Si toglie la vita in cella a trent’anni. In carcere un suicidio ogni 5 giorni di Grazia Longo La Stampa, 22 dicembre 2022 Ieri l’ultimo caso a Rebibbia: sarebbe uscito a luglio. Il Garante: “Incentivare le misure alternative”. Si allunga il triste elenco dei suicidi in carcere. Ieri si è tolto la vita, a Rebibbia, un bengalese di 30 anni che a luglio sarebbe tornato in libertà. Si tratta dell’ottantaduesimo caso del 2022, un numero mai così alto negli ultimi 10 anni. Praticamente un suicidio ogni quasi 5 giorni. L’uomo era stato condannato a quasi due anni per concorso in rapina. Era stato rilasciato fuori dal carcere nella sentenza di primo grado, ma poi in appello per un residuo di pena di un anno era stato portato nella prigione romana. Si è impiccato con un lenzuolo della cella, era seguito dagli psicologi e lo scorso gennaio era detenuto con un altro uomo che si suicidò. Il rapporto del Garante delle persone private della libertà, che considera il periodo da gennaio a novembre 2022, puntualizza che su 79 casi di suicidio rilevati 33 riguardano persone riconosciute con fragilità personali o sociali, come nel caso di senza fissa dimora o persone con disagio psichico. Di questi, 74 erano uomini e 5 donne a cui si aggiungono altri tre suicidi rilevati nel mese corrente. Negli ultimi dieci anni, negli istituti penitenziari nazionali si sono verificati almeno 583 suicidi, di persone di età compresa tra i 18 anni e gli 83 anni e quasi la metà era in attesa di una sentenza definitiva. E il report sottolinea che: “Troppo breve è stata in molti casi la permanenza all’interno del carcere, troppo frequenti sono anche i casi di persone che presto sarebbero uscite”. Solo pochi giorni fa si era ucciso a Poggioreale, Napoli, un detenuto di 30 anni che da 7 mesi era diventato padre di due gemelli. E a fine ottobre un africano originario del Gambia di 36 anni si è suicidato nel carcere di Torino dopo essere stato arrestato per il furto di un paio di auricolari bluetooth. Nel 2022 il più anziano a essersi tolto la vita aveva 83 anni, nove ragazzi tra i 18 e i 25 anni, e 5 donne, un numero altissimo, rapportato alla popolazione detenuta femminile (circa duemila). Altri 5 suicidi si contano tra gli agenti di polizia penitenziaria, come segnalano i sindacati. E intanto è stata riaperta l’inchiesta sul suicidio nel carcere di Ferrara di Lorenzo Lodi 29 anni: era stato arrestato il 31 agosto 2021 e il giorno dopo, l’1 settembre, alle 14,30, venne trovato morto impiccato in cella, utilizzando un lenzuolo e dei manici di scopa, presenti nella sua cella. Il legale della famiglia del ragazzo, Antonio De Rensis ha presentato opposizione all’archiviazione proposta dalla Procura per due agenti di Polizia e il caso verrà discusso davanti al giudice Danilo Russo il prossimo 26 gennaio. Il sospetto è che il giovane non sia stato adeguatamente controllato nonostante avesse manifestato l’intenzione di impiccarsi. Stefano Anastasia, Garante delle persone private della libertà per le Regioni Lazio e Umbria auspica “un intervento rapido del governo Meloni e del ministro della Giustizia Nordio per far fronte a un’emergenza indice di condizioni di sofferenza in carcere dove mancano prospettive, speranze e opportunità”. Ma cosa può aver contribuito all’incremento dei suicidi? Secondo Anastasia ci troviamo di fronte “alla conseguenza di un lungo periodo di isolamento a causa del Covid che ha impedito lo svolgimento delle regolari attività di socializzazione. Una situazione che si aggiunge a problemi cronici delle carceri come sovraffollamento e strutture fatiscenti”. Come intervenire? “Il governo dovrebbe potenziare gli incentivi per le misure alternative alla detenzione. C’è difficoltà ad accedervi dal carcere perché in molti non hanno un lavoro o un domicilio e quindi occorre elargire fondi e favorire un accordo tra le Regioni e la Cassa delle ammende per ospitare fuori dal carcere chi è senza domicilio”. La Cassa delle ammende è un ente autonomo, vigilato dal ministero della Giustizia per amministrare i fondi “pagati dai detenuti, circa 7 euro al giorno, che vengono poi reinvestiti a favore degli stessi reclusi”. Un dato quello del 2022 “di gran lunga il peggiore degli ultimi vent’anni”, dichiara il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari che invoca “non un’amnistia ma un cambio di prospettiva”. Il numero così alto è la “spia di un sistema penitenziario che richiede profondi cambiamenti”, denuncia infine il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella. Il sottosegretario alla Giustizia: “Aprirò una verifica sui suicidi. No indulti, puntare sul lavoro” di Marco Iasevoli Avvenire, 22 dicembre 2022 C’è la massima sensibilità del governo rispetto agli appelli lanciati da papa Francesco sulle condizioni nelle carceri. La richiesta di “clemenza” del Santo Padre la accogliamo nel senso di incanalarla in una serie di iniziative strutturali che rendano dignitosi i tempi e i luoghi di esecuzione della pena. La soluzione per noi non è in provvedimenti di amnistia o indulto, ma ciò non vuol dire non prendere seriamente in considerazione il grido di dolore che viene sia dai detenuti sia dal personale penitenziario”. Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia con delega al trattamento dei detenuti, fissa la priorità per il nuovo anno. Per l’esponente leghista, appena superata la manovra, è “urgente mettere seriamente mano al dramma dei suicidi in carcere, che ci scuote quotidianamente”. Quale iniziativa concreta vuole assumere, sottosegretario? “Voglio farmi subito promotore di un’attività di verifica ministeriale sui casi di suicidi di detenuti e anche del personale penitenziario. Siamo a numeri-record. Intendo capire a fondo il fenomeno. Rileggere le relazioni di ogni singolo caso per comprendere cosa è successo, e perché. È un’iniziativa preliminare di buon senso che ho già condiviso con il ministro Nordio. Se non riusciamo ad afferrare i motivi profondi di questa tragedia, non saremo in grado di intervenire. Già un primo dato colpisce, il fatto che molti suicidi arrivino con l’avvicinarsi della fine della pena: accade qualcosa in questa fase delicatissima che evidentemente richiede interventi mirati”. Lei dice “no” ad amnistie, ma certo il sovraffollamento è un problema oggettivo, drammatico e mai affrontato con efficacia... “Il sistema-giustizia e il sistema carcerario non migliorano se ogni volta dobbiamo derogare alla certezza della pena. Noi pensiamo di muoverci su un’altra direttrice: innanzitutto, processi con una durata più breve, umana, a beneficio sia delle vittime sia degli imputati, perché molte pene vengono scontate molti anni dopo il reato, e anche questo può incidere. Meno carcere preventivo, come scelta politica ma anche come conseguenza di processi che durino meno. E, soprattutto, estendere le attività lavorative, che sono fondamentali per l’opera di rieducazione e reinserimento in società di chi ha commesso un reato. Ma perché più detenuti lavorino ci vogliono strutture adeguate e moderne. Quindi questo processo, occorre essere onesti, non accadrà dall’oggi al domani. Il ministero intende muoversi con rapidità, ma parliamo di problemi che si trascinano da moltissimi anni”. Intendete costruire nuove carceri? “Con il Pnrr noi possiamo procedere all’ammodernamento delle strutture. E questa occasione non va persa. Poi c’è un’altra opzione sul tavolo, accennata anche dal ministro Nordio e che può tornare utile più a breve termine: utilizzare, per chi ha commesso reati minori, strutture ora inutilizzate come le ex caserme. Ovviamente anche per queste strutture serve un riadattamento”. Il tempo però non c’è, dato il moltiplicarsi di fatti gravissimi nelle carceri italiane... “Siamo pienamente consapevoli dell’urgenza. Tra l’altro, i suicidi riguardano anche la Polizia penitenziaria. È evidente che qualcosa non va. Anche l’investimento in risorse umane deve essere deciso, netto: parlo anche delle figure educative, psicologi, professionalità di cui abbiamo bisogno per sostenere il regime detentivo”. L’Ispettore generale dei cappellani: “Fare uscire chi deve scontare pene più brevi e reati minori” di Fulvio Fulvi Avvenire Il gesto di clemenza che Papa Francesco ha chiesto ai potenti della terra, ai capi di Stato e di governo, è un “grido di misericordia verso i detenuti, ma anche un messaggio alla società e alla Chiesa, un appello di fiducia e speranza, un’attenzione vera ai più poveri, agli ultimi”. Le parole di don Raffaele Grimaldi, Ispettore generale dei cappellani carcerari d’Italia, sono quelle di chi l’esperienza dell’incontro sempre lacerante e drammatico con le persone private della libertà la fa tutti i giorni, visitando gli oltre 190 istituti di pena italiani, partecipando a convegni, coordinando l’attività pastorale dei sacerdoti che nelle carceri svolgono il loro compito di evangelizzazione e catechesi. Incominciò a stare vicino ai detenuti (e alle guardie carcerarie) nel 1992, come giovane cappellano della Casa Circondariale di Napoli-Secondigliano. Ma come è possibile, secondo lei, dare seguito in concreto all’appello del Papa? “C’è chi potrebbe essere fatto uscire subito dal carcere con un provvedimento di indulto. Parliamo dei detenuti che devono scontare una pena breve o che stanno dentro per aver compiuto reati minori. E in genere sono i più poveri, gli immigrati, i malati psichici, i tossicodipendenti e le persone senza dimora. Chi si è reso responsabile di gravi crimini, invece, deve scontare la condanna fino in fondo. Non si chiede clemenza per loro”. In ogni caso, la situazione delle carceri italiane è difficile da gestire. C’è l’emergenza dei suicidi in cella, sono 82 quelli che si contano dall’inizio dell’anno, e degli atti di autolesionismo compiuti dai reclusi, sempre più diffusi. Perché? “Il problema principale è sempre quello: il sovraffollamento. In più, i servizi diminuiscono perché il personale è insufficiente e gli agenti penitenziari, come anche i volontari, e gli stessi cappellani, non riescono a raggiungere tutti i detenuti. Esistono, inoltre, anche gravi carenze sanitarie. I suicidi avvengono perché, in genere, viene rivolta poca attenzione a chi sta male dietro le sbarre. Troppo spesso si uccide chi è alla vigilia della liberazione e ha paura di uscire perché non sa dove andare, non ha una famiglia, non ha amici né altri affetti, non ha una casa dove andare né un lavoro. E così si lascia travolgere dalla disperazione. Ma questa è una responsabilità di tutti”. E quale ruolo devono svolgere i cappellani in questo contesto fatto di paure e dubbi? “Dobbiamo adoperarci perché i detenuti si lascino accarezzare da Dio. Ma i sacerdoti, insieme a chi svolge volontariato, hanno una missione umanitaria da compiere, di vicinanza concreta ai carcerati. Anche se gli ostacoli che troviamo, spesso sono parecchi e appaiono insormontabili. Qualche volta sembra che noi vogliamo inserirci nei percorsi di riabilitazione, nei progetti dell’istituto, ma non è così. Dobbiamo invece far capire ai detenuti che possono contare sempre su di noi, che siamo loro amici. E ci proponiamo anche come ponte con le loro famiglie. Cerchiamo inoltre di riconciliare le persone e di incontrare umanamente anche i detenuti di altre fedi quando non possono trovare dietro le sbarre un imam o un sacerdote ortodosso che pure hanno un accesso sporadico nelle carceri italiane. Io vado incontro ai carcerati come un uomo e cerco di accogliere tutti, e così svolgo anche un’azione pastorale”. Non è sempre facile, però.... Tante volte siamo ostacolati e non possiamo svolgere serenamente il nostro servizio. Non certo perché non siamo apprezzati ma perché, mancando personale, come dicevo, non si può garantire quell’attenzione e vigilanza in più che invece sarebbe necessaria, per esempio quando celebriamo le Messe nelle cappelle. Non ci sono agenti per i controlli necessari e a volte dobbiamo rinunciarci. Manovra, sei milioni di euro per rifinanziare il lavoro dei detenuti ed ex detenuti di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 dicembre 2022 Emendamento di Riccardo Magi in commissione Bilancio. Mentre a Rebibbia muore suicida un 30enne straniero con pochi mesi di pena. Nel giorno in cui si è costretti a registrare l’ottantunesimo detenuto suicida dall’inizio dell’anno - si è impiccato ieri nel carcere romano di Rebibbia un trentenne originario del Bangladesh che avrebbe estinto a luglio la pena di due anni subita per concorso in rapina - perfino la Lega manifesta indignazione. Qui “ci vuole un cambio di prospettiva”, chiede (o annuncia, non si capisce bene) il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari: “Le carceri - riconosce - non possono essere considerati luoghi estranei alla nostra Comunità, stracolmi di detenuti, privi di un numero sufficiente di operatori e agenti di Polizia Penitenziaria. E chi sconta una pena detentiva deve essere condotto lungo un percorso di rieducazione, anche attraverso esperienze di lavoro”. Ma alla Camera, in commissione Bilancio, l’onorevole Riccardo Magi (+Europa) ha dovuto tribolare un po’ prima di trasformare in favorevole il parere inizialmente contrario del governo e dei relatori della manovra finanziaria (la leghista Comaroli, Pella di Forza Italia e Trancassini di Fd’I) sull’emendamento che rifinanzia il fondo per il lavoro di detenuti ed ex detenuti. Dall’anno prossimo 6 milioni di euro annui saranno “destinati al rifinanziamento della ‘Legge Smuraglia’ che prevede incentivi fiscali e contributivi alle aziende che forniscono occasioni di lavoro e corsi formativi finalizzati all’assunzione di detenuti ed ex detenuti”. Dopo l’invito al ritiro con il parere contrario di governo e relatori, l’emendamento Magi è stato accantonato e solo alle sei del mattino, quando il governo ha cambiato idea, i deputati della commissione Bilancio hanno finalmente approvato la norma che incrementa “l’autorizzazione di spesa di cui all’articolo 6 comma 1 della legge 22 giugno 2000 numero 193”. La legge in questione infatti favorisce “l’attività lavorativa di persone appartenenti alla categoria di svantaggiate, tra le quali sono compresi i detenuti e gli internati, gli ex detenuti e gli ex degenti di ospedali psichiatrici giudiziari, i condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione e al lavoro esterno, i tossicodipendenti e i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare”. Nello specifico, la legge applica una “riduzione delle aliquote contributive dovute dalle cooperative e/o dalle aziende pubbliche o private, relativamente alle retribuzioni corrisposte ai lavoratori di quelle categorie. Lo sgravio è stabilito nella misura dell’80% della contribuzione complessivamente dovuta”, spiega Magi. Il lavoro dei detenuti può essere svolto sia all’interno che all’esterno degli stabilimenti penitenziari. Ma mentre “per le Cooperative sociali i benefici trovano applicazione a prescindere dal luogo nel quale le persone detenute o internate svolgono l’attività lavorativa, le aziende pubbliche e private sono ammesse alle agevolazioni limitatamente alle persone impegnate nelle attività lavorative che si svolgono all’interno degli istituti penitenziari”. Il finanziamento è coperto dal Fondo che la stessa legge di Bilancio in via di approvazione ha istituto all’articolo 152 comma 4, “nello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze”, con una “dotazione - si legge nel testo - di 300 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2023, per la copertura degli interventi di competenza dei Ministeri in coerenza con gli obiettivi indicati nella manovra di bilancio”. Dotazione che si riduce così di 6 milioni annui. “È un piccolo passo - sintetizza Magi, presidente di +Europa - che serve però a rafforzare nella sostanza la finalità rieducativa della pena prevista dalla nostra Costituzione. Un’ottima notizia alla quale deve seguire l’attività anche a livello territoriale volta a informare tutte le realtà produttive di questi vantaggi”. Il decreto anti rave passa per due voti molte le diserzioni di Valentina Stella Il Dubbio, 22 dicembre 2022 Rigurgito di garantismo in Commissione giustizia. Molti deputati della maggioranza disertano il voto. Rischio grosso per il Governo ieri in Commissione Giustizia della Camera dove si stavano votando gli emendamenti al dl (anti- rave, rinvio dell’entrata in vigore della riforma del processo penale, ergastolo ostativo, covid) varato dall’Esecutivo il 31 ottobre e emendato e approvato in Senato una settimana fa. “In commissione Giustizia abbiamo appena avuto un rigurgito di garantismo del centrodestra. Per un soffio stava passando il mio emendamento soppressivo del reato di ‘ Rave’ - aveva annunciato ieri mattina Devis Dori, capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra in commissione - Per due soli voti non è stato soppresso questo nuovo reato”. A favore del soppressivo hanno votato Avs, PD, M5S, Terzo Polo. Contro tutta la maggioranza. Ma l’aspetto rilevante, da quanto appreso, è che alcuni deputati (soprattutto Forza Italia) di maggioranza erano fuori dall’Aula, quindi lo scarto è risultato solo di una differenza di 2 voti. Ci si chiede a Montecitorio: si sono assentati volontariamente o mera distrazione? Comunque alla fine della giornata la commissione ha concluso l’esame degli emendamenti. La II di Montecitorio ora è in attesa dei pareri delle commissioni competenti: oggi - o al più tardi domani - verrà conferito il mandato alla relatrice Ingrid Bisa (Lega). Il dl è atteso in aula per martedì 27 dicembre e va convertito in legge entro il 30 dicembre. “È stato un lavoro molto intenso in questi giorni. Abbiamo dato il tempo necessario per un esame approfondito ma al tempo stesso, lavorando a ritmi molto serrati, siamo riusciti a concludere celermente l’esame di 140 emendamenti”, ha spiegato al termina della seduta il presidente della commissione Giustizia Ciro Maschio (FdI). Oggi, intanto, il Consiglio Superiore della Magistratura esprimerà un parere sul decreto legge (anti- rave, rinvio dell’entrata in vigore della riforma del processo penale, ergastolo ostativo, covid). Il parere elaborato dalla sesta commissione è un giudizio in chiaro scuro del primo provvedimento voluto dal Governo Meloni. Per quanto concerne i raduni illegali, se molte criticità sono state riservate al primo testo (“formulazione eccessivamente imprecisa e generica del precetto, presenta incertezze interpretative e conseguenti criticità applicative”), passi migliorativi vengono evidenziati in merito all’emendamento del Governo: “Innanzitutto, risponde del reato solo chi organizza o promuove l’invasione arbitraria di terreni o edifici, pubblici o privati, al fine di realizzare un raduno”, non chi vi partecipa. In più la norma circoscrive maggiormente gli ambiti di applicazione: “non l’organizzazione o promozione di ogni raduno rileva nell’ambito della disposizione, ma solo quello che abbia una finalità ‘ musicale’ o altro scopo di intrattenimento. A limitare ulteriormente l’ambito della condotta penalmente rilevante vale la circostanza che dall’invasione arbitraria deve derivare un pericolo concreto per la salute o per l’incolumità pubblica, a causa dell’inosservanza delle norme in materia di sostanze stupefacenti ovvero in materia di sicurezza o di igiene degli spettacoli e delle manifestazioni pubbliche di intrattenimento, avuto riguardo anche al numero dei partecipanti ovvero allo stato dei luoghi”. Aspetto più importante, la norma non sarebbe incostituzionale in quanto “l’area di rilevanza penale preserva l’ampiezza del diritto di riunione di cui all’art. 17 Cost”. Anche il trattamento sanzionatorio “sembra essere stato calibrato sui criteri elaborati dalla Corte EDU in tema di principio di proporzione”. In merito al fine pena mai, l’espunzione dei reati contro la P. A. dal novero dei reati ostativi, “Ferma restando la riconducibilità alla discrezionalità del legislatore di ogni opzione legislativa relativa alla individuazione delle fattispecie di reato cui applicare il particolare regime di cui all’art. 4bis dell’o. p., sarebbe preferibile affrontare il tema con una più ampia e rigorosa riflessione sulla ratio delle limitazioni previste - ratio che è da ricercare nella specificità del fenomeno mafioso- e sulla riconducibilità a questa delle fattispecie delittuose da inserire nel novero dei reati ostativi”. Sull’aumento della pena minima da espiare per la richiesta di accesso alla liberazione condizionale (da 26 a 30 anni) si potrebbero presentare “profili di potenziale conflitto con quanto affermato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, che ha fissato in 25 anni il termine per rivalutare la perpetuità della pena”. Circa le prove diaboliche che i detenuti non collaboranti dovranno mettere a disposizione dell’autorità giudiziaria per sperare di accedere al beneficio, l’unico appunto mosso è quello relativo al “pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi”. Per il Csm “La previsione in parola sembra determinare un ulteriore aggravamento dell’onere probatorio gravante sul condannato non collaborante”. Infine, sul rinvio dell’entrata in vigore della riforma del processo penale gli emendamenti che stabiliscono un regime transitorio su determinati ambiti - ad esempio in materia di indagini preliminari e sentenze di non luogo a procedere - vengono accolti favorevolmente. Colpo di mano di Forza Italia, stop alla microspia Trojan per i reati di corruzione di Liana Milella La Repubblica, 22 dicembre 2022 Al Senato, il capogruppo forzista Pierantonio Zanettin presenta il disegno di legge per bloccare l’uso del captatore informatico contro i reati della pubblica amministrazione. In collera l’ex procuratore antimafia Cafiero De Raho di M5S, “così s’indebolisce la lotta alle mafie”. Stanno smantellando le norme anticorruzione. Via la legge Spazzacorrotti. Prima via i reati contro la pubblica amministrazione dall’ergastolo ostativo. Adesso via anche l’uso del Trojan. E la protagonista continua a essere Forza Italia. Per mano dell’avvocato e senatore Pierantonio Zanettin. Che ha già conquistato la cancellazione dei reati del ceppo della corruzione da quelli “ostativi”, che cioè non possono ottenere alcun beneficio, né tantomeno la liberazione condizionale. Adesso un suo nuovo disegno di legge, presentato a palazzo Madama, chiede di eliminare l’uso della microspia Trojan per gli stessi reati contro la pubblica amministrazione. A stretto giro s’arrabbia l’ex procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho, oggi deputato di M5S e vice presidente della commissione Giustizia che dice: “La maggioranza e il governo stanno indebolendo la forza dello Stato contro le mafie. Il dovere del legislatore invece è quello di proteggere i cittadini, farli sentire tutelati rispetto a ogni forma di malaffare”. Ma al Senato Zanettin cerca di mettere a segno il secondo colpo dopo quello sull’ergastolo ostativo visto che, proprio grazie a un suo emendamento da capogruppo di Forza Italia, tutti i reati che la legge Spazzacorrotti aveva introdotto tra quelli “ostativi” sonno stati eliminati. Corrotti e corruttori potranno di conseguenza ottenere benefici penitenziari più ampi. Adesso siamo al secondo round. Sfruttando anche l’onda dell’indagine conoscitiva sulle intercettazioni lanciata in commissione Giustizia dalla presidente, la senatrice leghista Giulia Bongiorno. Contro il Trojan, la microspia inserita nel cellulare che funziona non solo come un registratore, ma anche come una telecamera in grado di registrare e videoregistrare tutto quello che avviene nel suo arco di copertura. Zanettin la vede come il diavolo e scrive nella relazione al suo disegno di legge: “È lo strumento che più vìola la sfera di intimità dell’intercettato, con l’evidente rischio di una diversa destinazione d’uso atto a violare la privacy degli individui”. E ancora: “I reati contro la pubblica amministrazione vengono di fatto equiparati ai reati per criminalità organizzata e terrorismo, ammettendo l’uso di tale invasivo mezzo di ricerca della prova anche per quanto concerne tali tipologie di reati”. Zanettin cita il caso dell’inchiesta sull’ex pm Luca Palamara in cui “chat penalmente irrilevanti, disciplinarmente irrilevanti, hanno comunque penalizzano le carriere di alcuni magistrati”.  La sua idea è chiara, se dovesse passare la sua proposta, e vista la sua maggioranza ciò è ampiamente ipotizzabile, in un’indagine come quella su Palamara l’uso del Trojan non sarebbe più consentito.  Cinque punti per riformare il sistema giudiziario di Bruno Ferraro* Libero, 22 dicembre 2022 Dopo aver letto le linee programmatiche esposte in Commissione dal neo ministro della Giustizia Carlo Nordio, mi è tornata alla mente la celebre di Nino Manfredi: “Fusse che fusse la volta bona?”. Augurando al ministro di farcela e di non arenarsi come troppe volte successo ai suoi predecessori nella storia della Repubblica, esamino a volo d’uccello i punti toccati dal ministro. Riforma del Codice Vassalli di procedura e del Codice penale sostanziale. Vanno rivisti alla luce della Costituzione, ripristinando un minimo di certezza della pena, ridefinendo le pene alternative, rivedendo i benefici carcerari, controllando lo stato di vivibilità e di efficienza dei luoghi di detenzione, approfondendo il trattamento che si pensa di assicurare agli ammalati psichici oggi beneficiari di assoluzioni per aver agito in assenza della sanità mentale ma contemporaneamente rimessi in società senza i doverosi controlli. Intercettazioni. Faccio completamente mie le parole del ministro: “Profonda revisione della disciplina; rigorosa vigilanza su ogni diffusione arbitraria ed impropria; no alla diffusione selezionata e pilotata divenuta un micidiale strumento di delegittimazione personale e spesso politica”. Mi permetto di suggerire, quando necessario, una verifica sulle Procure, dal cui interno partono spesso le fughe di notizie, nell’ambito di rapporti preferenziali con alcune testate giornalistiche. Presunzione di innocenza ed abuso della custodia cautelare. Vanno di pari passo perché la custodia viene spesso, troppo spesso, usata “come surrogato temporaneo dell’incapacità dell’ordinamento di mantenere i suoi propositi”, in palese contrasto con la presunzione di innocenza stabilita dalla Costituzione. Lo Stato italiano continua a pagare pesanti risarcimenti per custodie cautelari eccessive o non giustificate. Inoltre, troppi detenuti in custodia cautelare affollano le nostre carceri accentuandone la situazione di invivibilità. Obbligatorietà dell’azione penale. È diventata dice il ministro “un intollerabile arbitrio, usata come strumento di pressione investigativa, da parte di un pm che può indagare nei confronti di tutti senza rispondere a nessuno”. Se è vero che non si può scindere il concetto di potere con il principio di responsabilità, occorre cambiare la collocazione del pm, se del caso modificando la Costituzione per evitate che tra gli indagati esistano figli e figliastri e per limitare la discrezionalità che caratterizza l’operato di gran parte delle Procure. Separazione delle carriere. La nostra Costituzione aveva visto giusto quando aveva distinto il giudice (autonomo, indipendente ed inamovibile) dal pm. Diverso è il molo delle due figure, diversa deve essere la disciplina delle loro responsabilità in caso di mala gestione. Si tratta di un principio di civiltà applicato da molti Paesi in maniera più consona ma che in Italia continua ad incontrare opposizioni preconcette. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione Decaro: “Il governo tuteli i sindaci. Anche io da indagato ho pensato al suicidio” di Simona Musco Il Dubbio, 22 dicembre 2022 Il primo cittadino di Bari rilancia l’appello: “Regole più chiare per chi amministra”. “È successo anche a me: sono stato indagato per concorso in tentato abuso d’ufficio. E ho pensato al suicidio. Ho pensato: adesso mi butto al mare con l’automobile e non sento più niente, non soffre più mia moglie, non soffrono più le mie figlie, non soffrono più le persone che mi conoscono e soprattutto non soffro più io. Per fortuna non l’ho fatto”. Antonio Decaro, sindaco di Bari e presidente di Anci, nel cerchio infuocato del processo mediatico ci è passato come tanti altri. A lui è capitato circa dieci anni fa, quando da deputato del Pd si ritrovò indagato per la presunta raccomandazione di un cugino con l’allora assessore regionale Alberto Tedesco per fargli superare un concorso indetto dall’Arpa Puglia. L’accusa aveva chiesto un anno e 4 mesi, al termine di un processo celebrato con il rito abbreviato. Ma il gup optò per l’assoluzione - poi confermata in appello - scelta che per il politico rappresentò la fine di un “incubo”. Un incubo tanto grande da spingerlo a pensare di porre fine alla sua vita. Come capitato ad altri, prima e dopo di lui, alcuni dei quali non sono riusciti a fermarsi un attimo prima: un anno, ad esempio, fa a togliersi la vita fu Angelo Burzi, fondatore di Forza Italia in Piemonte, che si uccise dopo la condanna nel processo “rimborsopoli” dopo essersi sempre proclamato innocente. Decaro ha ricordato la propria vicenda martedì scorso, durante il convegno “Magistratura e stampa. Democrazia, informazione, giurisdizione”, davanti, tra gli altri, al sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto e al presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia. Un’occasione, ha spiegato il primo cittadino, per rilanciare l’appello dell’Anci affinché la politica affronti il tema della responsabilità dei sindaci. “Avendo chiesto il rito abbreviato, dopo quattro anni, se non si fosse alzato l’avvocato Michele Laforgia a chiedere dei tempi certi, io non mi sarei candidato a fare il sindaco di Bari. L’ho presa male, perché mi ritenevo una brava persona e mi sono ritrovato indagato e su tutti i giornali e i telegiornali d’Italia per una questione molto limitata”, ha spiegato. Nonostante le accuse a suo carico fossero relativamente leggere, infatti, il suo nome finì in una maxi operazione sulla sanità nella quale c’era di tutto: dalla corruzione alla concussione, passando per la prostituzione. Un “calderone” che fagocitò anche Decaro, facendolo diventare un presunto “impresentabile” per la politica, nonostante la presunzione di innocenza. Quel tempo, per fortuna, è passato. Ma il problema rimane ancora irrisolto, tant’è che la stessa presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, rispondendo all’appello dell’Anci ha garantito ai sindaci un intervento legislativo per definire meglio le norme e circoscrivere le responsabilità. “Lo dichiaro per l’ennesima volta - ha sottolineato Decaro - non stiamo chiedendo né l’impunità né l’immunità, non stiamo chiedendo di abrogare dei reati per i sindaci e gli amministratori locali, non sarebbe giusto e sono convinto, da sindaco, che se un sindaco sbaglia deve pagare anche più degli altri. Il tema è: qual è la responsabilità del sindaco? Non ti puoi ritrovare indagato per qualunque cosa succeda nella tua città. Io credo che non esista un reato di ruolo. Chiediamo di definire i contorni delle norme”. Anche perché i dati statistici sono tremendi: in percentuale, il 93 per cento degli amministratori locali indagati per abuso d’ufficio è stato assolto o archiviato. “È giusto che i magistrati indaghino se c’è una norma che lo prevede e che il giornalista dia notizia di ciò - ha aggiunto - ma questo meccanismo, alla fine, ha portato molte persone, molti amministratori ad abbandonare il proprio ruolo. Ci sono accuse finite sui giornali e ci sono tanti amministratori che hanno abbandonato con dolore una missione che gli era stata assegnata dai cittadini. Ho conosciuto tanti che non si sono ricandidati, tanti che si sono dimessi perché sottoposti ad un’indagine che poi ha portato all’archiviazione, tanti che si sono ammalati”. Sisto ha assicurato l’intenzione del Governo “di mettere ordine” alla materia. “C’è la necessità - ha detto a margine del convegno di intervenire sul reato di abuso di ufficio. Siamo di fronte a cinquemila iscrizioni sul registro degli indagati in un anno, con sole 27 sentenze di condanna. Si valuterà se cancellare la norma o intervenire per rendere più tipiche alcune forme di abuso di ufficio, in modo da evitare che questa norma incida negativamente sulla fisiologia dell’attività amministrativa”. Contemporaneamente il ministro Carlo Nordio ha annunciato l’intenzione di riformare le intercettazioni e le regole per la loro pubblicazione, “per evitare la corsa al gossip”, quella che dà vita al processo mediatico, “molto spesso - ha sottolineato Sisto - più punitivo del processo svolto nelle aule di tribunale”. Il viceministro ha richiamato l’articolo 8 del Codice deontologico dei giornalisti, che impone il rispetto del principio della presunzione di innocenza. Che però spesso rimane ai margini, in una sorta di “accanimento terapeutico che, in nome dell’articolo 21, diventa, a mio avviso, un eccesso inaccettabile, perché provoca danni e tutto sommato non accontenta la fondamentalità del diritto dell’articolo 21, contemperato dal 15 e dal 27. E allora se ne ha questo ci aggiungiamo la deontologia ha ragione che dice che probabilmente dobbiamo riprendere il tema delle responsabilità”. L’idea di abolire o modificare il reato di abuso d’ufficio non piace al presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, secondo cui “sembra che si vogliano ridimensionare le capacità investigative proprio nel momento in cui si dovranno gestire i fondi del Pnrr”. Il processo penale, ha affermato il leader del sindacato delle toghe, “tranne casi eccezionali, non è il luogo della segretezza”. E nemmeno le indagini, per le quali il segreto è limitato a “singoli atti”. Perché “il segreto è contrario alla democrazia e va usato con cautela e in maniera eccezionale. Può servire anche a proteggere diritti fondamentali - ha aggiunto -, però non è una struttura pesante nel processo penale, che deve essere aperto. Tanto più il fatto ha creato allarme sociale tanto più ci sarà attenzione: è impossibile pensare di creare una paratia intorno al processo per renderlo impermeabile alla legittima curiosità della pubblica opinione che vuol sapere cosa succede”. Il che non significa violare i segreti investigativi, ma rendere trasparente il potere. Proprio per tale motivo ridimensionare le intercettazioni “è un messaggio politico che continuo a non comprendere, almeno finché non verrà dettagliato”. Parole che hanno suscitato meraviglia in Sisto: “Il segreto, nel nostro codice di rito, nella fase delle indagini è la regola. Questo liberismo dell’Anm mi stupisce, perché non solo non tutela il processo e l’indagato, ma non tutela il cittadino. Il processo penale non è calibrato su magistrati e avvocati, ma sul cittadino”. Caso Homerovic, un poliziotto arrestato per tortura Il Manifesto, 22 dicembre 2022 Svolta nelle indagini. Un poliziotto del commissariato romano di Primavalle è stato arrestato con l’accusa di tortura e falso ideologico per la vicenda di Hasib Omevoric. Il 36enne era precipitato il 25 luglio scorso dalla finestra della sua abitazione durante una perquisizione dai contorni poco chiari. L’ordinanza del gip, notificata dalla squadra mobile, prevede la misura cautelare domiciliare. All’agente, riporta l’Ansa, è contestato l’aver causato all’uomo, sordomuto, “un verificabile trauma psichico in virtù del quale precipitava nel vuoto dopo aver scavalcato il davanzale della finestra della stanza da letto nel tentativo di darsi alla fuga per sottrarsi alle condotte violente e minacciose in atto nei suoi confronti”. Ciò sarebbe avvenuto “con abuso dei poteri e in violazione della funzione, nel corso dell’attività volta all’identificazione” e con “il compimento di plurime e gravi condotte di violenza e minaccia”. Secondo la ricostruzione dei pm l’agente è entrato in casa di Homerovic senza apparente motivo e lo ha colpito con due schiaffi. Ha urlato con fare minaccioso “non ti azzardare mai più a fare quelle cose, a scattare foto a quella ragazzina” e ha puntato verso l’uomo un coltello da cucina. Non contento l’agente avrebbe sfondato la porta della stanza da letto e costretto Homerovic a sedersi su una sedia legandogli i polsi con il filo strappato dal ventilatore. Dopo ha continuato a minacciarlo e insultarlo. La storia è venuta alla luce a settembre scorso grazie alla denuncia dell’associazione 21 luglio, che si batte per il superamento dei campi rom e i diritti delle persone identificate con tale origine. Il 12 settembre il caso è stato al centro di una conferenza stampa alla Camera con la famiglia, il deputato Riccardo Magi (+ Europa) e l’avvocato Arturo Salerni. “Per chi è al 41 bis compact disc e CD possono essere veicoli per comunicare” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 dicembre 2022 Non si esclude a prescindere l’utilizzo del compact disk al 41 bis visto che l’ascolto della musica rientra tra le attività ricreative e culturali, ma è necessario che vengano acquisite sufficienti e adeguate garanzie affinché sia garantito che l’uso dei predetti supporti non consenta occulte comunicazioni con l’esterno. Però, nel contempo, è ragionevole il diniego dell’amministrazione penitenziaria visto che deve essere valutata l’effettiva praticabilità di mettere il lettore CD in sicurezza. È ciò che sentenzia la Cassazione sul ricorso da parte dell’Amministrazione penitenziaria avverso al Tribunale di Sorveglianza che aveva consentito l’utilizzo del CD a Crocifisso Rinzivillo, recluso al 41 bis all’Aquila. Accade che con l’ordinanza del 7 dicembre 2021, il Tribunale di sorveglianza de L’Aquila ha rigettato il reclamo presentato dall’Amministrazione penitenziaria avverso l’ordinanza emessa dal magistrato di Sorveglianza il 28 aprile 2021 che aveva accolto il reclamo presentato da Crocifisso Rinzivillo, sottoposto al 41 bis, contro il rigetto della direzione della Casa circondariale di L’Aquila della richiesta di autorizzazione all’acquisto di un lettore compact disk per l’ascolto di musica. Pertanto ha disposto che sia consentito al detenuto l’acquisto, tramite l’impresa di mantenimento, di un lettore CD e di CD musicali contrassegnati dal marchio Siae e sigillati. A fondamento della decisione, il Tribunale ha evidenziato come la musica costituisca elemento rientrante nelle attività trattamentali e rieducative delle quali è parte integrante. Il 41 bis, consente la sospensione dell’applicazione delle regole di trattamento che possono porsi in contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza, con conseguente applicazione di una serie di restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per impedire i collegamenti con l’associazione di appartenenza del detenuto. Il Tribunale di Sorveglianza ricorda che l’acquisto, da parte dei detenuti sottoposti a tale regime, di supporti funzionali al solo ascolto di brani musicali è consentito, tenuto conto che esso non è oggetto di esplicito divieto nell’art. 14 Circolare del 2 ottobre 2017 che disciplina l’uso del televisore e delle radioline e prevede le modalità di impiego di personal computer e supporti informatici. La condizione è che l’acquisto avvenga on modalità idonee a prevenire rischi per l’ordine e la sicurezza e, quindi, tramite l’impresa di mantenimento ed avendo cura che eventuali CD musicali siano dotati del marchio Siae e si presentino sigillati. Il ministero della Giustizia, però, ha proposto ricorso per Cassazione. Secondo il ricorso il divieto di detenere lettori di CD musicali per i detenuti in regime differenziato sarebbe coerente, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, con le esigenze di sicurezza riferibili al regime detentivo differenziato. Ciò rende giustificata la previsione tipizzata dei supporti la cui detenzione è consentita; si tratta di beni che devono comunque superare il controllo di sicurezza ed essere sottoposti a verifiche periodiche non praticabili con la semplice apposizione del marchio Siae o con l’acquisto tramite impresa di mantenimento, potendo comunque essere veicolati messaggi violenti o di adesione a stili di vita criminali o di contrapposizione allo Stato. Per la Cassazione il ricorso è fondato, nonostante ribadisca che l’ammissione da parte dell’Amministrazione all’uso di lettori compact disk e all’acquisto di supporti musicali possa avvenire indiscriminatamente in ogni situazione e contesto, dovendo bilanciarsi l’esigenza del detenuto con quella di controllo dell’Amministrazione penitenziaria, con specifico riguardo ai detenuti sottoposti al regime penitenziario differenziato. Tali esigenze riguardano, principalmente, la necessità di evitare forme di comunicazione tra il detenuto e l’organizzazione di appartenenza. Per salvaguardare tale necessità - sottolinea la Corte Suprema - occorre che sia consentito all’Amministrazione di mettere in sicurezza i dispositivi per evitare sia manomissioni che l’accesso agevole ai relativi contenuti digitali. Ciò deve ritenersi in piena coerenza rispetto alla previsione del 41 bis che prevede delle limitazioni all’ordinario trattamento detentivo in funzione dell’esigenza di impedire comunicazioni tra il detenuto e l’esterno allo scopo di evitare il mantenimento di rapporti con il contesto delinquenziale di appartenenza. Per la Cassazione occorre, quindi, che vengano contemperate le contrapposte esigenze che vedono, la possibilità, da un lato, di esercitare il diritto al proficuo percorso trattamentale con ogni strumento utile a rendere effettivo tale obiettivo, dall’altro di preservare le ragioni che impongono di adottare le cautele idonee per impedire ogni forma di collegamento del detenuto con l’ambiente criminale di provenienza. A tal fine, condivide la considerazione del ministero della Giustizia per cui non è sufficiente la semplice apposizione del contrassegno Siae sui supporti musicali atteso che si tratta di elemento che attesta il rispetto della normativa sul diritto di autore, senza garantire alcunché sui contenuti del CD e, ancora meno, sul dispositivo di lettura. Per i giudici supremi è necessario, quindi, che vengano acquisite sufficienti e adeguate garanzie affinché sia garantito che l’uso dei predetti supporti non consenta occulte comunicazioni con l’esterno. Anche il lettore CD, potenzialmente, potrebbe essere utilizzato come veicolo. E si rifà alle considerazioni già date in una sentenza precedente in merito all’analogo discorso. Anche in quel caso è stato concluso che è necessario che “il Tribunale, prima di riconoscere il diritto del detenuto a utilizzare lettori di compact disc per uso ricreativo, verifichi se tale utilizzo, pur in assoluto non precluso dalla normativa vigente, possa nondimeno comportare degli inesigibili adempimenti da parte dell’Amministrazione penitenziaria in relazione agli indispensabili interventi sui dispositivi e alle verifiche sui supporti, tali da rendere ragionevole la scelta, operata dalla direzione del carcere, di non consentirne l’utilizzo”. Per questo accoglie il ricorso del ministero della Giustizia con conseguente annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di sorveglianza de L’Aquila. Estorsione e non truffa aggravata se la minaccia appare concreta di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 22 dicembre 2022 Lo ha chiarito la Corte di cassazione con la sentenza n. 48269 depositata ieri. La coazione della volontà, presente nel reato di estorsione, si distingue dalla manipolazione agita attraverso l’induzione in errore, tipica della truffa, in quanto solo nel primo caso l’azione illecita si presenta irresistibile. La Corte di cassazione, sentenza n. 48269 depositata oggi, fissa la differenza tra le due fattispecie respingendo il ricorso di un uomo condannato dalla Corte di appello di Torino per il delitto di estorsione continuata, aggravata dall’aver commesso il fatto in danno di persona ultra sessantacinquenne, con la ritenuta recidiva qualificata. Per la Corte di merito i fatti accertati - valorizzato il concreto timore ingenerato nella vittima, idoneo a coartarne la libertà di determinazione patrimoniale per effetto di un male ingiusto direttamente dipendente dalla volontà dell’agente - integravano il paradigma dell’articolo 629 cod. pen., vale a dire l’estorsione. Secondo il ricorrente invece l’inquadramento giuridico era errato versandosi piuttosto nel delitto di truffa aggravata dall’aver ingenerato nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario. Per la II Sezione penale, però, se si individua nella concreta efficacia coercitiva della minaccia l’attributo della condotta utile per distinguere la truffa dall’estorsione perde rilevanza anche la eventuale irrealizzabilità del male prospettato, essendo l’analisi richiesta limitata alla verifica ex ante della concreta efficacia coercitiva della azione minatoria. Così individuato nel costringimento forzato della vittima l’elemento caratterizzante del reato di estorsione, l’idoneità del male minacciato ad incidere sul processo volitivo non può che essere valutato ex ante ed in modo indipendente dalla effettiva realizzabilità dell’evento dannoso prospettato. La Suprema corte dunque nel rigettare il motivo afferma il principio per cui l’elemento atto a differenziare la condotta estorsiva da quella di truffa aggravata “vessatoria” deve cogliersi nelle modalità della condotta, valuta ex ante, che può qualificarsi come estorsiva se connotata dalla minaccia di un male concretamente realizzabile ad opera dello stesso agente ed altresì idonea a coartare la volontà della vittima, ponendola di fronte al bivio di sottostare al ricatto o subire le conseguenze dannose del male minacciato. La valutazione della capacità di concreta ed effettiva coazione della minaccia, prosegue la Corte, è indagine di merito, che deve essere effettuata prendendo in esame le circostanze del caso concreto, ovvero sia la potenza oggettiva della minaccia che la sua soggettiva incidenza sulla specifica vittima. E tale verifica, se congruamente e logicamente motivata dal giudice di merito, non è ulteriormente sindacabile nel giudizio di legittimità. La Corte territoriale, conclude la Cassazione, ha dunque correttamente applicato tali principi, “divisando invincibile effetto coercitivo in una minaccia credibile, per come rappresentata, cui la stessa persona offesa attribuì efficacia intimidatrice, tanto da cadere in uno stato di prostrazione immediatamente percepibile ab externo”. Non viene meno il reato di invasione di edifici per chi occupa e successivamente regolarizza la locazione di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 22 dicembre 2022 Le cause estintive fanno decadere l’azione penale e vanno perciò interpretate in maniera restrittiva e non per analogia. La regolarizzazione ammnistrativa non estingue il reato commesso prima dell’acquisto legittimo del possesso: scatta e permane il reato di invasione di edifici così come l’interesse punitivo dello Stato, anche dopo che l’autore ottiene il titolo legale per occupare l’immobile di cui si era impossessato illegalmente. La Corte di cassazione - con la sentenza n. 48273/2022 - ha bocciato come extra ordinem la decisione del giudice di appello che aveva dichiarato la causa di non punibilità per avvenuta regolarizzazione amministrativa in capo agli imputati del reato di invasione di edifici. Nel caso concreto la difesa aveva fatto rilevare l’avvenuta regolarizzazione dell’occupazione e il pagamento dei primi canoni di locazione. E il giudice aveva dichiarato di non doversi più procedere al verificarsi di tale circostanza di fatto successiva. La legge non prevede espressamente la regolarizzazione amministrativa come causa di estinzione del reato e il giudice non può dichiarare tale causa di non punibilità interrompendo di fatto il corso dell’azione penale. Infatti, la successiva regolarizzazione lascia intatto l’interesse dello Stato a perseguire il reato già consumatosi. Nessuna deroga quindi - afferma la Cassazione penale - alla tassatività delle cause di non punibilità previste dalla legge: - rimessione della querela per i reati perseguibili su iniziativa della parte privata: - sospensione condizionale (se conclusa con sito positivo; - oblazione in caso di reati contravvenzionali; - morte dell’imputato prima della condanna definitiva; - perdono giudiziale; - amnistia propria e - l’avvenuto decorso della prescrizione del reato. Liguria. Eletto il Garante regionale dei detenuti: è Doriano Saracino genovatoday.it, 22 dicembre 2022 Il Consiglio regionale della Liguria ha nominato Doriano Saracino garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale e Andrea Campanile come garante delle vittime di reato. Saracino, storico esponente della Comunità di Sant’Egidio, è stato eletto all’unanimità; l’avvocato del foro di Genova Campanile invece con 29 voti a favore e una scheda nulla a a scrutinio segreto. Si conclude così una vicenda che si trascinava da diverso tempo e che aveva portato il consigliere regionale Ferruccio Sansa a fare lo sciopero della fame nel tentativo di accelerare i tempi per l’elezione del garante dei detenuti, come poi avvenuto.  Soddisfatto il consigliere regionale Gianni Pastorino di Linea Condivisa: “Finisce così un percorso iniziato nel 2008 con la presentazione della legge, che poi io ho ripreso nel 2016. Grazie agli avvocati Alessandra Ballerini e Almerino Petrolati l’abbiamo riscritta, sono riuscito a farla approvare proprio alla fine della decima legislatura a luglio del 2020 colmando una mancanza che ci metteva fra le ultimissime regioni d’Italia per l’assenza di un garante dei detenuti. Ci sono poi voluti due anni di sforzi e pressioni per arrivare all’elezione di Saracino. Mi spiace solo di non essere riuscito a convincere l’opposizione a presentare la candidatura di Alessandra Ballerini che considero la miglior esperta di questioni carcerarie nel nostro territorio ma anche una delle maggiori esperte a livello nazionale. È stata comunque scelta una persona di valore. Credo fosse opportuno colmare questa lacuna: a ora, siamo certi, che i detenuti e le detenute, le loro famiglie, chi lavora in carcere a qualsiasi titolo, avranno un supporto e un confronto diretto con il nuovo garante”. Con un lungo post sulla propria pagina Facebook Doriano Saracino ha commentato: “Il consiglio regionale mi ha nominato garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Non semplicemente garante dei detenuti ma di tutte le persone che si trovano in una condizione di limitazione della loro sfera personale di libertà. Il pensiero va quindi, oltre che a tutte le persone che si trovano nei sei istituti penitenziari liguri, anche a tutte le persone che si trovano nelle Rems perché soggetti a problemi psichiatrici e sottoposti a misure di sicurezza, o sottoposti a Trattamento sanitario obbligatorio (Tso), o agli stranieri fermati sul territorio regionale, e segnatamente alla frontiera italo-francese e destinati ai Centri di permanenza per i rimpatri, ed ancora a chi si trova, per misura alternativa alla detenzione, in una comunità terapeutica o d’accoglienza. Il garante regionale inoltre, su delega del garante nazionale, può essere chiamato a vigilare anche su altre strutture, quali le strutture residenziali per anziani e per disabili”. “Per raggiungere l’obiettivo di un carcere costituzionalmente orientato alla rieducazione e al reinserimento - ha aggiunto - il trattamento non può essere contrario a senso di umanità. A ciò si giunge non solo vigilando affinché non vi siano violazioni dei diritti fondamentali della persona, ma anche operando perché vengano tutelati, con azioni positive, tutti quei diritti sociali quali l’istruzione, la salute, la formazione professionale ed il lavoro. Le carceri sovraffollate devono svuotarsi rendendo praticabili, ove possibile, le misure alternative alla detenzione, che hanno dato buona prova anche durante l’emergenza pandemica. Un carcere con un minor numero di detenuti però non basta: esso deve riempirsi di opportunità. Un carcere più giusto è un carcere che aiuta a reinserirsi, e quindi che produce più sicurezza per tutta la società. Perché questi siano obiettivi pienamente perseguibili, occorre che le diverse istituzioni entrino in dialogo: il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, le direzioni delle carceri, le Asl, la polizia penitenziaria, i comuni, il mondo della scuola e quello della formazione professionale, così come è importante che le diverse figure di garanzia collaborino tra di loro: difensore civico, garante dell’infanzia, garante delle vittime di reato e garante delle persone sottoposte a limitazioni della libertà personale. In particolare, non vanno posti in contrapposizione le figure di garante delle persone private della libertà e quello delle vittime di reato: la direzione verso cui la giustizia italiana deve muoversi è stata indicata dalla riforma Cartabia, con la valorizzazione della giustizia riparativa”. “A questo fine - ha concluso sono fondamentali le varie associazioni di volontariato, comprese quelle che si occupano di donne maltrattate e di altre vittime di reati violenti, il terzo settore che opera in carcere, le cooperative di inserimento lavorativo, le associazioni culturali e sportive e le varie realtà che operano in questo delicato settore. Il mio impegno è quindi quello di incontrare al più presto tali realtà nonché di visitare quanto prima le carceri e le Rems della Liguria. Infine il mio pensiero va alle forze politiche che all’unanimità mi hanno votato. Interpreto tale voto come un segno di fiducia che diventa per me un impegno ad ad adoperarmi in costante dialogo con tutti i rappresentanti istituzionali perché la Regione Liguria possa adempiere ai propri impegni e promuovere al meglio i diritti di tutti, con particolare attenzione ai soggetti che a vario titolo sono assoggettati a misure restrittive: detenuti, tossicodipendenti con pene alternative alla detenzione, malati psichici sottoposti a misure di sicurezza, stranieri destinati ad essere rimpatriati, ma anche anziani e disabili. Nel mio percorso personale ho incontrato spesso persone con simili situazioni grazie alla Comunità di Sant’Egidio, e negli anni più recenti ho dedicato ad essi alcuni studi ed attività di ricerca. Ora sono chiamato ad assumere un ruolo diverso, quello di garante. Persone, diritti, libertà: queste le parole chiave del mio nuovo impegno”. Salerno. “Carceri, un agente ogni due detenuti”  di Eleonora Tedesco La Città di Salerno, 22 dicembre 2022 Presentata la relazione sugli istituti di pena in provincia. Allarme scioperi e tentativi di suicidio: “Troppi casi inascoltati”. Le persone detenute nei tre istituti della provincia di Salerno sono (al 30 giugno 2022) complessivamente 517, di cui 55 stranieri per una capienza regolamentare che risulta essere di 490 posti. Più nel dettaglio, l’Icatt di Eboli ospita 38 detenuti (48 nel 2021), la Casa Circondariale di Fuorni ne alloggia 429 (erano 454 l’anno scorso) mentre la Casa Circondariale di Vallo della Lucania fa rilevare la presenza di 50 ristretti. A fronte di questa popolazione carceraria, gli agenti di pena sono complessivamente 298 che significa 0,58 agenti in pianta stabile e 0,3-0,4 agenti effettivamente presenti per detenuto. A fotografare la situazione degli istituti di pena salernitani è la relazione semestrale con i dati raccolti dal garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale con la collaborazione dell’Osservatorio sulla detenzione della Regione Campania. Marginalità senza ascolto. Secondo i numeri contenuti nel rapporto semestrale, nei primi sei mesi del 2022 si sono registrati 81 casi di sciopero della fame, 8 tentativi di suicidio e un suicidio avvenuto a Fuorni. “In questo momento registriamo in Campania 6.853 presenze; 12 mila persone nell’area penale esterna. di queste persone 1356 sono tossicodipendenti (169 sono a Fuorni) e la metà sono state denunciate dai familiari. Ora - riflette il garante Samuele Ciambriello - se un familiare denuncia un figlio pensando che il carcere sia la risposta per allontanarlo da altri reati, vuol dire che è fallito l’insieme del sistema socio sanitario. E così anche nel caso dei detenuti con malattie psichiatriche e, anche in questo caso, la metà viene denunciata dai familiari”. La questione, allora, considera Ciambriello, “è quale carcere vogliamo e per chi. Certamente per i reati gravi ma non per rispondere alle marginalità. Mancano figure sociali, abbiamo detenuti immigrati senza mediatori linguisti. Il rischio è la recidiva”. Carcerazione preventiva e depenalizzazione. Il tema, quindi, solleva altre due questioni: l’uso della carcerazione preventiva e la depenalizzazione dei reati. Temi che in questo momento sono discussi a maggior ragione in virtù dell’imminente entrata in vigore della riforma Cartabia. Perché, come ha spiegato il capo della Procura della Repubblica di Salerno, Giuseppe Borrelli, “il cattivo funzionamento del sistema carcerario è il riflesso del fatto che è il sistema processuale che non funziona, anzi determina la stortura della carcerazione cautelare che è diventato l’unico strumento per la celebrazione del processo”. La macchina della giustizia, insomma, con l’insieme delle sue storture determina una condizione per cui in carcere “ci vanno soltanto i disperati e i camorristi”, aggiunge il procuratore capo. “Le riforme al Codice di procedura penale considerano il carcere come estrema ratio prevedendo una serie di sanzioni alternative. Credo che, in realtà c’è un problema culturale perché l’idea che la restrizione possa essere l’unica strada per il recupero di un soggetto è largamente diffusa e deve essere superata. Se una critica può farsi rispetto al nuovo regime sta nel fatto che questa nuova legislazione è mancata di dibattito nella società, quindi mancando la predisposizione a una nuova idea di pena si vedrà come reagiranno. È evidente, però, che l’impianto delle misure alternative deve avere una sua serietà e, in questo caso si rischia una riforma di breve respiro”. I problemi della riforma. Critiche condivise e ulteriormente argomentate dalla presidente del Tribunale di Sorveglianza, Monica Amirante, che rileva come sia mancata, negli anni “una riforma che fosse organica, coraggiosa e realmente funzionale alle risposte. Questa, rischia di avere un effetto “rinculo”, proprio come accade alle pistole. Potenziare i domiciliari, ad esempio, vuol dire probabilmente svuotare le carceri e avere il placet dell’Europa ma non assolve al ruolo costituzionalmente di rieducazione e di tutela del detenuto che deve poter essere messo in condizione di conoscere una realtà completamente differente da quella criminale. E, in questo senso ha un valore l’affidamento ai servizi sociali”. Alla presentazione del rapporto ha partecipato anche l’assessore alle Politiche sociali Paola De Roberto, che si è soffermata proprio sul contributo che deve arrivare dalla rete del Terzo settore e dalle Istituzioni. Roma. Intervista a padre Vittorio Trani, cappellano da 45 anni del carcere di Regina Coeli di Roberto Montoya rainews.it, 22 dicembre 2022 Ascolto, vicinanza e senso di Carità verso il detenuto, indipendentemente dal reato commesso. Volontari e cappellani svolgono un lavoro fondamentale nel penitenziario romano: aiuto e supporto per le necessità dei reclusi con forte senso di solidarietà e grande rispetto verso la dignità della persona. Nella storia dell’umanità la Bibbia racconta che a finire in prigione sono stati anche molti che erano vicini a Dio: Giuseppe, Geremia, Daniele, Giovanni Battista, Pietro, Giovanni, Giacomo, Paolo, e persino lo stesso Gesù. Tutti quanti hanno sperimentato le sbarre della prigione, la sofferenza della separazione dai propri cari: oscurità, oppressione e solitudine. Nonostante il carcere sia luogo di grandi sofferenze, pagato il conto con la giustizia, una volta usciti non ci si sente più del tutto liberi. Il pregiudizio della società, infatti, incapace di perdonare fino in fondo, chiude le porte a ogni possibilità di cambiamento per chi si trova nella condizione di ex detenuto, una condizione pesante che conduce, ingiustamente, ad una condanna perpetua. Papa Francesco durante l’udienza del 2016 illustra le opere di Misericordia citando il Vangelo di Matteo: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare; avevo sete e mi avete dato da bere; ero nudo, profugo, malato, in carcere e mi avete assistiti”. E ricorda i fratelli in carcere: “Non possono esserci condanne senza finestre di speranza - aggiunge - che rappresentino una via d’uscita per una vita migliore”. Secondo fonti del ministero della Giustizia, la popolazione carceraria nella casa circondariale di Regina Coeli accoglie 1019 reclusi, di cui 534 stranieri provenienti da realtà diverse, tutti sotto la protezione del mantello della Virgo Maria. L’Istituto penitenziario si trova nel cuore della Città Eterna, nel rione di Trastevere, a soli 1200 metri di distanza da San Pietro. I romani, per esorcizzare la drammatica situazione di sofferenza all’interno del penitenziario, ironicamente gli hanno dato l’appellativo di “artigianale Bottega” o il signorile “Hotel trasteverino”. Via della Lungara è stata visitata da quattro pontefici: Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, e Papa Francesco. La visita storica di Giovanni Paolo II durante l’anno Giubilare fece risuonare la parola “misericordia”, antica ma sempre nuova. Le cronache di Roma ci raccontano che il momento più toccante della visita fu dopo la messa in rotonda a cui avevano assistito trecento detenuti in cui il pontefice chiese pubblicamente al parlamento italiano “Un gesto di clemenza in nome di Gesù, anche lui carcerato”. Indipendentemente dalla fede, i temi della pena e della giustizia devono interessare la persona in quanto riguardanti la dignità dell’essere umano. Gandhi diceva che “per avere il polso di una comunità è sufficiente dare uno sguardo là dove essa racchiude le sue miserie”. I detenuti soffrono la perdita di libertà, della dignità, ambienti difficili, vergogna, senso di colpa, depressione e ansia. Ma si aspettano anche delle buone notizie; di essere accettati, compresi e di avere l’opportunità di fare ammenda per ciò che hanno fatto. Per i cristiani che si sentano chiamati ad andare nelle carceri per visitare e assistere i detenuti sarebbe come dare un salto di qualità, un’unica opportunità pastorale, quello di incontrare il Gesù che passa, le ferite più profonde dell’umanità. “Il carcere, in quanto luogo di pena nel duplice senso di punizione e di sofferenza, ha molto bisogno di attenzione e di umanità. È un luogo dove tutti, Polizia Penitenziaria, Cappellani, educatori e volontari, sono chiamati al difficile compito di curare le ferite di coloro che, per errori fatti, si trovano privati della loro libertà personale… Tuttavia, a causa della carenza di personale e del cronico sovraffollamento, il faticoso e delicato lavoro rischia di essere in parte vanificato”.  I volontari i cappellani, gli educatori e tutta la direzione del penitenziario è fondamentale all’interno delle carceri, che cercano ogni giorno di supportare la persona detenuta attraverso diverse attività di confronto, condivisione e di amicizia in attesa della “fine della pena”. La figura del Cappellano penitenziario, iscritta nel nostro sistema legislativo, ad esempio, svolge una missione impegnativa che non si riduce al mero buonismo cattolico. È una vera e propria istituzione e come tale va considerata poiché assicura la dimensione spirituale che è una prerogativa dell’essere umano. Papa Francesco: “Prendersi cura dei detenuti fa bene a tutti. Sai cosa penso io, quando entro in un carcere? Perché loro e non io?”. Abbiamo incontrato Vittorio Trani, Cappellano da 45 anni del carcere di Regina Coeli, autore del libro: “Come è in cielo, cosi sia in terra” Padre Vittorio, qual è il motivo per cui una persona dovrebbe visitare il carcere e i detenuti. A cosa andiamo incontro? La visita ad un detenuto rappresenta una forma di maturità sociale. Un cittadino che condivide l’esistenza accanto all’altro che finisce in carcere è un soggetto che ha una forte solidarietà e un grande rispetto verso la dignità della persona. L’impegno che mette la società nei confronti delle persone che hanno commesso reato è un impegno in termini di energia, di forza, ecc. che deve produrre del positivo. Se la pena rimane soltanto un fatto punitivo difficilmente si riesce a costruire una linea nuova dentro la persona che ha sbagliato. Quindi nasce una necessità duplice: la solidarietà, l’aiuto e la vicinanza fino alla “fine della pena”, in uno sforzo continuo di aiuto verso l’altro. Di cosa si occupa nello specifico Vo.Re.Co all’interno del carcere di Regina Coeli? L’Associazione è composta da due tronconi: quelli che lavorano all’interno del carcere e quelli che lavorano nel Centro di accoglienza che si trova accanto al penitenziario. Nel Centro diamo una mano alle persone che vivono in mezzo alla strada, lungo il fiume, sotto i ponti, intorno a San Pietro a cui offriamo servizi essenziali come ad esempio provvedere alla colazione e alla cena per tutti in ogni giorno dell’anno. Durante la settimana diamo servizi fondamentali (medico, oculista, medicine, Caf, avvocato, psicologo, analisi...). Inoltre, distribuiamo i pacchi di viveri agli indigenti e a coloro che alloggiano in dormitorio. I detenuti che escono dal carcere, non hanno famiglia o punti di appoggi esterni, in genere vengono accolti per un certo periodo per dare la possibilità di organizzarsi all’esterno. Invece i volontari che lavorano in carcere? Per un sacerdote contare sulla collaborazione dei laici all’interno del carcere è molto importante, e questo rende la comunità viva. I volontari hanno un impegno settimanale e ognuno ha in affido un settore proprio. Incontrano i detenuti, cercano di dare una risposta ai bisogni materiali e organizzano il colloquio. Ascolto, vicinanza e senso di Carità, soprattutto per coloro che non hanno una famiglia, diventano molto importanti, rappresentando per i detenuti uno sfogo e un sollievo importantissimi. Poi c’è l’aspetto religioso curato insieme al Cappellano. I volontari sono maggiormente, sacerdoti, catechisti e suore. In questi giorni abbiamo terminato un concorso letterario con la premiazione dei vincitori. Due giornalisti stanno facendo un corso di giornalismo, una suora, insieme ad altri volontari, nel periodo natalizio fanno delle attività con i detenuti che hanno problemi di tossicodipendenza; un altro gruppo, invece, si occupa di fare animazione e organizzare giochi. Padre Vittorio, i detenuti come trascorrono in carcere le loro giornate? L’istituto strutturalmente è figlio del momento storico in cui è stato costruito: il 1881. A quel tempo, lo schema degli edifici destinati alle prigioni era impostato sul modello statunitense (protestante), che vedeva il momento della carcerazione come un momento di redenzione. In quegli anni si cominciò a chiamare il carcere anche con il nome di penitenziario, in cui il detenuto doveva essere come un monaco, chiuso nella sua cella, sempre in silenzio con la scelta di un piccolo spazio esterno e basta. Regina Coeli è figlio di quella visione: come struttura venne costruito secondo quei canoni, ma non venne mai applicata la severa organizzazione interna delle carceri americane. Attualmente il detenuto, se è impegnato in qualche attività, rimane nel suo settore. Da qualche anno abbiamo sistemato gli scantinati, prima abbandonati, trasformandoli in biblioteca, spazi dove si possono fare delle attività minime perché non tutti vi hanno accesso. Quella di usufruire di spazi fisici da destinare ad alcune attività dei detenuti è una conquista recente. L’Italia, per questo ritardo, è stata punita dall’Europa, pertanto adesso, per colmare questa lacuna, sono stati concessi ai detenuti dei tempi più lunghi di permanenza fuori dalla cella. Lei assiste da circa 50 anni i detenuti in carcere. Dall’inizio del suo impegno quanto è cambiata la legislazione? Sulla carta tantissimo, nella pratica un po’ di meno. Le aperture ci sono state, ma si fatica poi a tradurle in linee operative. Abbiamo assistito ad un cambiamento radicale dal 1975 al 1986, anni in cui sono state introdotte le misure alternative con tanti provvedimenti interni: ad esempio l’introduzione di educatori e psicologi, figure importanti all’interno del carcere. Anche nell’impostazione generale sono stati fatti passi straordinari introducendo il concetto di dignità della persona, mettendo al centro dell’attenzione generale il tema della rieducazione Tuttavia, siamo ancora lontani da quello che fu l’intento della Costituzione. Il carcere ancora si presenta come unica risorsa a disposizione dello Stato di fronte a chi commette un reato. Qualsiasi reato. Non ci sono percorsi alternativi. Mi faccia un esempio? Prendiamo i tossicodipendenti. La gran parte di essi sono persone che non sanno riconoscere la mano destra dalla mano sinistra. L’unica cosa che, come società, sappiamo fare è attivare il percorso detentivo di riabilitazione. Altrettanto vale per le persone con problemi mentali. Quindi le carceri non sono utilizzate con il significato originario che i nostri padri costituenti hanno dato: mancano percorsi adatti che diano più completezza ai percorsi individuali. In carcere si riesce a cambiare vita? In carcere la persona vive un momento della sua esistenza di grande difficoltà. Il carcere in quanto tale ha poco da dire, invece ci sono esperienze personali di cambiamento provocate dalla condizione di essere detenuti, quali: la mancanza degli affetti, l’impossibilità di assistere alla nascita di un figlio, la sofferenza e quant’altro. Ci sono tante persone che dopo ripetute carcerazioni cominciano ad avere la nausea del carcere. Questo li stimola a scegliere strade diverse. Poi, c’è il discorso della fede che si fa avanti, è qualcosa di particolare all’interno di questa realtà. In genere lo stato di difficoltà spinge un po’ il detenuto a ripensare tutto il senso della sua esistenza. Sotto questo profilo, come operatori pastorali, dobbiamo essere capaci di seminare con molta libertà, senza pretendere nulla e con grande rispetto. Perché ogni gesto, ogni parola può diventare il “La” della Provvidenza, un cammino di riscoperta di un proprio percorso interiore. Il Signore sa come agire. Ci sono casi di conversione? Tanti. Nella sofferenza il ritorno al Signore è un’esperienza più frequente di quanto si possa pensare. Ospedali, carceri sono spazi dove si è portati ad alzare lo sguardo verso il cielo. Faccio riferimento, a proposito, ad un piccolo episodio. Un pomeriggio, camminavo per Piazza Venezia spensieratamente. Da lontano ho visto un giovane con la sua ragazza che, ad un certo punto, allarga le braccia e mi corre incontro. Per un attimo ho avuto paura, ma poi, abbracciandomi, mi ha ringraziato. Parlandomi mi raccontava: “Lei forse non ricorda, ma io sono stato a Regina Coeli per 7 giorni. Ero arrivato il giovedì sera nella terza Sezione. La domenica mattina i compagni mi invitarono a venire a messa. Sono sceso in Rotonda dove già Lei ci aspettava. Appena entrato, mi sono appoggiato con le spalle al cancello. Volevo far capire a tutti i presenti che stavo facendo lo spettatore, perché queste cose non mi riguardavano. Quindi? Ad un certo punto mi sono soffermato su una frase di quell’omelia. Lei disse - Se preghiamo con Fede, affidandoci a Dio veramente, Lui sa come dipanare i nostri problemi” -. E continuò raccontandomi che il pomeriggio, tornando in cella, si mise a pregare, a pregare intensamente. Dopo due giorni gli arrivò il foglio di scarcerazione. Ecco, all’interno di questa realtà la vicinanza, la frase ascoltata, una pacca sulla spalla possono cambiare la situazione delle persone e dare la luce della Speranza che può portare ad un cambiamento. Dio si serve di tutto. Padre Vittorio i casi di suicidio sono molto noti nelle carceri. Perché si arriva a questi casi estremi? Il carcere diventa lo spazio dove maturano situazioni particolari. Il suicidio lucido è raro. Invece, il suicidio che matura per situazioni che si vivono all’interno del carcere è, purtroppo, frequente. Una condanna pesante o una situazione familiare di grave abbandono, di allontanamento (moglie o compagna che si lasciano) portano il detenuto ad uno stato di profonda fragilità incapace di reggere l’onda d’urto, spingendo a commettere atti estremi. Anche l’emulazione è un argomento molto delicato e da tenere presente all’interno delle carceri. Oggi la metà dei detenuti nel carcere di Regina Coeli è di origini straniere. Che esperienza ne trae? Regina Coeli e San Vittore di Milano sono le carceri di prima accoglienza che, a partire dagli anni 90, hanno la maggioranza di detenuti di provenienza straniera. A Roma c’è una concentrazione enorme di persone che sono dislocate nelle periferie e che non hanno documenti, non hanno possibilità di lavoro e sono un po’ alla mercé della situazione, anche di coloro che vogliono utilizzarli in un certo modo. Abbiamo una massa di persone che arrivano in carcere dal territorio e che interpellano la società perché si trovano a vivere situazioni molto delicate. Prima della caduta del Muro di Berlino avevamo il 30% di Nord Africani; poi dal ‘90 fino al 2000 la popolazione carceraria era di origine albanese; dal 2000 rumena. Chi arriva qui, si accorge che la popolazione carceraria è composta da persone che provengono da oltre 60 nazioni, tanto da far sembrare il penitenziario una piccola ONU. La maggioranza vive una situazione di isolamento delicatissima in carcere perché non hanno famiglia e hanno svariate esigenze. Anche dal punto di vista pastorale abbiamo dovuto adeguarci alla situazione: abbiamo tracciato un percorso molto preciso, siamo vicini all’Uomo, dobbiamo fare in modo di camminare insieme, dare sostegno. Poi viene il resto. In che maniera vivrete le feste natalizie? Ci sono delle piccole iniziative che sono molto importanti. C’è l’organizzazione dei presepi in ogni settore; l’istallazione del grande presepe nella rotonda che viene da Napoli. Il giorno di Natale è prevista la visita degli zampognari che animeranno anche la nostra messa, facendo poi il giro per ogni settore del carcere. Per la vigilia di Natale regaliamo ad ogni stanza un panettone accompagnato da un piccolo biglietto di auguri di cappellani e volontari, come segno di vicinanza, facendo il giro per tutte le circa 300 stanze. Nel periodo natalizio fino ad Epifania nei settori organizziamo delle tombole, riunendo, con l’aiuto dei volontari, i detenuti a gruppi. Invece il giorno della Befana facciamo trovare la calza sulla porta di ogni stanza. In questo periodo stiamo organizzando, un paio di sezioni per volta, anche ‘le pizzettate’. Tutto questo per creare vicinanza, fratellanza, un minimo di calore umano, nel periodo dell’anno in cui il calore non può essere negato a nessuno. Piacenza. La giornalista Chiappini a Cives: il carcere non è vendetta pubblica di Stefania Micheli ilnuovogiornale.it, 22 dicembre 2022 Di carcere in Italia si parla poco o non abbastanza, una realtà a cui le persone “perbene” tendono a sfuggire quasi negandone la presenza, purtroppo tanta parte dell’opinione pubblica, nonché molti politici in cerca di facili consensi, preferisce discutere di punizione piuttosto che di rieducazione. Eppure la nostra Costituzione sancisce che la pena deve essere prima di tutto rieducativa e chi è in prigione nolente o volente è parte della nostra comunità e quindi prima o poi uscirà e tornerà all’interno della società. Per questa mancanza di attenzione i dati statistici parlano chiaro, in Italia la recidiva degli ex detenuti risulta essere altissima, sette su dieci tornano a delinquere, ma la percentuale precipita all’uno per cento per l’esigua minoranza di chi in carcere ha potuto lavorare. Per questo l’impegno di persone come Carla Chiappini e Alberto Gromi, ospiti del corso Cives presso l’Università cattolica di Piacenza ed impegnati in prima persona all’interno delle carceri italiane, creando laboratori di scrittura, risulta essere di fondamentale importanza. La giornalista Chiappini ha raccontato le problematiche più salienti delle carceri italiane legate al sovraffollamento, alla violenza, all’inattività di uomini e donne costretti in spazi ridotti a volte anche con problematiche igieniche a causa della scarsità d’acqua messa a disposizione, sino arrivare al dramma dei suicidi che in Italia è una realtà in continuo aumento, tanto che la loro frequenza è di circa venti volte maggiore rispetto a quanto avviene tra le persone libere. Ha anche detto come la scrittura autobiografica sia uno strumento molto importante per raccontare sè stessi e gli altri e nella lettura di alcuni testi di detenuti fatta dal professor Gromi è emersa una sensibilità inaspettata per molti dei partecipanti. Chiappini ha parlato infine anche delle persone messe alla prova, ovvero di coloro che richiedono una sospensione del procedimento penale nella sua fase decisoria di primo grado per reati minori e che partecipano alla pubblicazione della rivista “Sosta forzata” che la giornalista stessa dirige, sottolineando l’importanza formativa dell’esperienza per le persone coinvolte. Cives con questo appuntamento ha concluso l’anno 2022, la terza parte del corso dal titolo Zona Franca riprenderà il 20 gennaio presso la Fondazione di Piacenza e Vigevano con l’incontro aperto al pubblico che vedrà la partecipazione del fotografo premio Pulitzer Lorenzo Tugnoli. Vigevano (Pv). L’apicoltura diventa la chiave per uscire dal carcere con il corso di Alberto Pizzini di Vittorio Orsina informatorelomellino.it, 22 dicembre 2022 Alberto Pizzini, noto veterinario mortarese che lavora per Ats, sta tenendo un corso di apicoltura presso il carcere dei Piccolini a Vigevano per rieducare e creare un futuro ai detenuti. Ne sono coinvolti nove del settore maschile. Presto si attiverà un corso anche per il settore femminile. Il corso nasce dalle volontà di Alberto Pizzini e del presidente dei “Nasi Arcobaleno Enrico Malandra”, associazione che lavora all’interno del carcere con percorsi riabilitativi. Sia la direzione sanitaria del carcere che Claudia Costa, un’assistente volontaria che da anni lavora con i detenuti su attività di bricolage e piccolo artigianato, hanno dato il loro assenso e plauso per l’iniziativa. Tanto che si è chiesta la collaborazione di Api Lombardia, l’associazione di riferimento per gli apicoltori, che rilascerà dei diplomi ai frequentatori di questo corso, il quale si compone di sette lezioni teoriche di un’ora e mezza ciascuna e cinque lezioni negli apiari, da svolgersi nella bella stagione dei fiori. I nove detenuti partecipanti, oltre ad apprendere le nozioni su come si gestisce un’arnia e le api, imparano a costruirle, coinvolgendo così anche gli altri laboratori presenti nel carcere, come quello di falegnameria, e a preparare il terreno dove saranno posizionate quelle da loro realizzate. Uno spazio apposito è già stato identificato all’interno dell’area carceraria. Davide Pisapia, direttore della Casa di Reclusione di Vigevano, spiega: ‘‘Abbiamo il dovere di avviare un percorso di rieducazione del detenuto che contempli ogni possibile attività atta a raggiungere questo importante obiettivo. Credo che il laboratorio abbia una significativa valenza da questo punto di vista. Le api sono animali meravigliosi, importanti per l’ambiente, sono laboriose e il loro studio può diventare importante per aiutare i detenuti; non solo imparano una attività spendibile una volta finita la pena, ma per riflettere e fare un percorso di crescita personale così da allontanarsi dalla possibilità di avere una recidiva. Sono già soddisfatto di quello che ho potuto vedere e mi auguro che quanto imparato possa poi essere rielaborato per una riflessione ulteriore e per, eventualmente, aprire una strada lavorativa dopo la detenzione. Spero anche che il progetto si possa evolvere coinvolgendo sempre più detenuti’’. Anche Alberto Pizzini si dice positivo e rivela quello che già da tempo era un’idea nel cassetto che non vedeva l’ora di essere attuata. ‘‘Mi occupo di apicoltura da trent’anni per l’Ats - svela il professionista - e sono stato apicoltore per ventisette. Avevo in testa questo progetto da tempo. L’incontro con il presidente di ‘Nasi Arcobaleno’ ha reso possibile la presentazione di questa mia idea al direttore Davide Pisapia. Oggi è diventata realtà. I detenuti hanno dato segni positivi: hanno già iniziato a costruire le arnie e a preparare il terreno dove saranno ospitate. Credo che l’ape e, di conseguenza, l’apicoltura possano svolgere un ruolo importante nei processi di rieducazione. Il modo con cui l’alveare è organizzato, in cui si suddividono le mansioni e lo spirito con cui contribuiscono con il contributo del singolo alla vita della comunità può diventare uno spunto di riflessione importante per il loro futuro, una volta fuori dal centro detentivo’’. Napoli. Ahmed, il detenuto che dormiva da un anno, si è svegliato. L’avvocato: “È un miracolo” La Stampa, 22 dicembre 2022 Prima ha smesso di nutrirsi, poi non si è più alzato dal letto. Infine si è addormentato ed è rimasto così per un anno. È l’incredibile storia di Ahmed, un 28enne pakistano arrestato per una presunta violenza sessuale ai danni di minorenne. L’uomo si è risvegliato nell’ospedale Cardarelli di Napoli dove era stato ricoverato. A dare notizia di questo “risveglio” è il suo legale, l’avvocato Donato Vertone, che l’ha difeso nel procedimento giudiziario a suo carico a Napoli: ”Mi sembra un miracolo”. Un procedimento che però è andato avanti senza che l’imputato potesse essere ascoltato. Nell’udienza di convalida dell’arresto - che si è tenuta davanti al gip di Civitavecchia dopo che l’uomo era stato bloccato a Fiumicino, nel luglio del 2021 - Ahmed si era dichiarato innocente. Ma da quel momento in poi la sua voce non si è più sentita. Ovviamente è serpeggiato il sospetto che stesse fingendo e i giudici lo hanno ritenuto capace di intendere e volere e, di conseguenza, anche di sostenere il processo che è andato avanti senza di lui, sempre nella convinzione che fosse un bravissimo attore. I periti nominati dal giudice d’altronde hanno chiuso gli accertamenti definendo il caso del pachistano una “simulazione riferibile a sindrome di Ganser” che inizia, appunto, con una simulazione ma che porta, poi, il soggetto ad ammalarsi veramente. Verona. Da Zucchero un carico di donazioni per l’associazione che aiuta i detenuti di Nicolò Vincenzi L’Arena, 22 dicembre 2022 Sbarre di zucchero, nata dopo il suicidio a Montorio della 27enne Donatela, ha l’obiettivo di aiutare la popolazione carceraria: anche a Rovigo dove sono arrivati i beni donati dall’artista. Per i detenuti, questo, sarà un Natale un po’ più caldo. Il merito è dell’associazione Sbarre di zucchero, ma anche di Zucchero, l’artista. Ad inizio novembre il gruppo nato questa estate a Verona a seguito di un suicidio in cella ha dato il via ad una raccolta di indumenti per la popolazione detenuta nel carcere di Montorio. L’iniziativa in poco tempo, ha coinvolto tante altre realtà da Milano a Roma, Napoli e, più vicino, Rovigo. A Verona Sbarre di zucchero si è appoggiata all’associazione San Vincenzo e in tantissimi, come spiega la referente Micaela Tosato, hanno portato coperte, tute, felpe, pantaloni, cappelli, guanti e giacche invernali. Ma anche shampoo, spazzolini, dentifrici, biancheria e prodotti per l’igiene intima che verranno consegnati in questi giorni. “È la prima volta”, sottolinea Tosato, “che portiamo avanti un’iniziativa del genere. Siamo molto contenti per il riscontro che ha avuto e per la capillarità. È partita da qui, da Verona, ma ha avuto ripercussioni in tutta Italia”. Poi la referente del gruppo aggiunge: “Ci siamo appoggiati alla San Vincenzo e sono arrivate donazioni da tanti privati. Ci ha aiutato anche il consigliere regionale Thomas Piccinini che a Mozzecane ha organizzato una raccolta. Insomma, sarà un Natale un po’ più caldo per tanti, soprattutto per quei detenuti che qui non hanno famiglia”. Ma non è tutto, anzi: “Ci siamo già attivati”, conclude Tosato, “per far arrivare a Montorio molti libri provenienti da un’altra donazione. Li porteremo già ai primi di gennaio nella biblioteca dell’istituto”.  Un carico di donazioni da Zucchero - L’altro giorno intanto, sempre nell’abito della raccolta attivata da Sbarre di zucchero, ma a Rovigo, il protagonista è stato - sembra un gioco di parole ma non lo è - Zucchero, l’artista. Il cantautore, infatti, ha fatto recapitare agli ospiti della Casa di Abraham un’auto carica di abbigliamento e altri prodotti. Alcuni di questi beni, poi, sono stati poi consegnati alla casa circondariale di Rovigo. L’arrivo dell’auto alla Casa di Abraham è stato un momento toccante, ripreso sulla pagina Facebook dell’associazione scaligera “Sbarre di zucchero… quando il carcere è donna in un mondo di uomini”. Anche durante queste festività è possibile donare beni. Vanno consegnati alla sede dell’associazione San Vincenzo in Lungadige Matteotti 8 il lunedì, martedì e venerdì dalle 9 alle 12. I volontari del gruppo nato ad agosto dopo la morte di una ragazza ventisettenne, negli ultimi mesi, hanno organizzato diversi incontri per far conoscere la difficile situazione femminile nelle carceri italiane. Proprio per questo motivo, il 5 novembre scorso, Sbarre di zucchero aveva scritto una lettera al ministro della giustizia Carlo Nordio chiedendo maggior attenzione sul tema, auspicando nuove iniziative volte al reinserimento, ma anche un aumento di operatori, educatori e psicologi negli istituti. Lodi. Incontri con il papà detenuto “Li renderemo meno scioccanti” di Laura De Benedetti Il Giorno, 22 dicembre 2022 Incontri di Natale con meno stress per i bambini figli dei detenuti del carcere di Lodi. A rendere l’ambiente degli incontri più colorato, piacevole e meno “spaventoso” sono stati alcuni progetti promossi dall’associazione Loscarcere odv, che hanno ottenuto il sostegno della Fondazione Comunitaria che creato una rete di collaborazione con altre associazioni attive nella casa circondariale di via Cagnola. “L’idea iniziale era quella di sistemare lo spazio destinato all’incontro con i bambini nel carcere di Lodi, di dedicare un operatore alla loro accoglienza e di collaborare con l’associazione Uisp, per una giornata di giochi - spiega Mara Valtorta, di Loscarcere -. Poi ci siamo resi conto che lo spazio fisico non era così ampio e abbiamo deciso soprattutto di lavorare sul fronte dell’accoglienza”. Il progetto ha seguito due linee parallele: da una parte, grazie a un programma di Liberarte, condotto da Federica Forleo, i detenuti hanno realizzato una serie di opere e piccoli arredi da collocare nella sala degli incontri. Dall’altro, in collaborazione con l’associazione Bambini senza sbarre, sono state formate delle operatrici che vengono allertate quando c’è in programma un colloquio che coinvolge dei bambini: arrivano in via Cagnola e accolgono e intrattengono i piccoli durante il momento dell’ingresso e la trafila dei controlli, che è sempre un po’ delicato. Stratagemmi per rendere minore lo stress di un bambino che vede il padre soltanto in uno spazio estraneo, per pochi minuti, in rare occasioni. Sulla difficoltà di questi incontri e in generale delle relazioni tra genitori detenuti e figli è stata realizzata una tesi di laurea con interviste ed è stato realizzato un video intitolato “A mio figlio non avevo ancora detto nulla”, che aiuta a comprendere la vergogna, il disagio, le difficoltà e i silenzi di questi rapporti familiari complicati. Sempre pensando ai bambini e ai loro padri, Loscarcere ha promosso di recente una festa con i giochi in legno della tradizione e il laboratorio di arteterapia. Federica Forleo ha invitato i detenuti a pensare ai loro figli e a creare qualcosa che li ricordasse o che li avrebbe fatti felici, per decorare lo spazio interno del carcere dove si svolgono i colloqui. Prima c’erano un tavolino e qualche giocattolo, ora esistono colori e idee creative. “Lo spazio non è aumentato - conclude Mara Valtorta - ma l’atmosfera è decisamente migliore”. Fa pensare alla famiglia, all’affetto e anche al Natale. Potenza. Babbo Natale nel carcere: i detenuti con i propri figli di Anna Martino La Repubblica, 22 dicembre 2022 Babbo Natale è arrivato nel carcere di Potenza. È stato lui in persona a consegnare i regali ai figli dei detenuti durante l’ora di colloquio con il loro papà. Un momento di quotidianità mancata dietro le sbarre, ricreata dalla direzione dell’area educativa e sicurezza. “Un momento tutto dedicato alla famiglia come naturale luogo dell’accoglienza del vero spirito natalizio - spiegano gli educatori - un regalo ai propri figli non tanto come espressione di un consumismo dilagante, ma come espressione autentica di un legame d’amore, vero significato dei regali natalizi”. Giocattoli, gadget, saponi profumati, foto ricordo della giornata con il papà e animazione con la collaborazione della Caritas, dell’Aps Officine officinali, della polisportiva Basilia e di un negozio di giocattoli della città. “Un modo per regalare un sorriso ai piccoli che a Natale entreranno in carcere per incontrare i genitori detenuti - raccontano ancora gli educatori - nel tentativo di riallacciare, almeno per qualche ora, i legami spezzati dalla detenzione”. Como. Al via la raccolta fondi per il reinserimento dei detenuti di Paola Pioppi Il Giorno, 22 dicembre 2022 L’impegno della cooperativa sociale Homo Faber che opera nella casa circondariale Bassone. Dall’idea di una casa che possa diventare un luogo di accoglienza per chi è in difficoltà e desidera rimettersi in gioco, nasce il progetto “Casa semi liberi”, promosso da Homo Faber, cooperativa sociale Onlus che opera all’interno della casa circondariale Bassone di Como come ente di formazione e come centro stampa. Tutti i corsi di formazione forniscono ai partecipanti competenze ogni volta diverse: i contenuti spaziano da corsi base e avanzati di diversi programmi grafici, ai principi base della creatività espressiva, approfondendo poi la figura del grafico pubblicitario, la gestione di una campagna pubblicitaria e la pubblicità coordinata, fino al recente corso che introduce gli elementi base del disegno industriale. Tuttavia da qualche anno si è fatto strada, nel gruppo di lavoro della cooperativa, il desiderio di non fermare la propria attività all’interno delle mura carcerarie, ma di offrire un sostegno concreto ai detenuti anche dopo il periodo della carcerazione. È nata così l’idea della casa, pensata come luogo fisico che possa diventare innanzitutto una dimora temporanea per chi si trova in un momento di difficoltà. Con la recente individuazione della struttura adeguata per ospitare il progetto, l’idea ha preso materialmente forma. Tuttavia, spiegano i responsabili, “per sostenere e incentivare le attività lavorative dei detenuti in carcere e per realizzare il progetto Casa semi liberi, Homo Faber ha bisogno dell’aiuto e della generosità di tutti”. È stata quindi aperta una raccolta fondi. (Iban: IT65I0521601616000000002319 intestato alla Cooperativa Sociale Onlus Homo Faber indicando “Progetto Casa semi liberi”). Così il governo Meloni cancella di fatto il reddito di cittadinanza di Rocco Vazzana Il Dubbio, 22 dicembre 2022 Inserito l’obbligo di accettare qualsiasi proposta di lavoro, anche non congrua. Abrogato a partire dal 2024, cancellato, di fatto, fin da subito. Il reddito di cittadinanza ritoccato dalla legge di Bilancio non somiglia più neanche lontanamente alla riforma varata dal governo giallo-verde nel gennaio del 2019. Giorgia Meloni ha mantenuto la promessa formulata in campagna elettorale, svuotando di significato il provvedimento simbolo del grillismo. Il “colpo di grazia” è arrivato nella notte tra martedì e mercoledì, quando in commissione Bilancio viene approvato un emendamento, presentato da Maurizio Lupi, di “Noi moderati”, che sopprime la parola “congrua”, associata ad offerta di lavoro, dal testo vigente. In altre parole, il percettore di reddito di cittadinanza - che a partire dal 2023 non potrà comunque incassare più di sette mensilità, ancor meno delle otto previste nella prima bozza - sarà obbligato ad accettare qualsiasi proposta di lavoro (indipendentemente dalle proprie competenze, dalla distanza da casa e dalla retribuzione) pena la perdita del diritto all’assegno. Era l’ultimo mattone rimasto ancora in piedi della riforma costruita da Giuseppe Conte che adesso viene meno. E con esso cade la ratio del sussidio stesso, concepito non solo per tamponare gli effetti della disoccupazione ma anche per liberare le persone dal lavoro sottoqualificato (rispetto al proprio percorso) e sottopagato. Fino a due giorni fa, infatti, veniva considerata “congrua” un’offerta coerente con “le esperienze e competenze maturate” e non più distante di 80 chilometri “dalla residenza del beneficiario o comunque raggiungibile in cento minuti con i mezzi di trasporto pubblici”. Senza considerare il livello minimo di retribuzione, già definito dall’articolo 25 del decreto legislativo 150 del 2015 e mutuato dalla norma sul Rdc. Per essere congrua, infatti, l’offerta, prescive la legge, deve essere “superiore di almeno il 10 per cento rispetto al beneficio mensile massimo fruibile da un solo individuo”. In futuro non sarà più così, un cittadino potrebbe essere costretto ad accettare un lavoro meno conveniente del sussidio. “Siamo alla follia pura, hanno fatto saltare il concetto di congruità, che è un concetto fondamentale per tutelare la dignità del lavoro e degli studi”, dice senza mezzi termini il leader M5S Conte. “Guardate che non riguarda il reddito di cittadinanza: dire che le persone che sono più indigenti devono accettare qualsiasi proposta di lavoro in qualsiasi parte d’Italia significa distruggere l’ascensore sociale, riguarda tutti”, aggiunge l’ex premier pentastellato. Che poi argomenta: “Riguarda un ingegnere che ha lavorato per anni e deve andare a fare il lavapiatti da tutt’altra parte dell’Italia. Riguarda chi ha studiato giurisprudenza e deve accettare un lavoro sotto pagato in qualunque parte del Paese”. Ma per Maurizio Lupi, autore dell’emendamento incriminato, “la vera follia” non è “aver eliminato la parola “congrua”, che vuol dire tutto e niente, ma negare il diritto al lavoro, scommettere sulla povertà delle persone e fomentare irresponsabilmente le piazze con dichiarazioni incendiarie” . Ma quella del leader di “Noi moderati” non l’unica spallata definitiva al Rdc. La commissione Bilancio ha infatti accolto anche l’emendamento del leghista Rossano Sanno che subordina l’erogazione dell’assegno al completamento del ciclo scolastico obbligatorio. Chi non è in regola dovrà tornare tra i banchi o perderà il sussidio. È la vittoria del ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, che già un mese fa aveva definito “inaccettabile moralmente” fornire il sussidio ai disertori dell’obbligo. E non a caso ora il ministro esulta: “È stato mantenuto l’impegno preso con i cittadini”, dice. “Questa proposta è ispirata ad alcuni principi che ritengo imprescindibili per la formazione dei nostri giovani”. E pazienza se l’abbandono scolastico precoce è spesso sintomo di disagio sociale ed economico: senza attestato niente reddito. Pezzo dopo pezzo, dunque, della riforma del 2019 non resta praticamente nulla, solo un titolo e un guscio vuoto formalmente in vigore fino al 31 dicembre 2023. Ma nei fatti il primo gennaio del 2024 (data in cui il reddito verrà ufficialmente abrogato) è già arrivato. Scuola: e se gli smartphone in classe fossero un’opportunità? di Antonio Polito Corriere della Sera, 22 dicembre 2022 Ci sono migliaia di utilizzi possibili dei telefonini al servizio della didattica: gli studenti potrebbero “farsi” la lezione da sé, o “farla” insieme con l’insegnante, invece di “riceverla”. Gli smartphone e la vita scolastica sono oggi incompatibili. E questo è un fatto. Ma temo che sia una brutta notizia più per la scuola che per gli smartphone. La (ennesima) circolare del ministero della Pubblica Istruzione è certamente utile per almeno due ragioni: la prima è che ricorda a insegnanti, genitori e studenti che a scuola si va per studiare; la seconda è che serve come ottimo ripasso di italiano sul significato dell’espressione “grida manzoniana”. Perché se un ministro deve ripetere quindici anni dopo un divieto già sancito all’inizio della “guerra ai cellulari”, vuol dire che nel frattempo quella guerra è stata persa. Ed è proprio ciò che è successo: la scuola è oggi l’unico ambito della nostra vita quotidiana che non è riuscito a integrare la rivoluzione tecnologica. Se ci pensate, l’uso dello smartphone è ormai perfettamente compatibile con tutte le altre nostre attività. Al lavoro lo usiamo di continuo, per consultare una mail, rispondere a un messaggio whatsapp, fare di conto con la calcolatrice, verificare un dato, firmare un contratto. Nel tempo libero, pure: mentre guardiamo una serie tv per trovare il nome dell’attrice o dell’attore che ci piace tanto, e sbirciare una galleria delle sue immagini; durante un’escursione per seguire le tracce del cammino e ritrovare la strada se ci si è persi; in auto come navigatore. Perfino di notte, se ci svegliamo per andare in cucina o al bagno, ci facciamo luce con la torcia del telefonino. In tutti questi casi lo smartphone non danneggia affatto la nostra capacità di concentrazione, ma anzi ci facilita l’azione, aumentandone l’efficienza. Rappresenta quasi un’espansione delle nostre abilità mentali. Solo a scuola questo non succede: non sarà un problema della scuola? Naturalmente ci sono migliaia di utilizzi possibili dello smartphone al servizio della didattica; ma forse, ancor prima, ce ne si potrebbe servire come esca per accrescere la forza di attrazione della scuola nei confronti di teenager sempre più disinteressati. Al punto che una docente diceva ieri alla radio di esser certa che un paio dei suoi studenti, se obbligati a scegliere, preferirebbero lasciare la scuola pur di non rinunciare allo smartphone. Purtroppo il nostro sistema di istruzione si sta ancora faticosamente adeguando ai personal computer, un’invenzione degli anni Ottanta del secolo scorso. Così, nel frattempo, in molti istituti la cosiddetta lavagna elettronica ha preso il posto di quella vecchia col gesso e il cancellino. Ma pensate a quali effetti interattivi potrebbe avere un’integrazione tra gli smartphone dei ragazzi e la lavagna della classe. Gli studenti potrebbero “farsi” la lezione da sé, o “farla” insieme con il prof, invece di “riceverla” in una relazione unidirezionale; detta anche, e non a caso, “frontale”. Ma anche questa sarebbe poca cosa, tutto sommato un modo ancora tradizionale di usare lo smartphone a scuola. Bisogna infatti che usciamo dall’equivoco, così spesso ripetuto, per cui le nuove tecnologie sarebbero uno “strumento” per fare meglio le cose che si sono sempre fatte, su uno schermo invece che su un quaderno o un libro. Perché in realtà esse sono una “cultura”, e cioè un modo interamente nuovo di apprendere e pensare. Cito soltanto la radicale differenza che esiste tra conoscere per immagini e conoscere attraverso testi. I ragazzi approcciano ormai il mondo nel primo modo, e per questo si ribellano al nostro rispetto per l’autorità dei chierici; così come i contadini tedeschi fecero ai tempi di Lutero quando, grazie all’invenzione della stampa, ebbero in mano i primi volantini con le caricature dei preti e dei vescovi. Ma a scuola le immagini hanno scarsa, se non nulla, cittadinanza. Certo, gli studenti oggi usano gli smartphone di nascosto per guardare TikTok o Instagram, e così si distraggono durante le lezioni. Ma il modo migliore per evitarlo non sarebbe occupare così tanto i loro telefonini nella didattica da ridurre al minimo il tempo ludico on line? E, domanda delle domande, c’è qualcuno nella nostra scuola capace di immaginare, progettare, applicare questa possibile rivoluzione pedagogica? Se domani mattina mi dessero i pieni poteri, io vieterei gli smartphone fuori della scuola, non il contrario. È quando sono soli, senza sorveglianza e senza cure da parte degli adulti, che i ragazzi usano al peggio quell’aggeggio. Considerando i genitori che siamo, mi fiderei di più della scuola per salvarli dalla dipendenza. Navi Ong, l’Italia raffina la strategia ma rischia lo scontro nell’Ue di Giansandro Merli Il Manifesto, 22 dicembre 2022 Mediterraneo. La memoria dell’avvocatura dello Stato nel ricorso di Sos Humanity prefigura la svolta. I nodi: porti rapidi ma lontani; coinvolgimento dei Paesi costieri e di bandiera. La Life Support arriva oggi a Livorno, la Sea-Eye 4 attesa domani. Mentre la Life Support e la Sea-Eye 4 navigano da tre giorni verso la lontanissima Livorno, dove la prima arriva oggi e la seconda domani, il braccio di ferro tra governo e Ong si sposta in tribunale. Martedì davanti al Tar del Lazio si è tenuta l’udienza sul ricorso presentato da Sos Humanity contro il decreto interministeriale Interno-Infrastrutture-Difesa. A inizio novembre il provvedimento aveva vietato alla sua nave, la Humanity 1, la sosta in acque territoriali oltre il tempo necessario allo “sbarco selettivo” dei naufraghi ritenuti più fragili. La memoria depositata dall’avvocatura dello Stato, che rappresenta palazzo Chigi, non è ovviamente un provvedimento di legge ma è utilissima a prefigurare la strategia che seguirà il governo per dare una svolta alla gestione delle navi Ong. Tre le questioni principali: “sistematicità” delle attività di soccorso; individuazione del porto di sbarco; coinvolgimento dei Paesi di bandiera delle navi. La declinazione di questi tre nodi, che in sé non rappresentano una novità, conferma le indiscrezioni sul nuovo codice di condotta a cui sta lavorando il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e chiarisce le ragioni della nuova prassi di indicare un luogo di sbarco subito dopo il primo salvataggio. Secondo l’avvocatura la “mirata e sistematica attività di perlustrazione delle acque antistanti le coste libiche” non rispetta, oltre alle norme sull’immigrazione, le convenzioni internazionali sul diritto del mare. Di cui le Ong si servirebbero in maniera strumentale: continuano a cercare barche in pericolo anche con i naufraghi a bordo fino a quando si creano situazioni di emergenza “tali da richiedere un immediato porto di sbarco”. In pratica per rimanere nel marco delle normative sulla ricerca e soccorso (Sar) le navi devono dirigersi a terra al termine di ogni intervento. Rispetto al Place of safety (Pos) l’avvocatura richiama la convenzione Amburgo-Sar che impone alle autorità di individuarlo con la “minima deviazione dalla rotta prevista”. Ma, sostiene, le navi Ong non hanno un itinerario predefinito come quelle commerciali. Anzi, sarebbero loro stesse a violare la regola della minima deviazione restando nell’area di ricerca e soccorso. Infine, siccome i salvataggi non avvengono nella zona Sar di Roma e non sono da essa coordinati, la scelta di muovere verso l’Italia e di chiederle il Pos sarebbe arbitraria. Se Malta e la Libia non indicano un porto, cosa impossibile per il secondo paese considerato “non sicuro”, il comandante della nave dovrebbe attivarsi con il suo Stato di bandiera affinché questo lo individui insieme all’autorità responsabile sul tratto di mare in cui è avvenuto l’intervento. Per quanto riguarda il primo punto finora le Ong hanno continuato a perlustrare la zona in cui più spesso avvengono i naufragi perché nessuna autorità indicava loro un porto. Il cambio di prassi governativa della scorsa settimana - con l’assegnazione immediata alle Rise Above, Life Support e Sea-Eye 4 - serve proprio a evitare che le missioni continuino e altri naufraghi siano messi al sicuro. Anche perché, sulla base del ragionamento illustrato sopra, il governo ha indicato porti lontanissimi. Con un alto numero di naufraghi a bordo e dopo vari giorni di attesa era rischioso, o in alcuni casi impossibile, navigare verso mete così lontane. Ma non sarà più così se l’indicazione arriva rapidamente e con meno persone sul ponte. In pratica l’applicazione alla lettera delle convenzioni internazionali pensate per tutelare la vita umana in mare serve a ostacolare le attività umanitarie giocando su una contraddizione che, effettivamente, esisteva: la permanenza nell’area dei naufragi. Se il governo mostra che le navi sono in grado di raggiungere luoghi di sbarco lontani può tornare a chiedere, su una base fattuale più forte, la turnazione dei porti tra i diversi Paesi costieri. In questa direzione sembra andare anche la sottolineatura delle responsabilità degli Stati di bandiera delle navi e perfino di quelli dove sono registrate le Ong. Così, però, la partita da giuridica diventerebbe politico-diplomatica e la controparte italiana non sarebbero più le Ong ma Paesi come Francia, Spagna, Germania o Norvegia (da capire cosa accadrebbe con la Life Support che batte bandiere panamense). In ballo entrerebbero quindi gli aspetti complessivi della gestione Ue dell’immigrazione: movimenti secondari, cioè tra le frontiere europee; meccanismo volontario di redistribuzione; “dublinati”, i migranti riportati nel paese di primo approdo. Su tutti e tre questi nodi l’Italia non gioca da una posizione di forza. Sono gli altri ad accogliere di più, in termini assoluti e relativi. Di gestione europea dei migranti ha parlato proprio ieri il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini in un incontro con la presidente del parlamento europeo Roberta Metsola. Intanto il governo ha chiesto al tribunale di Trapani di costituirsi parte civile nel processo per associazione a delinquere e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina contro Iuventa, Msf e Save the Children. Le loro condotte avrebbero causato un danno patrimoniale e morale al Viminale e questo legittimerebbe la richiesta di risarcimento in caso di condanna. Ieri a Lampedusa sono arrivate autonomamente 11 barche, con 385 persone. Sull’isola greca di Lesbo, invece, è stato trovato il cadavere di una neonata. L’appello del Papa. Carcere, mai così tanti detenuti di Lucia Capuzzi Avvenire, 22 dicembre 2022 Viaggio nei centri di detenzione di tutto il mondo, dopo la richiesta di clemenza per Natale che Francesco ha rivolto ai Capi di Stato. Sovraffollamento ed emergenze igienico-sanitarie. Un recluso su tre è in attesa di giudizio, quasi il doppio rispetto all’obiettivo dell’Agenda Onu che prevede che tale quota non oltrepassi il 16,3%. “Un gesto di clemenza verso quei nostri fratelli e sorelle privati della libertà che essi ritengano idonei a beneficiare di tale misura”. È questa la richiesta che papa Francesco rivolge, in occasione del Natale, a tutti i capi di Stato del pianeta. Un appello di scottante attualità perché - come rivela l’ultimo studio di Penal reform International - mai prima d’ora il numero di detenuti era stato tanto alto: 11,5 milioni di persone, il 24 per cento in più rispetto al 2000, anno in cui Giovanni Paolo II fece un’analoga petizione. A crescere con particolare rapidità è stata soprattutto la percentuale di donne - + 33 per cento -, i minori dietro le sbarre sono oltre 261mila. Sono gli Stati Uniti ad avere il maggior numero di prigionieri - due milioni - seguiti da Cina (1,69 milioni) e Brasile (811mila). Un recluso su tre, inoltre, è in attesa di giudizio, quasi il doppio rispetto all’obiettivo dell’Agenda Onu 2030 che, per garantire un equo accesso alla giustizia, prevede che la tale quota non oltrepassi il 16,3 per cento. La questione riguarda tutti i Paesi, in Africa e in Asia raggiunge, tuttavia, livelli macroscopici. In Nigeria, quanti aspettano il processo in carcere sono addirittura 50mila. Nella gran parte dei casi, come nel resto del Continente, si tratta di persone accusate di reati minori e con pochi mezzi per pagare la cauzione. Nel Sud del mondo spesso è la miseria stessa ad essere considerata un delitto: in 42 Paesi africani è punibile con il carcere il fatto di non avere un reddito. Mendicare è vietato in varie parti della regione. La tendenza alle “manette facili” non solo resta in voga ma dovrebbe aumentare ulteriormente nel futuro imminente. L’anno scorso, almeno ventiquattro nazioni hanno annunciato progetti di espansione dei penitenziari, per un totale di 437mila strutture. Quasi la metà in Turchia, un quinto in Sri Lanka, i due Paesi con i maggiori complessi carcerari. Il boom di nuove costruzioni non riesce comunque a risolvere il nodo cronico del sovraffollamento, dato l’incremento del ritmo degli arresti. In 121 Stati, le prigioni operano ben oltre la propria capacità massima, in 13 addirittura le persone “in eccesso” sono più del 250 per cento. “Sovraffollamento e mancato rispetto degli standard minimi igienico-sanitari sono i due drammi che maggiormente rendono difficile la vita dei detenuti”, afferma Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. Nel pieno della pandemia, l’Ong aveva chiesto ai governi di ridurre la concentrazione dei reclusi per arginare il contagio, attraverso il ricorso alle misure alternative. Qualche Paese - come Ecuador, Sudafrica, Indonesia, India, Cina, Regno Unito, Cile, Bulgaria, Congo, Turchia, Egitto, Iran, Nepal e la stessa Italia - si è mosso, pur con estrema lentezza, in tale direzione, con provvedimenti, tuttavia, frammentari e temporanei. Appena usciti dalla fase acuta della tempesta Covid, ovunque, si è assistito a un ritorno al vecchio sistema di incarcerazione di massa. “Purtroppo - aggiunge Noury -, il ricorso alla reclusione continua ad essere considerato come il solo strumento per garantire la sicurezza. Il che determina una congestione delle strutture e questo espone i detenuti a rischi per la salute fisica e mentale, spesso letali”. Non a caso, il tasso di mortalità dietro le sbarre è più alto del 50 per cento rispetto al fuori. “Alle condizioni indegne, poi, si aggiungono abusi e torture, sistematici in alcuni Paesi”, aggiunge il portavoce di Amnesty che sottolinea, in particolare, tre casi preoccupanti: El Salvador, Egitto e Iran. Da quando, lo scorso marzo, il presidente Nayib Bukele ha proclamato lo stato di emergenza, 57mila persone sospettate di avere relazioni con le “maras”, le feroci bande locali, sono finite in cella, il 2 per cento degli adulti. Ormai, il tasso di incarcerazioni in rapporto alla popolazione ha battuto gli Usa per diventare il più alto del mondo. “In Egitto, si contano almeno 7mila detenuti per ragioni di coscienza. L’Iran ha attuato tra i 16 e i 18 nuovi arresti dall’inizio delle proteste. Scelte che hanno incrementato ulteriormente il sovraffollamento”. In questi tre Paesi le morti in carcere per mancanza di cure sono all’ordine del giorno. “Purtroppo, si sta affermando una narrativa riguardo ai diritti umani estremamente pericolosa. Questi ultimi non sono considerati innati bensì “si meritano”. Quelli dei detenuti, per definizione poco meritevoli in base agli standard tradizionali, possono essere ridotti o violati - conclude Noury -. Per questo, le parole di papa Francesco sono tanto importanti”. “Carceri sovraffollate”. Per l’Europa il Belgio è un caso di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 22 dicembre 2022 L’Europa aveva già segnalato l’emergenza. Appena 15 giorni fa Bruxelles aveva annunciato al Consiglio d’Europa di aver installato nelle celle 281 letti a castello così da ridurre a 124 il numero di detenuti che dormono sul pavimento. “Alla data del 23 settembre sono stati installati nelle celle 281 letti a castello, e grazie a ciò il numero di detenuti che dormono sul pavimento è già stato ridotto a 124 per il momento: i nuovi centri di detenzione previsti creeranno capacità aggiuntiva, pertanto nella primavera del 2023 dovrebbe essere risolto in gran parte il problema dei detenuti che dormono a terra”. Promessa di Bruxelles al Consiglio d’Europa, appena 15 giorni fa. Segno che, per quanto il proverbiale sovraffollamento delle carceri italiane faccia apparire curiosa la pretesa di due indagate italiane (come la figlia e la moglie di Antonio Panzeri) di non essere consegnate al Belgio appunto a causa delle condizioni delle carceri belghe, non è banale lo scambio epistolare del 22/29 novembre 2022 tra le contestazioni del “Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti” presso il Consiglio d’Europa (Cpt) e le risposte del Belgio. Dopo che già nel 2014 un’altra istituzione come la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo (Cedu) aveva accolto il ricorso di un detenuto romeno per violazione dell’articolo 3 della Convenzione, e condannato il Belgio per condizioni materiali di detenzione ad Anversa e Merksplas contrarie al “divieto di trattamenti inumani e degradanti”, ora è invece il Comitato del Consiglio d’Europa a evidenziare - dopo visite nelle carceri di Anversa, Lantin, St-Gilles e Ypres - la persistenza di sovraffollamento (intorno al 111% contro il 106% italiano), carenze di personale, e violenze tra i detenuti. L’Onu chiede di porre fine alle violenze in Birmania nella prima risoluzione in decenni La Repubblica, 22 dicembre 2022 Approvata con 12 voti a favore e nessun contrario, tra le richieste il rilascio di tutti i prigionieri detenuti arbitrariamente, tra cui l’ex leader Aung San Suu Kyi, arrestata durante il colpo di Stato del 2021. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione sulla situazione in Birmania per la prima volta in decenni, chiedendo la fine delle violenze e il rilascio di tutti i prigionieri politici, compresa l’ex leader Aung San Suu Kyi. Il Consiglio di sicurezza non era mai riuscito a superare i disaccordi sul Paese e non era mai andato oltre le dichiarazioni formali, ma la risoluzione di oggi è stata approvata con 12 voti a favore e nessuno contrario. Cina e Russia si sono astenute, rinunciando al potere di veto che avrebbe bloccato l’iniziativa. Il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, 77 anni, è stata arrestata durante il colpo di stato militare del febbraio 2021 che ha posto fine a un decennio di transizione democratica nel Paese del Sud-Est asiatico. Da allora, la Birmania è stata tormentata dal caos e dalla violenza. La risoluzione “esorta” i militari “a rilasciare immediatamente tutti i prigionieri detenuti arbitrariamente”, citando l’ex presidente Win Myint e Suu Kyi. Il testo chiede inoltre “la fine immediata di ogni forma di violenza” e invita “tutte le parti a rispettare i diritti umani, le libertà fondamentali e lo Stato di diritto”.  Il portavoce delle Nazioni Unite, Stephane Dujarric, ha dichiarato che il Segretario generale, Antonio Guterres, è “estremamente preoccupato” per il deterioramento della situazione umanitaria e dei diritti umani in Birmania. Per cinquanta anni è stata sotto un rigido governo militare che ha portato all’isolamento e alle sanzioni internazionali. Quando i generali hanno allentato la loro presa, culminata con l’ascesa di Aung San Suu Kyi alla leadership nelle elezioni del 2015, la comunità internazionale ha risposto revocando la maggior parte delle sanzioni e riversando investimenti nel Paese. Ma tutto questo è terminato con il colpo di Stato dell’esercito del 1° febbraio 2021, dopo le elezioni del novembre 2020 che hanno visto la vittoria schiacciante del partito Lega Nazionale per la Democrazia di Suu Kyi e che i militari hanno contestato. La presa di potere è stata accolta da una massiccia opposizione pubblica. Il mese scorso, l’Associazione di assistenza per i prigionieri politici, un’organizzazione di monitoraggio dei diritti, ha dichiarato che oltre 16.000 persone sono state detenute con accuse politiche. Di quelle arrestate, più di 13.000 erano ancora in carcere. L’associazione ha dichiarato che almeno 2.465 civili sono stati uccisi dalla presa di potere, anche se si pensa che il numero sia molto più alto. Gran parte della comunità internazionale, compresi i membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (Asean), ha espresso frustrazione per la linea dura adottata dai generali nel resistere alle riforme. Nell’aprile 2021, la Birmania ha accettato un piano in cinque punti dell’Asean per riportare la pace e la stabilità nel Paese, ma i militari hanno fatto pochi sforzi per attuarlo. Il piano prevede l’immediata cessazione delle violenze, un dialogo tra tutte le parti interessate, la mediazione del processo di dialogo da parte di un inviato speciale, la fornitura di aiuti umanitari e una visita in Birmania dell’inviato speciale per incontrare tutte le parti interessate. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu riconosce il ruolo centrale dell’Asean nel contribuire a trovare una soluzione pacifica e chiede alla Birmania “azioni concrete e immediate per attuare efficacemente e pienamente” il piano. Sottolinea inoltre la necessità di affrontare la crisi nello Stato di Rakhine e di creare le condizioni per il ritorno dei musulmani della minoranza etnica Rohingya, la maggior parte dei quali è stata cacciata dalla repressione militare del Paese a maggioranza buddista nell’agosto 2018. Circa 700.000 persone vivono ancora come rifugiati nel vicino Bangladesh, mentre altri rimangono sfollati in Birmania.