La strage dimenticata dei suicidi dietro le sbarre di Anna Lisa Antonucci L’Osservatore Romano, 20 dicembre 2022 Quest’anno nelle carceri italiane si sono tolte la vita ottanta persone. L’aver toccato il fondo, l’essere approdati all’ultimo gradino prima del nulla, essere finiti in cella: sembra questo il sentire che sta dietro ai tanti, troppi suicidi che avvengono nelle carceri italiane. Un luogo troppo lontano dalla realtà esterna, un “altrove” esistenziale, un mondo separato, straniante e dove si vive una disperata solitudine condivisa con un mare di persone. È dove si è approdati, spesso, dopo vite condotte con difficoltà e lungo il bordo del precipizio, a causare la crepa. In undici mesi, da gennaio ai primi giorni di dicembre 2022, nelle carceri italiane si sono tolte la vita 80 persone, 75 uomini e 5 donne: si tratta del più alto numero di suicidi mai registrato negli ultimi dieci anni. Il primo caso avviene ai primi di gennaio 2022, subito dopo le feste. Otto ore dopo l’arrivo in carcere, un giovane di 25 anni di origine marocchina si impicca alle sbarre della finestra della cella. Era entrato alle 21 ed è morto alle 5 del mattino seguente, non c’è stato neanche il tempo di immatricolarlo. È dall’analisi delle storie di queste persone, secondo uno studio avviato dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà allarmato dal fenomeno, che si capisce che non sembrano essere determinanti nella decisione di togliersi la vita le condizioni detentive, la fatiscenza della maggior parte degli istituti di pena o la durata della pena ancora da scontare. Troppo breve è stata in molti casi la permanenza all’interno del carcere, troppo frequenti i casi di persone che presto sarebbero uscite. Sul totale dei suicidi avvenuti quest’anno, 49 persone, pari al 62 per cento, si sono tolte la vita nei primi sei mesi di detenzione; di queste 21 nei primi tre mesi dall’ingresso in istituto e 15 entro i primi io giorni, g delle quali addirittura entro le prime 24 ore dall’ingresso. Questi numeri significano, riflette il Garante, che circa un suicidio su cinque avviene nei primi dieci giorni dall’ingresso in carcere. Dunque, è lo stigma della detenzione a far scattare la rinuncia alla vita. Esaminando un campione di 15 casi, per tentare una possibile spiegazione dell’incremento dei suicidi, lo studio rileva che ben 9 hanno riguardato giovani al di sotto dei 30 anni di età e altri tre persone tra i 30 e i 40 anni, tutto persone che non avevano già vissuto un’esperienza di lunga detenzione; al contrario ben 8 di loro erano in attesa di giudizio di primo grado. Inoltre, fra le 80 persone che si sono tolte la vita, 5 avrebbero completato la pena entro l’anno in corso, ciò significa che spesso “è l’esterno a far paura quasi e più dell’interno”. Guardando più da vicino, 47 delle 80 persone che hanno deciso di togliersi la vita erano italiane e 33 straniere, di queste i8 senza fissa dimora. La maggior parte dei suicidi era in cella per reati contro il patrimonio. Dallo studio del Garante emerge anche un fatto significativo e cioè che 65 di queste persone erano state precedentemente coinvolte in altri eventi critici: 26 avevano messo in atto almeno un tentativo di suicidio, in 7 casi addirittura più di un tentativo, inoltre 23 persone erano state sottoposte alla misura della “grande sorveglianza” e di queste 19 lo erano anche al momento del suicidio. Fin qui la fredda analisi degli eventi data dai numeri, ma dietro ogni caso c’è una tragica storia a sé, e la reclusione fatta solo di “tempo sottratto”, sottolinea il Garante nazionale, Mauro Palma, è prodromica alla percezione del proprio annullamento. È urgente dunque intervenire, dice il Garante, prevedendo all’interno degli istituti figure di mediazione sociale e supporto, “un compito che non può essere affidato agli operatori di Polizia penitenziaria”. È necessario ridurre i numeri dei detenuti con conseguente maggiore presa in carico delle persone al loro ingresso in carcere. Basti pensare, rileva nello studio il Garante, che al momento sono 1.492 le persone detenute per scontare una pena inferiore a un anno e altre 2.6o8 con una pena tra uno e due anni. È infine importante, ribadisce Palma, ridurre la distanza con l’esterno, garantendo in sicurezza una maggiore connessione con i propri affetti attraverso le tecnologie della comunicazione. “La vita in carcere deve essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera”, ha stabilito il Consiglio d’Europa, “un principio che ha avuto l’approvazione dei rappresentanti del governo di ciascuno dei Paesi del Consiglio, inclusa l’Italia”, ricorda il Garante. Carcere, il record di suicidi interroga le cooperative sociali vita.it, 20 dicembre 2022 Una drammatica situazione che si vive negli istituti di pena italiana impone una riflessione e richiede degli interventi. Loris Cervato, coordinatore Gruppo nazionale Carcere di Legacoopsociali sottolinea la necessità di “soluzioni per rieducazione e reinserimento sociale”. Per Rossella Favero della cooperativa sociale Altracittà le coop sociali devono “essere riconosciute come soggetto attivo della co-programmazione e della co-progettazione dei percorsi di reinserimento sociale”. Una nota di Legacoop sociali sottolinea come la situazione nelle carceri italiane imponga una profonda riflessione per chi come le cooperative sociali svolgono il loro impegno per l’inclusione e il reinserimento delle persone detenute. Al 14 dicembre - si ricorda - il numero dei suicidi ha toccato quota 80 nel 2022 che è ancora in corso. Un drammatico record che deve imporre interventi urgenti sulla condizione di sovraffollamento che sta tornando ad alti livelli dopo le misure anti-Covid e con altre 700 persone in semilibertà che rischiano di tornare in cella. Inoltre, è necessario avere un quadro preciso di chi è in condizioni di grande sofferenza per la propria salute, a partire dal disagio psichico e dalle dipendenze e in questo senso trovare misure alternative alla detenzione. “Il dramma che si sta vivendo all’interno degli istituti di pena pone una serie di profondi interrogativi sulla loro effettiva coerenza con il dettato costituzionale”, dichiara Loris Cervato, coordinatore Gruppo nazionale Carcere di Legacoopsociali “alla luce dell’alto numero di suicidi, che rappresentano il forte disagio presente nelle carceri italiane, è doveroso trovare soluzioni più appropriate rispetto alle finalità di rieducazione e di reinserimento sociale delle persone private della libertà personale”. Da parte sua Cervato ricorda come la cooperazione sociale stia supportando le istituzioni dal punto di vista sociale e lavorativo e in questa direzione “chiede una maggiore collaborazione per rendere efficaci gli interventi che sta promuovendo sull’intero territorio nazionale”. “Le cooperative sociali” afferma Rossella Favero della cooperativa sociale Altracittà “chiedono, in questa fase post pandemica delicata e critica, di essere riconosciute come soggetto attivo della co-programmazione e della co-progettazione dei percorsi di reinserimento sociale. Offrono inoltre le proprie competenze ed esperienze per affrontare e analizzare congiuntamente al Dipartimento Amministrazione Penitenziaria il tema del “lavoro” come elemento del trattamento, anche alla luce dell’evoluzione della composizione della popolazione detenuta verso il “carcere sociale”, che vede aumentare le persone con problemi di polidipendenza e pluri svantaggiate”. Semiliberi, inammissibile una ingiustificata regressione nel trattamento penitenziario garantedetenutilazio.it, 20 dicembre 2022 Il Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali, Anastasìa: “Il Governo trovi il modo di rimediare”. “Detenuti di lungo corso, da anni in regime di semilibertà, che per due anni e mezzo hanno goduto di una licenza straordinaria che gli consentiva di restare anche di notte a casa; persone che hanno scrupolosamente osservato le prescrizioni impartitegli dal giudice di sorveglianza, condannati - cioè - che hanno mostrato oltre ogni ragionevole dubbio il loro positivo reinserimento nella società, dal primo di gennaio dovranno ripresentarsi a dormire in carcere, costringendo l’Amministrazione penitenziaria a liberare gli spazi da loro precedentemente occupati e ora destinati ad altre funzioni. E’ una palese ingiustizia”. Così il Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà e Garante del Lazio, Stefano Anastasìa, sulla bocciatura delle proposte di proroga delle licenze straordinarie per i semiliberi attivate con l’emergenza Covid o di conversione delle semilibertà in affidamento in prova al servizio sociale. “Se la pena deve tendere alla rieducazione del condannato - prosegue Anastasìa - se la rieducazione deve essere laicamente intesa nel senso del suo reinserimento in condizioni di autonomia e di legalità nel contesto sociale, non è ammissibile una regressione di fatto nel trattamento penitenziario che non sia conseguente a una infrazione penale o disciplinare, a un tradimento, cioè, da parte del condannato, dell’impegno preso con il giudice di sorveglianza nell’esecuzione della misura alternativa o nel godimento del beneficio. Il principio della progressività del trattamento penitenziario (non solo nel senso che si fa un passo alla volta, ma che l’uno e l’altro è auspicabile che si facciano nella stessa direzione) impone che non vi sia una “retrocessione” immotivata nel percorso penale delle persone condannate”. “Non sappiamo - conclude Anastasìa - se maggioranza e Governo abbiano votato contro gli emendamenti di proroga o di conversione delle licenze straordinarie per convinzione o in astio ai proponenti dell’opposizione, certo è che ora sta a loro, a Governo e maggioranza trovare il modo di rimediare alla palese ingiustizia che così si compierebbe alla fine dell’anno”. Alfredo Cospito resta al 41 bis: respinto il reclamo dei difensori di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 dicembre 2022 Il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha deciso che l’anarchico, da oltre 60 giorni in sciopero della fame, deve restare al carcere duro, a Bancali. Uno Stato liberale non dovrebbe aver bisogno dell’ennesimo Bobby Sands. Il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha rigettato il reclamo presentato dall’avvocato Flavio Rossi Albertini contro l’applicazione del 41 bis all’anarchico Alfredo Cospito. Ancora non si conoscono le motivazioni, ma tale decisione è un duro colpo per chi ha ritenuto inaccettabile tale misura disposta dal ministro della Giustizia precedente. Il motivo? Durante la detenzione in alta sicurezza (As2), altra tipologia di regime differenziato, inviava i suoi scritti ai compagni anarchici. Scritti politici non segreti, non i “pizzini” come i mafiosi, ma riflessioni rese pubbliche sui giornali anarchici e siti on line. A 30 anni dall’istituzione del 41 bis - nato come misura emergenziale durante le stragi della mafia corleonese, ma poi resa “ordinaria” - a marzo scorso si è creato un precedente: per la prima volta un anarchico varca la soglia del carcere duro. Eppure tale misura nasce per impedire i collegamenti tra il detenuto e l’associazione criminale di appartenenza, mentre nel caso specifico si è deciso di interrompere e impedire a Cospito di continuare a esternare il proprio pensiero politico, attività, tra l’altro, pubblica, pertanto né occulta né segreta; destinata non agli associati, bensì ai soggetti gravitanti nella galassia anarchica. Non si tratta di un dettaglio trascurabile: a differenza della mafia o l’organizzazione terroristica come le ex Br, è notorio che il movimento anarchico rifugge in radice qualsiasi struttura gerarchica e forma organizzata. A ciò si aggiunge il fatto che la sigla incriminata sarebbe quella della Fai (Federazione anarchica informale), ma che nel concreto non risulta una associazione, ma un “metodo”. Non è una struttura organizzata, ma una sigla che ognuno la utilizza in maniera “soggettiva”. Alfredo Cospito, assieme ad Anna Beniamino, era stato dapprima condannato per strage contro la pubblica incolumità per due ordigni a basso potenziale esplosi presso la Scuola Allievi Carabinieri di Fossano senza causare né morti né feriti. Un reato che prevede la pena non inferiore ai 15 anni. Poi il colpo di scena: la Cassazione ha riqualificato il reato a strage contro la sicurezza dello Stato. Parliamo dell’articolo 285 che prevede l’ergastolo. Si tratta del reato più grave del nostro ordinamento che non è stato nemmeno applicato per le stragi di Capaci e Via D’Amelio. Reato introdotto dal Codice fascista Rocco che prevedeva la pena di morte (ora l’ergastolo, in questo caso ostativo). In sostanza, parliamo di un reato introdotto per evitare la guerra civile. Ergo, con quelle azioni dimostrative, Cospito avrebbe messo in pericolo l’esistenza dello Stato. Chiaro che tutto ciò appare spropositato. Di fatto, il 5 dicembre scorso, la corte d’Assise d’Appello di Torino doveva decidere per la rideterminazione della pena, ma ha accolto alcune eccezioni della difesa degli anarchici inviando gli atti alla Corte costituzionale. Con questa decisione, i giudici stessi, resisi conto della possibile stortura, si sarebbero chiesti, rinviando gli atti alla Consulta, se possa essere riconosciuta all’imputato, almeno, l’attenuante della speciale tenuità del fatto, qualora fosse davvero emersa la connotazione dimostrativa di un attentato, neppure potenzialmente lesivo dell’incolumità delle persone. Perché, se così fosse, in sede di bilanciamento per la determinazione dell’entità della pena, tale attenuante potrebbe prevalere sulla recidiva specifica reiterata contestata e consentire l’inflizione di una più equa pena della reclusione fra i 21 e i 24 anni: comunque non il fine pena mai come l’ostativo. Ma nel contempo, il tribunale di Roma ha deciso che Cospito deve rimanere al 41 bis. Una notizia che desta preoccupazione, anche perché l’anarchico è in sciopero dalla fame da oltre 60 giorni proprio per protestare contro questa misura. Sta male, ha perso oltre 20 kg, con gravi conseguenze parzialmente mitigate dall’assunzione di integratori alimentari che gli sono stati concessi solo dopo la visita al supercarcere sardo di Bancali della delegazione del Garante Nazionale composta dal Presidente Mauro Palma e da Daniela de Robert. Di fatto, al Bancali, le ore d’aria si sono ridotte a due, trascorse in un cubicolo di cemento di pochi metri quadri, il cui perimetro è circondato da alti muri che impediscono alcuna visuale o semplicemente di estendere lo sguardo all’orizzonte, mentre la visuale del cielo è oscurata da una rete metallica. Un luogo caratterizzato in estate da temperature torride e in inverno da un microclima umido e insalubre. Il Bancali, inoltre, ha una peculiarità stigmatizzata a suo tempo dal Garante nazionale. Nel rapporto si può apprendere che le sezioni del 41 bis sono state realizzate in un’area ricavata, scavando, al di sotto del livello del mare. Le cinque sezioni scendono gradatamente, con una diminuzione progressiva dell’accesso dell’aria e della luce naturale, che filtrano solo attraverso piccole finestre poste in alto sulla parete, corrispondenti all’esterno al livello di base del muro di cinta del complesso. Il dramma è che Cospito ha deciso di non interrompere il digiuno. Senza scomodare Bobby Sands, l’indipendentista irlandese di 27 anni che nel 1981 si è lasciato morire in carcere di fame e di sete, qui in Italia abbiamo avuto altri casi simili. Nel 2017, nel carcere di Cagliari, dopo due mesi di sciopero della fame è morto l’indipendentista sardo Doddore Meloni. Il suo legale aveva messo in guardia le istituzioni che rischiava di morire. Francesca Meloni, la figlia di Doddore, si era incatenata sulle scale del Palazzo di Giustizia di Cagliari, per chiedere che al padre vengano riconosciuti gli arresti domiciliari. Il magistrato rigettò e poi arrivò il dramma. Ma le tragedie si possono evitare. Il 41 bis si può revocare. Una misura che in un Paese civile andrebbe abolita, perché anacronista. Non siamo più nei primi anni 90, quando imperversavano le stragi mafiose. A maggior ragione non ha senso per le persone come Cospito. Uno Stato che usa trattamenti muscolari attraverso eccessive condanne e misure sproporzionate, non può definirsi “liberale”. Cospito resta al 41 bis, ora si temono attentati. Gli atti alla Consulta di Romina Marceca La Repubblica, 20 dicembre 2022 Respinta l’istanza dell’anarchico che continua lo sciopero della fame. Indaga l’Antiterrorismo. Il carcere duro non è stato revocato, l’anarchico Alfredo Cospito resta al 41 bis e continua lo sciopero della fame nel carcere di Sassari per protestare contro le condizioni di detenzione. E, adesso, si teme la prossima mossa dei gruppi che in Italia e all’estero, da settimane, organizzano blitz in segno di solidarietà all’anarchico costretto al regime carcerario riservato ai mafiosi. Gli ultimi due assalti sono di domenica notte: a Cagliari contro la sede Bnl a Cagliari, in cui sono state distrutte tre vetrate e è stato danneggiato lo sportello bancomat, e in Cile dove un gruppo di persone ha cercato di entrare nell’ambasciata italiana. A margine dei raid sempre la stessa firma: la A cerchiata e la frase “Alfredo libero”. I carabineros cileni hanno rafforzato i dispositivi di sicurezza, le ambasciate italiane nel mondo sono sotto stretta sorveglianza esattamente come in Italia le banche, le poste e i palazzi di giustizia sono vigilati dalle pattuglie. Eppure sabato notte, nella capitale, nel quartiere San Giovanni, tre banche sono state prese a colpi di mazze e spranghe, i cassonetti e alcune auto sono stati bruciati. Giorni prima era stata la volta delle vie Merulana, Emanuele Filiberto e Manzoni. Sui muri con la vernice spray nera erano spuntate le frasi: “No al 41 bis”, “Meloni boia”, “Meno chiese e più case”. Una galleria di scritte fino al ministero delle Finanze. I fari sul fermento dei gruppi anarchici, in Italia, li ha puntati il reparto Antiterrorismo dell’Arma dei carabinieri che ha già inviato direttamente al procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Giovanni Melillo, i primi risultati d’indagine. Un investigatore confida: “Di solito la mossa successiva è un plico con esplosivo”. Alfredo Cospito è il primo anarchico condannato al 41 bis, è accusato di strage politica per l’esplosione di due ordigni vicino una caserma dei carabinieri a Fossano, in provincia di Cuneo, la notte del 2 giugno 2006. Non ci furono né morti né feriti. Nel 2014 è stato condannato a 10 anni e 8 mesi per la gambizzazione dell’ad di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi. Il carcere duro è stato deciso per quattro anni. Adesso il tribunale di sorveglianza respinge il reclamo dei suoi difensori ma i giudici della Corte di Assise d’appello di Torino hanno accolto una richiesta dei legali che hanno sollevato una questione di legittimità costituzionale. Gli atti verranno trasmessi alla Consulta. “Fascisti”, “Assassini”, “Vergognatevi”, “Avete le mani sporche di sangue”, hanno gridato gli anarchici che hanno seguito a Torino il processo e sono stati identificati e denunciati dalla Digos. Cospito da ottobre scorso è in sciopero della fame. Dopo sei anni in regime di alta sicurezza, ad aprile, la sua condizione carceraria si è aggravata con il passaggio al 41 bis. Secondo i magistrati Cospito, comunicando con l’esterno attraverso una corrispondenza epistolare, avrebbe mantenuto i legami con il gruppo anarchico di riferimento. Subito dopo la decisione del tribunale sono iniziati proteste e raid. Il 12 novembre gli anarchici a Roma si sono scontrati a Trastevere con le forze dell’ordine. Poi le scritte e i manifesti sono spuntati in molti quartieri della capitale fino al teatro Argentina e in altre città d’Italia. A Bologna è comparsa anche una scritta contro la premier: “Giorgia attenta al cranio”. Nessun blitz è stato ancora rivendicato, tranne l’esplosione di una delle due auto della diplomatica italiana Susanna Schlein, il 2 dicembre, ad Atene. Gli autori si fanno chiamare “Carlo Giuliani revenge nuclei”. Il Garante nazionale ringrazia Carlo Renoldi e saluta Giovanni Russo, nuovo Capo del DAP garantenazionaleprivatiliberta.it, 20 dicembre 2022 Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ringrazia Carlo Renoldi per il significativo lavoro svolto nel pur breve periodo della sua direzione del Dap. Un periodo complesso, caratterizzato dal necessario ritorno alla normalità dopo la fase acuta della pandemia e dall’esigenza di una riorganizzazione complessiva del sistema penitenziario. L’obiettivo perseguito da Renoldi in questi mesi del suo mandato e che auguratamente continuerà a costituire una priorità è stato quello di tenere insieme finalità diverse: la tutela dei diritti delle persone ristrette, le condizioni di lavoro positive di chi esercita un ruolo importante e spesso troppo poco riconosciuto, le attese sociali per un sistema di esecuzione penale corrispondente alla civiltà del nostro Paese e al dettato costituzionale. Una coesione che Renoldi ha cercato di attuare attraverso un impegno diretto e specifico per la funzionalità del sistema. È la positiva amministrazione del sistema di detenzione, infatti, la premessa per una maggiore pluralità delle modalità di esecuzione della pena detentiva, oltre che per la previsione, ormai da più parti auspicata, di un sistema sanzionatorio non più centrato sulla sola detenzione.  Da qui la riflessione che Renoldi ha portato avanti con diversi interlocutori - dell’Amministrazione stessa, del mondo accademico, della realtà sociale e anche delle Istituzioni di garanzia - sulle risposte concrete da dare a chi in carcere vive situazioni di disagio, evidenziate anche dal numero di suicidi registrati dall’inizio dell’anno e da una richiesta pressante di maggiore attenzione da parte degli operatori. Sono le linee lungo le quali procedere nei prossimi mesi e che siamo certi saranno raccolte dalla grande esperienza di Giovanni Russo.  Certamente la nuova Dirigenza dell’Amministrazione potrà contare sul dialogo costruttivo con il Garante nazionale, nella prospettiva comune di un innalzamento della qualità civile della risposta istituzionale alla commissione di un reato, pur nella piena indipendenza che caratterizza questa Autorità di garanzia.  Si avvicina il Natale: tutte le iniziative nelle carceri di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 20 dicembre 2022 Iniziative benefiche per le carceri, ma anche eventi che coinvolgono gli agenti penitenziari; e poi persone detenute che cucinano, fanno il pane o dipingono. Le festività natalizie sono il ponte che simbolicamente, collega i penitenziari al mondo esterno, il dentro al fuori. Il gruppo musicale Blue voice è composto da agenti penitenziari della casa di reclusione Milano Opera. Con l’avvicinarsi del Natale, il 13 dicembre, hanno organizzato un concerto natalizio per gli ospiti della Rsa Fondazione Pontirolo Onlus di Assago. Successivamente, il triangolare di calcio presso il centro sportivo “Gianni Brera”, in cui si sono sfidate la formazione della Polizia penitenziaria di Milano, la polisportiva Fondazione Atm Milano e i Vigili del fuoco. Eventi, questi, organizzati oltre che dalla Polizia penitenziaria del capoluogo lombardo, anche dall’Associazione Nazionale Giacche Verdi (A.N.GI.V.), che da tempo realizza progetti negli ambienti penitenziari, al Poliambulatorio e Polisportiva A.T.M., alla Protezione Civile Bresso, all’A.S.A.C. di Milano, SMS Professioni e Milano PerCorsi - Impresa sociale. Centrale District, comitato composto da albergatori, negozianti e imprenditori delle zone Stazione centrale e Repubblica di Milano, è protagonista di un’iniziativa benefica per il carcere di San Vittore, destinando il denaro, normalmente impiegato per ornare le proprie strutture con le luminarie natalizie, all’acquisto beni di prima necessità e arredamenti per il penitenziario meneghino. La maxi consegna in favore delle persone detenute e degli agenti penitenziari è avvenuta il 14 dicembre: 200 cuscini, 50 tra piumini e materassi per l’inverno, sedie, diversi kit per il bagno con shampoo e bagnoschiuma, 30 televisori e 150 panettoni. Milano è anche il palcoscenico di Opera Liquida, la compagnia teatrale composta da persone detenute ed ex detenute della casa di reclusione di Milano Opera. Gli attori si esibiranno il 21 dicembre, stavolta fuori dal carcere meneghino: al Campo teatrale di via Cambiasi. Con “Noi guerra! Le meraviglie del nulla” per la regia di Ivana Trettel, Opera Liquida propone uno spettacolo incentrato sul conflitto: quello che ci circonda, quello interiore, quello con gli altri. Lo spettacolo è l’ultimo appuntamento di una rassegna organizzata all’interno del palinsesto “Milano è viva” del comune di Milano, in collaborazione con la casa di reclusione di Milano Opera. La casa di reclusione San Michele di Alessandria ospita il panificio in cui le persone detenute producono pane e grissini dalla farina proveniente dall’Ucraina. Il carcere alessandrino, infatti, partecipa all’iniziativa “Bread for peace” di Nova Coop e Pausa Café - partita da Torino il 12 dicembre per garantire la sicurezza alimentare delle famiglie ucraine - e fa parte di una filiera che, dal grano importato dagli agricoltori di Leopoli, produce e mette in commercio panificati e farina. Il ricavato dei prodotti, commercializzati dalle Coop italiane, viene in parte ridestinato per l’acquisto di sementi e attrezzature agricole in Ucraina. Sempre Alessandria, fino al 25 dicembre, sarà la sede del Festival delle Arti Recluse: una mostra con le opere delle persone detenute che frequentano i laboratori d’arte della casa circondariale di Piazza Don Soria e della casa di reclusione San Michele. L’esposizione è ospitata dall’ex Cinema Moderno ed è visitabile tutti i giorni dalle 16 alle 19.30. Davanti al palazzo del Comune è esposta la “Colomba che apre le ali alla pace”, opera variopinta realizzata sempre dalle persone detenute, sulla falsariga di quella della pittrice ucraina Maria Prymachenko. A Pavia, la comunità di Sant’Egidio organizza i pranzi di Natale, che quest’anno coinvolgono gli anziani di una casa di riposo e alcune parrocchie periferiche. A cucinare le pietanze saranno i detenuti del carcere cittadino di Torre del Gallo. L’Associazione magistrati attacca Nordio e le riforme, ma il governo snobba le toghe di Ermes Antonucci Il Foglio, 20 dicembre 2022 Per il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, nelle riforme del ministro della Giustizia “non c’è nulla di liberale”, anzi, sono un rischio per il paese. Ma la magistratura ormai è talmente delegittimata che il governo non replica agli attacchi. “Anm chi?”. Non siamo ancora a questi livelli, ma il silenzio del governo di fronte alle bordate sparate nel fine settimana dall’Associazione nazionale magistrati contro le riforme annunciate dal Guardasigilli Carlo Nordio fa capire (ancora una volta) quanto la delegittimazione subita dalla magistratura abbia ridotto il potere di ricatto delle toghe sulla politica italiana. “Non c’è nulla di liberale nelle riforme che il ministro Nordio sta annunciando. Credo che il nostro sistema di garanzie democratiche non possa fare a meno di azione penale obbligatoria e unità delle carriere: se si toccano questi capisaldi non si fa una riforma in senso liberale ma si pongono le premesse per un controllo politico sull’azione penale”, ha affermato sabato il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, in apertura del comitato direttivo centrale dell’associazione, criticando anche le parole di Nordio sulle intercettazioni (“Un attacco a freddo”). Domenica, in un’intervista a Repubblica, il presidente dell’Anm ha rincarato la dose, parlando di “uno scenario che dovrebbe allarmare tutti i cittadini”, perché le proposte prospettate finora da Nordio “farebbero fare passi indietro al rapporto tra i poteri dello stato sul piano dell’equilibrio”. Insomma, come è spesso accaduto in passato, l’Anm ha bocciato, definendole anticostituzionali e illiberali, delle riforme che non sono state ancora neanche abbozzate in provvedimenti concreti. Chi si aspettava reazioni energiche da parte del governo, tuttavia, è rimasto deluso. A esprimersi, paradossalmente, sono stati solo esponenti del centro. Il senatore Ivan Scalfarotto (Iv), ad esempio, su Twitter si è chiesto: “L’Anm dice che non c’è nulla di liberale nelle proposte di Nordio: sono invece liberali i processi infiniti, le ingiuste detenzioni, l’abuso delle intercettazioni, il sovraffollamento delle carceri, o i processi sommari a mezzo stampa a cui stiamo assistendo da 30 anni?”. Dalla maggioranza e dal governo, invece, nessuna sollevazione. Silenzio assoluto, come se le critiche dell’Associazione nazionale dei magistrati ormai non rappresentassero più un problema. “I magistrati li ascoltiamo, ma non ci facciamo condizionare su temi così delicati dalle loro prese di posizione. Le leggi le fa il Parlamento”, dice al Foglio Pierantonio Zanettin, deputato di Forza Italia. Dal ministero della Giustizia giungono voci persino più nette, anche perché - si precisa per l’ennesima volta - “mai nessuno ha pensato di sottomettere il pm all’esecutivo, né di privare i magistrati dell’uso delle intercettazioni”. Insomma, “giusto consultare anche i magistrati nel momento in cui le riforme vengono progettate, ma poi spetta alla politica fare il suo lavoro”. Altro che ritorno alla “guerra dei trent’anni” di berlusconiana memoria. Lo scandalo Palamara ha affossato talmente tanto la credibilità della magistratura, che la politica, per la prima volta dopo trent’anni, sembra in grado (almeno per ora) di rialzare la testa. Blitz sulle intercettazioni. Riforma con il trucco di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 20 dicembre 2022 Introdotte novità sulle intercettazioni dei servizi segreti. Per travestirlo da norma di bilancio, l’emendamento del governo sulle intercettazioni meno controllabili, quelle dei servizi segreti, si presenta come una partita di giro: il costo per queste intercettazioni passa dal conto del ministero della giustizia alle spese di palazzo Chigi sul conto del Mes. Lo spostamento, spiegano dal governo, assolve a “un’esigenza di riservatezza del comparto”. Ma in un colpo solo la novità che è piovuta ieri, insieme a tante altre, in commissione bilancio, smentisce due annunci del ministro Nordio: non c’è nessuna garanzia in più per i cittadini e non ci sarà nessuna riduzione di spesa per le intercettazioni, visto che quello che conta è il totale a carico dello stato, non certo il risparmio di un ministero rispetto a un altro. La norma, poi, è a tutti gli effetti “ordinamentale” e non di spesa, quindi sarebbe inammissibile nella legge di bilancio. I regolamenti, però, bisogna volerli far rispettare. La variazione nella rendicontazione, chiaramente, non è il cuore della norma che assomiglia anzi a una mini riforma della materia, approfittando del treno della legge di bilancio. Si prevede che le intercettazioni richieste dai servizi segreti al procuratore generale presso la Corte di appello di Roma possano protrarsi per 40 giorni, prorogabili senza limiti ma per periodi di 20 giorni. Il pg è il custode di tutto il materiale e “entro trenta giorni dal termine delle intercettazioni, verificata la conformità delle attività, dispone l’immediata distruzione dei verbali, dei contenuti intercettati e degli eventuali supporti mobili”. Una novità che si prova a introdurre in un campo delicatissimo attraverso un blitz, anche se forse non quel passo verso lo “stato di polizia” che spaventa l’ex ministro della giustizia Pd Orlando. Il problema è soprattutto il metodo. Le opposizioni chiedono lo stralcio della proposta dal fascicolo del bilancio sul quale si fa notte in commissione. E chiedono al presidente della camera Fontana di dichiarare inammissibile l’emendamento. Fontana, in serata, qualche dubbio lo confessa: “Stiamo affrontando la questione con gli uffici, è delicata. Dobbiamo vedere se la norma prevede dei risparmi, e per questo può essere ammissibile, o se è solo una norma ordinamentale e dunque chiaramente inammissibile”. Come sembrerebbe. Sulmona (Aq). Detenuto muore in carcere per infarto, la famiglia: “Non è stato curato” di Patrizio Iavarone Il Messaggero, 20 dicembre 2022 Ad ucciderlo è stato un malore, un infarto che lo ha colto venerdì mattina nel carcere di Sulmona dove stava scontando, dopo 14 anni di reclusione, gli ultimi scampoli della sua pena detentiva, con fine pena nel 2026, ma con la prospettiva di uscire per buona condotta già nel 2023. Pietro Guccione, 62 anni, di origini siciliane, però, la libertà non l’ha più riassaporata: il suo cuore non ha retto dopo, sostengono i familiari, “tre giorni di inutili allarmi lanciati al personale medico del carcere” che, sostengono sempre i familiari, avrebbero “ignorato i suoi sintomi”, riconducibili ad un principio di infarto o di ictus. “Non un elettrocardiogramma, né una visita specialistica denuncia la nuora dell’uomo per tre giorni si è recato in infermeria e nonostante la pressione a 200, non lo hanno voluto trasferire in ospedale”. Sul caso, ora, dopo la denuncia che la famiglia ha presentato alla polizia siciliana, la procura di Sulmona ha aperto un fascicolo, disponendo l’autopsia sul corpo e ipotizzando contro ignoti il reato di omissione di soccorso. “Ma c’è di più aggiunge l’avvocata Fabiana Gubitoso, che cura gli interessi della vittima la comunicazione alla famiglia è arrivata per il tramite di un compagno di cella del mio cliente e bisogna anche verificare modi e tempi della sua morte. Chiederemo l’acquisizione di tutta la cartella clinica per capire se ci sono state omissioni”. La versione data dai detenuti alla famiglia e quella ufficiale del carcere, infatti, divergerebbero in alcuni punti: secondo l’istituto di pena l’uomo si sarebbe accasciato improvvisamente a terra mentre era seduto con altri detenuti, secondo il racconto della famiglia, invece, Guiccione sarebbe stato portato in infermeria, per non fare più rientro in cella. Milano. Perché il carcere minorile Beccaria sta collassando e a nessuno sembra importare di Ilaria Quattrone fanpage.it, 20 dicembre 2022 Sovraffollamento, lavori di ristrutturazione che durano da anni, carenza di personale e tre direttori che cambiano in meno di un anno: sono queste le criticità con cui il carcere minorile Beccaria è costretto a convivere. Lo stesso in cui è maturato un episodio di violenza e torture ai danni di un 16enne. Nel carcere minorile Beccaria ci sono stati tre direttori in meno di un anno, i ragazzi sono 46 nonostante la capienza massima sia di 31 e i lavori di ristrutturazione, iniziati diversi anni fa, non sono stati ancora completati. È in questo scenario che si è verificato un episodio di violenza inaudita: nella notte tra il 7 e l’8 agosto 2022 un ragazzo di appena 16 anni è stato violentato e torturato per ore. I suoi aguzzini hanno aspettato il cambio di turno degli agenti per picchiarlo, legarlo a una finestra e stuprarlo con alcuni oggetti. E quanto accaduto ad agosto, per quanto sembri essere solo un episodio isolato, è sintomatico proprio delle condizioni in cui versa il carcere. Chi sono i detenuti delle carceri minorili - È vero che in Italia il carcere minorile rappresenta una extrema ratio considerato che, come spiega a Fanpage.it Valeria Verdolini, referente per la Lombardia dell’Associazione Antigone “per i minorenni si cerca di trovare sempre soluzioni alternative perché si sa quanto questa esperienza possa pesare sulla traiettoria di vita dei giovani”. Ma proprio per questo chi viene mandato in carcere ha bisogno ancora più degli altri di qualcuno che possa fornirgli alternative. “La popolazione che troviamo all’interno dell’istituto, è composta da ragazzi che hanno pochissime risorse personali su cui contare e quindi la loro possibilità di imbroccare strade migliori è molto limitata. E per questa ragione, il carcere può diventare un’occasione di formazione”. Per esempio per chi non è potuto andare a scuola: “Al Beccaria alcuni ragazzi stanno ancora completando il ciclo delle scuole elementari”. Dati alla mano, l’anno scorso c’erano tre minori al corso di alfabetizzazione, due alle scuole medie, 17 alle superiori e cinque ragazzi impiegati in attività lavorative. La carenza di personale - Oltre alla scuola, sono previste altre attività di formazione. Il problema è che però queste spesso saltano: “Questa mattina, durante un’iniziativa organizzata dal rapper Emanuele Frasca e dalla Propaganda Agency in cui si è discusso del senso della musica e del trovare canali differenti per incanalare la rabbia in modo costruttivo, i ragazzi lamentavano la carenza di personale: le attività ci sono, ma non sempre c’è copertura”. “La carenza di personale infatti - continua la referente - non consente di poter svolgere le attività previste e in un carcere minorile, questa problematica risulta ancora più grave che in una struttura per adulti”. In effetti in un contesto minorile sono ancora più importanti che altrove. Il cambio di direttore - A questo problema, nel caso del Beccaria si aggiunge il cambio di direttori in meno di un anno: “Da parte nostra c’è la richiesta che possa essere individuata una figura stabile perché si tratta di una struttura che ha delle complessità innanzitutto per i numeri: oggi ci sono 46 ragazzi quando la capienza massima è di 31”. “Ci auspichiamo, come Associazione Antigone, che ci sia quanto prima una stabilizzazione del personale che lavora all’interno dell’istituto, con una direzione altrettanto stabile. Il Beccaria merita un direttore che resti in carica per un tempo congruo e che non sia impegnato anche in altri istituti”. “Questa situazione purtroppo si è spesso verificata nell’ultimo anno perché i pensionamenti avevano portato a una riduzione del numero di direttori presenti sul territorio nazionale. L’ultimo concorso è stato bandito l’anno scorso, ma i vincitori hanno un periodo di formazione prima di diventare operativi. E quello precedente risaliva ben al 1996”. La situazione in cui si trova il carcere minorile Beccaria di Milano è identica a quella di molti altri istituti penitenziari, una condizione ormai perenne che sembrerebbe voler dire che chi è nato ai margini della società deve rimanerci a vita. Non può, infatti, esserci riscatto per un minore che sconta una pena in carcere se non esistono strumenti o strutture adeguate a fornirgli alternative. E purtroppo non basta l’impegno di educatori e volontari se questi sono costretti a fare i conti con la carenza di personale. Né basta quello dei direttori che spesso non hanno nemmeno il tempo di conoscere le realtà alle quali vengono assegnati perché assunti part-time o perché presto trasferiti in altre strutture. Santa Maria Capua Vetere (Ce). La nuova condotta idrica del carcere è realtà dopo 28 anni di Antonio Tagliacozzi edizionecaserta.net, 20 dicembre 2022 Domani mercoledì 21 dicembre, importante evento presso la casa circondariale “Generale Uccella” di Santa Maria per l’apertura simbolica della condotta d’acqua che porta il prezioso liquido nella casa di detenzione. Ciò avviene dopo circa 28 anni di attesa ed in occasione della conferenza stampa convocata per l’evento e per la presentazione di altre importanti iniziative che segnano, diciamo così, la “rinascita” della casa circondariale di massima sicurezza che già ha attivato corsi di camiceria, pasticceria e sartoria. L’importo dei lavori per la realizzazione della condotta idrica, interamente finanziati dalla Regione Campania, è stato di circa un milione di euro e sono stati eseguiti da una ditta di Roma. Ma oltre alla simbolica apertura dei rubinetti vi sarà anche la presentazione di altre iniziative che porteranno alla realizzazione di un canile gestito dal comune all’interno del carcere in collaborazione con gli stessi detenuti, l’Agenzia del Demanio, l’ASL di Caserta e l’Università Federico secondo di Napoli e di un ambulatorio veterinario, in couso con l’ASL casertana. Inoltre, saranno attivati ben sette corsi per i detenuti per sancire un contatto più stretto con gli animali e cioè un corso per dog trainer, per operatore per interventi assistiti per animali, un centro recupero per animali selvatici e per altre figure professionali. Ad aprire simbolicamente il rubinetto dell’acqua corrente, a presentare i progetti e a dare il benvenuto alle autorità che presenzieranno alla cerimonia sarà, la direttrice della casa circondariale, dottoressa Donatella Rotundo. Napoli. Carcere, si è svegliato l’uomo addormentato: finalmente è finita questa vicenda grottesca di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 20 dicembre 2022 Un paio di mesi fa raccontavo su queste colonne del giovane uomo addormentato nel carcere romano di Regina Coeli. La storia ha avuto una comprensibile eco. Ci sono adesso importanti sviluppi e vengo dunque a condividerli. Lo avevo incontrato tempo prima, sdraiato sulla sua branda nel centro clinico del carcere, con il suo catetere e il suo pannolone, nutrito dall’infermiere che gli infilava cibi liquidi in bocca, mentre lui era lì, quasi immobile, addormentato di giorno e di notte, da mesi e mesi, senza mai aprire gli occhi, senza mai dire una parola, senza mai alzarsi a sedere. I controlli medici, gli esami strumentali non avevano evidenziato alcuna patologia organica specifica e l’uomo era stato etichettato come un simulatore. In quanto simulatore non aveva diritto a un’interruzione del processo e di conseguenza veniva fatto comparire a tutte le udienze. La sua brandina veniva proiettata in videoconferenza sullo schermo dell’aula di tribunale, con lui sdraiato sopra, addormentato. I magistrati facevano quel che dovevano fare, scioglievano l’udienza e lo schermo tornava a oscurarsi. L’avvocato, sconcertato, continuava a chiedere che si facesse qualcosa per il ragazzo. Poche ore dopo la nostra denuncia, l’uomo è stato trasferito presso il centro clinico del carcere napoletano di Secondigliano, più grande e attrezzato rispetto a quello di Regina Coeli. L’attenzione del provveditorato, della direzione del carcere e della dirigenza sanitarie è stata da subito elevata e preziosa. Nel frattempo ero entrata in contatto con un gruppo di medici e ricercatori in neuroscienze di Ucl (University College London) che studia proprio il genere di sindrome di cui il ragazzo sembrava portatore. Ho presentato i neuropsichiatri londinesi - che in maniera straordinaria si sono messi a completa disposizione - alle autorità del carcere, subito pronte a confrontarsi e a condividere le informazioni nella maniera più aperta e competente. Anche l’avvocato ha collaborato aiutando a ricostruire la storia clinica. Dopo circa un mese di permanenza a Secondigliano, l’uomo è stato condotto in una struttura sanitaria esterna, l’ospedale Cardarelli di Napoli. Era quello che auspicavamo fin dall’inizio. Dopo una decina di giorni di ricovero, si è svegliato. Ancora non sappiamo che terapie siano state eseguite e che tipo di presa in carico sia stata portata avanti. I disturbi neurologici funzionali e simili condizioni hanno origini complesse che possono venire disinnescate, come ci spiegavano i ricercatori dell’Ucl, da fattori poco prevedibili. Ma che un uomo di 28 anni sia uscito da una situazione di coma apparente è una buona notizia. Sono contenta che la vicenda si sia - almeno per adesso - conclusa positivamente. I parenti dell’uomo, con cui siamo in contatto, hanno accolto la notizia con un prevedibile enorme sollievo. E fa piacere sapere che si sia messa fine alla grottesca situazione precedente, dove in custodia dello Stato un infermiere vuotava cateteri e cambiava pannoloni, occupandosi di un corpo fisico come se al suo interno non vi fosse proprio nulla. *Coordinatrice associazione Antigone Bologna. Il Garante dei detenuti: “Disordini all’interno del carcere minorile” dire.it, 20 dicembre 2022 Nella giornata del 20 dicembre 2022 si sono verificati disordini presso il carcere minorile, che hanno interessato il secondo piano detentivo, dove sono collocati i ragazzi maggiorenni. Si è avuto modo di effettuare un sopralluogo a ridosso degli accadimenti, risultando cinque le celle attualmente inagibili: due al primo piano detentivo, in ragione degli eventi critici verificatisi durante il fine settimana; tre al secondo piano, interessate dai fatti di ieri (in due di esse è stato appiccato il fuoco e in una risulta essere stata in parte divelta la porta blindata). A denunciare i fatti è stato il Garante dei detenuti di Bologna. In relazione alle condizioni di sicurezza della struttura, risulta assai preoccupante la verosimile inadeguatezza delle vie di fuga, nella malaugurata evenienza in cui, in caso di incendio di ampie proporzioni, dovesse configurarsi la necessità di evacuare i ragazzi. I disordini si sono consumati interamente all’interno della sezione detentiva, i cui accessi erano stati bloccati da parte degli operatori penitenziari. A seguito dei fatti, tre ragazzi maggiorenni sono stati trasferiti presso la Casa Circondariale di Bologna. Il deterioramento del contesto detentivo dell’istituto penale per i minorenni affonda le sue radici nell’apertura del secondo piano, risalente a circa un anno fa. “Tale opzione organizzativa ha comportato nei fatti il raddoppio della capienza regolamentare all’interno di un contesto strutturale inadeguato con evidenti ricadute anche sulle condizioni di vita dei ragazzi, le cui fragilità si sono con tutta evidenza amplificate. Peraltro non si è corrisposto all’aumento della capienza regolamentare con ampliamenti degli organici degli operatori della sicurezza e dell’area educativa (a tempo pieno)” si legge in una nota. “Tutto il personale è risultato in affanno nel recente periodo, essendo esposto a situazioni di maggiorata tensione che, se prolungate nel medio/lungo periodo, si teme possano anche andare a incidere sulla congruità degli interventi posti in essere da parte degli stessi operatori. I disordini di Bologna sono solo gli ultimi in ordine temporale. Va a terminare un anno che sembra aver visto difficoltà senza precedenti in tutti gli istituti penali per i minorenni, da nord a sud, isole comprese. Nel complesso della detenzione minorile non si contano più gli eventi critici, i danneggiamenti, le aggressioni in danno del personale, risultando a questo punto non più differibili un’urgente e risolutiva riflessione su quanto sta accadendo, nonché conseguenti interventi congrui rispetto all’attuale contesto” conclude il Garante dei detenuti di Bologna. Volterra (Pi). Il Maschio è un modello per le altre carceri di Ilenia Pistolesi La Nazione, 20 dicembre 2022 L’indagine dell’associazione Antigone dà i voti alla Casa circondariale di Volterra: “Il clima detentivo è positivo e costruttivo”. Arriva il report dell’associazione Antigone, in prima linea per la tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penitenziario e penale, relativo allo ‘stato di salute’ del carcere dopo il soprallugo effettuato dalla stessa associazione nelle scorse settimane. Il Maschio resta un modello carcerario, pur a fronte di una carenza nella pianta organica degli agenti della penitenziaria. In prima battuta, il carcere viene definito come “aperto alla città, dentro una città che è aperta al carcere. Il clima detentivo positivo e costruttivo è l’elemento che più lo caratterizza. Consapevoli dei limiti strutturali della stessa fortezza del ‘400 all’interno della quale si colloca l’istituto, sono stati numerosi gli interventi per rendere gli stessi limiti elementi di valore: un esempio tra tutti è la trasformazione dei vecchi cubi di passeggio in nuove aule scolastiche dedicate ai corsi di scuola superiore. Si tratta di un carcere che è costantemente aperto alla città con esempi virtuosi come le Cene Galeotte, la Compagnia della Fortezza, le visite guidate alla Torre del Maschio, ma anche le possibilità professionali e lavorative offerte soprattutto all’esterno dell’istituto grazie ad una grande collaborazione con le amministrazioni comunali. Il limite principale, come si è detto, è la struttura stessa: trattandosi di una fortezza sono impossibili le azioni di ristrutturazione in toto. Sono necessarie frequenti azioni di manutenzione, soprattutto relative agli spazi delle docce delle sezioni (con infiltrazioni) e delle aree limitrofe, ad esempio l’aula musica, posta al di sotto di una delle docce”. Il dossier dell’osservatorio di Antigone accende poi un faro sugli spazi ‘vitali’ nella detenzione: “Nell’istituto tutte le camere detentive sono singole, dotate di wc in ambiente separato. Nella sezione 3 il muro che separa il wc è piuttosto basso per cui si è permesso di applicare delle tende da doccia per isolare l’area. Le celle visitate si presentano in buone condizioni igieniche. Viene concessa la possibilità di personalizzare la camera a ciascun detenuto e di poter produrre lavori di hobbistica all’interno delle stesse camere detentive (pittura, cucito, ceramica o lavori in legno). É possibile, inoltre, portare all’interno computer portatili. La filosofia dell’istituto si fonda sul principio di responsabilizzazione e autodeterminazione delle persone detenute: all’interno di ciascuna sezione la tendenza è quella di stimolare l’autogestione e la collaborazione tra detenuti”. A fronte di una popolazione carceraria di 178 galeotti, operano 292 volontari, Rispetto alla pianta organica prevista, al momento della visita di Antigone il personale penitenziario risulta sotto organico. Nel dossier, non vengono segnalati particolari eventi critici (vedi episodi di autolesionismo, suicidi o tentati suicidi, aggressioni) durante questo anno. Milano. Il decoder lo rigenerano al Carcere di Opera di Antonietta Nembri vita.it, 20 dicembre 2022 Al via un laboratorio professionale che coinvolge 14 persone di cui 13 detenute. A far decollare il progetto che punta all’inclusione attraverso lavoro e formazione due imprese sociali a gestione femminile: Opera in Fiore e Officina dell’Abitare. La sfida delle due disability e diversity manager, Federica Dellacasa ed Elisabetta Ponzone è quella di creare lavoro e ridare dignità alle persone. Ha preso il via all’interno del carcere di Milano-Opera un nuovo laboratorio professionale per la rigenerazione dei decoder televisivi. Il progetto che coinvolge 14 persone, di cui 13 detenuti, regolarmente assunti e un operatore esterno che si occupa della logistica è nato dalla cooperativa sociale milanese “Officina dell’Abitare”. Tutta la filiera produttiva è seguita dai detenuti: nove sono stati assunti proprio in questi giorni per avviare la nuova attività mentre gli altri quattro, che fungono da coordinatori, sono invece assunti da “Opera in Fiore”, la cooperativa sociale partner di “Officina dell’Abitare” con la quale vengono sperimentate nuove metodologie di sostenibilità e integrazione. La rigenerazione dei decoder televisivi viene effettuata per Sky, con cui - spiega una nota - le due cooperative lavorano, e aderisce a un programma per il miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti e il reinserimento sociale attraverso formazione specializzata e contratti di lavoro. Le due cooperative protagoniste di questo nuovo progetto offrono servizi ad aziende pubbliche e private con l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, disabili, detenuti e migranti. Una formula che vede le due realtà imprenditoriali realizzare numeri di tutto rispetto: oltre cento le persone assunte e quasi due milioni di euro i ricavi complessivi. Alle persone assunte - viene specificato - sono applicati i Ccnl delle cooperative sociali mentre per chi lavora nell’ambito del verde il Ccnl delle cooperative dei consorzi agricoli. Del resto la sfida accolta da due professioniste milanesi, le disability e diversity manager Federica Dellacasa ed Elisabetta Ponzone, è proprio quella di creare lavoro e ridare dignità alle persone attraverso l’imprenditoria sociale e lo hanno fatto con il lavoro delle loro due cooperative, Opera in Fiore e Officina dell’Abitare. “Abbiamo raggiunto risultati eccezionali”, spiega Federica Dellacasa, presidente di Opera in Fiore (a destra nella foto con Elisabetta Ponzone). “Con i nostri progetti e la fiducia di grandi aziende, lavoriamo con persone che lo Stato definisce svantaggiate, ma che per noi rappresentano valore e lavoro. Dietro al nostro fare quotidiano c’è una visione imprenditoriale. Non si tratta di volontariato”. “Si tratta di ridare dignità, attraverso il lavoro, alle persone che hanno ancora capacità e competenze, ma che si vedono escluse dalla società per motivi diversi”, aggiunge Elisabetta Ponzone, socia di Dellacasa e presidente della coop Officina dell’Abitare. “Conosciamo le aziende e le loro esigenze, così come conosciamo i bisogni di chi vive in contesti fragili e complicati. Il nostro impegno è proprio quello di mettere insieme questi due mondi, scardinando i soliti paradigmi, creando nuovi modelli di inclusione e di sviluppo”. Le due cooperative milanesi offrono diversi servizi: un filone di attività si sviluppa all’interno della Casa di reclusione di Milano-Opera, dove, da molti anni, sono operativi due progetti: Borseggi, marchio indipendente nato nel 2012 e il laboratorio per la produzione di mascherine chirurgiche certificate al ministero della Sanità, nato come risposta alla pandemia. Un secondo filone, quello più corposo si sviluppa, invece, attraverso l’offerta mirata di servizi alle aziende per l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate permettendo così alle imprese di ottemperare alla legge 68/99 sulla disabilità che stabilisce che i datori di lavoro con più di 15 dipendenti sono tenuti ad avere alle proprie dipendenze lavoratori appartenenti alle categorie protette oppure, senza farsi carico della gestione diretta, di fare una convenzione con una cooperativa sociale di tipo B, certificata e con determinate caratteristiche. In particolare Opera in Fiore, nata nel 2004, offre servizi di manutenzione e progettazione del verde, si occupa di forestazione urbana come partner di Forestami (il progetto di Comune di Milano, Regione Lombardia, Politecnico e Parco Nord per piantare 3 milioni di alberi entro il 2030) e a Milano gestisce un terreno confiscato alla mafia e un giardino comunitario aperto alle scuole e al territorio con orti sociali, api e una piccola fattoria didattica. Prendendosi cura della natura, detenuti in permesso, persone disabili e migranti stanno imparando un lavoro vero, coordinati da giardinieri professionisti, un’agronoma e una biologa. Officina dell’Abitare, propone, invece, servizi su misura per la responsabilità sociale d’impresa e il welfare aziendale creando nuovo lavoro per persone svantaggiate matchando esigenze con capacità. Vengono così creati servizi ad hoc come l’indicizzazione di siti internet, il carwash delle auto aziendali, gli sportelli di lavanderia, l’affiancamento ai servizi generali, alla reception o il data entry per gli uffici. Nata nel 2014, questa seconda coop è stata rilevata nel 2020 e oggi, mostra che è possibile, facendo rete e accompagnando le persone, creare percorsi virtuosi anche con lavoratori altrimenti esclusi dal mercato del lavoro oppure condannati alla dipendenza dal sistema assistenziale. “La nostra esperienza ci insegna che il lavoro e la formazione continua sono gli strumenti essenziali per far crescere persone e valori”, afferma Ponzone. “Ristabilendo un giusto equilibrio tra dignità e sviluppo, nascono percorsi inusuali, ma possibili per fare futuro. Le persone che lavorano con noi, i detenuti in particolare, meritano una seconda possibilità. Sempre. E il lavoro ha proprio questa funzione aiutando la persona a riflettere, a non farla sentire sola e a decidere di riprendere in mano la propria vita”. Le due cooperative collaborano attivamente con una rete di imprese e realtà private, enti pubblici e organismi del Terzo settore su scala locale, nazionale e internazionale. Sono attualmente oltre 20 le realtà che lavorano con le due coop. Ancona. Leggiamo in carcere di Marcello Pesarini Ristretti Orizzonti, 20 dicembre 2022 Il 16 dicembre 2022, nella suggestiva e multiuso biblioteca “La fornace” di Moie (Ancona), nata sul massimo riutilizzo della storica fabbrica di mattoni, è stato firmato l’accordo per i secondi 10 anni del Sistema Bibliotecario Carcerario Regionale delle Marche. Nato sull’esperienza dei bibliotecari che la Biblioteca San Giovanni di Pesaro ha accompagnato in carcere a sperimentare, e dalla sinergia fra i servizi sociali della Regione Marche (amministratrice dei fondi statali indirizzati ai ristretti) e il comparto pedagogico della Casa Circondariale di Pesaro, il sistema è poi stato stabilizzato attraverso il percorso che ha coinvolto il DAP delle Marche e l’Associazione Italiana Bibliotecari. Nella piena applicazione dell’articolo 27 della Costituzione, molti detenuti sono stati avviati alla mansione di bibliotecario interno, sono nati gruppi di lettura, corsi di narrativa, e il Concorso Storie da Musei, Archivi, Biblioteche nato per il pubblico non professionale esterno, ha visto fin dal 2013 detenuti e detenute concorrenti sia nella narrativa che nella fotografia. Notizie più approfondite sulle esperienze sono rintracciabili su www.aib.it e su www.raccontidicitta.it. Tutti gli interventi hanno testimoniato le attività, le emozioni, senza nascondere le difficoltà incontrate dagli Stati Generali, poi finiti nel nulla, la necessità di applicazione delle riforme Cartabia, il ddl Mirabelli sulla pedagogia ed in generale la ridotta sensibilità tutt’ora esistenti nella politica. Sono stati narrati i risultati ottenuti sulle relazioni familiari in carcere e fuori, la diminuzione della recidiva, i risultati artistici, la collaborazione con le scuole, col teatro. A tutti noi che abbiamo fatto parte di questa comunità, di questa scuola di vita, resta il compito di condividerla ed attrarre i cittadini in questo quinto o sesto stato che tale non deve restare. Roma. CESP-Rete delle scuole ristrette: dieci anni con lo sguardo di dentro, il potere della cultura in carcere di Anna Grazia Stammati* tecnicadellascuola.it, 20 dicembre 2022 Importante successo della giornata seminariale organizzata dal CESP - Rete delle scuole ristrette il 12 dicembre nel carcere di Rebibbia, ottima la presenza di tutte le componenti dei partecipanti: dall’alto livello istituzionale, ai rappresentanti del mondo della cultura, dalla presenza di docenti universitari ai dirigenti scolastici, dai docenti della Rete delle scuole ristrette provenienti da più regioni italiane (tra i quali giovani insegnanti in formazione), ai docenti degli istituti di Rebibbia, dagli studenti e corsisti “ristretti” (un fiocco nero da lutto al petto, per ricordare i detenuti morti suicidi), agli studenti delle classi quinte dell’Istituto Alberghiero “Amerigo Vespucci” di Roma e a quelli dell’Università Roma Tre (180 i presenti). Il seminario, svoltosi nella Sala Teatro del carcere di Rebibbia, ha messo in scena, sul palco, una vera e propria biblioteca, nella quale, per l’intera durata dell’incontro, gli studenti “ristretti” di Rebibbia hanno accolto e ascoltato i relatori, richiamando così, simbolicamente, i due elementi su cui si è fondata in questi dieci anni l’azione della Rete delle scuole ristrette: la Biblioteca quale luogo primario di autoapprendimento/autoformazione/capacitazione; lo Spazio Teatrale quale “spazio-altro” di riconoscimento, ricostruzione e rappresentazione del sé. Tutti gli interventi hanno sottolineato il valore e il prezioso contributo del lavoro svolto dal CESP e dalla Rete delle scuole ristrette in questi dieci anni, finalizzata a rendere istruzione e cultura elementi centrali dell’esecuzione penale, operando nella quotidianità dei penitenziari italiani per arrivare a un carcere improntato al rispetto dei diritti dei privati della libertà. La giornata è stata densa nei contenuti e molto partecipata, sia per il numero degli interventi che per le presenze autorevoli e si è snodato attraverso più momenti di confronto. Significativi i Saluti istituzionali che hanno contribuito a chiarire, da un lato, le prospettive di un’esecuzione penale in grado di rispettare il dettato costituzionale e la volontà dell’Amministrazione Penitenziaria di procedere in tal senso; dall’altro, l’importanza dei percorsi di istruzione in carcere, sottolineata proprio nelle Linee guida della Nuova istruzione Adulti dal riconoscimento della propria specificità e, anche qui, della volontà del Ministero dell’Istruzione di contribuire a un miglioramento dell’offerta formativa attraverso politiche di redistribuzione degli organici che tengano conto del calo demografico. Atteso e molto apprezzato da tutti, l’intervento del Presidente Onorario della Corte Costituzionale ed ex Ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick, che pur rilevando il positivo clima del seminario, ha voluto sottolineare la drammatica situazione della realtà del carcere, richiamando, tra gli altri, i cronici problemi del sovraffollamento e la necessità che l’Amministrazione penitenziaria intervenga improrogabilmente su tali problemi, nel rispetto del complesso, articolato, esaustivo e tuttora attuale dettato della Carta Costituzionale, individuando una politica che assicuri efficienza nell’organizzazione, si preoccupi seriamente della formazione del personale, tuteli la salute e migliori le condizioni della qualità della vita in carcere. Gli interventi che si sono succeduti sono stati tutti altamente significativi e, tra questi, vanno evidenziati quelli degli studenti (ristretti e liberi), che hanno sottolineato l’importanza dell’istruzione e della cultura in carcere: “quella che con la penna graffia l’anima, sveglia le coscienze sopite dalla quotidianità banalizzante del carcere” (Paolo Scarlata, studente Polo Penitenziario Universitario Rebibbia) o, come nell’intervento di uno studente dell’IPSSEOA “Amerigo Vespucci” di Roma, la grande valenza formativa di una giornata trascorsa in carcere, anche per la concreta esperienza dell’accesso in un istituto penitenziario, con l’obbligo dei controlli, della privazione di tutti gli strumenti elettronici, del passaggio attraverso cancelli che venivano chiusi alle loro spalle, confermando l’importanza per i cittadini di conoscere la realtà del carcere; ma, come denunciato da Fabio Falbo (Studente del Polo Penitenziario Universitario Rebibbia), c’è ancora molta strada da fare, visto il rigetto della sua richiesta di benefici, in quanto la sua prima Laurea e la sua iscrizione alla seconda sono stati giudicati non significativi, tanto da spingerlo, come forma di protesta, ad annullare l’iscrizione al secondo percorso, come testimonianza di una ingiustizia per la ben scarsa valutazione, al di là dei discorsi, dei percorsi di istruzione in carcere. Gli organizzatori hanno valutato positivamente la giornata conclusiva del ciclo Dieci anni con lo sguardo di dentro. Carcere: il potere della cultura ove hanno richiesto alle Amministrazioni presenti di prevedere anche Tavoli interistituzionali per concordare gli interventi necessari a portare la cultura in carcere e il carcere nella cultura del Paese. *Presidente CESP - Centro studi Scuola pubblica Teatro. L’umanità del bardo Bergonzoni di Enrico Terrinoni Il Manifesto, 20 dicembre 2022 L’attore in scena con lo spettacolo “Tutela dei beni: Corpi del (c)reato ad arte (il valore di un’opera, in persona). “L’umanità ha la più immensa collezione d’arte privata: gli esseri viventi”. Voce forte su sfondo di silenzio. Alessandro Bergonzoni, Museo Aristaios, Auditorium Parco della Musica, Roma. Titolo: “Tutela dei beni: Corpi del (c)reato ad arte (il valore di un’opera, in persona)”. Venti minuti. Un soliloquio tra teche, in un luogo del passato. Che ci parla di un presente dimenticato, perché il futuro non se lo scordi. Di spalle al pubblico. Davanti una fotografia che piano s’illumina di morte. L’ha detto in mille spettacoli. Siamo vecchi, come il cucco, siamo Cucchi, siamo Cucchi! L’immagine è quella del ragazzo martoriato quando doveva essere preservato. Come le opere a cui teniamo tanto. Un grande traduttore, Daniele Petruccioli, scrisse che bisogna trattare una poesia come un essere vivente, perché gli esseri viventi vanno trattati come una poesia. Ma certi esseri viventi, morenti tra quattro mura, non sono trattati come poesie. E lo ricorda Bergonzoni: parliamo sempre di capolavori, ma non “capolavoriamo”. Mai. Lo Stato accarezza le sue opere museificate ma non i suoi reclusi, i suoi tradotti. Ed è proprio in traduzione, nella traslazione ovvero da un carcere all’altro di chi non è ancora salma, che avvengono, ci dice Bergonzoni, i peggiori strazi. Nel silenzio buio di camionette anonime. Veicoli di Stato. “Tradurrò la tua vita in morte”, avverte il clown Touchstone in “Così vi piace”, commedia di Shakespeare. Non ci piace. Traduciamoci in vita, lo corregge in tragedia il bardo Bergonzoni. Il populismo non è finito ed è qui per restare di Giorgia Serughetti* Il Domani, 20 dicembre 2022 L’Italia “laboratorio del populismo”, secondo l’incisiva espressione di Marco Tarchi, il paese in cui sono nati e convissuti populismi diversi e molteplici, sta cambiando volto? Questo suggerirebbero i discorsi sul post-populismo. In realtà niente nell’orizzonte del presente lascia pensare che siano mutate le condizioni che hanno costituito negli ultimi quindici anni il terreno fertile per la cosiddetta esplosione populista. Le contorsioni politiche dei partiti che passano dalla protesta a responsabilità di governo, il processo di normalizzazione che li investe, ha fatto parlare a più riprese di una stagione populista giunta alla fine. Di “post-populismo” parla anche il Rapporto del Censis sulla situazione sociale del paese, descrivendo un quadro di percezione dei rischi e domande di sicurezza lontano da aspettative irrealistiche e inclinazioni verso la demagogia. Dunque l’Italia “laboratorio del populismo”, secondo l’incisiva espressione di Marco Tarchi, il paese in cui sono nati e convissuti populismi diversi e molteplici, sta cambiando volto?  In realtà è difficile crederlo, per ragioni che possono apparire chiare ripartendo dall’analisi delle cause della crescita dei populismi: dall’aumento delle diseguaglianze all’impoverimento relativo di settori della popolazione, dal disorientamento legato all’incombere di minacce globali fino alla crisi dei partiti tradizionali. Niente nell’orizzonte del presente, in cui le sofferenze economiche e le paure si moltiplicano, e le risposte della politica appaiono cronicamente deboli, lascia pensare che siano mutate le condizioni che hanno costituito negli ultimi quindici anni il terreno fertile per la cosiddetta esplosione populista. I dati pubblicati su questo giornale da Enzo Risso sullo scollamento, misurato sulla fiducia decrescente, tra i cittadini e le élite (politiche, ma anche economiche e culturali), segnalano la profondità della malattia che colpisce le classi dirigenti del paese. Più ancora, tuttavia, dovrebbe attirare l’attenzione un aspetto della fotografia scattata dal Censis: complessivamente, 8 italiani su 10 affermano di non avere voglia di fare sacrifici per cambiare, diventare altro da sé. È quel che sembrerebbe un effetto di disillusione, un segnale della consapevolezza che il gioco sia truccato e la mobilità sociale bloccata. Per il filosofo Michael Sandel, il malcontento che nasce dal tradimento delle promesse di ricompensa per gli sforzi individuali, di quelle promesse che condiscono la retorica dell’ascesa sociale per proprio merito, è il terreno su cui il populismo nasce e prospera. Se è così, è difficile pensare che il ripiegamento rassegnato possa costituire la fine di un ciclo antipolitico. Piuttosto, possiamo attenderci che la disillusione segni la sconfitta di modelli aspirazionali come quello incarnato da Silvio Berlusconi negli anni d’oro della glorificazione della libera impresa. Gli unici messaggi oggi capaci di vincere la diffidenza diffusa sono quelli capaci di offrire alle persone conferme e senso d’orgoglio per la propria posizione nel mondo, magari mobilitando l’identità nazionale, culturale o religiosa come supplemento alla carenza di appagamento su versante materiale. Ma questo è proprio ciò che i partiti populisti sanno fare meglio. *Filosofa Abbandono scolastico. “A 16 anni ho lasciato la scuola. Volevo imparare a fare soldi, in classe mi annoiavo” di Corrado Zunino La Repubblica, 20 dicembre 2022 Intervista con uno di quelli che non ce l’hanno fatta. “Sono arrivate le sospensioni: una, due, tre. E mi sono fermato per sempre”. “La verità è che a scuola mi annoiavo”, dice, alla fine, Mirko, 16 anni portati con inconsapevole superficialità. È uno dei settantamila adolescenti borderline dalla scuola italiana, come ha raccontato l’inchiesta di ieri di Repubblica. Lui ne è già uscito. Lo scorso settembre non si è iscritto a nessuna classe di prima superiore e ora viaggia, con i suoi risvegli intorno a mezzogiorno, con un diploma di terza media ottenuto un anno in ritardo. Ci racconta, Mirko? “Andavo male già a undici anni, la prima media. L’ho fatta qui a Lozzo Atestino, in provincia di Padova. Non mi trovavo con gli insegnanti, neppure con i miei compagni. Non studiavo e accumulavo “4”. Il primo quadrimestre è stato tutto insufficiente. Mi salvavo in motoria, che piace a tutti, e in Arte. Sono bravo nel disegno, ma non disegno da tempo”. A fine anno, bocciato... “Sì, devo dire che avevo un comportamento non adatto alla scuola. Non mi interessava nulla”. Stava vivendo un momento difficile? A casa, per esempio? “No, solo che non ero maturo”. Ha ripetuto la prima media? “Ho capito e mi sono raddrizzato. Ho rifatto l’anno e ho proseguito in seconda e terza senza problemi”. Ha vissuto le medie in pieno Covid. “La scuola ha organizzato la Didattica a distanza. All’inizio partecipavo, ma ho perso presto la voglia. Non accendevo il computer e restavo a dormire”. Con che voto è uscito dall’esame finale? “Sei”. Con chi ha parlato per orientarsi verso le successive scuole superiori? “La mamma e gli amici”. C’è una figura paterna nella sua vita? “Direi di no, c’è mia mamma”. Ha fratelli, Mirko? “Una sorella, diciott’anni, lavora. E un fratello di tredici. Viviamo nella stessa casa”. Dove ha scelto di iscriversi per le superiori? Con quale criterio? “Sono andato al Manfredini di Este, i salesiani. Era vicino, otto chilometri. C’è il pullman. La retta costa un bel po’. Ho preso l’indirizzo elettrotecnico. Italiano, Storia, elettrotecnica, non ci sono molte materie al Manfredini”. E come è partito l’anno scolastico alle superiori? “All’inizio bene, ho scoperto che quel tipo di professionale mi piaceva. Anche i voti, sufficienti. Via via, però, mi sono lasciato condizionare da chi avevo intorno e ho ripreso a fare casino. Eravamo solo maschi e in classe c’era sempre tanta confusione. A volte era difficile fare lezione. Sono arrivate le sospensioni, una, due, tre. E mi sono fermato. Per sempre. No, non sono più andato a scuola, direi dalla primavera 2022. Mi hanno considerato ritirato, e bocciato”. Non si è riscritto alla prima dei salesiani? In un altro istituto? “Con la scuola italiana ho chiuso, ci metto una pietra sopra. In classe non sono mai stato in grado di darmi da fare, ho sempre e solo fatto casino”. Che cosa fa oggi, la mattina? “Dormo fino a tardi, poi il pomeriggio esco”. Le piace questa vita? “Sì, ma quando mi chiedono di fare qualcosa non mi tiro indietro. Taglio l’erba, in casa e fuori. Ci ricavo una paghetta”. Non le fa paura affrontare il futuro con un solo diploma di scuola media in tasca? “Devi avere le idee chiare in testa per affrontare il futuro”. E lei che idee ha? “Mi piace giocare a calcio. Sono attaccante negli Allievi dei Colli Euganei. Prima di farmi male, ho segnato tutte le domeniche. Rientrato dopo un mese, di nuovo. Se capitasse una carriera da calciatore, sì, ne farei buon uso”. La sua famiglia ha mai avuto problemi economici, Mirko? “A volte, non sempre. Vorrei dire che la scuola ti insegna tanto, ma non ti dà tutto quello che ti serve per la tua vita. Non ti spiega come fare i soldi”. Qualcuno, a scuola, l’ha mai aiutata? “Il preside delle medie, alle superiori nessuno”. Cosa ne pensa sua mamma del fallimento scolastico? “Non gliene parlo, sinceramente ho sempre fatto di testa mia. Quello che mi manca ho sempre cercato di ricavarlo da me”. A che età ha iniziato a sentirsi autonomo, Mirko? “Ma, veramente, non so se sono autonomo”. Richiedenti asilo e rifugiati. Strategia della formica di Marco Catarci Il Manifesto, 20 dicembre 2022 Immigrazione. Presentati i risultati dell’ultimo Rapporto del Sistema di accoglienza e integrazione. Oggi 20 dicembre 2022 viene presentato all’Università degli Studi Roma Tre, alla presenza del Rettore Massimiliano Fiorucci, l’ultimo Rapporto del Sistema di accoglienza e integrazione, conosciuto a lungo come Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar). Sono passati esattamente venti anni dalla costituzione di un sistema pubblico per l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, diffuso su tutto il territorio italiano, con il coinvolgimento delle istituzioni centrali e locali. Nel corso di questo arco di tempo si è consolidata una efficace metodologia di accoglienza “diffusa” e “integrata”. “Diffusa” perché gli interventi di accoglienza sono distribuiti su tutto il territorio nazionale, dal sud al nord del paese. Oggi i progetti di accoglienza del sistema sono presenti in ben 722 enti locali, in tutte le regioni d’Italia, specialmente in comuni di piccole e medie dimensioni (in circa l’80% dei casi sotto i 15mila abitanti). “Integrata” perché, superando la mera erogazione di vitto e alloggio, l’accoglienza è caratterizzata peculiarmente per misure di orientamento, accompagnamento legale e sociale, alfabetizzazione e formazione, nonché per la costruzione di percorsi individualizzati di inclusione e di inserimento socio-economico. Il rapporto annuale evidenzia che nel corso degli ultimi anni si è registrato un trend di ampliamento dei posti in accoglienza, a seguito dell’incremento dei flussi migratori provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente e ultimamente a seguito delle recenti guerre in Siria e Afghanistan, che ha portato lo scorso anno ad accogliere 42mila soggetti. I progetti di accoglienza sono destinati perlopiù a categorie cosiddette “ordinarie” di richiedenti e asilo e rifugiati (67%) e, in misura minore, a minori stranieri non accompagnati (28%) e persone con disabilità fisica o disagio mentale (5%). Al fine di favorire opportunità di interazione nella comunità locale, alle soluzioni alloggiative collettive di medie e grandi dimensioni, si preferiscono quelle di piccole dimensioni: nell’84% dei casi si tratta di semplici appartamenti, di proprietà dell’ente locale oppure presi in locazione nel mercato immobiliare privato, generalmente collocati all’interno del centro abitato. Un dato non trascurabile è il fatto che nei progetti del sistema di accoglienza e integrazione oggi lavorano 19.000 figure professionali (operatori sociali, mediatori, assistenti sociali, educatori, psicologi), in gran parte impiegati in maniera strutturata e continuativa. La maggioranza dei soggetti accolti è di giovane età: il 70% ha una età compresa tra i 18 e 40 anni, oltre il 23% ha meno di 18 anni, mentre gli ultraquarantenni rappresentano poco più del 6% degli accolti complessivi. Per quanto concerne le aree di provenienza, in prevalenza (nel 72% dei casi) si tratta di paesi dell’Africa Sub-Sahariana, occidentale (Nigeria, Gambia, Mali, Guinea, Senegal, Costa D’Avorio) e orientale (Somalia), asiatici (Pakistan e Bangladesh), o della cintura del Mediterraneo (Tunisia). Aree di crisi che evidenziano che l’accoglienza dei richiedenti asilo chiama in causa la qualità della nostra democrazia e, in particolare, la risposta che siamo in grado di offrire di fronte a quei processi globali che, causando la dissoluzione, la disgregazione sociale e l’impoverimento di intere aree del pianeta, generano la fuga di milioni di persone in tutto il mondo. In questo campo, oggi l’esperienza del Sistema di accoglienza e integrazione rappresenta un punto di riferimento ineludibile, perché mostra come, al riparo dalle logiche dell’”emergenza”, sia possibile costruire quotidianamente effettive opportunità di inclusione, accompagnando i soggetti a intessere relazioni con gli individui, con i servizi e con l’intera comunità territoriale. È la strategia delle formiche, gli animali più forti in assoluto. Portano un peso eccezionale. Migranti. “Porti sicuri” subito ma lontanissimi: nuova strategia anti-Ong di Giansandro Merli Il Manifesto, 20 dicembre 2022 Il governo rinuncia a fermare le navi ma prova a ostacolarle con una doppia mossa. Durante la navigazione verso Livorno le Sea-Eye 4 e Life Support salvano altre 117 persone. A Lampedusa muore una bimba. “Chi è capace di conseguire la vittoria adattando la sua tattica in base alla situazione del nemico, quegli può dire di possedere un’abilità superiore”. Chissà se il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha pensato a questo insegnamento di Sun-Tzu per modificare la strategia di contrasto alle Ong del Mediterraneo. Sia le anticipazioni sul prossimo codice di condotta per le navi umanitarie, sia la nuova prassi di assegnazione rapida del porto allontanano il Viminale dai toni roboanti dei “porti chiusi” salviniani ma anche dall’esibizione muscolare di inizio novembre. Quando attraverso un decreto interministeriale contestatissimo e poi gli “sbarchi selettivi” cercò di impedire lo sbarco a quattro navi. In quell’occasione costituzionalisti, medici, governi di altri paesi membri e le stesse istituzioni europee, con la presa di parola della Commissione, avevano chiarito che Roma non può impedire i salvataggi e che i naufraghi devono sbarcare. In Italia, data la collocazione geografica e l’anomalia della piccola isola-Stato di Malta. Invece dello scontro frontale il governo sembra ora aver individuato una strategia più sottile: ridurre l’operatività delle Ong, moltiplicare i costi dei soccorsi. Attraverso il combinato di due mosse che rischiano di mettere in scacco almeno una parte della flotta umanitaria, le navi più grandi. La prima è assegnare immediatamente il porto dopo il primo soccorso. La seconda è indicare una meta lontana. È quanto accaduto tra sabato e domenica alle tre navi in missione: Rise Above, Sea-Eye 4 e Life Support (di Emergency). Venerdì la prima imbarcazione, piccola e veloce dunque non una vera e propria nave, ha salvato 63 persone poi trasbordate sulla più grande Sea-Eye 4. Sabato ha realizzato un secondo soccorso: 27 naufraghi. Lo stesso giorno Roma ha assegnato Gioia Tauro alla Rise Above e addirittura Livorno alla Sea-Eye 4. Stesso schema domenica: la Life Support ha soccorso 70 persone alle 5 di mattina e sei ore dopo ha ricevuto Livorno. L’assegnazione rapida del porto rispetta in pieno le convenzioni internazionali. Allo stesso tempo, però, svela che gli attacchi del governo alle Ong sul mancato rispetto delle regole erano solo strumentali e che l’unico obiettivo è evitare, o quantomeno limitare, i salvataggi. Le navi, infatti, dovranno risalire per centinaia di miglia nautiche dopo ogni intervento allontanandosi dalla zona di ricerca e soccorso. Soprattutto perché i porti sono indicati sì rapidamente, ma a distanze sempre maggiori. Ciò contravviene al fatto che lo sbarco dovrebbe avvenire nel più breve tempo e nel porto sicuro più vicino, ma sarà un aspetto più difficilmente contestabile in punta di diritto. La convenzione Amburgo-Sar dice che dopo i soccorsi le imbarcazioni si devono discostare “il meno possibile dalla rotta prevista”. La norma è pensata per unità commerciali e non per navi che sono in mare proprio per salvare vite e dunque non hanno una rotta predefinita. Inoltre durante i due passati governi le Ong sono rimaste in attesa dei porti per giorni, senza mai protestare veramente, e hanno accettato di dirigersi lontano. A Taranto, soprattutto, ma anche a Salerno. L’allontanamento degli sbarchi è stato preparato dalla precedente titolare del Viminale Luciana Lamorgese. Con il nuovo governo è solo continuato: Bari e Salerno per le Humanity 1 e Geo Barents la settimana scorsa, Livorno per le Sea-Eye 4 e Life Support adesso. Magari la prossima volta toccherà a Genova. A quel punto davvero non si capirebbe perché in Liguria sì e a Marsiglia no, dal momento che il nodo non è mai stato sbarcare tutti in Italia ma toccare terra in porti vicini ai soccorsi per evitare lunghe traversate che complicassero le condizioni dei naufraghi. Tra le anticipazioni del nuovo codice di condotta ci sarebbe, oltre al divieto di trasbordi e all’impegno dei capitani a prendere le richieste di asilo (di dubbia legittimità), anche l’obbligo di realizzare un solo salvataggio. Ma se questo può essere indotto attraverso l’allontanamento dalla zona di ricerca e soccorso è improbabile si possa imporre per legge. Anche se la nave deve rientrare verso il porto assegnato resta l’obbligo per il capitano, come stabilito dalle convenzioni internazionali, di fornire assistenza alle barche in pericolo. Quando c’è un caso aperto, quindi, nessun codice di condotta può impedire di rispondere a un Sos. È quanto avvenuto tra domenica e lunedì per le Life Support e Sea-Eye 4: mentre risalivano verso Livorno hanno salvato 72 e 45 migranti. Nel secondo caso l’Italia ha insistito affinché la nave continuasse a navigare “direttamente verso il porto assegnato”, mentre Malta ha addirittura intimato di non intervenire perché il barchino, in mare da ben sei giorni, non sarebbe stato in pericolo. Interpretazione lontana dalle norme internazionali e dalle pronunce di diversi tribunali italiani. Intanto ieri a Lampedusa è arrivato un barcone con 160 persone “scortato” dal veliero Astral di Open Arms e poi, una volta in Sar italiana, soccorso dalla guardia costiera. Che ha anche salvato 41 persone naufragate a 10 miglia dall’isola. Nulla ha potuto, però, per la piccola Rokia: aveva meno di tre anni, è morta nel poliambulatorio di Lampedusa. Dove ieri il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini ha posato tra il personale della guardia costiera e dichiarato: “Abbiamo il dovere di fermare il traffico di esseri umani gestito da criminali, che porta solo morte e disperazione”. Gli Stati corruttori, la nuova questione morale di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 20 dicembre 2022 Unifica il fronte dei tiranni il profondo disprezzo ideologico verso l’universo dei valori di libertà e di eguaglianza dove essi giudicano che “tutto è in vendita”. L’eterna rissa italiana tra destra e sinistra sulla spinosa questione morale da un lato, e dall’altro la non eccelsa reputazione di cui godono le istituzioni europee hanno concentrato l’attenzione suscitata dallo scandalo delle tangenti Ue assai più sul versante dei corrotti che su quello dei corruttori. Sulla miserabile congrega di politici di serie B residenti a Bruxelles e di sottopancia intraprendenti e bellocci anziché su chi elargiva loro i quattrini per i suoi scopi poco puliti. Ma il vero nodo politico è su questo versante, non sull’altro. Di corrotti, infatti, ce ne sono sempre stati e sempre ce ne saranno così come sempre ci sono stati e sempre ci saranno, ad esempio, grandi interessi economici pronti a cercare chi, in cambio di soldi, si metta al loro servizio. È considerato in un certo senso talmente fisiologico questo ultimo tipo di ricerca di “influenza” che esso ha trovato anche un nome presentabile, “il lobbysmo”, con un adeguato corredo di regole come quelle (forse un po’ troppo generose?) vigenti a Bruxelles. Il vero fatto nuovo del Qatargate, invece, è il Qatar. Il vero fatto nuovo, cioè, è la definitiva scoperta di un genere di corruttore del tutto inedito, e cioè gli Stati: non già per ragioni di spionaggio ma per ben altro. Negli ultimi anni ne avevamo avuto sentore (più di un sentore in verità) ma ora è una certezza. Si tratta perlopiù di Stati africani e asiatici - con l’importante eccezione della Russia - uniti tutti dalla caratteristica di essere retti da regimi non democratici. In un certo senso quanto sta accadendo lo si potrebbe considerare anche una sorta di nemesi storica. Una sorta di contrappasso per le tante volte in cui, nel corso dei secoli, avventurieri europei di ogni risma o addirittura rappresentanti delle stesse potenze europee se ne andarono in giro in Asia e in Africa con qualche sacchetto di vetri colorati o di qualche vecchio moschetto arrugginito ad “acquistare” dai capi locali, in cambio di questa paccottiglia, tutto quello che potevano: dagli esseri umani da ridurre in schiavitù a immense estensioni territoriali. Ma oggi la storia ha cambiato verso ed è l’Occidente che viene preso di mira a suon di euro o di dollari. Non già però, come ho detto, nel tentativo di corrompere questo o quel funzionario per carpire qualche informazione, per aver accesso a un piano o a un documento, non già a fini di spionaggio insomma, come in sostanza avveniva un tempo, ma per uno scopo ben più ambizioso e grave: per influenzare lo stesso processo decisionale di vertice di quel Paese (o nell’ultimo caso l’Unione europea), per determinarne le scelte politiche anche le più importanti. Perfino per stabilire chi lo governerà. Il mondo dei tiranni, insomma, ha scoperto che il mondo delle democrazie, delle istituzioni democratiche, dei partiti e dei parlamenti, non solo è regolato da procedure aperte e perciò permeabilissime dall’esterno, ma è altresì pieno di donne e uomini fragili, dagli ideali deboli o inesistenti, avidi di successo personale, di automobili, di sesso, di Rolex; è popolato di statisti di serie B interessantissimi conferenzieri da 50 mila dollari a prestazione. E allora non si fa problemi a pagare. A cercare tra queste persone chi possa servire ai suoi propositi. Non basta, perché al fine di falsare le consultazioni elettorali oltre i soldi il mondo dei tiranni mette in campo anche le risorse del progresso tecnico, della suggestione mediatica, della manipolazione digitale delle informazioni. Il fatto è che da qualche decennio viviamo in una congiuntura storica nuova, nella quale si sommano e s’intrecciano vari fattori più o meno inediti che, insieme, hanno segnato per l’argomento di cui ci stiamo occupando una vera e propria svolta. Sul versante dei corruttori assistiamo innanzitutto a un’esplosione di attivismo sia da parte della Cina, ansiosa di giungere al potere mondiale con ogni mezzo - non ultimo la costruzione di una rete d’influenza commerciale, la planetaria “via della seta”, che però necessita della collaborazione/complicità dei governi dei Paesi interessati -, sia della Russia che, guidata da una leadership dagli accenti paranoici, cerca con la violenza di mantenere i suoi antichi domini imperiali e la sua antica influenza servendosi di qualunque élite occidentale “amichevole” disposta ad aiutarla in cambio delle sue “risorse” d’ogni genere. Accanto a Cina e Russia si affollano molti altri attori di calibro minore - Turchia, Marocco, Corea del Nord, Stati del Golfo - ognuno con le sue mire espansionistiche o egemoniche a carattere più o meno regionale, pronti a impiegare i propri soldi per due obiettivi congiunti: acquisire il placet dell’Occidente ai propri disegni (spesso insieme a forniture militari) ovvero impedire che si faccia luce sul carattere sempre antidemocratico e perlopiù criminale del proprio regime interno. Unifica il fronte dei tiranni un elemento comune: il profondo disprezzo ideologico verso l’universo dei valori di libertà e di eguaglianza - dove essi giudicano che “tutto è in vendita” - nonché verso l’umanità che è frutto di quei valori. Sull’altro versante, quello dei corrompibili c’è per l’appunto questa umanità, ci siamo noi, c’è il nostro mondo. Con la sua pronta, obbligatoria disponibilità a tutto ciò che sappia di diverso dall’Occidente, con il proliferare di mille centri decisionali e la loro facile penetrabilità, soprattutto con la disarticolazione culturale e morale delle sue élite: non più tenute insieme da forti valori condivisi o da antiche regole di educazione e di stile, non difese da consapevoli e forti identità né istruite adeguatamente ai nuovi compiti e alle nuove responsabilità; c’è infine il mondo della nostra sfera pubblica dove sembrano avere sempre più la meglio “la gente nova e i sùbiti guadagni”. La corruzione, quando coinvolge i vertici, non è più un fatto solo penale: è lo specchio dove è dato leggere il grado di salute dell’organismo a cui quei vertici presiedono e talvolta, Dio non voglia, anche il destino che l’aspetta. Nella notte più buia l’Iran si batte per i suoi prigionieri di Farian Sabahi Il Manifesto, 20 dicembre 2022 La rivolta. Sit-in al carcere di Evin per l’attrice Alidoosti. Dentro, i detenuti si ribellano alle esecuzioni. Un tassista di 23 anni torturato e ucciso, la famiglia denuncia: “Aveva la faccia fracassata”. Stanotte, in concomitanza con il solstizio d’inverno, ricorre Yalda: la notte più lunga e buia dell’anno. Quest’anno, con il calare del sole gli iraniani non passeranno però il tempo a mangiare, bere e leggere poesie, ma a commemorare i ragazzi uccisi da un regime brutale. Le pagine scritte in questi tre mesi sono infatti le più buie nella storia dell’Iran contemporaneo. Ieri sera l’emittente Bbc Persian ha riferito di un giovane tassista morto in custodia. Sul suo corpo, riesumato dalla famiglia, sono evidenti i segni della tortura. Si chiamava Hamed Salahshoor, aveva 23 anni ed era stato arrestato il 26 novembre. Quattro giorni dopo le forze di sicurezza hanno detto a suo padre che era morto e gli hanno fatto dichiarare che aveva avuto un infarto. Ma, ha affermato la famiglia, “la sua faccia era fracassata. Il naso, la mascella e il mento erano rotti. Il busto dal collo all’ombelico e sopra i suoi reni era stato ricucito”. Era stato fermato vicino a Izeh, nella provincia del Khuzestan (sud-ovest) abitata da quel due percento di iraniani di etnia araba. Un’area ricca di petrolio, afflitta da siccità e da altre problematiche ambientali. Mentre il regime uccide la sua gioventù, ieri per il secondo giorno successivo molti registi e cineasti iraniani si sono ritrovati fuori dal famigerato carcere di Evin a Teheran per protestare contro l’arresto della nota attrice Taraneh Alidoosti, nota anche al pubblico occidentale per il ruolo di protagonista nel lungometraggio Il cliente di Asghar Farhadi. Era stata arrestata sabato per avere pubblicato su Instagram dei commenti a sostegno delle proteste, a chiederne la liberazione è stato anche il Festival di Cannes. Di pari passo, Bbc Persian rende noto di proteste nel braccio della morte, dove le confessioni vengono estorte con le torture. Ad aiutare la magistratura iraniana a comminare la pena capitale è la possibilità di accedere agli account social dei detenuti, come racconta la Cnn che ha raccolto la testimonianza di una ragazza a cui, durante gli interrogatori nel carcere di Evin, sono state presentate come prove le sue chat con amici. Ieri le autorità di Teheran hanno reso noto che quattro membri delle forze di sicurezza sono state vittime di un attentato nella provincia del Sistan e Balucistan (sud-est), al confine con il Pakistan. Qui le manifestazioni erano scoppiate a fine settembre, quando si era venuto a sapere dello stupro di una quindicenne da parte del comandante della polizia. Probabilmente la morte dei quattro membri delle forze dell’ordine non è da imputare ai dimostranti, perché questa è una regione povera, segnata dal contrabbando, dove le proteste antigovernative si intrecciano ad altre problematiche. La popolazione locale è minoranza al tempo stesso etnica e religiosa: i baluci sono sunniti. All’inizio di dicembre un loro leader religioso - Abdulwahed Rigi - era stato rapito nella sua moschea nella località di Khash e la settimana scorsa il capo procuratore ha dichiarato che gli assassini erano stati arrestati mentre cercavano di varcare il confine. Mentre sale la tensione, il Belgio invita i suoi cittadini a lasciare l’Iran, anche perché un operatore umanitario belga è stato recentemente condannato a 28 anni di carcere in seguito al mancato scambio con un diplomatico iraniano condannato per terrorismo da un tribunale di Anversa. Viene spontaneo domandarsi se gli italiani in Iran possano correre dei rischi. A questo proposito, in occasione di una conferenza stampa alla Farnesina, il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani ha dichiarato che “qualora possano esserci dei rischi concreti per i nostri connazionali certamente li avviseremo, ma per adesso non abbiamo notizia di tali rischi”. In merito al fatto di convocare l’ambasciatore iraniano a Roma, il ministro ha affermato di volerlo convocare, ma che ci sarebbe stato un ritardo della consegna delle credenziali “dovuto al fatto che il presidente della Repubblica ha avuto il Covid, quindi è solo un ritardo tecnico”. “Lo convocherò - ha detto Tajani - Voglio dare un segnale più forte, ma è già chiaro quello che pensiamo, abbiamo dato ampia dimostrazione di condanna per ciò che accade. Siamo contro la pena di morte”. Iran. L’odio per la vita di Massimo Recalcati La Repubblica, 20 dicembre 2022 Le esecuzioni pubbliche dei ragazzi che si oppongono al regime dimostrano un’ideologia delirante. Le impiccagioni pubbliche dei giovani oppositori al regime teocratico degli ayatollah intendono frenare la rivolta in corso in Iran attraverso l’esibizione terroristica della morte. Una schizofrenia temporale sconcertante appare sotto ai nostri occhi. Da una parte un popolo, guidato alla rivolta dalle donne, esige libertà e democrazia muovendosi con decisione e coraggio verso un nuovo avvenire. Dall’altra parte il sistema politico del regime teocratico che resta vincolato ad un passato remoto, immobile, insensibile ad ogni progresso, ancorato ad una ideologia patriarcale e maschilista di tipo medioevale. È un esempio tragico di cosa significa restare legati nostalgicamente ad un passato destinato ad essere irreversibilmente corroso dal tempo. Ma anziché riconoscere il carattere delirantemente antiquato di questo attaccamento nostalgico, si agita l’orrore della morte come atto di giustizia voluto da Dio. È questa l’espressione del cuore profondamente perverso del regime teocratico. Quale è, infatti, la natura più profonda della perversione? Lacan lo ha indicato con precisione: farsi alfieri, legionari, crociati, cavalieri della fede di una Legge che esige il sacrificio perpetuo della vita umana nel nome di un ideale superiore. È quello che sta accadendo in Iran: si invoca la Legge di Dio contro quella degli uomini trasfigurando l’esercizio brutale del potere in una opera di purificazione morale resasi necessaria dall’ostinazione ottusa di coloro che non sanno riconoscere l’assoluta potenza di quella Legge. Non a caso quelli che si oppongono al regime degli ayatollah sono definiti “nemici di Dio”. In realtà, la moltiplicazione delle condanne a morte e la loro pubblica esecuzione sono l’ultimo disperato tentativo del regime di fermare il dilagare della protesta. Non deve sfuggire anche in questo caso la natura profondamente perversa di questa strategia: evocare lo spettro della morte per provocare angoscia e paralizzare la rivolta. In tutti i regimi totalitari questo schema è stato sempre utilizzato lucidamente: la minaccia incombente della morte deve poter frenare il dissenso, dissuadere la protesta, silenziare gli oppositori, spegnere la loro voce, riportare l’ordine. Nondimeno, questo uso sadicamente spettacolare della morte, esibita come un martello che deve schiacciare senza pietà gli oppositori al regime, rivela che la morte non è solo uno strumento al servizio della repressione in condizioni di emergenza, ma il cemento armato che permea ogni regime totalitario. La perversione del potere non si misura solo a partire dalla sua azione arbitraria, ma anche dalla sua spinta alla morte. Il Novecento ne ha fornito drammatici esempi. In ogni fondamentalismo ideologico-religioso l’odio profondo per la vita appare in assoluto primo piano. Nel caso della teocrazia la tesi teologica che lo fomenta è semplice e drammatica nello stesso tempo: la vera vita non è questa, ma è quella di un mondo al di là di questo mondo, di cui questa vita è solamente una pallida ombra. La mortificazione della vita - di cui le donne sarebbero l’incarnazione maligna - sarebbe, di conseguenza, la sola possibilità per accedere alla salvezza, il suo sacrificio l’obolo necessario per essere accolti nel mondo vero che si situa al di là del mondo del mondo falso. L’odio per la vita è, dunque, la sola possibilità di guadagnare il rimborso nell’al di là per le sue privazioni vissute nell’al di qua. È lo spirito sacrificale che troviamo in tutti i totalitarismi. Ma è proprio in quelli teocratici che appare a volto scoperto: la Legge di Dio odia la vita perché non ci deve essere gioia in questo mondo. Per questa ragione il regime degli ayatollah non può esprimere alcuna tolleranza, pietas, capacità di ascolto. Mostrare la morte in piazza attraverso le impiccagioni significa piuttosto ribadire che la vita in quanto tale è un oggetto d’odio. Il Dio degli ayatollah è un Dio della guerra che combatte non solo contro le altre religioni, ma, innanzitutto, contro la vita stessa. Per questa ragione il maschilismo non è una appendice solo secondaria della teocrazia, ma un suo nucleo psichicamente più significativo: se la donna è l’incarnazione della vita e della libertà, l’odio per la vita impone il suo asservimento disciplinare, la sua sistematica mortificazione, la sua cancellazione. Il corpo della donna è, infatti, l’anti-Dio, l’anti-regime, l’antagonista irriducibile alla violenza del patriarcato. Per questa ragione la sua inferiorità ontologica e morale deve sancirne la dimensione impura e la sua necessaria purificazione. È l’inclinazione maschilista di ogni patriarcato: credere fanaticamente in Dio è un modo per rifiutare l’esistenza della donna, per continuare ad odiare la vita.