Nuovi istituti e la persona al centro la ricetta per le carceri del futuro di Carlo Renoldi La Stampa, 18 dicembre 2022 Il solo rafforzamento delle misure alternative non garantirebbe il rispetto della dignità di detenuti e lavoratori, servono spazi adeguati per evolvere, come nel resto d’Europa, verso una “polizia che sta fuori”. Il dibattito aperto da Donatella Stasio su questo giornale ruota intorno alla questione centrale di come garantire una pena rispettosa della dignità umana e realmente funzionale al reinserimento sociale delle persone condannate: questione che richiede solida conoscenza dei problemi, capacità di visione sul piano politico-amministrativo e, soprattutto, una coesione tra i vari attori istituzionali che spesso è mancata negli anni, con maggioranze parlamentari animate da concezioni differenti della pena e del carcere. Va premesso che il carcere è solo una delle possibili risposte dello Stato per tutelare interessi primari della collettività; e che trattandosi di una risposta costosa, in termini economici e sociali, deve essere usata quando ogni altro strumento è inefficace. È dunque condivisibile, come ha ricordato Lucia Castellano, il rafforzamento delle misure alternative, secondo le linee della riforma Cartabia e secondo quanto avviene in tutti i sistemi penali (pensiamo agli Stati Uniti, che hanno il più elevato indice di carcerizzazione, e ove nel 2020, secondo i dati del Bureau of Justice Statistics, 7 persone su 10 erano sottoposte a misure di comunità, contro le 3 su 10 detenute in carcere). Tuttavia è sbagliato pensare che le misure alternative portino necessariamente a un carcere rispettoso della dignità di chi vi è detenuto (e vi lavora) e che la diminuzione dei flussi di ingresso in carcere renda automaticamente più vivibili i nostri istituti. Così come è illusorio pensare che la pena e il carcere possano realizzare gli scopi della Costituzione attraverso la sola azione del ministero della Giustizia, che deve invece integrarsi con quella di altre articolazioni del governo centrale (in specie dei ministeri della Salute e delle Politiche sociali) ma soprattutto degli enti territoriali, in particolare delle Regioni, titolari di essenziali competenze in materia di sanità, lavoro, assistenza sociale e con le quali il dialogo, come ricorda Palma, è troppo spesso assente, con enormi conseguenze sulla gestione del carcere e sui diritti fondamentali dei ristretti. Ciò che, di recente, ha spinto la ex ministra Cartabia a stipulare con la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome presieduta da Fedriga un protocollo per la realizzazione di un sistema integrato di interventi per il reinserimento delle persone detenute: iniziativa che non dovrà essere lasciata cadere. Per realizzare un carcere secondo la Costituzione c’è bisogno, soprattutto, di spazi adeguati, di personale formato, di una nuova idea della quotidianità detentiva, sia rispetto al mandato degli operatori e alla organizzazione del loro lavoro, sia rispetto alla vita delle persone detenute. Sul piano degli spazi, è essenziale una programmazione almeno decennale di realizzazione di nuovi istituti che consenta la chiusura delle strutture fatiscenti e l’apertura di nuove realtà dove, secondo le indicazioni della Commissione per l’Architettura penitenziaria, in carcere sia possibile una pena utile, con attività trattamentali in grado di far acquisire nuove abilità e di non disperdere quelle in essere. A questo scopo, nella passata legislatura abbiamo fatto approvare norme di semplificazione delle procedure di progettazione di nuovi istituti, la cui competenza, peraltro, è attribuita al ministero per le Infrastrutture e la mobilità sostenibile, con una frammentazione delle competenze amministrative che rende complessa l’azione riformatrice, anche per la presenza di ulteriori attori istituzionali, come le sovrintendenze, in contesti vincolati sul piano storico-artistico, in specie negli istituti più risalenti, in cui è estremamente difficile realizzare interventi di ammodernamento. Un settore, dunque, in cui sono necessarie modifiche normative e il rafforzamento della capacità operativa dei ruoli tecnici dell’amministrazione penitenziaria (ingegneri e geometri) che, negli anni, non sono stati implementati. Ma, soprattutto, va ripensato il modello di organizzazione dell’amministrazione, quello dei circuiti e il mandato istituzionale del personale. Sotto il primo aspetto, il dipartimento va ridisegnato per restituire capacità operativa ai territori, redistribuendo il personale oggi allocato in maniera prevalente nelle articolazioni centrali e carente a livello locale, dove sarebbe vieppiù necessario per rendere efficienti gli istituti, vero core business dell’amministrazione; e vanno riconfigurati i provveditorati, accorpati su base sovraregionale da una spending review che ne ha dimidiato l’operatività. A tutti i livelli, centrali e periferici, va poi attuato un processo di reingegnerizzazione delle strutture burocratiche, ove sono assenti dispositivi di effettiva valutazione della performance e dei processi organizzativi, rimessi alla azione inerziale delle prassi o all’inventiva dei singoli funzionari. Ma soprattutto occorrono politiche del personale che riconoscano l’indispensabilità di tutti gli attori dell’amministrazione e in cui il personale delle “funzioni centrali” (educatori, ragionieri, ingegneri e amministrativi) non abbia uno status giuridico-economico differente dal resto del comparto, con le conseguenti difficoltà di arruolamento, come dimostrato dall’ultimo concorso per educatori, segnato da numerose rinunce dei vincitori. Politiche che devono riguardare i direttori degli istituti e i comandanti di reparto, oggi privi di incentivi, economici e di carriera, ad assumere ruoli di responsabilità nelle carceri più problematiche; e che devono concernere il ruolo della polizia penitenziaria, forza nettamente prevalente, in termini numerici e sindacali, tra gli operatori: ruolo che va ridefinito con un ripensamento di circuiti e spazi della pena. Il carcere di domani, accanto all’area, numericamente minoritaria, delle persone di più elevato spessore criminale, rispetto a cui è irrinunciabile la presenza negli spazi detentivi del personale di polizia, non potrà che evolversi nella direzione, comune al resto d’Europa, di una polizia che “sta fuori dal carcere “, la quale, accanto al controllo dei soggetti in misura alternativa, dovrà svolgere compiti di tutela della sicurezza perimetrale, di controllo dell’ingresso di oggetti pericolosi e di intervento in caso di violenze all’interno degli spazi detentivi; spazi ove dovrà essere invece chiamato a operare personale non di polizia, altamente qualificato e addestrato non tanto, come oggi, sul piano delle competenze giuridiche, quanto della relazione con le persone. Perché il carcere è, soprattutto, il luogo della relazione umana, dove, anche grazie all’azione del privato sociale, la persona deve essere accompagnata in un processo di piena realizzazione della cittadinanza, in cui, accanto al riconoscimento dei suoi diritti, possa riacquisire il senso anche dei propri doveri di solidarietà politica e civile verso la comunità di cui fa parte. Pochi gli educatori dietro le sbarre. “Per i detenuti percorsi più difficili” di Luca Cereda Avvenire, 18 dicembre 2022 In carcere dobbiamo diventare bravi detenuti o bravi cittadini? Questa domanda non è oziosa e chi è recluso ce la pone spesso. La risposta sta tutta nel tipo di percorso rieducativo che costruiamo con loro”, dice Ornella Favero, fondatrice e direttrice della rivista “Ristretti Orizzonti” e guida della Conferenza nazionale volontariato giustizia. Nell’anno del drammatico record di suicidi in carcere, la speranza è che il 2022 possa essere ricordato anche per le novità sulla creazione dei percorsi rieducativi istituite dal Dap, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria grazie alla circolare “Valorizzazione del ruolo e della figura professionale del Funzionario giuridico pedagogico”. “Funzionario giuridico pedagogico è infatti il nome tecnico che delinea la figura dell’educatore, un ruolo “entrato” in carcere con una riforma nel 1975 per attuare il principio costituzionale della pena. Il nostro compito principale riguarda la programmazione dei percorsi rieducativi che realizziamo insieme al detenuto”, spiega Roberto Bezzi, direttore dell’area educativa della casa di reclusione di Milano-Bollate, e co-autore del libro “Educare in carcere”. Quella dell’educatore è quindi la figura cruciale per la buona riuscita della rieducazione della pena. Eppure il ministero della Giustizia prevede che negli istituti di pena siano attivi 37.445 agenti di polizia penitenziaria, 4.609 figure amministrative e soltanto 908 funzionari giuridico pedagogici. Attualmente nei 190 penitenziari italiani tutte le figure professionali previste sono sotto organico: gli agenti impiegati secondo l’ultimo rapporto del Dap sono 31.680, gli addetti all’area amministrativa 2.919 (-1.150) e gli educatori 681 (-227). Il rapporto tra il numero totale dei detenuti e il numero totale degli agenti è di 1,7 detenuti, invece, rispetto ai funzionari giuridico- pedagogici è di 80,5 detenuti per ogni educatore, con casi di istituti dove è ancora più sproporzionato: a Napoli Poggioreale ci sono 221 detenuti per un educatore, a Sulmona 208. Oggi la situazione è comunque migliore del 2003 quando gli educatori erano 474, 1 ogni 117 detenuti. Il Dap sta cercando di invertire la tendenza: a settembre ha indetto in concorso assumere 210 nuovi educatori, “un numero che serve a coprire i pensionamenti. In servizio però ne entreranno 160”, spiega Bezzi Nel frattempo è stato bandito un nuovo concorso per 104 candidati con l’obiettivo di dispone entro gennaio di 700 educatori per averne 1 ogni 65. Una volta superato il concorso però, non si entra effettivamente in servizio, “perché si deve essere formati quasi da zero - spiega Roberto Bezzi, che tiene un corso propedeutico all’Università di Milano-Bicocca Non esistono infatti percorsi accademici per i funzionari giuridico pedagogici che arrivano da lauree in giurisprudenza o psicosociali. È l’amministrazione penitenziaria che provvede allo sviluppo delle competenze necessarie per essere operatori di prossimità. Il trattamento del detenuto è individualizzato e l’educatore ha il compito di rilevare le carenze della persona e di svilupparne le attitudini grazie alla coprogettazione che ci vede come mediatori tra il carcere, il recluso e il Terzo settore”. È innegabile che i percorsi rieducativi ben strutturati, uniti ad attività sportive e lavorative abbattono la recidiva: “Da Bollate escono ogni giorno per attività in regime di articolo 21, 220 detenuti. Anche per questo qui la recidiva è al 18% contro la media nazionale del 70”, ritiene Bezzi. È chiaro che con simili rapporti numerici tra detenuti ed educatori, molte delle attività rieducative in carcere siano organizzate dalle associazioni volontariato. “In Lombardia organizziamo 1’80% dei percorsi rieducativi - spiega la guida della Conferenza nazionale volontariato giustizia. Vogliamo che non si pensi che bravo detenuto sia chi sta in branda e “non rompe le scatole”. Per cambiare questo paradigma, ogni persona deve avere la responsabilità di compartecipare alla progettazione del suo percorso rieducativo. Il ruolo degli educatori è fondamentale, ma lo è anche quello dei volontari che portano in carcere la società civile che ci piacerebbe fosse sempre chiamata a coprogettare la rieducazione del condannato, ma anche la formazione degli educatori e agenti di polizia. Penso che il volontariato in carcere abbia la storia e le competenze per gestire una partecipazione più strutturata, che non sia solo la gestione di un’attività, ma che veda il Terzo settore partecipe anche nella costruzione amministrativa di quel progetto rieducativo con uno o più detenuti” La prof insegna filosofia in cella: “In carcere aiutiamo a pensare” di Luca Cereda Avvenire, 18 dicembre 2022 Riducono la recidiva, restituiscono dignità alla persona e danno valore al tempo della pena. È questo che fanno le iniziative culturali portate in carcere dalle associazioni di volontariato e anche dai cappellani degli istituti di pena. Attività che hanno sempre anche l’obiettivo di essere un tassello della rieducazione del condannato e progetto sociale destinato a influire sulla vita dei detenuti, su come guardano a se stessi e al mondo fuori. Non solo. “Queste esperienze aumentano l’autostima, promuovono l’interazione con gli altri e sono un ponte con la società, tra chi sta dentro e chi vive fuori”. Ne è convinta la filosofa Paola Saporiti, docente al Liceo Edith Stein di Gavirate (Varese), che per l’associazione di volontariato in carcere più antica d’Italia - Sesta Opera San Fedele - dal 2014 porta la filosofia in carcere. Non per insegnare Platone o Kant ai detenuti, ma per piantare semi che con il tempo e la giusta cura, possano crescere e dare frutti. Da questa idea è nato il “Café Philò”: “Ogni mese entro nel carcere di Bollate insieme ai miei studenti dell’ultimo anno del liceo, sia nel reparto maschile che, dal 2015, in quello femminile - spiega. Questo è un momento che stimola la riflessione degli studenti e dei detenuti insieme su temi che sono stati oggetto dei ragionamenti dei grandi filosofi come la felicità, il rispetto, la giustizia e la scelta. L’esperienza di questa forma di volontariato fatta di dialogo, permette ai miei studenti di dare forma al concetto di dignità e di rieducazione della pena. Inoltre li rende consapevoli della responsabilità civile che abbiamo gli uni verso gli altri, anche nel caso in cui l’altro sia detenuto. Nel momento in cui la filosofia viene portata all’interno del carcere, non solo ritorna alle sue origini più autentiche ma soprattutto rivela tutta la sua valenza pedagogica”. Se la filosofia aiuta i detenuti a riflettere sulle sfumature della vita, l’idea di don David Riboldi, cappellano al carcere di Busto Arsizio è nata con lo stesso scopo: restituire a chi sta fuori, a colori, la vita in carcere. Un luogo spesso pensato in bianco e nero. “Nell’anno del tragico record dei suicidi negli istituti di pena, sintomo di solitudine, abbiamo pensato di proporre un corso di fotografia ai detenuti. Tenuto da un fotografo professionista ha permesso loro di realizzare un calendario. Questo è anche l’unico calendario 2023 al 100% realizzato da detenuti: infatti è stato ideato dalle persone recluse che si sono iscritte al corso di fotografia e seguito le 10 lezioni promosse dalla cooperativa sociale “La Valle di Ezechiele” in accordo con l’area trattamentale del penitenziario. Negli scatti hanno ricreato scene di vita quotidiana insieme ad alcuni volti noti come Adriana Volpe, Debora Villa, Jo Squillo, Patrick Ray Pugliese, Marco Maddaloni, Martina Tammaro ed Erika Mattina che si sono messi a disposizione dei detenuti. Infine il calendario è stato stampato dalla cooperativa Zerografica, che dà lavoro ai detenuti del carcere di Bollate”. Lo sguardo del cappellano torna a quanto è accaduto quest’anno: “La solitudine sta seminando morte in carcere come non mai nella storia della Repubblica”. Per moltiplicare le attività don Riboldi ha organizzato un percorso artistico all’interno della casa circondariale di Busto, insieme al “gruppo presepi Marnate”: “Ho trovato la disponibilità dei presepisti a condividere la loro passione e il loro knowhow in 10 appuntamenti di formazione con i detenuti e insieme abbiamo realizzato un presepe, partendo da zero: polistirolo, colori, fantasia”. Nordio affonda l’abuso d’ufficio. Toghe in rivolta sulle intercettazioni di Liana Milella La Repubblica, 18 dicembre 2022 Sul tavolo del ministro della Giustizia il testo di FI che ridimensiona il reato. L’Anm sul piede di guerra. Con la benedizione di Berlusconi - “Nordio sta indicando la strada giusta, quella del rispetto del cittadino” - il Guardasigilli Carlo Nordio va diritto verso lo scontro con la magistratura. Proprio come vent’anni fa, a partire dalle riforme costituzionali. La separazione delle carriere, una per i giudici e una per i pm, con due Csm; via l’obbligatorietà dell’azione penale, per una discrezionalità decisa dalla stessa politica. Sono i capisaldi della nostra Costituzione. E Nordio sta per farli cadere, forte di una maggioranza di centrodestra che ha sempre agognato proprio questo, tagliare le unghie ai pm. E l’Anm, come dal 2001 in avanti, s’arrabbia. “Non c’è nulla di liberale nelle riforme di Nordio” gli dice a brutto muso il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, interpretando l’allarme dei colleghi che siedono con lui al Comitato direttivo centrale. Ma Nordio non se ne dà per inteso. Com’è sua abitudine, nei fine settimana torna nella sua terra. Abita a Treviso, ha lavorato da pm prima e da procuratore aggiunto poi a Venezia. E ancora ieri era proprio lì, in territorio amico. Pronto a raccogliere gli applausi dei colleghi mentre si scagliava contro le intercettazioni, annunciandone l’ormai prossima riforma, che dovrebbe arrivare a metà gennaio. Come quella dell’abuso d’ufficio, reato che rischia di diventare un guscio vuoto. Sul suo tavolo c’è già la proposta che proprio Forza Italia ha messo a punto. La firmano il vice ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto e Roberto Pella, uno dei relatori berlusconiani della manovra fiscale, ma pure vice presidente dell’Anci in quanto sindaco di Valdengo, comune di 2.800 abitanti nel biellese. E a leggere il “nuovo” abuso d’ufficio si vede subito che diventerà - se alla fine Nordio non lo cancella del tutto - un “reatucolo”. Il testo arriva in commissione Giustizia questa settimana e stabilisce che l’abuso d’ufficio sarà sempre punito da 1 a 4 anni, ma per esistere il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio dovranno “consapevolmente omettere di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto” e in questo modo dovrà “arrecare direttamente ad altri un danno ingiusto”. Nel gioco degli avverbi, quelli del duo Sisto-Pella - “consapevolmente” e “direttamente” - vanno ad aggiungersi a quello del governo Conte del 2020 - “regole di condotta espressamente previste dalla legge” - che aveva già ridotto a nulla il reato. Ma tant’è. La prima mossa parlamentare di Nordio sarà proprio sull’abuso d’ufficio e sul traffico d’influenze, poi arriverà la riforma delle intercettazioni. Ieri, dal Guardasigilli, ecco il paragone ardito con l’inchiesta di Bruxelles. “Sta dimostrando quello che avevamo fatto con il Mose, l’ultima inchiesta che ho coordinato. Le intercettazioni devono essere solo uno strumento per la ricerca della prova e non la prova in sé. Grazie a intercettazioni e pedinamenti si è trovata la prova del reato che, fermo restando la presunzione di innocenza, è stata la somma di danaro in possesso di questi signori”. Inutilmente Santalucia gli ricorda che il dem Andrea Orlando e poi Alfonso Bonafede hanno cambiato la legge. Lui non fa sconti e va avanti nella sua crociata: “In Italia se n’è fatto un uso strumentale, un processo penale basato solo su intercettazioni è destinato a fallire. Non si tocca nulla per i reati di terrorismo e mafia, per gli altri va fatta una spending review”. E corrotti e corruttori applaudono presi dall’entusiasmo in vista di questa riforma. Intercettazioni, Anm contro Nordio: “Attacco a freddo”. Il ministro: “Non siano la prova in sé” di Franco Stefanoni Corriere della Sera, 18 dicembre 2022 L’Associazione nazionale dei magistrati contesta il proposito di “riformare la Costituzione” da parte del Guardasigilli, che aveva detto: “Cambiarla non è blasfemo”. Scontro a distanza tra l’Anm (Associazione nazionale magistrati) e il ministro della Giustizia, Carlo Nordio. “Non c’è nulla di liberale nelle riforme” costituzionali “che il ministro Nordio sta annunciando”, ha detto il presidente dell’associazione Giuseppe Santalucia, durante il comitato direttivo di oggi (venerdì il Guardasigilli aveva infatti annunciato: “Nulla di blasfemo a cambiare la Costituzione”). Questo mentre Nordio, a Venezia a margine di una riunione degli avvocati del Nord Est, argomentava: “Il Codice penale italiano è firmato da Benito Mussolini. La contraddizione è che si parla di reati di apologia del regime fascista, che vengono puniti in base a un codice fascista firmato da Mussolini e Vittorio Emanuele III, mentre abbiamo un codice di procedura penale firmato da un eroe della Resistenza, che è stato demolito, perché in contrasto con la Costituzione nata dalla Resistenza. Se questa non è una contraddizione non saprei come altro chiamarla e va risolta”. E ancora, Santalucia: “Credo che il nostro sistema di garanzie democratiche non possa fare a meno di azione penale obbligatoria e unità delle carriere: se si toccano questi capisaldi non si fa un riforma in senso liberale ma si pongono le premesse per un controllo politico sull’azione penale”. Mentre Nordio aveva già sottolineato: “C’è l’esigenza di una separazione vera tra pm e giudice, l’obbligatorietà dell’azione penale è un intollerabile arbitrio”. Lo scontro - La questione più sentita è stata quella delle intercettazioni. “Quello alle intercettazioni sembra un attacco a freddo”, ha detto Santalucia, ricordando che ci sono state già due riforme in materia negli ultimi anni, nel 2017-2018 e poi nel 2020, per cercare di rendere pressoché impossibile che le intercettazioni non rilevanti vadano all’esterno: “Non credo che ci siano stati casi che segnano una lacuna nella normativa”, come invece “in passato è accaduto”, e “ciononostante il ministro Nordio ha ripreso un vecchio tema”. Tema su cui il ministro ha invece ribadito: “Bruxelles sta dimostrando quello che avevamo fatto con il Mose, che è l’ultima inchiesta che ho coordinato. Le intercettazioni devono essere solo uno strumento per la ricerca della prova e non la prova in sé”. Ma proprio l’inchiesta belga è stata presa a esempio dall’Anm a sostegno dell’utilizzo delle intercettazioni. “Credo che la cronaca di oggi, e penso a quello che sta succedendo in Belgio con un’indagine che si è giovata fortemente delle intercettazioni”, ha incalzato Santalucia, “si sia incaricata di smentire l’ordine delle priorità del ministro”. Anche il Qatargate divide Nordio dai magistrati di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 18 dicembre 2022 Il presidente dell’Anm Santalucia: “L’Europarlamento non ha attaccato i giudici di Bruxelles”. Il ministro: “Lì le intercettazioni le hanno usate bene”. Intanto nel parlamentino delle toghe si formalizza la separazione a sinistra: Magistratura democratica costituisce un gruppo autonomo da Area. “Il rispetto che l’autorità politica sta mostrando nei confronti della magistratura in Belgio è una lezione di stile, fossimo stati in Italia avremmo già avuto le accuse della politica di invasione di campo”. La pensa così il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia, e con questo riferimento polemico all’inchiesta sulla corruzione all’Europarlamento chiude la sua relazione al comitato direttivo centrale dell’Anm. Nella quale critica con forza i primi annunci del ministro della giustizia Nordio, responsabile di aver “attaccato a freddo” le intercettazioni come strumento di indagine. Ridimensionarne l’impiego, spiega Santalucia, non è necessario e poi “le priorità sono altre, per esempio le condizioni delle carceri o l’impegno anche giudiziario contro le morti sul lavoro”. Ed è proprio lo scandalo esploso in Belgio “a smentire l’ordine delle priorità del ministro. Quell’indagine infatti si è giovata fortemente delle intercettazioni. La cronaca spiega da sola come i controlli di legalità vadano rafforzati, non indeboliti”, aggiunge Santalucia. Che però, a nostra domanda, risponde di considerare l’indagine di Bruxelles una “lezione di stile” anche dal punto di vista del comportamento della procura, cioè della grande riservatezza per la quale il contenuto delle intercettazioni, rilevanti o meno che fosse, non è uscito sui giornali. “Ma sono convinto - aggiunge - che anche da noi non ci siano casi recenti di indebite divulgazioni di intercettazioni. C’è stata la riforma Orlando e c’è stato anche un rilevante sforzo organizzativo del ministero. Spero di non essere smentito dai fatti e lo dico con cautela, ma credo che il problema delle intercettazioni irrilevanti finite sulla stampa sia stato un gran parte risolto”. Nordio però è di parere opposto. Nella stessa giornata, parlando a Venezia, porta anche lui il cosiddetto Qatargate come argomento a suo favore. “Bruxelles sta dimostrando che le intercettazioni devono essere solo uno strumento per la ricerca della prova e non la prova in sé. Grazie alle intercettazioni e ai pedinamenti si è trovata la prova del reato che, fermo restando la presunzione di innocenza, è stata la somma di danaro in possesso di questi signori”. Spostando il problema dalla diffusione a l’impiego in sé dello strumento di indagine, il ministro aggiunge che “un processo penale basato solo su intercettazioni è destinato a fallire. In Italia se ne fa un uso improprio. Per quanto riguarda i reati di terrorismo e mafia sulle intercettazioni non si tocca nulla, per gli altri va fatta una spending review. Viceversa, sul tema dell’efficienza degli uffici giudiziari, l’Anm è pronta “a fare proposte così come ci ha chiesto il ministro”, dice Santalucia. Ma poi allarga le critiche agli ulteriori annunci di Nordio a proposito di riforme costituzionali: separazione delle carriere tra pm e giudici e discrezionalità dell’azione penale. “L’esito sarà il controllo politico sulla magistratura - prevede -, Nordio dovrebbe spiegarci quale assetto della magistratura ha in mente dopo riforme del genere che non hanno nulla di liberale”. Ieri intanto la separazione tra Magistratura democratica e Area (la corrente di sinistra delle toghe e la macro corrente che per anni ha fatto da contenitore) è diventata ufficiale anche nel parlamentino dei magistrati. Due settimane fa Area ha introdotto l’incompatibilità tra l’associazione e l’appartenenza ad altre liste, di conseguenza ieri Silvia Albano (che è stata la più votata tra le toghe), Mico Santoro e Stefano Celli hanno comunicato la costituzione del gruppo autonomo di Md, che torna così dopo oltre dieci anni. Santalucia (Anm): “Le riforme di Nordio dovrebbero mettere tutti in allarme” di Liana Milella La Repubblica, 18 dicembre 2022 Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati: “Le intercettazioni? Sono uno strumento importante al pari di altri, ma che in alcuni settori criminali e corruttivi possono rivelarsi indispensabili”. Le riforme di Nordio? “Uno scenario che dovrebbe allarmare tutti i cittadini”. Ecco l’altolà del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia al ministro della Giustizia Carlo Nordio. Senza se e senza ma, un netto no alle sue riforme costituzionali. Da una ministra come Cartabia che centellinava le parole e limitava gli annunci, a un Guardasigilli che parla molto ma finora ha firmato solo il decreto Rave e cacciato un vostro collega garantista come Carlo Renoldi. Bilancio magro a 45 giorni dalla nomina? “Dal ministro ci attendiamo fortemente interventi di sostegno alla magistratura in un momento di grande difficoltà organizzativa e soprattutto proprio mentre si devono raggiungere obiettivi molto ambiziosi di riduzione dei tempi dei processi. Quanto al Rave abbiamo criticato la vaghezza della norma che rischiava di avere applicazioni eccessive, e anche grazie alle nostre critiche i più gravi profili dannosi sono venuti meno”.  Nordio lo ripete ogni giorno, come un leit motiv, addirittura più di quanto lo dicesse Berlusconi, che “non è blasfemo” cambiare la Costituzione. Per lei lo è? “Per me lo è sicuramente se si peggiora la Carta. Le proposte prospettate finora farebbero fare passi indietro al rapporto tra i poteri dello Stato sul piano dell’equilibrio”.  Il potere politico schiaccerebbe quello giudiziario? “Sarebbe inevitabile attrarre il pm e l’azione penale nella sfera di controllo della politica. E in questo francamente non vedo proprio nulla di liberale”.  In che senso usa quest’aggettivo? “Un sistema liberale deve poter contare sulla netta separazione tra politica e giurisdizione. La Carta costituzionale è storicamente il frutto della preoccupazione che si ebbe all’indomani dell’esperienza autoritaria del fascismo. E in questo senso quell’impianto costituzionale è autenticamente liberale, e non vedo ragioni di cambiarlo”. Nordio vuole cambiarlo “a partire dai pm”. Che danno ne verrebbe per voi e per la stessa Costituzione? “Per i magistrati, dal punto di vista burocratico in quanto funzionari dello Stato, non ne verrebbe alcun danno, ma ne verrebbero sicuramente per la qualità della nostra democrazia. Nel senso che quanto sostiene il ministro, e cioè che le riforme non si risolverebbero in una dipendenza del pm dal potere politico, non ci persuade per nulla, e temiamo fondatamente che si porrebbero le premesse per il controllo politico sull’azione penale, e quindi per una compressione dell’indipendenza stessa dei giudici”.  Perché si meraviglia? Questo vuole tutto il centrodestra e probabilmente anche i cittadini che li hanno votati... “Il dovere dell’Anm è quello di insistere con argomenti e buone ragioni in difesa dell’architettura costituzionale della giustizia. Noi non diciamo no, e siamo aperti, come abbiamo dimostrato, alle riforme, ovviamente non rinunciando a interventi critici, ma va salvaguardata la cornice costituzionale. Senza pensare a comparazioni con sistemi di altri Paesi. Ognuno ha la sua storia, le sue tradizioni, la sua cultura politica. I trapianti di modelli processuali e ordinamentali possono rivelarsi molto pericolosi “.  Pm separati dai giudici e discrezionalità dell’azione penale. Questo vuole il centrodestra. “È uno scenario che dovrebbe allarmare tutti i cittadini”. Le intercettazioni, dice Nordio citando Bruxelles “sono un mezzo di prova, ma non la prova”. E allora perché, nell’indagine per la morte di Falcone, quell’intercettazione che diceva “unni ci ficimu l’attentatuni...” ha rappresentato una prova e una svolta per arrestare gli assassini del giudice? “Quella di Nordio è una ovvietà per i giuristi, ma rischia di essere assai poco chiara e fuorviante per il grande pubblico. Il materiale raccolto con le intercettazioni ovviamente va riscontrato, come del resto si fa per qualsiasi altra prova. Ciò non toglie che le intercettazioni siano uno strumento importante al pari di altri, ma che in alcuni settori criminali e corruttivi possono rivelarsi indispensabili”.  Quindi ridurre le intercettazioni significa fare un danno alle indagini? “Parlare di ridimensionamento delle intercettazioni in un momento in cui i controlli di legalità - penso ai finanziamenti del Pnrr e al rischio di infiltrazioni criminali - dovrebbero essere potenziati per noi è del tutto incomprensibile”.  Come giudica il proliferare di commissioni d’inchiesta, sulla magistratura e su Mani pulite, e anche l’indagine conoscitiva sulle intercettazioni di Bongiorno? “Credo che rivelino una forte diffidenza, ingiusta e immeritata, verso il potere giudiziario. Ma noi non abbiamo nulla da nascondere”.  Per gennaio s’annunciano l’azzeramento di fatto dell’abuso d’ufficio e del traffico d’influenze e in parte anche della legge Severino. Notizie cattive? “Direi proprio di sì, perché l’abuso d’ufficio è già stato riformato nel 2020 e non vedo come possa essere ancora un problema. Eliminarlo sarebbe un errore. Il traffico d’influenze è stato inserito nel nostro sistema nel rispetto di una convezione internazionale per contrastare la corruzione. Si può migliorare la norma, ma non certo eliminarla. La Severino è una delle poche leggi di prevenzione della corruzione che non si può pensare di contrastare solo con procure e tribunali”.  Perché il decreto anti-rave è diventato il cavallo di Troia per un liberi tutti: dai no-vax ai corrotti di Simone Alliva L’Espresso, 18 dicembre 2022 Punisce con il carcere chi organizza “i raduni musicali”, consente di reintegrare i medici obiettori. E fa un passo indietro per l’ergastolo ostativo. Il decreto anti-Rave è il primo provvedimento del governo Meloni che arriva in porto in un ramo del Parlamento a cinquanta giorni dalla sua nascita. Il Senato ha approvato ieri la conversione e arriverà alla Camera il 27 dicembre. “Un decreto bugiardo sin dal nome”, ripetono i parlamentari delle opposizioni. La legge oltre a non nominare mai la parola rave (si legge: “invasione arbitraria di terreni o edifici […] al fine di organizzare raduni musicali”) in realtà è un contenitore di altre norme così diverse da aver rischiato un’eccezione di costituzionalità motivata dalla non eterogeneità del contenuto. Il provvedimento interviene su più temi: sicurezza, giustizia e sanità. Dal reintegro in servizio del personale sanitario no-vax alla riforma dei reati ostativi, fino ai benefici penitenziari per i detenuti mafiosi che non collaborano. I corrotti, invece, d’ora in poi potranno ottenere i benefici carcerari. Sono questi alcuni dei principali ritocchi apportati durante il passaggio nella commissione Giustizia al Senato e nell’aula di Palazzo Madama. Anche la genesi fa discutere: lo strumento utilizzato è infatti quello del decreto-legge, il terzo solo nel corso del primo mese di governo. Un provvedimento che dovrebbe essere adottato dal governo nei casi straordinari di necessità e urgenza e che segna una quasi continuità con il governo precedente- in un altro tempo sarebbe stato bollato da Fratelli d’Italia come un abuso. Anti-Rave? Non solo - La riscrittura dell’articolo 5 dedicato ai rave party entra al centro di critiche e polemiche - con un emendamento presentato dal Governo, messo a punto dal ministero della Giustizia che non nomina mai la parola “rave”. Si legge nell’emendamento approvato: reclusione da tre a sei anni e la multa da 1.000 a 10 mila euro per “chiunque organizza o promuove l’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati” al fine di “realizzare un raduno musicale o avente altro scopo di intrattenimento” quando questo metta a rischio “l’incolumità pubblica” o sia luogo di uso di stupefacenti. Inoltre “è sempre ordinata la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato” nonché di “quelle utilizzate per realizzare le finalità dell’occupazione o di quelle che ne sono il prodotto o il profitto”. Per il costituzionalista Angelo Schillaci: “Un emendamento inutile, irragionevole e pericoloso. Inutile perché esistono già norme per intervenire a tutela della proprietà privata in caso di rave party come si è visto nel caso di Modena. Irragionevole perché punisce con pene spropositate, rispetto a quelle previste per fattispecie analoghe. Pericolosa perché permangono dei margini di incertezza che potrebbero far sì che venga applicata non solo ai rave, come immaginiamo ma a semplici feste come, ad esempio, quelle dentro un centro sociale occupato. Un intervento con seri profili di inesattezza giuridica e illegittimità costituzionale”. Anche il leader dell’Unione delle camere penali Giandomenico Caiazza ha puntato l’indice sulla “assoluta indeterminatezza” del nuovo reato: “il testo parla di tutto fuorché dei rave party”. Rinvio delle multe ai non vaccinati - Grazie all’emendamento a prima firma del capogruppo della Lega Massimiliano Romeo, “fino al 30 giugno 2023 sono sospese le attività e i procedimenti di irrogazione della sanzione” nei casi di inadempimento dell’obbligo vaccinale Covid-19. Un salvagente per tutti coloro che non avevano rispettato l’obbligo vaccinale, cioè over 50, docenti, operatori sanitari, forze dell’ordine. Si tratta di quasi due milioni di sanzioni rinviate. Via libera ai medici no-vax - È stato approvato l’anticipo della fine dell’obbligo vaccinale al 1° novembre per i medici e tutto il personale sanitario, che altrimenti sarebbe scaduto a fine anno. Via libera, quindi, anche alla riammissione in servizio di tutti coloro che non rispettavano gli obblighi stabiliti dallo scorso governo. Stop ai Green Pass in Rsa e Ospedali - Il merito è dell’emendamento a prima firma del presidente della commissione Sanità Franco Zaffini (FdI), che aggiunge due articoli al Dl-Rave, intervenendo sul green pass. abolito e non ci sarà più bisogno del certificato per entrare nelle strutture residenziali, socio-assistenziali, sociosanitarie e hospice nonché nei reparti di degenza delle strutture ospedaliere. Il documento non sarà necessario nemmeno per l’uscita degli ospiti delle strutture sociosanitarie. Non servirà il Green pass nemmeno per stare nelle sale di aspetto dei pronto soccorso. Stop al tampone per uscire dall’isolamento - L’isolamento delle persone infettate dal coronavirus, che oggi dura 5 giorni, si concluderà senza bisogno di fare un tampone. Oggi bisogna fare il test, non prima di 5 giorni e se non si hanno sintomi. Con la nuova norma si potrà quindi uscire senza bisogno di controlli. Cosa succede se una persona ha ancora sintomi dopo 5 giorni? Dovrà risolvere la questione una circolare di Schillaci, che indicherà ad esempio come comportarsi a seconda che ci siano o meno dei sintomi, dei quali nella norma approvata al Senato non si parla. Riforma dell’ergastolo ostativo - L’ergastolo ostativo è tra le misure di emergenza nella lotta alla mafia volute dal giudice Giovanni Falcone nel 1992. Prevede che i condannati per alcuni reati gravi, in particolare mafia, terrorismo e associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, non abbiano la possibilità di accedere ad alcun beneficio penitenziario - come i permessi premio e il lavoro esterno - se non decidono di collaborare con la giustizia, dimostrando così il loro ravvedimento. Il decreto legge interviene sulla disciplina relativa alla concessione dei benefici su detenuti e internati, con riferimento ai delitti commessi “per terrorismo” e per i “reati di mafia”. In particolare si stabilisce che i benefici possano essere concessi purché si dimostri l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna o “l’assoluta impossibilità di tale adempimento”, nonché “alleghino elementi specifici” che consentano di escludere “l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso” e il pericolo di ripristino di “tali collegamenti”. Per Roberto Scarpinato, ex pm antimafia e senatore del M5s: “Quella sull’ergastolo ostativo potrebbe essere rinominata come una legge per disincentivare la collaborazione con la Giustizia e incentivare la non collaborazione attraverso una serie di meccanismi che riservano ai collaboratori un trattamento peggiore di quello per chi non collabora”. Il reato contro la pubblica amministrazione non è più ostativo - Con l’ok all’emendamento del capogruppo di FI Pierantonio Zanettin vengono cancellati i reati contro la Pubblica amministrazione dall’elenco di quelli ostativi. Adesso potranno godere dei benefici carcerari automatici - e uscire dal carcere, o proprio non entrarci nemmeno - anche i condannati per reati contro la Pubblica amministrazione, corruzione, concussione, peculato. Soprannominata dall’opposizione norma-salvacorrotti o dei colletti bianchi. Il governo vuole rivedere il reato di tortura per “tutelare” i poliziotti di Valeria Casolaro L’Indipendente, 18 dicembre 2022 Nel corso del 1° Congresso regionale del Nuovo Sindacato Carabinieri (Nsc) Emilia-Romagna, svoltosi a Ferrara, il viceministro alle Infrastrutture e alla Mobilità Sostenibile Galeazzo Bignami ha manifestato l’intenzione di apportare modifiche al reato di tortura. Secondo il viceministro, infatti, “Chi porta la divisa è sottoposto a procedimenti disciplinari o ancor peggio giudiziari semplicemente perché ha esercitato il suo ruolo di servitore dello Stato. Sul quel segmento noi interverremo”. Il reato di tortura tuttavia, così come specificato dalla coordinatrice nazionale di Antigone, Susanna Marietti, non è pensato per punire specificamente gli agenti, ma chiunque si macchi di tali crimini, delineando un’aggravante se si tratta di pubblici ufficiali. In Italia il reato di tortura esiste solamente dal 2017, nonostante il nostro Paese sia tra i firmatari della Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 1984. Il testo dell’art. 613 bis del codice penale recita: “Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”. Nel caso in cui i fatti vengano commessi “da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio”, e quindi con “abuso dei poteri in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio”, la pena aumenta fino ad arrivare a 12 anni. L’articolo specifica inoltre che sono tutelati da tale accusa i pubblici ufficiali che agiscano eseguendo “legittime misure privative o limitative di diritti”. Se dai fatti deriva la morte della vittima, la pena è l’ergastolo. Il reato non è quindi formulato specificamente per andare a colpire le forze dell’ordine: costituisce tuttavia un’aggravante il fatto che a metterlo in atto sia un pubblico ufficiale. Il fatto che finalmente dal 2017 esista un quadro giuridico che determina tale tipo di reato ha reso evidente come, nelle strutture penitenziarie di tutta Italia, siano moltissimi i casi di agenti che si macchiano di tortura ai danni dei detenuti. Come riportato dall’associazione Antigone, solamente nell’anno corrente “sono oltre 200 gli operatori penitenziari attualmente indagati, imputati o già passati in giudicato all’interno di procedimenti che riguardano anche episodi di tortura e violenza avvenuti nelle carceri italiane. Un dato che ci racconta di un problema evidente che si riscontra negli istituti di pena”. “L’approvazione della legge sulla tortura, avvenuta nel 2017, ha certamente influito positivamente sull’emersione di queste condotte, aumentando la predisposizione dei detenuti a denunciarle e l’attenzione che la magistratura pone nell’indagarle e perseguirle” prosegue Antigone, che denuncia come tuttavia a mancare sia, a questo punto, un’adeguata attività di prevenzione che consti di iniziative quali la “formazione degli agenti penitenziari”, la costruzione di una vita più “distesa” all’interno degli istituti (per esempio contrastando il sovraffollamento e impegnando i detenuti in attività) e offrendo riconoscimenti a coloro che, nelle carceri, svolgono il proprio lavoro “nel pieno rispetto delle proprie funzioni e della dignità della persona”, ovvero “la maggior parte degli operatori”. Secondo il viceministro Bignami, tuttavia, “Chi sbaglia deve pagare, ma la struttura della norma è eccessiva perché non immagina una reiterazione e sanziona pesantemente anche singoli abusi”. Il riferimento, a sua detta, è ad un poliziotto che avrebbe subito una condanna a 16 mesi per aver dato una manganellata a un manifestante, causandone la perdita di un dente. “Così c’è il rischio che diventi complicato per gli agenti fare il proprio mestiere” specifica il viceministro. Tuttavia, andare a rivedere la norma per apportarvi delle modifiche rischia di “neutralizzarne l’impatto”, specifica la coordinatrice nazionale di Antigone, costituendo “un errore culturale, giuridico e politico gravissimo”. Pistoia. Lettere dal carcere, mai spedite, mai ricevute La ricerca di Rosa tra le “carte custodite” di Lucia Agati La Nazione, 18 dicembre 2022 Durante le operazioni di archivio ha trovato documenti che abbracciano quasi un secolo di vita tra le mura di Santa Caterina. Ogni studioso di storia e di archivistica sa sempre che in ogni edificio dalle mura antiche sono nascoste carte preziose che raccontano fatti sconosciuti o inattesi e che aspettano soltanto di essere tirate fuori dai cassetti e consultate. Per Rosa Cirone è stato esattamente così. Ed è così che ha scoperto che sotto il carcere di Santa Caterina c’erano tre rifugi antiaerei e che nella chiesa c’era un altare che proveniva da San Bartolomeo e di cui non si sa più nulla. Rosa, dopo tanti anni, ha aperto le lettere mai spedite, nè ricevute, dei detenuti. Tra le sue mani si è aperto uno spaccato di un’umanità sofferente. Rosa è nata a Nuoro il 24 marzo del 1960. Il babbo Antonio era agente di custodia e il nonno Vincenzo aveva lavorato nel vecchio ergastolo di Santo Stefano. Rosa oggi è in pensione. È stata funzionario dell’organizzazione del contatto con l’esterno nell’amministrazione penitenziaria. Dal 1982 ha lavorato come vigilatrice nelle sezioni femminili di Bologna, Latina e Cassino e dal ‘90 ha lavorato a Pistoia dove ha sposato un pistoiese, Marco Vannucci, artigiano. Ha due figli: Loris e Valerio e una nipote, Aurora. In Toscana si è laureata tre volte: in materie letterarie nel 2000, in scienze storiche nel 2010, e in scienze archivistiche nel 2020. Non riesce a stare lontana dai libri e ancora non si capacita di come sia riuscita in questa impresa. Come nasce la sua passione? “La mia è una passione fortissima per la storia e per la ricerca archivistica che si è rafforzata vivendo in Toscana, che offre una ricchezza culturale incredibile e nascosta. Ho lavorato sulla storia della scuola medica pistoiese e ho lavorato sulle carte del Ceppo che sono custodite nell’Archivio di Stato. A Pistoia ho scoperto carte del 1836 che parlano di uno uxoricidio premeditato che avvenne in Porta San Marco”. Dov’erano le carte in Santa Caterina? “C’erano diversi depositi sparsi e la direttrice doveva procedere allo scarto archivio. L’unica che poteva farlo ero io. Ho avuto il grande aiuto del mio collega Mario D’Avolio. Era il 2019. Abbiamo scartato 130 quintali di carte inutili tra doppioni e fotocopie. Poi ci siamo imbattuti in materiale che era depositato in scaffali e scatole e che era compreso in un ampio periodo: dal 1901, quando c’era il vecchio carcere delle Stinche, fino al 1991”. Come avete proceduto? “Abbiamo riordinato l’archivio con l’Archivio di Stato e la sua direttrice, Laura Regnicoli e Laura Giambastiani, professoressa di archivistica pubblica che è stata la relatrice della mia tesi. In tutto 54 faldoni di documenti storici e 178 registri dai quali ho creato le serie, ognuna con la sua descrizione: una fotografia della vita dentro al carcere. Ho potuto fare questo lavoro grazie alla direttrice Loredana Stefanelli”. Come ha trovato le lettere? “Erano nei fascicoli dei detenuti con la scitta “atti”. Decine e decine di lettere che non erano mai state consegnate al detenuto né inviate ai suoi familiari. C’era la censura. Le ho aperte io”. Può farci qualche esempio? “C’era una lettera del Meyer che dava notizie al babbo di una bambina che era nata con il labbro leporino: aveva cominciato ad alimentarsi e stava meglio. C’era la lettera di un detenuto che scriveva alla madre dicendo che odiava tutti e il custode scriveva: “Non fatela partire, la madre soffrirebbe ancora di più”. Un detenuto che scrive alla moglie che ha appena partorito, al Ceppo, e le dice: “Il comandante mi ha detto che è nata una bambina, quando avrai deciso che nome metterle me lo farai sapere. Quella lettera l’ho aperta io, ottant’anni dopo. Chissà chi è quella bambina oggi”. Come si è sentita aprendo quelle carte? “L’operatore penitenziario deve osservare le regole. Noi non possiamo giudicare. Un mio vecchio direttore ci diceva sempre: “In carcere entra l’uomo, il reato resta alla porta”. Ho pensato alle mamme che non hanno mai ricevuto una risposta e al detenuto che si è sentito abbandonato. La privazione della libertà è la privazione dell’identità, anche se noi dobbiamo sempre ricordare che l’ordinamento italiano è fra i più evoluti del modo perché mira al reinserimento”. Quali altre scoperte ha fatto? “Sotto il carcere c’erano tre rifugi antiaerei e la documentazione è all’Archivio di Stato: due per i detenuti e uno per il personale. Nessuno lo sapeva e la ritengo una scoperta eccezionale. Nel 1959, dopo la costruzione della nuova chiesa all’interno di Santa Caterina, fu donato un altare con balaustra in marmo che proveniva da San Bartolomeo. Fu poi dichiarato fuori uso nel 1991 e portato via. Non se ne sa più nulla, ma c’era la foto scattata dal direttore e inviata al ministero degli Giustizia, è ancora negli archivi e l’ho cercata. Ho controllato incrociando i protocolli. C’era la lettera di donazione da San Bartolomeo. C’è la relazione sul progetto di spostamento dei detenuti, nel 1943, alle Sbertoli. C’è la lettera di Arturo Stanghellini che chiede al direttore di avere un estratto della sua carcerazione. Tutte cose che farebbero la felicità degli li storici, e che meriterebbero più attenzione”. Cesena. “Nella città, l’inferno”, spettacolo sulle carceri femminili Il Resto del Carlino, 18 dicembre 2022 Questa sera alle 21 nella Sala Polivalente S. Allende, in Corso Gino Vendemini 18, a Savignano sul Rubicone, andrà in scena lo spettacolo “Nella città, l’inferno” adattato dal regista teatrale Stefano Naldi e portato in scena dalla compagnia Il Teatro delle Forchette. Lo spettacolo è un adattamento teatrale dell’omonimo film. La storia racconta la quotidianità dentro un carcere femminile e invita a riflettere sulla funzione del carcere all’interno della società, dalla deterrenza all’educazione. L’iniziativa è promossa dal Coordinamento Donne Spi Cgil Cesena, insieme alla Camera del Lavoro Cgil Cesena, con il Patrocinio del Comune di Savignano sul Rubicone e la collaborazione di Voce Amaranto Aps. Ingresso gratuito. Consigliata la prenotazione a: ce.segreteria@er.cgil.it. Vibo Valentia. L’Orchestra della Calabria si esibisce in un concerto di Natale per i detenuti ilvibonese.it, 18 dicembre 2022 L’evento rientra nelle importanti iniziative ideate dalla direzione del penitenziari ed è inserito nelle attività di rieducazione sociale. Si è tenuto all’interno del carcere di Vibo Valentia un concerto di Natale per i detenuti. L’evento è stato inserito nella stagione concertistica dell’Orchestra Sinfonica della Calabria sotto la direzione Artistica del maestro Salvatore Accardo anche con la collaborazione del sindaco di Vibo Valentia Maria Limardo, del vice presidente dell’Orchestra maestro Alberto Veronesi e del direttore generale maestro Francesco Ledda. Il concerto inserito nelle attività di rieducazione sociale nelle carceri grazie al direttore del carcere di Vibo, dottoressa Angela Marcello e al comandante Salvatore Conti, con la preziosa collaborazione della capo Area Educativa del carcere, la dottoressa Barbara Lagana’, è stato un momento molto partecipato dai detenuti, che si sono dimostrati coinvolti specie per la scelta del repertorio da parte dei solisti di canzoni popolari e partenopee, canticchiate da tutti i detenuti presenti, tra cui “Mamma” e “O surdato nnammurato”. Molto toccante, al termine del concerto quando si era ormai giunti ai saluti e ai ringraziamenti, è stata la richiesta da una voce in sala di Schubert accontentata dal Tenore il quale ha augurato un sereno Natale a tutti i presenti affidando tali auguri alla preghiera cantata con fervore dell’Ave Maria di Franz Schubert. I solisti che si sono esibiti sono stati Il tenore Giovanni Di Mare, voce calda e pastosa che con capacità espressiva e gradite doti di improvvisato presentatore, che ha inoltre introdotto i brani come “E lucevan le stelle” e “Vesti la Giubba”. Il tenore è stato accompagnato magistralmente dal pianista Francesco Silvestri, e alcuni elementi dell’organico dell ‘Orchestra Sinfonica della Calabria con assoli del violino violete Adamova. Il concerto dell’Orchestra Sinfonica della Calabria giunge a completamento di alcune attività musicali dedicate ad alcune persone svantagiate fortemente volute dall’Orchestra. Trattasi della prima delle attività natalizie, particolarmente ricca nell’ultimo anno e a cui seguiranno, a giorni, altre importanti iniziative grazie alla direzione del carcere di Vibo Valentia. Tre morti al giorno sul lavoro: l’Italia è una Repubblica fondata sul rischio di Anna Dichiarante L’Espresso, 18 dicembre 2022 Il nostro Paese è assestato su questa media di vittime nei luoghi in cui si svolge il proprio mestiere. Perché nel decennio successivo alla crisi finanziaria del 2008 non ci sono stati investimenti nella prevenzione. E i dispositivi di sicurezza sono invecchiati. Sconfessando l’articolo 1 della Costituzione. Ndiaye, 51 anni, è morto il 10 dicembre a Gatteo, nel Cesenate. Maurizio, 62 anni, è morto il 9 dicembre a Bedizzole, in provincia di Brescia. Angelo, anche lui 62 anni, è morto il 7 dicembre a Palermo. Sono tutti morti sul lavoro. E sono solo gli ultimi, nel momento in cui si scrive, in una lunga conta che ha già sfiorato quota mille nel 2022. Da troppo tempo, infatti, ci si è assestati su una media di tre vittime al giorno nei luoghi in cui ciascuno svolge il proprio mestiere. “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, proclama l’articolo 1 della Costituzione. Queste morti, allora, negano l’essenza stessa dello Stato. Secondo l’ultima rilevazione compiuta dall’Inail, le denunce di infortuni mortali raccolte dal 1° gennaio al 31 ottobre scorsi sono state 909. Vale a dire 108 in meno rispetto al medesimo periodo del 2021, 127 in meno rispetto al 2020 e 13 in più rispetto al 2019. Se nel 2022 si è conquistato un decremento del 10,6 per cento sull’anno precedente, lo si deve al fatto che chi si è ammalato di Covid-19 contagiandosi per lavoro è riuscito più spesso a guarire. Una minore letalità del virus che ha ridotto i casi avvenuti in occasione di lavoro da 815 a 659. Resta pericoloso percorrere il tragitto di andata e ritorno tra l’abitazione e l’ufficio, la fabbrica o il cantiere: i casi in itinere sono passati da 202 a 250. I 16 incidenti che hanno coinvolto contemporaneamente più persone (per un totale di 37 decessi) sono tutti stradali. Il calo riguarda, in particolare, i settori dell’industria e dei servizi; è più consistente al Sud, più contenuto al Nord-Ovest. A livello regionale, migliorano i dati di Campania, Abruzzo, Puglia, Lazio ed Emilia Romagna; peggiorano quelli di Calabria, Lombardia e Toscana. Diminuiscono le denunce per gli italiani, mentre aumentano per gli stranieri provenienti sia dall’Unione europea sia da altri Paesi. E ci sono altre tendenze da monitorare. Se è vero che sono morti meno uomini (806 contro i 922 del 2021), tra le donne le vittime salgono da 95 a 103. Non solo. Hanno perso la vita più persone di età compresa tra i 25 e i 39 anni (da 132 a 167) e sono raddoppiati da 10 a 20 gli incidenti mortali ai danni di chi non era ancora ventenne. Ci sono, poi, gli infortuni. Nei primi dieci mesi dell’anno ne sono stati segnalati 595.569, ovvero il 32,9 per cento in più rispetto al corrispondente periodo del 2021 (più 41,3 per cento rispetto al 2020 e più 11,5 sul 2019). Con un incremento sia dei casi in itinere (73.422 contro 62.403) sia di quelli avvenuti in occasione di lavoro (passati da 385.707 a 522.147). Questi ultimi aumentano in generale in quasi tutti i comparti produttivi: spicca il 129,1 per cento in più nell’ambito della sanità e dell’assistenza sociale, così come il 102,9 per cento in più di trasporto e magazzinaggio. Non va bene nemmeno per l’Amministrazione pubblica e per le attività ricettive o di ristorazione. Dal punto di vista geografico, il peggioramento maggiore si registra al Sud e nelle isole. La crescita interessa le donne (da 159.524 a 246.162) e gli uomini (da 288.586 a 349.407), gli italiani e gli stranieri. E ogni fascia d’età, sebbene la più colpita sia quella tra i 40 e i 59 anni. “Se si guarda al numero degli infortuni avvenuti in un anno ogni 100 mila lavoratori, in base alle statistiche pubblicate da Eurostat, ci si accorge che il nostro Paese si posiziona meglio di Francia, Germania, Spagna. Uno scenario che sorprende, certo, ma che non esime dal compito di risalire alle cause della triste media giornaliera”, spiega Andrea Tardiola, direttore generale dell’Inail: “Gli incidenti, anche mortali, si sono dimezzati in confronto al passato; dal 2000 al 2012 sono progressivamente diminuiti. Poi la curva si è trasformata in un plateau. Perché? Probabilmente per la saturazione tecnologica dei dispositivi di sicurezza. Nel decennio successivo alla crisi finanziaria del 2008 non ci sono stati investimenti pubblici o privati nella prevenzione”. Le protezioni, quindi, sono invecchiate. Perciò l’Istituto collabora con il Centro Studi della Banca d’Italia per incrociare le informazioni sull’andamento degli infortuni e sulle dinamiche che possono influenzarlo. “Esistono due tipologie d’incidenti. Quelli che si perpetuano dai tempi in cui si costruivano le piramidi e quelli legati all’evoluzione della società”, prosegue Tardiola: “Da un lato si continua a morire cadendo dall’alto, schiacciati da pesi o soffocati in ambienti chiusi; dall’altro, eventi come la pandemia o il cambiamento climatico ci pongono di fronte a rischi che non conosciamo. In edilizia o in agricoltura, per esempio, l’innalzamento delle temperature provoca seri problemi a chi sta sui ponteggi o nei campi. Nel settore dei servizi, invece, assistiamo alla smaterializzazione del luogo di lavoro: le persone sono attive sempre e ovunque, perciò bisogna puntare sulla loro preparazione più che sulla presenza di strumenti nel posto in cui si trovano”. Alla radice del divario, le caratteristiche del tessuto produttivo nostrano. “I grandi gruppi industriali considerano la sicurezza una voce d’investimento, fissano obiettivi stringenti per garantirla e sono convinti che sia inscindibile dalla competitività”, dice il dg: “Al contrario, è faticoso controllare la miriade di piccole imprese spesso impermeabili alle tecnologie. Manca la consapevolezza dei pericoli, c’è un eccesso di confidenza che porta a sottovalutarli. E si percepisce la prevenzione come una mera incombenza burocratica, una seccatura. È responsabilità della parte pubblica chiedere più sostanza che forma. Dal canto nostro, incentiviamo queste realtà con bandi per finanziare l’acquisto di impianti all’avanguardia o sconti sui premi assicurativi”. Intanto, i fondi stanziati con il Pnrr hanno generato il proliferare di opere e cantieri. Una ripresa dai ritmi serrati: “La velocità è antagonista della cautela”, ammette Tardiola, “è necessario stabilire più turni con più manodopera, perché caricare le persone di straordinari è un azzardo. Tra qualche anno capiremo se, nonostante l’aumento delle ore lavorate, l’indice infortunistico sia stato compensato dal rinnovamento di macchinari e attrezzature. Il Piano deve lasciare in eredità anche una solida infrastruttura di sicurezza”. La situazione, però, non è rassicurante. Emblematico è il caso della Lombardia, descritta come locomotiva d’Italia. “La ripartenza qui sta provocando conseguenze drammatiche. I lavoratori si espongono a rischi troppo elevati perché non sono addestrati in maniera adeguata e, soprattutto, perché subiscono pressioni a fare in fretta e a costo minimo. Se vogliamo essere davvero efficienti, cominciamo a fare in modo che la gente non muoia sul posto di lavoro”, avverte Massimo Balzarini, della segreteria regionale della Cgil. È lui a evidenziare quanto la prevenzione sia conveniente: tra cure, riabilitazione, pensioni d’invalidità e risarcimenti, l’impatto economico degli incidenti è enorme. “C’è un problema politico. I contratti precari e le partite Iva che hanno invaso il mercato del lavoro creano discontinuità nell’impiego e rendono impossibile monitorare i percorsi di formazione sulla sicurezza, demandati all’iniziativa dei singoli. Avevamo presentato delle proposte al governo precedente, adesso il dialogo è sospeso. Ma ribadiamo le richieste: un tavolo interministeriale per coordinare le istituzioni competenti sul tema, una patente per certificare le aziende che partecipano alle gare pubbliche, l’introduzione della fattispecie di omicidio sul luogo di lavoro. Ricordiamo, poi, che l’autonomia differenziata delle Regioni non può incidere su standard che hanno senso solo se nazionali”. Su un punto tutti sembrano d’accordo: la sicurezza è una questione culturale. Dove la persuasione e l’educazione falliscono, però, devono arrivare controlli e sanzioni. Nel corso del 2021, l’attività dell’Ispettorato nazionale del Lavoro ha riguardato 13.924 aziende: quelle a cui sono stati contestati illeciti proprio in materia di salute e sicurezza sono 10.278, su un totale di 13.348 accertamenti portati a termine. In pratica, quasi otto imprese su dieci sono risultate irregolari. Mentre gli illeciti riscontrati ammontano a 17.511, di carattere penale nel 90,92 per cento dei casi e di natura amministrativa per il resto. “Le regole ci sono, è fondamentale verificare che vengano rispettate. Oltre a intercettare le violazioni, infatti, la vigilanza funziona da deterrente. Ma perde di efficacia, se non è esercitata in maniera capillare e costante. In questo non aiuta la carenza di personale che affligge l’Amministrazione pubblica, anche per il blocco del turnover”, nota Ester Rotoli, direttore centrale Prevenzione dell’Inail. In effetti, con 4.020 dipendenti complessivi, l’Ispettorato non può essere onnipresente. Motivo per cui l’ex ministro del Lavoro, Andrea Orlando, ha disposto il rafforzamento del suo organico in misura pari al 65 per cento. Ci vorrà tempo perché le forze fresche entrino in ruolo, mentre da poco più di un anno i compiti di vigilanza dell’ente sono stati estesi dal settore edile agli altri ambiti produttivi finora coperti dalle Asl. “La carriera dell’ispettore non è allettante, come non lo sono quelle dei medici del lavoro e dei tecnici della prevenzione”, commenta il sindacalista Balzarini: “A proposito di quest’ultima figura, da destinare sia ai controlli sia alla formazione nei luoghi di lavoro, abbiamo chiesto un confronto con le università per la programmazione di corsi ad hoc. Ma ci sono meno candidati dei posti messi a disposizione”. Un quadro a tinte fosche, in cui finiscono pure i giovani in veste di stagisti o tirocinanti. “Sono loro che affronteranno fenomeni nuovi. Perciò dobbiamo aggiornare la formazione obbligatoria prevista per gli studenti impegnati nella cosiddetta alternanza scuola-lavoro. Un sfida che può essere vinta solo utilizzando mezzi o linguaggi vicini ai ragazzi e alle ragazze”, conclude Tardiola dell’Inail. E sperimentazioni sono in corso. Come il progetto realizzato con l’Itis Galilei di Roma, dove gli alunni applicano le loro conoscenze allo sviluppo di videogame incentrati sul tema della prevenzione, o come la ricerca dell’Istituto italiano di Tecnologia di Genova che analizza il modo in cui i visori per la realtà virtuale immersiva possono modificare i comportamenti di chi li indossa. Lo scorso maggio il ministero del Lavoro, quello dell’Istruzione, l’Ispettorato e l’Inail hanno firmato un protocollo d’intesa di durata triennale per la promozione e la diffusione della cultura della sicurezza tra i dirigenti scolastici, i docenti, gli studenti e tutti i soggetti coinvolti nei percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento. D’altra parte, il Pnrr assegna fondi alle Regioni per la formazione professionale e spinge nella direzione di un’osmosi crescente tra scuola e mondo del lavoro. Diventa sempre più urgente tutelare chi ha meno strumenti per proteggersi da sé. Migranti. Greco (Asgi): “Naufragio dei bambini, Stato responsabile” di Giansandro Merli Il Manifesto, 18 dicembre 2022 Nell’ottobre 2013 morirono in 268. Reati prescritti ma il giudice riconosce gli elementi per condannare i due ufficiali. Stefano Greco, avvocato di parte civile per Asgi: “L’Italia doveva intervenire appena ricevuto l’Sos, anche se il caso era in Sar maltese e La Valletta aveva assunto il coordinamento” Il 2 dicembre scorso il tribunale collegiale di Roma, presieduto dalla giudice Anna Maria Pazienza, ha dichiarato estinti per intervenuta prescrizione i reati contestati a Luca Licciardi e Leopoldo Manna. L’11 ottobre 2013 erano rispettivamente comandante della sezione operazioni reali correnti di Cincnav, il comando in capo della squadra navale della marina, e responsabile della sala operativa della guardia costiera. Quel giorno alle 17.05, a poche decine di miglia di Lampedusa ma nell’area di ricerca e soccorso (Sar) maltese, si ribaltò un barcone partito dalla Libia. I migranti avevano chiesto aiuto a Roma e La Valletta a partire dalle 12.26. Nel “naufragio dei bambini” persero la vita moltissime persone, la stima più accreditata dice 268. Tra loro 60 minori. Dopo quella strage iniziò l’operazione Mare Nostrum. Licciardi e Manna sono finiti a processo per omicidio colposo e omissione di atti di ufficio perché quando alle 16.22 Malta, che aveva assunto il coordinamento del caso, chiese l’impiego della nave militare Libra non ordinarono al mezzo di dirigersi immediatamente e a massima velocità verso i migranti. Stefano Greco è uno degli avvocati delle parti civili per l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Nonostante sia intervenuta la prescrizione, perché le procure hanno cercato in tutti i modi di bloccare questo processo, il tribunale ha riconosciuto che c’erano gli elementi per condannare i due ufficiali. Sia per omissione di atti di ufficio che per omicidio colposo plurimo, per il ritardo e la causazione del danno. La cosa importante è che la responsabilità è stata riconosciuta al di fuori dell’area Sar e del coordinamento italiani. Il coordinamento, infatti, era stato assunto da Malta. Il giudice ha stabilito che Roma doveva intervenire immediatamente, appena ricevuta la richiesta di aiuto in cui si diceva che il mezzo imbarcava acqua e trasportava dei bambini. Quindi anche prima del fax delle 16.22. Tra Italia e Malta ci sono spesso rimpalli di responsabilità per i casi Sar. Questa sentenza potrà incidere sulle prassi adottate in mare? Secondo me incide dal punto di vista italiano. Finora l’Italia si è trincerata dietro al fatto che Malta prendeva il coordinamento. La sentenza afferma invece il principio della collaborazione tra Stati. Un principio fondamentale del diritto internazionale in questa materia perché esiste una responsabilità concorrente tra i Paesi. Potrà avere effetti anche su altri processi che riguardano i soccorsi nel Mediterraneo? Sì, ad esempio sullo stabilire quando esiste il distress, cioè quando una barca va considerata in pericolo. Qui c’è un grosso problema: se va in distress un’imbarcazione privata europea partono immediatamente i soccorsi. Se l’Sos viene da un barcone di migranti, invece, marina e guardia costiera italiane, e anche i maltesi, continuano a dire che il pericolo si configura solo quando c’è un rischio imminente per la vita delle persone. Al contrario questa sentenza afferma che vanno realizzate tutta una serie di attività da subito e ricostruisce il soccorso come un unico momento composto da più fasi. Quindi appena arriva la richiesta di aiuto si apre una pagina che deve essere riempita con la raccolta di informazioni e la preparazione dei mezzi che poi realizzeranno il soccorso. Le varie fasi compongono un unico momento procedimentale amministrativo. Questo è fondamentale perché riporta tutte le attività nell’alveo delle responsabilità dello Stato nella gestione della macchina pubblica. Cosa che prima era stata trascurata. Inizialmente la sentenza era prevista per l’8 novembre scorso. È stata rinviata al 2 dicembre perché uno dei giudici aveva il Covid-19. La prescrizione è intervenuta per questo? Per fortuna no. Il tribunale afferma che la prescrizione è arrivata a febbraio 2022. Ha ritenuto che due rinvii in Cassazione non potevano essere considerati momenti interruttivi, come noi abbiamo cercato di sostenere. Comunque è importante che il tribunale non si sia sottratto dal dovere di spiegare tutta la vicenda, dopo due anni di lavoro intenso, e che tutti e tre i giudici risultino estensori della sentenza. Significa che è stata condivisa, cosa rara nel nostro panorama. Perché tra fatti e sentenza di primo grado ci sono voluti nove anni? Perché si voleva evitare che questo processo si tenesse. C’è stata una prima richiesta di archiviazione della procura di Agrigento rigettata dal Gip, il quale ha stabilito che la competenza fosse di Roma. La procura di Roma ha ricevuto quell’incartamento, insieme a un altro sullo stesso caso che veniva da Palermo, e chiesto per ben due volte l’archiviazione. Il giudice per le indagini preliminari ha rigettato entrambe le richieste. Infine il Gip Giovanni Giorgianni ha disposto un’imputazione coatta che però ha limitato il campo dell’accertamento al periodo successivo al fax delle 16.22. Il pregio della sentenza è di aver esaminato la vicenda nella sua interezza, dalla prima telefonata al naufragio. In Italia è ancora così difficile portare a processo rappresentanti dello Stato? Purtroppo sì. Il processo Cucchi lo dimostra, questa vicenda lo dimostra. Ogni volta che lo Stato deve fare i conti con se stesso nasce un problema. E questo non ci fa onore. Iran. In carcere Taraneh Alidousti, star del cinema. L’ultimo messaggio contro le esecuzioni di Alessandra Muglia Corriere della Sera, 18 dicembre 2022 La protagonista del film premio Oscar “Il Cliente” sosteneva le proteste sui social. Timori per la sorte di una dottoressa. La sua fama internazionale non è bastata a proteggerla: è finita in carcere ieri a Teheran l’attrice Taraneh Alidousti, nota anche in Italia per il suo ruolo nel film premio Oscar Il cliente, di Asghar Farhadi. L’artista, 38 anni, sposata e madre di una figlia, è stata prelevata da casa e arrestata per “pubblicazione di contenuti falsi e distorti e incitamento al caos”. Ovvero punita per aver sostenuto fin dall’inizio le proteste anti regime sui social, forte dei suoi otto milioni di follower su Instagram, dove il suo account ora è sospeso. Già il 16 novembre, nel giorno della morte di Mahsa Amini, la miccia che ha innescato le proteste, aveva pubblicato una foto con sotto la scritta “dannazione per questa prigionia” riferendosi alla custodia durante la quale la ragazza arrestata perché indossava male il velo era stata uccisa. La didascalia recitava: “Non dimenticare quello che passano le donne iraniane” e chiedeva a tutti di “pronunciare il suo nome, spargere la voce”. Un altro suo post potente porta la data del 9 novembre: posa con i capelli al vento, senza velo, con in mano un foglio e le parole “donna, vita, libertà”, lo slogan diventato il grido di battaglia dei manifestanti che da tre mesi chiedono la fine della Repubblica islamica. Un gesto che le è costato l’esclusione da qualsiasi set in Iran. Ma lei ha chiarito di voler rimanere nel Paese a qualsiasi costo e di sospendere volentieri il suo lavoro per sostenere le famiglie delle vittime della repressione. Il suo ultimo post è dell’8 dicembre, il giorno della prima esecuzione di un manifestante di questa ondata di proteste che ha presto assunto i contorni di una vera rivoluzione: sul patibolo era andato Mohsen Shekari, 23 anni. “Sedetevi e aspettate le conseguenze della vostra sete di sangue” scriveva rivolgendosi ai falchi del regime. E a tutti, anche fuori dal Paese, ammoniva: “Il tuo silenzio significa il sostegno dell’oppressione e dell’oppressore”, “ogni organizzazione internazionale che assiste a questo spargimento di sangue e non agisce, è una vergogna per l’umanità”. Alidoosti conosceva bene i rischi che correva esponendo così il suo dissenso. Del resto non è la prima volta che l’attrice sfida le autorità. Nel giugno 2020 era stata condannata a cinque mesi di prigione con sospensione della pena: era accusata di propaganda contro lo Stato, per aver espresso sui social commenti critici contro le forze di polizia. Allora aveva pubblicato un video in cui la polizia della moralità aggrediva una donna che rifiutava di indossare il velo. “Non siamo cittadini, ma ostaggi” aveva tuonato su Instagram, sostituendo la sua foto del profilo con una immagine nera, per ricordare i manifestanti uccisi dalle forze di sicurezza nel novembre 2020. Anni prima, nel 2016, aveva destato scandalo il suo “tatuaggio femminista” sul braccio sinistro, con le autorità che chiedevano l’intervento della magistratura. “Essere femminista non vuole dire essere contro gli uomini o la famiglia ma che ogni essere umano, al di là del genere, ha il diritto alla propria individualità e a scegliere la vita che vuole” chiarì lei su Instagram. Altre due attrici iraniane - Hengameh Ghaziani e Katayoun Riahi - sono state arrestate il mese scorso dalle forze di sicurezza di Teheran per essersi mostrate senza il velo e aver espresso solidarietà ai manifestanti sui social: entrambe sono state rilasciate dopo qualche settimana. In attesa di capire quale sarà il destino di Taraneh Alidousti, c’è allarme sulla sorte di un’altra donna che sosteneva le proteste: Aida Rostami, medico di 38 anni, curava a domicilio i manifestanti feriti restii ad andare in ospedale dove rischiano l’arresto. Sarebbe rimasta uccisa in un incidente d’auto, secondo le autorità. Ma i suoi familiari avrebbero fatto sapere che sul corpo della giovane c’erano evidenti segni di torture. A quel punto la magistratura avrebbe fornito una nuova versione dei fatti: “caduta da un cavalcavia, dopo un diverbio verbale e fisico con un uomo”. La notizia, diffusa da IranWire e Radio Farda, non è per ora stata rilanciata da altri media iraniani. Turchia. Per indebolire gli oppositori politici, a Erdogan è rimasta solo la pressione giudiziaria di Futura D’Aprile Il Domani, 18 dicembre 2022 Dopo la condanna del sindaco Ekrem ?mamo?lu a Istanbul ci sono state manifestazioni di protesta L’esponente del Chp è stato condannato a due anni di carcere per insulti a pubblici ufficiali. Le elezioni in Turchia sono sempre più vicine, ma il numero dei possibili sfidanti del presidente uscente Recep Tayyip Erdogan continua a diminuire. A rischiare l’uscita di scena adesso è il sindaco di Istanbul, Ekrem ?mamo?lu, condannato a due anni e sette mesi di carcere con l’accusa di aver insultato alcuni funzionari pubblici in un discorso tenuto nel 2019. In quell’occasione ?mamo?lu aveva definito “idioti” coloro che avevano annullato il risultato delle elezioni comunali dietro pressione del presidente. L’insulto lanciato dal sindaco di Istanbul era diretto ai membri della Commissione elettorale, ma ?mamo?lu ha sempre affermato che le sue parole erano in realtà rivolte al ministro dell’Interno, Suleyman Soylu, che lo aveva a sua volta definito un pazzo. Vittoria e persecuzione - Le urne del 2019 avevano decretato la vittoria dell’opposizione in diverse città chiave della Turchia, tra cui la stessa Istanbul, ed erano state dichiarate nulle a seguito del ricorso per irregolarità presentato da Erdogan. Le nuove votazioni hanno però riconfermato i risultati già emersi in precedenza, segnando una dura sconfitta per il partito di governo e per i suoi alleati. La vittoria alle urne però è coincisa con una nuova ondata di persecuzione politica, come dimostra anche il caso di ?mamo?lu. Il primo cittadino, esponente di spicco del partito kemalista Chp, ha fatto ricorso alla Corte d’appello tramite i suoi legali, ma se la sentenza dovesse essere confermata dovrà dire addio all’incarico che attualmente ricopre e anche alle prossime elezioni. A giugno i cittadini turchi sono chiamati nuovamente alle urne e ?mamo?lu è in lizza per rappresentare la coalizione formata da sei partiti dell’opposizione, uniti dalla volontà di mettere fine al potere di Erdogan. I tempi necessari per l’appello, però, riducono le possibilità del sindaco di Istanbul di guidare l’opposizione alle prossime elezioni. Attacco all’opposizione - L’esponente del Chp non è l’unico politico al centro di un procedimento giudiziario che rischia di porre fine alla sua carriera. Altri 108 esponenti dell’Hdp, il partito filocurdo, sono in attesa di giudizio con l’accusa di terrorismo e, se giudicati colpevoli, saranno banditi dalla vita politica del paese. La loro condanna potrebbe essere anche utilizzata per mettere definitivamente al bando lo stesso Hdp, da mesi a rischio chiusura a causa dei presunti legami con il Partito dei lavoratori (Pkk), considerato dalla Turchia un’organizzazione terroristica. I 108 membri dell’Hdo sono accusati di aver fomentato le proteste che scoppiarono nel 2014 nel sud-est della Turchia e di aver incitato i cittadini curdi a compiere atti di violenza contro il governo, che aveva scelto di non intervenire a difesa della città siriana di Kobane, in quel momento sotto assedio dell’Isis. Il governo aveva anche disposto la chiusura delle frontiere, impedendo pertanto agli attivisti curdi di portare aiuti alla popolazione di Kobane e facendo alzare ulteriormente la tensione. Le manifestazioni nel sud-est furono poi represse nel sangue dalla gendarmeria turca, che aprì il fuoco sui manifestanti causando la morte di almeno 50 persone. A finire sotto processo però sono stati gli esponenti dell’Hdp, tra cui i due ex co-presidenti, Selahattin Demirtas e Figen Yuksekdag, già in carcere dal 2016. Per il partito, le motivazioni alla base del processo sono prettamente politiche e il procedimento è stato portato avanti al solo scopo di indebolire una formazione risultata già fondamentale per la vittoria dell’opposizione nelle elezioni comunali e che alle prossime votazioni dovrebbe ugualmente svolgere un ruolo decisivo. Per scongiurare questo scenario, dunque, il governo avrebbe scelto la strada della persecuzione politica, colpendo però non solo l’Hdp ma più in generale i partiti di opposizione e le figure che rappresentano una minaccia alla tenuta dello status quo. Distrazione di massa - Processi come quelli contro ?mamo?lu e l’Hdp servono anche a distrarre dai problemi interni del paese, in primis da quello economico. L’inflazione in Turchia ha ormai superato l’80 percento, il costo della vita continua a salire e i cittadini devono fare i conti con l’aumento costante di affitti ed energia. Erdogan ha cercato di distogliere l’attenzione dai problemi economici annunciando una nuova campagna militare contro la Siria del nord-est, ma nemmeno l’attentato a Istanbul - prontamente attribuito alle formazioni curde nazionali e non - è bastato per avere il via libera della Russia e degli Usa all’operazione di terra. Anche l’incontro tra Erdogan e il presidente siriano Bashar al Assad sul futuro della Siria è ancora lontano dal tenersi, nonostante gli annunci turchi. In compenso, l’esplosione nel cuore di Istanbul ha inferto un duro colpo alla reputazione del governo e dei servizi segreti, accusati di non saper garantire adeguati livelli di sicurezza alla popolazione. L’unica carta rimasta in mano a Erdogan, dunque, è quella dell’eliminazione per via giudiziaria dei propri sfidanti. Tunisia. Il fiore appassito della rivoluzione di Francesco Battistini Corriere della Sera, 18 dicembre 2022 S’è votato per un Parlamento che non sarà mai un Parlamento e il solo, vero risultato è stato il boicottaggio proclamato dalle opposizioni: neppure il 10% d’affluenza, una clamorosa protesta contro il presidente populista Kais Saied. Sognavano la democrazia: si risvegliano nella democratura. S’ispiravano all’obamismo, oui nous pouvons, e invece respirano l’erdoganismo, le Sultan c’est moi. In fondo, la Tunisia non chiedeva la luna e nemmeno la mezzaluna: restare coi piedi ben piantati nella terra della rinascita, ecco, e preferibilmente cogl’islamici fuori dai piedi. Tutto è finito, tutto è dimenticato. La Rivoluzione dei Gelsomini, la prima delle Primavere arabe, l’unica che si sia evitata una guerra civile, dodici anni dopo è ridotta a un fiore secco. Ieri (non) s’è votato per un Parlamento che non sarà mai un Parlamento e il solo, vero risultato è stato il boicottaggio proclamato dalle opposizioni: neppure il 10% d’affluenza, una clamorosa protesta contro il presidente populista Kais Saied che, appena tre anni fa, era al 70. Lasciati soli dal mondo, impoveriti dalla crisi, in fuga sui barconi per l’Italia, i tunisini han fatto un pernacchio alla controrivoluzionaria Seconda Repubblica che il neogollista Saied vuol fondare “dopo un decennio di caos”. E col semplice astensionismo, fan capire cosa pensino del suo golpe morbido che nell’ultimo anno e mezzo ha semicancellato la Costituzione, esautorato la Camera, licenziato i magistrati, disegnato una legge elettorale a sua immagine e somiglianza, imbavagliato la stampa, messo agli arresti gli oppositori, in definitiva mutando la democrazia parlamentare in un presidenzialismo col pugno di ferro e restaurando le cattive abitudini del dittatore Ben Ali. La rivoluzione a volte è un pranzo di gala e un Paese sull’orlo del fallimento, con la frutta e il pollame rincarati del 30%, al momento non se la può permettere. “Fight for fries, not for freedom”, ha scritto un disincantato writer sui cavalcavia di Tunisi: meglio combattere per un piatto di patatine che per la libertà. Ma i tunisini sono esausti e Saied lo sappia: se non arrivano neanche le patatine, prevarrà la fame di libertà. E quello fritto, rischia d’essere lui. “L’Arabia Saudita incarcera e rimpatria con la forza migliaia di etiopi” Avvenire, 18 dicembre 2022 La denuncia di Amnesty: detenuti a tempo indeterminato in condizioni disumane e crudeli solo perché non hanno documenti di residenza validi. E i passaporti dei lavoratori stranieri vengono sequestrati. Le autorità saudite stanno rimpatriando con la forza decine e decine di migliaia di migranti etiopi dopo averli trattenuti arbitrariamente in detenzione a tempo indeterminato in condizioni disumane e crudeli solo perché non hanno documenti di residenza validi, una situazione aggravata dal sistema abusivo della kafala saudita (la requisizione del passaporto dei lavoratori stranieri). Lo stesso sistema denunciato più volte in Qatar. Lo ha affermato Amnesty International che chiede alle autorità saudite di indagare sui casi di tortura e su almeno dieci morti in custodia tra il 2021 e il 2022. Nel rapporto “È come se non fossimo umani” si descrivono rimpatri forzati, condizioni di detenzione aberranti dei migranti etiopi in Arabia Saudita e si descrive in dettaglio la situazione di uomini, donne e bambini etiopi detenuti arbitrariamente nei centri di detenzione sovraffollati di Al-Kharj e Al-Shumaisi in condizioni terribili e abusive e rimpatriato con la forza in Etiopia tra giugno 2021 e maggio 2022. “Dal 2017, l’Arabia Saudita ha arbitrariamente detenuto e rimpatriato con la forza centinaia di migliaia di migranti etiopi in condizioni così abusive e disumane che molti hanno sviluppato gravi condizioni fisiche e mentali a lungo termine. Ora, più di 30.000 cittadini etiopi sono detenuti nelle stesse condizioni e rischiano di affrontare la stessa sorte. Solo perché una persona non ha documenti legali non significa che debba essere privata dei suoi diritti umani”, ha affermato Heba Morayef, direttore regionale di Amnesty per il Medio Oriente e il Nordafrica. “L’Arabia Saudita ha investito in modo aggressivo nel “restauro” della sua immagine come parte delle sue ambizioni di attrarre imprese e investitori stranieri, ma sotto questa patina sfarzosa c’è una storia di orribili abusi contro i migranti che hanno lavorato duramente per aiutare l’Arabia Saudita a realizzare il suo grande visione”, ha aggiunto. Ci sono circa 10 milioni di lavoratori migranti in Arabia Saudita. Amnesty ha scelto di concentrarsi sulla situazione subita dai migranti etiopi privi di documenti in Arabia Saudita a causa dei piani annunciati nel marzo 2022 dalle autorità etiopi e saudite per riportare in Etiopia almeno 100.000 uomini, donne e bambini etiopi entro la fine del 2022. Tra maggio e giugno 2022, i ricercatori hanno parlato con migranti etiopi detenuti in Arabia Saudita prima di essere rimpatriati forzatamente, nonché con un familiare di un ex detenuto, operatori umanitari e giornalisti che conoscevano la situazione all’interno dei centri per migranti. Dal 2017, l’Arabia Saudita ha intensificato gli arresti e i rimpatri forzati. Nel marzo scorso, le autorità etiopi hanno annunciato che avrebbero collaborato al rimpatrio di oltre 100.000 dei loro cittadini detenuti in Arabia Saudita entro la fine del 2022.