La rimozione di Renoldi e l’illusione carcerocentrica di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 17 dicembre 2022 Questo atto di spoil-system era largamente annunciato e lo stesso ministro Nordio ha dovuto adeguarsi alla volontà della maggioranza. Ora però del carcere bisogna occuparsene seriamente. Carlo Renoldi, un mite ed esperto giudice di Sorveglianza, reo di essere fedelmente appassionato alla idea costituzionale della pena come strumento di recupero sociale del reo, è stato rimosso da Direttore del Dap dopo appena nove mesi di svolgimento del delicato incarico. Sin dalla sua nomina, voluta fortissimamente dalla Ministra Cartabia, egli fu immediatamente fatto oggetto di sconsiderati attacchi politici dalla destra parlamentare e dai grillini. Lo accusavano di non essere allineato con l’idea idolatrica del regime detentivo speciale del 41 bis, una impurità culturale che lo avrebbe perciò reso inadeguato ed anzi pericolosamente lassista ed indulgente verso i detenuti per reati di mafia. La politica italiana, soprattutto in tema di giustizia e di carcere, si ciba preferibilmente di simili, grossolane imbecillità, che però funzionano mediaticamente. E quindi, una volta acquisito lo stigma, non puoi più liberartene. Renoldi era l’uomo giusto al posto giusto, essendo un giudice di Sorveglianza, perciò conoscitore accurato delle dinamiche e delle criticità, anche le più minute, che costellano la vita del pianeta carcere e più in generale la fase di esecuzione della pena. Un knowhow che, ovviamente, non ha - non può avere - un Pubblico Ministero, che al più si occupa di mandare le persone in carcere, non del carcere. Ed invece puntualmente la regola adottata quasi senza eccezione dalla nostra politica, di destra e di sinistra, è quella di nominare al Dap pubblici ministeri, possibilmente qualificati da meriti professionali antimafia. Anche questa, a ben vedere, è una bizzarria, visto che nel pianeta carcere la popolazione legata a consorterie mafiose ed a reati di mafia rappresenta una fetta del tutto minoritaria, ed ancor più minoritaria quella ristretta in regime di 41 bis. Potenza dei simboli e del conformismo politico. Comunque, questo atto di spoil-system era largamente annunciato, e lo stesso Ministro Nordio (che sono certissimo non ne condivida le ragioni) ha dovuto adeguarsi alla volontà politica della sua maggioranza. Salutiamo con rammarico Renoldi, e diamo il doveroso benvenuto a Giovanni Russo, Pubblico Ministero della Direzione Nazionale Antimafia, così i furori iconoclasti dei “garantisti sul processo e giustizialisti sulla pena” si saranno finalmente placati. E qui però comincia il bello. Perché una scelta così brusca (dopo soli nove mesi!) e tecnicamente immotivata (sebbene legittima) necessariamente dovrà tradursi in atti significativi, in una concreta idea progettuale del carcere e della esecuzione della pena che sappia segnare la differenza dalla gestione interrotta, così giustificandosene la ragione. E cosa dovrà fare mai Russo, mi chiedo, di così significativamente diverso da Renoldi, di fronte alla implacabilità terrificante dei suicidi in carcere (siamo ad 80 dall’inizio dell’anno)? E cosa, di fronte al sovraffollamento, alla fatiscenza delle strutture, alle condizioni di lavoro durissime della polizia penitenziaria, insomma alla nostra perdurante condizione di “fuori legge” rispetto alle censure ripetutamente espresse dalla giurisprudenza sovranazionale? Cosa di fronte al dilagare della droga e dei telefoni cellulari nelle nostre carceri? Ed anche con riguardo al regime del 41 bis, suvvia!, cosa si potrà mai aggravare rispetto al già spaventoso quadro regolamentare attuale, già indegno di una società civile? Staremo a vedere, ma senza fare sconti, e senza indulgenze rispetto a questa melassa conformista e sgrammaticata della “certezza della pena” intesa come “certezza del carcere”. Lo sa bene per primo il Ministro Nordio che quello della certezza della pena è un principio di derivazione illuministico-liberale, che non ha nulla a che fare con questa dozzinale filosofia del “buttare la chiave”, cibo da dare in pasto ai social, ma che non è una cosa seria. La soluzione è e rimane la de-carcerizzazione, da perseguire mediante il rafforzamento delle misure alternative alla detenzione intramuraria. È ovvio che le misure alternative devono acquisire - esse sì! - effettività, certezza, forza sanzionatoria che oggi è obiettivamente incerta e flebile. Ma lo voleva già la Commissione Giostra, a conclusione degli Stati generali della Esecuzione penale del 2017. Quando saranno finite queste vacue e futili iniziative di comunicazione politica per simboli e slogan, cerchiamo tutti di rimettere mano a quello straordinario lavoro portato avanti e concluso da avvocati, magistrati, operatori penitenziari, direttori delle carceri. Fatevela, signori della maggioranza (e non solo), mentre vi costringete a spargere fuffa sulla edilizia carceraria sempiternamente prossima a realizzarsi, una chiacchierata con il prof. Glauco Giostra, e date una paziente lettura alle proposte finali di quella formidabile commissione. Così, finalmente, si potrà cominciare seriamente a parlare di carcere, e di soluzioni concrete a questa tragedia, che ora è nella vostra responsabilità. Contenti di aver giubilato Renoldi? Bene. Ora però tocca occuparsene, del carcere; sul serio, non su Facebook o su Twitter; auguri di buon lavoro. A Ostellari le deleghe sulle carceri e sulla transizione digitale della giustizia padovaoggi.it, 17 dicembre 2022 Il leghista: “Lavoriamo consci che le pene comminate devono essere effettivamente eseguite, nel pieno rispetto di quanto prevede la nostra costituzione”. Il sottosegretario Andrea Ostellari incassa deleghe pesanti dal ministro alla giustizia, Carlo Nordio. Il leghista padovano ha ottenuto infatti il mandato al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, la direzione generale dei detenuti e al trattamento e i provveditorati regionali dell'amministrazione penitenziaria. A queste si aggiungono il dipartimento per la transizione digitale della giustizia (quindi avrà a che fare con il Pnrr), l'analisi statistica e le politiche di coesione e la direzione generale per i sistemi informativi automatizzati, la direzione generale di statistica e analisi organizzativa, la direzione generale per il coordinamento politiche di coesione oltre alla delega al dipartimento per la giustizia minorile e di comunità. “Lavoriamo consci che il futuro del nostro sistema giudiziario passa attraverso una rapida e funzionale transizione digitale - commenta il sottosegretario alla giustizia, Andrea Ostellari - che le pene comminate devono essere effettivamente eseguite, nel pieno rispetto di quanto prevede la nostra costituzione, che la giustizia minorile merita una particolare attenzione così come meritano risposta le tante vittime delle baby gang e che i provveditorati regionali sono una parte essenziale del funzionamento e del governo dei nostri istituti di pena”. Ecatombe silenziosa dietro le sbarre. In 12 mesi 81 suicidi in carcere di Maria Elena Cosenza La Notizia, 17 dicembre 2022 Il ministro Nordio ha promesso interventi radicali ma finora si è vista solo la sostituzione del capo del Dap. Da inizio 2022 ad oggi sono 81 i detenuti che si sono tolti la vita. Si tratta della cifra più alta nella storia Repubblica Italiana. Un’annata nera negli istituti penitenziari. Il precedente record si era registrato nel 2009. Anno in cui sono avvenuti ben 72 suicidi. Ma spaventosi sono anche i dati sui tentativi di suicidio: ben oltre mille, sventati grazie all’intervento degli agenti di polizia penitenziaria. Di fronte a questo dramma senza fine, va registrato il silenzio delle istituzioni e della politica. Tanti annunci, pochi fatti - Perché l’attuale Guardasigilli, Carlo Nordio, di promesse ne aveva fatte tante nei mesi scorsi. “Le carceri sono la mia priorità” aveva annunciato in pompa magna. E poi “nel nostro programma c’è il potenziamento delle strutture edilizie” delle carceri “e delle risorse umane”, aveva detto sottolineando che “occorre costruire nuove carceri e migliorare quelle esistenti” e “migliorare anche il trattamento economico” degli agenti penitenziari. E ancora “la certezza della pena, che è uno dei caposaldi del garantismo” prevede che “la condanna debba essere eseguita, ma questo non significa solo carcere e soprattutto non significa carcere crudele e inumano”, aveva gridato Nordio. Insomma, di annunci ne ha fatti tanti, ma di fatti finora se ne sono visti pochi. Nelle ultime ore, in fretta e furia, è arrivato il cambio al vertice del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Sarà, infatti, un pubblico ministero, impegnato nella lotta alla criminalità organizzata a prendere il posto di Carlo Renoldi, il consigliere della Cassazione con una lunga esperienza nella magistratura di sorveglianza che l’allora ministra Marta Cartabia aveva voluto al vertice del Dap, ma le cui posizioni, ritenute troppo critiche sull’ergastolo ostativo e sul 41 bis avevano da subito suscitato una levata di scudi da FdI, oltre che dal Movimento Cinque Stelle. La scelta è ricaduta su Giovanni Russo, attualmente procuratore aggiunto alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. A maggio di quest’anno era stato proposto al Csm come candidato di minoranza per il vertice della procura nazionale: conquistò 5 voti contro i 7 andati a Nicola Gratteri e i 15 che determinarono la vittoria di Giovanni Melillo. Legato alla corrente di Magistratura Indipendente, il gruppo considerato più a “destra” nel panorama delle toghe, il prossimo capo del Dap è nato a Napoli dove ha lavorato a lungo in procura, dopo aver prestato servizio, sempre come pm, a Castrovillari. è fratello dell’ex parlamentare di Forza Italia Paolo Russo. Certo è che il tema delle carceri è da sempre un tema bollente ma dopo gli annunci del Governo Meloni, ci si aspettava senza dubbio, qualcosa di concreto e tangibile. Invece, ancora una volta, tutto fumo. Il tutto mentre la situazione nei penitenziari resta esplosiva. Infatti l’indicatore principale per valutare l’andamento del fenomeno è il cosiddetto tasso di suicidi, ossia la relazione tra il numero dei casi e la media delle persone detenute nel corso dell’anno. Con un numero di presenze medie pari a 54.920 detenuti e 65 decessi avvenuti in questi nove mesi, il tasso di suicidi è pari circa a 13 casi ogni 10mila persone detenute: si tratta del valore più alto mai registrato. In carcere ci si uccide oltre 21 volte in più che nel mondo libero. Quando nel 2009 si suicidarono 72 persone, i detenuti erano circa 7.000 in più. Un altro dato drammatico è quello dei suicidi nella popolazione detenuta femminile. Finora sono stati cinque. Con un tasso superiore a quello degli uomini, pari a quasi il 22 per cento. Rischiano di tornare in cella in 700. La speranza nel Dl Milleproroghe di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 dicembre 2022 Da oggi il Garante dei detenuti del Comune di Udine, Franco Corleone, ha iniziato il digiuno per impedire il rientro dei 700 semiliberi in carcere. Lo ha annunciato durante il seminario dal titolo “Il Cantiere di via Spalato. Oltre i muri” tenutosi in Sala Ajace a Udine. Sono state trattate tematiche di particolare interesse in quanto l'esempio del progetto di ristrutturazione del carcere di Udine, per creare nuovi spazi per la realizzazione di un polo formativo e culturale, può costituire un modello di intervento in molti altri istituti. È intervenuto anche Mauro Palma, il Garante Nazionale delle persone private della libertà, sul significato della tutela dei diritti ed è stata una importante riflessione e un punto di confronto all'inizio della nuova legislatura del Parlamento e del nuovo governo. Ma ritorniamo all’azione nonviolenta dello sciopero della fame intrapresa dal garante Corleone. Com’è noto c’è stata la bocciatura, da parte della maggioranza, delle proposte di proroga delle licenze straordinarie per i semiliberi attivate con l’emergenza Covid o di conversione delle semilibertà in affidamento in prova al servizio sociale. Come ha ricordato Patrizio Gonnella di Antigone, dal 31 dicembre, “senza un ulteriore proroga, questi detenuti dovranno tornare in carcere la notte e, questo, nonostante in questi due anni abbiano dato grande prova di affidabilità, ripagando ampiamente la fiducia che le istituzioni avevano riposto in loro. Proprio questo rapporto di fiducia creatosi dovrebbe portare il governo a decidere per questa proroga, ricordando che compito della pena è quello di costruire percorsi di risocializzazione, cosa che per queste persone sta avvenendo. Non ha senso interrompere questi percorsi, anche se solo parzialmente”. Sempre secondo Gonnella, inoltre, “in un momento in cui il sovraffollamento sta tornando a livelli preoccupanti (sono oltre 56 mila le persone detenute per circa 47 mila posti effettivi, con una crescita di 1.500 unità negli ultimi quattro mesi), trovare nuovamente posto a queste 700 persone è un aggravio in più per tutto il sistema penitenziario e per gli operatori. Auspichiamo perciò - conclude - un intervento deciso del ministro della Giustizia Carlo Nordio e del governo”. A chiedere la proroga tramite emendamento, purtroppo bocciato, erano stati alcuni parlamentari del Partito Democratico, il primo firmatario è il senatore Dem Andrea Giorgis. “Dal giorno della loro introduzione, non risulta che queste misure abbiano prodotto alcun allarme sociale o che vi siano stati casi di revoca per condotte illecite da parte dei detenuti che ne hanno beneficiato. Se è così, se si tratta di misure che hanno dato buona prova di sé, perché non renderle strutturali o perlomeno prorogarle ulteriormente? Perché al prossimo 31 dicembre dovrebbero venire meno?”, le parole del senatore Giorgis mentre si votava sul dl Rave. Molto probabilmente la maggioranza ha sottovalutato la questione. Sicuramente il ministro della Giustizia Carlo Nordio, il quale ha dimostrato di avere una sensibilità autentica sul disagio del nostro sistema penitenziario e giudiziario, avrà modo di poter spiegare. Una speranza ancora c’è, ovvero la possibilità di salvarsi in calcio d’angolo con il decreto milleproroghe. Dopo oltre due anni, i semiliberi hanno fatto dei progressi, hanno dimostrato di essere, di fatto, reinseriti gradualmente alla società. Ed ora, con la mancata proroga, rischiano di retrocedere al punto di partenza, ritornando a varcare le soglie delle patrie galere. La tragedia della pandemia ha, di fatto, come in altri ambiti, trovato impreparate le carceri. Ma dalle emergenze, possono nascere anche azioni positive. Il sistema penitenziario, per far fronte all’emergenza, ha messo in campo misure previste dalla mancata riforma dell’ordinamento penitenziario. Dall’aumento delle telefonate alle licenze straordinarie. Può ancora essere l’occasione di creare le condizioni adatte per il rinnovamento. Interrogazione su risarcimento a tutti gli assolti per ingiusta detenzione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 dicembre 2022 La senatrice Ilaria Cucchi e il senatore Giuseppe De Cristofaro di Sinistra Italiana Verdi hanno presentato una interrogazione al ministro della Giustizia Nordio. Lo rende noto Giulio Petrilli, portavoce del “Comitato per il risarcimento per ingiusta detenzione a tutti gli assolti”. “Il tema - spiega Petrilli - è appunto relativo ai mancati risarcimenti per ingiusta detenzione. Entrambi sviluppano una riflessione importante sul tema. Oltre alla mia vicenda personale, prestano attenzione alle persone invisibili che seppur assolte non hanno avuto nessun risarcimento. Al di là di come finirà questa battaglia, è motivo di soddisfazione politica e umana il fatto che Ilaria Cucchi e Giuseppe De Cristofaro abbiano presentato questa interrogazione. Danno a me e tanti altri, tanta forza per andare avanti”. Come si legge nell’interrogazione parlamentare, la norma sull’ingiusta detenzione risponde ad un dovere di giustizia e umanità che lo Stato deve assumere, anche in conformità con i principi costituzionali con particolare riferimento a quelli espressi attraverso l’art. 24 della Costituzione. Si osserva che la procedura presenta molteplici criticità, fra tutte il numero eccessivamente elevato di richieste respinte rispetto a quelle ritualmente presentate, anche a causa dell’ampio margine di discrezionalità che il comma 1 dell’articolo 314 c. p. p. riconosce al Giudicante; occorre tutelare le prerogative dei magistrati incaricati presso le corti d’Appello, a cui è affidata la competenza e la responsabilità di valutare le istanze. Occorre altresì riconoscere e tutelare il diritto al risarcimento di migliaia di individui che hanno patito disagi e sofferenze a causa dell’ingiusta detenzione. “Da ultimo - sottolinea l’interrogazione -. particolarmente significativo risulta essere il caso dell’aquilano Giulio Petrilli, arrestato il 23 dicembre del 1980, a 21 anni, con l’accusa di partecipazione a banda armata per un presunto coinvolgimento nell’organizzazione terroristica Prima Linea; detenuto per 5 anni e 8 mesi, nel regime speciale riservato ai terroristi, è stato poi assolto dai giudici della Corte d’Appello e tale proscioglimento è divenuto definitivo in Cassazione nel 1989; ciononostante, la sua richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione è stata sempre negata proprio in base al primo comma dell’articolo 314 del Codice di procedura penale poiché avrebbe avuto frequentazioni “poco raccomandabili” e quindi adottato una condotta in qualche modo definibile “colposa”“. Per questo, la senatrice Cucchi e il senatorie De Cristofaro, chiedono al guardasigilli “se non ritenga opportuno intervenire per avviare le interlocuzioni necessarie alla modifica della norma contenuta nell’art. 314 del codice di procedura penale, introducendo una formulazione che consenta l’effettivo risarcimento di tutti coloro che hanno subito un’ingiusta detenzione, limitando al contempo la discrezionalità del Giudicante nella valutazione della condotta tenuta dal detenuto; quali altre azioni intenda adottare per rendere il procedimento di risarcimento per ingiusta detenzione celere ed efficace, nel rispetto delle prerogative costituzionali nazionali e internazionali”. Rivolte nelle carceri, la Commissione antimafia insiste sulla "regia unica" di Andrea Giambartolomei lavialibera.it, 17 dicembre 2022 La Commissione parlamentare antimafia dedica un approfondimento alle rivolte nei penitenziari del marzo 2020 per i primi provvedimenti anti-Covid e sospetta siano state manovrate dalla criminalità organizzata. Una conclusione ben diversa da quella del Dap e delle inchieste giudiziarie. Non un insieme di cause che portano allo stesso effetto, ma una “regia unica”. Per la commissione parlamentare antimafia della scorsa legislatura, presieduta da Nicola Morra, resta forte il sospetto che le proteste nelle carceri tra il 7 e l’11 marzo 2020, dopo le prime restrizioni per limitare il contagio del Covid, siano state manovrate da qualche organizzazione criminale, anche di tipo mafioso, in combutta con i parenti dei detenuti e gli anarchici. Lo sostiene la relazione che tira le somme delle audizioni dedicate al tema, delle informazioni ottenute dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dnaa) e da alcune procure. Un risultato diverso da quello a cui è giunta la commissione ispettiva voluta dall’allora direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Dino Petralia, e guidata da Sergio Lari, magistrato antimafia in pensione, secondo cui invece questa ipotesi è “stata avanzata da alcuni organi di stampa ma anche da qualche sindacato di polizia penitenziaria nei primi giorni successivi alle rivolte”, ma viene smentita dalla ricostruzione dei fatti. Le proteste - si legge nel documento pubblicato a fine ottobre dalla Commissione antimafia - “sono chiaro sintomo di un malessere profondo del sistema carceri che, se non risolto, ben presto, alla prima nuova occasione esterna di tensione (una nuova ondata pandemica, un nuovo evento eccezionale esterno ed estraneo alle carceri, un nuovo provvedimento normativo in tema di concessione di benefici penitenziari, ecc.) diventerà un’inevitabile fonte di innesco di nuovi e ancora più gravi disordini nelle carceri”. Un sovraffollamento costante, personale della polizia penitenziaria insufficiente e carenza di altro personale, malessere diffuso che sfocia in suicidi, sia dei detenuti, sia del personale. Queste erano e sono le condizioni delle carceri italiane.  Già prima dell’emergenza pandemica, la Dnaa aveva segnalato più volte la situazione delle carceri italiane e aveva per questo motivo organizzato alcuni incontri con le procure distrettuali per via di “numerosi segnali di affievolimento del complessivo sistema di prevenzione all’interno degli istituti penitenziari registrati sin dal 2019”. In quelle riunioni veniva confermato il quadro di una situazione “ingestibile e, di fatto, fuori controllo già in fase pre-pandemica”. Ed è in questo contesto che si innestano le proteste. Secondo le ricostruzioni della Commissione, prima dei provvedimenti del governo e del ministero della Giustizia, tra i detenuti era diffusa l’idea che stesse per arrivare un indulto o un’amnistia. Pochi giorni prima del decreto della presidenza del consiglio dei ministri dell’8 marzo, cioè della decisione con cui sono state introdotte misure per contenere il contagio limitando gli ingressi in carcere (quindi interrompendo le attività svolte da volontari esterni e le visite dei familiari, ad esempio) e le uscite dei detenuti (quelli ammessi al lavoro all’esterno), “già circolavano in ambiente carcerario sussurri, speranze, voci diffuse ad arte che si vestivano da indiscrezioni fintamente riservate, sulla possibilità”.  Alla metà di febbraio, ad esempio, “si verificavano i primi episodi (con stesura anche di documenti) presso il carcere di Lodi, Genova Marassi e Padova”, dove “i detenuti, prendendo spunto da alcune trasmissioni radiofoniche in cui si parlava di possibile concessione di amnistia e/o indulto invitavano alla ‘battitura ad oltranza’, e in uno di questi si faceva esplicito riferimento ad una protesta da effettuarsi il successivo 9 marzo”. Anche il Nucleo ispettivo centrale (Nic) della polizia penitenziaria, in una nota del luglio 2020 (citata nella relazione della commissione ispettiva del Dap), segnavala che già in quel periodo negli istituti penitenziari di Lodi, Messina, Genova e Rieti c’erano state proteste (come la battitura delle inferriate) “a causa del sovraffollamento”. Secondo gli investigatori della polizia penitenziaria, erano state “alimentate da un ‘passaparola’ tra i detenuti a seguito di notizie apprese da Radio Radicale ed altre fonti in merito ad una possibile concessione di amnistia ed indulto in conseguenza della diffusione del virus”. Di lì a poco, a partire dal 7 marzo nella casa circondariale di Salerno, si diffondono le proteste in 53 penitenziari, a cui si aggiungono 26 carceri dove sono avvenute manifestazioni più pacifiche. Commissione parlamentare antimafia - Secondo una nota del Nic, hanno partecipato alle rivolte 7.517 detenuti. “Oltre il 12 per cento dell’intera popolazione carceraria”, sintetizza la commissione parlamentare che sottolinea come, del totale, soltanto 2.034 (il 27 per cento dei partecipanti) sono stati identificati e denunciati e 434 non sono stati nemmeno identificati: “Da ciò si evince che il 68 per cento dei rivoltosi, sebbene identificati, non avranno alcuna conseguenza sul piano penale (né è noto alla Commissione quali siano state le misure disciplinari eventualmente adottate dall’Amministrazione penitenziaria)”, afferma l’Antimafia secondo cui “non sembra - o almeno, la Commissione non ha notizia - che vi sia stata un’azione tesa comunque alla individuazione dei promotori della protesta e degli eventuali ispiratori, coordinatori o mandanti esterni della stessa, anche avviando gli opportuni procedimenti disciplinari”. Al contrario, molte inchieste hanno fatto emergere violente punizioni sui detenuti, come quelle al carcere di Santa Maria Capua Vetere e altre carceri. Sui partecipanti alle rivolte, i magistrati della Dnaa hanno potuto verificare che sono state attuate soprattutto da detenuti comuni e solo in alcuni casi i principali fautori erano reclusi nei circuiti Alta sicurezza (come a Melfi). “La stragrande maggioranza era composta da delinquenti abituali comuni o soggetti di basso profilo, alcuni vicini alla criminalità organizzata anche straniera, facilmente malleabili allo scopo”, sostiene la commissione antimafia, secondo cui “particolare attenzione merita poi il caso delle sommosse romane nel carcere di Rebibbia N.C. (Nuovo complesso, ndr), avvenute il primo giorno di vigenza del decreto, con l’opera di incitamento, sostegno e coordinamento che si è svolto su alcuni media riferibili all’area antagonista o su alcuni gruppi Facebook gestiti da un detenuto agli arresti domiciliari, nonché il flash-mob della sera dell’8 marzo sul Gianicolo ad opera di soggetti non identificati che, al grido di ‘Libertà! Libertà!’, si indirizzavano verso l’esterno dei padiglioni del carcere Regina Coeli”. Ad alcuni assembramenti non autorizzati vicino a Rebibbia, l’11 marzo vengono “esponenti anarco-insurrezionalisti già noti alle forze dell’ordine”. Il fatto che abbiano partecipato alle proteste soprattutto detenuti della “bassa manovalanza non è un’argomentazione tale da escludere a priori la possibilità di una regìa esterna o di una promozione, facilitazione o placet di matrice mafiosa”, sostiene la commissione parlamentare. Anzi, secondo quanto si legge nella relazione, per la Dnaa quest’ipotesi sarebbe dimostrata dalle tante “manifestazioni di protesta e rivolta che sembrerebbero essere state in qualche modo coordinate”, anche perché c’è una “concomitanza temporale tra i disordini interni ad alcuni penitenziari in rivolta e le manifestazioni e i sit-in effettuati nei perimetri esterni” che “in alcuni casi hanno fatto ipotizzare l’esistenza di comunicazioni illecite tese a favorire una regìa occulta dei disordini”. Per i magistrati antimafia le manifestazioni all’esterno delle strutture, “dove si mescolano familiari dei detenuti, soggetti vicini alla criminalità organizzata, ma anche gruppi anarchici” (sintesi della relazione), fanno pensare a un “disegno di accesa propaganda ‘istigatoria’, tesa a sollecitare i detenuti a intraprendere iniziative progressivamente sempre più intense al fine di sottoporre sempre più a dura prova la sicurezza del sistema penitenziario”, sostiene la Dnaa. La procura nazionale antimafia nota anche come cambi, a seconda della differente organizzazione mafiosa di appartenenza, “il modus operandi dei detenuti per mafia”. Ad esempio, i camorristi manifestano “in maniera plateale e violenta”, i mafiosi siciliani sembrano partecipare “quasi simbolicamente alle contestazioni, tanto che, nonostante le numerose manifestazioni avvenute negli istituti siciliani, i danni alle strutture sono stati molto contenuti”. Quelli legati alla ‘ndrangheta, invece, non avrebbero partecipato a “nessuna manifestazione di protesta” e anzi “in tutti gli istituti di detenzione della Calabria non sono emerse criticità, se non una dimostrazione pacifica nel carcere di Castrovillari”. La commissione parlamentare antimafia di Morra insiste sulla sua ipotesi: “Il quadro emerso dall’analisi svolta dalla Dnaa e dalle diverse indagini sul territorio conferma l’ipotesi di una regia unica e di un’azione coordinata che ha coinvolto la popolazione detenuta e soggetti esterni al carcere, come dimostrato dal parallelismo tra i disordini interni che hanno contestualmente coinvolto un gran numero di istituti penitenziari e quelli creati sulle pubbliche vie adiacenti o nelle prossimità degli istituti penitenziari”. A sostegno della sua ipotesi, c’è anche la dichiarazione resa da un agente di polizia penitenziaria del carcere di Trani audito dal comitato di approfondimento sul 41bis. L’uomo ha riferito che “un detenuto uscendo dall’area riservata alle telefonate (consentite) si rivolgeva agli altri detenuti al di là dello sbarramento dicendo ‘alle 4... hanno detto alle 4... tutti pronti alle 4’”. D’altronde la commissione ricorda che negli istituti penitenziari “sono ampiamente diffusi telefoni cellulari in uso ai detenuti senza alcun controllo” e che nei controlli dell’aprile 2020 sono stati scoperti “348 telefoni cellulari nella disponibilità di oltre duecento detenuti ristretti nei circuiti di Media e Alta sicurezza”.  E quale sarebbe la ragione di questa protesta ipoteticamente, secondo la Commissione guidata da Morra, coordinata dalla criminalità? Le limitazioni dei colloqui, sospetta il comitato di Morra, avrebbe impedito l’accesso di droga da spacciare nelle carceri e l’invio di messaggi e ordini all’esterno, ragioni che da sole confortebbero l’ipotesi della regia unica “organizzata in questo caso dai detenuti in Alta sicurezza i quali si sarebbero limitati a manovrare i detenuti comuni e a incitarli alle manifestazioni più gravi, ostentando estraneità agli eventi e un atteggiamento di resistenza meramente passiva”. Alcuni casi, come quello foggiano, in cui è avvenuta una clamorosa evasione di massa, dimostrerebbero invece il contrario: la rivolta è avvenuta proprio per l'assenza di una regolazione dei comportamenti da parte di boss di alto calibro, spostati in altri istituti di pena poco prima dello scoppio della pandemia. Le conclusioni della commissione voluta da Petralia e Tartaglia - A leggere invece la relazione della commissione del Dap, guidata da Sergio Lari e voluta dall’allora direttore Petralia e dal vice Roberto Tartaglia, emerge uno spaccato ben diverso. Approfondendo i casi più gravi di 22 carceri più coinvolte dalle proteste, si arriva a una conclusione opposta a quella di Morra: “Se per un verso è stato possibile escludere l'esistenza di una regia occulta da parte della criminalità organizzata ovvero di organizzazioni anarchiche o antagoniste, per altro verso, è risultato che, all'origine delle violente sommosse, vi sono stati più fattori, che si sono combinati tra loro sulla base di dinamiche diverse”. In moltissimi casi, non c’erano detenuti mafiosi e non sono stati rilevati contatti con le organizzazioni mafiose all’esterno. Si trattava soprattutto di detenuti comuni, magari stranieri o con problemi di droga, spaventati dal Covid e spinti dall’emulazione di quanto avveniva altro. Un malcontento che, in certi casi, era alimentato dagli antagonisti o dai familiari radunati fuori dalle strutture.  A Salerno, lì dove è cominciato tutto, il foglio con le richieste dei reclusi - chiamato dai media “papello”, un ammiccamento al papello con le richieste di Cosa nostra allo Stato dopo le stragi - conteneva proposte di carattere igienico-sanitarie, scritte dopo la richiesta di un funzionario di polizia;  A Poggioreale, i manifestanti erano detenuti comuni e soltanto quattro appartenevano al regime di alta sicurezza. Anzi, “la partecipazione di appena quattro detenuti appartenenti all'area di alta sicurezza (gli altri non hanno partecipato in alcun modo) non può deporre per un ruolo di regia della criminalità organizzata”; A Padova “nessuno dei 17 detenuti allocati nella sezione AS1 (Alta sicurezza 1, destinato ai mafiosi, ndr) ha partecipato alla rivolta, né si è fatto coinvolgere in iniziative di protesta”; A Foggia, dove la protesta è sfociata in una maxi evasione, “erano detenuti soltanto soggetti appartenenti alla criminalità medio - piccola, poiché la sezione di alta sicurezza era stata chiusa alcune settimane prima della rivolta”;  A Melfi, “una parte dei detenuti afferenti al circuito alta sicurezza, tra cui i calabresi, avevano preso le distanze dalla protesta, restando nelle loro camere o a giocare a carte in socialità”. Nel carcere lucano, “la rivolta ha coinvolto soltanto una fascia dei detenuti della sezione alta sicurezza - foggiani, baresi e campani - che sembra abbiano agito autonomamente, in assenza cioè di una regia esterna della criminalità organizzata di appartenenza e di un collegamento diretto tra i diversi istituti”; A Siracusa “i detenuti del reparto alta sicurezza non hanno, infatti, manifestato alcuna adesione all'iniziativa dei rivoltosi, neppure in forma pacifica”; Al carcere Pagliarelli di Palermo, i reclusi del circuito “di alta sicurezza si sono limitati a manifestare adesione alla protesta con la battitura delle inferriate e l'astensione dal vitto dell'Amministrazione e dagli acquisti al sopravvitto, astenendosi da forme violente di partecipazione. A parte questa limitata partecipazione, non sono emersi elementi che inducano a ritenere un ruolo di coordinamento della criminalità organizzata, ed in specie di ‘cosa nostra’;  A Trapani, “la sezione alta sicurezza non ha partecipato minimamente ai disordini”, ha spiegato la direttrice del carcere. Allora, come si era fatta strada l’ipotesi di una regia comune dei mafiosi, di una “strategia occulta orchestrata a tavolino”? “Era stata avanzata da alcuni organi di stampa ma anche da qualche sindacato di polizia penitenziaria nei primi giorni successivi alle rivolte”, ipotizzando che la sospensione dei colloqui in presenza avrebbe fermato le comunicazioni tra i detenuti mafiosi e le loro organizzazioni all’esterno per impartire direttive o per ricevere dosi di droga.  La Commissione guidata da Lari si sofferma sui ruoli delle tre principali mafie italiane e, come fa anche la Direzione nazionale antimafia, nota che: la 'ndrangheta non sembra coinvolta “perché non vi è stata alcuna sommossa in istituti penitenziari calabresi” e anche “perché non è stato registrato alcun coinvolgimento di detenuti appartenenti a tale organizzazione mafiosa”. Anzi, l’episodio di Melfi dimostra un loro certo disinteresse; cosa nostra, che ha una struttura unitaria e verticistica e considera la Sicilia suo territorio di appartenenza, pare essersi “completamente disinteressata a tutte le rivolte in esame”. Inoltre gli approfondimenti degli investigatori della polizia penitenziaria sui telefoni cellulari sequestrati nel corso delle perquisizioni non hanno dato riscontri di contatti telefonici con appartenenti alla criminalità organizzata e, a distanza di due anni, “sono stati instaurati procedimenti penali quasi esclusivamente a carico di detenuti comuni”, mentre non ci sono notizie di procedimenti delle procure distrettuali antimafia su impulso della Dnaa. Il ruolo di parenti e antagonisti - La commissione del Dap parla di "strategia comune" tra familiari e antagonisti "per ottenere benefici penitenziari e/o provvedimenti di clemenza”, ipotesi che però “per quanto ritenuta da questa Commissione plausibile, non ha trovato riscontro in esiti di inchieste giudiziarie” E allora, chi ha soffiato sul fuoco della rivolta? Sembra più plausibile è che, ad alimentare le rivolte dall’esterno, sia stato il legame sorto tra familiari e gruppi anarchici fuori dalle carceri. Ad esempio, in merito alle proteste avvenute a San Vittore, carcere milanese, “le attività di indagine svolte dal Nucleo investigativo regionale della polizia penitenziaria nei giorni dei disordini hanno, anche, evidenziato un verosimile ruolo di coordinamento assunto dai movimenti antagonisti legati ai familiari dei detenuti radunatisi davanti alla struttura poco dopo l'inizio dei disordini, così come avvenuto in altri istituti”. I parenti, preoccupati per le condizioni dei loro cari detenuti, si sono organizzati anche usando i social network: “Hanno avviato e alimentato campagne mediatiche contro le istituzioni accusate di abbandonare i detenuti al loro destino e che sovente hanno manifestato fuori dagli istituti penitenziari in concomitanza con le rivolte, creando, talvolta, problemi di ordine pubblico”. Ma questo non basta a ritenerli i registi delle rivolte: “Non sono stati acquisiti elementi probatori utili”, si legge. “Per quanto riguarda l'eventualità che possano esservi stati accordi, possono citarsi le rivolte di Bologna, Roma Rebibbia, Napoli Poggioreale, Milano San Vittore, Palermo Pagliarelli e Siracusa: in questi casi, infatti, l'attività ispettiva ha fatto emergere come probabile l’ipotesi che detenuti, loro familiari e gruppi antagonisti abbiano concordato il momento in cui dare l'avvio alle rispettive manifestazioni di protesta dentro e fuori le strutture penitenziarie”. In questo caso, la commissione del Dap parla sì di “una strategia comune volta a utilizzare le forme violente di protesta come strumento di pressione nei confronti delle istituzioni per ottenere benefici penitenziari e/o provvedimenti di clemenza”, un’ipotesi che però “per quanto ritenuta da questa Commissione plausibile, non ha trovato riscontro in esiti di inchieste giudiziarie”. Carcere: la scuola serve più dell’ora d’aria di Lara Mariani informazionesenzafiltro.it, 17 dicembre 2022 Le attività scolastiche trovano un ambiente molto fertile nelle carceri: lì la questione non è la sicurezza, ma la burocrazia. Il parere del Garante dei detenuti dell'Emilia-Romagna Roberto Cavalieri e dell'insegnante Michele Carra. La scuola in carcere è strana: il carcere è l’unico luogo dove gli studenti protestano quando ci sono le vacanze, e alcuni detenuti chiedono di essere bocciati per non concludere il percorso di studi e poter continuare le lezioni. A pensarci bene però non è tanto strano, perché la scuola in questi luoghi è quasi più importante dell’ora d’aria. Permette di impiegare il tempo in maniera costruttiva, di crescere e di avere un titolo spendibile una volta scontata la pena, anche se gli studenti più attaccati allo studio in realtà sono quelli che ancora non hanno prospettive di uscita. A spiegarmelo è stato Roberto Cavalieri, garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna. Io e Roberto ci siamo incontrati a FierIDA, l’evento organizzato da RI.DA.P. (Rete Italiana Istruzione degli Adulti), e pochi giorni fa mi ha invitato nella casa di reclusione di Castelfranco Emilia offrendomi la possibilità di vedere studenti e insegnanti all’opera. La direttrice del carcere, Maria Martone, ha praticamente organizzato una sorta di open day, proprio come si fa a scuola: una giornata mai organizzata prima in altri istituti penitenziari e dedicata alle associazioni di volontariato per far conoscere tutte le attività dell’istituto. Roberto Cavalieri, garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna. Foto@FrancescaMezzadri A Castelfranco ho visto aule spaziose, con lavagne elettroniche e disegni vivaci appesi alle pareti. Aule calde e colorate, con una forte identità. Quando sono entrata gli studenti mi hanno accolto con entusiasmo, e soprattutto con la voglia di raccontare quello che stavano studiando. A fare lezione c’era un’insegnante giovanissima, non ancora di ruolo. Devo essere onesta: per prima cosa ho pensato che una giovane donna in un carcere soltanto maschile potesse avere grandi difficoltà. Mi sbagliavo. Lei era molto serena: “Ho pochi studenti, tutti attenti e profondamente coinvolti nelle lezioni. Qui si lavora molto bene”, mi ha detto scavalcando tutti i miei dubbi. Roberto Cavalieri, garante detenuti dell’Emilia-Romagna: “La scuola in carcere? Una delle migliori esperienze che si possano fare. Il problema è concludere il percorso” Però Castelfranco Emilia è un modello praticamente unico nel panorama italiano. La realtà è che il resto delle case di reclusione italiane è molto lontano dall’avere anche solo un decimo delle attività che si fanno qui, sia scolastiche che lavorative. Infatti Roberto Cavalieri mi ha raccontato che di norma nelle carceri non ci sono aule, ma spazi dedicati a diverse attività in cui si fa anche lezione. Alcuni minori a scuola all’interno di un carcere. “Negli istituti penitenziari gli spazi non sono definiti, diciamo che si connotano in base alla persona che ci trovi dentro. La chiami palestra se dentro c’è l’istruttore di ginnastica, la chiami scuola se dentro c’è l’insegnante. Quelli dedicati alle lezioni, ad esempio, sono spazi che hanno banchi e lavagne, ma che al bisogno possono essere riconvertiti in altro”. Il garante frequenta le carceri da trent’anni; in passato ci ha anche insegnato, e in questa intervista c’è tutta la sua esperienza e lo sguardo di chi vede i detenuti come persone su cui investire, perché l’investimento sull’uomo fa bene a tutta la società. Roberto, quante persone in media studiano negli istituti penitenziari? La domanda vera non è quanti studenti fanno la scuola in carcere, ma quanti davvero si qualificano. E soprattutto: chi non si è qualificato perché non è arrivato in fondo? Perché è stato scarcerato, trasferito, perché ha commesso un’infrazione, o perché gli è stato proposto un lavoro negli stessi orari in cui faceva le lezioni scolastiche? Le cause possono essere tante, e anche se nelle carceri c’è la possibilità di studiare non ci sono statistiche vere che ci dicano quante persone concludono davvero il percorso. I dati non ci sono perché sarebbero sconfortarti? Diciamo che pubblicarli sarebbe un’ammissione di corresponsabilità. Ad esempio, la giornata operativa in carcere è molto corta, e questo è un problema. Di norma dalle nove del mattino alle tre del pomeriggio si svolge la stragrande maggioranza delle attività, e questo significa che se vai a scuola non puoi lavorare e viceversa, e se vai a lavorare spesso non riesci ad andare all’aria aperta. In sostanza, mancano gli agenti per allungare la giornata scolastica o lavorativa perché negli orari serali c’è pochissimo personale. E gli insegnanti invece sono in numero sufficiente? Gli insegnanti ci sono, ma anche loro vivono la frustrazione di un’organizzazione molto complessa. Spesso perdono detenuti perché vengono trasferiti, perché iniziano a lavorare, perché magari qualcuno infrange le regole. Se vieni dall’esterno è abbastanza complicato lavorare, perché vieni a conoscenza dei fatti solo quando il dado è tratto ed è difficile fare programmazione. Qui le possibilità di finire il percorso non sono le stesse che all’esterno, però il detenuto ha un forte senso di attaccamento alla scuola, è un alunno fertile, sempre molto attento, desideroso di conoscere e con una grande voglia di riscatto. Insegnare in carcere è una delle migliori esperienze che si possano fare, e ci sono tutti i livelli di istruzione, dalla scuola di base (CPIA, quindi elementari e medie) alle scuole superiori e professionali. A FierIDA diceva che ci sono anche esempi straordinari di detenuti che riescono a frequentare l’università. Al Pratello (il carcere minorile bolognese) ci sono ragazzi che oggi studiano Scienze della formazione e Filosofia. E la scuola dimostra di essere davvero una leva del cambiamento. Certo, non è una leva che può andar bene per tutti; per questo le carceri più intelligenti sono quelle dove si offre un corredo diversificato di opportunità, come succede a Castelfranco Emilia, dove in tanti studiano, ma in tanti lavorano. Qui il lavoro della direttrice Maria Martone, che ha un approccio manageriale, ha fatto davvero la differenza. Una scuola “strana, ma molto vissuta”: l’esperienza di chi insegna in carcere Dopo le parole del garante ero curiosa di avere anche una testimonianza di un insegnante, ed è stato lo stesso Roberto a darmi il numero del professor Michele Carra, che da dieci anni insegna italiano ai detenuti delle scuole medie e superiori di Parma, un carcere in regime di media e alta sicurezza. “Insegno a una classe di dieci persone perché, anche se il carcere di Parma è molto grande (conta circa 700 detenuti), non ci sono vere e proprie aule, ma celle che sono state riconvertite e non permettono una capienza maggiore. In totale gli studenti sono circa cento e si dividono tra elementari, medie e superiori. In particolare, a Parma c’è Ragioneria e l’istituto professionale alberghiero. È una scuola strana, ma molto vissuta soprattutto in alta sicurezza, dove ci sono le pene più dure e più lunghe e dove studiare è un bel modo di impegnare il tempo. Qui ci sono studenti che si lamentano quando ci sono le feste perché vorrebbero andare a scuola”. Il professore distingue i due ambienti e mi spiega che in alta sicurezza i detenuti sono quasi tutti italiani, mentre in media sicurezza sono quasi tutti stranieri. In particolare, nell’alta sicurezza ci sono italiani che erano analfabeti e che sono stati accompagnati nel percorso dalle elementari alle superiori. “La scuola - continua il professore - li ha aiutati a crescere, e sono convinto che, se avessero avuto la possibilità di studiare prima, certi reati non li avrebbero commessi. L’ignoranza ha giocato a loro sfavore”. Invece la media sicurezza ha il problema del turn over: ci sono persone in attesa di giudizio, persone che verranno scarcerate o trasferite. “Per la scuola media riusciamo a programmare percorsi brevi che permettono di fare tre anni in uno, e abbiamo pensato anche a percorsi brevissimi di appena tre mesi, per avere un attestato di italiano. Ci siamo adattati a una situazione di turn over, ma il problema rimane per la scuola superiore, che prevede un percorso più lungo. Alle superiori, in media sicurezza, c’è ancora molta dispersione”. Carceri, se la scuola è uno slalom tra limitazioni e burocrazia - Il professore mi spiega che le criticità sono tante, ma mi fa capire che il gioco vale sempre la candela. “Un insegnante di Italiano deve avere un po’ di fantasia nel dare i temi. Non posso chiedere ai detenuti di scrivere cosa hanno fatto durante le vacanze estive, e non posso richiedere storie troppo personali perché si spalancherebbero abissi incredibili. Non posso neanche assegnare compiti perché, anche se i detenuti avrebbero tutto il tempo del mondo per farli, le celle sono rumorose e spesso vengono disturbati.” “Le procedure burocratiche poi sono complicate, bisogna sempre chiedere l’autorizzazione per i libri, le fotocopie, e passano anche settimane prima di averla. Abbiamo la lavagna elettronica, ma non possiamo avere internet e non siamo autorizzati a portare chiavette dall’esterno. E poi alle 15 vengono sospese tutte le attività, perché dopo quell’ora ci sono meno agenti in servizio. La realtà è che non avremmo bisogno di agenti, perché non ci sono problemi di disciplina: sono i detenuti stessi a chiedere di andare a scuola, quindi non hanno interesse a generare problemi.” “Le difficoltà maggiori, a volte, sono nel conciliare le esigenze tra le diverse amministrazioni, quella scolastica e quella penitenziaria. Può succedere, infatti, che attività lavorative o di altre tipologie siano proposte a studenti già iscritti ai corsi scolastici, e ciò spesso comporta l’abbandono della scuola. Il maggior coordinamento tra le varie attività, seppur a volte problematico, è dunque auspicabile.” “Durante la pandemia ci sono state parecchie rivolte all’interno delle carceri, ma al di là delle notizie che hanno fatto scalpore si è indagato poco sulle motivazioni. Spesso i detenuti si sono ribellati perché durante la pandemia sono state chiuse tutte le attività: scuola, incontri, colloqui. Da noi non c’era neanche la possibilità di fare didattica a distanza, e la loro reazione dimostra che le attività sono fondamentali durante le loro giornate, anche per uscire dal carcere migliori di prima.” Il carcere non è capitato per caso sulla strada di Michele Carra. Era curioso di entrare in una realtà misteriosa, sconosciuta, che a molti fa paura. Del resto, le notizie che si danno sugli istituti penitenziari sono sempre negative. Del carcere si parla sempre male, i giornalisti fanno la conta dei detenuti per parlare di sovraffollamento, di suicidi e di rivolte. Invece dentro c’è anche un mondo diverso, che forse più persone dovrebbero conoscere come ha fatto lui. Nordio: "Cambiare la Costituzione non è blasfemo" di Elisa Trincia agi.it, 17 dicembre 2022 Il ministro della Giustizia definisce "oggi incompatibile" la Carta con il nostro sistema giudiziario e con il diritto penale. "Non c'è nessun reato di lesa maestà nel voler cambiare la nostra Costituzione, era riuscita in una sorta di miracolo a conciliare l'anima marxista con quella cattolica". La prima è morta, la seconda è secolarizzata, è rimasto il liberismo". Lo ha detto ministro della Giustizia Carlo Nordio, intervenuto alla kermesse per i 10 anni di Fratelli d'Italia in piazza del Popolo a Roma. "Non c'è nulla di eretico e blasfemo nel volerla cambiare - ha sottolineato il guardasigilli - come tutte le cose umane le Costituzioni, nascono vivono e muoiono. Si cambiano e si possono cambiare senza essere blasfemi verso i nostri padri costituenti". "La nostra Costituzione oggi è incompatibile con il nostro sistema giudiziario e con il diritto penale - ha spiegato il ministro Nordio - perché quando i nostri padri costituenti la scrissero avevano davanti un codice penale che era stato scritto venti anni prima e un codice di procedura penale inquisitorio. I padri adattarono le norme costituzionali al codice, mentre sarebbe stato opportuno il contrario. Quarant'anni dopo fu introdotto un codice di procedura penale diciamo liberale anglosassone".  "Noi oggi abbiamo una contraddizione insanabile - ha proseguito il ministro - abbiamo una costituzione ispirata ai principi del codice inquisitorio del 1930, abbiamo un residuo di un codice di procedura penale incompatibile con la costituzione. Quindi ora o cambiamo il codice e torniamo al Rocco o cambiamo la Costituzione. Occorre introdurre discrezionalità dell'azione penale, separazione delle carriere e definire i poteri del pubblico ministero che ha un potere esecutivo enorme senza avere responsabilità. Non è solo un problema politico ma anche tecnico. L'importante è avere un sistema coerente".    I magistrati sono diventati potere autonomo, un’anomalia che Nordio può riequilibrare di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 17 dicembre 2022 Il ministro ha l’esperienza per valutare questa deviazione della quale si discute da troppi anni. L’intervento del ministro Nordio alla Commissione Giustizia del Senato contiene un programma completo di riforma della giustizia: lo aspettavamo da anni, e non avremmo mai potuto immaginare che fosse un ex pm di un governo di destra a pronunciarlo. Si tratta di un programma coordinato che si riferisce al complessivo campo della giustizia, alla organizzazione degli uffici giudiziari a quello delle carceri, e dunque meraviglia che tanti magistrati e tanti commentatori faziosi o schierati si siano soffermati solo su aspetti che suscitano facilmente polemiche perché riguardano il rapporto tra la politica e la giustizia e soprattutto il potere che i magistrati hanno acquisito e non sono disposti a rinunziare. La Costituzione ha disciplinato la magistratura come “ordine autonomo” e i magistrati sono diventati “potere autonomo”. Si tratta di una constatazione che altera il rapporto tra i poteri dello Stato e che deve essere la premessa per qualunque riforma della giustizia. In una democrazia così articolata come quella che abbiamo costruito in questi anni, un equilibrio dei poteri non può essere garantito con una magistratura autonoma, “separatista” svincolata dai sistemi di controllo che la Costituzione prevede per ogni istituzione, ma da una magistratura capace di esaltare la sua indipendenza insieme ad una responsabilità istituzionale. Questo il vero problema e questa la grande sfida. Il ministro ha la consapevolezza e l’esperienza personale per valutare questa deviazione della quale si discute da oltre trent’anni, e propone profonde modifiche per ridare la giusta e equilibrata indipendenza all’ordine giudiziario, necessaria per l’ordine democratico del paese. È un tentativo ardito e difficile, ma ha garantito il suo impegno e la sua permanenza al Ministero. Naturalmente questo programma, che mi auguro sia di tutto il governo e non solo del Ministro, va discusso e verificato nel Parlamento con il contributo di chi è interessato al bene della magistratura e all’efficacia di una giustizia che rispetti il cittadino e la società civile. Assistiamo invece a polemiche smodate, a insulti al Ministro, all’ironia sulla sua consolidata professionalità! L’Associazione dei magistrati in prima linea mostra avversione e rifiuta con tutte le sue componenti l’impianto riformatore, confermando che le correnti, che prima erano vivaci e valide per discutere e approfondire le problematiche complesse della giustizia ora sono, come è opinione diffusa, organizzate solo per dividere potere e incarichi. Il vasto programma di riforma enunciato da Nordio è utile dunque per organizzare una magistratura credibile e accettata dai cittadini e per determinare una giustizia unitaria e efficiente, ma è osteggiato dalle oligarchie interne alla magistratura e dalla politica che vuol essere di supporto. Veniamo da una legislatura che ha fatto strage dell’ordinamento soprattutto penale deturpandolo. utilizzare il rancore sociale per inventare reati e inasprire le pene in maniera non proporzionale, come pure è stato fatto all’inizio della legislatura, è stata la preoccupazione costante del movimento cinque stelle con la complicità del PD e della lega, dei tradizionali giustizialisti che hanno avvelenato il clima di questo paese e la convivenza civile. Dobbiamo quindi constatare che da Tangentopoli in poi per la prima volta ci troviamo di fronte ad un Ministro che fa un’analisi realista della situazione e indica rimedi. È doveroso dare la massima fiducia al Ministro e sperare che il programma venga davvero realizzato. Il programma, come ho detto, spazia dalla giustizia civile già riformata dal precedente governo, all’integrazione dei processi di innovazione e di trasformazione digitale, con la consapevolezza che il progresso degli strumenti tecnologici di analisi è necessario per garantire i servizi giudiziari ai cittadini; allo sviluppo della funzione statistica che consente un continuo monitoraggio del sistema; alla previsione di una particolare riforma delle carceri per garantire dignità ai detenuti. È forte la consapevolezza di ottenere queste riforme entro il prossimo anno anche per assecondare l’attuazione del Pnrr. Il Ministero della giustizia ha un rapporto del tutto particolare con la magistratura che è indipendente, ma ha pur sempre il dovere di regolare l’“organizzazione giudiziaria” e intervenire legislativamente sulle patologie che si determinano e che si sono determinate negli ultimi anni in misura ragguardevole. Di conseguenza tutto questo non può essere fatto contro “l’Associazione” e contro il CSM, ma l’Associazione e il CSM non possono mettere in campo pregiudiziali e rifiutare il confronto. Da sempre, anche per una mia diretta esperienza, i magistrati non accettano nessuna riforma, come se sul campo della giustizia andasse tutto bene, con il presupposto ripetuto come un mantra che ogni riforma “attenta all’autonomia e alla indipendenza”. Ma ora che la situazione è diventata grave, per convincimento di tutti, come non rendersi conto che vi sono patologie e distorsioni che non possono non essere “curate”. Le principali sono quelle di sempre che il Ministro ha elencato, e siccome sono state trascurate sono diventate vistose. Per brevità di spazio elenchiamo le più importanti. La Costituzione stabilisce che il processo deve avvenire con un contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, con un giudice terzo, al di sopra delle parti; l’imputato non deve essere considerato colpevole fino alla decisione del giudice; l’obbligatorietà dell’azione penale deve servire per l’uguaglianza del cittadino e quindi non presuppone una discrezionalità del pm che ormai è legata alla iniziativa personale del singolo magistrato; l’azione penale non può essere appesantita da un uso smodato delle intercettazioni che dovrebbero essere un mezzo per la ricerca della prova e non diventare di per sé prova; la deformazione dell’informazione di garanzia determina un processo mediatico che intacca le libertà del cittadino soprattutto se fatte su persone non indagate delegittimandole; l’azione penale iniziata con assoluta discrezionalità senza alcun controllo che è un’assoluta eccezione rispetto agli ordinamenti giudiziari dei paesi a democrazie avanzata; la distinzione dei “mestieri”, tenuto conto che il pm ha un compito distinto e diverso dal giudice e fa un mestiere diverso, come ci ha detto ripetutamente un magistrato di grande livello come Falcone. Questi criteri fondamentali sono disattesi e quindi è in crisi il rapporto tra i poteri dello Stato tant’è che il Presidente della Repubblica Mattarella ha detto al Parlamento di fare leggi in modo da “garantire l’equilibrio delle decisioni” e ai magistrati, di “conoscere i limiti della propria funzione“ che non è quella etica per fare vincere il bene sul male ma è quella di reprimere l’illegalità; di “rifiutare il consenso“ nell’attività giudiziaria, di recuperare il “principio di imparzialità, “ di rifiutare il protagonismo, di garantire la riservatezza nei riguardi dei processi per non “apparire di parte“ forzando i dati della realtà! Questo il monito del Capo dello Stato, e il programma di Nordio risponde a quelle domande, per cui è auspicio di tutti che vi sia da parte dei magistrati illuminati, che pur vi sono, la volontà di un confronto non pregiudiziale né di rifiuto, ma di aiuto a trovare soluzioni adeguate nell’interesse della giustizia e per la tutela dei diritti e delle libertà dei cittadini. Governo, giudici e avvocatura: la teoria dei tavoli a tre gambe di Nordio di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 17 dicembre 2022 Il nuovo Guardasigilli rimette al centro il diritto di difesa. Masi (Cnf): ”Giusto valorizzare il nostro ruolo”. L’avvocatura è, secondo il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, una “componente indefettibile di ogni riforma”. Questa definizione è emersa dopo gli incontri con i vertici del Consiglio nazionale forense, Ocf, Cassa forense e Camere penali, e sottolinea la considerazione nei confronti del Foro. Ma il responsabile di via Arenula ha anche affermato che si è aperta una nuova fase in cui “ci saranno sempre tavoli a tre gambe: governo, avvocatura e magistratura”. Nel ministero della Giustizia, dunque, sembra che respiri un’aria diversa con una autentica apertura verso i protagonisti della giurisdizione, avvocatura compresa. Sin dai prossimi giorni ci potrà essere l’occasione per un reale coinvolgimento ed un costruttivo confronto. Non mancano, infatti, alcune tappe significative che potrebbero sugellare l’alleanza tra ministero della Giustizia e avvocatura. Si pensi, ad esempio, all’attuazione della riforma Cartabia nel penale (i limiti alle impugnazioni sono stati criticati dalle rappresentanze forensi) o alla revisione della improcedibilità, introdotta dalla legge delega. Altro tema rilevante, inoltre, è quello delle pene extracarcerarie per le quali non mancano orientamenti della politica più restrittivi. Il coordinatore dell’Ocf, Mario Scialla, è fiducioso in merito all’interlocuzione avviata. “Vogliamo contribuire - commenta - ai cambiamenti e far parte di un sistema che funzioni al meglio”. Nell’incontro avuto due giorni fa con il ministro Nordio sono stati affrontati diversi temi. “L’avvocatura italiana - dice Scialla - sta avendo una voce quasi unica con richieste insistenti e ben argomentate. Il ministro della Giustizia ha preso atto di questa situazione e non a caso gode di grande credito da parte dell’avvocatura. Ho avuto diverse conferme in tal senso. Conoscevamo le idee del ministro e ho colto la sua determinazione”. Il riferimento del coordinatore dell’Ocf è al passaggio fatto da Nordio sul superamento della crisi economica. “Ho ricordato al ministro della Giustizia - aggiunge - il nostro favore in merito alla approvazione dell’equo compenso nei termini illustrati alla Commissione Giustizia. La compensazione dei crediti fra i crediti professionali derivanti dalle difese dell’ufficio del patrocinio in favore dei non abbienti con le debenze in favore di Cassa forense, comprese nella legge di bilancio, ha rappresentato un passaggio importante”. Sul penale, invece, il “dialogo è stato estremamente costruttivo e in alcuni momenti di grande trasporto”. Il riferimento è alle misure cautelari. “Oggi - afferma Scialla - è il Gip che sta nello stesso tribunale del Pm. Cosa succede? Alcune volte un Gip giovane, ancora con poca esperienza, può trovarsi di fronte ad una richiesta di misura cautelare proveniente da un pubblico ministero affermato ed importante. A quel punto non è semplice smarcarsi. Abbiamo sul punto un’idea ben precisa, derivante dall’esperienza quotidiana nelle aule. Fino a qualche anno fa avevamo in Italia il 34% dei detenuti in custodia cautelare su una media europea inferiore di oltre la metà. Se noi portiamo a decidere, anziché il gip, una sezione della Corte d’appello, le cose cambierebbero. Si sposterebbe il fascicolo in un altro ambiente, con magistrati più anziani ed esperti, per una decisione collegiale e più rispondente”. Secondo Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali italiane, si è aperta una fase che può portare a risultati importanti. “Dopo l’incontro con il ministro Nordio - dichiara Caiazza -, verrà aperto un tavolo in merito ai necessari interventi sui decreti attuativi della riforma Cartabia. Le Camere penali si sono impegnate su questo, consegnando un lavoro approfondito. I decreti attuativi hanno in più parti snaturato la riforma o l’hanno svuotata di significato lì dove aveva una particolare efficacia. Il lavoro da fare è tutto interno alla delega”. Caiazza si sofferma poi sul tema della prescrizione: “È stato un bene superare con la ministra Cartabia la riforma sciagurata Bonafede. Però, è stato pagato un prezzo altissimo. Mi riferisco alla pretesa del M5S di non modificare il principio fissato dalla Bonafede per la fine della prescrizione sostanziale nella sentenza di primo grado e quindi inventandosi l’istituto della improcedibilità in appello, che è un grande pasticcio. Oggi il quadro politico è diverso e non bisogna pagare nessun tributo a nessuno”. Sulle pene extracarcerarie il numero uno delle Camere penali è convinto che ci sia una convergenza con le idee personali di Nordio. “Sono - rileva Caiazza - radicate nella cultura liberale. Il ministro è lontano da alcuni slogan che lo vogliono caratterizzare sulle politiche carcerarie e sull’esecuzione della pena. Le Camere penali sostengono la strada della decarcerizzazione. Le misure alternative devono, però, essere molto più efficaci. Richiedono grandi sforzi e vanno rese effettivamente sanzionatorie e idonee a costruire un vero percorso di recupero fuori dal carcere. È questa la strada da intraprendere”. Emilia Romagna. Carcere e media: “Serve più informazione” di Cristian Casali cronacabianca.eu, 17 dicembre 2022 Dibattito in Assemblea legislativa con il Garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna, Roberto Cavalieri, e quello di Bologna, Antonio Ianniello, Giovanni Rossi dell’Ordine dei Giornalisti, la direttrice del carcere della Dozza Rosa Alba Casella, il sindacalista Sappe Giovanni Durante. Intervento anche di un detenuto sottoposto a misura alternativa al carcere. Sono 3.390 le persone detenute nelle dieci strutture carcerarie dell’Emilia-Romagna (dati aggiornati al 30 novembre 2022): 756 a Bologna, 353 a Ferrara, 163 a Forlì, 444 a Modena, 77 a Castelfranco Emilia, 358 a Piacenza, 694 a Parma, 79 a Ravenna, 339 a Reggio Emilia e 127 a Rimini. Fra i 3.390 detenuti (56.524 a livello nazionale) si contano anche 150 donne, mentre gli stranieri arrivano a 1.648. La capienza regolamentare delle nostre strutture arriva a 3.011: il surplus quindi è di 379 unità. Una giornata in Assemblea legislativa regionale dedicata alla situazione carceraria in Emilia-Romagna, al rapporto con i media e al lavoro dei giornalisti. Un incontro di formazione promosso dal Garante dell’Emilia-Romagna in collaborazione con l’Ordine dei Giornalisti.  Il Garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri, sottolinea che “l’obiettivo primario, nonostante le risorse scarse riservate al sistema delle carceri, resta quello costituzionale di una pena rispettosa del senso di umanità e che tenda alla rieducazione del condannato”. Per il garante, occorre lavorare sul tema dei diritti: “È fondamentale - spiega - aumentare le attività all’interno delle carceri, a partire dal lavoro”. Inoltre, aggiunge, “non va sottovalutato il tema della salute, anche per contrastare il rischio suicidario: nelle carceri della regione i tentativi di suicidio, nei soli primi sei mesi del 2022, sono stati 114, 762 i casi di autolesionismo”. “Serve rendere fruttuoso il tempo passato in carcere”, conclude Cavalieri. Ad aprire i lavori la vicepresidente dell’Assemblea legislativa Silvia Zamboni, anche lei iscritta all’Ordine dei Giornalisti, che, nel rimarcare quanto siano importanti incontri come questo in cui si parla della situazione carceraria in regione, rileva come i detenuti siano anche portatori di diritti: “Devono essere garantiti loro - evidenzia - spazi adeguati. A Parma scopriamo che c’è chi non può accedere al riscaldamento e all’acqua calda, una vera e propria umiliazione. In questo modo come possiamo pensare di rieducare queste persone?”. Per la direttrice del carcere bolognese della Dozza, Rosa Alba Casella, la domanda è se il carcere sia in grado di adempiere ai suoi compiti e se sia, effettivamente, nella condizione di rieducare chi vi entra. Per Casella le statistiche sul tema non sono buone: “Mancano adeguate risorse - sottolinea - per garantire ai detenuti percorsi efficaci. I numeri ci dicono che, per chi esce, le recidive arrivano al 60-70 per cento”. Per la direttrice, poi, nelle strutture carcerarie permangono problemi evidenti: “Il sovraffollamento - rimarca - è al 117 per cento, da inizio anno i suicidi in carcere sono arrivati a 79, le carenze strutturali degli edifici sono palesi e manca il lavoro”. “La detenzione domiciliare - conclude Casella indicando una possibile soluzione - dovrebbe coinvolgere tutte quelle persone con pene inferiori ai 18 mesi, ma non è così. In molti non possono accedere a questa misura perché semplicemente senza una residenza, in primis gli stranieri. Dobbiamo quindi ripartire dai diritti: il carcere deve diventare una casa di vetro”. Rispetto al tema del sovraffollamento emerge che otto delle dieci strutture in regione hanno troppi ospiti: Bologna (+ 254), Ferrara (+ 109), Forlì (+ 19), Modena (+ 75), Parma (+ 39), Ravenna (+ 24), Reggio (+ 46) e Rimini (+ 15). Il problema sovraffollamento è presente anche nell’istituto penale minorile del Pratello, a Bologna: le presenze sono arrivate a 49, rispetto ai 40 posti disponibili. All’incontro, moderato da Mauro Sarti, direttore del Servizio informazione dell’Assemblea, sono intervenuti anche il fotografo-documentarista Giampiero Corelli, che ha presentato il suo nuovo lavoro dedicato alle donne in carcere “Domani faccio la brava”, il segretario generale aggiunto del sindacato della polizia penitenziaria (Sappe) Giovanni Durante, che ha parlato della situazione carceraria dal punto di vista della polizia penitenziaria, il giornalista (già presidente dell’Ordine) Giovanni Rossi, che è intervenuto sulla deontologia, e il garante dei detenuti a Bologna Antonio Ianniello, che ha affrontato la situazione carceraria bolognese. Ha poi portato la sua testimonianza un detenuto in semilibertà, Luciano Martucci: “Attraverso le attività sociali e lo studio ho trovato la mia via per uscire da quell’esperienza”. Esperienza davvero difficile: “Per me il carcere resta un luogo di tortura, non è rieducativo. In quegli anni ho cercato di sopravvivere per non impazzire, non avevo più un’identità”. In sala era presente anche il professore emerito Giorgio Basevi che segue i detenuti, come lo stesso Martucci, iscritto all’Università di Bologna. Emilia Romagna. Disagio dentro al carcere: nei primi sei mesi 114 casi di tentato suicidio dire.it, 17 dicembre 2022 A questi numeri si aggiungono 762 casi di autolesionismo. Se ne è parlato oggi in Assemblea legislativa regionale. Nei soli primi sei mesi del 2022, sono stati 114 i tentati suicidi nelle carceri emiliano romagnole, a cui si aggiungono 762 casi di autolesionismo. I dati sono emersi oggi in Assemblea legislativa regionale, durante una giornata di formazione dedicata alla situazione carceraria in Emilia-Romagna, al rapporto con i media e al lavoro dei giornalisti. Il garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri, ha sottolineato che "l'obiettivo primario, nonostante le risorse scarse riservate al sistema delle carceri, resta quello costituzionale di una pena rispettosa del senso di umanità e che tenda alla rieducazione del condannato". Per il garante, occorre lavorare sul tema dei diritti: "È fondamentale - spiega - aumentare le attività all'interno delle carceri, a partire dal lavoro". Inoltre, aggiunge, "non va sottovalutato il tema della salute, anche per contrastare il rischio suicidario". Sono oggi 3.390 le persone detenute nelle dieci strutture carcerarie dell'Emilia-Romagna): 756 a Bologna, 353 a Ferrara, 163 a Forlì, 444 a Modena, 77 a Castelfranco Emilia, 358 a Piacenza, 694 a Parma, 79 a Ravenna, 339 a Reggio Emilia e 127 a Rimini. Fra i 3.390 detenuti si contano anche 150 donne, mentre gli stranieri arrivano a 1.648. La capienza regolamentare delle strutture in regione arriva a 3.011: il surplus quindi è di 379 unità. "Mancano risorse adeguate" - Per la direttrice del carcere bolognese della Dozza, Rosa Alba Casella, la domanda è se il carcere sia in grado di adempiere ai suoi compiti e se sia, effettivamente, nella condizione di rieducare chi vi entra. Per Casella le statistiche sul tema non sono buone: "Mancano adeguate risorse - sottolinea - per garantire ai detenuti percorsi efficaci. I numeri ci dicono che, per chi esce, le recidive arrivano al 60-70%". Per la direttrice, poi, nelle strutture carcerarie permangono problemi evidenti: "Il sovraffollamento- rimarca- è al 117%, da inizio anno i suicidi in carcere sono arrivati a 79, le carenze strutturali degli edifici sono palesi e manca il lavoro". "La detenzione domiciliare- conclude Casella indicando una possibile soluzione- dovrebbe coinvolgere tutte quelle persone con pene inferiori ai 18 mesi, ma non è così. In molti non possono accedere a questa misura perché semplicemente senza una residenza, in primis gli stranieri. Dobbiamo quindi ripartire dai diritti: il carcere deve diventare una casa di vetro". Rispetto al tema del sovraffollamento emerge che otto delle dieci strutture in regione hanno troppi ospiti: Bologna (+254), Ferrara (+109), Forlì (+19), Modena (+75), Parma (+39), Ravenna (+24), Reggio (+46) e Rimini (+15). Il problema sovraffollamento è presente anche nell'istituto penale minorile del Pratello, a Bologna: le presenze sono arrivate a 49, rispetto ai 40 posti disponibili. Campania. Carceri campane, Bilotti (M5S): "Dal governo la conferma di gravi carenze" avellinotoday.it, 17 dicembre 2022 "È una situazione grave quella che denuncio da anni a riguardo delle carceri campane e che viene confermata dal governo a seguito del mio atto di sindacato ispettivo". Con queste parole la senatrice Anna Bilotti interviene sulla risposta ottenuta dal Ministro della Giustizia interpellato sulle condizioni sanitarie (e non solo) degli istituti penitenziari campani. L'interrogazione della senatrice, in particolare, scaturiva dalle numerose denunce ricevute in merito alle condizioni sanitarie dei detenuti, spesso privati dell'accesso ai necessari percorsi diagnostici e terapeutici. "Il ministero innanzitutto di fatto conferma la mancanza di un coordinamento efficace tra Asl, enti locali e comunità terapeutiche che renda pienamente operativo il trasferimento delle competenze sanitarie dallo stato alle regioni avvenuto formalmente nel lontano 2008. Fra le esigenze più immediate, si apprende nella risposta, quella di 'individuare possibilmente dall'ingresso, le persone con problematiche da dipendenza o con patologie psichiatriche o con rischio suicidario, per attivare immediate azioni di sostegno e per promuovere i necessari interventi sanitari, sociali e psicologici. Ma anche l'assoluta urgenza di adeguare gli organici alle necessità operative degli istituti, non solo legate agli aspetti sanitari." Nel documento infatti sono confermate tutte le criticità sia a livello di sovraffollamento (meno di 6000 posti per quasi 7000 detenuti) sia di mancanza di personale (con fabbisogno minimo di almeno ulteriori 116 unità), sia di infrastrutture idonee dimensionalmente e funzionalmente alle finalità detentive, finalità che, ricordiamolo, sono quelle della rieducazione e dalla reintegrazione al lavoro. "I diritti sono per tutti anche per i detenuti e per tutte le persone che prestano servizio negli istituti di pena - conclude Bilotti - non dimentichiamo che infatti che le condizioni di vita dei detenuti si sovrappongono a quelle lavorative di chi deve occuparsi di loro quotidianamente e con uno spirito di servizio e sacrificio spesso sottovalutato. Alla luce di questo riscontro del ministero continuerò a monitorare il problema sulla base degli impegni già assunti e da assumere nei prossimi mesi, in particolare sul coordinamento delle regioni per l'assistenza sanitaria, sulle nuove assunzioni e sui lavori di ristrutturazione e ampliamento delle strutture". Firenze. Agenti condannati per i pestaggi a Sollicciano, ma non fu tortura rainews.it, 17 dicembre 2022 Per i pestaggi a Sollicciano pagano in nove. Ma il giudice declassa il reato a "lesioni aggravate". Non ci fu tortura nel carcere di Sollicciano a Firenze: lo ha deciso il gup Silvia Romeo che ha derubricato l'accusa contestata dalla procura in lesioni aggravate e ha inflitto, con il rito abbreviato, condanne a fino a 3 anni e 6 mesi ad un'ispettrice della Polizia penitenziaria e ad altri otto agenti per i pestaggi avvenuti nell'istituto tra il 2018 e il 2020. Caduti alcuni episodi di falso e calunnia. Assolto un altro agente, che aveva chiesto l'abbreviato, e prosciolti due medici in servizio nel carcere, accusati di aver raccontato un'altra versione su due detenuti aggrediti. La procura aveva chiesto 8 anni per l'ispettrice, ritenendola l'istigatrice dei pestaggi, e tra 1 e 7 anni per gli altri imputati. L'inchiesta esplose nel gennaio 2020, con l'arresto dell'ispettrice, di un agente e di un assistente capo. Per altri sei agenti, scattarono le misure interdittive. Al centro dell'inchiesta, tre presunti pestaggi, avvenuti tra il 2018 e il 2020.Nell'ufficio dell'ispettrice sarebbe avvenuto il più violento degli episodi contestati, vittima un detenuto marocchino, colpevole di aver protestato insultando un agente. L'uomo sarebbe stato portato nell'ufficio e poi, davanti all'ispettrice, picchiato da sette agenti con pugni e calci fino a lasciarlo a terra senza fiato e procurandogli la frattura di due costole. Prima di essere portato in infermeria, sarebbe stato inoltre condotto in una stanza di isolamento, costretto a togliersi i vestiti e lasciato nudo per alcuni minuti per umiliarlo. Nell'inchiesta erano coinvolti anche due medici della Asl Toscana Centro in servizio nel carcere, accusati di falso materiale e commesso da pubblico ufficiale in atti pubblici, di omessa denuncia di reato da parte di pubblico ufficiale e di favoreggiamento. I due professionisti sono stati prosciolti dalle accuse anche se per la procura, in due distinti episodi, avrebbero coperto gli autori dei pestaggi omettendo di visitare i detenuti che venivano portati in infermeria dopo le violenze, certificando come lievi lesioni che, invece, avevano una prognosi reale di oltre 20 giorni. E appena ieri, giovedì, a Siena, per una vicenda in qualche modo analoga, il pm Valentina Magnini aveva chiesto, a vario titolo, condanne da 6 anni e 6 mesi fino a 8 anni e 4 mesi per cinque agenti di polizia penitenziaria del carcere di San Gimignano (Siena) a processo con accuse di lesioni aggravate, falso ideologico, minaccia e tortura. I fatti contestati risalgono all'11 ottobre 2018 quando un detenuto tunisino avrebbe subito un presunto pestaggio nel corso di un trasferimento di cella da parte di un gruppo di agenti penitenziari. Le richieste di condanna del pubblico ministero sono arrivate al termine di una dura requisitoria durata oltre cinque ore. Prossima udienza il 22 dicembre. Roma. Anche i muri parlano: così la street art difende le donne iraniane e i detenuti di Maria Elena Viggiano Corriere della Sera, 17 dicembre 2022 Dall’Iran allo stigma sui disabili, le denunce della street art. A Rebibbia un progetto con le detenute per realizzare due murales. Così diventa anche un mezzo di crescita e riscatto personale. Il murale di Marge Simpson, con in mano la sua folta chioma di capelli e le forbici, è apparso all’improvviso davanti al consolato generale della Repubblica Islamica dell’Iran a Milano ma è stato rimosso nell’arco di 24 ore. Era un evidente sostegno alle proteste contro il regime di Teheran a seguito della morte di Mahsa Amini. “Voleva essere un abbraccio al coraggio delle donne iraniane, un segno di solidarietà”, racconta aleXsandro Palombo, autore dell’opera “The Cut”. E aggiunge: “Conosco bene la forza delle immagini e quanto queste possano essere corrosive e far paura più delle parole”. La street art è sempre di più un modo per raccontare avvenimenti politici e sociali in tempo reale, un mezzo di denuncia per sensibilizzare l’opinione pubblica sui diritti umani. Per Palombo “l’arte pubblica può diventare dirompente poiché ha la forza di entrare in connessione con il pubblico senza filtri”. Palombo ha poi realizzato “The Cut2” in cui Marge ha il volto arrabbiato e il dito medio alzato, nel frattempo “The Cut”, diventata un’opera simbolica e di denuncia, è riapparsa a Lione sulla facciata dell’Institut Français de l’Education. “Ho ricevuto - racconta Riboni - moltissime minacce. Il diritto di satira non è amato dai regimi”. L’attualità ispira - Anche lo street artist Harry Greb ha manifestato il suo sostegno alle donne iraniane con l’opera “Iran W”, apparsa su una pensilina della fermata degli autobus a Roma. L’illustrazione raffigura una donna che guarda attraverso il burqa e una colomba con il volto di Mahsa Amini. “Ho voluto rappresentare le donne del mondo arabo che devono decidere liberamente e non subire imposizioni, che una donna abbia perso la vita per non aver indossato il velo in modo corretto è assurdo, impossibile”. Le idee per la realizzazione dei murales nascono proprio dall’attualità “esprimo il mio pensiero su un fatto che mi colpisce e mi indigna”. Così, dopo sopralluoghi e un lavoro di preparazione, appare l’opera per strada dove il contatto con le persone è diretto. Spesso Greb ha denunciato nei suoi murales le condizioni dei migranti “che non sono una minaccia ma una risorsa per la società”, cercando di smuovere le coscienze delle persone “magari, guardando un muro, vedono una persona che sta per affogare”. Una immagine forte che non può non far riflettere. Palombo ha invece rappresentato le principesse Disney disabili per parlare del tema della diversità e dell’inclusività, ha ritratto i volti delle donne della politica mondiale come vittime di violenza, ha dipinto Angelina Jolie con i segni della mastectomia per celebrare la Giornata mondiale contro il cancro al seno, “per ribadire che la prevenzione è la strada migliore per contrastarlo”. Ma la street art può diventare anche un mezzo di crescita e riscatto personale. È il caso del progetto “Disegna le tue idee - L’arte non ha sbarre”, con il Patrocinio del Garante dei Detenuti del Lazio e in collaborazione con la casa circondariale di Rebibbia - sezione femminile che ha portato appunto l’arte all’interno del carcere coinvolgendo una decina di donne tra i 19 e i 60 anni, italiane e straniere. “Per alcune è stato solo un momento ricreativo ma per altre un percorso eclatante”, racconta l’artista Barbara Oizmud. L’obiettivo finale è la realizzazione di due opere all’interno del carcere con la collaborazione delle detenute più una nel quartiere Quarticciolo. “Ci siamo date tanto. È stata - commenta -un’esperienza incredibile mi sono messa completamente in ascolto con tutte loro e ho capito che sono stata fortunata a trovarmi in un ambiente che mi ha salvaguardata. La differenza tra me e alcune di loro è data da un background e un vissuto diverso. Basta un minimo per trovarsi in situazioni drammatiche”. Massa Carrara. Solidarietà alla “tavola” del carcere di Margherita Badiali La Nazione, 17 dicembre 2022 Un pranzo di festa per dare una speranza e far sentire meno soli i detenuti nella casa circondariale di Massa. Un pranzo di solidarietà con ottima cucina al carcere di Massa martedì per augurare "buon Natale" ai detenuti e alle loro famiglie. Organizzata dal movimento ecclesiale ‘Rinnovamento nello Spirito Santo’ e dall’associazione ‘Prison Fellowship Italia’ che hanno coinvolto tantissimi volontari, le istituzioni e ospiti di eccezione per far arrivare lo spirito natalizio davvero a tutti. "Un momento importante di condivisione - afferma il sindaco Francesco Persiani - per dare una speranza a chi è detenuto di sentirsi parte integrante della società. Il nostro quartiere della città, come definiamo noi il carcere di Massa, è gestito in una maniera esemplare". Anche il presidente della Provincia Gianni Lorenzetti sottolinea "la sensibilità con cui il Comune di Massa affronta il tema delle carceri. Il pranzo di Natale aiuta le persone ad uscire dall’indifferenza. Laddove sia possibile dobbiamo riconsegnare le persone alla comunità senza che si siano sentite abbandonate durante la detenzione". Parteciperà al pranzo anche Monsignor Mario Vaccari "Non dobbiamo punire i detenuti due volte - dice Monsignor Vaccari - non dobbiamo farli soffrire dandogli una doppia condanna estraniandoli dalla società. Dobbiamo rieducare e non permettere che si sentano troppo isolati". "Sento una vicinanza al carcere veramente autentica - afferma la direttrice dell’Istituto penitenziario di Massa e di La Spezia Maria Cristina Bigi. Queste iniziative servono a non far perdere la speranza e a non far sentire nessun essere umano in uno stato di disagio. Se il carcere fosse isolato sarebbe difficile costruire delle speranze, il lavoro che facciamo è utile anche per accendere delle luci sul carcere. Il ruolo della collettività è garantire che alcune persone possano reinserirsi senza discriminazioni". "Il progetto va avanti da 8 anni - spiega Bianca Marcocci, coordinatrice regionale RnS - spero sia solo l’inizio di qualcosa di più". Don Leonardo Biancalani ha sottolineato come tutti i volontari siano giovanissimi e felici di partecipare. Il banchetto di ‘L’Altra Cucina - per un pranzo d’amore’ sarà preparato dallo chef stellato Nicola Mannella del ristorante “La Barca” di Forte dei Marmi, ospiti speciali Gianfraco Phino celebre comico, e il duo musicale dei Sonohra. "Abbiamo un desiderio di entrare nel carcere ed essere presenti per mostrare la nostra solidarietà - conclude Persiani - le iniziative di questo genere scaldano i cuori". Pescara. Il Natale entra dentro il carcere San Donato con un concerto di Tamara Marinetti abruzzolive.it, 17 dicembre 2022 La dottoressa Lucia Di Feliciantonio, direttrice della casa circondariale San Donato di Pescara, ha accolto la proposta dell’Associazione no profit “IMusNet - ltalian music network” di Pescara, che ha organizzato un concerto natalizio a favore dei detenuti, per il 19 dicembre. Il favorevole accoglimento dell’iniziativa culturale, all’interno delle mura del carcere, sottolinea ancora una volta come sia la direzione dello stesso che il comandante della polizia penitenziaria, la dirigente aggiunta dottoressa Paola Bussoli, hanno a cuore il benessere psico-fisico dei detenuti, che nello scontare la pena detentiva seguono un percorso di rieducazione per il loro futuro reinserimento sociale, come previsto dalla normativa vigente. In tale contesto, un evento musicale, specie nel periodo e con un programma natalizio, non ha solo uno scopo ludico ricreativo ma costituisce un passo del percorso di riavvicinamento tra i detenuti e la società civile. È dello stesso avviso anche il parroco della struttura carceraria, don Luca Anelli, che ha molto apprezzato l’iniziativa intrapresa, della quale intravede sia la portata sociale sia quella di intrattenimento. Il concerto sarà tenuto dal duo “Dolce vita”, composto dalla pianista Orietta Cipriani e dal violinista Giulio Maria Mennitti, entrambi noti e pluripremiati musicisti abruzzesi associati alla IMusNet, che allieteranno i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria suonando musiche natalizie all’interno della sala teatro della casa circondariale. Il pianoforte è stato gentilmente prestato dalla Fabbrini Srl di Pescara. Parteciperanno all’evento anche le autorità cittadine civili e religiose invitate. La sanità italiana è al collasso: ma ecco cosa succede in Germania, Francia e Spagna di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 17 dicembre 2022 In 10 anni, nella sola Lombardia, sono stati chiusi 111 ospedali e 13 pronto soccorso, e ci sono 29 mila medici in meno. Trovare un medico di base è complicatissimo in diverse zone d’Italia, e i pronto soccorso sono al collasso. Ma perché? E cosa succede nel resto d’Europa? La sanità italiana non è forse mai stata così malata. Il Covid ha messo in luce il grave deficit della medicina territoriale in una delle Regioni che sembrava più attrezzata, la Lombardia. In 10 anni sono stati chiusi 111 ospedali e 13 pronto soccorso. Rispetto al 2012 ci sono 29 mila medici in meno. Il pensionamento anticipato (nei prossimi cinque anni andranno a casa in 41 mila) e il mancato ricambio hanno dato origine a quel fenomeno deprecabile che sono i medici a gettone. Trovare un medico di base è ormai quasi impossibile in alcune zone d’Italia e i pronto soccorso sono al collasso. I dati lo confermano: tra ospedale e territorio, mancano più di 20mila medici, 4.500 nei pronto soccorso, 10 mila nei reparti ospedalieri, 6 mila medici di medicina generale. Se ne è parlato molto sui giornali (sulla Rassegna Stampa del Corriere, da cui è tratto anche questo articolo e che gli abbonati possono ricevere ogni giorno, abbiamo pubblicato un pezzo eloquente di Margherita De Bac) e tra la gente, disorientata per il degrado del sistema e per l’allungamento dei tempi di interventi e visite. Molto meno nella politica, più preoccupata di ragionare su tetto di contanti e su altre amenità identitarie e ideologiche piuttosto che di questioni centrali come questa. A Roma hanno manifestato sette sindacati di categoria, mentre il ministro Orazio Schillaci ha promesso aumenti di stipendi. Ma la spesa sanitaria programmatica si sta riducendo sotto il 6,6% del Pil, che per l’Ocse è il limite sotto il quale il sistema rischia il collasso. Colpa di venti anni di disinteresse, per i quali dovrebbero fare mea culpa diversi governi e partiti, di destra e di sinistra. Ma anche il governo attuale, per ora, non sembra avere colto l’urgenza della situazione. E l’Europa come sta? Un’inchiesta del Guardian consente di guardare il fenomeno in una dimensione più larga e di scoprire che la sanità vive un momento difficile in tutta Europa. Le cause, oltre alle politiche nazionali, sono note: l’invecchiamento della popolazione, l’aumento delle malattie a lungo termine, la crisi di reclutamento e di mantenimento del personale e l’effetto Covid e post-Covid. Una combinazione di fattori che chiedono una reazione urgente dei governi e dei Parlamenti. Qualche dato, per capire. In Francia ci sono meno medici rispetto al 2012. Più di 6 milioni di persone, tra cui 600.000 con malattie croniche, non hanno un medico di base regolare e il 30% della popolazione non ha un accesso adeguato ai servizi sanitari. In Germania, l’anno scorso sono rimasti vacanti 35.000 posti nel settore sanitario, il 40% in più rispetto a un decennio fa, mentre un rapporto di quest’estate sostiene che entro il 2035 più di un terzo di tutti i posti di lavoro nel settore sanitario potrebbe non essere coperto. In Spagna, a maggio il ministero della Salute ha dichiarato che più di 700.000 persone erano in attesa di un intervento chirurgico e 5.000 medici di base e pediatri di Madrid sono in sciopero da quasi un mese per protestare contro anni di sottofinanziamento e sovraccarico di lavoro. Secondo un rapporto della sezione europea dell’Oms, in un terzo dei Paesi del continente almeno il 40% dei medici ha più di 55 anni. Anche quando i medici più giovani hanno continuato a lavorare nonostante lo stress, i lunghi orari e la retribuzione spesso bassa, la loro riluttanza a lavorare in aree remote o in centri urbani degradati ha creato “deserti medici” che si rivelano quasi impossibili da riempire. “Tutte queste minacce rappresentano una bomba a orologeria che potrebbe portare a risultati sanitari scadenti, lunghi tempi di attesa, molti decessi evitabili e potenzialmente anche al collasso del sistema sanitario”, ha avvertito Hans Kluge, direttore regionale dell’Oms per l’Europa. Il caso dei medici di base - Prendiamo i medici di base. La Francia ha una situazione particolarmente difficile. Già nel 1971 ha imposto un tetto al numero di studenti di medicina del secondo anno, attraverso il numero chiuso, con l’obiettivo di tagliare la spesa sanitaria e aumentare i guadagni. Il risultato è stato un crollo del numero di studenti annuali - da 8.600 all’inizio degli anni 70 a 3.500 nel 1993 - e anche se da allora le assunzioni sono aumentate un po’ e il tetto è stato tolto del tutto due anni fa, ci vorranno anni prima che la forza lavoro si riprenda. L’anno scorso i medici più anziani che hanno abbandonato la professione sono stati più numerosi dei nuovi arrivati, che erano comunque il 6% in meno rispetto a dieci anni fa. C’è un problema sul territorio, visto che lontano dalle città e nella Francia più rurale le difficoltà aumentano. “Di fatto, l’87% della Francia potrebbe essere definito un deserto medico”, ha detto il mese scorso il ministro della Salute Agnès Firmin Le Bodo. La Germania è il Paese che spende per l’assistenza sanitaria più di qualsiasi altro Paese al mondo. Eppure è in crisi. Il sistema è imploso con lo scoppio del virus respiratorio dei bambini, con pazienti che hanno viaggiato centinaia di chilometri per essere curati. Più di 23.000 posti rimangono scoperti negli ospedali tedeschi dopo diversi anni di scarse assunzioni e recenti dimissioni di massa, soprattutto nelle terapie intensive e nelle sale operatorie, da parte del personale che lamentava carichi di lavoro estremi. In Spagna non va meglio. A Madrid, a metà novembre, almeno 200.000 persone sono scese in piazza per difendere l’assistenza sanitaria pubblica dalla privatizzazione strisciante e per esprimere preoccupazione per la ristrutturazione del sistema di assistenza primaria da parte del governo regionale. Il Guardian cita anche l’Italia: “Anche il servizio sanitario pubblico italiano deve far fronte a gravi carenze di personale, aggravate dalla pandemia, che ha innescato un esodo di personale che è andato in pensione anticipata o è passato a ruoli nel settore privato. Le amministrazioni regionali hanno stipulato contratti con medici freelance per coprire i turni in ospedale quando necessario, evidenziando i bassi stipendi del settore sanitario pubblico italiano”. “Ci sono buchi che devono essere riempiti ovunque, soprattutto nelle unità di emergenza”, spiega al Guardian Giovanni Leoni, vicepresidente di una federazione di medici italiani. “Il problema è che i liberi professionisti guadagnano da due a tre volte di più, fino a 1.200 euro per un turno di 10 ore”. No Peace Without Justice e le altre, fari puntati sulle Ong di advocacy per i diritti umani di Eleonora Martini Il Manifesto, 17 dicembre 2022 La burrasca sollevata dal cosiddetto Qatargate rischia di trascinare nella melma, insieme agli eventuali singoli responsabili del sistema corruttivo che sembra emergere a Bruxelles, anche le Ong che lavorano nel campo dei diritti umani anche attraverso attività di advocacy - o di lobby, come le si chiama più spesso con un’accezione più malevola - grazie alle quali la democrazia ha compiuto però anche grandi progressi. Nell’occhio del ciclone in particolare si trovano le organizzazioni non governative No Peace Without Justice (fondata nel 1994 da Emma Bonino), il cui direttore generale Niccolò Figà-Talamanca è stato arrestato venerdì scorso, e Fight Impunity (fondata nel settembre 2019 da Pier Antonio Panzeri, considerato uno degli uomini chiave del sistema, anche lui in carcere), che in comune avevano soltanto la sede legale in Rue Ducale 41, a Bruxelles. Anche se in quel palazzo “gli inquirenti, ai quali venerdì scorso ho aperto la porta e che avevano un mandato di perquisizione “in connessione alle attività del dott. Panzeri”, hanno sequestrato solo i nostri computer e telefoni, perché Fight Impunity usava la nostra sede solo di tanto in tanto per fare qualche riunione”, racconta al manifesto Gianluca Eramo, il direttore delle operazioni e segretario del Comitato internazionale di Non c’è pace senza giustizia (Npwj) che ora ha preso il posto di Figà-Talamanca. Una sede che, per dirla tutta, è la residenza legale anche di Science for democracy, la piattaforma lanciata nel 2018 dagli ex parlamentari radicali Marco Cappato e Marco Perduca, di cui Figà-Talamanca è cofondatore. La Lega e il gruppo di estrema destra Identità e democrazia ieri hanno presentato un’interrogazione alla Commissione europea per sapere se le due Ong coinvolte nell’inchiesta “abbiano ricevuto finanziamenti attraverso bandi europei e per quali cifre” e “se abbiano fornito servizi di studi, consulenza o ricerca per le Istituzioni Ue e nel caso i compensi ricevuti per gli stessi”. “Lobby, advocacy o moral suasion, comunque la si chiami, nel campo dei diritti umani è in generale un’attività non solo lecita ma anche nobile. E non tutte le Ong che lavorano in questo campo sono uguali - puntualizza Eramo - tra noi di Npwj e Fight Impunity ci sono molte e sostanziali differenze: noi siamo sempre stati iscritti al Trasparency register, come dovrebbero essere tutte le Ong e i gruppi di influenza attivi nell’europarlamento, mentre Fight impunity non si è mai registrata e operava senza quella trasparenza che noi abbiamo non solo sempre praticato ma anche storicamente considerato un obiettivo politico”. Npwj ha in effetti una lunga e nobile storia, come ricordano i leader di Radicali Italiani Massimiliano Iervolino, Giulia Crivellini e Igor Boni: “È un’organizzazione nata per portare avanti la campagna per la creazione della Corte Penale Internazionale. Npwj, insieme ad altre Ong, è stata determinante per arrivare al risultato storico di dotare la comunità internazionale di un tribunale penale. Dalla stesura dello Statuto della Corte, alla ratifica del Trattato di Roma per la sua istituzione e, successivamente, la raccolta sul campo delle prove per l’incriminazione di Slobodan Milosevic e di altri criminali del suo regime, Niccolò Figà-Talamanca è stato uno dei motori di ciascuna iniziativa. Per lui, come per tutti, il nostro approccio è garantista; ci aspettiamo che quanto prima possa difendersi e chiarire la sua posizione”. Anche la moglie Alison Smith e la famiglia di Figà-Talamanca - il quale rimane però in carcere perché la procura federale belga si è opposta alla decisione di concedergli i domiciliari con il braccialetto elettronico - ha voluto esprimere ieri la sua “assoluta certezza” che “al termine dell’inchiesta della magistratura belga, nella quale riponiamo piena fiducia, la posizione di Niccolò verrà chiarita e che lui verrà scagionato da ogni addebito”. È questo il sentimento più diffuso anche tra gli esponenti di quella che fu la cosiddetta “galassia radicale”. Un mondo che, come dice Rita Bernardini, una delle poche che concede qualche riflessione, “quando c’era Pannella faceva oggetto di continuo dibattito tutto ciò che accadeva dentro e fuori di esso, mentre oggi il confronto è relegato solo ai momenti congressuali” di quel che resta di un partito. “Noi radicali, diceva Pannella, non siamo migliori degli altri ma ci diamo strumenti affinché certe cose non accadano: confronto e trasparenza, sono i primi strumenti”. Litigare sul diritto di cronaca. Come vanno a finire le controversie di Giacinto della Cananea Il Foglio, 17 dicembre 2022 In Italia la libertà di stampa è davvero salvaguardata? Se lo chiedono Pieremilio Sammarco e Vincenzo Zeno-Zencovich. C'è da chiedersi se certi criteri soggettivi nelle sentenze possano scoraggiare il giornalismo d'inchiesta. Diversamente dai regimi autoritari, le democrazie liberali salvaguardano la libertà di espressione e il diritto di cronaca: secondo l’articolo 11 della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, essi sono tra “i più preziosi diritti dell’uomo”. Devono essere protetti. Così, nel Regno Unito, dove vari oligarchi russi presentano numerosi ricorsi contro giornalisti e scrittori, il governo ha annunciato misure volte a limitarli. Negli Stati Uniti, il primo emendamento alla Costituzione garantisce la libertà di espressione per le affermazioni veritiere, pur se provocano imbarazzo o danneggiano la reputazione altrui, e sono protette le opinioni, purché riguardino questioni di pubblico interesse e non possano essere riguardate come volte ad attribuire specifiche condotte. Anche in Italia la libertà di stampa è stata definita “pietra angolare dell’ordine democratico” dalla Corte costituzionale fin dal lontano 1969. Ci si può chiedere, però, se sia davvero salvaguardata. Un’accurata verifica è fornita dalla ricerca svolta da Pieremilio Sammarco e Vincenzo Zeno-Zencovich sulla “quantificazione del danno alla reputazione: ricognizione su 620 sentenze del Tribunale di Roma (2015-2020)” (Il diritto dell’informazione e dell’informatica, 2021), la sesta di questo tipo a partire dal 1988. Essa mostra sei aspetti di rilievo. Il primo riguarda il procedimento di mediazione introdotto nel 2010, con l’intento di ridurre il contenzioso, che sembra aver ottenuto buoni risultati vista la diminuzione delle controversie. In secondo luogo, in quasi i due terzi dei casi (405 su 628) le richieste di risarcimento sono respinte. Non meno rilevante è il terzo aspetto, che concerne le pronunce di condanna: le richieste di risarcimento di politici e imprenditori non sono accolte sovente (solo nel 31 e nel 34 per cento dei casi); lo sono, invece, quelle dei sindacalisti (il 60 per cento dei 5 casi esaminati) e dei magistrati (il 71 per cento dei 73 casi), per i quali la media è inversa rispetto a quella generale, pur se le liquidazioni dei danni accordate ai magistrati si mantengono nella media. Il quinto aspetto riguarda i soggetti condannati a risarcire i danni: dopo il gruppo editoriale che pubblica l’Espresso e Repubblica, vi è quello che pubblica Il Giornale, seguito a poca distanza dalla Rcs (Corriere della Sera). L’ultimo aspetto di rilievo riguarda i criteri utilizzati dai giudici, tra i quali spiccano la gravità del fatto addebitato, la diffusione del mezzo e la qualità della persona offesa.  Sulla base di questa ottima analisi, consultabile da chiunque vi abbia interesse, si possono svolgere alcune osservazioni sullo stato attuale della libertà di stampa. La prima è che, come osservano gli autori, sono poco attendibili le frequenti lamentele sulle cosiddette querele milionarie. Resta da vedere se, negli anni dell’invasione russa dell’Ucraina, vi saranno liti intentate dagli oligarchi, come a Londra. La seconda osservazione riguarda le categorie da cui provengono le richieste di risarcimento accolte più spesso, cioè sindacalisti e magistrati. Un confronto con altre aree, per esempio Firenze e Milano, sarebbe di notevole interesse. Un’ulteriore verifica sembra opportuna per comprendere se, mentre le sentenze dei giudici italiani si allineano a quelle dei giudici anglosassoni nel discernere le affermazioni veritiere da quelle non veritiere, se ne discostino nell’esigere che l’esposizione dei fatti non ecceda quanto è strettamente necessario e sia utilizzato un linguaggio moderato: è un criterio assai soggettivo, che può scoraggiare il giornalismo d’inchiesta. Ucraina. Com’è difficile far rispettare i diritti in un paese in guerra di Nicola Canestrini Il Domani, 17 dicembre 2022 L’avvocato Nicola Canestrini è stato l'unico osservatore internazionale su mandato del Movimento Nonviolento al processo contro Vitaliy Vasyliovych Alekseienko, obiettore di coscienza ucraino, davanti alla Corte d’Appello del Tribunale di Ivano-Frankivsk. Il Movimento Nonviolento, insiema Un Ponte Per, difende gli obiettori ucraini nell’ambito della campagna “Obiezione alla guerra”. Questo è il suo diario di tre giorni in Ucraina. Dopo un lungo tratto stradale di avvicinamento su territorio polacco insieme ad un collega, Ihor, segretario dell’Ordine degli avvocati ucraini venuto in mio soccorso per questa missione, finalmente ecco il confine con l’Ucraina. Una coda di molte ore sballa completamente i nostri programmi, e da un assaggio del diverso valore del tempo. “It’s Ukraine”, continuerà a ripetere Ihor. Il benvenuto sono i mitra spianati dei militari ucraini che, armi in pugno, perquisiscono ogni mezzo in entrata. Una funzionaria della polizia di frontiera, non contenta della spiegazione di Ihor, mi convoca davanti al vetro a specchio e mi scruta, aprendo anche l’anta. Mi dà l’impressione di essere capace di cogliere ogni insicurezza, esitazione o contraddizione di chi deve attraversare il confine. Supero la perquisizione visiva, e apposto il timbro nel passaporto, ripartiamo: i primi kilometri successivi sono segnati da posti di blocco volanti nella carreggiata opposta, che esce dall‘Ucraina. Le forze dell’ordine cercano chi tenta di lasciare il paese in guerra. Più ci addentriamo nel territorio, più è evidente che la guerra c’è, ed è impossibile non notarla. Bagliori e lampi dei bombardamenti si amplificano nelle nuvole, posti di blocco stradali in cemento con aperture riparate da sacchetti di sabbia e sorvegliati da militari fanno capire che qui si è pronti a difendere ogni metro. Nelle settimane successive all’invasione russa, mi racconta Ihor, i posti di blocco con questi fortini in mezzo alla strada erano così frequenti da far durare tre giorni un viaggio di 4 ore. “It’s Ukraine”. Grazie all’avvocato autista i militari - che stanno distanti fra loro per evitare di essere falcidiati da un un’unica sventagliata o da una bomba - ci fermano per poco tempo, ma si tratta comunque di 15 minuti ogni volta. Anche il nostro atteggiamento è di massima prudenza: ci avviciniamo a passo d’uomo, spegniamo i fari dell’auto e accendiamo la luce interna per facilitare il controllo. I toni sono formali ma cordiali, e gli sguardi verificano corrispondenza del nome con la faccia, si verificano sempre sedili posteriori e bagagliaio. Ihor ha la famiglia, moglie e due figli (l’ultimo nato a pochi mesi dall’invasione russa), sfollata in Repubblica Ceca. “Don’t you miss them?”, non ti mancano? Gli chiedo. ”It’s Ukraine”. Dopo oltre 12 ore di viaggio, con Internet che passa da “nessun servizio” a 5g in pochi metri, arriviamo finalmente a Ivano-Frankivsk. La città capoluogo dell’Oblast si presenta spettrale, le strade e l’albergo hanno luci spente, per evitare spreco di energia o forse per non facilitare eventuali incursioni. Però il riscaldamento in albergo funziona, l’elettricità per Internet e per caricare il cellulare c’è. Vediamo cosa succederà domani: il rischio maggiore è che salti l’udienza per un black out. Succede spesso. Il processo all’obiettore - La giornata non inizia benissimo, in ritardo. A tavola, mentre trangugio una imitazione di cappuccino con deliziosa omelette speziatissima, incontro i miei interlocutori che saranno amici entro sera: Eugenia Mnyshenko, avvocata e representative of Ukrainian Parliament e ombudsman for Ivano-Frankivsk Oblast e Svetlana Petrova, Chair of Ivano-Frankivsk Regional Bar Council. Un inedito Ihor Kolesnikov in cravatta, Secretary of the Bar Council of Ukraine e avvocato, è ora accompagnato da Oleg Klymyuk, avvocato ma sopratutto interprete in italiano. Attraversiamo la strada e siamo in tribunale, con sacchetti di sabbia addossati alla porta di vetro. Mi fa impressione: la guerra è la negazione del diritto e dei diritti e vedere la guerra in un palazzo di giustizia stona. I simboli sono importanti. I corridoi sono freddi e bui, la gente vaga del buio e si urta. Capisco che qualcosa non sta andando nel verso giusto e infatti arriva la notizia: causa blackout, la Corte di appello non può usare il sistema informatico centralizzato e quindi l’udienza è rinviata di un’ora. Andiamo quindi tutti in delegazione dal presidente della Corte di appello che - come tutti i magistrati in tutti tribunali al mondo - si lamenta della carenza di magistrati. Ci rassicura sull’indipendenza dal potere esecutivo della magistratura giudicante, sulla inquirente qualche dubbio sembra averlo, nonostante godano dello stesso status. Ci salutiamo con stima: non deve essere facile amministrare la giustizia in tempo di guerra, coniugare la civiltà con la barbarie. Nessuna notizia del sistema informatico e l’udienza salta definitivamente. Parlo con l’avvocato dell’obiettore, Mykhailo O. Mi sforzo, ma non capisco quale sia la linea difensiva. Il collega mi dice che il pm non ha chiesto misure cautelari e che il tribunale ha irrogato una pena bassa perché l’imputato ha riconosciuto i fatti, ma ha negato la condizionale (cioè la possibilità di non andare in carcere a condizione della buona condotta) perché non aveva “provato rimorso”. Alle 12 ci raggiunge l’imputato con la madre, poi rivelatasi un’amica. Il ragazzo, obiettore per motivi religiosi, dice che non saprebbe per cosa provare rimorso. Lui ha fatto quel che doveva, altroché rimorso. “Sai che per questo rischi la galera?”, “Si”. Gli prometto di continuare a seguire il suo caso e spero che le scadenze processuali dei miei processi in Italia mi consentano di tenere fede alla promessa. Dopo pranzo andiamo alla sede del Consiglio dell’ordine per parlare con la presidente e la ombudsmen regionale dei diritti delle persone ristrette che tornava dal carcere dove aveva visitato un quattordicenne che minacciava il suicidio perché il suo amico era stato trasferito. Gli avvocati ucraini - In Ucraina ho conosciuto colleghe e colleghi molto motivati e affatto ideologizzati dalla retorica bellicista. Anzi: inquieti per certe tendenze del governo, che vorrebbe controllare l’indipendenza delle avvocate e degli avvocati e che incrimina le colleghe e i colleghi per collaborazionismo, se garantiscono la difesa nei territori occupati dai russi. Nel mezzo della conversazione salta la luce, perchè alle 16 viene tolta la corrente al quartiere. Al ritorno in albergo la strada è buia, semafori spenti, e mi raccontano che sono aumentati gli incidenti d’auto. Sacchetti e bunker improvvisati ricordano che c’è la guerra e che si temeva l’invasione, per questo si era preparati a combattere strada per strada. “Don’t take pictures, you would be subject to arrest and extrajudicial custody”, non fare fotografie, potresti essere arrestato e tenuto in custodia, mi dicono. Cioè sequestro di persona, penso: in effetti davanti all’ipotesi di terrorismo tutti gli Stati si comportano nello stesso modo. Il rientro - Nel mio soggiorno in Ucraina ho visto che in questo paese in guerra c’è di più della semplice retorica bellicista. Ho conosciuto un ragazzo con coraggio da vendere, che ha avuto il coraggio di dire no a imbracciare un’arma e si trova il per questo condannato e sotto processo. Lungo la strada del rientro, la polizia militare sta sempre pattugliando per cercare renitenti alla leva e i posti di blocco sembrano esserci anche per impedire alle persone di migrare. L’impressione, però, è che non saranno poliziotti, bunker o frontiere a fermare queste persone, renderanno solo la loro migrazione più pericolosa. Intanto, sul canale VIber dedicato, arriva il segnale dell’allarme antiaereo in tutta l’Ucraina: centinaia di migliaia di persone staranno quindi cercando notizie, riparo, aiuto. E il pensiero corre alla gente che ho incontrato, alle coraggiose avvocate e avvocati che si battono ancora per i diritti, esposti al pericolo. Crimini di guerra in Kossovo, condannato leader dell’Uck di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 17 dicembre 2022 La prima sentenza del tribunale speciale dell’Aja colpisce i separatisti kosovari Salih Mustafa riconosciuto colpevole di omicidio, detenzione illegale e tortura. “La giuria ti ha giudicato e ti condanna a 26 anni di reclusione”. Davanti alla corte delle camere specialistiche per il Kosovo, all'Aia, con un abito grigio e una cravatta blu, il volto impassibile, Salih Mustafa ha ascoltato il verdetto. Finisce così in carcere uno dei leader dell UCK, l'esercito di liberazione nazionale che operò durante lo scontro tra il movimento indipendentista kosovaro e il governo centrale. Mustafa è stato accusato di crimini di guerra di detenzione arbitraria, trattamento crudele e tortura di almeno sei persone e omicidio di un altra, in un complesso illegale di prigionia a Zllash, Kosovo, nell'aprile 1999. Mustafa e stato arrestato nel 2020 mentre lavorava come consulente presso il ministero della difesa del Kosovo. I magistrati hanno scoperto che il suo gruppo ha tenuto prigionieri, in maggioranza oppositori albanesi o altri accusati di collaborare con i serbi, all’interno fienili, in condizioni disumane, molti di loro sono deceduti in seguito alle torture o semplicemente piegati dagli stenti. Le testimonianze rivelano dettagli agghiaccianti, i reclusi erano costretti a dormire nelle pozzanghere di fango, gli veniva negato il cibo più volte alla settimana e quando chiedevano acqua venivano ricambiati con dell'urina dei soldati. Nel verdetto letto dal presidente del tribunale, Mappie Veldt- Foglia, sono contenute le sevizie condotte personalmente anche da Mustafa: “I detenuti sono stati picchiati, colpiti con mazze da baseball, manganelli di ferro e gomma, sono stati bruciati, fulminati, pugnalati, presi a calci e schiaffi”. Mustafa ha interrogato personalmente due prigionieri serbi, sottoponendone uno ad una finta esecuzione e poi picchiandolo brutalmente su tutto il corpo. Una vittima è stata lasciata in fin di vita e gli sono state negate le cure mediche, in seguito è stata trovata morta dopo una lunga agonia. Il giudice capo Veldt- Foglia haspiegato che il verdetto di ieri rappresenta una pietra miliare per la corte, che è stata istituita nel 2015, e costituisce la prima sentenza per crimini di guerra emessa dal tribunale speciale per il Kosovo. La corte che ha giudicato Mustafa infatti è una sezione separata dal tribunale delle Nazioni Unite per l'ex Jugoslavia, che si trovava anch'essa nella città olandese de L'Aia, dove ha processato e condannato esponenti serbi per crimini di guerra e contro l’umanità commessi nei conflitti di Croazia, Bosnia e Kosovo. Si ritiene che più di 13mila persone siano morte durante la rivolta del 1998- 99 in Kosovo, quando la regione faceva ancora parte della Serbia sotto l'allora presidente Slobodan Milosevic. I combattimenti si sono conclusi dopo i raid aerei della NATO sulle forze serbe e successivamente il Kosovo ha dichiarato l'indipendenza nel 2008, anche se Belgrado non l'ha mai riconosciuta. Il verdetto è arrivato in un momento delicato per tutta la zona, poiché le tensioni etniche sono divampate di nuovo in Kosovo quasi un quarto di secolo dopo la guerra, con scontri a colpi d'arma da fuoco con la polizia che si sono verificati anche nel fine settimana scorso. Lo stesso processo si è svolto in un clima di paura e tensione esercitata da alcuni veterani dell UCK che nel corso delle udienze hanno cercato di intimidire i testimoni. Il Kosovo ha approvato con riluttanza una legge per consentire la creazione del tribunale dopo un rapporto del Consiglio d'Europa del 2010 circa le presunte atrocità da parte delle forze dell'UCK. La Tunisia al voto tra crisi perenne e sogni autoritari di Francesco Battistini Corriere della Sera, 17 dicembre 2022 I cittadini eleggeranno oggi il nuovo Parlamento, che sarà formato per lo più da sconosciuti ras locali. E il presidente Saied sogna di diventare l’Erdogan del Nordafrica. Stavolta si vince facile. Al buon candidato non serve seguire la linea del partito, perché i partiti non ci sono. E non c’è bisogno di fare spot in tv: chi può pagarseli? E nemmeno di rilasciare interviste: sono vietate per legge, specie ai giornalisti stranieri. E neppure conta aver qualcosa di forte da dire: chi critica il governo, rischia l’arresto. Sull’unico muro di calce bianca in rue 9 Avril 1938, alla Marsa, hanno numerato a vernice grigia novanta quadratini. Sono gli spazi elettorali riservati ai manifesti di questo 17 dicembre. Ma tranne tre riquadri - ci hanno affisso il faccione d’un impiegato delle poste e di due insegnanti di scuola media, sguardi sorridenti e sotto solo i nomi coi numeri di lista: 1, 03, 4 -, tranne quei tre, gli altri quadrati sono tutti vuoti. Anche l’avenue Bourghiba, il cuore di Tunisi dove tutto accade, è transennata e pattugliata come nei mesi più duri della Rivoluzione: ogni tanto compare qualche gruppetto che grida “Saied vattene!”, ma non ci sono troupe tv a mostrarlo perché tutti i media sono in sciopero e anche se non lo fossero, con l’aria che tira, eviterebbero volentieri. “In dodici anni di democrazia - riassume il politologo Hamadi Redissi -, queste sono le elezioni più silenziose che abbiamo mai avuto. E anche le più rischiose”. Via dai radar - Sei presidenti e undici governi dopo, la Rivoluzione dei Gelsomini non esiste più. L’unica democrazia uscita dalle Primavere arabe è chiamata a eleggere, per la prima volta, un Parlamento che non sarà un Parlamento. Il presidente populista Kais Saied, incoronato col 72% dei voti nell’ottobre 2019, è riuscito a smantellare quel (poco) che s’era costruito in questi dodici anni. Avevamo trepidato per la piccola e coraggiosa Tunisia che in quest’ultimo decennio era riuscita a sbarazzarsi di Ben Ali? Che aveva resistito all’assassinio del suo leader laico Chokri Belaid, aveva cacciato nell’angolo la fratellanza musulmana, era sopravvissuta ai 72 morti nelle stragi del Bardo e di Sousse e di Tunisi, aveva respinto le invasioni jihadiste dalla Libia, aveva evitato la deriva egiziana restando in un miracoloso galleggiamento tra fondamentalismo islamico e tentazioni di golpismo militare? Tutto passato. Tutto dimenticato. La Tunisia è sparita dai radar dell’attenzione internazionale. Lasciata sola nella sua crisi economica, nel grande gioco del nuovo Maghreb, coi suoi barconi di migranti. Nel silenzio del mondo, s’è ritrovata un Saied che ha riscritto la Costituzione, sciolto le Camere, ridimensionato il Consiglio superiore della magistratura e avocato a sé molti poteri giudiziari, cacciato una sessantina tra funzionari pubblici e magistrati “troppo politicizzati”, imbavagliato la stampa con una legge che punisce fino a 5 anni chiunque diffonda fake news (leggi: critiche al presidente)… E con l’ultimo decreto elettorale, sta per darsi un’Assemblea dei rappresentanti del Popolo a sua immagine e somiglianza. Modello Erdogan - L’uno vale uno non è più un’utopia, a Tunisi. Perché il nuovo sistema uninominale diretto, imposto dal presidente, sostituisce lo scrutinio di lista e premia i singoli, penalizzando i partiti e di fatto azzerandone il ruolo. Il risultato è che stavolta, ai 161 seggi parlamentari, aspirino mille candidati totalmente sconosciuti - solo 112 donne -, tutti quanti scollegati da qualsiasi progetto politico che non sia il piccolo mandato territoriale, ciascuno in rappresentanza di se stesso. In un Parlamento che sarà ridotto a una specie di consiglio municipale, dove le proposte di legge dovranno essere firmate come minimo da una decina di deputati: tutti cani sciolti e senza alcuna sintesi politica, che dovranno comunque dare la precedenza alle proposte di Saied, nell’edificazione d’un vero regime presidenziale, quasi impossibile da sfiduciare o anche solo censurare per via parlamentare. Il modello è Erdogan. Il progetto, inquietante. E un’elezione del genere, ovvio, di colpo insospettisce e preoccupa la comunità internazionale. Gli Usa parlano di “allarmante erosione di regole democratiche”. Il Parlamento europeo non manda osservatori, invitando gli eurodeputati a non legittimare questo voto con missioni individuali. Tutti i partiti tunisini hanno deciso il boicottaggio. Vanno sull’Aventino i potenti islamici di Ennahda, da sempre maggioranza relativa, che parlano di golpe (“golpista io? - replica Saied -. Siete voi che in questi anni avete paralizzato tutte le riforme!”). Pure i laici e i nostalgici del Grande Padre tunisino Bourghiba, tutta l’opposizione del Fronte di salvezza nazionale, i nazionalisti Pdl e i liberali, i benalisti e i rivoluzionari, tutti quanti si chiamano fuori dal voto e chiedono di disertare le urne. Solo il sindacato Ugtt, quello che nel 2015 fu premiato col Nobel per la pace, ha deciso di non boicottare (“preferiamo il dialogo”), ma anche qui s’è passati dall’appoggio convinto di tre anni fa a una prudente distanza, criticando questo “voto senza sapore, né colore”. Tutto va nel segno d’una veloce restaurazione e anche la scelta del 17 dicembre non è casuale: è il dodicesimo anniversario della morte di Mohamed Bouazizi, l’ortolano ambulante che nel 2010 si diede fuoco e incendiò prima la Tunisia, poi via via l’Egitto e la Libia e la Siria, accendendo la speranza delle Primavere arabe. Saied non vuole saperne di celebrare quel giorno e, se proprio deve, per lui conta solo la fuga di Ben Ali del 14 gennaio. Perché in fondo sa bene come la pensino anche i tunisini: solo il due per cento onora ancora la memoria di Bouazizi, più del 60 rimpiange l’era prerivoluzionaria, l’84 detesta tutti i politici nati dalla Rivoluzione. “C’era proprio bisogno di questa svolta autoritaria?”, gli ha chiesto mercoledì il segretario di Stato americano, Antoni Blinken. “Eravamo sull’orlo d’una guerra civile - ha risposto il presidente -. Ovunque andassi, i tunisini mi chiedevano tutti di sciogliere il Parlamento. Così, alla fine, l’ho sciolto. Erano così gioiosi e felici, come se si stessero liberando d’un vero incubo”. “Non mi schiero” - Non fa molto per cercare simpatie, Saied. Il suo Movimento 25 Luglio Hirak dice che i media internazionali e le opposizioni stanno denigrando il voto: per questo il presidente evita interviste a media stranieri, in particolare se si tratta di “giornalisti sionisti”. L’uomo non appare granché, nelle ultime settimane ha tagliato solo qualche nastro e fatto tutt’al più qualche tour elettorale fra i commercianti della vecchia Medina o in mezzo agli studenti universitari, che nel 2019 l’avevano spinto al potere. È un nostalgico dei Non Allineati anni ’60 e s’è messo di traverso anche sul tema Ucraina, sugli aiuti a una Tunisia affamata dal blocco del grano: “Rifiuto di schierarmi con un’alleanza contro un’altra, le soluzioni ai nostri problemi non possono essere risolte solo dai numeri, né dal Fondo monetario internazionale, non vogliamo lezioni o soluzioni dettate dall’estero…”. Conservatore sui temi della famiglia e fiero oppositore dei diritti Lgbtq, in ottobre ha nominato a sorpresa una premier: la docente universitaria Najla Bouden, prima donna nella storia tunisina chiamata a governare. Ma la mossa non l’ha fatto risalire nei sondaggi, che lo danno in picchiata: la rivolta del pane in giugno e quella per la benzina, quest’autunno, han fatto capire a Saied che il tempo stringe. L’agenzia di rating internazionale Fitch, che pure ha tolto la Tunisia dai Paesi con la tripla “C” e sotto osservazione, prevede “disordini sociali per l’inflazione e la disoccupazione”. E a poche ore dal voto, quasi in risposta alle teorie isolazioniste di Saied, il Fondo monetario internazionale ha rinviato il prestito da 1,9 miliardi di euro, diluito in quattro anni, che doveva essere annunciato lunedì 19. Perché questo stop imprevisto? Forse c’entrano le pressioni di Washington, dove Saied nei giorni scorsi è stato ricevuto con gelida cortesia. Forse non ci si fida delle riforme d’un presidente che non ha firmato nemmeno la legge finanziaria. Forse si teme l’instabilità: in questo dicembre, il Fmi ha concesso più credito perfino all’Egitto di Al Sisi o all’Armenia sull’orlo d’una guerra perenne. I soldi del Fondo bloccati sono un guaio, perché da quelli dipendeva un ulteriore prestito della Francia e d’altri Paesi europei. Il Pil è in calo, l’inflazione è quasi al 10%, cresciuta d’un punto e mezzo in sei mesi. Pollame, olio, uova e frutta hanno avuto aumenti fra il 20 e il 30%, vestiti e trasporti del 10. La guerra in Ucraina ha colpito l’economia di molti Paesi africani e alla Tunisia, per evitare il tracollo finanziario, serve subito un miliardo e mezzo d’euro. Saied, prima d’andare in America, nei giorni scorsi era volato in Arabia saudita per partecipare a un vertice con la Cina: la nuova porta a cui bussare, se tutto precipita. Ci sarebbe anche l’Italia, che ha scavalcato i francesi ed è diventata primo partner commerciale, firmando un accordo energetico da 300 milioni: passa di qui il gasdotto Enrico Mattei, che ci porta il gas algerino in sostituzione di quello russo, e una “nuova opportunità” (parole del premier Giorgia Meloni) saranno gl’investimenti europei sull’energia solare. Noi italiani, del resto, non abbiamo altra scelta che guardare con attenzione alla Tunisia. Un Paese che rischia di caderci addosso: già dal prossimo anno, si stima che i migranti sui barconi tornino ai livelli (180mila l’anno) del 2016. Nuovo De Gaulle - La crisi morde forte. Ed è probabilmente per questo che Saied ha accelerato la presa del potere, il 25 luglio scorso. Ha sottoposto a referendum popolare la sua riforma della Costituzione - una Carta che nel 2014 era stata frutto di faticosi compromessi sui diritti delle donne, sulla limitazione della sharia, sulla separazione dei poteri, sui diritti delle minoranze -, però l’affluenza è stata solo del 30%. A questo giro elettorale, non ci s’aspetta molto di più. Ma in fondo al presidente poco importa: “C’è un’agenda che s’è fissato dopo il 25 luglio - dice il politologo Redissi - e questo voto è per lui una tappa fondamentale”. 64 anni, austero professore di diritto costituzionale spuntato dal nulla e soprannominato “Robocop” per il suo arabo classico esibito nelle conversazioni e per una certa rigidità di modi, Saied s’è imposto come simbolo anti-casta, si paragona spesso a De Gaulle, si sente l’artefice d’una nuova repubblica decisionista che spazzi via l’inconcludenza della “politique politicienne”. Un anno e mezzo fa ha cominciato a rimodellare il Paese a suo favore con provvedimenti via via sempre più duri, come il contestatissimo decreto numero 54: congelando i conti bancari di 460 uomini d’affari legati al vecchio regime di Ben Ali; attribuendo ai giudici militari il potere di processare anche i civili; circondando il Parlamento coi tank; arrestando il capo d’Ennahda, Rashid Gannouchi, con l’accusa d’avere inviato jihadisti in Siria; ritirando il passaporto a un altro leader dell’opposizione; indagando i giornalisti troppo critici; in definitiva, riportando il potere soprattutto dentro il Palazzo di Cartagine che fu di Ben Ali e oggi è di Saied… Il progetto si completa con questo voto. Il nuovo Parlamento, da domani, potrà anche rinviare le elezioni presidenziali del 2024. Facendo di Saied un Erdogan a vita. La voglia c’è. E questo 17 dicembre, può essere l’occasione per togliersela.