, Garante di Prato; Luisa Ravagnani, Garante di Brescia; Giovanni Villari, Garante di Siracusa. Legge di Bilancio, Cnf e Garante nazionale: no a tagli all’amministrazione penitenziaria    garantenazionaleprivatiliberta.it, 23 dicembre 2022 Un forte appello affinché il Governo, nella legge di Bilancio, non tagli i fondi destinati all’amministrazione penitenziaria, le cui risorse economiche sono già insufficienti per le attività rieducative e per un accettabile livello di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti. Il Consiglio nazionale forense e il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale si uniscono in una riflessione sulle condizioni degli Istituti penitenziari e della detenzione e manifestano l’urgenza che Governo, Parlamento e i ministeri interessati promuovano interventi normativi organici che garantiscano conformità al dettato costituzionale. “L’auspicio - afferma la Presidente del Cnf, Maria Masi - è che tutte le componenti istituzionali, con il necessario coinvolgimento dell’avvocatura istituzionale e associativa, nonché con il contributo ineliminabile del Garante nazionale, avviino una riflessione seria, che, attraverso interventi normativi organici e funzionali, garantiscano che le condizioni della detenzione siano ispirate al principio di umanità e assicurino che l’esecuzione della pena avvenga in maniera conforme al principio costituzionale della rieducazione del condannato. Secondo il Presidente del Garante nazionale, Mauro Palma, “lo stato della detenzione nel nostro Paese, la cui criticità è segnalata non soltanto dalla densità della popolazione detenuta ma anche dal numero degli atti di suicidio, ad oggi 82, che si sono verificati nel corso di quest’anno, richiede una serie di interventi urgenti e indifferibili che non possono attendere la realizzazione di progetti di natura edilizia, pur necessari in una prospettiva di prossimo futuro”.  Il Cnf e il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà hanno individuato tra i primi obiettivi da perseguire: l’aumento degli standard di vita detentiva; l’incremento del personale che opera negli Istituti penitenziari anche con l’introduzione di nuove professionalità qualificate per trattare le diverse condizioni di disagio e di fragilità della popolazione detenuta; l’inclusione delle persone detenute nel tessuto sociale anche attraverso l’aumento di istituti di restrizione a custodia attenuata; la riabilitazione e la risocializzazione di chi sconta una pena anche attraverso la promozione dell’accesso al diritto allo studio e l’offerta di opportunità concrete di lavoro; la riduzione dei limiti all’accesso alle misure alternative.  Obiettivi - cui in prospettiva si aggiunge la costruzione di nuove strutture per redistribuire su base nazionale la popolazione detenuta nel rispetto degli standard dettati dalla Cedu e dagli organi sovranazionali, del principio di territorialità dell’esecuzione della pena, della distinzione tra l’esecuzione di misure cautelari, pene brevi e pene superiori ai cinque anni di reclusione - che possono essere raggiunti semplificando le procedure per le decisioni del magistrato e del tribunale di sorveglianza; rivedendo modalità e presupposti di accesso alle misure alternative e le preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari; aumentando le opportunità di lavoro retribuito intramurario ed esterno e di attività di volontariato; intervenendo, con misure specifiche, a tutela delle donne recluse e delle detenute madri; riducendo i casi di restrizione intramuraria in via cautelare alla quale bisognerebbe far ricorso solo quale extrema ratio e in casi di reati gravi, abbandonando la logica “carcerocentrica” in favore di una logica di razionalizzazione dell’utilizzo del sistema di restrizione carceraria e intramuraria limitato ai soli casi di effettiva pericolosità sociale. Ergastolo ostativo, concesso primo permesso premio dopo la riforma di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 dicembre 2022 Concesso a un ergastolano ostativo un permesso di un giorno e 12 ore per Natale e Santo Stefano. Parliamo di uno dei primi permessi premi ottenuti - grazie all’istanza presentata dal suo avvocato difensore Simona Giannetti - a pochi giorni dalla riforma dell’ergastolo ostativo approvata dal Parlamento. Riforma che, per quanto riguarda questo beneficio penitenziario, ha recepito integralmente le indicazioni del 2019 della Corte costituzionale. Il provvedimento emanato dal Tribunale di Sorveglianza di Milano, ha riconosciuto - dietro osservazione della difesa - che deve ritenersi ammissibile e valida nel merito, la valutazione e concessione del primo permesso premio concesso ad aprile scorso - di cui Il Dubbio ha già parlato - in quanto sono rimaste invariate le condizioni che avevano giustificato la prima ordinanza di concessione. Il tribunale ha anche preso in considerazione il fatto che l’ergastolano, da allora, ha beneficiato di permessi successivi i quali hanno dimostrato la regolare e congrua condotta. Nelle sue osservazioni al Tribunale nel corso dell’udienza, l’avvocata Giannetti ha rappresentato che i presupposti, indicati dalla sentenza costituzionale con riguardo agli accertamenti sui collegamenti e con riferimento alla revisione critica da parte del detenuto circa le precedenti condotte anche in relazione a quanto fatto in carcere negli ultimi 25 anni e alle azioni di volontariato realizzate, sono da considerare i medesimi richiesti dalla riforma ora in vigore e che il percorso avviato dal detenuto in questi mesi non potesse che proseguire in ragione di una valutazione ammissibile secondo la pronuncia della Consulta e nel merito secondo gli accertamenti di allora posti in essere dall’istruttoria del solo magistrato, allora competente come monocratico. Il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha quindi ritenuto di valutare come i presupposti dell’ordinanza di concessione del beneficio del magistrato di sorveglianza ad aprile, dovessero essere confermati anche oggi, 8 mesi dopo e con la nuova riforma, perché oggetto di un accertamento che può considerarsi quello che già in linea di massima aveva previsto la Consulta con la sentenza del 2019 e che oggi il Tribunale di Sorveglianza ritiene sovrapponibile alla nuova legge. Ma soprattutto anche al fine di non interrompere il percorso già avviato dal detenuto con i permessi pregressi e dare seguito al diritto alla progressione della rieducazione. Ed è quello che prevede la finalità della pena ben cristallizzata nell’articolo 27 della nostra costituzione italiana. S.V., classe 1960, è detenuto fin dal lontano 1996 e diventato definitivo a seguito delle condanne per omicidio e associazione a delinquere finalizzato allo spaccio di stupefacenti. Come già raccontato da Il Dubbio, la prima istanza per il permesso premio, a differenza delle volte scorse, è stata ritenuta ammissibile alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 253/ 2019 per effetto della quale è venuta meno la presunzione assoluta di pericolosità che impediva l’accesso ai benefici penitenziari per i condannati non collaboranti, e in particolare al permesso premio. Sotto il profilo dell’articolo 4 bis comma 1 dell’ordinamento penitenziario, secondo cui i benefici penitenziari e le misure in esso contemplate possono essere concessi solo a condizione che il detenuto collabori con la giustizia, questa volta la norma è stata letta nel quadro della sentenza della Corte costituzionale n 253 del 2019 (intervenuta nel solco della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la sentenza Viola) che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del 4 bis nella parte in cui non prevede che, a una certa tipologia di reati, non solo quelli mafiosi, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. Norma che, per quanto riguarda il permesso premio (per la liberazione condizionale, l’approccio è diverso), è stata recepita dalla riforma da poco in vigore. Questa concessione è importante per diversi aspetti. Il primo è che gli ergastolani ostativi sono oltre i mille, tra loro ci sono pochissimi boss stragisti (cavallo di battaglia per chi stigmatizzava le sentenze della Cedu e della Consulta) e difficilmente potranno ottenere dei permessi. Ci hanno già provato i fratelli Graviano, non riuscendoci nonostante che sia venuta la presunzione assoluta di pericolosità che impedisce l’accesso ai benefici penitenziari per il condannato non collaborante. Nella realtà, la stragrande maggioranza degli ergastolani ostativi non sono i capi dei capi. Pensiamo a S.V.,colui che ha ottenuto il permesso premio per Natale: tutte le autorità interpellate per la prima concessione del permesso premio non hanno evidenziato elementi concreti indicativi che indichino l’attualità della persistenza di collegamenti del detenuto con la criminalità organizzata o della concreta possibilità di un loro ripristino. Le autorità interpellate, si sono soltanto limitate a motivare l’attualità della pericolosità dell’ergastolano S. V. sulla sola base della gravità dei reati commessi negli anni 90. Non solo. Dalla prima istanza del difensore, emerge che nei colloqui con gli esperti, il detenuto ha ammesso la sua responsabilità in ordine ai fatti a lui contestati. Ha sottolineato di essersi allontanato da qualunque contesto criminale, di aver aderito alle attività trattamentali a lui offerte, di prestare attività lavorativa presso il Laboratorio delle ostie. Ha allegato documentazione attestante la partecipazione al percorso di giustizia riparativa, il titolo di studio conseguito, l’attestato di competenza in educazione artistica, la lettera di referenza inviata il 15 dicembre del 2021 della presidente Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti. In tale missiva la presidente ha riferito dell’impegno di S. V. nel laboratorio al punto da essere divenuto così rilevante da assumere il ruolo di insegnante della competenza di realizzare ostie in tutto il mondo. Non solo. S. V., a seguito del provvedimento di declassificazione occorso nel 2014, si trova oggi sottoposto al regime dei detenuti comuni. Ciò significa che si sia già ritenuta scemata, dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziario stesso, la sua pericolosità sociale. Se fosse passata la linea intransigente di taluni presunti progressisti, a partire dai grillini, persone come S.V. sarebbero rimaste tumulate in carcere senza la speranza di poter uscire, una volta l’anno, almeno per poche ore. La “Seconda chance” dei detenuti, un’associazione che trova loro lavoro di Gian Franco Coppola agi.it, 23 dicembre 2022 Si tratta di una realtà del Terzo Settore che procura formazione e impiego attraverso il coinvolgimento di aziende di ogni tipo, portando fuori dagli istituti penitenziari, grazie a un regolare contratto, chi è vicino al fine pena e con un ottimo comportamento intramurario. Per i detenuti è come se un raggio di sole avesse improvvisamente deciso di spazzare via il grigiore della loro vita dietro le sbarre; per gli imprenditori è un’opportunità, sociale ma soprattutto economica, da cogliere al volo, specie in tempi di crisi prolungata come questi. Stiamo parlando di “Seconda Chance”, creata dalla giornalista di cronaca giudiziaria Flavia Filippi (Tg La7) con la documentarista e autrice Alessandra Ventimiglia Pieri e con Beatrice Busi Deriu, titolare di Ethicatering. Di cosa si tratta - Si tratta di un’associazione del Terzo Settore che procura formazione e lavoro attraverso il coinvolgimento di aziende di ogni tipo, portando fuori dagli istituti penitenziari, grazie a un regolare contratto, i detenuti vicini al fine pena e con un ottimo comportamento intramurario. Poteva essere una scommessa ma se nel giro di pochi mesi in Italia sono saltati fuori oltre 140 posti di lavoro da destinare a detenuti, ex detenuti e loro familiari, vuol dire che il progetto è serio e pure molto concreto. Se n’è accorto anche il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Carlo Renoldi che ha firmato un protocollo di collaborazione con “Seconda Chance”, pur sapendo che a breve a guidare il Dap sarà il magistrato antimafia Giovanni Russo. “Non possiamo fare altro che ringraziare Renoldi - spiega Filippi all’AGI - perché ha creduto in noi, ci ha dato fiducia. Quel documento è un traguardo importantissimo a cui ambivamo da tempo”. “Seconda Chance” è una creatura che vuole crescere: “Al momento ci sono quattro volontarie nel Lazio e un referente in quasi ogni regione - racconta Filippi - Ma le mille spese sostenute per andare a conoscere e a convincere le imprese, per viaggiare tra un carcere e l’altro della penisola, per accompagnare gli imprenditori ai colloqui con i detenuti, sono tutte sulle nostre spalle: benzina, autostrada, hotel, treni, taxi e il resto, tutto ciò che serve per far marciare una struttura con obiettivi così ambiziosi. Quando andai a parlare di Seconda Chance a via Arenula, la ministra Cartabia si stupì che in due anni avessimo fatto tutto da sole. Ci incoraggiò a partecipare a bandi pubblici in ambito carcerario e a chiedere il supporto di alcune Fondazioni private, ed è quello che faremo, oltre a confidare nelle donazioni, che speriamo ci arrivino numerose dal 5 x 1000. Quanto al mio, di lavoro, un lavoro che amo al di sopra di tutto, il mio direttore, Enrico Mentana, mi appoggia e mi incoraggia. Ogni tanto mi chiede se mi serve una mano, mi ha anche aiutato ad acquistare il dominio. All’indirizzo info@secondachance.net - fa sapere la presidente dell’associazione - arrivano quotidianamente tantissime mail, una pioggia di richieste di aiuto, e risponde a tutti la volontaria che si sta occupando anche del sito in costruzione. Interagiamo con passione pure con i nostri interlocutori principali, i vertici di Rebibbia Nuovo Complesso, il direttore Rosella Santoro, il caporeparto del G8, l’ispettore Cinzia Silvano, e la responsabile dell’area educativa Rossana Scotucci. Cosa prevede la legge - La Legge Smuraglia del 2000 offre sgravi fiscali e contributivi ai datori di lavoro che assumono detenuti da impiegare in qualsiasi ruolo: cuochi, camerieri, muratori, operai, idraulici, giardinieri, ma anche segretarie, parrucchiere, commesse. Un credito di imposta pari a 520 euro al mese, oltre alla soddisfazione personale di regalare una nuova opportunità, appunto una “seconda chance”, a chi ha sbagliato, sta finendo di scontare la sua pena e vuole rimettersi in gioco, con il via libera della struttura carceraria e l’avallo del magistrato di sorveglianza. L’ex narcotrafficante diventato cuoco - È il caso, ad esempio, di un narcotrafficante che, uscito di galera dopo 21 anni per lavorare come cuoco, ha impiegato diverso tempo per adeguarsi all’euro, per capire come funziona la metropolitana e come usare il telefono cellulare (oggetto mai visto prima). I detenuti che vengono scelti per il lavoro esterno hanno tutti storie complicate alle spalle, molti sono giovani cui è mancata nel tempo una guida salda di riferimento oppure che sono cresciuti senza genitori o in famiglie estremamente problematiche. “Tanti imprenditori che contattiamo - rivela ancora Flavia Filippi - dicono chiaramente di non essere interessati al progetto. Ma quelli che hanno detto sì, che hanno deciso di aderire a quella che per noi è una filosofia di vita, una volta portati in carcere per i colloqui con i candidati, si sono letteralmente trasformati. Si sono accorti che i detenuti sono persone come le altre, solo che hanno sbagliato. Impresari edili, ristoratori, commercianti hanno toccato con mano che l’umanità esiste eccome, anzi dietro le sbarre abbonda. Hanno scoperto magari che chi ha commesso un determinato reato proviene dallo stesso quartiere di chi invece è stato più fortunato e ha messo in piedi un’attività imprenditoriale. Ci sono stati casi di empatia meravigliosa. Aiutare gli ultimi è una cosa molto gratificante ma serve anche coraggio per farlo. Alcuni temono di giocarsi la reputazione, di buttare all’aria anni di sacrifici personali ed economici dando lavoro a un carcerato. La gratificazione che questa attività regala è difficile da raccontare, andrebbe provata. I detenuti della sartoria di Viterbo mi hanno appena cucito e regalato una borsa con le iniziali ricamate. Tantissimi scrivono da tutta Italia, ‘grazie per averci portato un barlume di speranza’, ‘grazie perché solo tu hai raccolto le mie chiavi’, ‘ti avessi conosciuta prima la mia vita sarebbe stata migliore’, ‘con te non ho paura”.  La vicepresidente di ‘Seconda Chance’ Alessandra Ventimiglia Pieri è altrettanto entusiasta. Oltre ad aver procurato numerose opportunità professionali ha organizzato in carcere corsi di grande successo: un tutorial di trucco per le venti detenute transessuali, una serie di lezioni su come ci si presenta a un colloquio di lavoro, una mattinata dal titolo “Stavolta il regalo ve lo facciamo noi” con due pasticcere che assieme ai detenuti hanno impastato e sfornato dolcetti di Natale da donare, a sorpresa, alle loro famiglie in questi giorni.  Chi è coinvolto - ‘Seconda Chance’ sta coinvolgendo Confindustria, Confartigianato, Terna, l’Istituto Superiore di Sanità, Conad Nord Ovest, lo chef Filippo La Mantia, il gruppo Palombini, la veleria di Prato MilleniumTech e tantissime altre imprese. Questa piccola squadra di volontari sta portando nelle carceri campi da basket e da tennis, corsi di bridge, di scacchi, di arte, di giornalismo, di gelateria. Al di là di Roma ‘Seconda Chance’ sta offrendo lavoro e formazione a Torino, Monza, Bollate, Opera, Venezia, Firenze, Pescara, Civitavecchia, Rieti, Frosinone, Velletri, Secondigliano, Reggio Calabria, Messina, Agrigento. Progetti in corso anche per Puglia e Sardegna. Come è arrivata l’idea - Ma a una cronista di giudiziaria com’è venuta questa illuminazione? “Conosco la garante dei diritti dei detenuti di Roma, Gabriella Stramaccioni - chiarisce Flavia Filippi -. Nelle carceri lei è una specie di mito, di istituzione. Due anni fa mi ha presentato l’allora Provveditore alle carceri del Lazio, Carmelo Cantone, e tutto ha preso il via. Ma da sempre, seguendo i processi e le inchieste di piazzale Clodio, vedevo tanti detenuti che magari non potevano permettersi un avvocato di grido ed erano costretti ad attendere in cella il loro destino giudiziario senza poter spiegare la propria posizione. Ho visto tanta gente finita in manette, alla fine anche assolta oppure condannata a pene davvero irrisorie, alla quale poi nessuno ha chiesto scusa”. Il caso Cospito e i tempi della giustizia di Luigi Manconi La Repubblica, 23 dicembre 2022 Il 5 dicembre la Corte d’Assise di Torino, chiamata a pronunciarsi sulla rideterminazione della pena per l’anarchico, ha accolto alcune eccezioni della difesa inviando gli atti alla Corte costituzionale, in particolare a proposito del rapporto di proporzionalità tra entità del danno ed entità della pena. Contro l’applicazione del 41 bis l’imputato ha iniziato lo sciopero della fame due mesi fa, perdendo 30 kg. Lunedì scorso il Tribunale di sorveglianza di Roma ha rigettato il ricorso presentato dai legali di Alfredo Cospito contro l’applicazione, nei suoi confronti, del regime carcerario speciale del 41 bis. Secondo i giudici, Cospito sarebbe tuttora parte attiva di “un organismo, unitario, strutturato, sovrastante rispetto alle persone e ai gruppi che ne fanno parte”; e “la partecipazione del singolo all’associazione si estende ben oltre il solo momento dell’azione”. L’applicazione del regime speciale sarebbe finalizzata, pertanto, a interrompere il vincolo associativo con il detenuto. Infatti, “il regime ordinario, anche in Alta Sicurezza, non consente di contrastare adeguatamente l’elevato rischio di comportamenti orientati all’esercizio, da parte del Cospito, del suo ruolo apicale nell’ambito dell’associazione di appartenenza”. Di conseguenza, l’interpretazione della natura e della struttura della FAI (Federazione Anarchica Informale), l’associazione oggetto dell’attenzione da parte dei giudici, è la stessa che viene utilizzata nei riguardi della criminalità organizzata: gruppo chiuso, verticistico, leadership in grado di comunicare e indirizzare le attività anche dal carcere. Il regime di 41 bis, del resto, venne inserito all’interno del nostro ordinamento penitenziario proprio negli anni in cui le stragi di mafia imperversavano e lo Stato correva ai ripari. La misura, ricordiamolo, nasce per impedire i collegamenti tra l’associazione criminale di appartenenza e il detenuto, ma in genere la sua applicazione comporta limitazioni, divieti e interdizioni che vanno ben oltre quella finalità, realizzando una carcerazione particolarmente afflittiva. Ma questo tipo di reclusione è imposta dal tipo di organizzazione criminale che si intende contrastare, in questo caso la FAI, e della quale si vogliono interrompere i rapporti con il detenuto? Va ricordato che tutte le sentenze finora hanno escluso la sussistenza di un modello di organizzazione verticistico e centralizzato, coordinato e gerarchico. I giudici del Tribunale di sorveglianza di Roma affermano il contrario: non solo, attribuiscono a Cospito un ruolo di comando tale da farne la “figura apicale” dell’associazione criminale. Per contro, sostengono i legali dell’anarchico, le sue comunicazioni all’esterno sarebbero state rivolte a esprimere il proprio pensiero politico e a contribuire a una elaborazione politica collettiva, non a trasmettere ordini e disposizioni agli “associati”. Cospito scriveva, rilasciava interviste, comunicava con l’esterno utilizzando canali legali, compresi quelli consentiti dal regime di Alta Sicurezza cui è stato a lungo sottoposto. Poi, lo scorso 5 dicembre, la Corte d’Assise di Torino, chiamata a pronunciarsi sulla rideterminazione della pena, ha accolto alcune eccezioni della difesa, inviando gli atti alla Corte costituzionale, in particolare a proposito del rapporto di proporzionalità tra entità del danno ed entità della pena. Cospito, contro l’applicazione del 41 bis, ha iniziato lo sciopero della fame più di 60 giorni fa e il suo corpo, ora molto più vulnerabile, ha perso circa 30 kg. L’avvocato Flavio Rossi Albertini ha riferito che il suo assistito è lucido, determinato, consapevole delle conseguenze della sua scelta, ma non intende arretrare. Ora, dopo l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Roma, resta solo il ricorso in Cassazione. Mai, come in questa vicenda, i tempi della giustizia rischiano di non coincidere con quelli di un corpo che deperisce per affermare il proprio diritto alla dignità. Il trojan finisce sotto inchiesta, il Senato apre indagine conoscitiva sulle intercettazioni di Paolo Comi Il Dubbio, 23 dicembre 2022 Il trojan, il terribile virus informatico che trasforma il cellulare in un microfono sempre acceso, è fuori controllo. I casi di abuso, dopo che nel 2019 l’ex ministro della Giustizia Bonafede (M5s) l’ha esteso anche ai reati contro la Pa, sono ormai all’ordine del giorno. Il Palamaragate, dove venne fatto ampio utilizzo di tale strumento da parte del Gico della Guardia di finanza su mandato della Procura di Perugia, è stato certamente uno dei più noti: funzionamento ‘a singhiozzo’, registrazioni audio sparite, programmazioni cancellate a posteriori. Per cercare di capire cosa accade nelle Procure, la Commissione giustizia del Senato procederà nelle prossime settimane con una ‘indagine conoscitiva’ sulle intercettazioni e, in particolare, quelle a mezzo trojan. Come annunciato dalla presidente della Commissione Giulia Bongiorno (Lega), l’attenzione si concentrerà sui “presupposti e le forme di autorizzazione”, “le fattispecie di reato interessate”, “i costi”, “l’autorità giudiziaria richiedente”, “il numero di indagati”, “il numero di proroghe” e “l’esito dei procedimenti”. Il senatore Pierantonio Zanettin (FI) ha già fatto sapere che nei primi giorni del prossimo anno verranno ascoltati a Palazzo Madama il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Giovanni Melillo e l’avvocato Luigi Panella, difensore del giudice ed ex parlamentare di Italia viva Cosimo Ferri, il primo a sollevare nel Palamaragate la questione del ‘malfunzionamento’ dei trojan. “Abbiamo chiesto di sentire anche i tecnici informatici che in varie inchieste hanno evidenziato le anomalie dell’uso, oltre ai tecnici della società Rcs, che ha inoculato il telefonino di Palamara”, ha dichiarato ieri Zanettin. E sempre ieri il vice presidente del Csm David Ermini ha risposto al ministro della Giustizia Carlo Nordio che aveva criticato in settimana la gestione dell’organo di autogoverno delle toghe. “Il ministro - ha affermato - non conosce il lavoro svolto per rinnovare il Csm”. Come esempio Ermini ha citato “le prassi virtuose” utilizzate per le nomine. Dimenticandosi, però, la valanga di ricorsi al giudice amministrativo contro tali decisioni. “Le indagini non sono segrete”: così Anm e Fnsi promuovono la gogna di Ermes Antonucci Il Foglio, 23 dicembre 2022 In un convegno le incredibili affermazioni di Santalucia, presidente del sindacato delle toghe, e di Lorusso, a capo del sindacato dei giornalisti. Lo sconcerto del viceministro della Giustizia Sisto: “Durante le indagini il segreto è la regola”. Le coincidenze a volte assumono un significato particolare. Così martedì sera, mentre veniva diffusa la notizia dell’apertura di un’indagine da parte della procura federale belga sulle ripetute fughe di notizie sul Qatar gate, a Bari si teneva un convegno promosso dall’Associazione nazionale magistrati, dedicato al rapporto tra giustizia e informazione. Interveniva il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia: “Il processo penale non è il luogo della segretezza e non lo sono neanche le indagini, che devono rimanere segrete solo in casi eccezionali. Il segreto è contrario alla democrazia”. Seguiva Raffaele Lorusso, segretario della Federazione nazionale della stampa: “Il dovere del giornalista è quello di pubblicare la notizia indipendentemente dal fatto che possa anche riguardare una fase delle indagini in cui la notizia deve restare segreta”. Affermazioni che risultano in contrasto non solo con il buon senso, ma anche con la legge. E’ il nostro codice di procedura penale, infatti, a tutelare il segreto durante le indagini (articolo 329) e a vietare la pubblicazione da parte dei giornalisti di atti coperti da segreto, anche solo nel loro contenuto (articolo 114). Per non parlare del principio di presunzione di innocenza previsto dalla Costituzione (articolo 27) e delle varie carte deontologiche. Si comprende dunque la meraviglia espressa dal viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, anche lui ospite del convegno e costretto a ricordare ai capi dei sindacati dei magistrati e dei giornalisti che nel nostro ordinamento “il segreto nella fase delle indagini è la regola, almeno finché gli atti non vengono portati a conoscenza dell’indagato”. Una scena emblematica del perché la gogna all’italiana resterà ancora per molto tempo un unicum nel mondo. Santalucia (Anm): “C’è un’aggressione a freddo contro lo strumento delle intercettazioni” di Valentina Stella Il Dubbio, 23 dicembre 2022 Da un lato il Ministro Carlo Nordio che tiene il punto sulle sue possibili riforme a partire da quella delle intercettazioni, dall’altra il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia che in questa intervista chiede invece che il Ministero sia vicino alla magistratura impegnata in grandi sforzi riformatori. “Il Ministro deve essere solidale con noi, non attaccarci ingiustamente e genericamente”. Il Ministro Nordio dice: basta porcherie con le intercettazioni, il caso Palamara insegna. Sono state pilotate nella pubblicazione... Il Ministro usa toni di una gravità significativa quando parla di porcherie e pilotaggio. Se questo è il quadro che delinea mi aspetterei delle iniziative importanti da parte sua, non parole. Io penso però che le cose non stiano così: non ho il fascicolo in mano ma ritengo di poter dire, con ragionevole affidamento, che le intercettazioni di quel fascicolo erano regolate dalla legge precedente alla Orlando. Non è poi vero che le intercettazioni non siano state depositate a favore della difesa e che non si sia proceduto alla loro trascrizione nelle forme della perizia in contraddittorio con la difesa. Il senatore Zanettin di Forza Italia ha presentato un disegno di legge per sopprimere l’uso del trojan per i reati contro la pubblica amministrazione... Sono scelte della Politica. Io però registro una attenzione particolare di questo Governo verso quel tipo di reati. Sembra quasi che il liberalismo penale si stia concentrando solo sul quel settore, quando invece dovrebbe riguardare anche altro. Alcuni suoi colleghi credono che stringi stringi il Governo alla fine voglia eliminare le intercettazioni per i reati di concussione e corruzione... Prima di esprimere un giudizio in tal senso, aspetterei di conoscere una proposta, formalizzata. Ora stiamo assistendo ad una aggressione allo strumento delle intercettazioni, che è avvenuta un po’ a freddo: la tutela dei diritti fondamentali è stato un grosso problema affrontato dalla XVII Legislatura a cui si è data una risposta. Adesso vi si ritorna senza che ci sia una vicenda che lo abbia potuto rinfocolare. Nordio si è scagliato anche contro l’obbligatorietà dell’azione penale, che si sarebbe trasformata in intollerabile discrezionalità... La riforma Cartabia non consente più di tenere nulla nei cassetti delle Procure: dopo la scadenza del termine di indagine, bisognerà fare il deposito obbligatorio. Le parti hanno il potere di mettere in mora il pm. Comunque, ad accuse così generalizzanti e ingenerose mi sento di non rispondere: vorrei misurarmi su proposte concrete. Di concreto però c’è che Nordio, dopo pur aver speso belle parole per Renoldi, lo ha sostituito al vertice del Dap. Non le sembra un atteggiamento incoerente? Quello che posso dire a livello personale è che stimo molto Carlo Renoldi. Da Presidente dell’Anm non aggiungo altro: sulla scelta dei singoli non mettiamo bocca. Ma quanto potrà operare Nordio con un partito come Fdi che potrebbe mettere un freno ai suoi desiderata? Non mi esprimo su questo. Lo faccio solo sui dati oggettivi: registro, ad esempio, che con un emendamento alla Legge di Bilancio il Governo vuole anticipare a febbraio l’entrata in vigore della riforma del processo civile. Questo comporta una riorganizzazione degli uffici, del lavoro dei magistrati che avevano programmato i mesi a venire contando su un altro termine: io mi rendo conto che ciò è dovuto alla necessità di rispettare il cronoprogramma del Pnrr; tuttavia, i magistrati stanno vivendo un periodo di forte impegno alle prese con diverse riforme importanti da attuare in tempi brevissimi. Io aspetto da questo Ministro grande attenzione nei confronti di chi si trova a gestire questo particolare frangente. Mi aspetto un Ministro che sia solidale con la magistratura, che ne sostenga gli sforzi, visto che pure i dati ministeriali dicono che l’arretrato sta diminuendo, con merito esclusivo dei magistrati perché ciò sta avvenendo a risorse scarse ancora invariate. Dinanzi a tale nostro impegno il Guardasigilli dovrebbe sostenerci e non accusarci genericamente. Abbiamo bisogno di un Ministero amico, che ci dia risorse e strutture. Da giurista le chiedo se condivide quello che spesso ripete Nordio circa il paradosso di un codice Rocco che non è stato alterato e quello Vassalli svuotato da interventi del legislatore e della Consulta... Credo che sia una semplificazione suggestiva che può anche essere utile ad una riflessione. Ma resta una suggestione. Il Codice Rocco è stato modificato nel tempo molte volte, non è più quello fascista, è stato costituzionalizzato attraverso vari interventi. Dopo di che un nuovo impianto sarebbe auspicabile. L’Anm ha scioperato a maggio contro la riforma Cartabia del Csm. Ma a guardare le linee programmatiche di Nordio forse la situazione è peggiore. Rimpiangete l’ex Guardasigilli? Non diamo giudizi sulle persone o sulle composizioni della maggioranza. Noi guardiamo ai fatti. Quando la Ministra Cartabia ha fatto scelte che non ci hanno persuaso, lo abbiamo detto e sottolineato con lo sciopero. Con il Ministro Nordio ci comporteremo esattamente allo stesso modo: per ora i suoi sono solo proclami. Ma se volesse realizzare seriamente quello che ha detto? Sarebbe un problema. Come funzionari dello Stato le prospettive del ministro non ci toccherebbero più di tanto, ma cambierebbero l’assetto di questa democrazia. Ultima domanda è sul carcere: 82 suicidi. Si tratta di una vera e propria emergenza. Che fare? Metterla tra le priorità dell’agenda politica. Oggi le priorità sono queste, a cui aggiungerei le morti bianche sul lavoro e i tanti modi in cui si manifesta la violenza nel web. Noi di questo abbiamo discusso al nostro Congresso. Poi siamo rimasti spiazzati dal fatto che invece la priorità è diventata quella delle intercettazioni. “Il trojan è un’arma incivile”: Nordio contro un altro totem dei forcaioli di Ermes Antonucci Il Foglio, 23 dicembre 2022 Il Guardasigilli vuole limitare l’uso dei captatori informatici: “Ok solo per reati di mafia e terrorismo”. Al Senato già pronto un ddl di Zanettin (FI): “Il trojan si è dimostrato un modo per invadere la privacy del cittadino”. “Il trojan deve essere tolto, è un’arma incivile. Può essere usato come era all’inizio, e cioè in casi eccezionali di gravissima pericolosità nazionale, come mafia e terrorismo, ma per il resto no”. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, continua a bombardare i totem dei giustizialisti. Intervenendo ieri a “L’aria che tira” su La7, il Guardasigilli ha confermato la volontà di contrastare la “porcheria” della fuoriuscita di intercettazioni penalmente irrilevanti nel corso delle indagini. Poi si è espresso in favore di una limitazione del ricorso da parte dei pubblici ministeri ai trojan, cioè i captatori informatici inoculati nei pc e nei dispositivi mobili (come smartphone e tablet) delle persone indagate che, una volta attivati da remoto, consentono di acquisire tutte le conversazioni, le immagini e i messaggi, e di registrare tutto ciò che accade nel giro di diversi metri. Un cavallo di troia, appunto, nella vita privata del cittadino, il cui impiego era stato inizialmente previsto solo per i reati di mafia e terrorismo. Nel 2019, la legge Spazzacorrotti voluta dal Guardasigilli M5s Alfonso Bonafede ha esteso l’ambito di utilizzo del trojan anche ai reati contro la Pubblica amministrazione con pene massime non inferiori a cinque anni. Dopo la sbornia del populismo grillino, ora il ministro Nordio intende restringere l’ambito di applicazione di uno strumento così invasivo per la privacy delle persone. Un endorsement indiretto al disegno di legge depositato a Palazzo Madama dal senatore di Forza Italia, Pierantonio Zanettin. “Il trojan è lo strumento che più vìola la sfera di intimità dell’intercettato, con l’evidente rischio di una diversa destinazione d’uso atto a violare la privacy degli individui”, si legge nella relazione al ddl. “Il trojan nella pratica si è dimostrato un modo per invadere la privacy del cittadino, portando a una chiara deviazione del fine che almeno astrattamente si prefigge”, spiega Zanettin al Foglio. “In diversi casi - prosegue - il trojan è stato usato sulla base di ipotesi di corruzione, poi la corruzione non è stata rintracciata e le intercettazioni che erano state ottenute sono state usate o per contestare altre fattispecie penali, o per motivi disciplinari o, nonostante fossero del tutto irrilevanti, per penalizzare alcuni magistrati nelle valutazioni di professionalità”. Il riferimento di Zanettin è allo scandalo Palamara, nato appunto dall’utilizzo di un trojan. Le intercettazioni raccolte furono pubblicate sui giornali prima della fine delle indagini, determinando le dimissioni di ben sei consiglieri del Csm. In seguito sono emersi sospetti sul corretto uso del trojan in questione, che sarebbe stato oggetto di anomali spegnimenti e accensioni (sulla vicenda sono state aperte due indagini, a Napoli e a Firenze, delle quali però poi non si sono più avute notizie). Alla vicenda si è riferito lo stesso Nordio, illustrando in Senato le sue linee programmatiche: “Credete che tutte le intercettazioni del trojan di Palamara siano state trascritte nella forma della perizia? Sono state selezionate, pilotate e diffuse secondo gli interessi di chi le diffondeva, e non sono ancora tutte state rese pubbliche”. Intanto, dopo aver letto l’articolo del Foglio di ieri, in cui venivano riportate le dichiarazioni del presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, e del segretario della Federazione Nazionale della stampa, Raffaele Lorusso (“Le indagini non sono segrete”, “il giornalista deve pubblicare le notizie anche se sono segrete”), il senatore di Italia viva, Ivan Scalfarotto, ha deciso di predisporre un’interrogazione rivolta proprio a Nordio: “Affermare che le indagini non debbano rimanere segrete e che le notizie, anche se coperte da segreto, debbano essere comunque pubblicate non è solo contrario ai principi che ispirano la nostra Carta Costituzionale ma anche al codice di procedura penale”, ha affermato in una nota Scalfarotto, membro della commissione Giustizia a Palazzo Madama. “La pesantezza e la gravità di queste dichiarazioni meritano un approfondimento e una presa di posizione da parte del ministro della Giustizia. Qui si parla di diritti basilari del cittadino: la presunzione di innocenza e la protezione dall’arbitrio dell’autorità statuale rappresentano l’essenza stessa dello stato liberale, non possiamo certamente pensare di tornare indietro”. Nordio non conosce nemmeno le leggi che vuole smantellare di Emiliano Fittipaldi Il Domani, 23 dicembre 2022 Nordio due giorni fa, in una bizzarra audizione alla commissione al Senato, ha protestato di nuovo contro l’uso osceno che viene fatto delle captazioni in Italia. Nordio, come un novello Orsini, non sembra conoscere bene la materia di cui discetta: come spiega il decreto legge del 30 aprile 2020 e il codice penale, l’entrata in vigore della legge Orlando si applica “ai procedimenti penali iscritti successivamente successive al 31 agosto 2020”. Peccato che le investigazioni su Palamara siano del lontano maggio 2019, e che la gestione delle intercettazioni sia stata dunque regolata dalla normativa precedente. Qualche giorno fa il giornalista Antonio Talia ha inchiodato Alessandro Orsini alla sua ennesima gaffe, evidenziando come l’ospite preferito di Bianca Berlinguer avesse citato un inesistente giornalista del New York Times, tal William J. Ampio, in un video in cui discettava della guerra tra Russia e Ucraina. Il commentatore aveva infatti usato il traduttore automatico, che ha modificato il cognome originale del reporter (Broad) nell’italianissimo “Ampio”. “Se Orsini non ha gli strumenti cognitivi per capire l’errore nella traduzione automatica di un articolo” s’interrogava Talia “come potrà riuscire a decifrare e poi spiegare il contenuto dell’articolo stesso?” Ora, identico dubbio si pone per il nuovo ministro della Giustizia Carlo Nordio, noto soprattutto per la ferrea volontà di mettere mano alla riforma delle intercettazioni. L’ex magistrato 75enne, voluto sulla poltrona di Via Arenula da Giorgia Meloni in persona, prima ha scritto il demenziale decreto legge sui rave. Poi due giorni fa, in una bizzarra audizione alla commissione al Senato, ha protestato di nuovo contro l’uso osceno che viene fatto delle captazioni in Italia. Attaccando la normativa vigente e facendo, finalmente, un esempio concreto: “La porcheria è continuata anche dopo la legge Orlando. Basta vedere l’inchiesta sul sistema Palamara. Cosa è uscito su cose che non avevano a che fare sulle indagini e, aggiungo, cosa non è uscito. Sono state selezionate, pilotate, diffuse secondo gli interessi di chi le diffondeva”. Nordio, come un novello Orsini, non sembra conoscere bene la materia di cui discetta: come spiega il decreto legge del 30 aprile 2020 e il codice penale, l’entrata in vigore della legge Orlando si applica “ai procedimenti penali iscritti successivamente successive al 31 agosto 2020”. Peccato che le investigazioni su Palamara siano del lontano maggio 2019, e che la gestione delle intercettazioni sia stata dunque regolata dalla normativa precedente. Ormai superata. Se abusi ci sono stati, dunque, non riguardano mancanze o vulnus del decreto Orlando. Che sembra invece aver funzionato abbastanza bene: tutto è perfettibile, ma è un fatto che negli ultimi due anni le violazioni della privacy si sono fortunatamente ridotte ai minimi. L’intemerata di Nordio ha ricevuto subito gli applausi di Palamara, of course, e di Forza Italia, da sempre fautore dell’impunità massima per corrotti e corruttori. L’anno prossimo il ministro dovrebbe proporre l’ennesima riforma-bavaglio. Si spera che prima di presentarla studi meglio le norme esistenti, evitando scivoloni che sembrano suggerire, piuttosto che un impeto riformista mosso da un sincero garantismo, un furore ideologico e pericoloso per la già disastrata giustizia italiana. Alla presidente Meloni dico: ogni mortificazione dei testimoni di giustizia offende la Repubblica di Davide Mattiello Il Fatto Quotidiano, 23 dicembre 2022 Ma la presidente Giorgia Meloni lo sa? Lo sa che troppi cittadini onesti che hanno deciso di denunciare il crimine, affidandosi allo Stato, sono in grave sofferenza, al punto da maledire il giorno in cui anziché accettare un disonorevole compromesso con la mafia o girarsi dall’altra parte hanno imboccato la strada di una Procura? Me lo chiedo perché, al netto di ogni altra considerazione sulle posizioni politiche che la presidente Meloni rappresenta, troverei davvero curioso che, avendo condito la sua ascesa politica con dosi massicce di patriottismo e di richiami all’antimafia degli eroi civili, fosse indifferente a questo grido di dolore. Forse la mia è l’ennesima, ingenua, concessione alla fiducia nelle persone, alla convinzione cioè che per quanto possano essere distanti le posizioni politiche su innumerevoli questioni, ci si possa infine ritrovare su quelle materie che hanno a che fare proprio con la credibilità delle Istituzioni e sulla loro capacità di proteggere i cittadini che preferiscono la legalità al “puzzo del compromesso morale”. Forse le riforme annunciate dal ministro Nordio in materia di indagini e codice penale, la “riforma” del Codice degli Appalti già approvata in Consiglio dei ministri, la “pace fiscale”, l’innalzamento al tetto del contante utilizzabile, il tira e molla sull’utilizzo del pos voluto in Legge di Bilancio dovrebbero farmi desistere, eppure quantomeno la decisione tempestiva e opportuna di riprendere per decreto la riforma dell’ergastolo ostativo già approvata dalla Camera sul finire della scorsa Legislatura, evitando un intervento più tranciante da parte della Corte Costituzionale, mi induce a continuare questa sorta di appello alla presidente Meloni. Allora riprendo il filo del discorso: ci sono cittadini, diventati testimoni fondamentali per l’accusa in processi contro la ‘ndrangheta, impelagati in liti giudiziarie con lo Stato che durano da dieci anni e che paiono contraddire la legge e pure il buonsenso. Liti talmente lunghe e costose da essere sopportabili soltanto da chi sia di suo benestante, come se la pretesa di giustizia potesse avere a che fare con il portafoglio. Conosco testimoni che ormai, anche pubblicamente, ammettono che se avessero accettato di scendere a patti con la mafia avrebbero avuto maggiori certezze sul proprio futuro. Altri testimoni, sottoposti a speciali misure di protezione o a speciale programma, in lite con il Servizio Centrale di Protezione e con la Commissione Centrale (l’organismo incardinato al ministero dell’Interno che governa i destini di testimoni di giustizia e collaboratori e che di solito è presieduto da un sottosegretario o da un viceministro dell’Interno) per avere il rimborso di spese mediche sostenute o per accedere ad un lavoro che realizzi quel dovere legale che lo Stato ha di reintegrare i testimoni in uno stile di vita coerente con quello che era loro proprio prima che decidessero di denunciare e comunque dignitoso. Altri che sono in sciopero della fame, altri ancora che attendono da troppo tempo di essere ricevuti dalla Commissione Centrale (che ha l’obbligo di convocarli, quando ne facciano richiesta). Altri ancora che si vedono recapitare a casa la notifica della revoca della protezione destinata per anni a tutto il nucleo famigliare, senza che lo Stato si assuma la responsabilità (liberatoria!) di mettere nero su bianco l’avvenuta cessazione di ogni pericolo per la famiglia protetta, che anzi viene invitata a provare il contrario. In alcuni momenti, da certe risposte ricevute, è parso che la prevalente logica ordinativa di tutta la materia da parte delle Istituzioni coinvolte fosse risparmiare, tagliando i costi del servizio. Parafrasando lo slogan di una Ong che si occupa di adozioni a distanza, direi alla presidente Meloni: non chiederti quanto costa, ma quanto vale. Quanto vale per la Repubblica una scelta come quella che fanno i Testimoni? I testimoni, che siano o meno inseriti nelle speciali misure o nel programma speciale di protezione, sono cittadini perbene che hanno subìto o hanno visto commettere un reato e che decidono di denunciare, a differenza di quell’altra categoria, altrettanto importante, ma con la quale i testimoni non andrebbero mai confusi che sono i collaboratori di giustizia, e cioè delinquenti patentati che ad un certo punto decidono di “barattare” con lo Stato informazioni contro migliori condizioni detentive ed economiche. Detto altrimenti, quanto offende la Repubblica, quanto la allontana dai cittadini, ogni mortificazione subita dai Testimoni? E, lo preciso sempre, se ci fosse qualche testimone in malafede, che cercasse di approfittare dello Stato, nessuna indulgenza! Li si denunci nelle sedi opportune: fui proprio io, da estensore prima e poi da relatore alla Camera della proposta di legge di riforma del sistema di protezione, a volere pene più severe per chi avesse fatto il furbo. La proposta venne approvata all’unanimità dal Parlamento italiano ed è legge dal gennaio 2018. Presidente Meloni, insomma, trovi il tempo di verificare di persona come stiano andando le cose, troverà al Viminale chi se ne occupa, in quota Lega, fin dalla passata legislatura: l’onorevole Nicola Molteni. *Attivista antimafia ed ex deputato Da Pinelli ad Hasib, cinquant’anni di omertà di Luigi Manconi La Stampa, 23 dicembre 2022 Solo la pressione mediatica ha spinto il collega dell’agente a ritrattare: serve una campagna di formazione ai valori della Costituzione. Dico subito che all’assistente capo di polizia Andrea Pellegrini vanno assicurate tutte le garanzie e le tutele che possano consentirgli di difendersi dalle pesantissime accuse elevate nei suoi confronti dalla procura della Repubblica di Roma. Secondo quest’ultima, Pellegrini avrebbe sottoposto Hasib Omerovic, l’uomo precipitato dalla propria abitazione nel quartiere Primavalle di Roma, a violenze e vessazioni: lo avrebbe colpito con “due schiaffi nella zona compresa tra il collo e il viso”, obbligandolo a “sedersi su una sedia” per poi legargli “i polsi con il filo del ventilatore”; quindi gli avrebbe “brandito contro un coltello da cucina, urlando: se lo rifai, te lo ficco nel culo” e lo avrebbe colpito “nuovamente con uno schiaffo “, continuando a minacciarlo. A seguito di ciò, l’uomo avrebbe subito “un verificabile trauma psichico”, che lo avrebbe indotto a scavalcare “il davanzale della finestra della stanza da letto nel tentativo di darsi alla fuga per sottrarsi alle condotte violente in atto nei suoi confronti”. Dal 25 luglio, Omerovic è ricoverato presso l’ospedale policlinico Gemelli e, dopo aver subito numerosi interventi chirurgici, si trova nel reparto di neuroriabilitazione. Contro Pellegrini è stato emesso un provvedimento di custodia cautelare ai domiciliari con l’accusa di tortura e di falso ideologico. Per quest’ultimo reato altri tre colleghi sono stati raggiunti da avvisi di garanzia. La vicenda è monotonamente e cupamente ripetitiva. La vittima, questa volta, non è un tossicodipendente e nemmeno un piccolo criminale e, tuttavia, presenta due tratti distintivi che ne fanno un bersaglio particolarmente facile e, allo stesso tempo, odioso agli occhi di una parte dell’opinione pubblica: Hasib Omerovic appartiene alla comunità dei rom bosniaci ed è sordomuto. E le violenze si sono verificate in presenza della giovane sorella, affetta da deficit cognitivo. Uno scenario dove la debolezza di protezione sociale e la difficoltà di integrazione rendono più agevole, e sembrano arrivare a giustificare, l’esercizio dell’abuso e dell’arbitrio da parte di uomini appartenenti agli apparati dello Stato. In questo caso, lo stigma risulta particolarmente intenso, perché nella gerarchia delle ostilità diffuse, da anni ormai, i rom rappresentano il massimo di “nemicità”. Tanto più quando la persona in questione viene considerata - e additata nelle comunicazioni delle reti social - come un “molestatore”. Dunque, se le cose fossero andate secondo quanto sostiene la procura, l’agente - come in un film poliziottesco degli Anni 70 - si sarebbe fatto giustizia da sé, anticipando la pulsione vendicativa che cominciava a covare tra gruppi di abitanti del quartiere. Ma cosa emerge, più in generale, da questa ennesima vicenda di illegalità di Stato? Proprio il fatto che a denunciare le torture sia stato un collega, l’agente Fabrizio Ferrari, dimostra come i comportamenti violenti siano diffusi ma non generalizzati. E, tuttavia, mai adeguatamente contrastati. Non certo casualmente, altri poliziotti e lo stesso Ferrari hanno sottoscritto una ricostruzione dell’accaduto priva di fondamento. Da qui l’accusa di falso ideologico. Come tutti gli apparati delegati all’esercizio della forza, lo spirito di corpo è componente essenziale e vincolo assai saldo dei rapporti interni. Tanto più, dunque, va apprezzata la scelta dell’agente Ferrari, che ha trovato la forza per rompere la relazione di connivenza. Ma quest’ultima e la conseguente omertà valgono non solo nell’ambito del piccolo gruppo di agenti che entrarono nell’abitazione di Omerovic. Vale, purtroppo e troppo spesso, lungo la catena gerarchica, che va dai livelli inferiori fino talvolta a quelli apicali. Nel processo per la morte di Stefano Cucchi, ma già in quello per la fine di Giuseppe Pinelli (15 dicembre 1969) e in mille altre circostanze lungo questo mezzo secolo di storia, la rete dei silenzi, delle complicità, delle omissioni, ha tentato con implacabile pertinacia di occultare o mistificare la verità. Lungo questo stesso mezzo secolo, quante volte i responsabili dei corpi di polizia hanno trovato le parole giuste per condannare quei comportamenti dichiarandone, senza mezzi termini, l’illegalità? Tutte le parole di autocrifica, di fronte a esiti processuali che hanno certificato le responsabilità penali di poliziotti e carabinieri, sono giunte drammaticamente postume. Mai hanno avuto la capacità di prevenire un abuso, lanciare un allarme, segnalare una tendenza pericolosa. Le frasi, certo forti, dell’ex capo della polizia Franco Gabrielli a proposito della “catastrofe” che fu la gestione dei fatti del G8 di Genova del 2001, arrivano solo 16 anni dopo. E le scuse del comandante generale dell’Arma dei carabinieri Tullio Del Sette si possono ascoltare solo dopo anni di indifferenza e di inerzia che hanno gravemente ritardato l’acquisizione della verità sulla morte di Stefano Cucchi. Cosa aspettano ancora i massimi responsabili dei corpi di polizia per lanciare, finalmente, una grande campagna di formazione che sia in grado di educare ai valori della Costituzione? E che affermi solennemente che l’incolumità di chi si trovi nella custodia dello Stato rappresenta, per lo Stato stesso, le sue istituzioni e i suoi uomini, il bene più prezioso e il principio fondativo dello Stato di diritto? È questa, a ben vedere, la ragione più profonda che motiva l’introduzione, pur così tardiva, del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico. In proposito, nel 2018, Giorgia Meloni, in un tweet poi rimosso, aveva scritto di voler abrogare il reato di tortura perché “impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro”. Nel caso della tragedia di Primavalle, e fino a prova contraria, si è trattato davvero di un “lavoro sporco”. Caso Omerovic, un agente rompe il muro di omertà di Eleonora Martini Il Manifesto, 23 dicembre 2022 “Il muro di omertà che pareva esserci dentro la polizia sembra ora essersi rotto”. Tira un sospiro di sollievo, Carlo Stasolla, portavoce dell’associazione 21 Luglio che fin da subito ha scortato la famiglia di Hasib Omerovic e l’ha sostenuta nella difficile battaglia per ottenere la verità su quanto avvenuto quel 25 luglio nel loro appartamento di Primavalle, in via Gerolamo Aleandri. La sorella di Hasib, Sonita, l’unica testimone oculare, ancora non è stata ascoltata dalla procura di Roma perché la fragilità della ragazza, affetta da un ritardo cognitivo, richiede un incidente probatorio, con tanto di psicologo e interprete dal romanè. E anche lo stesso Hasib non è ancora in grado di affrontare il ricordo di quelle ore, malgrado sia uscito dal coma, abbia ricominciato a respirare autonomamente, riesca a masticare e abbia perfino compiuto i primi passi. È accudito con amore e carezze ma i gesti con i quali si esprime indicano solo bisogni momentanei. Ma a rompere il muro di omertà è stato Fabrizio Ferrari, uno dei quattro poliziotti che si sono intromessi quel giorno nell’appartamento senza mandato (ma su incarico conferito dalla dott.ssa Buia, commissario capo di Primavalle, secondo lo stesso Gip). La sua testimonianza è però anche “corredata da una robusta piattaforma indiziaria”, scrive il giudice Ezio Damizia che ha disposto gli arresti domiciliari per l’agente cinquantenne Andrea Pellegrini, accusato di aver torturato il giovane rom sordomuto e di aver poi testimoniato il falso. E ha disposto “misure interdittive” per gli altri due agenti presenti quel giorno nell’appartamento, il 28enne Alessandro Sicuranza e la 21enne Maria Rosa Natale (per i quali il giudice si riserva di intervenire successivamente con un’ulteriore ordinanza). Sono 4 gli altri agenti indagati, a vario titolo, per falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atti pubblici e depistaggio. Dalle carte emergerebbe che l’agente Pellegrini - che gli inquirenti definiscono dal passato “turbolento”, con un fascicolo personale connotato da “numerose sanzioni” inflitte nel corso degli anni “sin dal momento in cui svolgeva il corso alla Scuola Allievi di Alessandria” - avrebbe torturato Hasib legandogli i polsi con un filo elettrico strappato da un ventilatore, colpendolo al volto e minacciandolo con un coltello (“se lo rifai te lo ficco nel culo”, avrebbe urlato Pellegrini secondo la testimonianza di Ferrari). Sarebbe stato un modo per punire Omerovic e indurlo a non commettere più le presunte molestie verbali che avrebbe commesso nei confronti di alcune ragazze, episodi denunciati solo attraverso alcuni post pubblicati su Facebook da abitanti del quartiere. In particolare nell’ordinanza si fa riferimento ad alcune foto scattate dallo stesso Pellegrini e mostrate come “prova” dell’incolumità di Hasib durante la loro spedizione anche ai genitori del ragazzo quando, il giorno dopo, si recarono al commissariato di Primavalle per chiedere spiegazioni sull’accaduto. Foto, del giovane sordomuto seduto su un sedia nella sua camera da letto, che l’agente avrebbe inviato via WhatsApp anche alla commissaria Buia che gli aveva conferito l’incarico di individuare l’uomo segnalato su Fb. Dall’esame di quelle fotografie, gli inquirenti hanno potuto verificare l’esistenza di segni rossi sui polsi di Hasib, compatibili con la tortura testimoniata del poliziotto pentito. Nell’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Michele Prestipino e dal pm Stefano Luciani si riportano anche le parole del poliziotto pentito che ricorda di come Pellegrini “si era persino vantato con il collega di aver “malmenato un pedofilo in occasione di un arresto”. Ferrari “ha riferito di essersi sentito “intimorito” dal Pellegrini “conoscendolo come un soggetto del quale non sono prevedibili i comportamenti e le reazioni”. Tornando alla scena del crimine, in quei minuti drammatici, mentre venivano scattate le foto, presumibilmente, Hasib Omerovic sarebbe riuscito a sottrarsi al suo aguzzino e, secondo quanto riportato da Ferrari, tirata su la serranda della camera da letto (bloccata da mesi), avrebbe tentato di fuggire dalla finestra; avrebbe esitato ma poi sarebbe scivolato giù. Ma la versione non combacia con quanto riferito da Sonita che ha detto di essere entrata nella camera da letto, attratta dalle urla di suo fratello, e di aver visto un poliziotto che teneva Hasib per i piedi fuori dalla finestra. Sul caso, le indagini sono state effettuate dalla Squadra mobile. Come si legge nell’ordinanza, un suo dirigente, l’ispettore Centamori, sarebbe stato contattato dall’ispettrice Roberta Passalia, del commissariato di Primavalle, che gli avrebbe raccomandato di svolgere “bene bene le indagini perché le cose non stanno come hanno scritto gli operanti”. Viceversa però, Centamori (non indagato) avrebbe consigliato alla dirigente di P.S. di “redigere una relazione di servizio “per pararsi il culo dall’onda di merda” che quando “arriva sommerge tutti”“. Il capo della Polizia, Lamberto Giannini, ha espresso ieri “rammarico” per quanto accaduto e “vicinanza alla famiglia”, ma anche “serenità e orgoglio per aver fatto quello che bisognava fare, per esserci messi a disposizione della procura in indagini affidate alla Squadra mobile che ha ricostruito il quadro che ha portato al provvedimento”. Abbreviato, attenuante del risarcimento solo col pagamento integrale prima dell’ammissione al rito di Paola Rossi Il Sole 24 ore, 23 dicembre 2022 La stipula di una transazione con la parte offesa non rileva senza adempimento integrale ai fini del riconoscimento della diminuente. Non basta la stipula di una transazione tra imputato e vittima del reato perché scatti l’attenuante comune prevista all’articolo 62, n. 6, del Codice penale. Il presupposto dell’attenuante è che il pagamento del risarcimento sia avvenuto in maniera integrale e “prima del giudizio”. E in tutti i casi di rito abbreviato il limite temporale- entro cui l’adempimento corretto può dirsi eseguito prima del giudizio - è la pronuncia dell’ordinanza di ammissione al rito non ordinario. Esattamente il pagamento deve precedere tale pronuncia affinché il risarcimento integrale faccia scattare la diminuente per il riconoscimento dell’attenuante. La Cassazione con la sentenza n. 48371/2022 ha chiarito che è quindi fuori termine il risarcimento operato prima dell’udienza di discussione. Come è irrilevante ai fini dell’attenuante il parziale ristoro che preceda l’udienza di prima comparizione davanti al giudice. In tali casi in realtà il giudizio può dirsi già iniziato: non coincide perciò con la prescrizione normativa che parla di “prima del giudizio”. Secondo la Cassazione ammettendo come attenuante anche il comportamento “pienamente risarcitorio” - considerato dalla legge penale quale segno di ravvedimento spontaneo - fino al momento della discussione che precede la decisione si finisce per dare libero arbitrio all’imputato di occuparsi della propria sorte processuale e non di ravvedersi sinceramente: potendosi regolare in base all’andamento del processo fino a un dato momento su quale scelta compiere. Nel caso concreto il ricorrente aveva concluso una formale transazione con la parte offesa stabilendo una riparazione pari a 35mila euro di cui però ne aveva versati solo 20mila prima del giudizio e i restanti 15mila solo prima dell’udienza di discussione. Tale parziale inadempimento e il suo completamento fuori termine hanno determinato il rigetto del ricorso e la conferma del mancato riconoscimento dell’attenuante. Rinchiusi e dimenticati nel reparto “minorati fisici” Il Riformista, 23 dicembre 2022 I detenuti del reparto “Minorati fisici” del carcere di Parma scrivono al Tribunale di Sorveglianza di Reggio Emilia, al Ministro della Giustizia e al Garante Nazionale delle persone private della libertà. “È da un reparto dove sono ufficialmente ristretti minorati fisici portatori di gravi patologie, molti dei quali in età ben avanzata, che vi giunge questo appello per un trattamento umano, adeguato all’attenzione medica, della quale dovrebbe farsi specialmente carico questo Istituto, oltre a garantire un trattamento dignitoso e di reinserimento come prevede l’Ordinamento Penitenziario. Con riferimento all’attenzione medica, ribadiamo le speciali necessità che questo reparto richiede ed è perciò che denunciamo la grave mancanza di assistenza specialmente nelle urgenze. Le cosiddette “terapie salvavita” sono specialmente concentrate proprio in questo reparto, ciò nonostante e anche in casi gravi, è cosa corrente che un detenuto colpito da una crisi acuta resti per ore se non per giorni disatteso. Specialmente dopo gli orari di chiusura delle celle, quando la sorveglianza è minima se non del tutto assente anche per diverse ore di seguito, in quanto le celle sono sprovviste di campanelli per allertare la sorveglianza. Proprio questi detenuti che dovrebbero essere seguiti con maggior cautela, vivono in condizioni igieniche pietose: l’acqua calda è una scommessa contro un impianto superato ed insufficiente al quale da decenni si applicano inutili quanto peggiorativi rattoppi; il riscaldamento è inesistente, tranne in quei reparti o corridoi esclusi alla permanenza dei detenuti minorati fisici; dalle finestre, anch’esse mai rimpiazzate o perlomeno inadeguatamente isolate, entrano spifferi d’aria gelata tanto da rimanere infagottati giorno e notte; l’umidità la fa da padrone, muri e soffitto gonfi sotto la solita quanto iniqua mano di pittura. Per aggravare il tutto, da qualche tempo questo reparto è stato trasferito integralmente in una sezione, se possibile, ancor più fatiscente con il risultato che la quasi totalità dei detenuti è attualmente affetta da disturbi respiratori. Vogliamo anche sottoporre alle autorità competenti altre inadempienze, concernenti le limitazioni ai diritti sanciti per la protezione della popolazione carceraria. Il campo sportivo, che pure è un diritto ormai acquisito nel sistema penitenziario, qui, è fuori uso e, pur disastrato, quando funzionava la frequenza di accesso per detenuti era tanto ridotta da potere addirittura commemorarne le volte in cui si andava. L’area dei colloqui dovrebbe offrire uno spazio per ricevere bambini, ma fin qui non ci è stata mai proposta questa possibilità, nemmeno dietro precisa richiesta. La palestra, che dovrebbe servire almeno cinque sezioni, si riduce a uno spazio le cui dimensioni corrispondono esattamente a quelle di due celle alle quali è stato demolito il muro di separazione; gli attrezzi, non potrebbe essere altrimenti, sono ridicolmente insufficienti oltre che degradati. Di fatto è impossibile accedere alla biblioteca, tra l’altro minuscola: dopo un minuto o due per scegliere un libro, a distanza di guardia, si viene letteralmente messi alla porta. L’area trattamentale mostra tutta la sua inefficacia quando a ogni richiesta di un seppur minimo beneficio a questo ufficio di sorveglianza la risposta tipica è: “… perché ad oggi il programma di trattamento prevede unicamente attività intramurarie, in attesa del completamento dell’osservazione personologica preso l’Istituto di Parma”. Si fa osservare che questa è la risposta data anche a detenuti qui ristretti da oltre dieci anni, ciò indicherebbe forte inadempienza da parte del personale addetto all’osservazione e/o sintesi. In questo senso, le domandine inoltrate per conferire con questo personale specializzato restano puntualmente lettera morta. Il diritto di telefonare al difensore, ma adesso anche alla propria famiglia, dovrebbe essere libero e illimitato. A Parma si ha diritto a tre telefonate alla settimana a ore e giorni stabiliti. Ossia, se c’è un’urgenza, sia familiare che di ordine giudiziario, bisognerà per forza rispettare il calendario mensilmente imposto dalla Direzione. Si fa inoltre notare che il prezzo di una chiamata a un cellulare, oggi le più frequenti, può costare fin a due euro o comunque non meno di 1,80. Prezzi esorbitanti, improponibili all’esterno da qualsiasi azienda telefonica. Un costo che rappresenta un impedimento di fatto nei contatti con la famiglia per quei detenuti che non possono permettersi simili spese. I detenuti del reparto “Minorati fisici” del carcere di Parma si chiedono quali sarebbero queste speciali attenzioni che dovrebbero ricevere ma che non sono mai state all’ordine del giorno in questo Istituto, il quale sembra fare della restrizione di diritti previsti dall’Ordinamento Penitenziario una bandiera a parte. Per queste ragioni, chiediamo l’immediato intervento delle autorità competenti affinché sia ristabilito un trattamento dignitoso nella persona del detenuto e nel rispetto delle norme di diritto previste in legge. Calabria. Dossier del Garante sulle carenze nelle carceri: “Serve un cambio di passo” quicosenza.it, 23 dicembre 2022 “Guardiamo al nuovo anno con speranza” ha detto il garante Luca Muglia dopo aver visitato gli istituti penitenziari di Paola, Vibo Valentia e Palmi. Nell’ambito delle visite istituzionali, il Garante regionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale, Luca Muglia, si è recato nei giorni scorsi presso gli istituti penitenziari di Paola, Vibo Valentia e Palmi. Di indubbio valenza la sezione a custodia attenuata della Casa circondariale di Paola, modello di riferimento certamente utile nell’ottica del regime “aperto” cui dovrebbero tendere le strutture detentive, specie quelle di dimensioni ridotte. In precedenza, il Garante aveva visitato le due Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) presenti sul territorio regionale a Santa Sofia d’Epiro e Girifalco, nonché la Comunità Ministeriale per Minori di Reggio Calabria. Per quanto riguarda la sanità penitenziaria, il Garante ha avuto di recente un incontro con i referenti del tavolo tecnico del Dipartimento della Salute della Regione Calabria, ai quali ha rappresentato le gravi criticità riscontrate a seguito degli accessi effettuati nelle carceri calabresi. Dopo l’incontro, Muglia ha inoltrato ai dirigenti del Dipartimento una nota in cui vengono illustrate le carenze e i disservizi. A breve seguirà, inoltre, un articolato dossier che racchiude le informazioni acquisite dall’Ufficio del Garante in ragione dell’interlocuzione con i direttori e con le aree sanitarie degli istituti di pena. Alla vigilia delle festività natalizie, il Garante ha poi partecipato con un gruppo di detenuti di media sicurezza all’iniziativa “L’ALTra cucina…per un pranzo d’amore” di Prison Fellowship Italia che si è tenuta presso la Casa circondariale di Palmi e, contestualmente, in altre 20 carceri tra cui Vibo Valentia. Il progetto, a cura di Prison Fellowship in collaborazione con il Ministero della Giustizia, ha portato nelle strutture penitenziarie i migliori chef italiani che hanno cucinato per la popolazione detenuta, con l’ausilio di 600 volontari, alla presenza di personaggi dello spettacolo. All’iniziativa di Palmi hanno aderito lo chef “stella Michelin” Nino Rossi ed il pasticciere Rocco Scutellà, le cui qualità, arte e creatività sono state apprezzate da tutti i presenti. Il Garante Muglia, infine, nel mese di dicembre è stato chiamato a partecipare ad un importante evento nazionale sulla riforma Cartabia presso l’auditorium del Consiglio Regionale della Campania, organizzato dal Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello, e dalla Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, cui hanno preso parte professori universitari, magistrati, avvocati, garanti italiani ed esponenti del terzo settore. Muglia, nel presiedere e moderare una tavola rotonda, ha fatto cenno alle diverse “situazioni che rischiano di aggravare la condizione di vulnerabilità che affligge la maggior parte delle persone detenute”. Il Garante ha lanciato anche un messaggio di speranza, evidenziando come la Rems di Girifalco rappresenti una “struttura sanitaria di eccellenza nel panorama europeo”. In conclusione “non solo ombre, ma anche qualche piccola fiammella di luce. Guardiamo al nuovo anno con speranza, consapevoli tuttavia che i diritti delle persone detenute richiedono un cambio di passo”, ha aggiunto il Garante calabrese. Liguria. Il nuovo Garante: “Natale giorno più duro per i detenuti” di Tiziana Oberti primocanale.it, 23 dicembre 2022 Doriano Saracino è il nuovo Garante regionale dei detenuti: “Salute e formazione per lavorare sul reinserimento”. “Il carcere si deve svuotare di persone ma riempirsi di opportunità di lavoro, sportive, di formazione, per facilitare il reinserimento dei detenuti una volta che la pena sarà scontata”: sono le parole del neo garante garante regionale dei detenuti Doriano Saracino, nominato in Regione solo due giorni fa.  Non è stato un periodo semplice e la situazione delle carceri è da ripensare, dice Saracino a Primocanale: “Alle difficoltà della detenzione si sono sommate quelle legate alla pandemia, ingressi contingentati, perdita di contatto con i figli... Lentamente si sta tornando alla normalità. Abbiamo persone che hanno un legame molto debole e fragile con le loro famiglie e che vanno quindi aiutate e potenziate. L’amministrazione penitenziaria consente ora le videochiamate in maniera più massiccia e questo ha consentito alle persone di ristabilire contatti”. E poi arriva il Natale, il momento più duro dell’anno per chi è in carcere. “Il momento delle feste è difficile e complicato. Le cose più tristi le ho viste nei giorni festivi, quando non ci sono attività e le persone sono chiuse nelle loro celle con gli scuri abbassati e le porte chiuse e passano le loro giornate ferme a letto”, commenta Saracino. Persistono poi i problemi strutturali: “Alcune carceri hanno il problema del sovraffollamento, occorre ripensare ai circuiti penitenziari. Pontedecimo, unico con sezione femminile, ha nello stesso istituto le donne e i detenuti con reati a sfondo sessuale e questo rende impossibile una serie di attività”. Chiude Saracino: “Come garante regionale ho il compito di stimolare la regione sui propri impegni: salute, formazione professionale in carcere, che non solo riempiono la giornata ma anche per consentire che la pena abbia un senso”. Lanciano (Ch). Suicida in carcere a Lanciano, arrestato lunedì per aver ucciso la compagna Il Dubbio, 23 dicembre 2022 Si è suicidato in carcere a Lanciano (Ch) l’uomo di 39 anni che nei giorni scorsi ha ucciso a Miglianico (Ch) la compagna Eliana Maiori Catarella, di 41 anni. L’uomo, Giovanni Carbone, originario di Matera e residente a Montesilvano, si sarebbe impiccato. Era in prigione per omicidio, con l’accusa di aver ucciso la donna con un colpo di pistola alla testa. “Il pur tempestivo intervento dei poliziotti e degli infermieri non ha purtroppo permesso di salvare la vita, in carcere, a Giovanni Carbone, il 39enne originario di Matera che lunedì scorso ha ucciso a Miglianico (Chieti), la compagna Eliana Maiori Caratella (41). L’uomo si è suicidato ieri sera nel carcere di Lanciano. Una brutta e triste notizia”. Lo ha detto a LaPresse, Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe), il primo e più rappresentativo dei sindacati della polizia penitenziaria, riferendosi all’83esimo suicidio in carcere, in Italia e in tutto il 2022. ”Abbiamo in più occasioni detto che la morte di un detenuto è sempre una sconfitta per lo Stato - ha aggiunto - La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere: non indulti o amnistie”. Bergamo. Detenuto 49enne muore in cella per avere inalato gas di Andrea Rossetti primabergamo.it, 23 dicembre 2022 La vittima è un bergamasco con problemi di tossicodipendenza, F.C. le sue iniziali. Non si esclude il suicidio, ma forse era solo un modo per “sballarsi”. Quando muore un detenuto, la notizia “viaggia” a velocità ridotta. E spesso neppure arriva sulle pagine - digitali o cartacee - dei media. Qualcuno potrebbe definirla omertà, altri una forma di autoconservazione di un sistema che vive costantemente al limite, tra sovraffollamento e carenza di personale. “Condizioni impietose” - Il carcere di Bergamo, da questo punto di vista, è uno di quelli che vive una delle situazioni più drammatiche: secondo il report annuale dell’associazione Antigone, il tasso di sovraffollamento della struttura di via Gleno nel 2021 era pari al 165 per cento, ben al di sopra della media lombarda (129,9 per cento) e di quella nazionale (107,4 per cento). E non passa mese senza che i rappresentanti della Polizia penitenziaria non sottolineino le “condizioni di lavoro impietose” in cui sono costretti a operare a causa della carenza di personale, tra turni massacranti, ferie negate e sempre più detenuti. Morto un detenuto bergamasco di 49 anni - Talvolta, però, c’è qualcuno che decide di rompere il muro di silenzio e rendere noto a tutti il dolore e la disperazione che si provano dietro le sbarre. Era successo la scorsa estate, quando nel giro di una settimana due detenuti marocchini, di 31 e 35 anni, si erano tolti la vita; è successo in questi giorni, quando a morire è stato un 49enne bergamasco. In questo caso, non è chiaro se l’uomo si sia tolto la vita o sia rimasto invece vittima di un tragico “incidente”. Quel che si sa è che è deceduto per aver inalato del gas. Un volontario che opera nel carcere di via Gleno - e che preferisce restare anonimo - spiega: “Capita spesso che i detenuti, soprattutto quelli con problemi di tossicodipendenza, cerchino di “sballarsi” inalando il gas dei fornelletti che hanno in cella per prepararsi qualcosa da mangiare”. In effetti, il 49enne deceduto era in carico al Sert e aveva un passato fatto di tanti problemi di droga e dipendenza. Ma il suo percorso in quel di via Gleno stava andando bene: presto avrebbe ottenuto l’affidamento ai Servizi sociali e avrebbe iniziato un tirocinio lavorativo al Comune di Solto Collina. Tutti questi elementi portano ad escludere, almeno teoricamente, l’ipotesi del suicidio. Milano. “Io, detenuto a Bollate, trovo il riscatto nel lavoro” di Roberta Rampini Il Giorno, 23 dicembre 2022 Sono passate da otto a ventisei le persone coinvolte dalla società Eolo nel progetto pilota di digitalizzazione e inclusione sociale avviato 15 mesi fa. “Qui ho imparato che non sono destinato a rimanere una voce di costo, perché nonostante gli errori che ho commesso posso diventare un valore per la società. Quando ti trovi a essere privato della libertà hai bisogno di trovare qualcosa a cui aggrapparti per non precipitare. Sono tanti i detenuti che non ce la fanno e rinunciano, io grazie a questo lavoro ho avuto l’opportunità di tornare a sentirmi utile. È nel momento in cui rispondo a una chiamata e magari riesco a risolvere il problema del cliente che posso immaginare un futuro”. È la testimonianza di Andrea, uno dei detenuti del carcere di Bollate che partecipa al progetto di digitalizzazione e inclusione sociale avviato da Eolo, società leader in Italia nella fornitura di connettività tramite e bee.4 Altre Menti, impresa sociale nata dietro le sbarre. Un progetto pilota partito a settembre 2021 con 8 detenuti e che oggi coinvolge 26 detenuti che svolgono attività di welcome call e controllo qualità, gestiscono chiamate di potenziali clienti e di provisioning. “Siamo particolarmente orgogliosi dei risultati di questa iniziativa e di poter dimostrare ancora una volta il profondo legame che unisce connettività e inclusione sociale - ha dichiarato Daniela Daverio Ceo Service Division di Eolo -. Progetti come questo si inseriscono perfettamente all’interno della nostra mission e rappresentano anche l’espressione di un altro valore molto importante per l’azienda: quello della restituzione, il give back sui territori dove operiamo attraverso progetti che portino un impatto positivo concreto per le comunità”. L’iniziativa, che ha ricevuto feedback molto positivi anche da parte degli utenti Eolo, ha visto la partecipazione anche dei dipendenti della società di telecomunicazioni per la formazione in presenza dei detenuti e nei mesi successivi anche per un’assistenza continuativa via call. “È straordinario vedere quanto entusiasmo e partecipazione sta generando la collaborazione con Eolo. L’azienda sta investendo su questo progetto in molti modi, per esempio ampliando le attività in cui sono coinvolti gli operatori e continuando con la formazione dei detenuti”, commenta Marco Girardello di bee.4 Altre Menti. “Quando siamo partiti lo scorso settembre - spiega Lorenza, team leader del progetto - i detenuti coinvolti erano solo otto, ma nel giro di pochi mesi sono aumentate le postazioni, le competenze e le adesioni dei detenuti che hanno partecipato al bando per seguire il corso di formazione diretto da Eolo”. Napoli. Pranzo di Natale per 120 detenuti al carcere di Poggioreale di Paolo Popoli La Repubblica, 23 dicembre 2022 Sovraffollamento, i restauri della struttura e il tema del recupero sono al centro dell’iniziativa della Comunità di Sant’Egidio, con la partecipazione per la prima volta del sindaco Manfredi che invita a una maggiore apertura della città. “Se non fossi stata qui con voi oggi, per me non sarebbe stato Natale”: le parole di Giuseppina Salvia strappano l’applauso caloroso dei centoventi detenuti del carcere di Poggioreale invitati stamani nella cappella dell’istituto di pena per il pranzo di Natale, iniziativa organizzata dal 2004 dalla Comunità di Sant’Egidio e tornata dopo due anni di fermo per la pandemia. La vedova di Giuseppe Salvia, il direttore assassinato dalla camorra nel 1981 e a cui è intitolato l’istituto, è tra i 50 volontari in sala con il figlio Claudio, subcommissario prefettizio a Casamicciola, per poche ore lontano dall’isola colpita dalla frana del 26 novembre per assistere i reclusi in questa giornata speciale, tanto da indossare un costume di Babbo Natale e distribuire loro una confezione regalo con cioccolato, caffè ed effetti personali da una slitta costruita da detenuti e agenti della falegnameria: “Lo faccio da dodici anni, per lanciare loro un messaggio nel solco dei principi di mio padre che teneva alla rieducazione dei detenuti”. Tra le sedici tavolate con tovaglie rosse siedono altri volontari e imprenditori come Rossella Paliotto, sostenitrice del pranzo assieme ad altri sponsor. E partecipano con il direttore dell’istituto Carlo Berdini e con Antonio Mattone della Comunità di Sant’Egidio, per la prima volta il sindaco Gaetano Manfredi assieme alla presidente del Tribunale di sorveglianza Patrizia Mirra, il presidente del Tribunale di Torre Annunziata Ernesto Aghina, l’onorevole Alfonso Andria, il vescovo ausiliare Gaetano Castello e il garante dei detenuti Samuele Ciambriello. Il pranzo è soprattutto per i detenuti meno abbienti e più soli, sia stranieri, sia quelli che hanno pochi colloqui. Suor Lidia, 86 anni e 41 di attività a Poggioreale, assiste due giovani ucraini finiti nel tunnel della droga e poi in carcere: “Ricordo la cena del 24 a casa di mia nonna - racconta uno di loro, Maxim, di credo cattolico - Da quando la mia famiglia non c’è più sono partito per l’Italia, ho sempre lavorato. Poi a Napoli ho provato la droga e ci sono caduto. Ho sbagliato. Ma io e il mio amico ci stiamo disintossicando, vogliamo recuperare le nostre vite”. M., napoletano, ha invece seguito in carcere un corso di pizzaiolo e ora è in un periodo di messa alla prova. Per Natale avrà un permesso premio per stare con i familiari: pochissimi, tra i 120 presenti e i 2150 reclusi a Poggioreale, hanno questa opportunità. “L’assenza dei propri affetti rende il periodo delle feste tra i più duri. Anche per questo c’è cerchiamo di offrire un’apertura e una socialità maggiori”, spiega Gaetano Diglio, comandante della polizia penitenziaria dell’istituto “Giuseppe Salvia” diretto da Carlo Berdini. Si concede, ad esempio, qualche visita straordinaria in più o, ancora, la consegna da casa di qualche piatto tipico del Natale, purché preparato secondo le regole per non introdurre oggetti non consentiti in carcere. “Il sapore dell’insalata di rinforzo mi riporta a casa - aggiunge un detenuto del padiglione Genova - Quanto mi farebbe piacere poter mangiare di nuovo un calamaro alla brace”. Il pranzo scorre con una convivialità serena. Emozionante il brindisi finale, preceduto da un piccolo show di Alan De Luca a cui è stato donato un presepe realizzato dai detenuti. Ma dopo? Restano in primo piano i problemi storici delle carceri italiane, dove nel 2022 si è registrato il numero più alto di suicidi di sempre, 82, tra cui quello di dieci giorni fa di un trentenne padre di due gemelli proprio a Poggioreale. “Rappresentano una sconfitta e sono situazioni complesse, che a volte sfuggono perché senza segnali apparenti - spiega il direttore Berdini - Tutti i giorni ci confrontiamo con tentativi di suicidio, ogni caso è seguito da un team di esperti interdisciplinare. C’è impegno da parte delle istituzioni centrali, lo ha ribadito la visita del ministro Nordio un mese fa, sia con l’invio di tecnici e di educatori, sia con la ristrutturazione in corso di alcune strutture del carcere. Questo è uno dei problemi storici di Poggioreale, assieme alla carenza di personale e al sovraffollamento”. Il numero ottimale è massimo d1800 detenuti, attualmente ce ne sono 2150: “Quasi un terzo dei 6840 dei 15 istituti della Campania e comunque un numero maggiore dei 2104 di tutti gli undici istituti della Calabria - aggiunge però Ciambriello - Il tema delle strutture è fondamentale, il carcere deve essere a misura d’uomo, a Poggioreale ci sono anche celle con dieci persone, il recupero diventa sempre più difficile così. Solo il 30 per cento di loro non fa ritorno in carcere: ed è chi ha incontrato un cappellano, una cooperativa, un corso di formazione o chi ha vissuto momenti come il pranzo di Natale, ponte con l’esterno e occasione per riflettere sulle proprie responsabilità”. Ciambriello ricorda come Poggioreale sia “il carcere più sovraffollato d’Europa, ma anche quello con il maggior numero di volontari”: volontari, come quelli di Sant’Egidio e non solo, elogiati da Berdini perché fondamentali per il recupero dei detenuti, fino a rendere il carcere più aperto alla città. A riprendere il concetto è il sindaco Manfredi, che da rettore della Federico II avviò il polo universitario a Secondigliano, sede di laurea per i detenuti: “La dignità della pena è un diritto costituzionale e bisogna dare a tutti una opportunità, soprattutto di lavoro: la città non dimentica questi suoi cittadini. E chi ha voglia di fare, troverà in noi sempre un appoggio”. “Alla formazione segua un reale accompagnamento al lavoro per i detenuti”, aggiunge Mattone, che con la Comunità di Sant’Egidio terrà sette pranzi in altrettante carceri per 600 detenuti, in attesa della visita dell’arcivescovo di Napoli Domenico Battaglia il 31 a Poggioreale. Monza. Natale nel carcere: i detenuti cucinano e regalano biscotti ilcittadinomb.it, 23 dicembre 2022 L’impresa di sette detenuti con l’associazione Carcere aperto. Hanno impastato farina, burro, uova, latte e zucchero e realizzato, in pochi giorni, 65 chili di biscotti. L’impresa porta la firma di un gruppo di sette detenuti della Casa circondariale di Monza che, grazie ai volontari dell’associazione Carcere aperto, hanno confezionato 650 sacchetti di biscotti da donare a tutti i detenuti dell’istituto. Un’iniziativa nata dall’idea dell’associazione, per coinvolgere i detenuti in un gesto di gratuità e solidarietà. “Sarebbe da pazzi pensare che solo uno degli ingredienti che servono per preparare dei buoni biscotti, possa bastare da solo - spiega Paolo Cattaneo nel direttivo di Carcere aperto - Lo stesso è per questa grande casa che è il carcere: occorre amalgamare esperienza, competenza, cura, relazioni, gratuità e servizio, ingredienti indispensabili per gettare le basi di una convivenza possibile, una comunità in cui nessuno possa sentirsi solo”. Il progetto è stato reso possibile grazie alla collaborazione con Carmine Iapozzuto, docente all’istituto Olivetti di Monza, che tiene corsi di pasticceria all’interno del carcere. “Prima della pandemia la società Aquasan donava per Natale moltissimi panettoni per i detenuti e anche per il personale e gli agenti dell’istituto - spiega Cattaneo - Non sapendo se quest’anno sarebbe ripresa o meno questa bella tradizione noi di Carcere aperto, in collaborazione con l’istituto Olivetti, gli educatori e la direzione del carcere, abbiamo pensato di produrre direttamente dentro la casa circondariale un dolce che potesse esprimere il calore del Natale”. L’associazione ha fornito le materie prime, anche grazie al punto Agricoltura di Monza che ha condiviso il percorso. Lo scorso 20 dicembre i volontari di Carcere aperto hanno provveduto a distribuire a tutti i detenuti i sacchetti con i biscotti cucinati, e un biglietto di auguri con cui si è voluto spiegare il senso del progetto e la sinergia con cui è nato. Nel frattempo sono arrivati anche mille panettoni dalla società Aquasan. Per un Natale un po’ più dolce anche per la casa di via Sanquirico. L’incertezza è la nuova normalità e c’è una soluzione: ne usciamo solo insieme di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 23 dicembre 2022 Il rapporto sullo sviluppo umano 2021/2022 e la regola della condivisione. È l’unica eredità buona del Coronavirus. Come sono stati gli ultimi tre anni? Lo chiede Paolo Giordano a Elena Ferrante nel dialogo che apre e ispira questo numero di 7 (qui il link all’articolo di copertina). “Quel riflesso a saltar su, ad aggrapparmi a qualcosa di solido- una maniglia: per riscoprirla, reinventarla - si è appannato. Mi sento immobile, senza nemmeno la solita spinta all’adattamento”, risponde la scrittrice che ha portato l’amicizia geniale tra due ragazze italiane, Lila e Lenù, dentro il cuore e la testa di milioni di lettrici e lettori in 40 Paesi. La domanda di Giordano - ora in libreria con un romanzo, Tasmania, dove racconta l’incrociarsi di storie dentro il perimetro della Storia che ancora dovrebbe vibrare della detonazione di Hiroshima - nasce dalla consapevolezza che lo spavento, spesso lo sgomento, quella sensazione di essere spaesati in casa propria rappresentano una nuova normalità. Non una finestra spalancata da un colpo di vento, non un’interruzione dei programmi. Ma il tempo che dovremo abitare. Tra dati e comparazioni, premesse e sintesi, di questo parla il Rapporto sullo Sviluppo Umano 2021/2022: “Tempi incerti, vite instabili: dare forma al nostro futuro in un mondo in trasformazione” (Uncertain Times, Unsettled Lives: Shaping our Future in a Transforming World, qui il link alla pagina Onu che lo presenta). Già nel 2019 sei intervistati su sette dichiaravano di sentirsi “insicuri”, una proporzione che i ricercatori delle Nazioni Unite attribuivano agli scossoni di globalizzazione e crisi climatica. Quest’onda che ancora ci trascina è stata dunque accelerata e non generata dalla pandemia. Nella sua rapida diffusione planetaria e nella lunga coda fiammeggiante, il Covid-19 ci ha messi a nudo di colpo: come successe all’imperatore che sfilava convinto della propria capacità di stupire e governare, all’infinito, armato di impunità. Eppure è proprio nella risposta al Coronavirus che è possibile rintracciare la soluzione a quella che è stata chiamata “permacrisi” o “policrisi”, parole votate tra le più significative del 2022 e accolte nei dizionari (leggete su 7 l’articolo del linguista Giuseppe Antonelli). Una soluzione che non è però un brevetto, chiuso e vendibile, bensì un processo, aperto e imperfetto. È stato calcolato che nel 2021 i vaccini, messi a punto a una velocità senza precedenti, abbiano salvato almeno 20 milioni di vite. Un successo clamoroso nonostante due vaste zone d’ombra: la disparità di accesso all’unica vera risorsa salvifica e un’ostilità verso la scienza diffusa a macchia di leopardo. Quello che dovremmo aver imparato nel nostro metterci di traverso al contagio, da Wuhan a Bergamo, è la regola della condivisione: ne usciamo solo insieme. La novità di questi tre anni è proprio che la maniglia alla quale provare, ancora, ad aggrapparci per adattarci appartiene a tutti o a nessuno. Dovremmo incoraggiarci a non temere l’incertezza. Lasciar risuonare il coraggio poetico, mai nascosto al mondo, di W.H. Auden, il quale incitava innanzitutto sé stesso a riconoscere “i punti di luce” che lampeggiano “là dove i Giusti si scambiano i loro messaggi”: che io possa, assediato come loro da negazione e disperazione, “mostrare una fiamma affermativa”. Come ha sottolineato Martin Wolff sul Financial Times, ragionando sulla condizione di new normal descritta nella ricerca Onu, l’intrecciarsi di criticità domestiche e internazionali è il segno primario della nostra epoca. In inglese tre “I” vengono accostate per identificare l’area di azioni possibili. Investment, investimenti estesi, non concentrati sulle economie più salde. Insurance, per la necessità di soluzioni flessibili di sicurezza sociale in grado di garantire chi perde punti di riferimento minimi come lavoro e salute. Innovation, che non è tanto e solo sviluppo di tecnologie, quanto rifondazione di come prendiamo le decisioni. La scelta umana è l’eroe e il cattivo di questa età dell’incertezza. Vanno perseguiti cambiamenti inclusivi: oltre i pregiudizi privati, oltre i circuiti stretti del consenso pubblico. Oltre l’inerzia, che sarebbe una condanna comune. Intelligenza artificiale, più della metà degli italiani vorrebbe sostituirla ai parlamentari di Lorenzo Sangermano La Repubblica, 23 dicembre 2022 E in alcuni Paesi il politico-virtuale già esiste. Lo rivela una ricerca dell’università spagnola IE University. Il primato alla Cina con il 75%, favorevoli al 66% in Spagna e al 59% in Italia. Ma dalla Danimarca alla Nuova Zelanda, l’intelligenza artificiale è già approdata ai seggi. I politici? L’intelligenza artificiale, nel futuro, potrebbe sostituire anche loro. Una prospettiva che sembra piacere alla maggioranza degli italiani. Almeno, questo è quanto emerge da uno studio della IE University, secondo il quale il 59% dei nostri connazionali sarebbe favorevole. Una percentuale non lontana da quella rilevata tra i cinesi: il 75% vorrebbe la sostituzione dei politici con i computer. Spagna e Italia prime in Europa - Svolto su circa tremila persone provenienti da 11 paesi diversi, il report nel 2021 ha interrogato la platea su più argomenti, dall’intelligenza artificiale al voto via Internet. In cima alla classifica si posizionano i cittadini cinesi con il 75 per cento di approvazione. All’apice europeo invece compare la Spagna, dove l’idea raccoglie un supporto del 66 per cento. A seguirla compare proprio l’Italia. Un’idea non ben vista invece in Gran Bretagna e Stati Uniti, dove il il 69 e il 60 per cento degli intervistati si sono opposti alla proposta. Ma quanto è lontana la possibilità di un Parlamento svuotato? In realtà, meno di quello che si possa pensare. Solo pochi mesi fa, in occasione delle elezioni in Danimarca, i partiti storici del paese hanno dovuto sfidare un avversario imprevisto. Infatti, come proprio candidato, il Partito Sintetico ha presentato un’intelligenza artificiale, Leader Lars. Programmata per dare voce al 20 per cento della popolazione che non vota, il programma poteva conversare con gli elettori, ascoltare i loro pareri ed evolversi. Non abbastanza, però, per avere i voti necessari a candidarsi. Al di là dell’Atlantico, negli Stati Uniti la Ong The Society Library ha avviato il progetto “AI politician”. Tutto nasce dalla piattaforma “Internet Government”, una banca dati che per l’azienda ha lo scopo di rendere il processo legislativo più veloce e vicino alla prospettiva di ogni singolo cittadino. Al suo interno verranno contenute non tanto le idee, quanto le prospettive di ogni singolo cittadini. Secondo l’Ong non sarà più necessario votare politici che abbiano il compito di rappresentare le proprie idee. Bastano pochi click, scrivere le proprie preoccupazioni e idee e il gioco è fatto. Premendo invio, il programma sarebbe in grado di restituire una prospettiva unica e generale. “È politica senza la politica, e senza i politici”, recita il sito. “Non dipenderemo più dalla maggioranza - continua l’Ong - ma da un più sofisticato principio matematico che possa determinare quali soluzioni legislative affrontino tutte le preoccupazioni legittime. Non dobbiamo andare d’accordo, ma trovare compromessi e andare avanti”. Il politico virtuale della Nuova Zelanda - Sul fronte australe a battere tutti è Sam, il primo politico virtuale neo-zelandese. Presentato nel 2017, al tempo in programma era in grado di comunicare con i cittadini attraverso Facebook Messenger. Con gli anni, in preparazione per le elezioni del 2020, Sam si è evoluto diventando un programma a tutti gli effetti. “Ciao, sono Sam, il mio obiettivo è intraprendere un dialogo costruttivo con i neo-zelandesi - così si presenta l’intelligenza artificiale -. Vi ascolto e farò del mio meglio per rappresentarvi nel sistema parlamentare. Sono davvero neutrale e tratto equamente ogni cittadino”. Mentre il Parlamento europeo rincorre la speranza di un accordo sull’intelligenza artificiale e la sua regolamentazione, all’inizio di dicembre OpenAI ha rilasciato una chatbot in grado di dialogare in maniera sorprendente con gli utenti. Magari, tra qualche anno, anche di governarli. “Violente e sovraffollate”: tutti i dubbi sulle carceri belghe di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 dicembre 2022 Il rapporto del Comitato del Consiglio d’Europa per la Prevenzione della Tortura bacchetta il Belgio. Ma anche l’Italia è illegale. Silvia Panzeri, figlia di Antonio, al momento non sarà estradata in Belgio. Com’è noto la donna è indagata per concorso in associazione a delinquere, corruzione e riciclaggio e assieme al padre, che sarebbe al centro delle indagini sul Qatargate. I legali della 38enne hanno però presentato istanza ai giudici della seconda sezione della Corte d’Appello di Brescia per verificare le condizioni delle carceri belghe. Sì perché c’è un rapporto del Comitato del Consiglio d’Europa per la Prevenzione della Tortura (Cpt) che ha documentato problemi di sovraffollamento e violenza nelle carceri. Un problema, tra l’altro, che lo stesso Cpt ha evidenziato per l’Italia tramite un rapporto meno recente di quello belga. A seguito di una visita ad hoc alle carceri belghe di Anversa, Lantin, St-Gilles e Ypres nel novembre 2021, la delegazione del Cpt ha evidenziato che non ha ricevuto accuse riguardanti maltrattamenti fisici di detenuti da parte del personale penitenziario. Tuttavia, la violenza tra detenuti era un problema ricorrente negli istituti visitati. Secondo il rapporto, ciò era chiaramente legato al sovraffollamento, alla mancanza di personale e all’insufficiente presenza di personale. Il comitato ha quindi esortato le autorità belghe ad adottare misure risolute per affrontare la violenza tra detenuti in queste carceri e, se necessario, in altri istituti in tutto il Paese. Come detto, tutte le carceri visitate dal Cpt soffrivano di sovraffollamento, che il rapporto descrive come un grave problema di vecchia data in tutto il sistema penitenziario belga. Il Cpt ha nuovamente invitato le autorità a ridurre la popolazione carceraria e ad affrontare il sovraffollamento, in linea con le raccomandazioni del Consiglio d’Europa. Per quanto riguarda le condizioni materiali di detenzione, la delegazione del Cpt ha riscontrato che le celle erano per lo più adeguatamente attrezzate, con luce e ventilazione sufficienti. Tuttavia, le carceri erano generalmente obsolete: i servizi igienici spesso non erano completamente separati dagli alloggi e spesso mancava la pulizia. Il Cpt ha osservato che ciò era particolarmente preoccupante nei reparti psichiatrici. Inoltre, la delegazione ha riscontrato che alla stragrande maggioranza dei detenuti, in particolare quelli in custodia cautelare, non veniva offerta praticamente alcuna attività organizzata e trascorrevano fino a 23 ore al giorno nelle proprie celle. Anche i servizi sanitari erano chiaramente insufficienti, evidenziando una mancanza di riservatezza e problemi riguardanti la registrazione degli infortuni. Nel contempo, però, vale la pena ricordare che lo stesso Cpt, nel 2020 ha pubblicato un rapporto per quanto riguarda l’Italia. Ha rilevato il sovraffollamento, episodi di violenza da parte della polizia penitenziaria, carenze materiali riscontrate nelle carceri visitate. Così come, d’altronde, ha riscontrato in Belgio. Ma per quanto riguarda il nostro Paese, il Cpt ha anche riservato critiche al nostro regime di massima sicurezza 41-bis ed altre misure di isolamento e segregazione. Una peculiarità del tutto italiana. In sostanza, il Cpt ha riservato particolari attenzioni a varie forme di isolamento diurno e di separazione dal resto della popolazione carceraria imposte ai detenuti ed ha affermato che si tratta di misure aggiuntive anacronistiche che andrebbero abolite. Il Comitato ha invitato le autorità italiane ad avviare una seria riflessione sul regime del 41 bis al fine di offrire ai detenuti un minimo di attività utili, maggiori visite e telefonate, nonché di porre rimedio alle gravi carenze materiali osservate nelle celle e nelle aree comuni delle sezioni visitate. Il Cpt ha inoltre criticato l’assenza di strutture mediche appropriate per persone con problemi psichiatrici, attualmente detenute all’interno delle carceri. Stati Uniti. Kate Brown non può abolire la pena capitale, così ha “abolito” i condannati morte di Valerio Fioravanti Il Riformista, 23 dicembre 2022 Figlia di un militare, atea e dichiaratamente bisessuale, la governatrice dell’Oregon Kate Brown aveva già esteso la moratoria. Ora, prima di passare la mano, ha graziato 17 persone e ha chiuso il braccio della morte. I politici coraggiosi esistono. No, non il coraggio “muscolare” di chi scala l’Everest o si lancia con il paracadute, ma il coraggio di fare coscienziosamente il proprio lavoro. In democrazia ci si fa eleggere, e in cambio di uno stipendio medio-alto si assumono, o meglio, si dovrebbero assumere, determinate responsabilità, tipo cambiare le cose. Sappiamo che molti, moltissimi politici, fanno sistematicamente di tutto per tenersi alla larga da qualsiasi decisione impopolare. Si fa solo quello che può tornar utile per una prossima rielezione. Ogni tanto c’è però qualcuno che tiene fede al suo mandato elettorale, e fa cose non ovvie, non profittevoli. Non mi viene in mente immediatamente un esempio italiano, e allora parlerò di una statunitense che ha appena deciso di “graziare” 17 condannati a morte. Kate Brown, 62 anni, bianca, Democratica, figlia di un militare, atea, che come unica concessione a chi le chiedeva che fede professasse rispondeva “pratico Yoga”, fece la storia quando nel febbraio 2015 subentrò a un governatore dimessosi per uno scandalo. Fece la storia non perché era una donna, ma perché era la prima volta che un incarico così importante negli Stati Uniti, e nel mondo, veniva ricoperto da una persona “dichiaratamente LGBT”. Una LGBT “soft” se vogliamo, una semplice dichiarazione di “bisessualità”, accompagnata comunque da un marito e da due figli adottivi. Nel 2018 è stata rieletta e ora, non potendo, per legge, ricoprire un terzo mandato consecutivo, sta per lasciare l’incarico a un’altra donna del suo stesso partito, Tina Kotek, 56 anni, bianca. Tra parentesi, la Kotek ha fatto campagna elettorale dichiarandosi lesbica, ma questa è solo una curiosità. Brown è sempre stata contraria alla pena di morte, e appena entrata in carica ha esteso la moratoria che era in vigore dal 2011. Ha rinnovato la moratoria anche nel suo secondo mandato, e già in campagna elettorale la sua “successora” ha detto che avrebbe fatto altrettanto. Quindi in teoria i condannati a morte per altri 4 o forse 8 anni potevano stare tranquilli. Ma Brown ha fatto quello che riteneva giusto fare, e li ha tirati fuori tutti dal braccio della morte. Siccome la pena di morte era in costituzione, l’iter è stato un po’ artificioso. Nel 2018 aveva sponsorizzato una legge che diminuiva da 19 a 4 i reati capitali: solo omicidi compiuti in carcere da recidivi, omicidi di bambini, atti di terrorismo con più vittime e omicidi premeditati (sì, premeditati, quindi rari) di poliziotti. Ratificata nel 2019 la nuova legge che lei definì “la cosa più vicina all’abolizione che si può realizzare per via parlamentare”, alcuni mesi dopo dette disposizione all’Amministrazione Penitenziaria di applicare le regole della rieducazione anche ai condannati a morte, e anche i principi della razionalizzazione economica. Nel maggio 2020 gli allora 24 condannati vennero spostati in “normali” carceri di massima sicurezza, assieme agli altri detenuti. Ma non bastava. Una nuova legge di solito non può essere retroattiva. Ci vuole del tempo per affrontare questo passaggio: si deve attendere che, con la nuova legge, qualcuno venga condannato non più a morte, ma all’ergastolo. A quel punto un condannato a morte che aveva un reato praticamente identico fa ricorso e chiede che la sua pena venga dichiarata “sproporzionata” e, in quanto tale, incostituzionale e quindi da rimodulare. Fatto questo, gli altri condannati si accodano e anche loro cercano la dichiarazione di “sproporzionalità”. Questa prima sentenza c’era stata, votata all’unanimità dalla Corte Suprema dell’Oregon nel 2021. Con questo iter i condannati a morte in un anno erano scesi a 17. Nell’arco di un altro paio d’anni si sarebbero azzerati, ma qui Brown è intervenuta, e ha fatto di nuovo la sua parte di politica coerente: clemenza. “La pena di morte è una punizione irreversibile che non consente correzioni; è uno spreco di dollari dei contribuenti; non rende le comunità più sicure; non può essere e non è mai stata amministrata in modo giusto ed equo. È sia disfunzionale che immorale”. Compromesso: Brown non ha abolito la pena di morte, ma ha abolito i condannati a morte. Va bene anche così. Vorrei dire che l’istituto della “clemenza” esiste anche in Italia, ma viene usato solo per quisquilie.