Più cultura che carcere e più cultura in carcere. Nello spirito. della Carta di Giovanni Maria Flick* Il Dubbio, 19 dicembre 2022 Riportiamo di seguito la relazione esposta dal presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick all’incontro “Dieci anni con lo sguardo di dentro. Carcere: il potere della cultura”, tenuto lunedì 12 dicembre scorso presso la Sala Teatro di Rebibbia. Le questioni presentate nel testo sono state oggetto anche dell’intervento che lo stesso presidente Flick ha svolto nell’ambito del seminario Cesp “Carcere: il Potere della Cultura” del 9 luglio 2022 nell’ambito del 65° Festival dei Due Mondi di Spoleto. Il quadro rappresentato nell’introduzione a questo seminario è interessante e suggestivo, ma la realtà del carcere rimane drammatica. Abbiamo questioni legate a più problemi: sovraffollamento, necessità di intervenire nell’organizzazione del carcere, necessità di individuare una politica penitenziaria, di assicurare efficienza nell’organizzazione, necessità di formazione del personale, di tutelare la salute e di migliorare le condizioni della qualità della vita in carcere. Questi problemi richiedono un intervento a diversi livelli: infatti la storia del carcere come pena emblematica è legata al progressivo percorso della pena come vendetta pubblica, che si sostituisce a quella privata, e al discorso della “rieducazione” e alla tolleranza di una giustizia riparativa che si sta cercando di portare avanti. La costituzionalizzazione del sistema penale ci pone di fronte a due alternative: l’alternativa della punizione e riparazione; l’alternativa della riconciliazione tra il colpevole, la vittima, la società. Questo discorso ha subìto uno stress molto pesante attraverso le tematiche della pandemia, ma vediamo di risistematizzarle. La pandemia ci ha consegnato due profili di diseguaglianza e di contraddittorietà: da un lato la solitudine degli anziani e, dall’altro, la solitudine dei detenuti. Questo fa venire in mente un tema di fondo della saggezza africana che ci dice che “quando muore un vecchio è come se bruciasse una biblioteca”, e questo è un discorso interessante anche sotto il profilo del lavoro che la Rete delle Scuole Ristrette sta facendo, e di uno dei traguardi che vi state ponendo, quello di una biblioteca in ogni carcere. È un discorso che si collega direttamente al tema della cultura in carcere e al tema dello studio in carcere, perché l’altro tema che evocate è quello del rischio che la scuola e la cultura vengano compresse. Ciò risulta da alcuni esempi come quello dell’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Bologna, nella quale, per motivare il rifiuto della detenzione domiciliare per ragioni di salute a un detenuto appartenente alla criminalità organizzata, si aggiunge anche che, avendo preso una laurea e conseguito un master in carcere, questo avrebbe potuto acuirne la pericolosità. Questo discorso dello stress della pandemia e dei problemi che si pongono oggi in carcere va confrontato con una Costituzione che, pur avendo settantacinque anni, è estremamente attuale. All’Art. 2 ci parla dei diritti inviolabili, ma anche dei doveri inderogabili di solidarietà che devono svolgersi con riferimento alla vita, sia del singolo in quanto tale, sia del suo divenire persona attraverso le “formazioni sociali”, e il carcere è una “formazione sociale”. Poi l’Art. 3 ci parla di pari dignità di tutti compresi i “diversi” che stanno in carcere e integra l’Art. 27 della Costituzione che pone due fini al carcere, la tendenza alla rieducazione e il rispetto del senso di umanità. Altre norme contenute nella Costituzione e collegate alle precedenti sono l’Art. 32 sulla salute, l’Art.33 sul diritto all’istruzione, gli Articoli 34, 35 e seguenti sul diritto al lavoro. Un discorso, questo, che deve tener conto dell’amplissimo sviluppo tecnologico che ha accompagnato quest’ultimo periodo e del rischio che in questo contesto le risorse tecnologiche a disposizione per la gestione del carcere, finiscano per comprimere i profili di libertà e di sicurezza che la Corte Costituzionale chiama “residui di libertà”, con un termine che a me non piace molto perché in questo momento è essenziale nella prospettiva di una logica di efficienza e di profitto. Qual è, dunque, il nuovo modo di affrontare il carcere che sembra garantisca e assicuri grosso modo a un 30% di persone di non avere recidiva e non tornare in carcere. È possibile cambiare questa prospettiva? Serve ancora il carcere come viene gestito e utilizzato da noi in Italia? Qual è lo spazio che la cultura può e deve avere in un carcere di questo genere? Il problema di fondo è trovare un equilibrio tra i termini di libertà e di sicurezza, attraverso la responsabilità, perché si dimentica troppo spesso che le connotazioni essenziali di sviluppo della persona, nel passaggio dall’individuo come singolo alla sua realtà di persona con gli altri, sono tre: la dimensione dello spazio fisico affettivo familiare sociale; la dimensione reale e virtuale; la dimensione culturale. Basta pensare al tema dell’architettura in carcere nel quale la “cella” non può essere ridotta a un problema di metri quadri o di discussione in Cassazione se i servizi debbano essere computati nei minimi di spazio previsto dalle regole penitenziarie. Anche l’ergastolo è una pena incostituzionale per come è proclamata “fine pena mai” e che diventa costituzionale solo nella misura in cui, a un certo momento, interviene la possibilità di farlo cessare, seppure dopo un determinato tempo e con verifica del recupero della responsabilità della persona. Un ergastolo con “fine pena mai” o nel quale l’unico modo di uscire sia la “collaborazione” a me sembra abbia pesanti dubbi di costituzionalità. La dimensione tempo spazio, che nel carcere viene ampiamente sacrificata, è una dimensione che va affrontata e va tenuta presente proprio per passare da quella concezione della pena come “retribuzione” detta sociale, alla pena come “riparazione” e recupero di responsabilità. Quindi entra in gioco anche l’articolo 9 della Costituzione, quello che parla dell’ambiente ma, soprattutto, del passato e del futuro della persona: la Repubblica tutela il patrimonio pubblico e artistico, ma la Repubblica tutela anche il progetto del futuro e dell’ambiente, e questa tutela è realizzata anche, sempre attraverso l’articolo 9, per la cultura, che è la chiave per capire il passato e progettare il futuro in una quotidianità che dovrebbe umanizzare il carcere. Nella pronuncia del Tribunale di sorveglianza di Bologna, si dice con parole pesanti e ben motivate, senza entrare nel merito del diniego della detenzione domiciliare, che conoscere e studiare possono aumentare la capacità criminale del detenuto: si arriva al paradosso che le madri non diranno più ai figli! studia perché altrimenti vai in carcere” ma “non studiare perché altrimenti vai in carcere”. Pende ancora oggi un ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo proprio su questo profilo di motivazione, per capire se si può in questo modo intervenire e limitare la libertà personale con una limitazione connessa allo studio e alla capacità e alla possibilità di studiare. In un contesto in cui io credo sia assolutamente necessario, invece, assicurare in carcere uno spazio molto ampio di cultura che possa aiutare a integrare e, in qualche modo, riparare le diminuzioni inevitabili che la pena porta alle altre dimensioni: esterne, spaziali, temporali. Evidenziare il rapporto con la pandemia è necessario proprio perché si è arrivati a sostenere che il carcere era il luogo più sicuro per non contrarre il Covid 19. Paradossalmente la situazione migliore diventava quella del 41 bis: non vedi nessuno, non incontri nessuno, non hai contagi. Mi lasciava molto perplesso la differenza tra chi era “fuori” e chi era “dentro”, perché a chi è fuori viene impedito il contatto sociale, viene imposto il distanziamento sociale, vengono vietati gli assembramenti, si limita la libertà di circolazione delle persone. Chi è dentro il carcere, invece, è sottoposto a una situazione di convivenza coatta, e tutto questo ci rivela un problema di fondo: che occorre portare la cultura in carcere, ma, prima ancora, bisogna portare il carcere nella cultura, cioè bisogna far capire alle persone che il carcere non è né un hotel a cinque stelle, né una tomba nella quale isolare la persona buttando la chiave. Questo è il discorso che mi pare essenziale e che porta, per quanto riguarda la dimensione esterna al carcere, alla necessità di accettare il rischio che chi sconta la pena al di fuori del carcere torni a commettere reati. Potrebbe farlo, bisognerebbe far di tutto, però, per non fargli sentire quel sentimento di solitudine all’uscita, anche se non si può impedire il rischio di una recidiva. Però, poi, la cultura deve entrare non solo fuori per far capire cosa è il carcere, ma deve entrare dentro il carcere utilizzando la scuola, che è un diritto fondamentale per tutti, perché cultura vuol dire evitare che il decorso del tempo, la mancanza di lavoro, aggravi la situazione di chi sta subendo una grave penalizzazione di quelle caratteristiche spaziali e temporali. La cultura giuridica, a proposito della pena carceraria, ha attraversato quattro fasi: 1) la pena è stata in un primo momento la vendetta pubblica che sostituiva la vendetta privata; 2) poi è diventata un problema di rapporto tra il colpevole e la vittima, il risarcimento del danno alla vittima e alla società, secondo la logica che a dolore si risponde con dolore; 3) poi è arrivata la rieducazione, dove il carcere deve portare la persona, che ha commesso un reato e ha subito una pena, a poter rientrare nella società; 4) l’ultimo stadio, quello più importante cui stiamo puntando, è quello della riparazione del danno. Lo stress della pandemia ha creato grandi problemi sotto questo profilo: io mi auguravo che la pandemia potesse destare sentimenti di maggior solidarietà nei confronti di chi è dentro il carcere. Non è stato così, anzi, c’è stata una serie di iniziative, soprattutto a livello di una opinione pubblica succube di una strumentalizzazione che evocava liberazioni di massa della criminalità organizzata e via dicendo. Ho l’impressione che proprio questo abbia portato a quella differenza di trattamento e diseguaglianza che, se per gli anziani vedeva come traguardo la morte in solitudine, senza poter avere vicino i parenti per poter evitare il contagio, per i detenuti vedeva carcere, carcere, e ancora carcere perché lì sono tranquilli e non prendono il contagio, non avendo rapporti con l’esterno, senza considerare che il sovraffollamento continuava a operare come prima, anzi, più di prima. Situazione paradossale quella della pandemia che ha portato alcuni a dire “gli anziani in solitudine, i detenuti in carcere, i ragazzi non a scuola, le donne in casa, i migranti e i profughi fuori dai piedi”. Questo è il rischio che abbiamo subito e stiamo subendo con la pandemia. Ricorderete tutti che vi era stata una tendenza ad affrontare il problema del carcere attraverso gli Stati generali dell’esecuzione penale, attraverso un’analisi fin troppo ampia di tutti i problemi connessi alla realtà carceraria, con una serie di incontri di commissioni di studio che avevano lavorato per circa un anno: aveva prodotto dei risultati che sono, però, naufragati, con il cambio di maggioranza e le nuove elezioni. Adesso vi è un’altra iniziativa che io seguo con grande attenzione e interesse, quella cioè di chi propone di intervenire sul carcere (se non riusciamo a intervenire con le leggi) nella quotidianità penitenziaria, un intervento sulle regole amministrative e cioè su tutte le regole della vita all’interno del carcere, con la possibilità di modificare - anche tenendo conto della tecnologia che ha fatto passi da gigante - e di risolvere i problemi della sicurezza e dell’ordine in carcere attraverso tecniche che rispettino quel minino di spazio, di privacy che ognuno deve avere anche in quella sede (commissione Ruotolo). Accanto a questo si pongono il problema della salute, quello della tutela dei diritti che non sono “residui di libertà”, ma sono i diritti fondamentali che spettano a coloro che siano stati privati, anche giustamente, della libertà. Questo discorso è estremamente importante per quanto riguarda l’istruzione in carcere, perché l’istruzione deve tutelare la pari dignità sociale che lo Stato deve assicurare a tutti, anche ai cosiddetti “diversi”. Il carcere non è una discarica sociale nella quale rinchiudere le persone gettando la chiave, il carcere è una privazione che deve essere temporanea, nella quale la libertà viene sacrificata, ma che dovrebbe essere limitata a chi veramente ha caratteristiche o momenti di aggressività o di pericolosità per gli atti commessi, e non adottata come misura indiscriminata in un sistema che sta sempre più diventando panpenalistico, perché pensa di risolvere il discorso del “dissenso sociale” solo ed esclusivamente, o principalmente, attraverso il carcere. È un discorso che trova riscontro anche a livello europeo nelle regole penitenziarie, un discorso che è stato ampiamente discusso nella commissione del prof. Ruotolo che ha concluso recentemente i propri lavori, attraverso la necessità sottolineata di migliorare il tempo della pena attraverso le prospettive di uno sviluppo mediante il lavoro e l’istruzione. Mi auguro che non ci si limiti a parlare di questo discorso senza affrontarlo concretamente, mi sembra che l’idea di andare a cercare le modifiche nella quotidianità sia un primo passo abbastanza importante, ma mi sembra, soprattutto, che occorra attuare quel discorso di portare la cultura in carcere, le biblioteche in carcere, portando nella cultura di questo paese - cosa che in questo momento manca profondamente, anche per quei motivi che portano a privilegiare la sicurezza sulla libertà - un carcere a dimensione umana e, soprattutto, un carcere come extrema ratio, proprio quando non se ne può fare a meno. *Presidente emerito della Corte Costituzionale “A noi ergastolani ostativi lo Stato non lascia alternative: morire in carcere, farsi uccidere o fare ammazzare qualche familiare” di Valentina Stella Il Dubbio, 19 dicembre 2022 Parla Salvatore Pezzino, detenuto da circa 40 anni, che aveva chiesto l’accesso alla liberazione condizionale: la Cassazione aveva sollevato il dubbio di legittimità costituzionale ma la Consulta ha rimandato la decisione alla Suprema Corte. Se è vero che la Corte Costituzionale è il giudice delle leggi, allo stesso tempo è altresì vero che le decisioni che assume ricadono sui cittadini. È il caso di Salvatore Pezzino, detenuto che, seppur ergastolano ostativo, aveva chiesto l’accesso alla liberazione condizionale e la Corte di Cassazione (relatore il consigliere Giuseppe Santalucia, Presidente dell’Anm) aveva poi sollevato dubbio di legittimità costituzionale. Come sia andata a finire ve l’abbiamo raccontato spesso. L’ultima tappa, solo in ordine di tempo, è la decisione della Consulta di rinviare tutto in Cassazione, pur avendo scritto che l’ergastolo ostativo è incompatibile con la Costituzione. Oggi però vogliamo dare voce al signor Pezzino in carcere da circa 40 anni, da quando aveva 22 anni. L’uomo è finito in prigione per diverse condanne: tentato omicidio, rapina aggravata, omicidio con l’aggravante dell’associazione mafiosa. Insomma, per qualcuno è il male assoluto. Eppure è cambiato, si è ravveduto e oggi, anche se a fatica, guarda al futuro. Adesso è rinchiuso a Tempio Pausania: abbiamo potuto raccogliere i suoi pensieri grazie all’intermediazione epistolare del suo avvocato Giovanna Araniti, che da anni si batte in tutte le sedi per ridare una speranza di libertà al suo assistito. Lei è in carcere dal 2 dicembre 1984. Quasi quarant’anni. Cosa significa stare tutto questo tempo in una cella? Spiegare come si sopravvive decenni in uno spazio vitale spesso al di sotto dei due metri quadrati non è facile. Forse è il non voler morire a nessun costo, andare avanti contro ogni logica, oppure la vita è così bella da essere vissuta in qualsiasi modo. Non c’è nulla di umano in una cella, che è una gabbia a tutti gli effetti. Gli animalisti contestano gli zoo perché è disumano tenere gli animali in gabbia che fanno avanti e indietro in modo ossessionante. Lo stesso fanno i carcerati nelle celle ma nessuno obietta. Negli anni gli addetti ai lavori sono stati bravi a modificare i termini sicché le “carceri-zoo” vengono chiamati Istituti e le “celle-gabbie” stanze di pernottamento. Durante gli anni trascorsi ad affrontare i processi ho avuto un crollo totale, rabbia, odio, disperazione. Ho pensato alla morte per molto tempo, ci parlavo, ci ragionavo, e credo di esserci arrivato a un passo, ma non sono capace di fuggire, voglio arrivare fino in fondo. Così mentre ero in isolamento a Sulmona per circa un anno senza parlare e vedere nessuno, imbottito di psicofarmaci e sedativi, ho deciso di vivere, anche se ogni forma di orgoglio e dignità veniva sbriciolata. Lei è stato ospite di diversi istituti di pena. È d’accordo nel dire che spesso le condizioni di vita sono disumane e degradanti? La risposta è molto facile: tutte le carceri sono disumane e degradanti. Le riforme vengono tenute nei cassetti, le leggi ci sono ma non vengono applicate. Qualche esempio: impianti di riscaldamento inefficienti, ventilatori inesistenti quasi dappertutto; le carceri d’estate sono forni e d’inverno freezer. Qual è stato il carcere peggiore dove è stato rinchiuso? C’è l’imbarazzo della scelta. I trasferimenti sono stati quasi tutti punitivi e casualmente finivo sempre in super carceri punitivi. Negli anni 80 non conoscevamo le riforme né avevamo consapevolezza della “umanizzazione della pena”, sicché carceri come l’Ucciardone con le bocche di lupo in pietra (nel sistema carcerario le bocche di lupo sono delle strutture collocate all’esterno di piccole aperture presenti nel muro in modo da permettere solo il passaggio dell’aria. Erano in uso nelle prigioni medievali, ndr) alle finestre e 20 ore chiusi in cella a fumare e giocare a carte era la normalità. Oppure nella famigerata “diramazione Fornelli” dell’Asinara dove c’era soltanto un bagno alla turca, l’acqua non era potabile, si andava a colloquio con i familiari con gli indumenti dell’amministrazione per distinguere sempre i detenuti dai civili (io per cinta avevo un pezzettino di spago e una scarpa senza tacco). Ma tutti lavoravamo con una paga di circa 700-800 mila lire al mese e si aveva la sensazione di libertà perché non c’era muro di cinta ed eravamo in campagna e poi in estate ci facevano fare un bagno settimanale al mare scortati dalle guardie. Cominciando a capire le riforme e facendo pressioni sugli operatori trattamentali affinché le carceri divenissero luoghi di “attività” e non di “apatia” ovviamente con l’aiuto dei volontari e delle Associazioni la nostra mentalità cominciò a cambiare, ma non quella di tutti gli operatori. Purtroppo in alcune carceri continuano i pestaggi in isolamento e ‘celle lisce’: non si capisce più chi sono le guardie e chi i criminali. Un carcere di questo tipo è in grado di rieducare? Rieducare in queste condizioni non è pensabile. Devo ammettere per onestà che ho conosciuto educatori, assistenti sociali, agenti di polizia penitenziaria, magistrati di sorveglianza onesti, professionali ed umani. Ma sono pochi. Il detenuto ha bisogno di avere fiducia e di essere preso in considerazione. Occorrono riferimenti culturali che non siano criminogeni contro i detenuti stessi: ci vogliono figure esterne con cui poter dialogare, confrontarsi, percepire i veri valori sociali ed umani e farli propri. Non si può rieducare un detenuto se per 30 anni lo si tiene alla catena costringendolo a odiare tutto e tutti. Da carnefice diventa vittima e lo Stato ha perso la sua funzione. Chi è l’uomo che è entrato in carcere e chi Salvatore Pezzino oggi? Ero un ragazzo tanto educato quanto spavaldo, arrogante, pronto sempre allo scontro con chiunque mi mettesse in discussione, con un livello culturale pietoso. Negli anni ho sempre cercato di migliorarmi e colmare questa carenza frequentando persone al di fuori dei contesti carcerari e studiare per quanto mi è stato possibile. La sofferenza mi ha fatto cambiare un po’ per volta, la vita mi ha imposto delle scelte da cui non si torna indietro. La pena peggiore è rendersi conto delle proprie azioni e doverci convivere tutta la vita. Non so più chi sono, il carcere ti spoglia di tutte la personalità e dignità (in questi 38 anni la demolizione psico-fisica ha fatto un lavoro devastante), sono certamente un uomo stanco, deluso da tutto e tutti e sono solo alla ricerca di un luogo sereno. Come è avvenuto il suo percorso di rieducazione? In carcere ho frequentato corsi, scuola, teatro con insegnanti e volontari. Mi hanno dato sempre la spinta per migliorarmi e dare un buon esempio di me. Loro mi hanno davvero motivato in modo incredibile a revisionare la mia persona per assumere comportamenti consoni ad una società civile. Cosa farebbe se un giorno riuscisse ad essere un uomo libero? Pensare di tornare ad essere un uomo libero mi crea molte contraddizioni al momento. Da molti anni avevo un pensiero fisso: tornare nella mia vallata dove un tempo c’era una fiorente azienda agricola e allevamento di bestiame. A causa del mio arresto e in seguito alla morte dei miei genitori e con la revoca della semilibertà nel 2000 tutto venne abbandonato e ridotto a canneti e rovi. Il mio programma di vita era di reimpiantare tutto e far ritornare la valle fiorente come un tempo. Ho avuto anche modo e tempo di diplomarmi in agraria (un altro traguardo raggiunto) e questo era diventato il mio chiodo fisso. Adesso ho molti dubbi, comincia a venirmi meno la voglia di libertà, come se la cosa mi lasciasse indifferente. Non si può reggere a oltranza uno stillicidio mentale, non si può accettare di essere uno strumento “politico-ideologico” per accontentare il partito di turno o il giudice di turno. Sono molto stanco, cerco di non mollare facendo appello a tutto il mio orgoglio, ma non trovo appiglio. Cosa risponde a chi si è detto contrario alla decisione della Corte Costituzionale, a chi vorrebbe che alcune persone rimanessero in carcere fino alla morte? “Buttare via la chiave”, “pena certa”, “ergastolo fino alla morte”: sono le frasi che tutti i familiari delle vittime hanno il diritto di dire. Non si può controbattere al dolore di un familiare, abbiamo l’obbligo di ascoltare in silenzio tutto il loro sfogo. Il dramma è che ciò viene sostenuto anche da politici e giudici: hanno giurato sulla bandiera e sulla Costituzione. I giudici dovrebbero essere terzi dinanzi alla persona che giudicano e gli uomini e le donne delle Istituzioni non sono i familiari delle vittime, sanno che le leggi sono imperfette (come l’uomo), che non c’è equità tra il reato e la pena irrogata, sanno che le strutture carcerarie sono un abominio (così come i crimini), che le pene senza sconti producono una percentuale altissima di recidivi, che la figura del magistrato di sorveglianza è stata istituita anche per rivedere, nel tempo, il percorso di un condannato nell’opera di rieducazione per modificare la sua pena se meritevole. Io non sto chiedendo pietà né qualcosa per cui non sia meritevole, mi guardo allo specchio e ritengo di chiedere un mio diritto, così come i giudici hanno l’obbligo di assumersi le responsabilità delle loro decisioni e non fare ‘scarica barile’ o seguire correnti per loro ambizioni di carriera. Un ergastolano una volta mi ha confessato: meglio la pena di morte al fine pena mai. Che ne pensa? I sentimenti che si provano nel chiuso di una cella per anni sono davvero inimmaginabili, non è facile tradurre a parole. Molti pensano alla pena di morte come risoluzione (per questo in carcere vi è un così alto numero di suicidi) ma a condizione che arrivi subito, non dopo 25 o 30 anni. Diventare un relitto umano dopo decenni di prigionia, un disadattato, perdere la ragione nella speranza di una libertà che non arriverà, ammalarsi per finire i giorni in una branda come un vegetale senza le cure adeguate, è certamente il peggio che può succedere ad un ergastolano. Per questo ci auguriamo un infarto fulminante. È pur vero che nel tempo qualcosa può succedere: a qualcuno è stata riconosciuta l’innocenza, ad altri la pena è stata commutata in 30 anni, altri ancora sono riusciti ad accedere ai permessi premio, quindi sono dell’idea che, seppur tra sconforto e sofferenza, il “gioco vada portato avanti fino alla fine” perché finché c’è vita c’è speranza, finché la lucidità regge. Vuole fare un appello al giudice di Cassazione che dovrà riesaminare il suo caso tra qualche mese? Vorrei rammentargli che da quando è stata varata la Legge Gozzini (ritenuta l’unica legge umana in Italia) con tutte le altre forme di misure alternative alla detenzione, decine di migliaia di detenuti si sono rifatti una vita, voltando le spalle al loro passato. La percentuale di recidiva è stata messa in conto e ben valutata: quella percentuale non si è mai lontanamente avvicinata alla soglia di guardia. Ciò che fa sempre scalpore in Italia sono i singoli casi - talvolta certamente crimini orrendi - che sono strumentalizzati da una certa parte politica e da una certa informazione per condizionare l’opinione pubblica per portare avanti una lotta di bandiera per accaparrarsi voti elettorali. Ma che io ricordi questo al giudice di Cassazione è irrilevante: ben conoscono i sistemi politici e le “ragioni di Stato” per cui l’emergenza criminalità viene sempre “ravvivata periodicamente”, come ha fatto adesso Giorgia Meloni. Vuole aggiungere qualcosa che ritiene importante dire? Spessissimo in televisione si vedono testimonianze di persone con il volto celato per paura di denunce, ritorsioni o perdita del lavoro. Ai detenuti per reati di mafia, che magari stanno facendo un percorso in solitaria per chiudere un capitolo negativo della loro vita senza ulteriori conseguenze, viene chiesto di mostrare la faccia per fare nomi e cognomi di ipotetici complici o ritenuti tali (e coloro che sono innocenti?) con la conseguenza che questo causerebbe gravi ritorsioni per sé stesso e i propri familiari. Sicché la questione diventa: morire in carcere oppure farsi uccidere o fare uccidere qualche familiare? Usare questi sistemi di vendetta o ritorsione politica, giuridica e sociale è un sistema abietto e criminale, al pari del criminale stesso. Un carcere più umano è un carcere più sicuro per tutti di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 19 dicembre 2022 È stato pubblicato il primo rapporto della Polizia penitenziaria della Lombardia. Un lavoro meticoloso (reperibile su Sistema penale, www.sistemapenale.it, rivista online diretta dal professor Gian Luigi Gatta) che consente di conoscere un mondo caratterizzato spesso dal pregiudizio e sottoposto il più delle volte a valutazioni superficiali, senza la conoscenza delle dinamiche che lo riguardano. Lo studio è stato curato da Roberto Cornelli, professore di Criminologia presso l’Università di Milano-Bicocca con una lunga esperienza nei settori della criminologia, della giustizia penale, della sicurezza urbana e della Transitional Justice. I contributi, oltre a quelli dell’accademico, sono di Chiara Chisari, Alessandra Sacino e Laura Squillace. L’indagine PolPen-XXI, è stata condotta dall’Università degli Studi di Milano-Bicocca (Dipartimento di Giurisprudenza), in collaborazione con il Prap-Lombardia e, come rileva il professor Cornelli, “costituisce la prima survey sul personale di Polizia penitenziaria condotta in una regione italiana, la Lombardia”. La valenza dello studio verte sull’analisi del punto di vista degli operatori e delle operatrici di Polizia penitenziaria, che ha consentito di aprire una discussione pubblica sul sistema penitenziario stesso, senza tralasciare l’esigenza di conoscere meglio le condizioni lavorative del personale. Roberto Cornelli è stato incaricato dal Provveditorato Regionale per la Lombardia-Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria-Ministero della Giustizia. La sua, è bene evidenziarlo, non è un’iniziativa isolata. Tutt’altro. Si inserisce all’interno di un più ampio progetto di ricerca accademico, che, a partire da quattro focus groups condotti con alcuni agenti - uomini e donne - provenienti da tutti gli istituti penitenziari milanesi, intende approfondire e far conoscere la gestione degli eventi critici nelle attività di polizia, attraverso tecniche di indagine qualitativa e interviste di profondità. Tutti i focus sono stati realizzati nell’ambito di un corso di formazione organizzato dal Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Lombardia. La metodologia utilizzata si è basata sull’invio, attraverso la piattaforma LimeSurvey, a tutto il personale di Polizia Penitenziaria della Lombardia un questionario a risposte chiuse. La fase di rilevazione dei dati, su base volontaria e con la garanzia del pieno anonimato, si è svolta nel mese di marzo del 2021. Il tasso di risposta è stato del 32,7%. Il questionario è stato somministrato a 845 agenti, 684 uomini e 130 donne; non hanno specificato il proprio genere 31 partecipanti. Per quanto concerne l’età, l’88,8% dei e delle partecipanti ha un’età compresa tra i 26 e i 54 anni e il 70,2% ha completato un ciclo di studi nelle scuole medie superiori. Il 12% dei e delle partecipanti ha dichiarato di lavorare in un carcere di dimensioni ridotte, il 47,1% in un istituto di medie dimensioni e il 38,5% in un istituto di grandi dimensioni. “Studiare il carcere e le sue pratiche quotidiane - si legge nello studio - è una “una vera e propria sfida culturale e professionale” che deve essere affrontata avendo ben chiara la logica coercitiva dell’istituzione penitenziaria e, al tempo stesso, mettendo a tema il suo carattere istituzionale non riducibile nella definizione ormai classica di istituzione totale. Concepire il carcere come “sistema di amministrazione della coercizione”, infatti, “non risolve la riflessione sulla questione carceraria, ma costituisce semmai una chiave per iniziare a osservare l’istituzione nelle sue dinamiche quotidiane, tenendo conto innanzitutto delle azioni, delle interazioni, delle percezioni, delle emozioni, dei significati e delle intenzioni degli attori istituzionali che interpretano e costruiscono attivamente discorsi e pratiche detentive in relazione alle aspettative di governo delle emergenze che sono riposte su di loro”“. Tra gli obiettivi dei curatori della ricerca vi è la necessità di prendere in considerazione i soggetti che vivono il carcere e nel carcere. Il riferimento è ai detenuti e a chi si occupa della loro sorveglianza, che non possono essere considerati i protagonisti di un mondo sconosciuto o volutamente relegato in un angolo. “In tal senso - è evidenziato nello studio -, cercare di comprendere l’universo carcerario è rilevante per consentire una discussione pubblica sul sistema penitenziario stesso e, al contempo, sul benessere di chi in esso vive e lavora. L’evoluzione del sistema penitenziario si configura come “un dispositivo di contenimento delle emergenze sociali” e di disciplinamento del corpo sociale, in cui la Polizia Penitenziaria gioca un ruolo fondamentale, poiché ad essa è delegata la gestione della quotidianità del carcere e il rapporto con le persone detenute”. Per questo motivo parlare di carcere, di detenuti e di Polizia penitenziaria non deve essere considerato un esercizio retorico per soli addetti ai lavori. L’esperienza di questo primo rapporto deve aprire la strada ad altri studi in tutta Italia. “Si tratta - concludono gli autori - di un primo passo, evidentemente. È importante che l’indagine non rimanga isolata e che possa essere non solo ripetuta in Lombardia nei prossimi anni ma anche realizzata in altri provveditorati o a livello nazionale, come strumento a disposizione di ogni contesto regionale. È, infine, auspicabile che la ricerca sulla Polizia penitenziaria prosegua anche con altre metodologie d’indagine di tipo qualitativo (colloqui con operatori e operatrici, osservazione diretta delle pratiche e analisi testuale) capaci di approfondire quegli aspetti che dai risultati della survey sono apparsi particolarmente rilevanti, come la gestione degli eventi critici, la percezione di de-legittimazione istituzionale e la propensione all’uso della forza”. Nordio aveva detto basta magistrati al ministero, ma ha appena nominato una toga al Dap di Paolo Comi Il Riformista, 19 dicembre 2022 “Overbooking” di toghe al Ministero della giustizia. Anche Carlo Nordio pare infatti aver deciso di seguire la strada tracciata dai suoi predecessori: riempire gli uffici di via Arenula di magistrati “fuori ruolo”. Dopo aver promosso il pm antimafia Giovanni Russo a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), sempre questa settimana Nordio ha nominato Gaetano Campo, presidente di sezione lavoro del Tribunale di Vicenza, neo direttore del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria (Dog). Campo prenderà il posto di Barbara Fabbrini, altro magistrato, che farà ritorno al Tribunale di Firenze come giudice civile. La nomina di Campo, che al Ministero troverà il suo ex presidente del Tribunale Alberto Rizzo, attuale capo di gabinetto, ha sorpreso un po’ tutti in queste ore a causa della sua appartenenza correntizia. Il magistrato è un autorevole esponente di Magistratura democratica, la corrente di sinistra, e si era candidato, non venendo però eletto, alle ultime elezioni per il rinnovo della componente togata del Csm. Magistratura democratica, insieme a Marco Travaglio, sta conducendo una feroce opposizione al governo Meloni fin dal giorno del suo insediamento. In queste settimane Md ha letteralmente inondato il web e i media di commenti, post, comunicati, articoli vari, per stigmatizzare praticamente tutto quello che la presidente del Consiglio Meloni e il ministro Nordio hanno in mente di fare sulla giustizia: dalla separazione delle carriere fra giudici e pm, all’abolizione del reato di abuso d’ufficio. Pare quindi alquanto singolare che una toga di punta di Md possa andare a far parte della squadra dei ‘fedelissimi’ di Nordio. A meno, però, che non voglia rinnegare quanto affermato fino al giorno prima. A parte questo aspetto, Nordio aveva comunque votato lo scorso 6 dicembre un ordine del giorno a firma dei deputati di Italia Viva - Azione, Roberto Giachetti ed Enrico Costa, con cui si impegnava il governo “ad operare una significativa riduzione del numero dei magistrati fuori ruolo presso il Ministero della giustizia”, con particolare riferimento “a quelli che svolgono funzioni amministrative e alle posizioni per le quali non è tassativamente richiesta dalla legge la qualifica di magistrato”. Come, appunto, il capo del Dog, uno degli incarichi più delicati del Ministero della giustizia in quanto ha competenza, ad esempio, sull’organizzazione degli uffici, sull’utilizzo delle dotazioni tecnologiche e degli applicativi informatici. È il Dog che stabilisce le regole per il processo telematico, le udienze da remoto, la digitalizzazione degli atti. Compiti tipici più di un manager con competenze in organizzazione di strutture complesse che non di un giurista. “Quello che avviene al ministero della Giustizia è un fenomeno abnorme e sconosciuto presso i governi delle democrazie liberali che assicura un livello di ingerenza assolutamente decisivo nella politica giudiziaria del Paese, vanificando il principio della separazione dei poteri dello Stato”, aveva detto l’avvocato Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali. “Questa ‘anomalia’, quella del controllo preventivo dell’amministrazione e della legislazione da parte della magistratura deve essere pubblicamente conosciuta”, aveva aggiunto Caiazza. A dare manforte al presidente dei penalisti, il giudice del tribunale di Verona Andrea Mirenda, neo eletto al Csm. “Serve spezzare il ‘sequel’ della colonizzazione dei Ministeri da parte dei magistrati in ossequio, al minimo istituzionale, della separazione dei poteri”, sottolinea Mirenda. “Ma vorrei anche ricordare - prosegue - l’evidente impreparazione ad assumere compiti di management del tutto estranei alla loro formazione: la soluzione sono risorse burocratiche stabili interne o anche professionali esterne per le quali occorra una solida competenza e preparazione”. “I magistrati fuori ruolo continuano ad essere strumentali per accreditare il potere delle correnti”, conclude allora Mirenda, unica toga nel prossimo Csm ad essere stato eletto senza un gruppo di riferimento alle spalle. Ora gli atti più urgenti, poi una riforma di sistema sulla Giustizia di Antonio Mastrapasqua formiche.net, 19 dicembre 2022 Ci sono domande di libertà e di equità di fronte al sistema della Giustizia che attendono una risposta urgente. Cittadini (e imprese) hanno bisogno di ripristinare un rapporto di fiducia con le istituzioni, che passa anche (e soprattutto) dalla garanzia delle libertà personali. Il giustizialismo non fa mai giustizia. Ci voleva tutto il coraggio dimostrato nell’attività di magistrato prima e poi di attento osservatore dei fatti della giustizia - con articoli e libri tutti lucidi e inoppugnabili - per assumere il ruolo di Guardasigilli. Carlo Nordio ha preso sulle spalle una delle sfide più pesanti di questa legislatura e di questo governo. Con tutto il rispetto e l’ammirazione che merita il ministro mi permetto un “caveat”. Per esperienza diretta so bene quanto i percorsi della giustizia possono fare male, anche a chi non ha nulla da farsi perdonare. Tutto quello che attiene alla sfera della libertà personale tocca la carne e il cuore delle persone. Solo i provvedimenti sulla salute sono altrettanto sensibili rispetto a quelli che normano le attività giudiziarie e le possibili e conseguenti limitazioni della libertà. Sentire promettere ponti e grandi opere, o grandi riforme sulla concorrenza o nel turismo è impegnativo per chi le azzarda; può essere una delusione per chi le attende e ci spera, ma si tratta pur sempre di materie “rinunciabili”. Senza far confronti con i valori “non negoziabili” evocati nel Magistero della Chiesa dall’allora cardinale Ratzinger, nel 2002, ci sono certamente materie che per delicatezza ed essenzialità richiedono una cura particolare, anche nella comunicazione. Si può dibattere e confrontarsi su tutto, ma chi soffre o chi è impedito nella sua libertà non ha voglia di discutere o di esercitarsi in questioni teoriche. Cerca risposte pragmatiche. E se si parla di riforme, pretende le categorie della “necessità e urgenza” che non a caso distinguono gli atti ordinari del governo da quelli eccezionali della decretazione. Una riforma complessiva del sistema giudiziario è prospettiva di legislatura, certo. Ma le modifiche di alcune evidenti storture del percorso possono (debbono?) essere sottratte alle architetture infinite e inserite in processi decisionali rapidi e urgenti. La diffusione “pilotata e arbitraria” delle intercettazioni è una “porcheria” secondo Nordio. Sottoscrivo. Ma aver sostenuto la necessità di intervenire su questo tema imporrebbe un’azione conseguente. E come non sottoscrivere le parole di Nordio, quando, pochi giorni fa ha detto, a proposito di carcerazione preventiva: “Il paradosso più lacerante è che, tanto è facile oggi entrare in prigione prima del processo, da presunti innocenti, quanto è facile uscirne dopo la condanna, da colpevoli conclamati. Orbene, la custodia cautelare, proprio perché teoricamente confligge con la presunzione di innocenza, non può essere demandata al vaglio di un giudice singolo”. Il Gip “monocratico” è troppo esposto a queste aberrazioni. Facciamo tre membri? Bene, ma passiamo dalle parole ai fatti. Di fronte a una generosa attività di denuncia delle criticità del nostro sistema giudiziario il ministro Nordio dovrebbe produrre fatti legislativi o amministrativi. Intendiamoci, al governo Meloni e ai suoi ministri, sembra spesso di chiedere in due mesi il cambiamento radicale di troppe “partite”. Se i ritardi sul Pnrr sono evidentemente frutto di atti precedenti all’attuale governo, se l’entità e la qualità della manovra finanziaria sono difficilmente separabili da quanto fin qui condotto dal governo precedente - le discontinuità su alcune materie richiedono tempo e oculatezza - ci sono questioni dirimenti. E spesso sono collegate ai temi dei valori “non negoziabili”. Libertà e salute. Non voglio fare il suggeritore di nessuno. Non ne ho capacità né intendimento. La competenza del ministro Nordio è una delle ricchezze invidiabili di questo governo. Ma prima che le voci di parte, di partito, di casta raggiungano l’effetto di annegare le intenzioni del ministro in banali giochi di parole - il “sinistro della Giustizia” è una delle peggiori esibizioni verbali cui è stato fatto segno il ministro - mi permetto di chiedere a Carlo Nordio di mettere mano agli atti che si possono fare subito, in attesa di una riforma di sistema che richiede tempo e consenso politico. Ci sono domande di libertà e di equità di fronte al sistema della Giustizia che attendono una risposta urgente. Cittadini (e imprese) hanno bisogno di ripristinare un rapporto di fiducia con le istituzioni, che passa anche (e soprattutto) dalla garanzia delle libertà personali. Il giustizialismo non fa mai giustizia. Giustizia penale, Starace: “Sulla durata dei processi impegno ambizioso con l’Ue” di Gianluca Coviello ledicoladelsud.it, 19 dicembre 2022 Cosa accadrà alla giustizia penale, dopo il rinvio della riforma Cartabia e le novità annunciate dal guardasigilli Carlo Nordio? Guglielmo Starace, presidente della Camera Penale di Bari, non nasconde le perplessità sul rispetto dei tempi, promesso all’Europa, in merito alle riforme. Presidente, il neo ministro ha annunciato che entro giugno ci sarà una riforma organica del processo penale... “L’inizio del ministero di Carlo Nordio è stato caratterizzato da una direzione sorprendentemente opposta alle opinioni sempre rappresentate. Infatti si parlava sempre di snellimento del sistema e di depenalizzazione, mentre il primo provvedimento ha istituito un nuovo reato strutturato così male da indurre all’immediato ripensamento. I successivi annunci del ministro hanno riportato la direzione sul giusto binario poiché rispecchiano la sua profonda conoscenza dei meccanismi del procedimento penale, con particolare riferimento alle indagini preliminari. L’avviso di garanzia rappresenta un istituto che va rivisto in quanto ha mutato la sua natura da istituto di garanzia in annuncio di condanna mediatica anticipata nei confronti di persone nemmeno imputate”. E sulle intercettazioni telefoniche? “Chi frequenta i processi penali si rende conto che spesso perdono la loro natura di “mezzo di ricerca della prova”, diventando “mezzo di ricerca del reato”. Il nostro codice consente le intercettazioni solo in presenza di gravi indizi di reato e nel caso di assoluta indispensabilità ai fini della prosecuzione delle indagini. Nella prassi può accadere che tali requisiti non siano pienamente rispettati e che, ciò malgrado, i risultati delle intercettazioni vengano utilizzati per applicare misure cautelari e per distruggere per sempre la reputazione delle persone coinvolte anche indirettamente nelle conversazioni captate. Poi magari, a distanza di anni, si celebra il processo e le intercettazioni vengono dichiarate inutilizzabili. Nella migliore delle ipotesi l’esito del processo non interessa più a nessuno, ma nella peggiore l’opinione pubblica sarà portata a pensare addirittura che l’assolto è un colpevole che l’ha fatta franca. Il tutto senza considerare che, con i potenti mezzi informatici oggi a disposizione, le intercettazioni invadono ogni attimo della vita delle persone. Dovrebbero essere consentite soltanto in chiara presenza dei presupposti previsti dalla legge e per ben determinati reati di serio allarme sociale”. L’Italia ha garantito all’Europa, in concomitanza con l’approvazione del Pnrr, una riduzione del 25 per cento dei tempi dei processi entro il 2026. È un risultato raggiungibile? “Stando così le cose, il raggiungimento dell’obiettivo pare una chimera, a meno che non si voglia farlo tramite meccanismi solo numericamente rappresentativi. Faccio un esempio. Oggi la legge impone ai giudici di rinviare i processi nei confronti degli imputati irreperibili, mentre con la riforma dovranno emettere sentenza La riduzione del 25 per cento, comunque, comporterebbe per i magistrati, a parità di risorse, un lavoro ancora più impegnativo di oggi, il che è francamente inesigibile”. L’obbligatorietà dell’azione penale è un caposaldo dell’ordinamento giudiziario. In che modo si aspetta che venga riformato? “In linea di principio, è un presidio di tutela del principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Nella realtà, però, si rivela un principio inapplicabile a causa dell’enorme sproporzione tra il numero di procedimenti sulla scrivania dei pubblici ministeri e l’effettiva forza lavoro a disposizione della magistratura inquirente. Quindi resta una discrezionalità di fatto affidata alle singole persone e parrebbe più opportuno prevedere dei criteri prioritari di trattazione affidandoli alla legge”. Un altro aspetto centrale su cui ha posto l’attenzione il neo ministro è la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e pubblici ministeri. Già altri governi ci avevano provato. Le condizioni sono cambiate? No, mentre speriamo che siano cambiate le sensibilità delle persone che devono occuparsi del problema. Giace nei cassetti del Parlamento una importante proposta di legge proveniente dall’Unione delle Camere penali italiane risolutiva del problema. Se il ministro Nordio, come recentemente sollecitato da una delegazione dell’Ucpi composta dal presidente Gian Domenico Caiazza, dalla vice presidente Paola Rubini e dal segretario Eriberto Rosso, deciderà di riaprire quel cassetto, sono certo che l’Italia farà un grande passo in avanti per la risoluzione di gran parte dei problemi del processo penale”. L’assenza di controllo totale del territorio non esclude l’agevolazione di stampo mafioso di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2022 Il concorso nel reato associativo si realizza anche tramite attività lecite finalizzate al radicamento della locale cosca. L’estensione del territorio della Capitale pur non consentendo il controllo totale da parte del sodalizio mafioso originario non esclude la capacità criminale della struttura territoriale “locale” della ‘ndrangheta e il controllo di quest’ultima sulla cosiddetta “locale” a maggior ragione se la nuova articolazione ha avuto il beneplacito della “Provincia” come viene definita la mafia calabrese. E l’agevolazione della cosca si può realizzare in molteplici modi compreso l’acquisto o l’intestazione fittizia di beni e attività leciti. La costruzione di un patrimonio immobiliare o commerciale nell’area di Roma consente certamente di operare una forma di condizionamento dell’economia del luogo. A nulla rileva che le acquisizioni siano formalmente legittime e motivate dal profitto cui aspiravano i venditori delle stesse. Inoltre, non si può sottacere l’indiretto condizionamento agito sugli operatori all’interno della Capitale dalla paura che induce una delle espressioni più temute, per la nota violenza perpetrata come sistema dalla mafia calabrese anche se non specificatamente agita. Infatti, dice la Cassazione, il controllo mafioso si realizza non solo se è nella forma armata, ma anche con l’attrazione di grosse fette della vita economica della città in mano della ‘ndrangheta calabrese. La Corte di cassazione - con la sentenza n. 47538/2022 - ha confermato la misura cautelare personale a carico di un indagato sospettato di essere la longa manu della mafia calabrese su Roma, realizzata con un’aggressività latente e non espressa con le forme tipiche dell’intimidazione sfrontata con cui agisce nella Regione meridionale di origine. Il ricorrente veniva definito dagli inquirenti come delinquente economico in quanto si prestava alle intestazioni fittizie di beni e attività acquisite con “doti” fornite direttamente dalla casa madre criminale (La Provincia). Va ovviamente sottolineato che la ricostruzione dei legami del ricorrente con la locale romana e di conseguenza con la ‘ndrangheta deriva dai risultati di numerose intercettazioni. Ciò ha consentito di acclarare i rapporti del ricorrente (apparentemente occupato in attività lecite) con l’esponente di vertice dell’articolazione romana della mafia calabrese e con quest’ultima direttamente. L’inquinamento del tessuto economico-imprenditoriale della Capitale è un preciso scopo mafioso per realizzare una serie di reati fine alimentati da risorse illecite e da cui consegue un’influenza criminale sulla realtà della città. A nulla rileva la presenza di altri gruppi criminali storicamente già radicati a Roma per dire che i crimini contestati non siano di tipo mafioso. La Cassazione esprime persino un vero e proprio principio di diritto, per individuare il grave reato di associazione mafiosa previsto dall’articolo 416 bis del Codice penale, secondo cui rilevano anche le operazioni formalmente lecite realizzate senza la spendita del metodo mafioso, ma finalizzate ad avvantaggiare il clan di riferimento. Lombardia. Carceri stracolme e Rems senza posti: “Aumentano suicidi e violenze, sistema al collasso” di Andrea Gianni Il Giorno, 19 dicembre 2022 San Vittore ha un tasso di affollamento record: 190%. In Lombardia duemila detenuti in più rispetto alla capienza, servono oltre 600 agenti. Giacomo Trimarco, 21 anni, non sarebbe dovuto stare a San Vittore, perché era in attesa da mesi di essere collocato in un luogo di cura per un grave disturbo psichiatrico. Recluso per il furto di un telefono cellulare, è deceduto nel giugno scorso per “inalazione di gas butano”, e la Procura di Milano ha chiesto di archiviare le indagini non avendo riscontrato responsabilità nella sua morte. Una tragedia che non è un caso isolato in un sistema, tra carceri sovraffollati e Rems (Le struttura sanitarie di accoglienza per gli autori di reati affetti da disturbi psichici) che non hanno più posti per accogliere chi soffre di problemi psichici, arrivato al collasso. Il carcere di San Vittore, secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone, ha un tasso di affollamento del 190%, tra i peggiori in Italia. In Lombardia il tasso di affollamento è del 148,9%, il più alto fra le regioni italiane. Carenza di personale - “La capienza regolamentare in Lombardia è di 6.161 persone a fronte delle 8.150 attuali - denuncia un rapporto della Fp-Cgil - il dato, variabile quotidianamente, mostra quindi che ci sono circa duemila ristretti in più”. E il sindacato torna a segnalare la carenza di personale nelle carceri lombarde. Per quanto riguarda la Polizia penitenziaria “la pianta organica, già ridotta dalla riforma Madia, sarebbe di 4.673 lavoratrici e lavoratori, in tutti i ruoli, mentre nei fatti alle carceri lombarde mancano oltre 600 poliziotti tra agenti, sovrintendenti, ispettori e funzionari del ruolo direttivo”. Un dato che rende la situazione sempre più tesa nelle carceri, polveriere pronte a esplodere, già al centro di rivolte durante la pandemia. Quest’anno 16 dei 79 suicidi registrati nelle carceri sono avvenuti in Lombardia, di cui 13 under 36. E i dati raccolti dalla commissione Carceri del Pirellone evidenziano un aumento delle patologie psichiatriche del 17%, con un netto peggioramento durante la pandemia. Il mediatore culturale - San Vittore conta una percentuale del 61,49% di detenuti stranieri ma, denuncia il coordinatore regionale della Fp Cgil Polizia penitenziaria Calogero Lo Presti, “va segnalata la carenza di una figura indispensabile qual è quella del mediatore culturale”, in grado anche di cogliere segnali di disagio. E anche al Beccaria, dove un 17enne ha subito torture e violenze sessuali da parte di altri tre ragazzi arrestati nei giorni scorsi, lo scenario non è migliore. “La situazione è drammatica - spiega Manuela Vanoli, segretaria generale Fp Cgil Lombardia - sovraffollamento e carenza di personale, a tutti i livelli del sistema, dalla polizia penitenziaria al personale educativo e al personale sanitario, le rendono luoghi esplosivi, pericolosi e insicuri”. Da qui un appello al ministero della Giustizia, perché “c’è un paradigma culturale da cambiare”. Parma. Ascari (M5S) visita il carcere. “Condizioni igieniche pessime: termosifoni spenti e celle fredde” parmatoday.it, 19 dicembre 2022 L’allarme della deputata del Movimento 5 Stelle, membro della commissione Giustizia: “La situazione è disastrosa: presenterò immediatamente un’interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia Carlo Nordio”. “Ieri, insieme a Simone Guernelli, consigliere comunale di Colorno - sottolinea Stefania Ascari, deputata del Movimento 5 Stelle, membro della commissione Giustizia - sono stata all’istituto penitenziario di Parma per una visita ispettiva. La situazione di fronte a cui ci siamo trovati è disastrosa. Questo carcere, che più volte è stato al centro delle cronache per casi di suicidi, aggressioni ad agenti di polizia, incendi e carenze di servizi, ospita attualmente circa 700 detenuti, di cui 65 in regime di massima sicurezza. Quindi necessiterebbe di particolari attenzioni.  Invece, alle problematiche già riscontrate in tanti altri istituti penitenziari, come deficit dell’edilizia, sovraffollamento, personale sottorganico, si aggiungono anche criticità legate all’ambito sanitario - nonostante la presenza di detenuti paraplegici, psichiatrici e tossicodipendenti - condizioni igieniche pessime, termosifoni spenti, freddo nelle celle. Medici, educatori e psicologi si contano sulle dite delle mani, quindi inevitabilmente le attività e i progetti educativi per i detenuti sono scarsi. Persino il regime di 41bis non è pienamente rispettato dal momento che vi è possibilità di comunicazione tra le persone recluse essendo le celle poste una di fronte all’altra e con spazi di socialità comunicanti. Ne consegue che da una parte gli operatori sono messi a dura prova non potendo svolgere al meglio il proprio lavoro, dall’altra i detenuti non vivono in condizioni dignitose. Mi chiedo come si possa perseguire la missione rieducativa in simili condizioni. Così come il contrasto alle mafie che di fatto è solo di facciata. La recidiva si può contenere creando i supporti, le condizioni materiali e psicologiche affinché le persone detenute, una volta libere, abbiano la possibilità di effettuare scelte di vita diverse da quelle che le hanno portate a scontare la pena in carcere. Se le carceri sono luoghi di umanità, il vantaggio è per tutta la comunità. Invece appaiono come luoghi dimenticati, fragili, in cui avviare percorsi di recupero è difficilissimo, se non impossibile. Presenterò immediatamente un’interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia Carlo Nordio”:  Bologna. Protesta contro il 41 bis in pieno centro: due ragazzi salgono sulla gru di Giuseppe Baldessarro Corriere della Sera, 19 dicembre 2022 La protesta proprio accanto alle Due torri. Srotolato uno striscione contro il carcere duro. Presidio di una trentina di anarchici. Un’azione per protestare contro il regime detentivo del “carcere duro” dettato dall’articolo 41bis e a favore di Alfredo Cospito: due giovani sono saliti, in pieno centro a Bologna, su una grande gru in Piazza della Mercanzia, proprio a fianco delle Due Torri. In uno striscione, sotto la gru, è scritto “Il 41 bis uccide”. Sul posto le forze di polizia per tenere sotto controllo e monitorare la situazione. I manifestati sono scesi attorno alle 15. Contemporaneamente, sotto le Due torri un gruppo di una trentina di anarchici ha dato vita a un presidio. Sul posto, a delimitare l’area, sono intervenuti i carabinieri. I due ragazzi sulla gru appartengono alla galassia anarchica e sono saliti sulla struttura senza infrangere cancelli o lucchetti. Dall’alto della gru hanno srotolato un lunghissimo striscione in cui è scritto “il 41bis uccide”, “Alfredo libero, tutti liberi” e “Morte allo Stato”. Per una questione di sicurezza sono stati attivati i vigili del fuoco pronti a intervenire in caso di necessità. La protesta di stamattina fa parte della campagna per Alfredo Cospito, contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo. Cospito è attualmente sotto processo per strage. Accusato di aver messo due ordigni esplosivi in una caserma, senza feriti o morti. Sotto la gru gli anarchici distribuiscono volantini e gridano slogan pro Cospito. L’iniziativa degli anarchici è il seguito di fatto della manifestazione di ieri, sabato 17 dicembre, con la Street rave parade che ha attraversato le strade della città. Fossano (Cn). Un Natale senza sbarre di Agata Pagani La Fedeltà, 19 dicembre 2022 Come lo scorso 8 dicembre, anche domenica 11 il carcere a custodia attenuata di Fossano ha aperto le porte del terzo cortile alla cittadinanza per il mercatino di Natale in carcere. Inaugurato lo scorso 8 dicembre sarà aperto anche la prossima domenica 18 dicembre: un modo per acquistare un prodotto realizzato da realtà carcerarie fossanesi e non solo. Tra gli ortaggi di cascina Pensolato, i manufatti in ceramica realizzata nei laboratori interni al carcere di Fossano con la cooperativa Perla, i vini del carcere di Alba, le borse dei detenuti di Saluzzo, i panettoni artigianali, le creazioni in legno e ferro di Made in Jail, i prodotti da forno di Mondo Pane, il laboratorio di panificazione realizzato in collaborazione con Baldin proprio nel carcere di Fossano, passeggiando nel cosiddetto terzo cortile accompagnati dalle note dei Lil mama blues, domenica si respirava l’aria del Natale: quello che significa nascita o, come in questo caso, rinascita. Detenuti, personale e visitatori infatti hanno avuto la possibilità di trascorrere una giornata senza sbarre e senza vincoli per far cadere tra un acquisto e l’altro i pregiudizi e far maturare la consapevolezza che se dietro le sbarre si impara un mestiere diminuisce il rischio di reiterazione del reato. Aperte anche le vecchie celle dove è stata allestita la mostra di fotografie, scattate proprio dentro al carcere, di Ober Biondi, e un’esposizione, curata dalla Legatoria il Milione, dedicata agli antichi mestieri. Un modo per entrare negli spazi angusti delle celle di un tempo e metterle a confronto con quelle più moderne e riflettere su un modo attuale di concepire la detenzione come riscatto e non punizione. Torino. Dalla lettera al detenuto alla pallina contro la povertà Corriere di Torino, 19 dicembre 2022 Il Natale solidale. Fare un dono e nello stesso momento aiutare chi ne ha bisogno. A Torino quest’anno si può diventare l’amico di penna di un detenuto o il Babbo Natale di chi versa in condizioni di povertà. Il Gruppo Abele, dopo la campagna partita a ottobre “Una sciarpa speciale”, a dicembre propone una donazione ad hoc per non escludere nessuno dalla magia delle feste. Si tratta delle palline illustrate per la onlus dall’architetto, illustratore, grafico, insegnante e autore di libri per l’infanzia, Sergio Olivotti. A Settimo Torinese le palline della Onlus sono esposte tra gli scaffali della libreria Alicante di Simona Martino in via Italia 67. A Piossasco si trovano nella Libreria 55, dove in via Palestro, 55 ad aprire la porta è Elisa Caldara. In centro a Torino, invece, ben due i punti dove fare la donazione: a Binaria - centro commensale, nello spazio gestito dal Gruppo Abele in corso Trapani 91/A e nella libreria Il Ponte sulla Dora di Borgo Rossini. Il Gruppo Abele, nella presentazione dell’iniziativa, ringrazia i librai che hanno voluto collaborare al progetto: “In fondo lo diciamo da sempre che cultura e accoglienza viaggiano insieme. Ecco, questo Natale lo fanno davvero grazie a loro e, se vorrai, anche grazie a te”, scrivono. “La campagna di ottobre è andata e sta andando molto bene”, informano, “siamo molto contenti e speriamo che le palline abbiamo altrettanto successo”. Sempre in occasione del Natale, la Fondazione Vincenzo Casillo e Liberi dentro - Eduradio & Tv lancia invece una chiamata alle parole e propone di scrivere una lettera a una persona detenuta sconosciuta, che può vivere anche nei centri di detenzione torinesi. L’indirizzo a cui spedirla è una email: parlamidentro@gmail.com. “Possiamo raccontare l’esito di una giornata, un proposito buono del risveglio, il resoconto di un viaggio, la crescita di un figlio, una passeggiata nel verde, una ricetta sperimentata, una canzone appena scoperta. L’intento è quello di mettere nelle mani di una persona isolata e spesso anche giudicata un frammento della nostra vita libera, che sia uno stimolo, un’ispirazione, un auspicio o anche solo un abbraccio”, scrivono gli organizzatori. “Vogliamo creare delle connessioni. Mettere in circolo buone parole spogliate di ogni pregiudizio o pietismo”. Il buddhista nel braccio della morte raccontato da David Sheff di David Sheff Il Dubbio, 19 dicembre 2022 “Non posso certo essere descritto peggio di come è già stato fatto”, mi dice Jarvis Jay Masters, e presumo che sia vero, per uno che è stato condannato per omicidio. “Intendo: guardi dove siamo”. Sono seduto su una sedia di plastica, di fronte a un uomo di nome Jarvis Jay Masters che mi guarda dall’altro capo del tavolino. Lo informo che sto valutando l’idea di scrivere un libro su di lui e gli chiedo che cosa ne pensi. Sottolineo che, qualora dovessi portare avanti il mio progetto, ho intenzione di raccontare tutto ciò che scoprirò sul suo conto, bello o brutto che sia. “Tanto non posso essere descritto peggio di come è già stato fatto” mi dice Masters, e presumo che sia vero, per uno che è stato condannato per omicidio. “Intendo, guardi dove siamo” aggiunge. Siamo in una gabbia non più grande di un ripostiglio, sistemata tra decine di gabbie simili, in una sala visite riservata ai condannati della San Quentin State Prison. Seguo lo sguardo di Masters, che passa rapidamente in rassegna le altre gabbie, nelle quali assassini già condannati sono in compagnia dei loro famigliari o dei loro legali. Ramón Bojórquez Salcido, riconosciuto colpevole dell’omicidio di sette persone, tra cui la moglie e le fi glie, è con il suo avvocato in una gabbia di fronte alla nostra. Lì vicino, Richard Allen Davis, responsabile dello stupro e dell’uccisione di una ragazzina di dodici anni, sgranocchia dei Doritos. Nella gabbia in fondo, accanto a una libreria 10 11 con una pila di giochi da tavolo e Bibbie, Scott Peterson, condannato per l’omicidio della moglie all’ottavo mese di gravidanza e del loro bambino non ancora nato, se ne sta seduto in compagnia della sorella. Peterson appare tranquillo e in forma, ma altri carcerati sembrano tesi, agitati, scontrosi. E poi ci sono tizi - minuti, occhialuti, dall’aria innocua - che assomigliano più a comunissimi cassieri, oppure, nel caso di uno, a John Oliver*. “L’apparenza inganna” commenta Masters, il quale aggiunge di essere rimasto ogni volta sconvolto nell’apprendere di quali crimini si fossero macchiati i suoi vicini più mansueti e educati nel braccio della morte. “Alcuni li vedi comportarsi in modo perfetto, a tavola si mettono il tovagliolo sulle gambe, e poi scopri che hanno compiuto vere e proprie stragi”. Nel 2006 la mia amica Pamela Krasney, un’attivista per la riforma carceraria impegnata anche in altre battaglie di giustizia sociale, mi raccontò di un detenuto nel braccio della morte che, sosteneva lei, era stato ingiustamente condannato per omicidio. Lo descrisse come un uomo diverso da chiunque altro avesse mai conosciuto, più consapevole, più saggio ed empatico “nonostante il suo passato”. Si corresse. “Proprio per il suo passato.” Presentata a Masters da un’amica comune, la famosa monaca buddhista Pema Chödrön, Pamela era andata a trovarlo regolarmente per anni. Apparteneva a un gruppo di sostenitori che si battevano per dimostrare la sua innocenza, i cosiddetti “Jarvistas”. Pamela mi raccontò che Masters aveva scritto un libro, numerosi articoli e una poesia che gli era valsa un premio PEN. Si era convertito al buddhismo e aveva studiato con un illustre lama tibetano, Chagdud Tulku Rinpoche, che lo aveva dichiarato bodhisattva, ossia “qualcuno che si adopera per porre fine alla sofferenza in un luogo immerso nella sofferenza”. Stando a quanto sosteneva Pamela, con il passare del tempo Masters era addirittura diventato un punto di riferimento a San Quentin, insegnando il buddhismo ai detenuti e contrastando gli episodi di violenza all’interno del carcere. Incoraggiato da Pamela, organizzai una visita nel braccio della morte. Giunsi in quella che un tempo si chiamava “Bay of Skulls” una limpida mattina in cui un vento gelido attraversava il Golden Gate. Le barche a vela ondeggiavano nella baia come bianchi petali di loto, i rimorchiatori spingevano chiatte e gli aliscafi scivolavano sull’acqua. Il ponte tra Richmond e San Rafael risplendeva. Superati i controlli di identità, passai attraverso il metal detector e, come da istruzioni, seguii una linea gialla dipinta lungo un terrapieno roccioso. Sopra di me, alcuni agenti armati sorvegliavano l’area da una torre di guardia che ricordava un faro. Masters era in isolamento nell’Adjustment Center, il famigerato “centro di correzione” conosciuto come “il buco”, che un amministratore di San Quentin una volta definì “un corpo autonomo, recintato, destinato a depravati, violenti e insani di mente - uomini che la società non vorrebbe nemmeno esistessero”. Si trovava nell’AC da vent’anni. Mi fecero accomodare su una sedia sistemata davanti a un vetro divisorio tutto imbrattato. Dopo alcuni minuti, dall’altra parte del vetro si aprì una porta e Masters entrò scortato da una guardia. Era alto e ben sbarbato, i capelli rasati con cura. Al collo gli penzolavano un paio di occhiali da lettura. Quando gli tolsero le manette, Masters si sedette, ed entrambi sollevammo le cornette malconce. La sua voce mi giungeva smorzata, come se stessimo parlando con telefoni di latta. Aveva gli occhi castano chiaro, una voce melodiosa da tenore e un carisma rassicurante che oltrepassava il vetro. Parlammo di Pamela, di Pema, di scrittura, di attualità e di un recente confinamento forzato scattato dopo un accoltellamento in carcere. Gli feci domande sulle guardie, sui detenuti e sulla pratica buddhista che seguiva. Masters era loquace, riflessivo e divertente. Dopo un’ora e mezzo una guardia ci fece segno che la visita si era conclusa. Masters fu portato via e io lasciai il braccio della morte, per riemergere nell’aria fredda della baia. Ripensai all’incontro. Pallucchi, appello al governo: “Un piano per il non profit. Ora vogliamo contare” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 19 dicembre 2022 La portavoce nazionale del Terzo settore: “Non solo volontariato: diamo servizi e lavoro”. Stranieri e povertà, un “errore” togliere il reddito di cittadinanza. Dall’esecutivo segni contraddittori, ma “anche prove di dialogo”. Un appello, anzi quattro. E diciamo che sono solo le “priorità” di una lista in realtà lunga, il cui seguito è tuttavia connesso per vari aspetti a questi punti di partenza: “I primi due riguardano il sociale, da una parte col tema della povertà che dovrà stare in cima a tutte le agende e dall’altra con quello del Pnrr che oltre a finanziare infrastrutture dovrà ricordarsi di sostenere chi le gestisce, quindi i servizi”. Poi Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum Terzo settore cui si deve questa analisi, prende fiato e continua: “Gli altri due aspetti riguardano noi, cioè il Terzo settore”. E quali sono? “Uno è completare l’attuazione della riforma nel modo migliore, che significa inclusivo, quindi aiutando le associazioni più piccole a starci dentro. L’altro è costruire, con il grande patrimonio della nostra cooperazione, un grande piano italiano dell’economia sociale. Che tenga insieme le due cose. Perché il fatto che noi siamo “sociale” lo sanno sempre tutti, ma che siamo anche “economia” bisogna ogni volta ricordarglielo”. La settimana scorsa in effetti Mattarella ha rivolto al volontariato parole di grande riconoscenza... “E questo vale anche per l’opinione pubblica: sappiamo che i volontari sono amati da tutti e che nessuno ignora l’importanza di quello che fanno. Il problema è accorciare la forbice tra questa consapevolezza e il supporto reale che gli attori istituzionali riservano a un comparto socioeconomico essenziale per il nostro Paese. Perché Terzo settore non significa “buona volontà”. Significa un mondo che guarda all’economia con criteri diversi. Migliori, secondo noi, e sostenibili”. E oggi il Terzo settore come sta? “Siamo usciti dalla pandemia meglio di altri e addirittura in crescita, si sa. Per la nostra capacità di resilienza e di fare rete. Ma non bisogna generalizzare, quel ritratto riguarda le realtà più grandi o comunque strutturate. Il piccolo associazionismo ha sofferto e soffre eccome”. I punti più critici? “Per esempio i piccoli pagano la crisi energetica assai più di altri, per i quali è comunque pesantissima nonostante le loro spalle più larghe. La bolletta quadruplicata in Rsa, centri diurni, comunità per fragili, ma anche palestre, centri culturali, piscine non è una mazzata solo per chi quelle strutture le gestisce ma per chi ne fruisce: alla fine è il servizio a mancare. Ma non è solo questo. Per molti di loro, che poi sono quelli più a stretto contatto con la vita del territorio proprio per la loro capillarità, è dura anche iscriversi al Registro unico del Terzo settore come previsto dalla Riforma, che pure contiene tante positività però richiede adempimenti formali e capacità organizzative non scontate. Ma questo è appunto ciò che dicevo prima: la traduzione in pratica della Riforma deve essere inclusiva, e questo significa che bisogna trovare il modo per aiutare anche l’ultimo a non restare indietro”. Veniamo da Draghi, stimato da tutti, a cui il mondo del Terzo settore non ha tuttavia risparmiato anche critiche. Qual è la vostra sensazione dopo le prime settimane di Meloni? “Quel Governo ha avuto una visione parziale del Terzo settore, intesa più come volontariato che come comparto socio-economico di rilievo. Ora mi pare che si stia partendo con una serie di contraddizioni. Colgo segni preoccupanti, come sul tema dei migranti ma anche sul reddito di cittadinanza. Ma è vero che ci sono anche segnali in direzione opposta, per esempio negli incontri che abbiamo avuto con la viceministra Maria Teresa Bellucci e con la ministra Alessandra Locatelli abbiamo riscontrato una disponibilità ad aprire tavoli di lavoro comuni sui loro temi di competenza. C’è apertura al confronto e alla conoscenza. È un buon inizio, sotto questo aspetto”. Dunque peccato che? “Peccato che i primi segnali concreti sulla povertà, che oggi è l’emergenza numero uno, siano perlomeno equivoci. La povertà diffusa non è una opinione, è un fatto a cui occorre rispondere con fatti. Quindi anche con il reddito di cittadinanza. Che andrebbe migliorato, allargandone anzi la base, non cancellato. Noi, proprio per non inseguire la cronaca spicciola nelle sue ondate emotive, abbiamo costruito come Forum una agenda della solidarietà: il governo ci sta mettendo la stessa attenzione?” Qual è la vostra richiesta? “In fondo è abbastanza semplice: meno dichiarazioni e più tavoli di lavoro. Vogliamo essere coinvolti: non nell’interesse nostro, in quello del Paese. E poi un aiuto per sopravvivere: contributi sull’energia per tutto il 2023 e un fondo speciale per il Terzo settore, cui attingere in caso di emergenza. Aggiungo solo una domanda io: ma perché il Terzo settore deve sempre chiederli col piattino i vari sostegni e ristori che agli altri vengono elargiti in automatico?”. Dare forma agli ultimi, questa è la vera missione della sinistra di Gabriele Segre Il Domani, 19 dicembre 2022 Nella politica gli ideali e gli idealisti non vanno più di moda. Così oggi gli interventi a favore degli ultimi prevedono misure tecniche, assistenziali o che mirano alla deregulation, ma non un vero cambiamento. Il rischio è quello di trasformare quei soggetti che ne hanno più bisogno in una “massa di individualità” indistinta, senza la minima soggettività politica, mentre una volta gli ultimi erano parti collettive e attive. Nella società liquida di oggi la sinistra più di altri ha il compito storico di cristallizzare queste parti dando loro un nome e forma a un desiderio di cambiamento che ha bisogno di essere riconosciuto e organizzato. Forse per la sinistra è arrivata l’ora di riconciliarsi con le proprie radici. Considerando i temi di discussione aperti dall’attuale crisi economica e sociale, ad esempio, sarebbe opportuno rileggersi chi ha dedicato la vita a riflettere sulle diseguaglianze sociali in rapporto a risorse e mezzi di produzione. Peccato che Karl Marx sia poco popolare sui social e anche Saint-Simon, Gramsci e Don Sturzo non prendano molti like dalla politica contemporanea. Possiamo vedere quanto gli ideali e gli idealisti siano fuori moda analizzando i provvedimenti a sostegno dei meno abbienti in discussione nella legge di bilancio italiana, con i ‘pendant’ dei relativi emendamenti presentati dall’opposizione. Destra e sinistra sembrano avanzare proposte molto diverse e, a seconda della loro prospettiva, anche con una logica ragionevole, ma l’approccio di fondo è il medesimo: fare in modo che le persone bisognose abbiano un sostegno economico, in forma di deregulation o di aiuto diretto, immediato e senza troppi intermediari. In tempi di crisi queste sono sicuramente soluzioni utili, ma il sospetto è che, per aiutare davvero a costruire una società che tuteli i deboli, anche in un momento di emergenza, strumenti tecnici come questi non siano sufficienti. Il rischio, infatti, è quello di trasformare quei soggetti che ne hanno più bisogno in una “massa” di tante individualità indistinte, senza la minima soggettività politica. Eppure il giovane disoccupato, il lavoratore che vede la fabbrica fallire, la coppia che non concilia asilo nido e stipendio, il pensionato che non può più pagare il gas, un tempo sarebbero state parti diverse di un sistema distinto e ordinato. Li avrebbe supportati una rete composta da sindacati, consigli di fabbrica, cooperative di assistenza e decine di altre istituzioni legate alla politica che, oltre a occuparsi delle loro necessità, li avrebbero resi consapevoli del proprio ruolo, della propria responsabilità e delle potenzialità che potevano esprimere nel progettare il cambiamento della società verso cui aspiravano. Un sistema, nato proprio dai sogni di quei grandi pensatori oggi così snobbati, che aveva il compito di trasformare i singoli cittadini con bisogni particolari in parti collettive e attive di quella stessa politica che legifera su di loro. Dare un nome - E’ un compito che la sinistra dovrebbe conoscere bene, perché storicamente, oltre alla sfida per supportare le categorie in difficoltà, ha sempre avuto la funzione culturale di cristallizzarle, dando loro un nome, prima ancora che una voce. Un compito oggi fondamentale in una società diventata sempre più liquida, dis-integrata e individuale. Con meno operai e braccianti, ma fatta comunque di persone le cui necessità possono essere connesse da un desiderio di cambiamento che ha bisogno di essere riconosciuto e organizzato. Certo, nel momento in cui arrivano i conti sarà difficile spiegargli che, oltre al denaro per pagarli, è importante anche la loro partecipazione alla costruzione di una visione alternativa del futuro. Ma è l’unica strada percorribile dalla sinistra se non vuole essere scalzata da forze molto più brave a corteggiare “la massa”: il populismo assistenzialista, l’”elitismo” economico dei tecnici e, naturalmente, la stessa destra che ha saputo integrare la parola “sociale” all’interno dei suoi valori di sicurezza e di nazionalismo. È un impegno in cui è in gioco non solo la sopravvivenza di una parte politica, ma anche della stessa cultura della democrazia, che ha continuamente bisogno di utopie e di visioni nuove per continuare a crescere. Soprattutto in tempo di crisi, perché è vero che con i sogni oggi non si pagano le bollette, ma sono ancora l’unica energia creatrice capace di mettere in moto il mondo di domani. Condanne e detenzioni più lunghe. Morire in carcere diventa di attualità in Svizzera di Monique Misteli bluewin.ch, 19 dicembre 2022 Con l’allungamento delle pene e delle detenzioni, il problema della morte dietro le sbarre sta diventando di attualità in Svizzera. Allo stesso tempo, le autorità sono restrittive quando si tratta di interrompere la carcerazione per andarsene... per sempre. Il Tribunale federale ha recentemente sostenuto questa proposta e ha ritenuto che vi fosse un’esigenza prioritaria di punizione e ragioni di sicurezza. La questione della morte dei criminali violenti è stata sollevata solo negli ultimi anni, ha dichiarato l’esperto di carceri Benjamin Brägger in un’intervista concessa sabato ai giornali Tamedia. Il rilascio di autori di reati violenti e sessuali da una struttura di custodia o di detenzione non è più tollerato dalla società. Secondo il Tribunale federale, le interruzioni di pene per reati gravi per detenuti prossimi alla morte dovrebbero essere concesse solo come ultima risorsa. Secondo Brägger, le cose in precedenza erano diverse. Le autorità non volevano permettere che si verificassero decessi nelle carceri e di solito concedevano ai malati terminali una “pausa” dal carcere in modo che potessero morire a casa. Attualmente, il codice penale consente di trasferire i detenuti malati terminali in un ospedale con un reparto speciale o in una forma speciale di detenzione, cioè una casa di cura. Ma il reparto di guardia dell’Inselspital di Berna, ad esempio, è per acuti e non è stato concepito per le cure palliative. C’è anche un reparto chiuso in una casa di cura privata a Bauma, nel Canton Zurigo. Ma molte altre strutture di questo tipo non accettano i detenuti. Ma secondo Brägger, il problema dei detenuti anziani è ora riconosciuto. La Conferenza dei direttori cantonali di giustizia e polizia non esclude quindi più il suicidio assistito nel sistema penale. Morire dignitosamente dietro le sbarre - Nella loro pianificazione, i concordati penitenziari volevano consentire ai detenuti ultrasessantenni di trasferirsi in futuro in un reparto del carcere adeguato alla loro età. Ciò esiste già nell’istituto penitenziario di Lenzburg. Brägger ritiene che lo Stato abbia un dovere quando si tratta di morire in carcere. Se attribuisce tanta importanza alla sicurezza e non lascia più uscire i moribondi, deve allora fare in modo che invecchino e muoiano dignitosamente dietro le sbarre. Oggi, però, nessuna istituzione vuole essere il luogo in cui qualcuno muore. Ecco perché questi detenuti vengono spostati avanti e indietro. La Germania è più avanti in questo senso e dispone già di strutture idonee. Iran. Scontri nel carcere di Karaj contro le esecuzioni capitali: morto un detenuto La Repubblica, 19 dicembre 2022 L’episodio sarebbe il frutto di una “rissa”, secondo i media di Stato. Ma per le ong la vittima stava protestando contro le esecuzioni capitali insieme ad altri prigionieri. Un detenuto è morto sabato scorso in una prigione iraniana e il caso ha fatto crescere l’allarme sulle condizioni in cui sono detenuti centinata di manifestanti arrestati nelle scorse settimane. L’episodio è avvenuto nella prigione di Karaj, a Ovest di Teheran, e sarebbe stato la conseguenza di una “rissa contenuta”, hanno riferito i media governativi: il detenuto sarebbe stato colpito a sassate da altri prigionieri. Il reparto in cui è scoppiata la rissa è quello dei reati per droga, all’interno del quale i prigionieri avrebbero anche dato fuoco a una serie di coperte racconlte nel cortile, secondo Hossein Fazeli, il pubblico ministero della provincia di Alborz. Questo nuovo episodio di violenza all’interno dei penitenziari iraniani avviene dopo il grande incendio scoppiato il 15 ottobre all’interno del famigerato carcere di Evin, dove sono rinchiusi molti prigionieri politici, attivisti, giornalisti. Il bilancio dell’incendio a Evin è stato di otto morti, secondo i media di Stato, ma giornalisti indipendenti sostengono che sarebbero molte di più le vittime. Iran Human Rights, una ong con sede a Oslo, ha affermato che l’incidente di sabato nella prigione centrale di Karaj, che ospita alcuni dei dove sono stati rinchiusi alcuni detenuti delle recenti proteste, è iniziato dopo che un uomo è stato portato in isolamento per essere giustiziato. I prigionieri hanno rotto le telecamere a circuito chiuso e cantato “morte al dittatore” e “morte alla Repubblica islamica”, ha riferito Ihr, citando una fonte anonima. I detenuti si sarebbero scontrati con le guardie di sicurezza per l’imminente esecuzione di quattro persone e più di 100 sono stati feriti da percosse e colpi di arma da fuoco, secondo la ong. Tunisia. La rivolta del popolo: a votare non va più nessuno di Francesco Battistini Corriere della Sera, 19 dicembre 2022 A 11 anni dalle Primavere arabe solo l’8,8% dei cittadini si è presentato alle urne. Ma il “golpista” Saied è saldo. E adesso spogliati dei superpoteri che ti sei dato. E vattene. Perché la poltrona non ce la si tiene, quando il popolo s’astiene. E se sabato il 91,2 per cento dei tunisini s’è rifiutato d’eleggere un Parlamento che non può essere considerato un Parlamento, dicono le opposizioni, tutto ciò è “un terremoto 8 gradi Richter che avrà gravi conseguenze”. E Kais Saied, sciò, deve “dimettersi immediatamente”. “Il fallimento”, titola Maghreb: non s’era mai vista una partecipazione dell’8,8 per cento, scrive il giornale, che snobbasse fino a questo punto il diritto di voto così faticosamente riconquistato con la Rivoluzione del 2011. Un anno e mezzo fa il presidente s’era trasformato in un presidentissimo? Oggi, commenta il leader del Fronte di salvezza nazionale - il cartello dei cinque partiti che aveva invitato al boicottaggio elettorale, prima fra tutti la fratellanza musulmana di Ennahda - è chiaro che “pochissimi tunisini sostengono l’approccio di Saied”. Non c’è bisogno d’aspettare lo spoglio delle schede, che peraltro rinvia il risultato definitivo ai ballottaggi di febbraio: per Ahmed Chebbi l’astensione di massa è già da sola “un grande disconoscimento popolare del processo” avviato il 25 luglio 2021, da quel “golpe” con cui Saied aveva congelato l’Assemblea dei rappresentanti, azzerato i partiti e dimissionato il governo, avocando a sé ogni potere esecutivo, legislativo e pure giudiziario. Ottocentomila votanti su nove milioni d’elettori hanno parlato col loro silenzio e la risposta popolare, di fronte a candidati che erano perfetti sconosciuti, è arrivata forte: “Il 92% ha voltato le spalle a questo processo illegale che si fa beffe della Costituzione”, e per questo ora serve un alto magistrato che regga l’interim e “organizzi nuove elezioni presidenziali”, senza aspettare la scadenza del 2024 (e prima che il nuovo Parlamento, disegnato a immagine di Saied, tenti magari di rinviarle…). Sarebbe tutto logico, in una normale democrazia. E in un Paese talmente malconcio da avere un tasso d’inflazione (9,8%) più alto di quello dell’affluenza alle urne. Ma Saied, lui, evita ogni commento. E raccontano non si consideri sconfitto, anzi: la partecipazione elettorale “modesta però non vergognosa”, secondo un suo fedelissimo, si spiegherebbe in realtà col fatto che ormai Ennahda non riceva più i finanziamenti dal Qatar. E sarebbe la riprova che il populismo qualunquista del presidente si fonda su una verità: tutti i partiti spariscono, se non possono foraggiare chi li vota. Tutto sommato poi, questi 161 nuovi deputati ridotti a poco più di un’assemblea di condominio, rientrano nei disegni d’un Saied stravotato tre anni fa proprio perché considerava il Parlamento un inutile orpello. Dopo avere smantellato i contropoteri, il capo dello Stato completa la costruzione d’un regime iper-presidenzialista e non si sente affatto un’anatra zoppa: nella Costituzione che s’è dato non sono previsti strumenti per destituirlo, anche quand’è così delegittimato. E non si vede chi possa farlo dall’opposizione, eternamente divisa fra islamici e laici. Saied ha in realtà un solo avversario: una devastante crisi economica. La disoccupazione e i barconi carichi d’emigranti. Già da oggi, il Fmi avrebbe dovuto prestargli 1,9 miliardi d’euro, ma i soldi sono stati congelati in attesa di riforme vere che non si vedono. Sono arrivati solo 200 milioni della Banca europea e 150 serviranno per comprare subito grano tenero: in questa Tunisia affamata e sfiduciata, il gioco si fa duro. La resistenza delle studentesse afghane e la nostra promessa di aiutarle sempre di Marta Serafini Corriere della Sera, 19 dicembre 2022 Nel Paese mediorientale, dove la popolazione femminile rischia di perdere tutto, alcune organizzazioni si stanno muovendo per il diritto all’educazione delle bambine. Noi possiamo sostenerle e onorare così le promesse di 1 anno e mezzo fa. Quando, il mese scorso, il ministero afghano per la Propagazione della virtù e la prevenzione del vizio ha vietato alle donne l’accesso a parchi di divertimento, palestre e hammam, nessuno si è stupito. Hadia Ibrahim Khel, 22 anni, attivista afghana, che nelle settimane scorse è stata speaker a TEDxVarese, non ha dubbi sul motivo. “Questa erosione di diritti umani continua e costante è epidemica. Lo vedi in Afghanistan, lo vedi in Iran dove le giovani e i giovani vengono uccisi perché scendono in piazza per chiedere libertà. Solo che ora l’Afghanistan non fa più notizia nonostante la situazione sia disperata”. Hadia Ibrahim Khel, come altre attiviste, tiene il conto di quanti giorni sono passati da quando alle ragazze afghane non è più concesso andare a scuola. Quando ha preparato il suo talk, il mese scorso, ne erano già trascorsi più di 400. “Aiutateci a tenere la luce accesa” - “È l’accesso all’educazione che ci viene negato il tasto più dolente”, aggiunge. Ma secondo Hadia Ibrahim Khel è solo questione di tempo e anche nel suo Paese ci dovrà essere un cambiamento. “E perché questo avvenga dovete aiutarci a tenere la luce accesa”, spiega a 7. Da quando i talebani sono tornati al potere, la questione dell’educazione femminile è di nuovo di stretta attualità. Prima del 15 agosto 2021 il tasso di alfabetizzazione per bambine e giovani in Afghanistan era ancora al di sotto del 50 per cento, ma molti progressi erano stati fatti. Solo tre anni prima più di 3,6 milioni di ragazze si erano iscritte a scuola: più di 2,5 milioni alla scuola primaria e oltre 1 milione alla secondaria, secondo le Nazioni Unite. Con il risultato che il 40 per cento riceveva un’istruzione. Un tasso ben più alto rispetto al 6 per cento del 2003. Poi, al ritorno degli studenti coranici a Kabul, sulle speranze delle afghane è di nuovo calato un velo pesante quanto la stoffa del loro burqa. E, secondo un sondaggio condotto da Save the Children che ha intervistato quest’anno quasi 1.700 ragazzi e ragazze di età compresa tra 9 e 17 anni in sette province, adesso oltre il 45 per cento delle ragazze non va a scuola, rispetto al 20 per cento dei ragazzi. E il 26 per cento delle giovani “mostra segni di depressione”. Le promesse disattese dei talebani - L’autunno scorso, i talebani avevano consentito alle ragazze di iscriversi alle scuole primarie e alle università. Avevano anche promesso di riattivare l’istruzione secondaria universale all’inizio del nuovo anno scolastico, il 23 marzo. Ma proprio il giorno della riapertura la decisione è stata improvvisamente ribaltata, con una mossa che ha colto di sorpresa perfino i funzionari del ministero. Subito dopo aver riconquistato il potere e ancora prima durante i colloqui di Doha per il ritiro delle truppe statunitensi, il gruppo si era affrettato ad affermare di non avere alcun interesse a ripristinare il regime degli Anni ‘90, quando le ragazze erano bandite dalla scuola come da quasi tutti i lavori, e subivano punizioni corporali o venivano lapidate se non indossavano il burqa in pubblico o perché accusate di adulterio. Eppure, nonostante le dichiarazioni di intenti, i talebani negli ultimi mesi hanno emanato nuovi decreti per dire quali carriere possono intraprendere le donne, quanto lontano possono viaggiare senza un tutore maschio e che cosa possono indossare fuori casa. Vietate economia, ingegneria, giornalismo e veterinaria - In ottobre hanno permesso alle studentesse che frequentavano la dodicesima elementare prima del 2021 di sostenere l’esame di collocamento universitario noto come kankor, ma hanno vietato l’accesso alle facoltà che ritenevano inappropriate per le giovani donne, tra cui economia, ingegneria, giornalismo e medicina veterinaria. Questo estenuante tira e molla sui diritti accade perché gli stessi talebani sono al loro interno divisi. Di recente gli Haqqani, inseriti sia dagli Stati Uniti che dalle Nazioni Unite nella lista dei gruppi terroristici, sono emersi come la forza dominante nel governo talebano guidato dal mullah Haibatullah Akhundzada. Il leader del gruppo, Sirajuddin Haqqani, è a capo del potente ministero dell’Interno, con cui esercita il controllo sull’intelligence interna e sull’apparato militare della nazione. Ma non solo. I suoi tentacoli si allungano anche fino all’Istruzione. E ha incaricato un membro della rete di Sirajuddin, Abdul Baqi Haqqani, ministro ad interim dell’Istruzione superiore, di riorganizzare il sistema educativo afghano attorno a una rigida interpretazione della legge della sharia, imponendo cambiamenti ai programmi di studio, segregando i sessi nelle scuole e imponendo severe restrizioni sull’abbigliamento e sul comportamento di ragazze e donne. Il rischio di matrimoni infantili e di tratta -L’intransigenza verso l’educazione al femminile ha avuto conseguenze anche materiali in uno dei Paesi più poveri del mondo. Tenere le ragazze lontane da scuola non è solo una scelta politica medievale che le espone al rischio di matrimoni infantili e di tratta. Ma comporta una perdita economica notevole. Secondo un’analisi di Unicef, vietare l’istruzione femminile costa all’Afghanistan il 2,5 per cento del suo prodotto interno lordo annuale. Che, tradotto, significa: se i tre milioni di ragazze e donne tenute lontane dai banchi fossero in grado di completare l’istruzione secondaria, e partecipare al mercato del lavoro, contribuirebbero con almeno 5,4 miliardi di dollari all’economia nazionale. Inoltre - secondo quanto denuncia Human Rights Watch - il rischio è che ora i donatori internazionali siano costretti a deviare gli aiuti dal settore scolastico a beni considerati più di prima necessità, come il cibo, dato il preoccupante aumento della malnutrizione infantile. Cinque mesi senza stipendio - Prima della presa del potere da parte dei talebani, circa il 75 per cento del bilancio del governo e il 49 per cento della spesa per l’istruzione provenivano da oltre confine. I talebani hanno ben poca capacità di colmare questa lacuna, quindi fin qui, dall’agosto 2021, gli insegnanti sono stati pagati parzialmente e in modo intermittente o per niente. La maggior parte ha passato mesi senza stipendio. In media - sempre secondo Human Rights Watch - un docente afghano è stato tra i quattro e i cinque mesi senza ricevere lo stipendio, e quando lo ha ricevuto ne ha potuto incassare un terzo in meno del suo stipendio abituale: 3.000 afghani, 33 dollari, invece di 4.500 afghani, 49 dollari. Fondamentale è dunque che i donatori internazionali continuino a pagare gli stipendi degli insegnanti, è ancora la raccomandazione di Human Rights Watch. E non solo. Secondo la ong statunitense, è importante che i gruppi umanitari sostengano le scuole clandestine o permettano alle studentesse di frequentare corsi online. La sicurezza delle ragazze - Un esempio virtuoso arriva da Cospe, organizzazione non governativa fiorentina. Nell’agosto del 2022 è stato avviato il Centro educativo per ragazze. Le attività sono portate avanti dalla sinergia di 6 insegnanti, che svolgono le loro lezioni dalle 8 alle 16. Le studentesse - all’incirca 480 ragazze - sono divise in classi di 20-30 persone. L’offerta formativa prevede nozioni di matematica, fisica, chimica, biologia, informatica e inglese. Il tipo di partecipazione dipende dall’interesse delle studentesse stesse: alcune frequentano tutte le lezioni, mentre altre, ad esempio, sono interessate ad imparare soltanto l’inglese. Nessuno può nascondersi che siamo ancora, e più di prima, in un contesto molto difficile e pericoloso in cui muoversi. La sicurezza delle ragazze è una delle questioni cui è rivolta la maggiore attenzione quando progetti come questo vengono avviati e sostenuti nel tempo. Sono state prese alcune precauzioni, tra cui il divieto di riunirsi durante il tragitto che le porta verso il Centro e il coinvolgimento di una donna addetta alla sicurezza ce deve muoversi con loro. I talebani non permettono infatti a queste scuole di registrarsi. E costringono ancora una volta operatori, operatrici e tutte le studentesse a vivere nell’ombra.