Morire di 41 bis? di Livio Pepino ilmanifestoinrete.it, 1 dicembre 2022 Da tempo sulla questione del 41 bis (e su quella dell’ergastolo ostativo) si combatte, nel Paese, un’aspra guerra di religione di carattere essenzialmente ideologico (al punto che taluno si è spinto a presentare un esposto alla Dia contro i responsabili del sito Ristretti Orizzonti per avere ospitato “pubblicazioni, anche scritte dagli stessi detenuti, di sistematico attacco all’ergastolo ostativo e al 41 bis”. A riportare la questione sul terreno, drammaticamente concreto, delle condizioni di vita di chi si trova in tale regime detentivo interviene, ora, lo sciopero della fame per protesta, di un anarchico, Alfredo Cospito, detenuto nel carcere di Bancali (Sassari) per una condanna a 20 anni di reclusione inflittagli dalla Corte di assise d’appello di Torino per promozione e direzione di un’associazione con finalità di terrorismo (la FAI-Federazione Anarchica Informale) protrattasi dal 2005 all’aprile 2019 e per una pluralità di attentati commessi tra l’ottobre 2005 e il marzo 2007, uno dei quali (contro la Scuola Allievi carabinieri di Fossano avvenuto la notte sul 3 giugno 2006) qualificato come strage ex art. 422 codice penale (decisione, quest’ultima, ancora sub iudice essendo pendente giudizio di appello, fissato il 5 dicembre, per una nuova determinazione della pena per l’attentato, riqualificato dalla Corte di cassazione come strage contro la sicurezza dello Stato ex art. 285 codice penale). Cospito è in carcere da oltre 10 anni, essendo stato in precedenza detenuto, senza soluzione di continuità, per la gambizzazione dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi (commessa in Genova il 7 maggio 2012) per cui ha riportato condanna a 10 anni e 8 mesi di reclusione inflittagli dal giudice delle indagini preliminari di Genova. Negli ultimi sei anni di carcerazione è stato detenuto in circuiti penitenziari di Alta Sicurezza 2, a seguito dell’intervenuta contestazione del reato associativo di cui all’art. 270 bis codice penale. Anche in quegli anni, peraltro, Cospito ha condiviso la carcerazione con detenuti della medesima area e/o comunque politici, ha goduto delle ore d’aria regolamentari, di palestra, biblioteca, socialità e, per lo più, non è stato sottoposto a censura della corrispondenza, tanto che - come si legge in un documento diffuso dai suoi difensori - “ha costantemente intrattenuto relazioni epistolari con decine o centinaia di anarchici e anarchiche, con siti e riviste della medesima matrice politica, partecipando anche alla esperienza editoriale che ha condotto alla pubblicazione di due libri sulla storia del movimento anarchico”. In tali interventi egli ha ripetutamente rivendicato la propria appartenenza al “movimento anarco insurrezionalista”, espresso approvazione per attentati e ”azioni terroristiche contro persone” e invitato i compagni a “continuare la lotta contro il dominio, particolarmente con mezzi violenti, ritenuti essere i più efficaci” (così decreto 4 maggio 2022 Ministro della giustizia), venendo, per questo, sottoposto a tre procedimenti per il delitto di istigazione a delinquere ai sensi dell’art. 414 codice penale. Tale condizione carceraria è cambiata il 4 maggio scorso quando, con decreto del Ministro della giustizia, Cospito è stato sottoposto al regime previsto dall’art. 41 bis ordinamento penitenziario, con esclusione di ogni possibilità di corrispondenza, diminuzione a due delle ore d’aria “trascorse in un cubicolo di cemento di pochi metri quadri, il cui perimetro è circondato da alti muri che impediscono alcuna visuale o semplicemente di estendere lo sguardo all’orizzonte, mentre la visuale del cielo è oscurata da una rete metallica” e riduzione della socialità “a una sola ora al giorno in una saletta assieme a tre detenuti, sottoposti al regime da numerosissimi anni, che in realtà si riducono ad uno in considerazione del fatto che un detenuto è sottoposto ad isolamento diurno per due anni e un secondo ormai tende a non uscire più dalla cella” (documento dei difensori, citato). Si è arrivati così allo scorso 20 ottobre, quando Cospito, per protesta contro il regime penitenziario a cui è sottoposto e contro l’ergastolo ostativo (al quale, nel giudizio di rinvio sarà automaticamente condannato, stante il tenore dell’art. 285 codice penale, nel caso, più che probabile, di mancata concessione delle attenuanti generiche, pur in astratto applicabili per riportare il reato, privo di qualsivoglia effetto lesivo, alle sue effettive dimensioni fattuali), ha iniziato uno sciopero della fame, che lo ha portato in un mese alla perdita di oltre 20 kg, dichiarando l’intenzione di proseguirlo sino alla morte. A seguito di ciò altri anarchici detenuti hanno adottato analoghe iniziative, si sono moltiplicate le mobilitazioni sul territorio e si è rotta la cappa del silenzio che ha circondato analoghe iniziative del passato, con emersione di interventi critici nei confronti del ”carcere duro” di alcuni intellettuali - tra cui Luigi Manconi (https://ristretti.org/lanarchico-delle-bombe-che-ora-rischia-di-morire-in-cella-come-un-boss-ma-non-ha-ucciso-nessuno), Massimo Cacciari (https://ristretti.org/il-carcere-e-lossessione-per-gli-anarchici-cosi-il-paese-cerca-di-nascondere-il-suo-caos) e Patrizio Gonnella (https://ristretti.org/uno-stato-forte-ascolta-e-concede-con-ragionevolezza) - e di media le mille miglia lontani dalle posizioni degli anarchici e presentazione, anche, di una interpellanza parlamentare. Fin qui i fatti, che impongono alcune considerazioni. Lo sciopero della fame di detenuti per protesta potenzialmente fino alla morte (praticato assai più di quanto si dica: basti pensare a quel che accade, oggi, in Turchia e in Egitto) è una scelta esistenziale drammatica, che mostra un carcere senza speranza nel quale, come accade nel nostro Paese, si moltiplicano i suicidi (giunti, quest’anno, al numero senza precedenti di 80). Ed è una scelta che - qualunque siano i reati commessi da parte di chi lo pone in essere, anche i più odiosi - interpella coscienze e intelligenze e impone analisi che rifuggano da slogan cinici e superficiali (come quelli sull’intangibilità del potere punitivo dello Stato e sulla necessità di respingere asseriti ricatti). Analisi a partire, inevitabilmente, da situazioni particolari ma che investono profili generali: nel caso specifico, la sproporzione del trattamento sanzionatorio riservato agli antagonisti (https://volerelaluna.it/talpe/2019/08/13/repressione-giudiziaria-e-movimenti/) e, tra essi, agli anarchici (https://volerelaluna.it/societa/2022/10/13/gli-anarchici-e-lordine-costituito/), l’accettabilità etica e la legittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo (su cui è in atto un braccio di ferro tra Corte costituzionale e Parlamento: https://volerelaluna.it/commenti/2021/05/17/ergastolo-ostativo-mafie-e-luoghi-comuni/) e il senso del regime del 41 bis, su cui è opportuno, sia pur brevemente, soffermarsi. C’è un punto fermo. Il regime detentivo di cui all’art. 41 bis, comma 2, ordinamento penitenziario è, per usare le parole della legge, “la sospensione, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti di cui al comma 1 dell’articolo 4 bis (vale a dire, sostanzialmente, dei delitti connessi alla criminalità organizzata) in relazione ai quali vi siano elementi tali dal far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, dell’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dall’ordinamento che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza”. Non, dunque, un trattamento carcerario particolare per detenuti di diversa pericolosità, ma una sospensione del trattamento. Se le parole hanno un senso, l’istituto deve avere carattere eccezionale e limitato nel tempo ed essere applicato con estrema prudenza e oculatezza. Del resto, la norma, introdotta nel giugno 1992, all’indomani dell’omicidio di Giovanni Falcone, aveva originariamente un’efficacia temporale limitata a tre anni e una sfera di applicazione riservata alla sola criminalità mafiosa; è stato solo con la legge n. 279 del 2002 (e successive modifiche) che la misura ha assunto la configurazione attuale, le ha dato carattere di stabilità e ne ha esteso la portata agli imputati e condannati per terrorismo ed eversione. Non solo ma la Corte costituzionale ha ripetutamente chiarito che la norma è conforme a Costituzione solo se interpretata come dalla stessa Corte chiarito, e cioè “se non contiene misure diverse da quelle riconducibili con rapporto di congruità alle finalità di ordine e sicurezza proprie del provvedimento ministeriale” e se “le misure disposte non violano il divieto di trattamenti contrari al senso d’umanità né vanificano la finalità rieducativa della pena”. Ma oggi la realtà è ben diversa. I detenuti inseriti nel circuito del 41 bis sono, secondo l’ultima rilevazione nota (XVIII Rapporto Antigone: https://volerelaluna.it/materiali/2022/05/12/il-carcere-visto-da-dentro/), ben 749 e un numero così elevato (insieme alla durata molto prolungata della misura) evidenzia che tale regime penitenziario si è trasformato in uno strumento ordinario di “guerra alla mafia” (e non solo), assumendo non a caso, nel linguaggio comune, la denominazione di “carcere duro”. Inoltre le limitazioni imposte a chi vi è sottoposto, lungi dal rispondere all’esclusiva esigenza di impedire contatti con gli appartenenti all’organizzazione criminale di riferimento, assumono un significato repressivo-punitivo ulteriore rispetto alla privazione della libertà ed evocano ”l’idea di un sistema intransigente che mira a “far crollare” (anche sul piano psicofisico) chi vi viene sottoposto, puntando, sempre in forma latente, alla “redenzione”, cioè alla collaborazione con la giustizia, principale “criterio di accertamento della rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata”: sentenza Corte costituzionale n. 273/2001” (XVIII Rapporto Antigone, cit.). Difficile non concordare con tale valutazione se si guarda alle condizioni di chi è sottoposto al 41 bis: detenzione in cella singola, due ore giornaliere di socialità in gruppi composti da massimo quattro persone, possibilità di un colloquio al mese con i soli familiari e dietro vetro divisorio della durata di un’ora con la video e audiosorveglianza di un agente di polizia penitenziaria, partecipazione alle udienze esclusivamente “da remoto”, limitazione degli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno, censura della corrispondenza e molto altro. Ancor più difforme dal modello “costituzionale” del 41 bis è la specifica situazione di Cospito, primo e unico anarchico ad esservi sottoposto in forza di una misura esplicitamente motivata con la sua attività di propaganda e proselitismo assai più che con la dimostrata esistenza di contatti con appartenenti a una medesima organizzazione (sulla cui esistenza la stessa sentenza 6 luglio 2022 della Corte di cassazione mostra non pochi dubbi allorché afferma che ”non v’è chi non veda come la stessa esistenza di una struttura organizzata si ponga in ideale conflitto con lo spirito anarchico […], spirito certamente refrattario a vincoli e gerarchie”: p. 41 dattiloscritto) e già sottoposto per almeno sei anni - come si è detto - a un regime detentivo differenziato ma senza il surplus di restrizioni che caratterizzano il 41 bis e inserito in questo circuito in mancanza di qualsivoglia fatto nuovo. Questo il quadro evidenziato da uno sciopero della fame che rischia di trasformarsi in tragedia: un quadro su cui è necessario intervenire in modo puntuale, sia sul piano legislativo (e, dunque, con effetti generali) che su quello amministrativo con riferimento al caso specifico. È, a dir poco, improbabile che ciò accada, ma non è una buona ragione per accettarlo acriticamente. Cosa ci insegna il caso Cospito sul 41 bis di Federica Delogu e Claudia Torrisi L’Essenziale, 1 dicembre 2022 Condannato per un attentato a una caserma che non provocò né morti né feriti, dal 20 ottobre l’anarchico Alfredo Cospito protesta contro il regime speciale a cui è sottoposto in carcere con lo sciopero della fame. L’unica possibilità che gli resta. Da quando ha cominciato lo sciopero della fame, il 20 ottobre, ha perso circa 27 chili. Alfredo Cospito, 55 anni, anarchico recluso al 41 bis nel carcere di Bancali, a Sassari, sta protestando da più di 40 giorni contro il regime carcerario e le condizioni detentive a cui è sottoposto dall’aprile 2022. Due ore d’aria al giorno, da trascorrere in un cubicolo di cemento di pochi metri quadrati circondato da alti muri e sovrastato da una rete metallica, un posto torrido d’estate e umido d’inverno. Un’ora di socialità in una saletta insieme ad altri tre reclusi, che “in realtà si riducono a uno in considerazione del fatto che un detenuto è sottoposto ad isolamento diurno per due anni e un secondo ormai tende a non uscire più dalla cella”, dicono i suoi legali, Flavio Rossi Albertini e Maria Grazia Pintus. Cospito è in carcere da più di dieci anni, di cui sei scontati in regime di alta sicurezza, ma alcuni mesi fa un decreto del ministero della giustizia ha stabilito che è “in grado di mantenere contatti con esponenti tuttora liberi dell’organizzazione eversiva di appartenenza”, e perciò ne ha deciso la reclusione in regime di 41 bis. Fino alla scorsa primavera Cospito poteva comunicare con l’esterno, inviare scritti e articoli, contribuire a riviste dell’area anarchica, ricevere corrispondenza, usufruire di colloqui in presenza e telefonici, socialità, biblioteca. Ora le lettere in entrata vengono trattenute, perciò ha deciso di auto censurare anche quelle in uscita. Non ha accesso alla biblioteca d’istituto, può avere un solo colloquio al mese e nessuna telefonata. Per i legali di Cospito, questo regime “si traduce in condizioni di detenzione ai limiti dei trattamenti inumani, nell’assenza di attività rieducative e nell’impossibilità di accedere alle misure alternative”. Una “vera e propria deprivazione sensoriale”, contro cui il detenuto ha deciso di protestare nell’unica forma che gli era possibile mettere in atto. Nel 2014 Cospito è stato condannato a 10 anni e otto mesi per il ferimento dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, avvenuto a Genova due anni prima e rivendicato dalla sigla Nucleo Olga Fai-Fri (Federazione anarchica informale-Fronte rivoluzionario internazionale). Successivamente, la procura di Torino ha cominciato un’indagine sfociata nel processo Scripta manent, un maxi procedimento a carico di militanti della Federazione anarchica informale per una serie di reati compiuti tra il 2003 e il 2016. Nell’ambito di questo procedimento Cospito è stato riconosciuto “capo e organizzatore di un’associazione con finalità di terrorismo” e autore di un attentato alla scuola allievi carabinieri di Fossano, vicino Cuneo, dove nella notte tra il 2 e il 3 giugno 2006, furono esplosi due ordigni a basso potenziale. Non ci furono morti né feriti. Secondo i giudici, però, fu solo una casualità. Per questi reati Cospito è stato condannato in primo e secondo grado a vent’anni di reclusione. Ma a luglio la corte di cassazione ha ridefinito il reato: da “strage contro la pubblica incolumità” in “strage contro la sicurezza dello stato”. È stato ordinato un nuovo processo d’appello. Il nuovo reato prevede l’ergastolo ostativo, che impedisce al detenuto di usufruire dei benefici penitenziari, a meno che non decida di collaborare con la giustizia. Nel frattempo, ad aprile è arrivato il decreto ministeriale applicativo del 41 bis, motivato con la capacità di Cospito di mantenere contatti con l’organizzazione eversiva “dedita alla commissione di gravi delitti”. Quella prevista dal 41 bis è una sospensione del normale trattamento penitenziario - Lo sciopero della fame di Cospito e la sua vicenda giudiziaria aprono diverse questioni. La prima riguarda l’applicabilità del regime carcerario a cui è sottoposto. L’avvocato Rossi Albertini sottolinea che Cospito è “il primo caso di un anarchico che finisce al 41 bis”. Il primo dicembre il tribunale di sorveglianza di Roma, che ha competenza sui ricorsi per i detenuti al 41 bis, discuterà il ricorso presentato dai legali. Per gli avvocati di Cospito, mancherebbero proprio i presupposti per applicare il regime speciale. Lo scopo della norma è infatti impedire agli appartenenti alle organizzazioni mafiose di mantenere rapporti con il gruppo criminale all’esterno e, sostanzialmente, continuare a comandare dall’interno del carcere. Il movimento anarchico, invece, spiegano i difensori, “rifugge qualsiasi struttura gerarchica o forma organizzata”. I legali sospettano che con il decreto ministeriale “si voglia impedire l’interlocuzione politica di un militante politico con la sua area di appartenenza”, cosa che Cospito ha fatto per via epistolare fino alla scorsa primavera, contribuendo anche alla realizzazione di due libri. In una lettera aperta a partire dal suo caso, decine di avvocati hanno denunciato un particolare accanimento dei tribunali nei confronti di persone di area anarchica. “Sembra paradossale che il più grave reato previsto dal nostro ordinamento giuridico sia stato ritenuto sussistente in tale episodio e non nelle tante gravissime vicende accadute in Italia negli ultimi decenni, dalla strage di piazza Fontana a quella della stazione di Bologna, da Capaci a via D’Amelio”, si legge nella lettera, in cui si critica la riqualificazione del reato in strage contro la sicurezza dello stato. I firmatari hanno richiamato i casi di altri anarchici a cui sono state applicate pene e misure particolarmente pesanti, riscontrando “la sempre più diffusa e disinvolta sottrazione delle garanzie processuali a questa tipologia di imputati”. Nelle scorse settimane si sono svolte manifestazioni e presidi di anarchici in diverse città in solidarietà con la protesta di Cospito. Altri detenuti si sono uniti nello sciopero della fame. Sono state depositate anche due interrogazioni parlamentari rivolte al ministro della giustizia, a firma dei senatori Peppe De Cristofaro e Ivan Scalfarotto. Il senso del “carcere duro” - La seconda questione che la vicenda di Alfredo Cospito pone riguarda le condizioni di detenzione del 41 bis, contro le quali da più di quaranta giorni è in sciopero della fame, e l’applicazione di questo regime a trent’anni dalla sua introduzione. Secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone, al novembre 2021 ci sono 749 persone al 41 bis, distribuite in dodici istituti di pena in Italia. Un numero rimasto pressoché costante negli ultimi anni. Nel carcere di Bancali, nel 2019 erano presenti 91 detenuti sottoposti al regime speciale. Quando è stato introdotto, all’indomani della strage di Capaci del 1992, era una misura di emergenza e temporanea. Di proroga in proroga, è entrata stabilmente nel sistema penitenziario, e nel 2009 è stato deciso che il regime può essere applicato al detenuto per quattro anni, ed è prorogabile per periodi di due anni. Quella prevista dal 41 bis è una sospensione del normale trattamento penitenziario. I detenuti sono obbligatoriamente in cella singola, senza eccezioni, hanno a disposizione due ore al giorno di socialità in gruppi da massimo quattro persone e possono usufruire di un colloquio al mese videosorvegliato di un’ora dietro un vetro divisorio. Solo chi non fa colloqui può essere autorizzato, dopo i primi sei mesi, a una telefonata al mese di dieci minuti. A queste restrizioni se ne aggiungono altre riguardanti la vita quotidiana, come era emerso dalla relazione della Commissione straordinaria diritti umani del senato presieduta dall’ex senatore Luigi Manconi nel 2016, che aveva espresso preoccupazione anche per le numerose proroghe. “Il 41 bis è un dispositivo di legge molto preciso, perché risponde a una e solo una finalità: interrompere le relazioni tra il detenuto e la criminalità esterna cui appartiene oppure apparterrebbe. Tutte le misure che eccedono quello scopo sono illegali”, afferma Manconi, uno dei primi a sollevare il caso di Cospito. La corte costituzionale è intervenuta diverse volte, dichiarando, per esempio, illegittimi i divieti di cottura dei cibi in cella e di scambio di oggetti tra detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità, e più recentemente la censura della corrispondenza tra detenuto e difensore. Spesso per riferirsi al 41 bis si usa l’espressione “carcere duro”. Secondo Manconi è “una grande sciocchezza. Attuare delle condizioni che impediscono il collegamento con l’organizzazione criminale non significa la necessità di rendere più afflittiva la detenzione. Se il fine è interrompere i collegamenti tra il detenuto e la criminalità esterna alla quale apparterrebbe, cosa c’entra col fatto di impedirgli di ricevere dei libri? Con il limitare i suoi contatti interni con un solo altro detenuto?”. Le preoccupazioni di Manconi sono condivise da un rapporto del comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura (Cpt) del 2020 che ha invitato le autorità italiane a fare una seria riflessione sul regime del 41 bis, al fine di offrire ai detenuti un minimo di attività utili, più visite e telefonate, e di porre rimedio alle “gravi carenze” osservate nelle celle e nelle aree comuni delle sezioni. Negli anni anche la Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu) è stata chiamata a pronunciarsi e varie volte l’Italia è stata condannata. Per esempio nel 2018, per aver prorogato il 41 bis dal 2006 fino alla morte al boss della mafia corleonese Bernardo Provenzano, ormai anziano e gravemente malato. In quel caso la Cedu ha ritenuto che fosse stato violato il divieto di trattamenti inumani e degradanti. Le pronunce e i rapporti delle organizzazioni per i diritti umani, però, non sono mai riusciti a innescare un reale dibattito sul 41 bis in Italia. Qualche tempo fa Andrea Pugiotto, professore ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Ferrara, ha scritto che di 41 bis è quasi impossibile discutere “innanzitutto in ragione della sua dimensione simbolica”. A causa della sua genesi nel 1992, “non si tratta più di una norma giuridica” ma di “uno spartiacque tra chi è contro la criminalità organizzata e chi - per collusione o ignoranza del fenomeno o ingenuità compassionevole - non lo sarebbe abbastanza”. Secondo Manconi, la questione è profonda: prima che di 41 bis, in Italia è difficile parlare di carcere. “È questo il punto. Il carcere è un argomento non remunerativo per la classe politica, e anzi controproducente per quanti se ne interessino”. Il carcere, aggiunge, è “sempre un sistema patogeno e criminogeno: da un lato induce patologie e depressione, autolesionismo e morte, dall’altro tende a riprodurre all’infinito criminali e crimini. Ebbene, questo carcere diventa ancora più difficilmente materia di discussione e di iniziativa pubblica quando viene applicato a chi risulta nella rappresentazione mediatica il nemico assoluto. Siccome in genere al 41 bis si trovano i mafiosi, parlare dei diritti del mafioso detenuto è la cosa più difficile del mondo. Come se parlare dei suoi diritti non fosse la stessa cosa che parlare dei diritti di chiunque finisca in carcere”. Un cucchiaino di sale - Le ultime persone in ordine di tempo ad aver incontrato Cospito sono state il parlamentare del partito democratico Silvio Lai e la dottoressa Angelica Milia, che l’ha visitato sabato scorso. Ha detto di averlo trovato in condizioni “discrete”, pur se molto dimagrito, infreddolito e ritirato in cella a causa della stanchezza. “C’è ampia letteratura scientifica sulle conseguenze cui si va incontro in seguito a una prolungata astensione dall’assumere cibo: questo freddo che si ha nelle ossa, questa stanchezza che impedisce di fare qualsiasi cosa, anche leggere o scrivere, e non gli permette di fruire di quelle due ore d’aria che sono previste dal regime differenziato. E stiamo parlando di un omone, con una capacità di resistenza un pochino superiore alla media”, afferma l’avvocato Rossi Albertini. Per un mese Cospito ha assunto solo acqua e un cucchiaino di sale o zucchero. “Poi ha iniziato ad avere difficoltà nel controllo dei muscoli involontari e ha iniziato a prendere degli integratori”, dice il legale, che gli aveva “consigliato di aggiungerne altri, che di solito vengono somministrati ai malati oncologici per supportare il fisico. Lui però si è rifiutato: non vuole rendere vano il suo sciopero”. Una decina di giorni fa anche il garante nazionale delle persone private della libertà personale Mauro Palma è andato a Bancali a trovare Cospito, con cui ha avuto un colloquio di oltre un’ora. “Non spetta al garante alcuna valutazione su una scelta individuale, peraltro oggetto di una vera e libera discussione con la persona interessata”, ha scritto in una nota l’ufficio, esprimendo preoccupazione per il “possibile sviluppo della vicenda”. Cospito, infatti, è deciso ad andare fino in fondo. “La condizione in cui mi tengono e la prospettiva che mi si rappresenta è quella di un lento morire, senza alcuna possibilità di uscire dal carcere. Se è così non vale la pena vivere”, ha detto al suo avvocato. Nelle carceri italiane botte, torture e umiliazioni sono ancora la norma di Adil Mauro rollingstone.it, 1 dicembre 2022 Abbiamo intervistato Nello Trocchia, giornalista e scrittore che ha raccontato il pestaggio di Stato di Santa Maria Capua Vetere: “Il carcere non è soltanto un serbatoio criminale”. Mentre di carcere si continua a morire nell’indifferenza generale (80 suicidi finora, il dato più alto degli ultimi 22 anni) al momento sono oltre 200 le persone (agenti, operatori, medici e funzionari) indagate, imputate o già condannate in procedimenti che riguardano torture e violenze nelle carceri italiane. Soltanto nel mese di novembre sono emersi tre casi a Bari, Ivrea e Reggio Calabria. Una situazione denunciata quotidianamente da realtà come Antigone, l’associazione che dal 1991 si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario. Quando si parla di abusi dietro le sbarre uno degli episodi più gravi è la mattanza del 6 aprile 2020 avvenuta nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere “Francesco Uccella”. Quel giorno quasi trecento agenti della polizia penitenziaria muniti di caschi e manganelli, alcuni a volto coperto, fecero irruzione nelle celle e per ore presero a calci, pugni e schiaffi i detenuti del reparto Nilo. Il carcere campano è al centro di un processo che ha visto il rinvio a giudizio davanti alla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere di 105 imputati. I reati contestati a vario titolo vanno dall’omicidio colposo come conseguenza di tortura alle lesioni pluriaggravate, passando per l’abuso di autorità e il falso in atto pubblico. “Tra gli imputati 20 unità appartenenti al corpo di polizia penitenziaria sono ancora in servizio presso l’Istituto perché ritenuti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) compatibili con le mansioni assegnate”, segnala Antigone nel report di una visita effettuata lo scorso luglio. “Santa Maria Capua Vetere è il fallimento della struttura sociale ed istituzionale del nostro paese”, scrive la senatrice Ilaria Cucchi nella prefazione di “Pestaggio di Stato” (Editori Laterza, 2022). L’autore del libro è Nello Trocchia, l’inviato del quotidiano Domani che ha raccontato per primo le violenze nel carcere “Francesco Uccella”. Secondo il cronista questa vicenda è “anche una fotografia della disuguaglianza che, come un macigno insopportabile, affonda il nostro paese”. Trocchia, può raccontarci cos’è accaduto a Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020? Siamo in provincia di Caserta. C’è una situazione nel paese di paura, di panico collettivo. C’è una pandemia, lo stato di emergenza è stato dichiarato da poco più di un mese. La paura e il panico corrono anche nelle carceri e nelle celle. I detenuti hanno paura di contagiarsi, esattamente come le persone all’esterno, e quando le risposte non arrivano si aggiunge anche la sospensione dei colloqui in carcere che diventano via Skype. Annunciata questa misura, scattano le rivolte. A Santa Maria Capua Vetere il 5 aprile c’è una protesta: si colpiscono le grate con dei pentolini, si prendono le brandine e i materassi per creare una specie di barricata e con la battitura si fa rumore per avere le mascherine e parlare con i responsabili. A Santa Maria c’è un caso di contagio Covid e quindi c’è il caos. Questo caos rientra a tarda sera. Racconto quella giornata perché ho visto i video che mostrano i detenuti mentre mettono a posto tavolini, letti e brande. La vicenda sembra rientrata, ma il giorno dopo la quiete si trasforma in un pestaggio di Stato. Il 6 aprile 283 poliziotti, provenienti anche da altri istituti, entrano in carcere e massacrano di botte i detenuti inermi del reparto Nilo che ospita i cosiddetti ‘senza potere’, cioè le persone che hanno commesso reati di strada: furti, rapine e spaccio sono i crimini prevalenti in quella sezione. Molti di loro sono stranieri. Vengono massacrati di botte per quattro ore e mezza dagli agenti penitenziari. Il garante dei detenuti viene avvisato dai familiari dei ristretti che denunciano le violenze all’interno del carcere. Per l’amministrazione giudiziaria non è accaduto nulla. A settembre inizio un’inchiesta per il quotidiano Domani. Ascolto un primo testimone, poi altre fonti, pubblico vari articoli, diverse prime pagine, racconto le storie di un detenuto manganellato e di un altro morto il 4 maggio di cui all’epoca non conoscevo il nome. Non succede nulla fino a quando nel giugno successivo pubblico i video delle telecamere di sicurezza. Per la prima volta nel libro ricostruisco e svelo come nasce la menzogna di Stato sul pestaggio di Santa Maria Capua Vetere”. Il detenuto morto si chiamava Lamine Hakimi e la sua storia è emblematica... Sì, Lamine Hakimi, deceduto il 4 maggio dopo essere stato violentemente pestato e messo in isolamento con la stesura di false informative, in quel carcere non ci doveva stare. Grazie ad Antigone e all’avvocata Simona Filippi ho intervistato la madre di Lamine che ancora fatica a credere che il figlio sia morto nel carcere di un paese democratico a seguito di un pestaggio violento. Hakimi non doveva stare in carcere perché aveva disturbi mentali. Il suo posto era in una comunità, nelle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, strutture sanitarie di accoglienza per gli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi) che però non hanno abbastanza posti disponibili. Questa storia racconta l’idea di giustizia nel nostro paese. Una giustizia di classe che usa i guanti di velluto nei confronti dei colletti bianchi e ricorre invece al manganello contro gli ultimi. È difficile raccontare questo mondo? Parlare di carcere è sconveniente ancora di più adesso, ma lo era anche prima perché tendenzialmente nella guerra tra chi ha meno e chi ha poco di più il carcere viene identificato come un luogo in cui la violenza fa quasi parte della normalità. Non è così e noi tutti dovremmo immaginare le carceri come luoghi di rieducazione per una ragione molto semplice: la nostra sicurezza. Se vediamo i dati scopriamo che chi accede a una pena alternativa, ha delle opportunità lavorative anche all’interno del carcere e si trova in un sentiero di rieducazione ha molte meno possibilità di recidiva. Una questione che riguarda le persone dei centri urbani e delle periferie, non certo chi vive nei perimetri blindati dei palazzi della politica. Per questo bisognerebbe occuparsi di carcere e insistere affinché la politica se ne occupi. I poteri non sanno com’è il carcere perché non lo frequentano, neanche quando sbagliano. Sono consapevole che di carcere si fa fatica a parlare proprio perché le carceri vengono costruite in periferia in modo che non si vedano. Vengono trasformate in serbatoi criminali e tutto questo si riverbera nella insicurezza delle città che condiziona le politiche e spinge verso la cosiddetta carcerizzazione. Ogni fenomeno sociale deviante si affronta aumentando le pene. È questo lo scenario perfetto che viene concepito per alimentare la guerra tra poveri. E il nuovo governo come sta affrontando la questione? Le premesse non sembrano incoraggianti, dalle dichiarazioni di qualche anno fa della presidente del Consiglio Giorgia Meloni sul reato di tortura ai tagli di spesa per l’amministrazione penitenziaria... L’attuale sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove nel giugno del 2020 presentò un’interpellanza all’allora Guardasigilli Alfonso Bonafede chiedendo l’encomio solenne per chi aveva operato a suo avviso in maniera ineccepibile. Il punto è che questi agenti penitenziari pochi giorni prima erano stati raggiunti da un avviso di garanzia per tortura. Certo, un avviso di garanzia non è una condanna, ma rappresenta per un uomo delle istituzioni una specie di allerta, un invito alla cautela. Il fatto che chi ha presentato questa interpellanza sia diventato sottosegretario alla Giustizia mi sembra la chiusura del cerchio. Sarebbe interessante vedere che cosa farebbe nella sua attuale veste in altri eventuali casi simili. E ricordo che ho realizzato l’inchiesta su Santa Maria Capua Vetere durante il secondo governo Conte, quindi la mia non è una posizione contro questo o quel governo. Sono un giornalista e faccio il cane da guardia del potere. Registro però che nelle ultime settimane abbiamo assistito a estenuanti dibattiti sui rave e qual è stato l’approccio rispetto al tema? È diventata un’emergenza nazionale. Hanno scritto un decreto con i piedi (a detta della maggior parte dei giuristi) con una direzione chiara, cioè quella dell’aumento delle pene e della carcerizzazione. E allo stesso tempo il ministro della Giustizia Carlo Nordio propone la depenalizzazione di alcuni reati. Siamo all’interno di una contraddizione che si spiega soltanto in un modo: fumo negli occhi, dai rave ai migranti. Anche lì le parole costruiscono la narrazione: gli ultimi vengono chiamati carichi residuali. Sono le vite di scarto di Zygmunt Baumann che trovi nella percezione che alimentano del detenuto che deve stare in cella. Alla fine la colpa è sempre e solo del detenuto (o del migrante). Questa idea del carcere come serbatoio criminale mal si concilia con la carta costituzionale. Vitto e sopravvitto, Garante del Mercato: “Le aziende alterano le gare d’appalto” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 dicembre 2022 L’autorità della Concorrenza ipotizza che le parti si mettano d’accordo alterando le gare, provocando inevitabilmente la riduzione della quantità e qualità del cibo per i detenuti. Ipotesi di possibile sussistenza di condotta collusiva e del fatto che le parti potrebbero aver alterato sensibilmente la libera formazione dei prezzi e la selezione dell’operatore più efficiente, con conseguente effetto peggiorativo del servizio complessivo offerto ai detenuti. Dopo la sentenza della Corte dei Conti, arriva il bollettino dell’autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che affronta l’affidamento dei servizi di vitto e sopravvitto degli istituti penitenziari. L’autorità, in premessa, spiega che il 23 febbraio 2022 è pervenuta una segnalazione relativa a comportamenti anticoncorrenziali adottati da alcuni partecipanti a una procedura di gara finalizzata alla conclusione dell’affidamento del servizio per il vitto dei detenuti e internati ristretti nelle carceri della Regione Campania (Gazzetta Ufficiale, 5a Serie Speciale - Contratti Pubblici n.130 del 10-11-2021). Considerato che tale procedura si è svolta parallelamente ad altre indette in distinte aree regionali e/o aventi ad oggetto il servizio di sopravvitto, la segnalazione risultava incompleta specialmente con riguardo all’estensione e alla consistenza delle condotte, oltre che all’individuazione dei possibili responsabili ai fini dell’avvio dell’istruttoria. Il Garante ha chiesto informazioni sulle procedure seguite dai Provveditorati - Pertanto, il 9 maggio 2022, il Garante della Concorrenza e del Mercato ha trasmesso una richiesta di informazioni al ministero della Giustizia, con cui venivano domandati i dettagli di tutte le procedure relative ai servizi di vitto e sopravvitto indette dagli undici Provveditorati regionali dell’Amministrazione Penitenziaria (PRAP) dal 2019 in poi, specificando gli esiti delle stesse e l’indicazione dei punteggi attribuiti a tutti i partecipanti, nonché i ribassi offerti e i nominativi dei partecipanti e degli aggiudicatari. A propria volta, il ministero ha inoltrato la richiesta agli undici PRAP competenti per territorio. Già il successivo 23 maggio il PRAP Veneto, Trentino Alto-Adige e Friuli Venezia-Giulia rendeva nota la difficoltà di reperire tempestivamente quanto richiesto, considerata la mole di informazioni da collezionare. Dopodiché, hanno risposto. Sempre nel bollettino viene specificato che la notevole quantità di informazioni trasmesse dai PRAP, tuttavia, non si è rivelata sufficiente ad apprezzare compiutamente la complessità e l’estensione delle condotte in esame. Conseguentemente, è stato necessario integrare la documentazione agli atti con quanto reperibile sul sito web del ministero della Giustizia, concernente non solo dati ulteriori a quelli forniti dai PRAP nelle risposte alla richiesta di informazioni, ma anche dati relativi alle procedure di gara aperta o negoziata in corso nel periodo estivo. Infatti, l’ultima procedura considerata nel presente provvedimento di avvio è stata definita con la determina di approvazione della proposta di aggiudicazione del 28 settembre 2022, pubblicata sul sito internet il 30 settembre successivo. Ipotizzate condotte anti-competitive per condizionare l’esito delle gare - L’autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, arriva direttamente al punto. Nel bollettino denuncia che le vicende in esame concernono ipotesi di condotte anti-competitive volte a condizionare l’esito di molteplici procedure comparative pubbliche relative all’affidamento dei servizi di vitto e sopravvitto bandite da vari PRAP dal 2020 in poi. In particolare, i comportamenti anomali hanno riguardato prima facie l’area centro-meridionale e insulare del territorio nazionale, ovvero le procedure di gara aperta e le procedure negoziate indette dai seguenti PRAP: Lazio/Abruzzo/Molise, Campania, Puglia/Basilicata, Calabria, Sardegna e Sicilia. “Le condotte anti-competitive considerate - scrive l’autorità Garante - consistono in una serie di anomalie riscontrate nell’analisi degli esiti delle procedure imputabili a Ventura, Saep, Guarnieri, Pastore e D’Agostino. In particolare, l’anomalia più ricorrente risiede nella presentazione di offerte estremamente eterogenee tra i vari lotti della medesima procedura, tali da favorire di volta in volta una delle sodali nell’aggiudicazione (c.d. “scacchiera”)”. A tale anomalia, prosegue il bollettino, si accompagnano altre condotte, come la presentazione di offerte c.d. “di appoggio” o le astensioni volte ad avvantaggiare altri concorrenti, che possono essere lette come compensazioni rispetto ad altre contestuali procedure. Riscontrato il sistema a “scacchiera” nelle gare per vitto e sopravvitto - Non solo. Viene sottolineato che, nell’ambito di alcune procedure relative al sopravvitto, si è riscontrata l’assenza di offerte dei sodali che presentano uno sconto esiguo per la procedura per il vitto proprio al fine di favorire l’affidamento della concessione all’operatore favorito per l’aggiudicazione del corrispondente servizio di vitto o già aggiudicatario dello stesso. “Tale comportamento appare idoneo a consentire agli aggiudicatari del vitto di compensare il notevole sconto praticato in alcuni casi, in quanto dal sopravvitto è possibile ricavare maggiore utili”, viene sottolineato nel bollettino. Dopo una lunga e dettagliata analisi, il Garante arriva a ipotizzare che le aziende, in pratica, si mettono d’accordo per la gara d’appalto. “Il pattern partecipativo che pare emergere risulta caratterizzato da: presentazione di offerte estremamente eterogenee tra i vari lotti della medesima procedura tali da favorire di volta in volta una delle sodali nell’aggiudicazione (c.d. “scacchiera”); formulazione di offerte c.d. “di appoggio” o l’astensione dalla procedura allo scopo di avvantaggiare altri concorrenti da interpretare come compensazioni rispetto ad altre contestuali procedure; astensione dalle procedure di sopravvitto al fine di favorire l’affidamento della concessione all’operatore favorito per l’aggiudicazione del corrispondente servizio di vitto o già aggiudicatario dello stesso”, denuncia il Garante attraverso il bollettino. Attraverso l’ipotizzata condotta concertata, sempre secondo il Garante, le parti potrebbero aver alterato sensibilmente la libera formazione dei prezzi e la selezione dell’operatore più efficiente nell’ambito delle gare pubbliche in esame. Nel caso di specie, anche là dove si osservano sconti elevati, questi potrebbero essere compensati dall’esercizio del remunerativo servizio di sopravvitto da parte dello stesso operatore aggiudicatario del servizio di vitto. Tale effetto è riscontrabile non solo nell’ambito delle procedure unitarie del 2020, in cui appunto vitto e sopravvitto venivano affidati contestualmente, ma anche successivamente, “posto che frequentemente gli affidatari del servizio di vitto coincidono con i medesimi aggiudicatari delle pressoché contestuali procedure volte all’affidamento della concessione del servizio di sopravvitto”. La strategia potrebbe peggiorare il servizio per il notevole ribasso - Il risultato? Tale strategia esaminata dal bollettino, potrebbe appunto produrre effetti peggiorativi del servizio complessivo offerto ai detenuti, considerato che un notevole ribasso dell’importo a base d’asta (oscillante tra € 5,70 a € 5,90 per i tre pasti giornalieri) può ripercuotersi in una minore qualità e quantità delle forniture, tale da rendere necessario l’acquisto tramite il sopravvitto a spese dei detenuti stessi di alimenti indispensabili per compensare la scarsità dei pasti offerti. “Sarà sufficiente tutto questo a fare capire all’amministrazione penitenziaria che deve adottare provvedimenti immediati?”, si chiede Gabriella Stramaccioni, la garante dei detenuti del comune di Roma che si è battuta molto - attraverso denunce pubbliche e segnalazioni alle autorità - per il problema del vitto e sopravvitto. Agenti penitenziari contro il governo: “Ci hanno chiesto i voti e ora tagliano i fondi” di Ermes Antonucci Il Foglio, 1 dicembre 2022 In manovra c’è la riduzione 35 milioni di euro per il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. “Siamo veramente incazzati”, dice Donato Capece, segretario generale del Sappe. “Siamo veramente amareggiati… anzi, siamo veramente incazzati. In campagna elettorale hanno promesso attenzione verso le forze di polizia, investimenti, una rivisitazione del sistema penitenziario e poi, dall’oggi al domani, ci ritroviamo con un taglio di oltre 35 milioni al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”. A parlare, intervistato dal Foglio, è Donato Capece, segretario generale del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria, dopo la notizia del taglio da oltre 35 milioni in tre anni per la gestione delle carceri contenuto nella legge di Bilancio. Il Sappe è da sempre uno dei sindacati più vicini alle posizioni dei partiti di centrodestra (Fratelli d’Italia e Lega) che ora guidano il governo. “Come si fa a tagliare 35 milioni di euro al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, quando noi operatori di polizia già viviamo una situazione di emergenza, con cinquemila uomini in meno rispetto a quelli previsti e a fronte di oltre 57 mila detenuti?”, si chiede Capece, sottolineando che “il rapporto agenti-detenuti è di 1 a 100”.  “Hanno raccolto il loro consenso soprattutto tra le forze di polizia - prosegue Capece riferendosi ai partiti di governo - E ora chi vanno a colpire? Gli agenti di polizia. E’ un controsenso”. “Noi chiediamo un carcere diverso, una riforma che preveda più misure alternative alla detenzione (e quindi l’applicazione della riforma Cartabia) e meno detenuti in carcere. E’ giusto che chi commetta gravi reati sia in carcere, ma la stragrande maggioranza dei detenuti commette reati lievi e deve essere affidata a scontare la pena sul territorio. Ma per fare questo ci vogliono tecnologia, risorse economiche e risorse umane”.  A poco più di un mese dall’insediamento, invece, il governo Meloni ha rinviato la riforma Cartabia e tagliato le risorse per le carceri. “Suona proprio come una beffa. Direi al ministro: se ci sei, batti un colpo! Difendi gli uomini e le donne della polizia penitenziaria, difendi il sistema carcere!”, conclude Capece. Liliana Segre: “In carcere ho conosciuto l’umanità” Oggi, 1 dicembre 2022 “A 13 anni fui rinchiusa a San Vittore. Spesso penso a chi, là dentro, soffre”. Cara Senatrice Liliana Segre, di recente l’associazione Antigone, impegnata per i diritti e le garanzie nel sistema penale, ha fatto sapere che nei primi dieci mesi del 2022 ci sono stati 79 suicidi in carcere. Lei che cosa pensa del sistema detentivo in Italia? Il numero di persone che si sono tolte la vita è davvero impressionante. E la situazione peggiora se, come spiega la stessa associazione Antigone, accanto a questa tragica cifra, si considera il cosiddetto tasso di suicidi, ovvero il rapporto tra il numero dei casi e la media dei detenuti nel corso dell’anno. Il 2022 non è ancora terminato ma, considerando il periodo tra gennaio e settembre, si sa che questo tasso è pari circa a 13 suicidi ogni 10 mila detenuti e che è il valore più alto mai registrato. In carcere ci si uccide oltre 21 volte in più che nel mondo libero. È una situazione che mi colpisce moltissimo. Quando a 13 anni, prima del lager, fui prigioniera con mio papà a San Vittore, i detenuti comuni furono le uniche persone a mostrarsi umane. Ricordo la mattina i cui ci mettemmo in fila “per ignota destinazione”, un lungo corteo silente di oltre seicento persone, e loro, affacciati ai ballatoi perché avevano l’ora d’aria, furono indimenticabili. Ci gettarono chi una mela, chi un’arancia, chi una sciarpa. “Non avete fatto niente di male” ci dicevano, “che Dio vi benedica, che Dio vi protegga”. Anche per questo la condizione carceraria è sempre nei miei pensieri. Non appena arrivarono i vaccini per il Covid, ad esempio, mi espressi perché i detenuti fossero tra le prime categorie a cui destinarli, in quanto persone sotto la responsabilità dello Stato costrette alla promiscuità obbligata, per di più comprensibilmente angosciate in quel momento dalla sospensione delle visite. Quanto al drammatico dato dei suicidi, la stessa associazione Antigone avanza alcune proposte che andrebbero ascoltate: migliorare la vita all’interno degli istituti, per ridurre il più possibile il senso di isolamento, di marginalizzazione e l’assenza di speranza per il futuro, così come favorire percorsi alternativi alla detenzione intramuraria. In questo senso una posizione radicale, ma che vale la pena registrare, è quella di Gherardo Colombo. L’ex magistrato ha testimoniato di essersi chiesto nel corso della sua carriera se condannare qualcuno al carcere fosse davvero esercitare la giustizia e di essere arrivato alla conclusione che sia inutile. Una posizione forse utopistica, di cui ha scritto nel volume Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla (Ponte alle Grazie), ma esistono sicuramente casi in cui le misure alternative possono funzionare. Tutto questo si inserisce ovviamente all’interno di un intervento più ampio, strutturato e complessivo da realizzare sul sistema carcerario, in modo da attuare anche pienamente quanto stabilisce la nostra stessa Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” si legge all’articolo 27, comma 3. Tra le urgenze da risolvere, ci sono certamente il sovraffollamento e le strutture, carenti, spesso inadeguate. La stessa polizia penitenziaria patisce tali condizioni, oltre a gravi vuoti di organico. È vero che ci sono stati casi di abusi inaccettabili, che non dovrebbero mai più ripetersi, come le violenze subite dai detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, ma la maggior parte degli agenti si prodiga con generosità e senso del dovere per gestire emergenze e difficoltà. Rave party, reato più definito di Francesco Cerisano Italia Oggi, 1 dicembre 2022 Il giro di vite sui rave party non colpirà le manifestazioni in piazza, né le occupazioni studentesche. Ma punirà solo l’invasione finalizzata a “realizzare un raduno musicale o avente altro scopo di intrattenimento” con pericoli derivanti da droga, sicurezza e igiene. Il giro di vite sui rave party non colpirà le manifestazioni in piazza, né le occupazioni studentesche. Ma punirà chi “organizza o promuove l’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici e privati” solo quando è finalizzata in modo specifico a “realizzare un raduno musicale o avente altro scopo di intrattenimento” e quando “dall’invasione deriva un concreto pericolo” per la salute o l’incolumità pubblica a causa dell’inosservanza delle norme su droga, sicurezza e igiene. Con un emendamento del governo depositato in commissione giustizia del Senato, è arrivata l’attesa precisazione della norma sui rave party finita nell’occhio del ciclone per l’eccessiva indeterminatezza della fattispecie disegnata dal dl 162/2022. La correzione apportata dall’esecutivo, e subito rivendicata dal ministro della giustizia Carlo Nordio, non solo specifica in modo più chiaro i confini penali della norma, ma torna indietro rispetto a due scelte di campo effettuate dal governo con la prima versione del decreto legge del 31 ottobre. Così come previsto dal vecchio decreto, la nuova fattispecie entra nel codice penale con una norma nuova di zecca, ma non più come reato contro l’incolumità pubblica (come invece previsto dal precedente art.5 che introduceva l’art.434 bis) bensì come reato contro il patrimonio. Viene così creato un art. 633 bis del codice penale che va a sanzionare in modo più severo di quanto già non faccia oggi l’art.633 cod. pen l’organizzazione di raduni musicali con il concreto rischio per la salute o l’incolumità pubblica, a causa dell’inosservanza delle misure di sicurezza o di igiene relative agli spettacoli ovvero delle norme sulle sostanze stupefacenti o psicotrope. La norma fa un passo indietro anche sul discusso limite minimo di 50 persone necessario affinché il reato si concretizzi. Nel nuovo articolo 633 bis scompare ogni riferimento al numero di partecipanti. Chi prende parte a un rave, senza organizzarlo, non sarà più punito ai sensi del nuovo art.633 bis. Ai partecipanti si applicherà l’art.633 cp che prevede sanzioni detentive e pecuniarie ridotte (reclusione da due a quattro anni e multa da 206 a 2.064 euro). Resta confermata, invece, la stretta sanzionatoria con la previsione della reclusione da tre a sei anni (il che renderà possibili le intercettazioni, ma solo se circoscritte alle eventuali indagini sull’organizzazione dell’evento) e della multa da 1.000 a 10.000 euro. Confermata anche la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, nonché di quelle utilizzate per realizzare le finalità dell’occupazione o di quelle che ne sono il prodotto o il profitto. “Con quest’emendamento al decreto-legge anti-rave, il governo perfeziona la norma, rendendo più efficace il contrasto delle condotte illecite che si vuole perseguire”, ha osservato il ministro Nordio. “L’emendamento”, ha spiegato il sottosegretario alla giustizia Francesco Paolo Sisto, “sistema le cose. L’articolo 633 bis punisce gli organizzatori dei rave. La stretta riguarda dunque chi organizza e pone in serio pericolo sia l’incolumità pubblica sia la salute pubblica, con violazione della legge sugli stupefacenti. Chi partecipa rientra nella norma precedente, ed è punito meno gravemente. Le intercettazioni saranno possibili solo per gli organizzatori”. “Ci sono elementi che impediscono di estendere questa norma a chi protesta in piazza, a chi occupa una scuola o una fabbrica”, ha assicurato Sisto, secondo cui la nuova versione della norma “sale di livello” rispetto al testo precedente “ma evita la confusione e qualsiasi ipotesi di estensione ad altre fattispecie”, ha concluso. Così come deciso dalla Conferenza dei capigruppo di Montecitorio, il decreto legge 162 (che, oltre alla stretta sui rave, contiene anche misure urgenti in materia di divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti di detenuti che non collaborano con la giustizia e le norme che dal 1° novembre hanno fatto cessare l’obbligo vaccinale per medici, infermieri e operatori sanitari) arriverà in aula alla Camera, dopo Natale, tra il 27 ed il 28 dicembre. Con un emendamento giudicato ammissibile dalla commissione giustizia, Forza Italia ha proposto che venga prevista l’impossibilità da parte del pubblico ministero di fare ricorso in appello in caso di sentenza di assoluzione in primo grado. Linea dura sui rave, ma Nordio media sulle scarcerazioni di Errico Novi Il Dubbio, 1 dicembre 2022 Il ministro mantiene a 6 anni la pena per i raduni, ma proroga per soli 20 giorni gli “arresti” annullati dalla riforma Cartabia. Inviati a Palazzo Chigi gli emendamenti del guardasigilli al dl 162: resta la pena di 6 anni per i raduni musicali, ma le misure cautelari “invalidate” dal testo Cartabia sono prorogate per soli 20 giorni. Nordio media. Tiene l’equilibrio in un quadro politicamente controverso. E provvede innanzitutto a limitare i danni sul “reato di rave”: con il primo dei 13 emendamenti al Dl 162 predisposti a via Arenula. Con quella proposta di modifica, spiega il ministro, “il governo perfeziona la norma” e, aggiunge, “rende più efficace il contrasto delle condotte illecite che si vuole perseguire”. Gli altri 12 interventi firmati dal guardasigilli mirano a gestire la transizione verso la riforma Cartabia. Un emendamento in particolare “congela” le misure cautelari inflitte a chi è accusato per uno di quei reati (dal furto alla truffa) che, con le modifiche introdotte dalla ex ministra, diventano perseguibili solo a querela. Vengono impedite, come aveva chiesto Giorgia Meloni, le scarcerazioni immediate nei procedimenti già in corso e avviati d’ufficio dai pm: ma per soli 20 giorni. Il tempo di consentire alle parti offese l’esercizio della querela, unico atto in grado di tenere in vita un’azione penale altrimenti improseguibile. Passati quei 20 giorni, l’indagato o imputato tornerà libero. Morale della favola: anche qui Nordio si sforza di tenere la barra in equilibrio. Tagli alle carceri “inevitabili”, dice Nordio - Le sue proposte di emendamento non piombano direttamente sul tavolo della commissione Giustizia di Palazzo Madama, dove è in corso l’esame del decreto “Rave-ostativo-covid-riforma Cartabia”: lunedì sono state intanto trasmesse a Palazzo Chigi, dove dovrà essere espresso un via libera collegiale, poi potranno essere depositate in Senato. Dovrebbero andare in votazione, insieme con gli emendamenti presentati dai partiti, il prossimo 6 dicembre. Il tutto in un quadro in cui il guardasigilli, come segnalato ieri dal Foglio, ha sostanzialmente dovuto subire, senza potersi neppure esprimere nel merito, i 36 milioni di tagli alla polizia penitenziaria. Quei risparmi lineari, fa notare Nordio al dibattito sulla separazione delle carriere (di cui si dà conto più ampiamente in altro servizio, ndr), “è stato fatto a tutti i ministeri: non era trattabile, l’emergenza economica impone di devolvere queste risorse a chi non riesce a pagare le bollette”. Danno irrimediabile alle già devastate carceri? “Ci sono risorse del Pnrr che entro certi limiti possono essere rimodulate”, fa notare il guardasigilli, “proveremo a farlo anche con il bilancio interno al ministero”. Certo, fiaccare le forze della polizia penitenziaria in quelle galere in cui si sono già suicidati 80 detenuti e 5 agenti, e nelle quali per altre centinaia di casi è stato proprio l’intervento in extremis dei poliziotti a evitare che un recluso si togliesse la vita, resta comunque gravissimo. Intanto però ieri Nordio è riuscito a evitare una deriva “controriformista” sul testo Cartabia, con quell’emendamento che congela le scarcerazioni per soli 20 giorni. Sulle pene per i rave pure Forza Italia resta perplessa - In realtà, le reazioni dei partiti si concentrano soprattutto sulla modifica relativa alla materia più “scenografica”, il “reato di rave”. È il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto a difendere l’impostazione adottata a via Arenula e a illustrarla in sintesi: “Vengono recepite molte delle richieste avanzate da Forza Italia, a cominciare dalla tipizzazione del reato, che si concretizzerà qualora si dovessero presentare una serie di circostanze: il carattere musicale o di intrattenimento della manifestazione e il pericolo concreto per l’incolumità e la salute pubblica a causa dell’inosservanza delle norme su stupefacenti, sicurezza e igiene”. Non c’è più, è l’altro aspetto “qualificante”, il riferimento all’indefinibile “pericolo per l’ordine pubblico” quale base per la perseguibilità delle condotte. Ma è una correzione che non basta al Pd, per esempio: la responsabile Giustizia dem Anna Rossomando parla di testo che resta “inutile” e soprattutto di “inaccettabili pene sproporzionate”. È il nodo irrisolto: la sanzione detentiva prevista per il nuovo articolo 633 bis del codice penale va dai 3 ai 6 anni, massimo tenuto su soglie stratosferiche per consentire le intercettazioni. Sul punto, Nordio non ha potuto opporsi alla linea di Lega e FdI, espressa, per il partito di Meloni, dal segretario della commissione Giustizia Sergio Rastrelli, secondo il quale “la forbice edittale è coerente con l’obiettivo che si intende perseguire”, e le intercettazioni, rese possibili appunto dal massimo di pena portato a 6 anni, “sono funzionali a consentire l’attività di prevenzione”. Logica che Forza Italia digerisce a malapena: il capogruppo azzurro in commissione Pierantonio Zanettin ammette che “resta in piedi la questione dell’entità della pena massima”. Anche se, aggiunge, “viene distinto il ruolo tra promotore e partecipante, come avevamo chiesto noi”. Il sottosegretario alla Giustizia della Lega, Andrea Ostellari, rivendica il fatto che, con la riformulazione di via Arenula, “si evita l’applicabilità” del reato di rave “nei confronti di qualsivoglia genere di aggregazioni o manifestazioni pubbliche”. La linea sulla “Cartabia” condivisa con Reynders - Nessuna obiezione politica sui numerosi emendamenti concepiti da Nordio per la transizione verso la riforma Cartabia. Nessuna perplessità, almeno per ora, su quel blocco delle scarcerazioni limitato a 20 giorni, e che potrebbe non entusiasmare l’ala più intransigente della maggioranza. Ma sul punto il ministro della Giustizia ha imposto ai partiti una logica chiara: le modifiche alla riforma penale, ha spiegato, devono limitarsi a gestire l’impatto della nuova disciplina sul sistema giudiziario. E il tempo relativamente modesto della proroga prevista per le “carcerazioni preventive” invalidate dal testo della ex ministra rientra in questa impostazione. D’altra parte, il guardasigilli sa che proprio in virtù della loro ispirazione “deflattiva” (sui procedimenti e, a cascata, sulle pene carcerarie) le nuove norme fluidificano la macchina processuale e rispettano così le richieste avanzate dall’Ue in relazione ai fondi concessi per i Pnrr. Nordio ne ha parlato nei giorni scorsi anche con il commissario europeo Didier Reynders al G7 Giustizia tenuto a Berlino. E a ben guardare, sarebbe difficile modificare una linea sulla quale il guardasigilli ha come alleata quell’Europa che ha finanziato all’Italia 209 miliardi di euro. Decreto rave, modifiche farsa del Governo: restano pene e intercettazioni di Riccardo Annibali Il Riformista, 1 dicembre 2022 Inversione a ‘u’ del governo sul Decreto Rave. Carlo Nordio lo strappa dalle mani del prefetto Matteo Piantedosi e riscrive il testo con l’emendamento che cambia anche il numero dell’articolo, non più il 434 bis ma il 633 bis, e che limita il reato a “chiunque organizza e promuove l’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici e privati, al fine di realizzare un raduno musicale o avente altro scopo di intrattenimento” quando “dall’invasione deriva un concreto pericolo” per la salute o l’incolumità pubblica a causa dell’inosservanza delle norme su droga, sicurezza e igiene. Si specifica così il tipo di occupazione, escludendo quelle degli studenti o le altre manifestazioni pubbliche. Una norma senza rischi di incostituzionalità. Una nuova e più articolata disciplina della fase transitoria della riforma Cartabia del processo penale. La pena massima di 6 anni rimane per chi organizza o promuove l’occupazione di terreni o edifici per lo svolgimento dei rave. E resta possibile attivare le intercettazioni telefoniche nelle indagini sui presunti organizzatori e promotori dell’evento. Oltre alla reclusione da 3 a 6 anni, è prevista una multa da mille a 10mila euro ed è “sempre ordinata la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, nonché delle cose che ne sono il prodotto o il profitto”. In questo modo il nuovo reato 633 bis risulta riferito a situazioni precise, viene collegato alla violazione delle norme in materia di sicurezza e igiene negli eventi e a quelle sulle sostanze stupefacenti. L’ipotesi di maggiore rigore viene circoscritta agli organizzatori e promotori dei rave party; i partecipanti saranno, invece, sempre punibili ma solo in base all’articolo 633 del codice penale, che riguarda l’invasione di terreni o edifici. Il nuovo testo riformula anche la norma che già prevedeva la confisca obbligatoria, estendendo il provvedimento anche ai profitti dei rave party, per fungere da ulteriore deterrente. Servirà il vaglio delle Camere. “Chiunque organizza o promuove l’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui pubblici o privati al fine di realizzare un raduno musicale o avente scopo di intrattenimento è punito con la reclusione da tre a sei anni e la multa da mille a 10mila euro quando dall’invasione deriva un concreto pericolo per la salute pubblica o per l’incolumità pubblica a causa dell’inosservanza delle norme in materia di sostanze stupefacenti ovvero in materia di sicurezza o di igiene degli spettacoli e delle manifestazioni pubbliche di intrattenimento anche in ragione del numero dei partecipanti”, si legge nel testo secondo quanto riferito da fonti parlamentari. “Con quest’emendamento al decreto-legge anti-rave, il Governo perfeziona la norma, rendendo più efficace il contrasto delle condotte illecite che si vuole perseguire” ha detto il ministro della Giustizia. Cosa non va nel nuovo emendamento, Enrico Costa scrive: “Il Governo interviene sulla pessima norma sui rave. È un passo avanti perché si limita l’applicazione a promotori e organizzatori e la si riferisce agli eventi musicali. Cosa non va? Si mantiene il reato (solita prassi di risolvere i problemi con norme penali); si mantiene la pena fino a 6 anni, con custodia cautelare e intercettazioni; si cancella il numero minimo di 50 persone perché si abbia il reato; si mette nelle mani della valutazione del giudice il numero minimo di partecipanti e le situazioni in cui ricorre il pericolo concreto per la salute, per l’igiene o la sicurezza. Ovviamente presenteremo sub emendamenti”. Separare le carriere? “Aspettate e vedrete”, dice il guardasigilli di Valentina Stella Il Dubbio, 1 dicembre 2022 Dibattito con Migliucci, che da presidente dei penalisti ha raccolto le firme per la legge sui magistrati e che ricorda: “È ora di attuare davvero il processo accusatorio”. Giudice terzo, giusto processo e nuove frontiere della giustizia sono stati i temi al centro del dibattito che si è tenuto ieri a Roma tra il ministro della Giustizia Carlo Nordio, Sabino Cassese e l’ex presidente delle Camere penali Beniamino Migliucci, in occasione della presentazione del libro “Non diamoci del tu. La separazione delle carriere”, di Giuseppe Benedetto, presidente della Fondazione Einaudi, ed edito da Rubbettino. Il dibattito è stato coordinato dal neosegretario della Fondazione Andrea Cangini. Sotto Beniamino Migliucci, l’Unione Camere penali ha raccolto le oltre 70mila firme per la proposta di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere depositata poi in Parlamento. “È una riforma ineludibile”, ha detto il penalista, “la riforma di tutte le riforme soprattutto se si immagina di mantenere un codice a tendenza accusatoria, liberale, che pone al centro del processo il contraddittorio, la parità delle parti”. Nordio ha firmato la prefazione del volume di Benedetto: “Tutto il libro dovrebbe essere attentamente studiato alla Scuola della magistratura, perché smentisce definitivamente le apocalittiche obiezioni che l’Anm ci propina in occasione anche delle più moderate proposte riformatrici, come l’ultima della ministra Cartabia”. Adesso la pensa allo stesso modo? “Quando ho scritto la prefazione - ha detto esordendo - non avrei mai immaginato di diventare parlamentare né ministro della Giustizia. Far parte del governo può limitare le aspettative e le volontà di Nordio come scrittore e modesto giurista, ma ciò non vuol dire che le mie idee liberali siano cambiate o si siano annacquate”. Il guardasigilli sente quasi il bisogno di giustificarsi, dopo aver ricevuto nelle ultime settimane anche delle critiche da parte di chi lo accusa di aver invertito la rotta rispetto ai suoi principi. “Le decisioni vengono prese collegialmente all’interno del governo, la complessità della politica richiede compromessi ma non al punto da tradire l’idea liberale che sarà mantenuta fermissima”. Lo ha ribadito più volte, questo concetto: “Senza voler anticipare l’illustrazione delle linee programmatiche alle Camere prevista per il prossimo 6 dicembre, posso dire che le mie idee verranno riaffermate. La fattibilità politica poi verrà scansionata in base alle modalità tecniche: per riformare l’abuso di ufficio può bastare un mese, per avere una norma che preveda un organo collegiale che decida sulla custodia cautelare ci possono volere tre mesi, per fare una riforma costituzionale occorre più tempo”. Non fa mai esplicito riferimento alla “separazione delle carriere”, ma il nesso è chiaro dato il tema del libro e le altre cose dette, tra cui: “A questo mondo nulla è eterno. Stamattina (ieri, ndr) ho avuto modo di incontrare per molto tempo il cardinale Ravasi ed è emerso che soltanto la verità del Signore rimane in eterno, il resto si può cambiare. Quindi non c’è nessun reato di lesa maestà se si propone una riforma costituzionale”. Poi è entrato un po’ più nel dettaglio sulle ragioni: “Quando è avvenuto il miracolo politico e giuridico della Costituzione, l’unità delle carriere, l’obbligatorietà dell’azione penale, la figura del pubblico ministero modellata su quella del giudice erano perfettamente coerenti tra loro. Ma i padri costituenti non potevano immaginare che 40 anni dopo Vassalli avrebbe varato un codice ispirato al processo anglosassone”. Quindi “occorre necessariamente superare il paradosso di un codice “fascista”, firmato da Benito Mussolini e dal re, che gode di ottima salute e di un codice di procedura penale saccheggiato e demolito perché ritenuto incompatibile con la Costituzione. O torniamo al codice Rocco, pienamente conforme alla Costituzione, oppure cambiamo la Costituzione. Attualmente abbiamo i tre pilastri: Costituzione, codice penale e codice procedura penale, incompatibili tra di loro”. Il guardasigilli si è poi riferito alla spending review della legge di Bilancio che ha toccato anche via Arenula e il Dap. “Ho letto molte critiche sui tagli anche al nostro ministero: il taglio lineare che è stato fatto non era trattabile, come è giusto che sia. L’emergenza economica impone di devolvere queste riforme a chi non riesce ad arrivare alla fine del mese”. Nordio ha spiegato di condividere le misure, ma ha aggiunto: “Spero di uscire presto dall’emergenza, e che ci siano altre risorse il prossimo anno. C’è il Pnrr, non ci si può muovere con grande elasticità ma proveremo a farlo, anche col bilancio interno del ministero. Cercheremo di rimodulare per evitare le criticità che derivano dai tagli lineari”. Ha poi sottolineato nuovamente come “l’obiettivo delle riforme iniziali è avere un impatto positivo sull’economia del Paese. Anche per questo incontrerò i rappresentanti Anci per discutere di una profonda revisione dei reati che paralizzano l’amministrazione, della “paura della firma” o come preferisco dire io della “amministrazione difensiva”. Da icona a reietto: la giustizia proletaria contro Soumahoro di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 1 dicembre 2022 Soumahoro non è il solito caso di “malagiustizia”. Ma una storia tristissima che dimostra di quanta e quale violenza siamo capaci quando abbiamo la possibilità di fare a pezzi e sbranare chi ce l’ha fatta. 360 rate mensili da 1.078 euro l’una, per un totale di 388.080 euro. Trent’anni di mutuo. Questo è il contratto di acquisto della casa di Aboubakar Soumahoro e della sua compagna - su cui tanto si è ricamato. Prezzo di mercato, in un momento, peraltro, di ribasso delle quotazioni. Trent’anni di mutuo a mille euro al mese in due, non hanno propriamente l’aria di una “malversazione”. Di sacrifici, piuttosto. Hanno scavato tra rogiti con il notaio, bonifici, conti correnti - e tutto è regolare. Hanno sospettato che ci fosse del “nero” pagato fuori contratto e sono andati a parlare con l’ex proprietario che ha venduto la casa: “Sono disponibile a parlare con voi - ha detto - purché non si facciano illazioni. Faccio l’imprenditore e non ho venduto questa casa con una parte in nero. Tutto quello che ho ricevuto, assegni e bonifici, sono stati tracciati e regolarmente riportati nell’atto. Magari dietro a questa storia c’è tutto il marcio che sospettate, ma non lo troverete nell’acquisto di questa casa”. Fine della storia? Macchè. Come può permettersi una casa così? Per costoro, Soumahoro dovrebbe vivere in un tucul africano di argilla e paglia, per essere “autentico”. Bisogna dare un’occhiata alla pagina facebook di Soumahoro per rendersi conto di quale sia “l’onda d’urto” di questa vicenda: tornatene in Africa; stai facendo vergogna; paga i tuoi dipendenti; questo a capito bene che in Italia può fare il furbo; sei un fenomeno ai trovato l’America in Italia; non si può vedere e ascoltare, basta - e questo è solo un “florilegio”, certo ci sono anche attestazioni di fiducia e sostegno. Ma la sensazione, netta, è che il “caso Soumahoro” abbia scatenato un odio sociale senza più freni, senza ritegno. Non che prima mancasse - ma ora ha trovato l’occasione che tutto il rancore che covava aveva una sua “prova”. Ecco, appunto: quale sarebbe la prova? A tutt’oggi, Aboubakar Soumahoro non ha ricevuto alcun atto giudiziario - l’inchiesta partita dalla procura di Latina che riguarda le cooperative gestite dalla suocera e in cui aveva, non più da tempo, un ruolo la sua compagna non imputa alcun atto, alcun fatto, alcuna illegalità, alcuna illiceità a Soumahoro. Non parleremo perciò di queste - perché non c’è nulla da dire, al momento, che riguardi Soumahoro; la signora Marie Therese Mukamitsingo sta già provvedendo alle proprie incombenze. Se ci sarà, quando ci sarà - vedremo. Quello di cui invece vogliamo parlare è della “chiacchiera pubblica”, dove incompetenza, ignoranza, malafede, interesse, invidia, gelosia si intrecciano inestricabilmente, in un rimando tra social, talk-show, giornali, bar dello sport, e di come il giustizialismo abbia avvelenato ormai i cuori e le menti di questo paese - senza distinzione di razza, sesso e credo religioso: l’unico elemento su cui si potrebbe oggi, orridamente, scrivere una carta costituzionale comune: art. 1, ogni sospettato è condannato senza attesa di giudizio. Nel caso di Soumahoro non c’è nemmeno il “sospetto” di un comportamento illecito - ma solo di una “doppia morale”. E gli italiani - che rispettano le file, che non chiedono i favori all’amico dell’amico, che pagano le tasse con estrema regolarità, che non usano i poteri quand’anche minimi che hanno per favorire i parenti, che si guardano bene da abusivismi à gogo tanto sanno che non saranno mai condonati - si sa che sulla “moralità” non transigono. Quella degli altri. E a Soumahoro non gli si può perdonare nulla. Non gli hanno mai perdonato nulla gli avversari di un tempo e di adesso; non gli hanno mai perdonato nulla i “compagni” di un tempo e di adesso. Proprio come accadde a Mimmo Lucano, che la rivista “Fortune” inserì tra i 50 uomini più influenti della terra - ma come, un sindacuccio di un paesicchio della desolata Calabria? E vai - che a oscuri funzionari, insignificanti amministratori, pimpanti plenipotenziari e magistrati e giornali questa cosa proprio non poteva calare giù. Ci si misero di buzzo buono - da destra e da sinistra - e alla fine persino il Pubblico ministero nella sua arringa accusatoria doveva riconoscere che non un soldo era finito nelle tasche di Lucano ma le “irregolarità” le trovarono. E si levarono lo sfizio: una fiorente attività di accoglienza, a cui tutto il mondo civile guardava, prima stritolata dalla riduzione e dalla negazione dei flussi finanziari e poi massacrata mediaticamente e giudiziariamente. Riace cancellata. I sepolcri imbiancati di sinistra reagirono con la loro ipocrisia di sempre, il tratto distintivo del “ceto medio riflessivo” - sì, però, le irregolarità non sono giuste. La stessa ipocrisia con la quale chiacchierano ora di Soumahoro - non poteva non sapere, le pago anche io con le mie tasse quelle cooperative, non sta bene che si vada in giro con le borsette e le scarpe firmate se stai con i migranti. E la moglie di Cesare, come scrisse Plutarco, deve non solo essere onesta, ma sembrare onesta; la signora Liliane Murekatete, compagna di Soumahoro, “la moglie di Cesare”, ha intanto fatto sapere che non ne può più di passare per una “cinica griffata” e ha dato mandato al suo avvocato di difendere la propria immagine e querelare chi la diffama. I più colti citano L’impostore di Javier Cercas, la storia di quel signore in Spagna che riuscì a spacciarsi per un eroe rispettato e riverito dell’antifranchismo ma che se n’era rimasto ben rintanato al tempo - che peraltro è un libro bellissimo, dove la parabola individuale è poca cosa e racconta piuttosto il meccanismo di rimozione collettiva del proprio senso di colpa per avere accettato in silenzio trent’anni di fascismo. Forse è di quel “senso di colpa” che vogliono liberarsi oggi quelli che prima ci facevano i tour politici con Soumahoro, quelli che prima lo ospitavano nelle loro trasmissioni, facendo la ruota del pavone tollerante e guadagnandoci in immagine ben più che Aboubakar stesso - il senso di colpa di chiudere gli occhi davanti gli orrori del bracciantato nelle nostre campagne o le stragi che accadono nei nostri mari. Basta basta non vogliamo più saperne, ci è bastato il “caso Soumahoro”, Aboubakar l’impostore. Perché alla fine il risultato di tutto questo ciarpame mediatico - se venissero riscontrate delle illegalità nella conduzione delle cooperative di cui si tratta andrebbero sanzionate, punto, restituendole a un funzionamento esemplare, punto - è che tutto il mondo dell’accoglienza viene messo in discussione; già è partita la guerra delle destre in tutti i comuni interessati dall’inchiesta contro assessori e sindaci del centrosinistra che “largheggiavano”. Ovvero, applicavano le direttive dei ministeri. Soumahoro non è un caso di “malagiustizia”, ma direi di qualcosa che somiglia alla “giustizia proletaria” - i più feroci contro di lui sono proprio quelli che lo portavano in giro come la Madonna pellegrina quando stava con loro: ma i poveri sono sempre i più feroci contro qualcuno di loro che ce la fa. E Soumahoro è uno che ce l’ha fatta, e non glielo perdonano proprio: lo accusano di personalismo, di eccesso di protagonismo - ma, ragazzi, non è che tutti potete essere Abou, fatevene una ragione. Una storia tristissima, questa - perché mette a nudo, in maniera drammatica, quanta violenza siamo in grado non solo di assorbire ma anche di esserne noi stessi portatori: dateci qualcuno da fare a pezzi, da sbranare, non aspettiamo altro. E questo - anche se non ha le forme dei cappucci bianchi e delle croci in fiamme - si chiama linciaggio. Torino. In carcere aumentano i disturbi psichiatrici. Le visite sono raddoppiate di Irene Famà La Stampa, 1 dicembre 2022 “Bisogna intervenire sul tema della salute mentale e investire di più sul personale specializzato”. Al Lorusso e Cutugno le visite psichiatriche sono raddoppiate, raggiungendo anche trenta consulti giornalieri. E i dati, presentati a Palazzo Civico durante una commissione ad hoc, raccontano disagi e problematiche dietro le sbarre del carcere torinese. Nel 2021, le prestazioni ambulatoriali sono state 3882 e il 30% ha avuto carattere d’urgenza. I detenuti sottoposti a visite psichiatriche sono stati 152: il 38% per psicosi, il 29% per disturbi della personalità e il 14% con diagnosi non specifica. I Tso, trattamento sanitario obbligatorio, richiesti all’interno del penitenziario sono stati ventuno. Un carcere sovraffollato, quello nel quartiere Vallette, con 1.444 reclusi per una capienza di 1.100. Dove c’è carenza di assistenza sanitaria e di personale e detenuti in un tale stato di povertà che fuori, senza famiglia, casa e lavoro, non vedono né futuro né opportunità. Il 60% è in carcere su misura cautelare, più di 500 detenuti hanno problemi di tossicodipendenza e diversi hanno problemi psichici. “Ho richiesto una commissione di questo tipo per riflettere insieme, a partire da dati oggettivi, su quanto si stia facendo e su quanto sia necessario intervenire sul tema della salute mentale”, spiega il consigliere comunale Pd Vincenzo Camarda. “Questo permette di sollecitare chi ha responsabilità sanitarie ad aumentare gli investimenti sul personale specializzato e aiuta a sviluppare politiche di prevenzione e di sostegno a quelle progettualità alternative e riabilitative”. La catena di suicidi nelle carceri italiane, settantasette in un anno, di cui quattro a Torino, ha acceso un faro sulla situazione dei detenuti. E sollevato diverse problematiche: prima tra tutti quella dell’assistenza psicologica. In molti, dal mondo politico agli operatori del carcere, hanno sottolineato come sia necessario potenziare i servizi di psichiatria, perché “la reclusione spesso acuisce la malattia”. E la direttrice dell’istituto di via Adelaide Aglietta, Cosima Buccoliero, l’ha detto chiaro in diverse occasioni: “Servirebbe un operatore per ogni detenuto, ma non è possibile. E così si interviene per monitorare chi compie gesti eclatanti e le situazioni silenti di disagio sono difficili da individuare”. Rinforzi al personale della polizia penitenziaria sono attesi nei prossimi mesi, così come qualche medico in più. E poi l’apertura del “Sestante”, l’area psichiatrica del carcere torinese finita al centro di polemiche e di indagini tuttora in corso, che è stata ristrutturata. Sono stati ripensati gli arredi. Una prima parte, l’ottava sezione, è stata inaugurata nelle scorse settimane con sedici posti letto, di cui sei destinati ai detenuti interni e dieci a chi arriva da altri penitenziari. La seconda parte, la settima sezione, con ventuno posti letto, di cui cinque per pazienti a rischio, quattro a rischio medio e dieci per pazienti in fase acuta, verrà aperta a gennaio. Brescia. “Senza casa né lavoro. L’ignoto fuori dal carcere”: il racconto di Ernesto di Federica Pacella Il Giorno, 1 dicembre 2022 Un uomo di 53 anni, 5 trascorsi al “Nerio Fischione” di Brescia. Ora, volontario dell’associazione Fiducia e libertà, racconta la sua esperienza. ”Quando esci non hai nulla, sei senza lavoro, senza un tetto, senza amicizie”. Ernesto, 53 anni, originario di Roma, da 30 anni vive a Brescia. Gli ultimi 5 li ha passati al “Nerio Fischione”, dove ha ripagato i conti con la giustizia. Chiuse le porte della cella, si sarebbero aperte, però, quelle dell’ignoto senza il supporto dell’associazione Fiducia e libertà (tra quelle storiche per Brescia, insieme a Carcere e territorio e Volca). “Quando mi è stato detto - racconta - che avrei potuto accedere alla misura alternativa con un progetto di housing, ho dovuto cercare un alloggio. Dal carcere non è semplice, non c’è uno sportello che aiuti a fare ricerche all’esterno. È stato il mio avvocato a mettermi in contatto con la presidente, che avevo conosciuto durante una partita di calcio in carcere. Sono stato in un appartamento preso in affitto dall’associazione”. La sua storia Ernesto l’ha raccontata durante l’incontro di martedì sera, “Con gli occhi sbarrati”, organizzato dal comitato Possibile di Brescia: di fatto, dopo il carcere, molti si trovano a fare un salto nel buio. “Senza occupazione, senza prospettive, con lo stigma del carcere - aggiunge Ernesto, che oggi è anche volontario di Fiducia e libertà - non ci stupiamo se poi si torna a delinquere”. Sul fronte alloggi, è emblematico il caso del Comune di Brescia, che da tempo avrebbe alcuni alloggi sociali sfitti, monolocali che nessuno vuole, da mettere a disposizione. “Abbiamo interpellato la Regione - racconta l’assessore ai servizi sociali Marco Fenaroli - chiedendo di poterli utilizzare per il fine pena. Non c’è nulla da fare, ci dicono che poiché c’è l’emergenza abitativa non può essere cambiata la destinazione”. Anche l’assistenza di base e l’occupazione sono un miraggio, in genere a causa dell’assenza di una residenza diversa da quella del carcere. Dovrebbe essere l’ultimo Comune di residenza a farsi carico degli ex detenuti, ma di fatto la maggior parte non ne vuole sapere di occuparsene. “Nel Bresciano - conferma Luisa Ravagnani, garante dei diritti dei detenuti del Comune di Brescia - il capoluogo fa eccezione, ma per il resto della provincia è un disastro. Il problema è generalizzato, tanto che a livello nazionale è aperto un tavolo di sperimentazione a Firenze”. Di fatto, il vuoto (di politica e istituzioni) post-carcere si somma alle condizioni disastrose in cui viene scontata la pena, innescando un cortocircuito che fa male a tutti. Sovraffollamento e carenza di personale rendono un’utopia il fine rieducativo, nonostante i costi altissimi del sistema: 150/180 euro al giorno a detenuto (che deve ripagare il debito) rispetto alla media europea di 50/80 euro. Busto Arsizio. Il Comune rilancia il garante dei detenuti: selezione pubblica e (mini) fondo spese di Andrea Aliverti malpensa24.it, 1 dicembre 2022 Approvato all’unanimità il nuovo regolamento sul Garante dei detenuti, figura istituita da anni ma che necessita di un rilancio. Tra le novità, la selezione pubblica delle candidature a ricoprire il ruolo di garante, ma anche un rimborso spese fino ad un massimo di 1500 euro l’anno e un fondo spese da 2000 euro da utilizzare per piccoli acquisti di beni di prima necessità per i carcerati in difficoltà. “Anche gli altri comuni dovrebbero contribuire, perché i detenuti non sono solo di Busto” chiarisce l’assessore all’inclusione sociale Paola Reguzzoni, on risposta alla consigliere Valentina Verga (PD) che chiedeva di aumentare la cifra. “In carcere il sovraffollamento è un problema, con oltre 400 detenuti su una capienza di circa 250, anche perché il Covid ha rallentato le attività educative all’interno - la chiosa di Reguzzoni - questo regolamento è un buon punto di partenza per iniziare a lavorare sul serio”. Massa Carrara. “Carcere, il luogo della difesa dei diritti” di Angela Maria Fruzzetti La Nazione, 1 dicembre 2022 Nella Casa di reclusione si è tenuta la celebrazione istituzionale contro pena di morte e tortura in ricordo di Leopoldo di Lorena. Quale luogo migliore per celebrare la Festa della Toscana se non il carcere, luogo di riconoscimento dei diritti? Per l’amministrazione Persiani è il terzo anno che la Festa della Toscana si celebra in via Pellegrini con un consiglio straordinario, volto a ricordare come l’abolizione della pena di morte fu un primo passo verso il rispetto dei diritti umani. In quel lontano 1786 ebbe luogo la scelta rivoluzionaria operata da Pietro Leopoldo che abolì la pena di morte e di torture. Dunque, una Toscana sempre all’avanguardia sul tema dei diritti e della libertà. Ha aperto i lavori il presidente del consiglio comunale, Stefano Benedetti, ricordando i valori di pace e giustizia. Ha sottolineato l’importanza di difendere sempre il valore della vita che non è così scontato, visto che in tanti Stati vige ancora la pena di morte. Con l’inno nazionale interpretato da studentesse del Liceo musicale Palma, seguite dai maestri Biancalana e Montaldi, la cerimonia ha proseguito con l’intervento del sindaco Francesco Persiani, del presidente della Provincia Gianni Lorenzetti e della direttrice della casa di reclusione, Maria Cristina Bigi. Il sindaco ha ricordato il principio a cui si ispira questa Festa della Toscana 2022, ovvero all’articolo 21 della Costituzione per la libertà di espressione e di pensiero. Il presidente Lorenzetti ha ripercorso la storia di Leopoldo, uomo illuminato. Una data, quella del 30 novembre, che apre a molte riflessioni, come ha ricordato il presidente, tra cui l’ergastolo “da mantenere o da superare con altre forme?” La direttrice Bigi ha evidenziato l’impegno nel restituire la dignità ai detenuti. Il carcere dunque quale luogo di recupero e di rieducazione, riconoscendo il detenuto come essere umano. Hanno preso parola Sara Tognini, presidente commissione Cultura del Comune, ricordando i diritti violati delle donne iraniane e la loro lotta per la libertà; il consigliere Antonio Cofrancesco che ha annunciato occasioni occupazionali per la dignità dei detenuti. Francesco, Federico e Renzo, tre detenuti studenti dell’istituto Barsanti, si sono soffermati sulla libertà di espressione. Erano presenti Anpi, autorità civili e militari nonché gonfaloni delle associazioni. Un ringraziamento alla Polizia penitenziaria e a tutte le realtà che hanno operato per celebrare l’evento, tra cui l’agraria Cantarelli che ha decorato la sala con stelle di Natale e piante d’olivo. Salerno. Al museo per riabilitare i detenuti  La Città di Salerno, 1 dicembre 2022 Il direttore del Museum of Operation Avalanche, Marco Botta, ha partecipato al convegno “Detenuti e lavoro: buone prassi e criticità” organizzato dal Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello. L’evento, in collaborazione con l’Osservatorio regionale sulla detenzione e la Casa Circondariale di Secondigliano, si è svolto presso il Centro Penitenziario di Napoli Secondigliano “Pasquale Mandato”. Botta ha raccontato l’esperienza sul campo del Moa che risulta virtuosa e vincente proprio grazie alla possibilità che la struttura offre ai ristretti. “L’espiazione di una pena - precisa Botta- è fine a se stessa se non vengono colte tutte le opportunità possibili per rieducare e reinserire nella società chi è inciampato nelle pietre poste sul cammino della vita, perdendo l’equilibrio. Ringrazio il dottor Ciambriello, per aver creato l’ennesima occasione per ribadire l’importanza dei nostri progetti. Vivere la vita carceraria è un’esperienza alienante. È necessario che le associazioni e le strutture dedicate alla divulgazione sociale di ogni genere accolgono l’idea di mettersi a servizio di questa causa. Abbiamo scelto di operare sul nostro territorio perché lo scopo del nostro Museo non è quello di conservare cimeli, ma di restituire, attraverso la cultura della memoria, la libertà di poter vivere del mondo come cittadini consapevoli. Accogliere i ristretti è un’esperienza edificante: costruiamo, giorno dopo giorno, un rapporto di fiducia reciproca e, non lo nascondo, molto spesso sentiamo di aver imparato più che di aver insegnato”. All’incontro hanno partecipato esponenti della magistratura, della politica, del Dipartimento di amministrazione penitenziaria e del mondo del terzo settore. Il tempo è la sostanza di cui sono fatto”, di Maria Paola Guarino askanews.it, 1 dicembre 2022 Libro alla seconda ristampa, dibattito ieri a tavola rotonda a Roma. Una voce sempre molto attenta ai toni e rispettosa della privacy dei suoi ex alunni detenuti. Così, ieri, Maria Paola Guarino, ex docente scolastica impegnata per anni nel carcere maschile di Alta Sicurezza AS1 - Le Sughere di Livorno, ha presentato il suo libro “Il Tempo è la Sostanza di cui sono Fatto”, a Roma. Nel dibattito introdotto dal giornalista Andrea Iannuzzi, e inframezzato dalla lettura di alcuni passaggi dell’opera dell’inluencer Eva Bolognesi, la Guarino ha illustrato una realtà vissuta “dietro le sbarre” ricca di colpi di scena, di aneddoti e verità a molti sconosciuti. “Il Tempo è la Sostanza di cui sono Fatto” è uscito nel 2022. È giunto alla seconda ristampa ed è disponibile online, per Vittoria Iguazu Editora. Attingendo alle suggestioni che hanno spesso animato la sua vita da docente, da Borges al Renzo Tramaglino de I Promessi Sposi di Manzoni, Guarino racconta la vita dietro le sbarre, l’immane fatica che i detenuti fanno a riempire un tempo improvvisamente vuoto e asfittico, il timore nel lasciarsi andare alle emozioni più pure, la paura che restituisce il sentirsi giudicati e definiti solo attraverso quello che hanno commesso. “Il Tempo è la sostanza di cui sono fatto” dimostra che oltre la rubrica dei reati che gli sono ascritti, un detenuto è di più: è ancora una persona, vita che vibra, urla alla ricerca di una seconda occasione. Come il Tempo, materia imprendibile per eccellenza che acquista una definizione solo in base a come lo impieghiamo, anche il libro di Maria Paola Guarino è poco definibile e incasellabile nel sistema di generi che conosciamo: non si può dire propriamente un romanzo epistolare, sebbene la seconda parte della narrazione si snodi attraverso una serie di lettere, ma è forse più un romanzo di formazione. Chi riguardi davvero l’evoluzione, pietra angolare del bildungsroman, sta al lettore scoprirlo: se i detenuti, che attraverso la scrittura (di cui nel corso delle pagine si corrobora il valore umano - sociale) scoprono un’alternativa al mondo così come lo hanno sempre conosciuto, o Maria Paola che, intervallando i racconti dei suoi alunni-detenuti con spunti squisitamente autobiografici, restituisce al lettore il ritratto di una donna che ha saputo andare oltre, oltre le convinzioni e convenzioni, oltre il dolore, restituendo un senso nuovo alla sua attività lavorativa: formare e riparare. Ridare forza alla curiosità sul campo minato della disillusione. Il 2 dicembre Maria Paola Guarino replica la presentazione a Livorno, alle 18 all’Istituto II Vespucci Colombo. Con la presenza di Aurora Matteucci, Presidente della Camera Penale di Livorno, autrice anche di una nota introduttiva dell’opera della Guarino, assieme ad Adriana Tabarracci, referente carcere per l’istituto IIS Vespucci Colombo e Riccardo Greco editore di VIE, Victoria Iguazu Editora. “Il Tempo è la sostanza di cui sono fatto” di Maria Paola Guarino, in 197 pagine è edito da Casa editrice Vittoria Iguazu Editora, al prezzo di 12 Euro. Maria Paola Guarino è stata docente nella scuola secondaria superiore. Appassionata di sport pratica nuoto e tennis. Studia ed elabora varie tecniche pittorico-grafiche. Originaria dell’isola d’Elba, da molti anni vive tra Porto Azzurro e Livorno. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo “I poeti contemporanei”, “Viaggi di versi”, “Il Parnaso”. Per Vittoria Iguazu Editora ha pubblicato nel 2018 la raccolta di poesie “Il contrario di tutto”. Una nuova Costituzione per una giustizia razionale ed efficiente di Carlo Nordio Il Foglio, 1 dicembre 2022 Pubblichiamo la conclusione del libro “Giustizia”, firmato dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, edito per Liberilibri. Titolo del capitolo: “Principî liberali per una riforma radicale”. Dopo aver riassunto queste funeste antinomie che gravano sul nostro ordinamento complessivo e su molti degli organi deputati ad applicarlo, chiediamo soccorso all’ottimismo della volontà e proviamo a delineare un sistema che distilli al meglio, o almeno nella misura minima sufficiente, i principî idonei a riportare la giustizia italiana nell’ambito della razionalità e dell’efficienza. (…) Questi principî, secondo noi, devono esser conformi alla cultura illuministico-liberale. E per attuarli pienamente è necessaria una nuova Costituzione. La nostra Costituzione fu costruita dalle intelligenze più acute, dai cuori più appassionati e dalle volontà più determinate che la politica italiana potesse esprimere tra le rovine del dopoguerra. (…) Tuttavia a questo mondo non vi è nulla di immutabile. Soltanto la Veritas Domini - come recita il salmista - manet in Aeternum. E la nostra gloriosa Costituzione è inesorabilmente invecchiata, perché delle due ideologie che la ispirarono una si è affievolita, e l’altra è addirittura scomparsa. Il cattolicesimo, rappresentato dalla firma di Alcide De Gasperi, si è secolarizzato, e Dio, anche nella liturgia, si sta stemperando in una vaga entità equa e solidale. Mentre il marxismo, sigillato dalla firma di Umberto Terracini, si è rivelato una caricatura grottesca, e talvolta sanguinaria, di un egalitarismo utopistico. Rimane, nella Costituzione, la firma di De Nicola, che avrebbe dovuto introdurre una componente liberale. Ma di liberale in essa c’è poco, e quel poco è imbastardito dal compromesso formale tra le due chiese maggioritarie, cosicché ogni nobile principio è temperato da puntigliose eccezioni. La libertà personale è inviolabile, ma può esser limitata dall’autorità giudiziaria e, provvisoriamente, da quella di pubblica sicurezza. Altrettanto inviolabili sono il domicilio e la segretezza delle conversazioni, ma in casi particolari sono ammesse incursioni invasive. E così la libertà di riunione, che può esser vietata, la libertà di stampa, che può esser compressa, l’iniziativa economica, che può esser limitata, e infine la proprietà privata, che però deve avere - Dio sa come - una funzione sociale. La nostra Costituzione è un continuo ripensamento di concetti troppo conservatori per placare i progressisti, troppo arditi per gratificare i conservatori, e troppo confusi per convincere ambedue. E se è vero che questo bilanciamento di interessi si trova in tutti i Paesi, è altrettanto vero che soltanto da noi ha assunto una tale alterazione di equilibri da invertire il rapporto tra regola ed eccezione. L’esempio più clamoroso è costituito dalle intercettazioni telefoniche e ambientali. Se ne fanno in un anno circa 150 mila: quasi tutte hanno coinvolto persone ignare e innocenti, alcune hanno coinvolto anche parlamentari e sfiorato un paio di presidenti della Repubblica. Dopo essere state sapientemente selezionate e mutilate sono state consegnate alla stampa, con grave danno di immagine anche per persone estranee al processo.  Di fronte a questa vergogna è difficile pensare che il primo comma dell’art. 15, che fissa la regola della segretezza delle comunicazioni, non ne costituisca piuttosto l’eccezione: la piccola parte di liberalismo che ornava la nostra Costituzione si è decomposta sotto i colpi di una parte della magistratura esaltata dalla sua missione sacerdotale. Ma che significa concretamente adottare i principî dell’illuminismo liberale? Significa essenzialmente questo: abbandonare la funesta utopia del cosiddetto Stato etico, che fino ad ora ha condizionato il nostro ordinamento attraverso il connubio di teorie apparentemente incompatibili: il fascismo, il cattolicesimo e il marxismo, concordi nel considerare il cittadino una creatura da istruire e tutelare, per assoggettarlo rispettivamente allo Stato, alla Chiesa e al Partito. L’esempio più significativo è rappresentato proprio dalla disciplina dell’agevolazione al suicidio, oggi sotto la lente dell’interprete, della Corte costituzionale e del legislatore. Il nostro codice penale che, ricordiamolo, è del 1930 ed è frutto dell’ideologia mussoliniana, ne dà una soluzione con essa coerente. Il suicidio in quanto tale non è un crimine: non perché il suo autore, morendo, estingua il reato, ma perché non è previsto il tentativo, come invece avviene per l’omicidio, il furto ecc. E’ invece punibile, e assai pesantemente, la sua istigazione e l’agevolazione. Questo perché, come si legge nella relazione di accompagnamento, la vita appartiene allo Stato, e chi aiuta il suicida sottrae alla Patria una risorsa civile, economica e militare. In effetti quella norma (l’art. 580) è rimasta indiscussa finché non ci si è ricordati dell’art. 32 della Costituzione, che ha sancito il diritto all’autodeterminazione. Cosicché, dopo una serie di interventi giurisprudenziali, nel 2017 è stato finalmente disciplinato il principio del consenso informato e delle disposizioni di fine vita: se il malato rifiuta le cure, nessuno lo può costringere, e la scelta di vivere o morire dipende solo da lui. La conseguenza, a rigor di logica, dovrebbe essere che la vita è un diritto disponibile. E invece non lo è: cosicché chi intenda porre fine dignitosamente a una vita intollerabile deve recarsi all’estero, e chi lo aiuti in questo doloroso percorso (vedi il caso Cappato) rischia l’incriminazione. Ebbene, questa norma - come tante altre - benché frutto di un sistema totalitario ha retto, e continua a reggere, dopo 75 anni dall’introduzione della Costituzione. E la ragione è quella menzionata prima: che la vita non è considerata un bene individuale ma collettivo, e che il suo titolare risiede al di fuori della nostra autodeterminazione: per il codice penale, di matrice hegeliana, è lo Stato etico; per il marxismo è lo stato sociale; e per la Chiesa è Nostro Signore. Per quest’ultima, tra l’altro, la vita è un dono di Dio. Se così fosse, dovrebbe essere un diritto disponibile, perché il donatario può far ciò che crede del regalo ricevuto, altrimenti più che un dono sarebbe un usufrutto. Ma, al di là di queste sottigliezze, rimane il principio fondamentale: che tanto per il codice quanto per la Costituzione la sorte dell’individuo è vincolata a tre fonti eteronome, che hanno in comune il fermo proposito, di occuparsi della felicità e della redenzione individuale. Ma mentre la fede cattolica propone una visione escatologica e una finalità trascendente, e quindi non soggetta a smentita, le fedi immanenti, fascista e marxista, sono state travolte da un fallimento globale; eppure la tentazione di insegnare agli uomini come esser felici, attraverso la mediazione della politica, continua a serpeggiare tra i nostalgici di queste dottrine desuete.  Lo Stato liberale non ha queste immaginazioni infantili. Prendendo atto dei limiti e dei difetti della nostra imperfetta natura, non pretende di assicurare la felicità ma soltanto di garantire il diritto a procurarsela, attraverso quella libertà economica, religiosa e culturale, nella cui esplicazione lo spirito umano si realizza secondo le sue aspirazioni e le sue possibilità, con la sola imposizione, doverosa e solidale, di una redistribuzione della ricchezza che inevitabilmente si accumula in misura ineguale nelle persone più dotate nel progettarla, più spregiudicate nel perseguirla, e più egoiste nel mantenerla. E la garanzia dello svolgimento di queste attività in modo libero, pacifico e ordinato, sta proprio nella legge: in quella fondamentale, la Costituzione, e in quelle ordinarie, a cominciare dai codici. Una volta adottata una Costituzione realmente liberale, si dovrà infatti prendere atto che le nostre leggi sono troppo numerose per essere conosciute, e troppo contraddittorie per essere applicate. (…) L’oscurità delle leggi è aggravata dall’indecisione e dalle incertezze di tanti anni di politica oscillante e ondivaga. Abbiamo disposizioni severe e attitudini perdoniste, una voce grossa e un braccio inerte, una giustizia lunga e il fiato corto: vogliamo intimidire senza reprimere e redimere senza convincere. Siamo anche un po’ ipocriti; contrabbandiamo la nostra accoglienza dei migranti come carità cristiana, mentre si tratta solo di impotenza e rassegnazione davanti alle spregiudicate strategie delle organizzazioni criminali. Abbiamo decretato l’espulsione di decine di migliaia di clandestini, ma di fatto ne abbiamo rispediti indietro una trascurabile minoranza. Abbiamo guadagnato il loro rancore e perso la nostra fiducia. La riforma radicale e per certi aspetti rivoluzionaria di uno Stato liberale si propone di affrancare il cittadino dall’abbraccio soffocante dello Stato, di favorirne l’avvicinamento attraverso una semplificazione dei diritti e dei doveri, e, per quanto riguarda la giustizia penale, attuare il garantismo nella sua duplice funzione: la presunzione di innocenza e la certezza della pena. Non si tratterebbe di un ripudio delle quattro componenti della nostra tradizione culturale: al contrario, sarebbe una loro armonizzazione secondo lo spirito del tempo. La retribuzione sanzionatoria di origine giudaica, si coniugherebbe con il principio di legalità greco-romano, mentre l’attitudine rieducativa della pena, mai contraria al senso di umanità, coronerebbe l’ideale cristiano, della redenzione dopo l’espiazione. Mobilitazione. “È ora di mettere al bando il boia. Uno sforzo comune per la moratoria” di Alessia Guerrieri Avvenire, 1 dicembre 2022 Con il Colosseo illuminato di luci colorato prosegue la campagna di Sant’Egidio per abolire le condanne capitali. Impagliazzo si appella agli Usa: Biden sia capofila di questa battaglia. Il simbolo di un pollice luminoso che ognuno agita in aria. Davanti, il Colosseo inizialmente al buio e poi di colpo colorato di luci per dire no alla pena di morte. Per gridare con forza che il momento è ora. È il momento di schierarsi con la vita. E lo si fa proprio forte delle “buone notizie” che vengono da anni di impegno contro la pena capitale. Ad oggi, infatti, in 143 Paesi il boia non lavora più, in particolare negli ultimi anni 10 Stati americani e 5 in Africa hanno scelto di non eseguire più pene capitali. Quella di Roma è solo la prima tappa del movimento “Città per la vita, Città contro la Pena di Morte”, l’iniziativa portata avanti dalla Comunità di Sant’Egidio per chiedere l’abolizione della pena di morte nel mondo. Ieri sera, proprio nel giorno in cui nel 1786 venne abolita per la prima volta la pena di morte in uno Stato, il Granducato di Toscana, dal piccolo palco allestito di fronte al Colosseo arriva un appello forte fatto dal responsabile della comunità trasteverina, Marco Impagliazzo. “Il nostro appello è rivolto al presidente americano Joe Biden, gli chiediamo di assumere la guida morale per commutare la pena a tutti quelli che si trovano oggi nel braccio della morte negli Stati Uniti. Gli chiediamo di guidare una moratoria delle esecuzioni, affinché poi si possa immaginare anche di abolire la pena capitale a livello federale”. Dimentichiamo troppo spesso che il Continente europeo è l’unico ad essere totalmente abolizionista sulla pena capitale. A ricordarlo il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, insieme al fatto che “l’Europa è una comunità di valori che mette al centro la persona e i suoi diritti, per questo possiamo dirci fieri di essere europei”. Il punto centrale da cui partire è che “essere contro la pena di morte non significa essere lassisti oppure non credere nella certezza della pena”, continua il responsabile della Farnesina, ma essere contro la pena di morte significa permettere a chi ha sbagliato di “pentirsi e di essere utile agli altri”, è una “questione di civiltà, deve esserci sempre un diritto al riscatto”. Le amicizie di penna con gli ergastolani in questi anni portate avanti dai volontari della Comunità di Sant’Egidio confermano che tanti innocenti o pentiti potrebbero finire sulla sedia elettrica. Come Herman Lindsey, ex detenuto per tre anni nel braccio della morte in Florida poi dichiarato innocente. Le manifestazioni per la vita, aggiunge Impagliazzo, “sono un potente segnale rispetto alla logica della punizione e della vendetta e per dimostrare che la pena di morte non dà giustizia ma perpetua la logica dell’odio, così come la guerra non risolve le questioni ma aumenta le contese internazionali”. Un messaggio che anche l’assessora all’Ambiente Sabrina Alfonsi, in rappresentanza del Campidoglio, ha voluto sottolineare per dire che “Roma si schiera per la vita e si batte per i diritti di tutti nel mondo. La pena di morte è una punizione disumana e ingiusta, speriamo non venga applicata più. Roma c’è”. E anche i giovani di European for peace ci sono. Lo ribadisce Agnese con le sue parole: “Questa lotta non può interessare solo i governati, ma deve coinvolgere tutti. Il momento è ora, per questo diciamo sì alla vita e no alla pena di morte”. Migranti. Salvini, Minniti e Mogherini denunciati all’Aja per “crimini contro l’umanità” Il Dubbio, 1 dicembre 2022 L’iniziativa parte dalla Ong di giuristi Ecchr, che insieme a Sea-Watch ha presentato una comunicazione alla Corte penale internazionale per fare luce sul sistema delle intercettazioni in mare e collaborazione con la Libia. Matteo Salvini, Marco Minniti, Federica Mogherini: sono i tre esponenti politici e “alti funzionari” italiani denunciati alla Corte penale internazionale (Cpi) dall’European Center for Constitutional and Human Rights (Ecchr) affinché questa indaghi su “crimini contro l’umanità nei confronti di migranti e rifugiati, intercettati in mare e sistematicamente riportati e detenuti in Libia”, dove sono sottoposti a “detenzione sistematica”. L’Ecchr - ong di giuristi che ha sede a Berlino, si occupa di diritti umani e ha messo a punto un dossier con il sostegno di Sea-Watch - ha inoltrato all’Aja una comunicazione (definizione tecnica che indica una denuncia, ndr) ex articolo 15 Statuto di Roma. In essa si chiede alla Cpi di “indagare sulla responsabilità penale individuale di funzionari di alto livello degli Stati membri dell’Ue e delle agenzie dell’Ue in merito a molteplici e gravi privazioni della libertà personale, risultanti da operazioni di intercettazione in mare tra il 2018 e il 2021”. “Tra i presunti co-autori - spiega l’Ecchr - figurano politici europei di alto livello tra cui gli ex ministri dell’Interno italiani, Marco Minniti e Matteo Salvini, l’attuale e l’ex Primo Ministro di Malta, Robert Abela e Joseph Muscat, l’ex Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, l’ex direttore esecutivo di Frontex, Fabrice Leggeri, nonché membri dei Centro di Coordinamento del Soccorso Marittimo italiano e maltese e funzionari di Eunavfors Med e del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae)”. Si tratta - spiega all’AGI l’avvocata dei diritti umani Chantal Meloni, consulente di Ecchr che ha in passato ha lavorato alla Cpi - di far luce sul “sistema delle intercettazioni in mare dei migranti e sulla esternalizzazione” della gestione dei flussi messa in atto dall’Ue affidandola alla “cosiddetta Guardia costiera libica, fornendo finanziamenti, motovedette, attrezzature e formazione, nonché partecipando direttamente a singole operazioni di intercettazione in mare, ad esempio fornendo informazioni sulla posizione delle imbarcazioni in pericolo”. Tutto ciò ha configurato un “ruolo decisivo che alti funzionari dell’Ue svolgono in relazione alla privazione della libertà personale a cui sono sottoposti migranti e rifugiati in fuga dalla Libia”. La denuncia si basa su prove e testimonianze dirette raccolte da Sea-Watch e da altre organizzazioni di soccorso marittimo e della società civile, oltre che da giornalisti investigativi, ed esamina dodici episodi di “privazione della libertà personale, che hanno avuto origine in mare, mettendo in luce la responsabilità individuale di funzionari di alto livello”. “Tali operazioni - sostiene la ong - si inseriscono in un sistema diffuso di sfruttamento, che prende di mira tali gruppi vulnerabili in Libia. La Corte penale internazionale deve pertanto indagare sulla collaborazione tra questi operatori europei e libici e assicurare i responsabili alla giustizia”. “L’attuale sistema di supporto da parte dell’Ue alle capacità e alle operazioni della cosiddetta Guardia costiera libica lungo la rotta del Mediterraneo centrale- afferma Andreas Schueller, direttore del programma di International Crimes and Accountability presso l’Ecchr - non sta salvando vite umane. Le prove fornite nella denuncia indicano che queste operazioni potrebbero configurarsi come crimini contro l’umanità consistenti in gravi privazioni della libertà personale. Il trattamento disumano e le condizioni di detenzione di migranti e rifugiati in Libia sono ben noti da molti anni. La Libia non è un luogo sicuro per migranti e rifugiati. Il diritto marittimo internazionale prevede che le persone soccorse in mare debbano essere sbarcate in un luogo sicuro. Nessuno dovrebbe essere riportato in Libia dopo essere stato soccorso in mare”. Lo scorso anno la ong aveva presentato una denuncia analoga alla Cpi, ma “mentre quella comunicazione - spiega l’Ecchr - verteva principalmente sulla responsabilità penale individuale di operatori di alto livello in Libia per presunti crimini contro l’umanità commessi nei confronti di migranti e rifugiati nel contesto della loro detenzione e transito in territorio libico, la presente denuncia introduce nuovi elementi fattuali e giuridici attinenti alle operazioni attraverso le quali migranti e rifugiati in fuga dal territorio libico vengono intercettati in mare e riportati in Libia”. Nel corso di un anno sono giunte “informazioni e prove, tratte da dati disponibili pubblicamente e da materiale direttamente proveniente da organizzazioni di soccorso in mare, che indicano la presunta responsabilità penale di specifici individui, in particolare di funzionari di alto livello degli Stati membri e delle agenzie dell’Ue. Questi individui avrebbero agito sulla base di un piano comune che ha comportato la commissione dei crimini in questione, e sono quindi indicati come co-autori ai sensi dell’articolo 25 dello Statuto di Roma”. L’Ecchr chiede che sia posta “immediatamente fine a qualsiasi politica, finanziamento o programma da parte della Ue e dei suoi Stati membri finalizzati ad esternalizzare i confini europei e a contenere i migranti in Libia” e che si dia vita a “un’operazione Sar europea a carattere civile, non militare, finanziata e coordinata dagli Stati membri, che operi in tutta l’area del Mediterraneo nel rispetto del diritto marittimo e dei diritti umani e che adempia al dovere di prestare assistenza alle persone in difficoltà e di sbarcarle in un luogo sicuro”. Guerra in Ucraina, ucciso a Izyum lo scrittore per bambini di Corrado Zunino La Repubblica, 1 dicembre 2022 Volodymyr Vakulenko, 50 anni, attivista, è stato rapito due volte dai russi. Il suo corpo trovato in una fossa comune con altri 400. La madre aveva individuato i rapitori: “Suo figlio è stato mandato fuori dall’Ucraina”. Sotto un ciliegio l’ultimo diario: “Credo nella nostra vittoria”. Il 23 marzo, sapendo che gli invasori sarebbero venuti a prenderlo, ha scritto a mano trenta pagine di annotazioni. L’ultimo diario, righe fitte. Ha chiuso i pensieri, Volodymyr Vakulenko, in questo modo: “Ogni cosa sarà Ucraina! Credo nella nostra vittoria”. Ha seppellito il diario, con la sua icona comics in copertina, un guerriero e il suo spadone, sotto il ciliegio del giardino di casa e ha detto al padre: “Dallo alle nostre truppe quando arriveranno”. Il giorno dopo i russi lo hanno rapito: ammanettato nella sua cucina di Kapytolivka, un villaggio alla periferia di Izyum, l’Est caduto a inizio guerra. Lo hanno liberato e rapito ancora, ora in aprile. Volodymyr non scappava. Due giorni fa è arrivata la conferma dalle analisi del Dna: quel corpo sepolto con altri quattrocento uomini e donne senza nome, la tomba numero 319 di una fossa comune a ridosso di Izyum, era del poeta e scrittore e attivista Volodymyr Vakulenko-K, questo il suo nome da autore. La moglie Iryna lo ha riconosciuto dal tatuaggio sul braccio. La scrittrice Viktoria Amelina ha raccontato su Facebook gli ultimi giorni di libertà del romanziere amico. “Ho scavato io sotto il ciliegio”, e ha mostrato in rete l’ultima opera di un autore considerato in Europa e amato in tutta l’Ucraina. Vakulenko aveva pubblicato tredici libri. E vinto due premi letterari nazionali, uno, con il romanzo “Cemetery of Hearts”, è l’Oles Ulyanenko International Literary Award. Scriveva preferibilmente per i bambini, riferimento costante. Nel 2007 realizzò l’almanacco “Izumska Gora”, ispirato alle sue terre nel Kharkhiv. È stato editore, traduttore, membro di gruppi letterari e la sua “controletteratura” è stata restituita in sei lingue. Anche in russo e in tataro di Crimea. L’uomo, l’intellettuale, si è sempre speso per la questione ucraina, la causa dell’indipendenza. Ha partecipato alla Rivoluzione della dignità, con i tre giorni del febbraio 2014 trascorsi a Maidan, la piazza più importante di Kiev, e repressi luttuosamente dalla polizia. Quei giorni portarono alla fuga del presidente Viktor Yanukovich mentre lui, Vakulenko, venne ferito nel Parco Mariinsky. Dall’anno successivo avrebbe sposato l’attivismo politico e sarebbe così entrato negli archivi dei servizi russi. Era già successo con il giornalista-soldato di Leopoli, Viktor Dudar. E sono diversi gli sportivi, i ballerini ucraini, che in questi nove mesi di conflitto hanno prestato i loro corpi a una nazione e sono stati uccisi. I genitori hanno cercato Volodymyr per sei mesi. La madre, Olena, aveva scoperto il luogo di detenzione e ha provato ad avvicinare il comando che aveva operato nel suburbio di Izyum in primavera. Le hanno detto: “Suo figlio è stato portato fuori dall’Ucraina”. Non era vero. #SaveVakulenko è diventato un hashtag frequentato su Facebook fino a quando, l’inizio di settembre, Izyum, stremata, è stata liberata e le forze ucraine hanno scoperto una fossa comune enorme. Conteneva quattrocento corpi. I cronisti di Suspilne hanno poi ricostruito come il servizio funebre locale avesse segnato con il numero 319 la sepoltura dello scrittore. Volodymyr Vakulenko lascia due figli, uno disabile. Le sue trenta pagine disseppellite sotto il ciliegio ora sono al Museo letterario di Kharkiv. Qatar. Prime ammissioni sui lavoratori morti per le opere dei mondiali di calcio di Riccardo Noury Corriere della Sera, 1 dicembre 2022 Né tre ne “qualche decina”, come finora le autorità del Qatar avevano cercato di minimizzare. Nel corso di un’intervista al programma “Uncensored” condotto da Piers Morgan, il segretario generale del comitato supremo dei Mondiali di calcio del Qatar, Hassan al Thawadi, ha affermato che 400-500 lavoratori migranti sono morti durante la costruzione degli impianti sportivi. Una prima ammissione lontana dai numeri delle inchieste giornalistiche, secondo le quali i morti sarebbero stati migliaia, ma che ha spinto il comitato supremo a emettere una nota per chiarire che quelle cifre si riferivano alle statistiche nazionali, relative al periodo 2014-2020 e riguardanti tutti gli incidenti mortali sul lavoro, a prescindere dal settore d’impiego e dalla nazionalità. Che migliaia di lavoratori giunti in Qatar per uscire dalla trappola della povertà nei paesi di origine siano lì tornati in una bara è un fatto innegabile. Ma senza indagini complete il numero esatto dei lavoratori che hanno perso la vita in Qatar non si conoscerà mai. Al di là delle cifre discordanti, resta un fatto: le famiglie dei lavoratori deceduti in Qatar non hanno ricevuto spiegazioni e le loro richieste di verità, giustizia e risarcimenti restano ancora inascoltate da chi, come la Fifa, ha un’enorme responsabilità per quanto è accaduto.