Carcere, l’occasione mancata di Renoldi di Stefano Anastasia Il Manifesto, 21 dicembre 2022 Mentre alcune centinaia di uomini e donne in regime di semilibertà si apprestano a tornare a dormire in carcere, dopo più di due anni di ottima prova in licenza straordinaria, in barba al principio di progressività nel trattamento penitenziario, il Ministro della giustizia, Carlo Nordio, ha individuato un nuovo capo dell’Amministrazione penitenziaria nella persona del procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia Giovanni Russo, preannunciando così il congedo di Carlo Renoldi, che negli ultimi nove mesi ha retto il difficile incarico su mandato della precedente Ministra Cartabia. C’è spesso un’attenzione esagerata verso il capo DAP, per la morbosa curiosità che le carceri suscitano anche tra i non addetti ai lavori, ma anche per il suo contrario, per quel loro essere un mondo a parte, che la politica come l’opinione pubblica tendono a delegare all’autonomia dell’amministrazione che se ne occupa. E così la scelta di un capo DAP assume un rilevante significato politico. Basti pensare al ruolo per la riforma del carcere di due personalità come Nicolò Amato e Alessandro Margara. Non per altro da qualche tempo si chiede che al Ministero della giustizia sia nominato un Vice Ministro dedicato, in modo che la politica si riprenda la sua responsabilità nelle scelte di indirizzo in materia di carcere e pena. Ma non è andata così neanche stavolta: il Vice Ministro Sisto non si occuperà dell’esecuzione penale e il Ministro Nordio ha rifatto lo spezzatino delle deleghe tra i sottosegretari. La politica penitenziaria resterà quindi nelle mani del capo DAP e dunque tocca tornare a scrutare il vertice dell’amministrazione per capire che carcere sarà quello dei prossimi anni. Non sappiamo ancora nulla di Giovanni Russo, salvo quel che ci dice la sua esperienza professionale: un procuratore, come spesso in passato, per di più antimafia, secondo un adagio infondato che immagina quel ruolo come lo svolgimento di un’attività inquirente con altri mezzi in un avamposto della lotta alla criminalità organizzata. Ha ragione sul Riformista di sabato scorso, Giandomenico Caiazza, presidente delle Camere penali, a stigmatizzare questa coazione a perseverare nella confusione di ruoli e di competenze. Nella migliore delle ipotesi, il dott. Russo, cui comunque auguriamo sinceramente di fare presto e bene, dovrà impiegare mesi a scoprire dove si trova, le urgenze delle carceri, la complessità della macchina amministrativa a cui sarà messo a capo. Mesi decisivi per un sistema penitenziario che soffre di tare storiche e accidenti recenti messi in luce dalla pandemia, e da troppi suicidi e violenze. E in politica, si sa, il tempo è metà dell’opera. Il tempo è quello che è mancato a Carlo Renoldi, magistrato - invece - tra i più esperti di carcere, che in pochi mesi ha dato importanti segnali di riforma, dalla circolare sui colloqui e le videochiamate al rinnovo delle indicazioni per la prevenzione del rischio suicidario, e che in un articolo di congedo, pubblicato su La Stampa di domenica scorsa, lascia al suo successore utili indicazioni per la valorizzazione del DAP. Il Ministro Nordio non ha ritenuto che potesse essere ancora Renoldi a condurre l’Amministrazione penitenziaria. Era prevedibile, anche per l’astio con cui alcuni referenti sociali della destra avevano attaccato la sua nomina. Un ministro, in fondo, è il ministro della sua maggioranza e a essa risponde. Se di occasione mancata dobbiamo parlare, bisogna forse risalire più indietro, a quella breve finestra di tempo in cui la Ministra Cartabia aveva individuato un ottimo capo del dipartimento, la Commissione ministeriale per l’innovazione del sistema penitenziaria presieduta dal prof. Marco Ruotolo aveva indicato i provvedimenti da adottare subito e la legislatura sembrava avere ancora un anno di vita. Ma, come si dice: chi ha tempo, non aspetti tempo. Suicidi e degrado: l’allarme dei Garanti a Governo e Parlamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 dicembre 2022 “Dopo l’emergenza sanitaria, il futuro prossimo e meno prossimo del sistema penitenziario non potrà tornare a essere quello del passato. La pandemia ha mostrato in maniera impietosa la sua profonda crisi”. Così, tramite un documento, la Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà personale invita il nuovo esecutivo a una riflessione sullo stato del sistema penitenziario nel nostro Paese. “Il governo - si legge nel corposo documento indirizzato al ministro della Giustizia e ai presidenti delle Commissioni giustizia della Camera dei deputati e del Senato - si trova ad affrontare le sfide di un sistema penitenziario post- pandemico, sovraffollato e gravato da un numero di suicidi mai registrato prima e, al contempo, a gestire l’eredità di una serie di riforme mancate. Da ultima, la proposta a tre livelli (legislativo, regolamentare ed amministrativo) della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, la cui attuazione avrebbe potuto sortire risultati positivi per un trattamento delle persone detenute conforme a dignità ed umanità, ed al contempo per la funzionalità del sistema medesimo”. Tra i problemi messi in luce all’interno del documento, la mancanza delle misure minime di profilassi, evidenziate durante l’emergenza Covid, e inasprite dal sovraffollamento delle strutture carcerarie. “Negli ultimi 25 anni la capienza degli istituti penitenziari, è aumentata di almeno 14 mila unità, ma la popolazione detenuta è andata sempre e costantemente oltre”, mette in rilievo il documento. “Al sovraffollamento - si legge ancora - si accompagnano condizioni detentive fortemente degradate e un numero di suicidi senza precedenti”, che potrebbe essere arginato attraverso “Protocolli di prevenzione al suicidio” e incremento dell’organico dei Serd (servizi per le dipendenze) che operano negli istituti di pena. Secondo la Conferenza dei garanti territoriali, andrebbe inoltre ribadita l’idea del carcere come extrema ratio riservata solo agli autori di gravi reati contro la persona o connessi alle attività delle organizzazioni criminali, intensificando le misure alternative e depenalizzando le condotte con minima o nulla offensività, a partire da quelli in materia di droghe. Occorre, inoltre, dare continuità all’accoglienza in housing di persone in esecuzione penale esterna in situazione di marginalità, prive di riferimenti familiari, avviata con il progetto condiviso tra la Cassa delle Ammende e le Regioni in tempo di Covid-19. Altra questione importante è quella della qualità della vita, delle relazioni sociali e del digitale in carcere, un tabù caduto durante l’emergenza pandemica. “Una recente circolare Dap - si legge - ha fissato le nuove linee guida in materia, stabilizzando lo strumento delle videochiamate, interpretate come modalità ordinaria, per assicurare il diritto costituzionale di ciascun individuo al mantenimento delle relazioni socio familiari”. Un altro elemento fondamentale è quello del lavoro in carcere che, insieme con l’istruzione a ogni livello, rappresenta “uno degli strumenti fondamentali di umanizzazione della pena”. Fondamentale poi il diritto all’affettività e alla sessualità in carcere, che è tempo di far passare “dalle parole ai fatti”. Sulla questione dei bambini in carcere, ristretti/ e insieme alle madri nei reparti nido degli istituti penitenziari o negli Icam, il documento ribadisce la necessità di dare rapida attuazione agli investimenti per la individuazione delle case famiglia, già previste dalla legge. Il carcere deve, infine, combattere con maggiore determinazione gli episodi di violenza nei confronti dei detenuti e integrare il principio antidiscriminatorio, in particolare in relazione all’identità di genere e all’orientamento sessuale, lavorando a un ripensamento concreto del trattamento delle persone transgender e in generale LGBTQI. “A fronte dello stato in cui versa il sistema penitenziario italiano, abbiamo accolto con favore le prime dichiarazioni del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, relative alla necessità di considerare come prioritaria la questione penitenziaria e di ridurre lo spazio della pena carceraria, così come l’inflazione penalistica”, si legge ancora nel documento, che però stigmatizza gli interventi contenuti nel primo decreto legge del nuovo governo, “a partire dalla previsione di un nuovo reato dalla discutibile formulazione tecnica e privo dei requisiti di stretta necessità che sempre le norme penali incriminatrici dovrebbero avere”. Preoccupante per i garanti dei detenuti anche la riforma dell’ergastolo ostativo: “La prospettiva costituzionale e quella convenzionale impongono di superare definitivamente il meccanismo delle preclusioni assolute nell’accesso ai benefici penitenziari anche per gli autori dei reati più gravi, condannati all’ergastolo, assumendo l’obiettivo della progressione nell’esecuzione penale per la generalità della popolazione detenuta”. La riforma, però, com’è noto, è stata votata recentemente in parlamento. E nonostante sia piena di paletti e sotto certi aspetti è anche peggiorativa rispetto all’ergastolo ostativo originario se pensiamo alla cancellazione della collaborazione impossibile, c’è chi la stigmatizza perché troppo “lassista” o addirittura - come ha recentemente affermato il senatore grillino Scarpinato - farebbe uscire tutti i mafiosi stragisti. I pochi stragisti rimasti, come nel caso dei fratelli Graviano, provarono a chiedere il permesso premio (non più ostativo grazie alla sentenza della Consulta di tre anni fa) e gli fu respinto. Pensare che a un Bagarella gli concedano la libertà condizionale, richiede un grandissimo sforzo di fantasia. Carofiglio: “Basta detenzioni per propaganda politica, i magistrati provino a vivere in carcere” di Lodovico Poletto La Stampa, 21 dicembre 2022 Lo scrittore: “Ci sono reati per cui la reclusione è una reazione abnorme penso a un sistema penale minimo, con sanzioni alternative efficaci”. Il problema è garantire l’equilibrio tra le diverse esigenze. Quelle della sicurezza chieste dalla società, la “difesa sociale”, quelle di chi il carcere lo vive perché al suo interno ci opera. E quelle di chi la detenzione la subisce, in un penitenziario trascorre anni, espia la pena a cui è stato condannato. Per raggiungere quell’equilibrio la strada c’è. E passa attraverso la ridefinizione di quel che è il diritto penale. Lo dice bene Gianrico Carofiglio, scrittore, ex magistrato, per una legislatura senatore democratico, e da sempre attento al tema della detenzione. Spiega: “Il carcere non deve essere una discarica sociale. Chi subisce una condanna non deve avere la sensazione di essere scaraventato in un luogo in cui le condizioni strutturali possono produrre abusi, oppure episodi di autolesionismo fino al suicidio, come abbiamo visto troppo spesso quest’anno”. Carofiglio, lei che carcere vorrebbe? “Un carcere per pochi. Dove si scontano pene lunghe solo per reati molto gravi. Vorrei istituti diversi per chi sta scontando la pena e chi si trova in custodia cautelare, quando cioè non è ancora intervenuta una sentenza definitiva. Ma per raggiungere questo obiettivo si deve passare attraverso una ricostruzione del diritto penale. Perché, è chiaro, ci sono reati per i quali il carcere è una reazione abnorme, che potrebbero e dovrebbero essere sanzionati con pene sostitutive. Da pensare anche in modo creativo, tenendo presente che oltre all’aspetto afflittivo - la punizione per una condotta illecita - deve esserci la componente rieducativa. Per far questo, però, occorrono anche strutture esterne adatte, che spesso oggi sono insufficienti”. Facciamo un esempio di creatività? “Mi sembra molto interessante la detenzione domiciliare durante il fine settimana. Per chi? Soggetti non pericolosi e per reati di media gravità. È soltanto un esempio, certo. Ma costringere qualcuno (soprattutto se giovane) a restare in casa per un dato tempo, senza contatti con l’esterno, con blocco del telefono e dell’accesso a internet e dunque ai social: sarebbe una sanzione afflittiva (la pena deve esserlo, anche se in modo civile) ma non criminogena. Consentirebbe una riflessione e una rivisitazione seria della propria condotta e dunque un effetto rieducativo. Questo è solo un esempio, per dare un’idea di come si possa immaginare un sistema di sanzioni a un tempo mite ed efficace. E comunque, in generale, i reati che prevedono il carcere sono troppi”. Ha voglia di fare l’esempio di una legge per cui la pena detentiva secondo lei è inutile? “Ci sono decine di migliaia di violazioni punite con la sanzione penale e con il carcere. Questo rende pletorico, assurdo e privo di efficacia il sistema. Nessun ordinamento penale può funzionare con un simile numero di violazioni”. Perché nel diritto penale la pena detentiva è quasi sempre presente? “La dilatazione del diritto penale, della sanzione carceraria è una patologia. Che talvolta viene usata con scopi di propaganda politica oppure di controllo sociale”. Propaganda e controllo: a che cosa sta pensando? “Quando parlo di propaganda politica penso alla norma sui rave party, soprattutto nella sua prima scrittura, francamente imbarazzante. E parlo di controllo sociale nella sua accezione negativa, pensando a come è composta la popolazione carceraria. Tanti disperati, quasi nessun colletto bianco. In Italia sono in carcere per reati contro la pubblica amministrazione pochissime persone. In Germania centinaia se non di più. Vuol dire che in Germania c’è più corruzione o che in questo sistema c’è qualcosa che non funziona?”. Quindi il carcere è inutile? “Niente affatto: io non sono tra quelli che pensano che il carcere vada abolito. Ma credo che pena detentiva debba essere limitata a un numero ridottissimo di casi cercando strumenti alternativi”. Eppure lei è stato un magistrato, e in carriera ha spedito molte persone in galera. Si è mai pentito di qualche sua scelta? “Ovviamente, come tutti, ho commesso degli errori anche se ho sempre cercato di pensare a quanto il ricorso al carcere sia una cosa tremenda. So che cosa significa mandare in carcere una persona. Nella maggior parte dei casi era inevitabile ma ho sempre riflettuto molto sull’utilità della pena. Penso ad esempio che il 41 bis sia stato e sia fondamentale per contrastare pericolosissime associazioni criminali. Non deve però diventare una forma di afflizione fine a se stessa”. E l’ergastolo serve? “Io credo che sia necessario che la pena, ad un certo punto finisca. Quando il percorso si è compiuto, quando il reinserimento sociale è possibile. Ho visto persone rinchiuse da 25 anni completamente trasformate rispetto al giorno in cui erano entrate. Alcuni li ho incontrati andando a parlare nelle carceri, discutendo con loro. E comunque prima di scegliere la detenzione bisogna pensare, capire anche in modo non convenzionale”. Cioè? “Le dico una cosa che sembra una provocazione: il tirocinio di chi lavorerà con la libertà delle persone dovrebbe includere tre giorni di permanenza in una struttura detentiva. Solo tre giorni di vita da detenuto, con i ritmi imposti dalla struttura e dalle sue regole. Dopo sarebbe meno probabile un uso disattento - a volte capita ancora, pur essendo la nostra magistratura molto sensibile alla cultura dei diritti - delle misure cautelari”. Vede sistemi penitenziari migliori del nostro? Io credo che l’Italia abbia un sistema molto avanzato: in molti Paesi non ci sono, ad esempio, i giudici di sorveglianza, che svolgono un lavoro fondamentale per la tutela dei diritti”. E allora cosa c’è che non va? “Come diceva Cesare Beccaria, la pena non deve essere tremenda, ma deve essere probabile. Un sistema penale minimo, con sanzioni diversificate, carceri non affollate e dunque meno pericolose per chi è ristretto e per chi ci lavora. Non è un obiettivo impossibile ed è una frontiera di civiltà”. Che pena questa riabilitazione di Elisabetta Aldrovandi L’Identità, 21 dicembre 2022 Entrare in carcere è un’esperienza devastante, sotto ogni aspetto. Chi varca la soglia di una cella diventa un “ristretto”. Una parola che ben delinea il significato di una persona privata di tutto, a partire dal bene più prezioso: la libertà. Ovvio che, tranne casi di scongiurati errori giudiziari, chi viene condannato ad una pena detentiva ha violato regole importanti della convivenza civile, spesso causando gravi danni al prossimo, di natura patrimoniale o personale. E quindi è giusto che risponda di quanto fatto, anche rinunciando, per un periodo, a ciò che per il resto dei consociati è qualcosa di scontato: dalla colazione al bar la mattina, alla passeggiata in centro, alla coltivazione delle relazioni amicali e sessuali. Ma prima o poi quella persona, tranne ipotesi di ergastolo ostativo, recupererà il bene primario di cui è stato giustamente privato. E se nel momento in cui rientrerà in società non avrà pienamente preso coscienza del disvalore morale e giuridico dei suoi reati, le probabilità che torni a delinquere sono, purtroppo, molto elevate. I numeri, d’altronde, parlano chiaro: ben il 62% dei detenuti è recidivo, il che pone problemi su quanto l’Italia rispetti il dettame del terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione, in base al quale la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. E questa rieducazione dovrebbe partire innanzitutto dal modo in cui i detenuti vengono trattati in carcere. Anche qui, i numeri sono piuttosto sconfortanti: in base ai dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aggiornati al 30 giugno 2022, i detenuti in carcere erano 54.841. Di questi, 2.314 erano donne e 17.182 stranieri, a fronte di una capienza regolamentare di 50.900 posti, con un tasso di sovraffollamento del 107,7%. Le carceri in Italia sono 192: dalle visite effettuate in 85 istituti penitenziari negli ultimi dal luglio 2021 al luglio 2022, gli osservatori hanno rilevato che in quasi un terzo (31%) degli istituti ci sono celle in cui non sono garantiti i tre metri quadrati calpestabili a persona. Una situazione che peggiora durante i mesi caldi: basti pensare che nel 58% delle celle non c’è una doccia. Infine, nel 44,4% degli istituti ci sono celle con schermature alle finestre che impediscono il passaggio di aria. Insomma, una situazione generale che non soltanto pregiudica il diritto del detenuto a essere riabilitato in vista del suo rientro in società, ma che rende la vita carceraria spesso intollerabile, con la conseguenza che sempre più frequenti sono gli episodi di violenza tra detenuti e contro gli agenti della polizia penitenziaria. In questo contesto, sempre maggiore importanza acquisisce la necessità di ricorrere a misure di giustizia riparativa, che diano la possibilità, soprattutto a chi è al primo reato, di scontare la pena in modo “produttivo” per sé e per la collettività, senza limitarsi ad aspettare in una cella il giorno della scarcerazione. Prevedere sanzioni alternative al carcere, dà anche l’opportunità al condannato di evitare il rischio del cosiddetto “contagio carcerario”, che spesso infetta coloro che, senza un bagaglio familiare e valoriale adeguato, si ritrova detenuto senza la possibilità di costruirsi adeguate prospettive una volta uscito. Infine, visto l’elevato numero di detenuti stranieri, sarebbe importante prevedere un meccanismo di espulsione anticipata rispetto al fine pena, come avviene in Germania, dove, scontati i due terzi della condanna, lo straniero detenuto viene espulso e rimandato nel Paese di origine. Non si deve dimenticare, infatti, i costi del sistema penitenziario in Italia: circa tre miliardi di euro all’anno, spesi più per contenere e reprimere che per rieducare. Il che, non va bene. Non in uno Stato, che ambisca a essere di diritto. Cospito, sì al carcere duro, il Tribunale di sorveglianza: “Alta sicurezza non è sufficiente” Il Messaggero, 21 dicembre 2022 I giudici ritengono che anche dal carcere l’uomo possa esercitare il suo ruolo di leader. Cospito deve rimanere in carcere, in regime di 41 bis. Alleggerire il regime vorrebbe dire permettere che eserciti il suo ruolo di leader dei gruppi anarchici. La detenzione ordinaria anche “in regime di alta sicurezza, non consente di contrastare adeguatamente l’elevato rischio di comportamenti orientati all’esercizio da parte di Alfredo Cospito del suo ruolo apicale nell’ambito dell’associazione di appartenenza”. È quanto scrivono i giudici del tribunale di Sorveglianza di Roma che hanno respinto il reclamo del difensore dell’anarchico in sciopero della fame da due mesi contro il 41 bis.  Per i giudici di Roma la “valutazione del profilo criminale del detenuto e del suo coinvolgimento nelle attività principali della “Fai” del ruolo verticistico rivestito da Cospito all’interno della associazione criminale di riferimento e della perdurante operatività della stessa, dimostrano come sussista - è detto nel documento - un concreto pericolo, una qualificata capacità di Cospito di riprendere pienamente i vincoli associativi pur dall’interno del carcere, e di veicolare all’esterno e con autorevolezza disposizioni criminali dove lo stesso venisse ricollocato nel circuito ordinario”. Per la Sorveglianza “risulta dunque, necessario assicurare una netta soluzione di tale continuità per neutralizzare il rafforzamento e la perpetuazione del vincolo associativo e ogni situazione che possa comportare anche la stessa percezione di rapporti ancora attivi con accoliti in libertà, anche veicolata, in regime ordinario, da altri soggetti ristretti”.  “Le comunicazioni di Alfredo Cospito con le realtà anarchiche all’esterno del circuito carcerario appaiono assidue e producono l’effetto di contribuire ad identificare obiettivi strategici e a stimolare azioni dirette di attacco alle istituzioni”. È quanto scrivono i giudici che confermato il 41bis per Cospito. “Con numerosi scritti e opuscoli clandestini Cospito ha contribuito e contribuisce ad elaborare un modello di lotta in cui dapprima vengono formulate proposte organizzative, argomenti e temi su cui orientare la lotta, definiti obiettivi strategici costituenti un “invito ad agire che poi nuclei cellule o individualità” - che condividono la progettualità proposta - raccolgono traducendo l’obiettivo in attentati veri e propri di diversa entità e difficoltà organizzativa, sulla base delle concrete possibilità d’azione che ciascuno possiede” si legge. “Esempio di questo collegamento non solo ideale tra Cospito ed i militanti fuori dalle carceri - spiegano i giudici - è certamente la circostanza che il 5 giugno 2017, giorno dell’inizio dell’udienza preliminare del processo ‘Scripta Manent’, a Genova alcune persone, poi identificate in alcuni militanti anarchici, abbiano inviato tre pacchi esplosivi, uno dei quali destinato proprio al pm del processo a carico di Cospito”. “Negli ultimi quattro anni il detenuto ha continuato attraverso scritti diffusi dal carcere a riproporre con forza le tematiche rivoluzionarie, fomentando i soggetti più predisposti alle azioni violente a sollecitare la commissione di attentati a sostenere ed esaltare le cellule anarchiche ed insurrezionaliste che hanno commesso atti criminali”. Sul regime di “carcere duro” quindi la “Corte conclude affermando che, contrariamente a quanto si vuole credere, esiste un organismo unitario, strutturato, sovrastante rispetto alle persone e ai gruppi che ne fanno parte e che la partecipazione del singolo all’associazione si estende bene oltre il solo momento dell’azione”. Perché Alfredo Cospito è detenuto al 41bis e rischia la vita di Frank Cimini Il Riformista, 21 dicembre 2022 Alfredo Cospito continuerà a essere torturato nel carcere di Sassari Bancali. Lo ha deciso il Tribunale di Sorveglianza di Roma rigettando il reclamo contro l’applicazione dell’articolo 41bis del regolamento penitenziario presentato dall’avvocato Flavio Rossi Albertini e discusso nell’udienza del primo dicembre scorso. Cospito, considerato l’ideologo della Federazione Anarchica Informale, continua lo sciopero della fame contro il carcere duro iniziato oltre due mesi fa. La decisione era nell’aria, considerando il clima, non certo quello meteorologico, creato intorno alla vicenda dalla politica e dai giornali che avevano chiamato in causa Cospito per l’attentato incendiario avvenuto in Grecia ai danni di Susanna Schlein, vice ambasciatrice e sorella di Elly candidata alla segreteria del Pd. Cospito aveva implicitamente replicato di non essere a capo di tutte le cose anarchiche che accadono nel mondo. Questo nell’aula della Corte d’Assise di Appello di Torino chiamata a decidere sulla richiesta di ergastolo formulata dalla procura generale in relazione ai pacchi esplosivi di Fossano contro ì carabinieri. Azione che non aveva provocato morti e nemmeno feriti. Tanto che i giudici avevano deciso di mandare gli atti alla Corte Costituzionale che, nei prossimi mesi ma non certo a breve, dovrà decidere sulla concessione o meno delle attenuanti per la lieve entità dei danni provocati. Era apparso un piccolo passo in avanti in relazione e alla posizione di Cospito che sta già scontando la condanna per il ferimento del manager dell’Ansaldo Roberto Adinolfi. Ma il Tribunale di Sorveglianza di Roma, unica autorità giudiziaria alla quale spetta di decidere sul 41bis, non ha evidentemente inteso sentire ragioni. Per altri quattro anni, a meno che la decisione non venga modificata in sede di ricorso, Cospito starà con la posta bloccata sia in entrata sia in uscita e con solo due ore di aria al giorno in un cubicolo da dove non si vedono il sole o le nuvole e con socialità praticamente inesistente. “A questo punto qualsiasi conseguenza in questa vicenda è addebitare esclusivamente allo Stato” rilanciano i siti anarchici. Il difensore Flavio Rossi Albertini prepara il ricorso in Cassazione che non sembra avere molte speranze di essere accolto. Cospito ha deciso di mettere a rischio la vita per affermare i suoi diritti di detenuto, la possibilità di scrivere dalla cella articoli e interventi da pubblicare sulle riviste dell’area anarchica. La situazione insomma al momento sembra senza via di uscita. Anna Beniamino la detenuta anarchica e coimputata di Cospito per la vicenda dei pacchi esplosivi intanto ha sospeso lo sciopero della fame a causa della pressione troppo bassa. Rischiava di finire in ospedale e anche l’alimentazione forzata. Sferzante il commento dell’avvocato Rossi Albertini: “Avranno un martire. Tra 100 anni i posteri si ricorderanno di Cospito e non dei suoi persecutori”. La vicenda di Alfredo Cospito. Quando la giustizia è smisurata e si compiace di esserlo di Adriano Sofri Il Foglio, 21 dicembre 2022 L’anarchico è in carcere: si dichiara una strage aggravata di fronte a un attentato dimostrativo che non voleva fare vittime e non ha scalfito una sola vittima. Il suo è uno sciopero della fame duro, contro il 41 bis, che l’ha già portato in una condizione allarmante. Provo a riassumere. L’anarchico Alfredo Cospito è in carcere. Ha 55 anni. Era stato condannato a 10 anni e 8 mesi nel 2014, perché dichiarato responsabile di aver ferito alle gambe l’amministratore dell’Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, nel 2012. E’ stato accusato inoltre di aver collocato due pacchi esplosivi “a basso potenziale” nel sito della Scuola per allievi carabinieri di Fossano (Cuneo), nel giugno 2006, dunque più di 16 anni fa. Si è riconosciuto che si trattasse di un atto dimostrativo, senza intenzione, e senza l’effetto, di nuocere all’incolumità di alcuno. Cospito ha trascorso 6 anni di carcere nel regime detto di Alta Sicurezza, che prevede forti restrizioni sia al modo della detenzione che alle possibilità di una sua attenuazione attraverso l’accesso a permessi e misure alternative. Nello scorso aprile, l’Alta Sicurezza è sembrata inadeguata alla Giustizia che ha disposto di sottoporre Cospito al regime del 41 bis, la misura introdotta dagli anni 80 per impedire agli affiliati alle mafie di intrattenere rapporti con l’esterno: misura presentata come provvisoria e divenuta permanente, e sempre discussa per la sua incostituzionalità e per la gratuità di vessazioni slegate dalla sicurezza, che la accostano a un regime di tortura. Cospito non è un mafioso, naturalmente, ma un anarchico, secondo la sua rivendicazione: l’estensione del 41 bis implica l’assimilazione dei rapporti fra militanti anarchici ai rapporti fra affiliati alla criminalità organizzata. Da ottobre Cospito, recluso a Sassari, digiuna contro il 41 bis, quello che personalmente subisce e quello che vige nell’ordinamento italiano. Come “capo di un’organizzazione terroristica” - quella dell’attentato dimostrativo di Fossano - Cospito è stato condannato ad altri venti anni di carcere nei due gradi di giudizio. Fino a che, nello scorso luglio, la Cassazione ha giocato al rialzo estremo, trasformando il reato in quello di “strage contro la personalità interna dello stato”, e nella pena corrispondente, la pena senza scampo: l’ergastolo “ostativo”, che esclude in perpetuo ogni possibile attenuazione. La condanna a morte dilazionata, anch’essa misura voluta come provvisoria e legata all’emergenza, e divenuta abitudinaria e distrattamente ordinaria nell’ergastolo italiano. A questo punto Cospito ha smesso di essere una persona, un detenuto, un condannato, e si è mutato in un caso di mostruosità non solo giudiziaria ma umana e clinica. Si dichiara una strage aggravata di fronte a un attentato dimostrativo che non voleva fare vittime e non ha scalfito una sola vittima. Cospito poteva tornare a essere una persona solo decidendo di destinare il proprio corpo a una morte non dilazionata secondo la regola del fine-pena-mai. Il suo è uno sciopero della fame duro, che l’ha già portato in una condizione allarmante. In apparenza, due oltranzismi si fronteggiano: il rincaro della “giustizia”, che è anonimo o è come se lo fosse, è un macchinario, assicurato dell’irresponsabilità personale, e la volontà di andare “fino in fondo” del detenuto. Tutti vedono, non possono non vedere, che non c’è niente di simmetrico nelle due oltranze. L’altro ieri un tribunale di sorveglianza ha respinto il ricorso di Cospito contro il 41 bis, pressoché automaticamente, il vecchio caro automatismo del governatore di Giudea. Intanto, con una fessura di resipiscenza, la Corte d’Assise d’appello torinese che giudica Cospito e una sua coimputata, ha deciso di rinviare alla Corte costituzionale il giudizio sulla compatibilità fra l’ergastolo ostativo e l’esclusione di attenuanti, e un “fatto di lieve entità” come quello addebitato a Cospito.  Si è appreso giorni fa che Cospito “non può tenere in cella le foto dei genitori defunti in quanto viene richiesto il riconoscimento formale della loro identità da parte del sindaco del paese d’origine”. È strano immaginare che per esserne scandalizzati bisogni simpatizzare per l’anarcoinsurrezionalismo. E ancora più strano che la solidarietà con la ribellione di Cospito spetti agli anarcoinsurrezionalisti, qualunque cosa voglia dire.  È probabile che la fame di Cospito arrivi molto prima della sentenza della Consulta. Ho provato a riassumere. Non provo nemmeno a commentare: non si può commentare la smisuratezza. La giustizia è smisurata e si compiace di esserlo, i suoi amministratori hanno nomi e cognomi ma non li indossano, bastano le uniformi, sono esseri smisurati per irrazionalità e cattiveria. Il cielo li protegga. Hanno chiamato la loro indagine “Scripta manent”. I romani sapevano che Deus dementat quos perdere vult. Traduzione, aggiustata: Dio toglie il senno a coloro che muoiono dalla voglia di mandare in rovina il proprio prossimo. Caso Cospito e 41 bis di Valter Vecellio L’Opinione, 21 dicembre 2022 Nel presentare la decina di tavole a fumetti che affrontano la questione di Alfredo Cospito, Zero Calcare va dritto al cuore della questione senza troppe perifrasi: Cospito, spiega, è un detenuto anarchico in sciopero della fame contro il regime di 41 bis; attualmente è in attesa di una sentenza che “pare costruita apposta per farlo morire in galera (ergastolo ostativo senza neanche un ferito)”. Assieme alla vicenda di Cospito, si affrontano “le questioni più generali su cosa significa il carcere in questo paese, a cosa serve e quali sono i confini con la tortura di Stato, aldilà di chi ci sta simpatico o antipatico”. 55 anni, anarchico, in sciopero della fame dal 20 ottobre scorso, 27 chili persi. Recluso al 41 bis; protesta contro il regime carcerario e le condizioni detentive a cui è sottoposto dall’aprile 2022. È in carcere da oltre dieci anni (sei dei quali trascorsi in regime di alta sicurezza). Qualche mese fa il ministero della Giustizia ha stabilito che è “in grado di mantenere contatti con esponenti tuttora liberi dell’organizzazione eversiva di appartenenza”. Per questo la decisione del regime di 41 bis. Fino alla scorsa primavera Cospito comunicava con l’esterno, inviando scritti e articoli, contributi alle riviste dell’area anarchica; riceveva corrispondenza, poteva usufruire di colloqui in presenza e telefonici, frequentare altri detenuti e la biblioteca del carcere. Ora le lettere in entrata sono trattenute. Non ha più accesso alla biblioteca d’istituto, può avere un solo colloquio al mese, nessuna telefonata. Gli avocati difensori sostengono che questo trattamento “si traduce in condizioni di detenzione ai limiti dell’inumano, nell’assenza di attività rieducative e nell’impossibilità di accedere alle misure alternative…una vera e propria deprivazione sensoriale”. È il 2014 quando Cospito viene condannato a 10 anni e otto mesi: lo si ritiene responsabile del ferimento dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare; un attentato consumato a Genova due anni prima, rivendicato dalla Federazione anarchica informale. La procura di Torino, successivamente, avvia un’inchiesta, sempre a carico di militanti della Federazione anarchica informale, per reati commessi tra il 2003 e il 2016. Cospito è riconosciuto “capo e organizzatore di un’associazione con finalità di terrorismo”, e autore di un attentato alla scuola allievi carabinieri di Fossano, vicino Cuneo: nella notte tra il 2 e il 3 giugno 2006 esplodono due ordigni a basso potenziale; non ci sono vittime o feriti; ma, si legge nella sentenza, solo per una fortunata casualità. Come sia, Cospito viene condannato a vent’anni di carcere. La Corte di Cassazione riformula l’originario capo di imputazione: non più “strage contro la pubblica incolumità”, ma “strage contro la sicurezza dello Stato”. Quanto basta per un nuovo processo d’appello. Il nuovo reato prevede l’ergastolo ostativo: niente più benefici per il detenuto, a meno che non decida di collaborare. Il ministero della Giustizia rincara la dose: Cospito mantiene contatti con l’organizzazione eversiva “dedita alla commissione di gravi delitti”. Il primo caso di “un anarchico che finisce al 41 bis”. Così Cospito decide di dare attuazione a una forma di protesta che potrebbe concludersi con esiti drammatici; Cospito è deciso ad andare fino in fondo: “La condizione in cui mi tengono e la prospettiva che mi si rappresenta è quella di un lento morire, senza alcuna possibilità di uscire dal carcere. Se è così non vale la pena vivere”, ha detto al suo avvocato. Il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha deciso che Cospito deve restare al carcere duro. Chissà se il ministro della Giustizia Carlo Nordio può (e vuole) fare qualcosa. Certo è singolare che qualcuno, sia pure un anarchico come Cospito, possa essere condannato all’ergastolo senza che si sia macchiato di reati di sangue, e che debba patire il 41 bis come un boss mafioso, non si capisce perché. Soprattutto, come convincere Cospito che forse “così non vale la pena di vivere”, ma che occorre essere vivi, perché la vita non sia più una pena? Natale: nel carcere di Rebibbia e in altri 20 in Italia, detenuti serviti da chef e personaggi del mondo dello spettacolo agensir.it, 21 dicembre 2022 Si è svolto oggi nella Casa circondariale femminile di Rebibbia a Roma, e contemporaneamente in altre 20 in tutta Italia, la nona edizione del pranzo di Natale “L’altra cucina… per un pranzo d’amore”, promossa da Prison Fellowship Italia, Rinnovamento nello Spirito Santo e Fondazione Alleanza del RnS. Prima dell’inizio del pranzo la conferenza stampa moderata da Gabriele Corsi, alla quale hanno preso parte Salvatore Martinez, presidente di RnS, Alessia Rampazzi, direttrice della Casa circondariale femminile di Rebibbia, Lorella Cuccarini, lo chef Filippo La Mantia e, in collegamento video, Marcella Reni, presidente di Prison Fellowship Italia. “Un grande sforzo con tantissimi volontari che rendono possibile la realizzazione di questo evento”, le parole di Martinez che ha ricordato le parole di Papa Francesco in favore delle persone detenute e, partendo dall’esperienza del Covid, ha sottolineato come “sia ora più facilmente comprensibile quanto la persona sia bisognosa di strumenti di amore, proprio quando si è private della libertà”. “Oggi diventiamo famigliari di queste detenute che non potranno festeggiare con le loro famiglie. Questo gesto che compiamo, questa visita speciale che offriamo gratuitamente, generosamente per un altro Natale, ci insegna che, se un’altra cucina è possibile, è possibile anche un altro modo di fare fraternità. È una prova di responsabilità civile, un gesto di chiara rilevanza spirituale e sociale”. Il presidente di Rns ha concluso evidenziando come questa iniziativa guardi a due necessità importanti di questo tempo, comunicando al Paese che c’è bisogno di discontinuità sociale e generazionale. Sono state 230 a Roma le detenute che hanno partecipato al pranzo, gustando le portate preparate dallo chef Filippo La Mantia e, mentre il comico Antonio Giuliani proponeva alcuni sketch assieme a Massimo Mattia, nei panni di cameriere e camerieri di servizio ai tavoli si sono alternate Lorella Cuccarini, Gabriele Corsi e Laura Pertici, Stefano Jurgens, Ottavia Pojaghi Bettoni, Valeria Fabrizi, Maria Grazia Schiavo, Giulia Fiume, Kim Rossi Stuart, Ilaria Spada e Beatrice Fazi. “Oggi ci avete fatto il più bel regalo per i nostri 20 anni di matrimonio che festeggiamo qui in vostra compagnia”, sono state le parole di Gabriele Corsi rivolte alle detenute nella Casa circondariale. La giornata di festa romana si è svolta con un totale di circa 700 volontari impiegati per servire circa 6mila pasti anche in altri 20 carceri: Opera di Milano, Lorusso e Cutugno di Torino, Firenze, Massa, Bologna, Modena, Castelfranco Emilia, Pesaro, Secondigliano di Napoli, Salerno, Avellino, Aversa, Bari, Palmi, Vibo Valentia, Pagliarelli di Palermo, Siracusa, Cagliari, Nuoro e Lanusei. Il piano di Nordio: una Camera alta per indirizzare l’azione penale di Francesco Grignetti La Stampa, 21 dicembre 2022 La grande riforma costituzionale della Giustizia non è materia dell’immediato, ma il ministro Carlo Nordio ci punta eccome. “La separazione delle carriere, su cui io credo fermamente e su cui non faccio un passo indietro, richiede una revisione costituzionale, quindi sarà lunga”. Quando e se ci si arriverà, secondo il Guardasigilli cadrà anche l’obbligatorietà dell’azione penale. “È diventata una vuota astrazione metafisica”. Si apre però a quel punto il no do su chi avrà la potestà di scegliere quali reati perseguire e quali no. “Bisognerebbe provvedere con una Camera Alta a un’altra autorità che desse una priorità a quelli che sono i problemi o le indagini da fare”. Insomma, dice Nordio, l’azione penale dovrebbe essere indirizzata da un organo elettivo. Questa riforma, però, sarà talmente dirompente e rivoluzionaria, che lo stesso Nordio l’ha definita “divisiva” nella sua audizione di ieri al Senato. Per far saltare sulla poltrona i parlamentari, comunque, sono stati sufficienti gli accenni alle novità in arrivo. Primo pacchetto, i reati contro la Pubblica amministrazione. “A mio giudizio il reato di abuso d’ufficio va abolito, il traffico di influenze va rimodulato”. Dopodiché, fosse solo per lui, li eliminerebbe. “Se fossero aboliti non credo che qualcuno si lamenterebbe e non sarebbe un regalo a mafie”, spiega, ospite di Bruno Vespa. In fondo, è questa la sua filosofia: cancellare più reati possibile. Cita Tacito: “Più si fanno leggi e più la Repubblica si corrompe. Più si corrompe, più si fanno leggi”. Sulla corruzione, ad esempio, “l’efficacia deterrente delle leggi penali è pari a zero. Abbiamo avuto una proliferazione normativa e la corruzione continua a esserci”. Così è per il nuovo codice degli appalti. “Una semplificazione normativa, se fatta bene, non significa né un regalo alle mafie né alcuna forma di impunità per la corruzione. Significa semplificare le procedure e individuare le competenze”. Passo successivo, una stretta sulle intercettazioni perché la legge Orlando-Bonafede non sarebbe sufficiente ad impedire gli abusi. “Questa porcheria è continuata anche dopo la legge Orlando. Basta vedere il sistema Palamara: cosa è uscito che non aveva niente a che fare con l’indagine, e cosa non è uscito”. E poi c’è la tentazione di togliere il potere di appello ai pubblici ministeri. “Sono convintissimo della necessità di ritornare alla legge Pecorella che venne dichiarata incostituzionale dalla Corte. Quella legge va rimodulata”. Era un pallino di Silvio Berlusconi. In ultimo, resta la sua aspirazione a ridurre il ricorso al carcere. O quantomeno il carcere com’è. “Ci sono decine di caserme dismesse. Potrebbero essere una soluzione alternativa per i reati di non particolare allarme sociale”. Intercettazioni, Nordio insiste: basta porcherie di Simona Musco Il Dubbio, 21 dicembre 2022 L’avvertimento alle toghe (in rivolta): ispezioni rigorose sui ritardi della giustizia. Le captazioni “non siano più strumento di delegittimazione”. Sono un “terreno minato” le intercettazioni. Ne è consapevole il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che nel suo intervento ieri in Commissione Giustizia al Senato ha voluto sgomberare il campo dalle polemiche delle ultime ore, smontando in particolare “gli equivoci” sorti dopo la modifica proposta dal governo nella legge di bilancio con riferimento alle attività dei servizi di intelligence. Ma il suo intento era anche smentire quelli che lo vorrebbero titubante e ignaro delle mosse del suo stesso governo, tanto da ripetere più di una volta che non c’è “alcun passo indietro” rispetto a quelle che considera riforme fondamentali per una giustizia più giusta. Come la separazione delle carriere, la riforma (o cancellazione) di abuso d’ufficio e traffico d’influenze e una delegificazione per rendere più efficaci le norme anticorruzione, la cui efficacia deterrente, ha affermato, è pari a zero. Le toghe - e in particolare l’Anm - sono avvisate, dunque: le riforme si faranno. E l’ispettorato del ministero vigilerà - e lo sta già facendo - sulle “differenti durate dei processi e i rispettivi esiti nei vari uffici giudiziari a parità di risorse e di contenzioso”, monitoraggi che avranno frequenza quindicinale. “Aggiungo che l’attività ispettiva del ministero, al di là del fatto che vi saranno ispezioni rigorosissime e immediate quando vi fossero violazione di norme da parte dei magistrati”, deve essere preminentemente “di ausilio, di aiuto, per vedere a parità di risorse perché questo funziona di più e questo di meno”. Ma è la riforma delle intercettazioni a tenere banco, mentre il Pd teme una deriva da Stato di polizia: tale strumento, ha ribadito il ministro, non dovrà più servire come mezzo di “delegittimazione”. La modifica inserita nella legge di bilancio - che darebbe la possibilità ai servizi di intelligence di piazzare le cimici anche nelle abitazioni private, in deroga all’art. 614 del codice penale, con uno spostamento della spesa dal ministero della Giustizia al Mef - è tutt’altro che rivoluzionaria, ha spiegato il ministro, dal momento che tutto rimane “come prima”, ma aumentando “le garanzie”. E ciò perché le intercettazioni preventive, al contrario di quelle giudiziali, “rimangono chiuse a chiave nella cassaforte e non escono mai sui giornali, quindi sono più garantite delle altre: è una balla che sono più garantite le prime perché c’è un’autorizzazione del gip”. Il metodo di delegittimazione, ha evidenziato Nordio, è semplice: la richiesta di autorizzazione presentata dal pm arriva al gip “già corredata dei brogliacci della polizia, che sono generalmente sbagliati” e così le intercettazioni “sono già finite sui giornali senza che sia stata attivata quella norma del codice che ne prescrive l’individuazione e la trascrizione sotto forma di una perizia”. Una “porcheria” che “è continuata anche dopo la legge Orlando”, che pure andava nella giusta direzione. “Basta vedere anche l’inchiesta Palamara, cosa è uscito da quelle intercettazioni, anche cose che non avevano a che fare con l’indagine, e cosa non è uscito. Ma voi credete veramente che tutte le intercettazioni del trojan di Palamara siano state trascritte con la perizia e siano state date a tutti? Sono state selezionate, pilotate, diffuse secondo gli interessi di chi le diffondeva e non sono state ancora tutte rese pubbliche o ascoltate dai difensori o individuate nella forma della perizia”. Un palese accenno - ma senza nominarlo - all’audio della conversazione tra l’ex zar delle nomine e l’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, audio ufficialmente sparito nel nulla. L’emendamento, ha dunque ribadito, prevedrebbe come novità solo il trasferimento di un piccolo capitolo di spesa, per una ragione molto semplice: le spese più grandi - quelle di noleggio delle strutture informatiche - non gravano su via Arenula. Che si occupa, invece, di spese “misere”, ovvero le fatture, dove però vengono riportati i tabulati delle intercettazioni. L’intento sarebbe, dunque, quello di proteggere i dati sensibili e ridurre il danno a “zero”, come accade negli altri Paesi, dove le intercettazioni sono affidate “ad agenzie indipendenti”. Con un occhio anche al diritto all’informazione, che va difeso, ha chiarito il ministro, ma prendendo atto del fatto “che non si può più continuare con la delegittimazione dei cittadini fatta con intercettazioni pilotate e divulgate e la violazione del segreto istruttorio”. Guai a non definirlo liberale, ha detto in apertura il ministro, che ha più volte invocato la collaborazione con l’opposizione per riformare la giustizia. Che dovrà però digerire proposte come l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, rispetto alla quale Nordio si è detto “convintissimo che sia necessario riformare” la disciplina tornando “alla legge Pecorella”. Anche perché la pronuncia di incostituzionalità della Consulta, ha affermato, sarebbe superata da fatti nuovi, ovvero dal principio, introdotto dalla riforma Cartabia, che “una persona non può essere rinviata a giudizio se non vi sono prove al di là del ragionevole dubbio. Come si può condannare una persona - si è chiesto - quando un giudice precedente ha dubitato al punto di assolvere?”. Dunque l’intento è quello di consentire l’impugnazione solo nei casi in cui intervengano nuove prove, ma rifacendo il processo sin dall’inizio. Giustizia lenta, Nordio minaccia le toghe. Si riaccende lo scontro con l’Anm di Liana Milella La Repubblica, 21 dicembre 2022 Al Senato il Guardasigilli conferma di voler separare le carriere, riformare l’abuso d’ufficio e difende la riduzione dei poteri dell’Anac. Ma la sua priorità al momento sono i processi civili. Santalucia: “È colpa del ministero”. “Ci saranno ispezioni rigorosissime, vorremo che i vari ispettori andassero nei vari uffici a vedere perché, a parità di risorse, alcune cose funzionano e altre no”. Così il Guardasigilli Carlo Nordio al Senato. A strettissimo giro, con Repubblica, replica il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia: “Le inadempienze e le insufficienze che, in alcuni casi, ritardano i processi sono da attribuire al ministero e non ai giudici”. Ancora una minaccia alle toghe del ministro della Giustizia, che parla in una sede istituzionale, la commissione Giustizia del Senato davanti alla presidente Giulia Bongiorno. Prosegue la sua audizione di una settimana fa e conferma la linea hard contro i giudici. A partire dalla lentezza dei processi che, dice Nordio, “ci costa fino al 2 per cento del Pil”. Da qui l’annuncio di ispezioni a raffica, “rigorosissime” le definisce lui, per capire perché, a suo dire, alcuni uffici funzionano e altri no.  Immediata la reazione del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia: “Il ministro, con le ispezioni annunciate, scoprirà che le inadempienze e le insufficienze che, in alcuni casi, ritardano i processi sono da attribuire al ministero e non ai giudici, che lavorano a ritmi serrati in condizioni di particolare e cronico disagio per carenza di mezzi e strutture. Dal ministro ci attendiamo, lo ribadisco, che faccia la sua parte di responsabile dei servizi relativi alla giustizia non prospettando ispezioni e indagini, ma rispondendo alle richieste di efficace intervento che la magistratura da tempo rivolge a via Arenula, spesso inascoltata”.  Sì alla riforma degli appalti - In più Nordio difende pure la recentissima modifica degli appalti e dei controlli dell’Anac, nettamente indeboliti, se non del tutto annullati, come ha detto il presidente Giuseppe Busia. Mentre Nordio afferma che “la semplificazione delle norme non significa né un regalo alle mafie, né impunità per la corruzione, ma individuare competenze e semplificare procedure per identificare eventuali casi”.  Gravi accuse sul caso Palamara - Altro affondo di Nordio sulle intercettazioni. Difende l’intervento su quelle preventive contenuto nella manovra fiscale (“Non è rivoluzionario, è esattamente la stessa cosa di prima, ha aumentato le garanzie, e trasferito solo un piccolo capitolo di spesa”). Ma soprattutto lancia un’accusa contro le toghe sugli ascolti del caso Palamara. Parole gravi che coinvolgono anche la procura di Perugia. Dice Nordio: “Questa porcheria della diffusione è continuata anche dopo la legge Orlando, basta vedere il sistema Palamara, cosa è uscito che non aveva niente a che fare con l’indagine e cosa non è uscito. Credete che tutte le intercettazioni del trojan di Palamara siano state trascritte nella forma della perizia? Sono state selezionate, pilotate e diffuse secondo gli interessi di chi le diffondeva, e non sono ancora tutte state rese pubbliche”.  “Ritornare alla legge Pecorella sull’appello” - Nordio vuole pure tornare all’abolizione del processo d’appello per il pm che perde il processo, nella stessa formula usata vent’anni fa dall’allora presidente della commissione Giustizia della Camera, l’avvocato, anche di Berlusconi, Gaetano Pecorella. Legge bocciata dalla Consulta. E adesso il ministro dice: “Sono convintissimo della necessità di una riforma e di ritornare alla legge Pecorella che venne dichiarata incostituzionale dalla Corte. Quella legge va rimodulata”.  Più fondi per le carceri - Il Guardasigilli annuncia anche che ci saranno più soldi per le carceri e aggiunge che “sono stati strappati con le unghie e con i denti in una situazione che, dal punto di vista economico-finanziario, è estremamente delicata” Un regalo anche per Costa di Azione - C’è pure un “regalo” per il deputato Enrico Costa, responsabile Giustizia di Azione, perché Nordio aumenta il fondo di 7 milioni di euro per gli assolti. “Non è un granché - dice il Guardasigilli - ma rappresenta un segnale di attenzione dello Stato verso chi ha subito ingiustamente un processo”. Csm, Ermini “richiama” Nordio: “Sempre rigorosi sugli illeciti disciplinari delle toghe” di Davide Varì Il Dubbio, 21 dicembre 2022 Il vicepresidente dell’organo di auto-governo della magistratura italiana non ha condiviso le recenti dichiarazioni del ministro della Giustizia e ha inteso puntualizzare alcuni punti. ”Abbiamo garantito il rispetto dell’indipendenza della magistratura da ogni altro potere e da qualunque forma di condizionamento”. “Ritengo necessario rivolgermi al ministro Nordio, che ha dimostrato di non conoscerlo, per ribadire ancora una volta il grande e faticoso lavoro di autoriforma e di rinnovamento svolto da questo Consiglio, in osservanza delle prerogative che la Costituzione gli assegna, per garantire il rispetto dell’indipendenza della magistratura da ogni altro potere e da qualunque forma di condizionamento”. Lo ha detto il vicepresidente del Csm David Ermini, in apertura del plenum di oggi, replicando così ad alcune dichiarazioni rilasciate dal Guardasigilli. “Voglio ricordare, in relazione all’attività delle nomine, le prassi virtuose introdotte dal Consiglio, in conformità al principio di trasparenza dell’attività amministrativa, costituite dallo svolgimento delle audizioni dei candidati e dal rispetto della cronologia nella trattazione dei posti, che hanno anticipato le riforme legislative poi sopravvenute” ha aggiunto Ermini. “Il ministro ignora altresì la faticosa e incessante attività svolta dalla sezione disciplinare, che ho l’onore di presiedere, per reprimere, con rigore, gli illeciti accertati, in modo che quanto accaduto, che ha destato, in primo luogo in questa Assemblea, grande sconcerto e riprovazione non debba più ripetersi. Mi limito a riportare soltanto un dato: nell’anno 2021 il numero delle condanne, in relazione ai procedimenti avviati, è stato pari al 56%”. “Tutto questo è stato essenziale, lo dico con orgoglio, per assicurare la tenuta costituzionale del sistema del governo autonomo della Magistratura che costituisce, come in più occasioni ha ricordato il Presidente Sergio Mattarella, uno dei cardini della nostra Carta costituzionale” ha concluso Ermini mettendo in evidenza il lavoro di “autoriforma” e “rinnovamento” svolto nel corso dell’attuale consiliatura. Se Giulia Bongiorno fa il ministro ombra della Giustizia di Giulia Merlo Il Domani, 21 dicembre 2022 La commissione Giustizia del Senato raccoglierà dati e sentirà professionisti in vista del progetto di riforma del ministro Nordio. Ma la scelta è peculiare, visto che il testo ancora non c’è. Si procederà quindi con una serie di audizioni, che vedranno interventi di avvocati, capi delle procure ma anche membri dei servizi segreti e dirigenti delle aziende che si occupano delle intercettazioni. Le audizioni inizieranno con il nuovo anno, in attesa che dal ministero della Giustizia arrivino disegni di legge di riforma dell’attuale assetto dell’istituto, come già anticipato dal guardasigilli Carlo Nordio. La commissione Giustizia del Senato guidata dalla leghista Giulia Bongiorno ha approvato una indagine conoscitiva in materia di intercettazioni, estendendola anche a quelle fatte con l’uso dei virus spia. Si procederà quindi con una serie di audizioni, che vedranno interventi di avvocati, capi delle procure ma anche membri dei servizi segreti e dirigenti delle aziende che si occupano delle intercettazioni, oltre all’acquisizione dei dati disponibili in materia, sia sui numeri delle captazioni che sui loro costi, che sono diversi da territorio a territorio. Le audizioni inizieranno con il nuovo anno, in attesa che dal ministero della Giustizia arrivino disegni di legge di riforma dell’attuale assetto dell’istituto, come già anticipato dal guardasigilli Carlo Nordio. Le mosse di Bongiorno - “Nelle prossime sedute inizieremo l’indagine, che ha lo scopo di approfondire tutto il tema delle Intercettazioni, visto che è una materia che sarà oggetto di interventi legislativi”, ha infatti chiarito la presidente Bongiorno. Le sue stesse parole, però, hanno evidenziato la singolarità dell’iniziativa: in questo caso, infatti, prima ancora che dal ministero arrivino decisioni puntuali di riforma, la commissione del Senato prende una iniziativa in anticipo rispetto ai tempi che nemmeno via Arenula ha ancora fissato per un disengo di legge. Per arrivare preparata al momento di dover valutare il pacchetto di riforma, oppure per avere maggiori strumenti conoscitivi per emendarla e modificarla. Il tema farà discutere, anche se l’indagine conoscitiva ha trovato il via libera anche delle opposizioni, che tuttavia si sono opposte all’inserimento nella manovra di Bilancio dell’emendamento sulle intercettazioni preventive con la capogruppo del Pd, Anna Rossomando. Forza Italia, che si sta muovendo in modo attento rispetto alle iniziative del governo ma sul tema delle intercettazioni è in sintonia con il ministro Nordio e soprattutto del suo viceministro Francesco Paolo Sisto, ha già annunciato che chiamerà al Senato il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Giovanni Melillo e l’avvocato Luigi Panella, che ha lavorato al caso dell’ex magistrato Luca Palamara, ascoltato attraverso i trojan, cui è seguita la pubblicazione illecita sui giornali di intercettazioni non penalmente rilevanti. Inoltre, ha anticipato il capogruppo di FI in commissione, Pierantonio Zanettin, c’è anche la volontà di ascoltare i tecnici informatici dell’inchiesta nei confronti di Palamara, a lungo al centro di scontri anche giudiziari sulla procedura di inoculamento dei trojan e di conservazione delle intercettazioni sbobinate. La linea del governo sulle intercettazioni, tuttavia, sembra segnata: intervenire per ridurle e renderle meno conoscibili e divulgabili. A ripeterlo è stato Sisto, che ha spiegato come l’attuale normativa abbia due problemi: “Uno riguarda la pubblicazione e l’altro i costi. Sul primo ci vorrà qualche intervento per evitare questa corsa al gossip”, mentre ne andrebbe ridotto l’uso “per i reati comuni” perché “Duecento milioni di euro l’anno non mi sembrano una cifra di poco conto”. Il tema, però, fino ad ora è stato toccato solo con enunciazioni di principio da parte della maggioranza. L’interrogativo è se il comune sentire rimarrà tale anche a fronte di un disegno di legge ministeriale che potrebbe mettere in luce le diverse sensibilità all’interno del governo. Intercettazioni preventive: il trucco del governo per renderle meno controllabili di Giulia Merlo Il Domani, 21 dicembre 2022 L’emendamento, a rischio di inammissibilità, toglie dall’alveo delle norme di procedura penale le intercettazioni a fini di intelligence, allunga la durata della loro possibile conservazione e le estende anche nei domicili privati con virus spia. Il governo ha depositato un emendamento alla legge di Bilancio in materia di intercettazioni preventive, ovvero quelle intercettazioni che vengono disposte dai servizi segreti in assenza di procedimenti giudiziari avviati. L’emendamento prevede di attribuire al ministero dell’Economia le spese di intercettazione a fini di intelligence, mentre ora vengono sostenute dal ministero della Giustizia. L’emendamento - che potrebbe ancora essere dichiarato inammissibile - ha subito provocato polemiche da parte dell’opposizione. Secondo il guardasigilli, Carlo Nordio, in audizione in commissione Giustizia del Senato, invece “non è rivoluzionario, è esattamente la stessa cosa di prima. Ha aumentato le garanzie” ed è stato “trasferito solo un piccolo capitolo di spesa”.  In realtà, l’emendamento provoca conseguenze significative in un settore delicatissimo che ha a che fare con il diritto alla privacy dei cittadini, la cui violazione per ragioni di sicurezza deve comunque essere vagliata da un magistrato. In particolare, le intercettazioni potranno essere conservate molto più a lungo rispetto all’attuale previsione, che passa dalla distruzione immediata dopo il deposito dei verbali a fino a 6 mesi. Anche il deposito non dovrà più avvenire entro al massimo 10 giorni, ma entro 30. Con tutti i rischi che una conservazione più lunga comporta.  Che cosa sono e come funzionano - Le intercettazioni preventive sono uno strumento ai limiti della costituzionalità e sono diverse dalle intercettazioni investigative perché vengono effettuate prima ancora che il reato sia stato commesso e che una notizia di reato ci sia, ma solo sulla base di sospetti. Questo strumento era stato concepito negli anni Settanta, durante gli anni dell’emergenza del terrorismo, e aveva come obiettivo di prevenire reati di terrorismo politico. All’epoca, nel vecchio codice di procedura penale, era previsto che, a richiesta del Ministro per l’interno, del prefetto, del questore o delle forze dell’ordine, il procuratore della Repubblica potesse autorizzare intercettazioni preventive per indagini di terrorismo. Questa stessa previsione, poi, era stata estesa anche ai reati di criminalità organizzata di tipo mafioso. Nel nuovo codice di procedura penale, questa ipotesi è stata eliminata e trasferita nelle cosiddette disposizioni attuative all’articolo 226, così da far assumere un carattere assolutamente eccezionale alle intercettazioni preventive. Vista la loro natura assolutamente eccezionale, le intercettazioni preventive devono essere chieste dal ministero dell’Interno e autorizzate dall’autorità giudiziaria, ma soprattutto è espressamente stabilito che tutte le informazioni acquisite non possono essere utilizzate in un processo penale “fatti salvi i fini investigativi”. Oggi possono venire utilizzate solo per reati gravi di mafia o terrorismo, con ampliamento recente ai reati di terrorismo commessi mediante tecnologie informatiche. Questa specificazione è servita, infatti, a poter intervenire sul fenomeno dei cosiddetti “lupi solitari”, i terroristi isolati che si convertono alla causa fondamentalista via web e così organizzano gli attacchi. Dal punto di vista procedurale, il procuratore della repubblica le autorizza nel caso i ”elementi investigativi che lo giustifichino”, per una durata massima di 40 giorni prorogabili per periodi successivi di 20 giorni, con autorizzazione del pubblico ministero. I contenuti vengono poi sbobinati e depositati entro 5 giorni presso l’ufficio del procuratore, che ne verifica la conformità all’autorizzazione e dispone l’immediata distruzione di supporti e verbali. La conservazione dei dati acquisiti ma non dei verbali può essere disposta, in via eccezionale, per non più di due anni. Attualmente, dunque, la disciplina è ancorata alle norme di coordinamento del codice di procedura penale e l’iniziativa dei servizi segreti è comunque vagliata da un pubblico ministero. Cosa cambia - L’emendamento prevede che le spese vengano sostenute dal ministero dell’Economia perché così “si consente anche di evitare la circolazione al di fuori del Comparto intelligence di documentazione contabile contenente elementi di natura sensibile, come numeri telefonici e autorità giudiziaria autorizzante, che rende riconducibile la relativa attività ai Servizi di informazione, determinando un evidente vulnus alle esigenze di riservatezza che caratterizzano le suddette operazioni”. Inoltre, sono stati eliminati i collegamenti con l’articolo 226 delle norme di coordinamento, “atteso che l’ancoraggio delle captazioni del Comparto informativo alle previsioni codicistiche ha determinato criticità e difficoltà interpretative”. L’emendamento, infine, prevede l’ipotesi di un differimento del deposito dei verbali e dei supporti per un periodo “non superiore ai sei mesi”, con l’autorizzazione del procuratore generale e richiesta motivata da esigenze tecniche e operative. Anche il deposito del verbale viene ritardato: entro 30 giorni dalla fine delle intercettazioni. Infine, l’emendamento amplia l’utilizzo di queste intercettazioni: attualmente, infatti, la captazione informativa è vietata nei luoghi di domicilio (come le camere da letto e le stanze della casa) ma “quando siano ritenute indispensabili”, sarà possibile procedere a intercettare anche in questi luoghi e anche con strumenti come i virus spia.  Gli effetti delle modifiche - L’emendamento ha scatenato l’allarme delle opposizioni sia per ragioni procedurali che sostanziali. Dal punto di vista della procedura, è assolutamente inedito che in una manovra finanziaria confluisca una materia così delicata come le intercettazioni a fini di intelligence, soprattutto a fronte di un ammontare di spesa che viene solo spostato da un ministero all’altro. La questione della spesa, quindi, potrebbe sembrare una sorta di pretesto per approvare velocemente in manovra, con la fiducia, un tema con implicazioni molto maggiori. Dal punto di vista del merito, infatti, l’emendamento non è neutro come sostiene il ministro. L’emendamento, infatti, allenta la valutazione del procuratore generale nella valutazione della richiesta di intercettazioni, che nel nuovo articolo è meno dettagliata rispetto a quella prevista dall’articolo 226. Inoltre, la delega ai servizi a richiedere l’autorizzazione alle intercettazioni verrà data formalmente “dal presidente del Consiglio dei ministri” e non più dal ministero dell’Interno o, su sua delega, dai responsabili dei servizi. Il materiale intercettato, poi, rimarrà a disposizione per molto più tempo rispetto al passato, mentre prima veniva distrutto quasi immediatamente. I pro e i contro - L’emendamento, di fatto, toglie competenza al ministero della Giustizia in materia di intercettazioni preventive, lasciando in capo al procuratore generale solo l’autorizzazione della richiesta dei servizi segreti. Nella disponibilità dell’autorità giudiziaria, però, non ci sarà più la documentazione contabile, che contiene anche i dati sensibili dei numeri di telefono intercettati. Questo da un lato limita la conoscenza dell’autorità giudiziaria ma, sulla carta, dovrebbe aumentare il livello di segretezza di queste intercettazioni, nella direzione auspicata da Nordio di eliminare ogni possibilità di vederle filtrate sui giornali (cosa che comunque, almeno con le intercettazioni preventive, non è mai storicamente avvenuto). L’elemento di dubbio riguarda l’aumento del tempo prima della distruzione delle intercettazioni, di cui non è chiara la ragione. L’altro passaggio che solleva interrogativi è il fatto di staccare del tutto le intercettazioni preventive dalla norma del codice di procedura penale, che davano a questo strumento un ancoraggio legale. Ora, invece, vengono collocate, formalmente, al di fuori dell’attività regolata dal codice. Emilia Romagna. La Regione interviene per aiutare le madri detenute con minori al seguito regione.emilia-romagna.it, 21 dicembre 2022 Via a un programma per il reinserimento socio-lavorativo. Taruffi: “La situazione detentiva resta incompatibile con il corretto sviluppo psicofisico dei bambini”. La Giunta regionale ha approvato il progetto realizzato da Comune di Bologna, in collaborazione con Asp città di Bologna, ministero della Giustizia e autorità giudiziaria, che prevede la sperimentazione di un servizio a favore di genitori detenuti con l’attivazione di strutture di accoglienza dedicate. Al via anche una programmazione triennale per il reinserimento nella società e nel mondo del lavoro che verrà sostenuta con un fondo di 6 milioni in parte cofinanziato dalla Regione In Emilia-Romagna i minori che finiscono, seppure per brevi periodi, all’interno degli Istituti penitenziari al seguito dei genitori, sono pochissimi e limitati a quelle situazioni familiari in cui non vi sono altre alternative. Ma la situazione detentiva, sia pure attenuata dalla sezione nido della Casa Circondariale di Bologna, rimane incompatibile con il corretto sviluppo psico-fisico di un minore e con i diritti sanciti da ogni documento internazionale. Per questo motivo, e grazie ad un finanziamento di 135.000 euro messo a disposizione dal ministero della Giustizia, la Giunta regionale ha approvato il progetto di rilievo regionale del Comune di Bologna che prevede la sperimentazione, almeno fino al 31 dicembre 2023, di un servizio a favore di madri detenute con minori al seguito (ed eccezionalmente, qualora si verifichi la casistica, di padri) e di donne in stato di gravidanza. L’intervento valorizza i servizi che il Comune, in collaborazione con ASP, è in grado di mettere a disposizione. Tra questi, la Centrale Operativa Telefonica del Pronto intervento sociale, che avrà funzione di punto unico di accesso, e l’attivazione di strutture di accoglienza, riconosciute dalla Regione, in grado anche di garantire l’osservazione delle dinamiche relazionali del nucleo accolto. Per rendere possibili questi percorsi di accoglienza, vista la molteplicità di soggetti coinvolti, è stato messo a punto un protocollo operativo, che verrà a breve sottoscritto - oltre che dalla Regione, dal Comune e da ASP Bologna - anche dal Tribunale di Sorveglianza, dalla Corte d’Appello, dal Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria Emilia-Romagna e Marche e dall’Ufficio Interdistrettuale Esecuzione Penale Esterna Emilia-Romagna e Marche. Inoltre nei prossimi mesi, si vedrà l’approvazione di una programmazione triennale di interventi per il reinserimento nella società e nel mondo del lavoro, del valore di circa 6 milioni di euro, di cui il 70% a carico di Cassa delle Ammende e il restante 30% quale cofinanziamento regionale. Roma. Detenuto si toglie la vita in carcere a Rebibbia: sarebbe uscito tra sei mesi La Repubblica, 21 dicembre 2022 L’uomo, 30 anni di origine bengalese, aveva una condanna a meno di due anni per concorso in rapina. Dall’inizio dell’anno in 82 si sono tolti la vita, un numero mai così alto. Sarebbe uscito dal carcere tra sei mesi ma si è impiccato questa mattina nella propria cella. L’uomo, 30 anni di origine bengalese, aveva una condanna a meno di due anni per concorso in rapina. In primo grado era stato lasciato fuori dal carcere, ma a luglio in appello per un residuo di pena di un anno era stato portato nel carcere di Rebibbia. Sarebbe dovuto uscire il prossimo luglio ma stamattina si è impiccato in cella. “Ogni suicidio in carcere ci deve interrogare intorno a quello che si poteva fare per evitarlo, ma quando diventano così tanti ci obbliga a considerarli come una spia di un sistema penitenziario che richiede profondi cambiamenti”, dichiara il presidente dell’Associazione Antigone, Patrizio Gonnella. “Se si fossero suicidate ottantadue persone in una cittadina di cinquantamila abitanti parleremmo giustamente di tragedia, emergenza, dramma - aggiunge - cercheremmo di capire come mai possa accadere”. “Invece - dice ancora Gonnella - poichè si tratta di detenuti cala un silenzio colpevole”. “Nei giorni scorsi papa Francesco ha evocato un provvedimento di clemenza, qualunque esso sia. Non ci sono state risposte da parte della classe politica e dirigente” sottolinea Gonnella. “Un segnale di speranza ai detenuti è necessario, in prossimità della fine dell’anno. Dunque, a seguito dell’ennesimo suicidio nelle carceri italiane, chiediamo che la questione carceraria sia affrontata in Parlamento al fine di umanizzare e modernizzare le condizioni di detenzione. È una necessità che riguarda anche lo staff degli istituti di pena. Maggiore è la gratificazione sociale del personale migliore sarà anche il clima dentro le carceri” conclude. Benevento. Detenuti protestano per la mancanza dell’acqua calda ntr24.tv, 21 dicembre 2022 “Scoppiata rivolta nel carcere di Benevento. Per motivi ancora da chiarire, presso la Quarta Sezione della casa Circondariale beneventana, è in atto una rivolta ed è stato chiesto l’intervento dei Carabinieri e dei colleghi della Polizia di Stato”. Lo riferisce Orlando Scocca, Fp Cgil Campania per la Polizia Penitenziaria, che aggiunge: “La nota carenza di organico della Polizia Penitenziaria che costringe a minimizzare le presenze dei poliziotti nei turni pomeridiani, ha sicuramente agevolato i disordini che alcuni detenuti stanno mettendo in atto e nemmeno l’intervento dei colleghi presenti nella caserma Agenti è bastato per fronteggiare la situazione. Per questo motivo, il Direttore del Carcere il Dott. Marcello, ha chiesto l’intervento delle altre Forze dell’ordine”. Secondo le prime informazioni, si tratterebbe di una protesta legata a piccoli disservizi per l’acqua calda. I detenuti si sono rifiutati di rientrare nelle celle e sono rimasti nei corridoi. Intanto, le forze dell’ordine intervenute in supporto, hanno vigilato all’esterno della struttura di contrada Capodimonte. Dopo una trattativa, le proteste sono rientrare. “Ringrazio l’intervento tempestivo ed encomiabile delle forze dell’ordine del Sannio. Si tratta di una sinergia istituzionale che funziona benissimo a favore della sicurezza”, ha commentato il direttore della casa circondariale, Gianfranco Marcello. Mirko Manna della FP CGIL Nazionale per Polizia Penitenziaria, aggiunge: “La casa circondariale di Benevento ha una capienza detentiva di 260 posti, ma attualmente ospita circa 370 detenuti con sezioni anche di detenuti in “Alta Sicurezza”. Sulla presenza in organico dei Poliziotti e soprattutto sulle percentuali di eventi critici, il DAP non fornisce statistiche aggiornate nonostante abbiamo chiesto da mesi di metterli a disposizione dei Sindacati e dell’opinione pubblica. Ci auguriamo che la rivolta in corso non determini ferimenti tra i colleghi. Seguiamo da vicino la vicenda, ma è l’ennesima cosiddetta emergenza che non è tollerabile in un Paese che si vanta dei successi della rieducazione, nascondendo i problemi e i dati statistici sotto al tappeto”. Firenze. Pestaggi a Sollicciano, non fu tortura: gli agenti condannati per lesioni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 dicembre 2022 La procura aveva chiesto 8 anni per l’ispettrice, ritenendola l’istigatrice dei pestaggi, e tra 1 e 7 anni per gli altri imputati. L’inchiesta esplose nel gennaio 2020. Non ci fu tortura nel carcere di Sollicciano a Firenze, lo ha deciso la gup Silvia Romeo che ha derubricato l’accusa contestata dalla procura in lesioni aggravate e ha inflitto, con il rito abbreviato, condanne a fino a 3 anni e 6 mesi a un’ispettrice della Polizia penitenziaria e ad altri otto agenti per i pestaggi avvenuti nell’istituto tra il 2018 e il 2020. Assolto un altro agente, che aveva chiesto l’abbreviato, e prosciolti due medici in servizio nel carcere, accusati di aver raccontato un’altra versione su due detenuti aggrediti. La procura aveva chiesto 8 anni per l’ispettrice, ritenendola l’istigatrice dei pestaggi, e tra 1 e 7 anni per gli altri imputati. L’inchiesta esplose nel gennaio 2020, con l’arresto dell’ispettrice, di un agente e di un assistente capo. Per altri sei agenti, scattarono le misure interdittive. Al centro dell’inchiesta, tre presunti pestaggi, avvenuti tra il 2018 e il 2020. Nell’ufficio dell’ispettrice sarebbe avvenuto il più violento degli episodi contestati, vittima un detenuto marocchino, colpevole di aver protestato insultando un agente. L’uomo sarebbe stato portato nell’ufficio e poi, davanti all’ispettrice, picchiato da sette agenti con pugni e calci fino a lasciarlo a terra senza fiato e procurandogli la frattura di due costole. Prima di essere portato in infermeria, sarebbe stato inoltre condotto in una stanza di isolamento, costretto a togliersi i vestiti e lasciato nudo per alcuni minuti per umiliarlo. Nell’inchiesta erano coinvolti anche due medici della Asl Toscana Centro in servizio nel carcere, accusati di falso materiale e commesso da pubblico ufficiale in atti pubblici, di omessa denuncia di reato da parte di pubblico ufficiale e di favoreggiamento. Da ribadire che i due sanitari sono stati prosciolti. Ogni giorno 1.313 pazienti psichiatrici in Pronto Soccorso. Le carenze del Sistema sanitario nazionale di Massimo Cozza* La Repubblica, 21 dicembre 2022 In crescita nel 2021 gli accessi rispetto ai due anni precedenti. I dati considerano soltanto gli adulti, serve monitoraggio sui giovani. Nel 2021 ogni giorno in Italia sono andate al Pronto Soccorso per le patologie psichiatriche in media 1.313 persone. Il 3,3% del numero totale degli accessi, in crescita rispetto al 3,2% del 2020 e al 3,1% del 2019. Ma solo il 14,6% si è trasformato in ricovero, di cui più della metà in psichiatria. È questo il dato dal quale partire per una prima riflessione sui nuovi dati contenuti nel Rapporto Salute Mentale Anno 2021, appena pubblicato dal Ministero della Salute. Accessi al Pronto Soccorso per patologie psichiatriche in crescita - Appare evidente che c’è un rilevante accesso improprio, correlato verosimilmente ad una carenza delle risposte che i cittadini ricevono dal territorio. Considerazione confermata dal dato che circa il 40% degli accessi per problemi psichiatrici registra una diagnosi di sindromi nevrotiche e somatoformi, che dovrebbero essere trattate dalla medicina territoriale con la consulenza/collaborazione dei centri di salute mentale. Più in generale gli utenti psichiatrici assistiti dai servizi specialistici ammontano a circa 800mila (778.737 unità, ma con la mancanza dei dati della Regione Calabria che nel 2020 erano 27.589). A fronte di una stima di circa 4milioni di cittadini con disturbi mentali. Gli stessi numeri dell’INPS relativi al bonus psicologo con 395.604 domande delle quali accettate 41.657, sono indicativi di una richiesta di salute mentale, anche se è stato possibile presentare le domande con una autopsicodiagnosi senza la necessità di alcuna certificazione sanitaria. Le carenze - D’altro canto la dotazione del personale delle unità operative psichiatriche pubbliche risulta pari a 29.785 unità, circa mille in più al 2020 (28.807), ma con una carenza di 9.595 operatori rispetto al parametro del Progetto Obbiettivo Tutela della Salute Mentale 1998 - 2000 che indicava tendenzialmente un organico di almeno un operatore ogni 1500 abitanti. Un dato critico se pensiamo che in salute mentale è centrale la relazione personale con chi soffre di disturbi psichici. Nel Rapporto non sono stati aggiornati al 2021 i costi dell’assistenza psichiatrica ma vengono riportati i dati del 2020, che indicano una percentuale del fondo sanitario nazionale del 2,75% rispetto al 5% che era stato l’impegno assunto dai Presidenti delle Regioni nel 2001, con una carenza in termini assoluti di oltre 2mld. Vi è infine da segnalare che i dati del Rapporto si riferiscono all’assistenza psichiatrica relativa agli adulti, che andrebbero integrati con una rilevazione puntuale anche rispetto al disagio mentale minorile. In conclusione le politiche della salute mentale non possono limitarsi a interventi spot con finanziamenti temporanei legati a singoli progetti, dall’autismo ai disturbi del comportamento alimentare, e neanche alla riproposizione del bonus psicologico che rappresenta uno strumento errato che parte da una esigenza giusta. Un voucher pubblico rilasciato al cittadino, sebbene con il criterio dell’ISEE, per poterlo spendere nel privato per alcune sedute di psicoterapia, ma senza porsi la domanda: e dopo? Un nuovo piano nazionale è necessario - Si conferma la necessità di un nuovo piano nazionale per la salute mentale, anche in riferimento ai cambiamenti clinici e post chiusura ospedali psichiatrici giudiziari, accompagnato da più investimenti strutturali nel servizio pubblico, a partire dal personale. Non solo con più risorse per i dipartimenti di salute mentale, ma anche per gli sportelli nelle scuole, per realizzare una rete distrettuale con psicologi di base pubblici, e con campagne di prevenzione legate a contrastare lo stigma e a promuovere l’inclusione sociale. Dopo la pandemia la maggiore diffusione del disagio mentale, a partire dagli adolescenti, è stata confermata da numerose evidenze scientifiche ed è diventata un tema ripreso dai mass media. Adesso, anche alla luce dei dati del Rapporto 2021, servirebbe un’assunzione di responsabilità della politica e delle istituzioni con un maggiore impegno concreto per consentire di dare una risposta appropriata al disagio mentale di milioni di cittadini ed alle loro famiglie. *Direttore del Dipartimento di Salute Mentale ASL Roma 2 “Lo smartphone? È come la cocaina e gli studenti italiani sono decerebrati” di Gianna Fregonara e Orsola Riva Corriere della Sera, 21 dicembre 2022 Ecco il documento che ha ispirato Valditara. La relazione del senatore Andrea Cangini (Forza Italia) sui danni fisici, psicologici e mentali dello smartphone è stata allegata alla circolare sul divieto di cellulari in classe. “Ci sono i danni fisici: miopia, obesità, ipertensione, disturbi muscolo-scheletrici, diabete. E ci sono i danni psicologici: dipendenza, alienazione, depressione, irascibilità, aggressività, insonnia, insoddisfazione, diminuzione dell’empatia. Ma a preoccupare di più è la progressiva perdita di facoltà mentali essenziali, le facoltà che per millenni hanno rappresentato quella che sommariamente chiamiamo intelligenza: la capacità di concentrazione, la memoria, lo spirito critico, l’adattabilità, la capacità dialettica”. Non è un libro di fantascienza distopica, è la relazione presentata a giugno dell’anno scorso dal senatore Andrea Cangini (Forza Italia) sull’impatto del digitale sugli studenti (leggi qui il testo integrale) che il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha allegato alla sua circolare sullo stop all’uso dei telefonini in classe. Un’indagine che paragona l’uso e abuso dello smartphone (chissà perché solo da parte dei giovani) alla tossicodipendenza. “Niente di diverso dalla cocaina - scrive Cangini nella relazione mandata da Valditara alle scuole -. Stesse, identiche, implicazioni chimiche,neurologiche, biologiche e psicologiche”. La Corea del Sud - A sostegno di questa tesi vengono portate le opinioni raccolte da neurologi, psichiatri, psicologi, pedagogisti, grafologi ed esponenti delle Forze dell’ordine “auditi” nel corso dell’indagine conoscitiva portata avanti da Cangini. Si cita il caso limite della Corea del Sud dove “il 30 per cento dei giovani tra i dieci e i diciannove anni è classificato come “troppo dipendente” dal proprio telefonino: vengono disintossicati in sedici centri nati apposta per curare le patologie da web”. In Cina, scrive ancora Cangini, “i giovani “malati” sono ventiquattro milioni. Quindici anni fa è sorto il primo centro di riabilitazione, naturalmente concepito con logica cinese: inquadramento militare, tute spersonalizzanti, lavori forzati, elettroshock, uso generoso di psicofarmaci. Un campo di concentramento. Da allora, di luoghi del genere ne sono sorti oltre quattrocento”. Sempre per restare nell’Estremo Oriente si fa anche un riferimento en passant agli hikikomori giapponesi: ragazzi che “vegetano chiusi nelle loro camerette perennemente connessi con qualcosa che non esiste nella realtà. Un milione di zombi”. Il mondo nuovo - La conclusione non è meno apocalittica: lo smartphone, dice Cangini, atrofizza il cervello e “non è esagerato dire che decerebrando le nuove generazioni”. “Tutte le ricerche internazionali citate nel corso del ciclo di audizioni - è scritto nella relazione - giungono alla medesima conclusione: il cervello agisce come un muscolo, si sviluppa in base all’uso che se ne fa e l’uso di dispositivi digitali (social e videogiochi), così come la scrittura su tastiera elettronica invece della scrittura a mano, non sollecita il cervello. Il muscolo, dunque, si atrofizza. Detto in termini tecnici, si riduce la neuroplasticità, ovvero lo sviluppo di aree cerebrali responsabili di singole funzioni”. Pleonastico a questo punto anche scomodare Aldous Huxley come fa Cangini evocando la “dittatura perfetta” da lui vaticinata nei suoi libri di fantascienza: “Una prigione senza muri in cui i prigionieri non sognano di evadere. Un sistema di schiavitù nel quale, grazie al consumismo e al divertimento, gli schiavi amano la loro schiavitù”. Quella dittatura, conclude Cangini, è già realtà. I nostri figli, i nostri nipoti, in una parola il nostro futuro sono già “giovani schiavi resi drogati e decerebrati”. Questo sono gli studenti italiani. I diritti calpestati in Marocco, “uno dei Paesi più democratici dell’area” di Stefano Mauro Il Manifesto, 21 dicembre 2022 Dietro le quinte del “Maroccogate” anche le tecniche repressive utilizzate da Rabat per liberarsi di attivisti e giornalisti. La denuncia di Human Rights Watch. Dietro le quinte del “Maroccogate” anche le tecniche repressive utilizzate da Rabat per liberarsi di attivisti e giornalisti. La denuncia di Human Rights Watch. La vicenda dei rapporti tra Antonio Panzeri e i servizi segreti marocchini ha messo in evidenza alcune tecniche e procedure utilizzate dalla Direction Générale des Études et de la Documentation (Dged - servizi di sicurezza per l’estero) di Rabat per “un’azione persuasiva” e il “controllo” di alcuni eurodeputati intercettati con l’utilizzo dello spyware israeliano Pegasus. Controllo che serviva come possibile strumento di “corruzione o ricatto”, come riferito dalla procura di Bruxelles, riguardo ai corposi accordi economici tra Unione europea e Marocco, alla legittimazione dello sfruttamento delle risorse e dell’occupazione di un territorio “non autonomo” come il Sahara occidentale e ad eventuali pressioni per far apparire il paese una “democrazia dove è presente il pieno rispetto dei diritti umani”. Questo era il reale obiettivo delle dichiarazioni, con azioni di lobbying e forti pressioni, di politici come Panzeri, il suo assistente Francesco Giorgi o l’eurodeputato francese Gilles Pargneaux - presidente del gruppo di amicizia Ue-Marocco - che in tutte le votazioni delle diverse commissioni etichettavano il Marocco come uno dei paesi “più democratici dell’area”. Parole che, oggi, si scontrano con la realtà di questi ultimi anni. Ha dato non poco fastidio, con una dura smentita da parte di Rabat, la pubblicazione a inizio agosto da parte dell’ong Human Rights Watch (Hrw) di un’indagine di 140 pagine con un report dettagliato che mette in luce “vizi procedurali e vere e proprie tecniche di repressione” per “screditare diversi giornalisti e oppositori marocchini con condanne per reati comuni, in particolare crimini sessuali”. Nel suo report Hrw indica questi casi come “attacchi politici mascherati”, che hanno visto il loro boom nel 2021, dove “le incarcerazioni hanno battuto qualsiasi record”. Versione confermata anche dall’Associazione marocchina per i diritti umani (Amdh) che indica il 2021 come un anno di “repressione senza precedenti in Marocco”, in termini di libertà di espressione: con 170 giornalisti e attivisti, tra cui molti saharawi, arrestati o perseguiti e più di 140 manifestazioni vietate con il pretesto dello “stato di emergenza sanitaria”. Queste tecniche “formano un sistema di repressione lungo 10 anni volto non solo a mettere a tacere le voci critiche, ma anche a spaventare tutti i potenziali detrattori dello stato marocchino”, osserva l’organizzazione per i diritti umani con sede a New York. Esistono molte tecniche per mettere a tacere l’opposizione, come spiega Ahmed Benchemsi, direttore delle comunicazioni per il Nord Africa di Hrw: “Accuse costruite ad arte dai servizi di sicurezza, confessioni ottenute sotto minaccia, sorveglianza digitale, video intimi trasmessi ai familiari, fino ad arrivare a veri e propri agguati in strada”. Tra i casi più noti: quelli di Omar Radi - premiato la settimana scorsa con il “Premio dell’Indipendenza” da Reporters Sans Frontières (Rsf) - e Soulaimane Raissouni. Due giornalisti indipendenti condannati in appello nel 2022 rispettivamente a sei anni e cinque anni di reclusione per “violenza sessuale” e, nel caso di Radi, anche di “spionaggio”. La loro vera colpa, al contrario, sarebbe quella di aver condotto indagini “contro la corruzione da parte del governo o per aver difeso manifestanti che protestavano per i loro diritti nella valle del Rif”, afferma il report. Il rapporto di HRW denuncia, inoltre, le “feroci campagne diffamatorie” portate avanti dai media “allineati ai servizi di sicurezza marocchini”, citando i siti ChoufTv - specializzato in video e articoli scandalosi -, Le360 e Barlaman. Campagne che sono raddoppiate a causa anche della sorveglianza digitale e video, in particolare grazie all’utilizzo dello spyware Pegasus, progettato dalla società israeliana Nso. “Ciò che rende unico questo rapporto è che ci sono tutte le prove - spiega Benchemsi - che il Marocco abbia utilizzato questi metodi subdoli per riuscire a mettere a tacere l’opposizione, pur continuando a beneficiare dell’immagine di un paese moderato e liberale”. La solitudine dei curdi e il silenzio dei governi di Sevgi Dogan Il Manifesto, 21 dicembre 2022 Tra Siria e Iraq. Quella dei curdi non è solo una solitudine istituzionale, cioè solitudine in una dimensione giuridico-legale; è diventata un fenomeno storico: l’aggressione turca al popolo curdo in Medio Oriente prosegue nell’apatia della comunità internazionale. Solitudine e solitudine, ancora! Oggi voglio parlare dei curdi e della loro solitudine. Dopo l’attacco di Istanbul-Taksim del 13 novembre scorso, i curdi sono stati nuovamente presi di mira, anche se le forze democratiche siriane Ypg e il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) hanno dichiarato di non avere legami con l’attentato. Pochi giorni fa, dopo la riunione di gabinetto, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha annunciato alla stampa il possibile movimento di terra verso la Siria: “La nostra determinazione a mantenere sicuri i confini del nostro Paese sotto uno scudo di protezione di 30 km continua. Mentre stiamo adottando misure riguardanti la sicurezza della nostra patria e del nostro popolo, non accettiamo il permesso da nessuno, né siamo responsabili nei confronti di nessuno”. Se da una parte queste parole significano violare il diritto internazionale e violare il territorio di un altro paese, dall’altra sono una chiara indicazione del suo bullismo e dell’autoritarismo della sua politica. L’integrità del paese e la sicurezza sono state la principale ragione o giustificazione alle continue politiche di sterminio e sfruttamento contro i curdi. I curdi, ovviamente, non sono stati visti solo come una minaccia all’esistenza della Turchia. Storicamente, ci sono stati problemi simili nell’arena internazionale. Ad esempio, ogni volta che i curdi cercavano di stabilire un proprio governo o uno stato indipendente, gli Stati che all’inizio li sostenevano poi li abbandonavano. Proprio quando gli Stati uniti d’America aprivano spazi alla Turchia nella regione, la Repubblica di Muhabad (Komarî Mehabad in curdo), costituitasi in Iran nel gennaio 1946 con l’appoggio dell’Unione sovietica, è stata occupata nello stesso anno dall’esercito iraniano a seguito del ritiro dell’Urss. L’Iran ha distrutto quella repubblica. La storia si ripete dolorosamente. I curdi sono stati colonizzati, frammentati, dispersi, banditi, oppressi e isolati dai diversi paesi. Il crimine collettivo e internazionale continua. Quando guardiamo alla questione curda di oggi, come ha affermato Fehim Tastekin, giornalista esperto di Caucaso e Medio Oriente, invece di risolverla all’interno dei propri confini, sia l’Iran che la Turchia l’hanno esportata in Iraq, oltre i propri confini. Quella dei curdi non è solo una solitudine istituzionale, cioè solitudine in una dimensione giuridico-legale; è diventata un fenomeno storico. I curdi sono isolati in ogni campo e di questa solitudine stanno cercando di liberarsi coraggiosamente. È una solitudine supportata dal silenzio sociale e politico dell’attuale arena internazionale. Per rompere questo silenzio, le comunità internazionali possono/devono ascoltare le richieste di 187 organizzazioni siriane che richiamano l’attenzione sulle vittime civili causate dagli attacchi del governo turco. Queste organizzazioni hanno fatto appello al mondo e chiesto che sia intrapresa un’azione urgente e che gli attacchi aerei del governo turco e quelli di terra pianificati siano fermati. Attacchi che non solo danneggeranno i civili e i luoghi in cui abitano, ma che provocheranno anche una nuova ondata di spostamenti e migrazioni e la continua violazione del diritto internazionale. Al di là della condanna dell’attacco della Turchia all’Iraq e alla Siria, ascoltare le voci dei popoli siriani e del popolo curdo riporterà la fiducia nelle comunità internazionali e nella civiltà che difendono, una fiducia basata su “pace, democrazia, diritti umani”. I curdi, nella loro solitudine, stanno cercando di creare una pace per tutti. Se è una pace che porta vantaggi alla vita e che la fa proseguire, allora bisogna sostenere quelli che cercano di realizzarla. Cile. Un giorno in più di vita e uno in meno di prigione di Nelly León* L’Osservatore Romano, 21 dicembre 2022 Frequento il carcere da ventidue anni, perché Dio mi ha amata e ha dato se stesso per me. Non sto scontando una condanna, ma, nonostante la mia fragilità, sto solo cercando di rispondere alla vocazione, a cui mi ha chiamato il Signore, di contemplarlo e servirlo in migliaia di donne private della libertà, la maggior parte delle quali per delitti che hanno commesso come conseguenza della povertà in cui sono nate. Mi chiamo Nelly León, sono una religiosa della congregazione del Buon Pastore, e al momento gestisco uno dei padiglioni del carcere femminile di Santiago del Cile. Dirigo anche la fondazione Mujer, levántate, che promuove il rinserimento sociale, lavorativo e familiare di quelle mie sorelle che, dopo anni dietro le sbarre, riacquistano la libertà e non vogliono tornare a delinquere. Così, come responsabile pastorale nel carcere femminile entro ed esco ogni giorno da questo mondo segnato dal dolore, dalla rabbia, dal senso di colpa e dalla frustrazione, ma, soprattutto, dalla sofferenza delle madri che vivono separate dai loro figli. Quando nel 2020 il coronavirus si è diffuso nel mondo, nelle carceri in Cile sono state assolutamente proibite le visite, anche quelle di chi offriva accompagnamento religioso. Di fronte alla mia insistenza a non abbandonare quelle donne, mi hanno proposto di rimanere dentro il carcere, ma senza la possibilità di uscire finché non fossero state tolte le restrizioni. Ho accettato convinta che fosse ciò che Dio mi chiedeva, perché il Vangelo dice “Ero carcerato e siete venuti a trovarmi” (Matteo, 25, 36). L’isolamento è durato diciotto mesi e oggi posso dire che quel tempo in carcere è stata la cosa più bella che potesse accadere nella mia vita consacrata. Prima, quando me ne andavo dal carcere a fine giornata, si verificava una rottura, perché lasciavo dietro di me tanta amarezza, il pianto delle donne e gli incontri consolatori che avevamo condiviso. L’essere rimasta nel carcere durante la pandemia mi ha permesso di assistere le detenute fino al pomeriggio e anche di percorrere i corridoi durante la notte, in un silenzio profondo, interrotto di tanto in tanto dalle strazianti grida di angoscia che provenivano dalle celle. Questa esperienza, che ha segnato un prima e un dopo nella mia vita, mi ha permesso di conoscere più a fondo quelle donne, le loro storie, il loro dolore e le motivazioni del loro cuore. Trascorrono anni in un luogo dove non vogliono stare e in condizioni in cui non vogliono vivere e questa è una ferita aperta che genere sofferenza e nostalgia, sentimenti che si acuiscono ora che si avvicina il Natale. Mentre in tutte le case del Cile le famiglie si riuniranno, nel carcere le donne manterranno lo stesso ritmo quotidiano di chiusura e solitudine. Durante la vigilia di Natale, la loro sofferenza più grande è di non poter dare un regalo ai propri figli e quest’ansia è diventata ancora più grande in tempo di covid. Perciò nel 2020 abbiamo raccolto del materiale e ogni detenuta ha preparato bigliettini di Natale colorati per i figli, che abbiamo fatto portare alle loro famiglie da una rete di collaboratori. Ai bambini più piccoli abbiamo fatto arrivare anche regali a nome delle madri. La provvidenza ci ha permesso quell’anno, inoltre, di celebrare la messa dentro il carcere, sebbene in modo più sobrio e con meno partecipanti, perché è tradizione che il 24 dicembre la nostra messa di Natale sia presieduta dall’arcivescovo di Santiago. Quest’anno, invece, per la prima volta dopo la fine dell’emergenza sanitaria, potremo festeggiare alla grande. Abbiamo ottenuto il permesso di montare nei cortili del carcere dei gonfiabili per bambini e di usare macchine fotografiche. Inoltre ci saranno gelati e caramelle per i bambini e per le mamme. Ogni bambino riceverà un regalo dalla mamma o dalla nonna. Celebreremo inoltre liturgie in ogni padiglione del carcere, portando l’immagine del Bambino Gesù. Ascolteremo la Parola di Dio, canteremo canti natalizi e avremo momenti di preghiera e di raccoglimento. Tutto questo ci permetterà anche di accompagnare quelle donne che si sentono più sole, sia perché nessuno fa loro visita sia perché, se sono straniere, i familiari risiedono in un altro Paese. Durante questo tempo di preparazione al Natale, che stiamo vivendo in modo solenne accedendo le candele della corona d’Avvento, si avverte un clima caratterizzato da sentimenti contrastanti: da un lato l’angoscia di una vita dietro le sbarre e dall’altro la speranza che porta il Salvatore. Ma c’è indubbiamente una maggiore disposizione a promuovere l’armonia e a mettersi al servizio le une delle altre. Emerge così, pian piano, la profonda umanità che esiste anche in questo luogo inospitale. Un’umanità ferita, ma che vuole che le venga riconosciuta la sua dignità. Le donne ricordano molto bene quello che Papa Francesco ha detto loro personalmente quando ha visitato il carcere nel gennaio del 2018: “Essere privato della libertà non è la stessa cosa che essere privo di dignità” e proprio per questo molte si impegnano ad andare avanti. Il Natale del 2022 sarà una nuova occasione per promuovere la dignità che hanno come figlie amate da Dio e io potrò ancora una volta pregare insieme a loro, questa volta accanto al Bambino Gesù: “Grazie, Signore, per un giorno in più di vita e uno in meno di prigione”. *#sistersproject