Finisce la breve era Renoldi: troppo garantista per il Dap di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 16 dicembre 2022 La guida del Dap passa a Giovanni Russo, procuratore aggiunto presso la Dna. Giovanni Russo è il nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Il suo insediamento è previsto entro la fine del mese. Russo, attualmente procuratore aggiunto presso la Direzione nazionale antimafia (Dna), prende il posto di Carlo Renoldi, toga progressista nominata dalla ministra Marta Cartabia lo scorso marzo, che tornerà in Cassazione. La “staffetta” fra toghe era stata anticipata il mese scorso dal Dubbio. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio prosegue, dunque, nell’opera di spoil system, non confermando negli incarichi di vertice i dirigenti che erano stati nominati dai suoi predecessori. Il neo capo del Dap, vicino alla corrente moderata di Magistratura indipendente e fratello di Paolo, ex parlamentare di Forza Italia prima di transitare in Azione, era stato sconfitto nei mesi scorsi per la nomina a capo della Direzione nazionale antimafia (Dna). Il Consiglio superiore della magistratura gli aveva infatti preferito l’ex procuratore di Napoli Giovanni Melillo. Il capo del Dap è uno degli incarichi più importanti della pubblica amministrazione. Fra i primi compiti di Russo vi sarà sicuramente quello di cercare di creare un clima negli istituti di pena, per quanto è possibile, rispettoso dei diritti della popolazione detenuta. Il 2022 sarà ricordato come un anno record per i suicidi nelle carceri, con ben 81 persone che hanno deciso di togliersi la vita. Non si contano, poi, gli atti di autolesionismo. Soddisfazione per la nomina di Giovanni Russo da parte dei sindacati della polizia penitenziaria. Per Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria, però “nessuna personalità, neanche la più capace e qualificata, potrà risollevare le sorti dell’agonizzante sistema penitenziario se non supportata da immediati interventi legislativi corroborati da sufficienti investimenti economici”. La maggioranza dei sindacati degli agenti penitenziari, comunque, avrebbero preferito il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Quest’ultimo non aveva fatto mistero di essere pronto per tale incarico e di voler rivoluzione l’intero comparto, ad iniziare proprio dalla polizia penitenziaria, secondo il procuratore calabrese, di “Serie C” rispetto alle altre Forze dell’ordine, gettata in uno stato di “depressione e frustrazione” dalle istituzioni che non se ne curano. Nordio parla bene ma poi... rimuove il capo del Dap di Tiziana Maiolo Il Riformista, 16 dicembre 2022 Il guardasigilli perde l’occasione di dare un segnale di discontinuità e a capo delle carceri indica un magistrato politicamente più vicino. Ma sarà in linea con il suo programma di riforme sulla giustizia? Avrebbe potuto dare un segnale di discontinuità politica, magari scegliere una persona affine a sé per pensiero sulla giustizia e sul carcere, proprio come è l’attuale capo del Dap Carlo Renoldi. Invece il ministro Carlo Nordio ha preferito, a quanto pare, restare nell’alveo della tradizione, di destra e di sinistra, e pensare di nominare per l’incarico più ambito del ministero di giustizia, un magistrato contiguo politicamente. Giovanni Russo è un esponente di Magistratura indipendente, la corrente conservatrice delle toghe, decisamente più affine a un governo di centrodestra, e in particolare al mondo della premier Giorgia Meloni, il cui partito ha eletto Nordio in parlamento, prima ancora di sponsorizzarlo per il governo. E Renoldi non solo è di sinistra, ma così garantista da aver stuzzicato la sua stessa parte politica proprio su qualcosa di intoccabile come l’antimafia militante, quella che si ricorda di Giovanni Falcone come del quadretto da tenere sul muro dietro la scrivania e metterlo bene in evidenza durante qualche collegamento tv, piuttosto che apprezzarlo per la sua visione di politica giudiziaria. Per esempio sulla separazione delle carriere e l’obbligatorietà dell’azione penale. Ma il guardasigilli con questa scelta di occasioni ne perderà due. La prima è da “peccato veniale”. Perché in fondo l’alternanza sinistra-destra non toglie nulla al valore professionale di ambedue le toghe. Del dottor Renoldi sappiamo che è stato per dieci anni giudice di sorveglianza a Cagliari, che ha fatto parte di una commissione per l’ordinamento penitenziario e che sullo stesso tema ha sollevato questioni di costituzionalità che la Corte ha accolto. In questi pochi mesi dalla sua nomina, da quando lo aveva scelto la ministra Cartabia il 27 febbraio di quest’anno, non ha avuto modo ancora di mostrare le sue doti di riformatore. Ha anche dovuto affrontare il dramma di una vera strage di circa 80 suicidi all’interno delle carceri. Ma è comunque uno che conosce l’istituzione cui ha dedicato una parte della sua carriera di giudice. Giudice, per l’appunto, non pubblico ministero. E qui entriamo in area “peccato mortale”. Perché il dottor Russo altri non è se non il procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia, il braccio destro di Giovanni Melillo. Non è difficile quindi intuirne la mentalità, la cultura. Perché è molto difficile ricoprire un ruolo di tale prestigio e importanza e non avere come proprio orizzonte culturale quello della sicurezza. Intendiamoci, il carcere è un luogo di custodia di circa 60.000 detenuti e con 40.000 agenti di polizia penitenziaria, ovvio che debba essere un luogo sicuro. Ma la Costituzione non dice questo, dice invece che i soggetti che si occupano di coloro che devono scontare una pena debbano prima di tutto prendersene cura, e rieducarli fino a riuscire a riammetterli nella società civile. Giustizia riparativa, ha sempre sostenuto la ministra Cartabia, e con lei una parte del mondo giuridico, laico e cattolico. Ricucire, dovrebbe essere la parola d’ordine di chi deve gestire le prigioni. È in grado un pubblico ministero, uno che di mestiere fa l’accusatore, e in particolare un magistrato “antimafia”, di assumere la veste del riformatore, fino a mettere in discussione la funzione rieducatrice del 41-bis? Carlo Renoldi sicuramente lo era, non perché era di sinistra, ma perché conosceva da prima il mondo che era stato chiamato a governare, perché non confondeva il reo con il reato ed era pronto a scommettere sulla realizzazione, in gran parte, dell’articolo 27 della Costituzione. È una questione di mentalità. Prima ancora che di cultura politica. Infatti proprio da sinistra, oltre che dal Fatto, dai grillini e una parte del centrodestra, erano arrivati i siluri, sempre nel nome di Falcone e Borsellino, ma in realtà dell’antimafia militante. Tanto che Carlo Renoldi era stato costretto, prima ancora di essere nominato a capo del Dap, a una sorta di autodafé che desse garanzie ai dispensatori di purghe di destra e di sinistra. Ma non sarebbe giusto, e non è nelle nostre intenzioni né abitudini, processare preventivamente il dottor Giovanni Russo, di cui conosciamo per ora solo il curriculum e la storia professionale. Oltre che una parte di quella familiare, perché la stampa più virtuosa e informata ci ha già segnalato che il prossimo capo del Dap è fratello di un ex parlamentare di Forza Italia, ora passato, anche a causa dei suoi legami politici con Mara Carfagna, al partito di Carlo Calenda. Che cosa dovremmo dedurre da questa, secondo noi inutile, notizia? Che anche il fratello potrebbe esser stato marchiato dall’infamia della vicinanza a Berlusconi? O al contrario che questa contiguità potrebbe avergli inoculato il seme del garantismo? Ma i principi dello Stato di diritto dovrebbero essere la stella polare di ogni magistrato, quindi siamo certi che lo siano anche per il dottor Russo. Cui facciamo i migliori auguri di buon lavoro, come avevamo già fatto con il suo predecessore. Quel che ci preoccupa è invece il nostro vizio della memoria. Che ci riporta alle serate della domenica in cui nelle trasmissioni di Massimo Giletti veniva messo alla berlina il capo del Dap Francesco Basentini, reo non solo di aver emesso una circolare per salvare la vita a un po’ di detenuti nel momento tragico dell’epidemia da covid, ma soprattutto di non essere Nino Di Matteo. Cioè colui cui il ministro Bonafede aveva in un primo momento promesso quell’incarico. Lo stesso guardasigilli era guardato con il sospetto che avesse cambiato idea perché intimorito dalla mafia. Brutti tempi, allora. Ma non sono mai tempi tranquillizzanti quelli in cui si rischia di estendere anche a quel 90% di detenuti che nulla hanno a che fare con le cosche il regime di sicurezza da camicia di forza, quello del 4-bis e del 41-bis. Perché, anche se formalmente non è così, il pericolo c’è, se gli occhi di chi deve governare le prigioni sono abituati a vedere in un solo modo. Ci dispiace, ministro Nordio, perché noi del Riformista siamo suoi estimatori, e ci dispiace anche per un alto magistrato come il dottor Russo che non conosciamo, ma temiamo che questa scelta possa rivelarsi poco in linea con il suo programma di riforme sulla giustizia. Saremo felicissimi di esserci sbagliati. Meloni batte Nordio, silurato Renoldi e le “sue” pene alternative: Giovanni Russo a capo del Dap di Ciro Cuozzo Il Riformista, 16 dicembre 2022 Prevale la linea carcerocentrica della pena di Fratelli d’Italia, Lega e del Movimento 5 Stelle. Altro che pene alternative, “meno costose in termini economici e sociali rispetto al carcere”. La guerra lanciata nei mesi scorsi a Carlo Renoldi, a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ha dato i suoi frutti. Nelle prossime ore il neo ministro della Giustizia Carlo Nordio dovrebbe annunciare l’avvicendamento alla guida del Dap. A Renoldi, nominato appena 10 mesi fa dall’ex Guardasigilli Marta Cartabia, subentrerà con ogni probabilità il magistrato Giovanni Russo che oggi, stando a quanto anticipa Repubblica, ha presentato al Csm la richiesta di essere messo fuori ruolo. Russo, nato a Napoli, è il fratello dell’ex parlamentare di Forza Italia Paolo Russo. Fino a poche ore fa era procuratore aggiunto alla Procura nazionale antimafia. Toga di Magistratura indipendente, è stato pubblico ministero a Castrovillari in Calabria e successivamente pm a Napoli. Una nomina quella di Russo che stona anche con le recenti dichiarazioni dello stesso Nordio che, subito dopo l’investitura alla Giustizia, aveva dichiarato che “la pena, come ho già detto varie volte nei miei scritti, non coincide necessariamente con il carcere”. Versione tuttavia che poco si allinea a quella dei partiti di maggioranza (e anche di opposizione, come nel caso dei 5 Stelle). Per la premier Meloni infatti “certezza della pena è certezza del carcere” anche grazie, come annunciato più di una volta, a un nuovo piano carceri”. Giovanni Russo è riuscito a spuntarla su altri nomi ‘caldi’ come quello di altri magistrati come Nicola Gratteri e Luigi Riello. Dovrà affrontare oltre all’emergenza suicidi, ben 81 quelli registrati solo nel 2022, anche i tagli in programma nella nuova legge di Bilancio per la polizia penitenziaria. Una decisione che ha creato più di un malcontento, soprattutto dopo la candidatura di esponenti della penitenziaria con la Lega di Matteo Salvini. “Apprendiamo che sarebbe stata richiesta al Csm la collocazione fuori ruolo del magistrato Giovanni Russo, attualmente aggiunto alla procura nazionale antimafia, per la successiva nomina a Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria”. Lo afferma, in una nota, Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, che aggiunge: “In attesa del compimento dei passaggi burocratici propedeutici all’effettivo insediamento e, soprattutto, di comprendere il programma del nuovo capo delle carceri e della Polizia penitenziaria, torniamo a ripetere che nessuna personalità, neanche la più capace e qualificata, potrà risollevare le sorti dell’agonizzante sistema penitenziario se non supportata da immediati interventi legislativi corroborati da sufficienti investimenti economici”. “Nel salutare Carlo Renoldi, cui ci sentiamo di rivolgere anche il nostro ringraziamento per la costante disponibilità al dialogo, e in attesa di poter presto indirizzare i nostri auguri di buon lavoro a Giovanni Russo e di avviare con lui un confronto programmatico - prosegue il sindacalista - rivolgiamo un ennesimo appello al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, al presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, al Governo e al Parlamento affinché si affronti concretamente la perdurante emergenza penitenziaria con il varo di un decreto-legge per l’adozione delle misure più urgenti e si approvi una legge delega per la reingegnerizzazione del sistema d’esecuzione penale, la rifondazione del Dap e la riorganizzazione del Corpo di polizia penitenziaria, senza peraltro dimenticare il percorso della legge di bilancio in cui si auspica si possano correggere i tagli e, al contrario, prevedere congrui investimenti per il settore”. Cantone: “Nessun rischio per le chiamate in carcere. Anzi miglioreranno” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 dicembre 2022 Su Il Dubbio di ieri abbiamo parlato del rischio che potessero essere vanificate tutte le misure messe in campo per far fronte all’emergenza Covid in carcere. In maniera particolare l’utilizzo dei cellulari per effettuare i video colloqui visto che le sim sono in scadenza. Il Dubbio ha intervistato il vice capo del Dap Carmelo Cantone, il quale ha assicurato che non solo questo problema non ci sarà, ma che lo scopo ultimo è arrivare a superare tale modalità e giungere alla realizzazione di apposite salette in ogni carcere dove effettuare il colloquio a distanza e quindi tramite la fibra ottica che in molti istituti è già potenziata. Una soluzione che in diversi istituti è stata attuata ed è già realtà. Dottor Cantone, c’è un serio rischio di fare dei passi indietro, in tema di affettività, per la scadenza delle sim dei cellulari, utilizzate per effettuare le videochiamate tra detenuti e familiari? Non c’è alcun rischio. È vero che sono in scadenza le sim, però con la direzione delle risorse del Dap siamo già d’intesa con la Tim. Quando scadranno le varie sim, si passerà alla formula che prevede il costo a carico dell’amministrazione e oggettivamente non sarà nemmeno oneroso. Però c’è un altro ragionamento che bisogna fare. Quale? Man mano si dovrà abbandonare il discorso delle sim per riuscire ad avere su tutto il territorio nazionale un servizio molto più efficace e fluido, come abbiamo ben descritto tramite una recente circolare del Dap. Ovvero attrezzare delle sale colloquio dedicate appositamente ai video colloqui dove il detenuto potrà parlare, tramite un dispositivo adeguato, e collegarsi a internet grazie alla fibra ottica. Ma non tutti gli istituti hanno fibre ottiche adeguate... Infatti con la Direzione generale per i sistemi informativi, che è competente per i lavori dell’installazione della fibra, molte carceri si sono già adeguate e altre presto lo faranno. In questo momento non possiedo dati aggiornati, ma quest’estate avevamo già una settantina di istituti penitenziari con la fibra in tutti i punti nevralgici in cui serviva, in altri erano in corso d’opera. Non a caso, quest’estate - in linea con la circolare emanata in merito ai colloqui a distanza - abbiamo chiesto, per chi non l’avesse fatto, di proseguire con i lavori di adeguamento e provvedere all’individuazione di locali idonei. Quindi esistono penitenziari che si sono già adeguati anche con i locali? Certo. Ci sono diversi istituti già operativi. Le potrei citare Lecce, Rebibbia Nuovo Complesso, il carcere di Velletri. L’obiettivo è quello di mettere il detenuto nella condizione di poter effettuare fino a un’ora di colloquio a distanza, perché è equiparato a quello di presenza, in una sala adibita dove possono starci anche più persone. Al carcere di Velletri questa cosa è già una realtà. Hanno recuperato degli spazi, micro-salette dove permettere i colloqui di questo tipo. Quindi l’obiettivo è quello di portare a regime, in tutte le carceri, questa modalità di video colloquio con tanto di salette adibite? Certo. Noi abbiamo gestito una emergenza nel 2020 e la pandemia ha creato le condizioni che hanno accelerato i tempi per i colloqui online, garantendo e quindi il mantenimento dell’affettività. Ovviamente nel limite del possibile visto che la normativa pone ancora dei limiti. Partiamo da un sistema che, dal 1975 fino ad oggi, ha inteso focalizzare per il detenuto l’autorizzazione a una telefonata ogni tot di tempo. Però ora c’è la necessità, così come individuata dalla commissione Ruotolo di cui facevo parte, di invertire il ragionamento e si è trovato il sistema: un detenuto può telefonare tutti i giorni, con un range di tempo più allargato. Ora è a discrezionalità del direttore, ma mi auspico che la politica ragionerà su questo e modificherà in meglio il regolamento penitenziario. Però ci tengo a dire una cosa rispetto all’esperienza sui video colloqui. Mi dica… Bisogna sottolineare ancora oggi che se in quel momento tragico della pandemia c’è stata una bella accelerazione sui colloqui a distanza, è grazie ai tanti operatori che sui territori hanno lavorato molto per permettere ciò. Esperti informatici, poliziotti penitenziari che avevano una dimestichezza con questa materia, direttori che sono stati attivi. Penso anche all’amministratore delegato della Tim che ci ha dato un grande aiuto in quei momenti difficili. Lo ribadisco. Tutto quello che c’è stato di buono, e continua a esserlo, è espressione dei territori. Bisogna farli lavorare, solo così potrà migliorare il carcere. Per questo mi auguro che, in futuro, potranno essere scritte delle belle pagine. La breve vita perduta di Jhonny Cirillo, rapper suicida in cella di Jacopo Storni Corriere della Sera, 16 dicembre 2022 Aveva 25 anni, era stato adottato che aveva solo un anno e mezzo. I genitori Angela e Antonello: “Aveva rapinato una farmacia perché cercava i suoi psicofarmaci. Era bipolare. Non avrebbero dovuto rinchiuderlo”. Nei primi 10 mesi del 2022 sono morti così 74 detenuti, 35 più dell’anno scorso. Quando ha compiuto 18 anni, come primo viaggio è andato a Castel Volturno. Centro chilometri di macchina per cercare la madre biologica, senza dirlo ai genitori adottivi. Quando è arrivato, ha scoperto che sua madre era una ragazza di strada con problemi di dipendenze. Ha scoperto di essere nato in una clinica dove è rimasto per i primi quaranta giorni di vita, dimenticato dalla mamma che se ne era andata e l’aveva abbandonato. Ha scoperto che sua madre si chiamava Fatima, così almeno gli avevano detto, e quel nome se l’è tatuato sull’avambraccio. Giovanni Cirillo è cresciuto così, l’ombra delle radici che non gli ha dato mai tregua. L’istinto di fuggire, forse da sé stesso, dal suo passato di dolore, dal presente a cui sentiva di non appartenere completamente. In perenne ricerca della sua identità. Giovanni si è suicidato nel carcere di Salerno il 26 luglio 2020. Aveva 25 anni. Sguardo dolce e ardente insieme. Anima alla deriva. Aveva già tentato di togliersi la vita quando era in libertà. Era andato alla stazione e stava per buttarsi sotto un treno in corsa. Un passo indietro all’ultimo tuffo, poi la corsa disperata in mezzo alla città, alla fine la rapina in gioielleria. Così è stato arrestato. Soffriva di bipolarità, la sua malattia era certificata. Quando era in carcere, aveva chiesto il trasferimento in una clinica psichiatrica. Gli era stato negato, allora aveva cominciato lo sciopero della fame, della sete e, soprattutto, degli psicofarmaci. Poi non ha più retto. E si è ucciso. L’hanno trovato in cella col lenzuolo attorno al collo. “Lo Stato ha ucciso mio figlio” dice la madre adottiva Angela Di Somma. Non si dà pace, come suo padre Antonello Cirillo: “Il carcere dovrebbe essere un luogo di riabilitazione, invece il carcere è un luogo di morte”. Uno dei tanti suicidi tra le sbarre: uno ogni quattro giorni nel 2022. Nei primi dieci mesi di quest’anno sono stati 74 i suicidi in carcere, 35 in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Sul caso Cirillo è in corso un’indagine della Procura. “Mio figlio doveva usufruire dell’alta sorveglianza, gli agenti avrebbero dovuto controllarlo ogni venti minuti”. La disposizione del servizio, secondo l’ipotesi del magistrato, “non fu mai eseguita non risultando annotata nel registro di reparto di detenzione né il 24 luglio, né nei giorni successivi”. Secondo i genitori “Giovanni non doveva e non poteva stare in carcere, c’erano perizie psichiatriche che appuravano la sua incompatibilità con il regime carcerario, tutto ciò è stato ignorato”. Sono passati due anni, ma nella casa di Angela e Antonello tutto parla ancora del figlio. Le pareti piene di foto: c’è Giovanni alla recita di scuola, ha 10 ed è vestito da diavolo; Giovanni che ride di fronte alla torta della prima comunione; Giovanni col padre in riva al mare, agosto 98, Cirò Marina; Giovanni a 5 anni che fa l’albero di Natale con la mamma. Poi Giovanni cresce. Quel giorno verso Castel Volturno, alla ricerca di una madre mai conosciuta, forse Giovanni ha ripensato al suo passato. Alla sua storia di tormento. Tormento ed estasi, così ha vissuto la sua vita estrema. “Questo ci consola” raccontano i genitori “perché nostro figlio ha vissuto ogni giorno come fosse l’ultimo”. Aveva un mese e mezzo quando fu adottato e portato via da quella clinica sul litorale domizio. “Eravamo sposati da tre anni, non riuscivamo ad avere figli e nacque l’idea dell’adozione”. Il destino li porta in quella clinica. Amore a prima vista. Tornano a casa insieme a lui. Si chiamava col nome che gli aveva dato la madre: Mohamed Andrea. La pelle nera, origini somale. “Abbiamo vissuto a Scafati, paesino di pochi abitanti in provincia di Salerno. Quando nostro figlio era nel passeggino, le altre mamme sottolineavano il colore della sua pelle”. Erano parole affettuose, ma non sempre Giovanni le viveva con gioia. Quelle parole, a volte, rimarcavano la sua diversità e lui soffriva. Così pure nei primi anni di calcio. “I giocatori dell’altra squadra lo chiamavano straniero, lui però si sentiva italiano”. Qualcuno lo chiamava “negro”. Ha vissuto un’infanzia felice, ma nell’adolescenza qualcosa si spezza. E comincia a bere. E poi a usare sostanze. Un baratro fulmineo, nel cuore della maturità. Però la musica prova a salvarlo. Diventa rapper. Scrive canzoni, sfoga frustrazioni. I suoi testi sono rivelazioni: “Ho fatto sempre il massimo, non è servito a niente, per lo Stato sono un parassita”. Nelle sue canzoni emerge il senso di fallimento, il non sentirsi accettato: “Ricordo i pianti in treno col cappuccio in testa, le cuffie e la playlist, mi sentivo una merda”. Talvolta Giovanni era inaffidabile. Fissava gli appuntamenti ma li bucava, doveva suonare alle serate ma non ci andava. Eppure era ricercato dalle case discografiche. Scriveva testi che andavano forte, ma quando arrivava il momento di fare sul serio, si tirava indietro. Come se avesse paura di sé stesso. Era eccentrico, l’adrenalina nelle vene. Era un vulcano, ma a volte si bruciava con la sua stessa lava. Amato da tanti, euforico all’improvviso e il minuto dopo disperato. “La voragine” di Zerocalcare: si può ripensare il 41 bis a partire dalla cultura di Margherita Zappatore Il Fatto Quotidiano, 16 dicembre 2022 Qualche giorno fa è stato pubblicato sull’Internazionale il fumetto “La voragine” di Zerocalcare, in cui si racconta il caso dell’anarchico Alfredo Cospito, detenuto al 41 bis per il reato di strage contro la sicurezza dello Stato. Al netto della vicenda giudiziaria di Cospito, senza dubbio meritevole di particolare approfondimento, il racconto ha il merito di portare all’attenzione un tema poco approfondito nel dibattito pubblico quale il carcere duro, inducendo il lettore a una riflessione sulle condizioni detentive. “È accettabile che per una categoria il sistema giudiziario abbia solo il volto della vendetta?”. È questa la domanda dell’autore da cui è necessario partire. Ma andiamo con ordine. Il “carcere duro” consiste in una forma di detenzione particolarmente gravosa riservata a coloro che hanno commesso un delitto di tipo mafioso o altri reati come terrorismo, eversione o riduzione in schiavitù. In tali casi, il detenuto sconta la pena in una camera singola, senza entrare in contatto con altri detenuti. Ha solo due ore d’aria al giorno e gli sono riservati i colloqui con i familiari solo una volta al mese, con un vetro divisorio e per un tempo limitato. Può detenere un numero limitato di oggetti, esclusi fotografie, quadri e tv. La corrispondenza epistolare è soggetta a censura e le letture, quando consentite, sono limitate a pochi libri o a risicate riviste acquistate esclusivamente tramite la direzione del carcere. A scontare la pena sotto questo regime, secondo i dati di Antigone risalenti al 2020, sono 298 detenuti, di cui 209 condannati all’ergastolo con sentenza definitiva. Sebbene l’adozione di tali misure sia stata considerata legittima tanto dalla Corte costituzionale, più volte adita dai giudici di merito, quanto dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, non possono ritenersi peregrini i dubbi di legittimità costituzionale del regime del 41 bis rispetto al principio della rieducazione del condannato di cui all’articolo 27 in Costituzione. La rieducazione del condannato intesa nelle sue plurime accezioni di “reinserimento sociale”, “risocializzazione” e “recupero sociale” rappresenta la funzione principe della pena nel diritto positivo nostrano, costituzionalmente sancita all’art. 27 e l’essenza stessa della sanzione. Pur condividendo la ratio della norma, nata all’indomani delle stragi di Capaci e via d’Amelio sulla spinta della consapevolezza che le normali condizioni detentive garantite ai detenuti fossero incapaci di limitarne la pericolosità sociale, non ci si può esimere dal chiedersi se un simile regime detentivo sia funzionale alla rieducazione del condannato. Isolare il detenuto precludendogli qualsivoglia contatto con l’altro è, già di per sé, un elemento ostativo alla rieducazione. Pertanto sono necessari ulteriori strumenti di reinserimento sociale. Tra questi, indefettibile, è il ruolo che la cultura può giocare. E qui veniamo al cuore della questione. La rieducazione non deve prescindere dalla cultura. Un percorso di conoscenza, che richieda al detenuto l’adempimento di obblighi didattici quali, ad esempio, la lettura di grandi classici e la stesura di temi e racconti, potrebbe rappresentare un vero e proprio punto di svolta nella rieducazione del condannato verso la quale la pena deve essere sempre teleologicamente orientata. Un simile percorso, infatti, richiederebbe uno sforzo intellettivo non indifferente. Come i greci usavano mettere in scena le tragedie per ottenere una katarsis, una purificazione dell’anima, così anche il nostro ordinamento potrebbe raggiungere la risocializzazione per mezzo dell’arte, in tutte le sue forme. Non si tratta di buoni propositi da lasciare nei cassetti, ma di impegni che le Istituzioni dovrebbero assumere tanto nei confronti degli ultimi quanto dell’intera comunità che, a causa del fenomeno delle “porte girevoli” legato alla recidiva, ha una spesa in termini economici - oltre che sociali e culturali - elevatissima. “Non un mio crimine ma la mia condanna”: i diritti dei minori figli di genitori in carcere La Repubblica, 16 dicembre 2022 In Italia i bambini con uno o tutti e due i genitori detenuti sono circa 100mila. L’organizzazione Bambini Senza Sbarre ha compiuto 20 anni ed ha avviato il 3° anno di un progetto di sostegno. I bambini con uno o tutti e due i genitori detenuti in carcere in Italia sono circa 100mila. Un numero enorme di piccoli che porta con sé questo dolore, spesso tenuto segreto. Le organizzazioni che si occupano di questo fenomeno affermano spesso un principio semplice e centrale quello secondo il quale questi bambini non hanno bisogno di essere trattati in modo speciale, ma solo di veder riconosciuta questa loro condizione e di essere tutelati.  A ottobre l’organizzazione Bambini Senza Sbarre ormai giunta al ventesimo anno di attività, ha avviato la terza annualità di lavoro del progetto nazionale “Il carcere alla prova dei bambini e delle loro famiglie - Applicazione dei diritti dei figli di genitori detenuti”. La carta è stata rinnovata nel dicembre 2021 dall’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia, dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti e dalla presidente di Bambini Senza Sbarre, Lia Sacerdote. La partita con mamma e papà. Dopo due anni di interruzione a causa della pandemia da Covid-19, nel mese di giugno è tornata la sesta edizione della “Partita con mamma e papà”, con la partecipazione di ottantadue istituti penitenziari, nell’ambito della campagna di sensibilizzazione europea “Non un mio crimine, ma una mia condanna”, sul tema dei bambini figli di genitori detenuti in carcere e che si svolge contemporaneamente in venti paesi membri dell’UE. Le attività internazionali. Bambini Senza Sbarre nel 2022 ha svolto una serie di attività a livello europeo, volte in particolare a illustrare la “Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti” e il progetto “Il carcere alla prova dei bambini e delle loro famiglie”. L’obiettivo è quello di sensibilizzare sul tema dei bambini figli di genitori detenuti anche a livello internazionale. In particolare l’organizzazione ha contribuito alla conferenza annuale di Children of Prisoners Europe (Cope), all’Assemblea Generale e ai workshops che si sono tenuti in Portogallo; a una serie di seminari per addetti ai lavori organizzati da Probacja Foundation e dall’Università Andrzejja Frycza Modrzewskiego di Cracovia e alla conferenza internazionale organizzata sempre a Cracovia sul tema “Child Frindly Justice”. Decreto anti-rave, l’appello di 18 organizzazioni alla Camera: “Fermatelo, così si rischia più insicurezza” di Viola Giannoli La Repubblica, 16 dicembre 2022 Dalla Coscioni all’Arci, da Antigone alla Cgil, le associazioni della società civile si schierano a difesa dell’esperienza dei free party e delle strategie di contenimento non repressive: “Con la conversione in legge carceri sovraffollate, stigma sociale e maggiori costi per la collettività”. “Fermate il decreto anti-rave”. L’appello arriva da 18 organizzazioni dal Forum Droghe ad Antigone, dall’Associazione Luca Coscioni alla Cgil che chiedono ai deputati di bloccare la conversione in legge della norma appena approvata dal Senato. Ma cosa preoccupa le sigle della società civile? Anzitutto “le gravi conseguenze che determinerebbe sulla convivenza sociale, sui processi di stigmatizzazione dei giovani e delle loro espressioni culturali nel nostro Paese”. “No alla criminalizzazione dei rave party” - Le associazioni difendono, sulla scia delle esperienze europee e della legislazione assai più morbida adottata nel resto del continente per i raduni illegali, i rave, gli eventi musicali e di intrattenimento dalla “criminalizzazione” che il decreto ne fa “definendoli pericolosi per la salute e l’incolumità pubbliche”. Invece, sostengono le associazioni, “i free party rappresentano degli eventi musicali con una grande partecipazione di giovani, che si caratterizzano per la dimensione creativa e di libertà dagli schemi e dalle convenzioni in particolare dai vincoli del mercato del divertimento. Il messaggio che si vuol far passare è, invece, di punire chi partecipa a tali eventi e, soprattutto, chi fa uso di sostanze”. I rischi per la riduzione del danno - Mentre “l’esperienza, ormai consolidata da oltre vent’anni dalle nostre reti e a livello europeo, dimostra che l’implementazione dei servizi di Riduzione del Danno e Limitazione dei Rischi a livello nazionale, prevista dai Lea (i livelli essenziali assistenziali del ministero della Salute, ndr), rappresenta la strategia più efficace per gestire e rendere sicuri sul piano della salute, dei possibili rischi, della gestione di eventuali situazioni critiche, i contesti nei quali si svolgono gli eventi”. Servizi che “svolgono, inoltre, un ruolo importante anche nel facilitare la mediazione e la negoziazione con le forze dell’ordine nelle eventuali operazioni di sgombero”, come è avvenuto nel caso del technival di Valentano e di Modena. I servizi di riduzione del danno si occupano ad esempio dell’analisi chimica sul posto delle sostanze, l’informazione sul loro contenuto, i rischi e gli effetti collaterali dell’assunzione, l’assistenza al consumo in luoghi protetti, quantità limitate e non combinate tra loro e sotto controllo medico. Le organizzazioni ritengono invece “che una misura repressiva rischia di incentivare l’organizzazione di eventi sempre più nascosti e irraggiungibili, e quindi molto più difficili da gestire attraverso gli interventi di riduzione del danno e tutela della salute pubblica e di contenimento di eventuali casi critici tra i partecipanti”. Inoltre “una interpretazione rigida della legge potrebbe estendere i reati previsti anche agli operatori di questi servizi, negando un diritto sancito dalla legge, con la conseguenza paradossale di ampliare proprio i rischi e i danni per la salute che si vorrebbero evitare e di compromettere in modo sensibile la sicurezza degli eventi”. Gli effetti collaterali dell’inasprimento delle leggi sulle droghe - L’altro fronte di preoccupazione è “il rischio che il provvedimento rappresenti un primo passo per un ulteriore peggioramento della attuale normativa penale sulle droghe” che provocherebbe da un lato “nuovi disastri per gli effetti sul sovraffollamento delle carceri”, già per un terzo piene per reati di droga, e dall’altro “sul rafforzamento degli stigmi e pregiudizi nei confronti delle persone che usano droghe con la naturale conseguenza di ricacciare sempre più nel sommerso i diversi contesti del consumo di sostanze illegali, rendendo ancora più difficile garantire la tutela della salute pubblica, incrementando i costi umani ed economici per la collettività”. Secondo le 18 associazioni i modelli repressivi sono stati “un fallimento” e per questo bisogna adottare nuove strategie come sta avvenendo negli Stati Uniti, in Canada, America Latina e Malta, partendo dai risultati emersi nella Conferenza nazionale sulle droghe di Genova convocata dalla ex ministra Fabiana Dadone dopo un decennio di latitanza. L’appello delle organizzazioni - Per tutti questi motivi, Forum Droghe, Antigone, Cnca, A Buon Diritto, Lila, Itardd, Comunità di San Benedetto al Porto, Parsec, Cat, Associazione Luca Coscioni, la Società della Ragione, Itanpud, Isola di Arran, Il Gabbiano, Cgil, LegacoopSociali, Arci, Meglio Legale, chiedono “alle deputate e deputati, al di là delle logiche di schieramento, un impegno straordinario per evitare la conversione in legge delle norme anti-rave contenute nel decreto 162/22”. Bongiorno: “Basta abusi sulle intercettazioni. Con frasi fuori contesto anche la Bibbia può diventare un libro pornografico” di Liana Milella La Repubblica, 16 dicembre 2022 Intervista alla presidente della commissione Giustizia del Senato dopo l’iniziativa di un’indagine conoscitiva sugli ascolti. La senatrice leghista si oppose al tentativo di Berlusconi di cancellarle, ora dice che bisogna “evitare gli eccessi, che c’erano e ci sono ancora: non si può costruire un’accusa sulla base di un’unica dichiarazione”. “Non è possibile costruire un’accusa sulla base di un’unica frase o di più frasi decontestualizzate. Così anche la Bibbia potrebbe diventare un libro pornografico”. Il paradosso è di Giulia Bongiorno, la presidente della commissione Giustizia del Senato, che due giorni fa ha lanciato l’indagine conoscitiva sulle intercettazioni. Le difese al tempo di Berlusconi, adesso ai magistrati chiede di “evitare gli eccessi, che c’erano e ci sono ancora”. Lei dice sempre che rispetta la magistratura. Non le sembra invece che la sua maggioranza di centrodestra le stia inventando tutte contro i giudici? Adesso pure la sua indagine sulle intercettazioni… “Il tema è delicato e spesso oggetto di strumentalizzazioni: da una parte i garantisti, dall’altra i giustizialisti. È un approccio sbagliato. Ho proposto l’indagine conoscitiva proprio per evitare lo scontro frontale e adottare un metodo basato su dati che saranno analizzati e approfonditi. La proposta è stata accolta all’unanimità, segno che tutti desiderano prepararsi adeguatamente in vista della riforma annunciata”. Intanto alla Camera vogliono una commissione di inchiesta sulla magistratura, e pure un’altra su Mani pulite. Non mi dirà che sono altrettante carezze verso i giudici... “Esiste un’indagine conoscitiva sulle intercettazioni svolta dalla commissione Giustizia sotto la presidenza di Cesare Salvi del Pd, con relatore Felice Casson, dello stesso schieramento politico. Non credo che nessuno li abbia mai accusati di voler accoltellare i magistrati”. Lei ha troppa esperienza del lavoro parlamentare e sa bene che un’indagine di questo genere si presta a sollevare dubbi specifici sulle singole intercettazioni. Così non si delegittimano lavoro e inchieste dei giudici? “È esattamente il contrario. Un tema che chiama in causa libertà fondamentali, amministrazione della giustizia, istanze di riservatezza e presunzione di innocenza dev’essere laicizzato. Mi sono occupata della materia già alcuni anni fa, e ora come allora ritengo le intercettazioni strumento indispensabile per le indagini. Il problema sono gli eccessi, che c’erano e ci sono ancora: talvolta, dettati anche da una certa pigrizia investigativa. Sono contraria agli eccessi, non alle intercettazioni”. Ma cosa intende per eccessi? “Voler combattere con forza l’illegalità e stare al fianco della magistratura non significa restare inermi di fronte all’uso smodato delle intercettazioni o all’intollerabile pubblicazione di brandelli di conversazioni private”. E non sa già adesso che si aprirà la caccia all’intercettazione che non si doveva fare? Ne verranno travolte dozzine di inchieste, sarà un bagno di sangue… “Non si tratta di una commissione d’inchiesta sull’attività della magistratura inquirente, e il tema non è eliminare le intercettazioni, piuttosto restituirle alla loro naturale funzione di mezzo di ricerca della prova”.  Il ministro Nordio ha già lanciato la sua pietra contro le intercettazioni, dice di preferire quelle segrete e incontrollabili della polizia. In Italia ci sono tuttora reati contro la corruzione, e al Sud, ma non solo, la criminalità mafiosa imperversa. Perché volete privare le toghe della possibilità di verificare liberamente l’esistenza di questi reati? “Nessuno vuole limitare gli strumenti a disposizione della magistratura. Ma ogni strumento va utilizzato in modo corretto altrimenti si può incorrere in errori giudiziari e in irrimediabili gogne mediatiche. Ma le intercettazioni servono proprio a scoprire reati... “Utilissime se valutate con scrupolo. L’interpretazione di una conversazione è un’attività complessa, che non può fermarsi al significato letterale delle parole o a singole espressioni. Serve un approccio sistematico, che consideri l’intero contenuto di tutti i dialoghi intercettati e poi ponga in relazione questi dialoghi con gli altri elementi di indagine acquisiti. Non è possibile costruire un’accusa sulla base di un’unica frase o di più frasi decontestualizzate. Isolando dei brani dal loro specifico contesto, anche la Bibbia potrebbe diventare un libro pornografico”. Il forzista Zanettin, dopo aver messo a segno il colpo sui reati contro la pubblica amministrazione eliminandoli dall’ergastolo ostativo, adesso attacca l’uso del Trojan. Andrebbe usato - dice lui - solo per mafia e terrorismo, e non per la corruzione. Si stanno tutelando corrotti e corruttori? “Mafia e terrorismo sono fatti di allarme sociale che richiedono strumenti di contrasto eccezionali e per i quali il nostro ordinamento prevede misure straordinarie, consentendo un maggior affievolimento di diritti fondamentali. Su questi reati non si può retrocedere. L’indagine conoscitiva avrà come oggetto anche l’uso del Trojan su altri reati e ci fornirà elementi per capire se è indispensabile continuare ad avvalersene”. Lei ha salvato le intercettazioni dalla minaccia di Berlusconi, perché adesso vuole assecondare Nordio nella sua campagna pseudo garantista contro i suoi ex colleghi pubblici ministeri? “Mi sono opposta di fronte ad alcune ipotesi che avrebbero cancellato le intercettazioni, spuntando le armi nella battaglia alla criminalità. Ribadisco che le intercettazioni sono indispensabili come mezzo di ricerca della prova, ma ne contesto l’abuso che se ne fa. Oggi con l’indagine conoscitiva non assecondo Nordio, che nemmeno sapeva di questa iniziativa, ma difendo il dovere di conoscere bene un fenomeno prima di prendere decisioni in merito”. La giustizia non può tutelare gli imputati più delle vittime di Filoreto D’Agostino Il Fatto Quotidiano, 16 dicembre 2022 Dichiarazioni e primi atti del ministro della Giustizia hanno ricevuto pesanti critiche, solo in parte bilanciate da convinte adesioni. I pro e soprattutto i contro sono stati rappresentati con lucidità e passione da esimi esponenti della magistratura, qualificatissimi opinionisti e professionisti e forze politiche. Aggiungervi una sola notazione sarebbe un fuor d’opera. Restano le questioni a monte non trattate dal ministro che ha indicato tra i punti cardine la riforma del pubblico ministero, unico al mondo a godere di un’assoluta non responsabilità. Per modificare quello status, però, occorre una revisione costituzionale. Un altro unicum italiano è l’istituto dell’improcedibilità dell’azione penale connessa alla durata dell’appello. La giurisdizione è funzione essenziale dello Stato e imprescindibile garanzia per il cittadino: non può essere derubricata a una specie di procedimento amministrativo soggetto a estinzione per decorso del tempo. Se va corretta la disciplina del pubblico ministero altrettanto va fatto per rimediare all’attentato all’ontologia della giurisdizione arrecato con l’abominevole “schiforma” Cartabia. Con la differenza che, in questo caso, basta la legge ordinaria. Da un magistrato, anche se a riposo come il guardasigilli, che ha dedicato le sue migliori energie nell’ambito della giurisdizione, ci si aspetterebbe l’annuncio d’immediato risarcimento dell’ordinamento leso fino nelle fondamenta da quella poco nobile disciplina. Quest’ultima, eliminando il reato, finisce per riversare infausti effetti sulla questione, non sempre ben percepita da sedicenti garantisti, della tutela delle vittime, destinate a veder perpetuati il sopruso e il danno a causa di una giustizia mille volte più attenta alle ragioni dell’imputato. È senz’altro doveroso adeguare al meglio le garanzie per i prevenuti, senza dimenticare tuttavia che ciò non può ledere o revocare nel nulla la tutela di chi ha patito danni e dolori capaci di distruggere la vita. Cianciare spesso senza costrutto sui diritti della difesa mentre le persone offese soffrono la mancanza di una giustizia “giusta” denuncia una palese sottostima della dignità della persona. Il processo penale non può essere concepito in chiave dialogica tra accusa e difesa (anche se sono gli attori principali) perché vi è un terzo partecipe a uguale titolo: il soggetto leso. Per tale va intesa anche l’istituzione e, con logica estensione, la comunità nei valori di volta in volta messi in pericolo dal crimine. Ecco che, in tale prospettiva, l’ipotesi di devitalizzare o perfino abrogare l’abuso d’ufficio finisce per ripercuotersi più negativamente su una vittima illustre delle azioni criminali: la pubblica amministrazione che, a causa degli abusi perpetrati nel tempo, ha acquisito connotazioni negative nell’immaginario collettivo. Se si puniscono i soggetti che usano le loro attribuzioni per soddisfare illecitamente interessi privati collidenti con quelli pubblici si favorisce una ripresa di corretti rapporti della comunità con le amministrazioni. Diversamente si convalida la prassi dell’arbitrio. L’eventuale riparazione in quella sede non ferma comunque l’autore in mancanza di sanzione penale. Finirebbe con l’abuso elevato a generale contegno non punibile perché presidiato da precetto simile al decreto 10 Fruttidoro, secondo cui: “I giudici non potranno, sotto pena di tradimento, turbare in qualsiasi maniera le operazioni dei corpi amministrativi né citare davanti a loro gli amministratori a causa delle loro funzioni”. Questo, secondo Bertrand de Jouvenel (Il Potere) dimostra che “la Rivoluzione tolse alla Giustizia la funzione che essa prima esercitava di difendere l’individuo contro gli abusi del Potere”. Per malinteso garantismo si vuole perseguire un risultato così disastroso? L’inerzia del Guardasigilli nelle azioni disciplinari sulle toghe di Ermes Antonucci Il Foglio, 16 dicembre 2022 Negli ultimi cinque anni, il pg di Cassazione ha archiviato 5.142 azioni disciplinari nei confronti dei magistrati. I ministri Bonafede e Cartabia hanno chiesto verifiche soltanto in dieci casi. I numeri impietosi emersi da un’interrogazione di Costa (Azione). Nel corso dell’ultima legislatura, il procuratore generale della Cassazione ha archiviato 5.142 azioni disciplinari nei confronti dei magistrati, trasmettendo la comunicazione al ministero della Giustizia, che ha facoltà di chiedere copia degli atti e promuovere direttamente l’azione disciplinare. I Guardasigilli, Alfonso Bonafede e Marta Cartabia, però, hanno deciso di chiedere copia dei provvedimenti soltanto in dieci casi e di promuovere l’azione disciplinare in quattro casi. Sono i dati impietosi emersi dalla risposta fornita dal ministero della Giustizia a un’interrogazione presentata da Enrico Costa, vicesegretario di Azione e presidente della giunta per le Autorizzazioni della Camera. Dati che dipingono una situazione di quasi assoluta mancanza di controllo sul potere in mano al procuratore generale della Cassazione di archiviare i procedimenti disciplinari nei confronti delle toghe.  Del problema ci eravamo occupati già alcuni mesi fa, evidenziando come lo scandalo Palamara avesse prodotto alla fine pochissime sanzioni a livello disciplinare, grazie all’assoluta discrezionalità delle decisioni dell’allora pg di Cassazione, Giovanni Salvi, e all’adozione di una serie di circolari. In una circolare, ad esempio, Salvi aveva stabilito di non ritenere illecito disciplinare l’autopromozione praticata dai magistrati via chat con Luca Palamara per ottenere promozioni o trasferimenti. In un’altra circolare, Salvi aveva escluso dall’area della punibilità le “condotte scorrette gravi” caratterizzate da “scarsa rilevanza”.  La cosa più incredibile è che, in virtù di un’altra circolare adottata dall’ex pg di Cassazione, nessuno può avere notizia né dello stato dei procedimenti disciplinari nei confronti delle toghe né delle motivazioni in caso di archiviazione di quest’ultimi.  L’unico a poter chiedere copia dei provvedimenti di archiviazione è il ministro della Giustizia, che però si rifiuta di esercitare questa facoltà, come dimostrano i numeri. “Questa è stata l’azione di controllo inflessibile di via Arenula: in due casi su mille il ministero ha chiesto le copie degli atti di archiviazione, in meno di un caso su mille ha smentito il pg della Cassazione”, commenta Enrico Costa al Foglio. “Chiederemo l’accesso agli atti per verificare perché di questa incredibile inerzia addirittura nell’avere la copia degli atti - aggiunge - Senza esaminare gli atti è lecito chiedersi su cosa si possa basare l’acquiescenza verso una simile massa di archiviazioni. Un ulteriore tassello che dimostra come nel nostro paese le vie di fuga dalla responsabilizzazione per i magistrati siano infinite”. “Devo comunque dare atto al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, di aver fornito per la prima volta i dati in maniera trasparente. Avevo infatti presentato la stessa interrogazione nella scorsa legislatura, senza però mai ricevere risposta dal governo”, afferma Costa, che da tempo invoca una riforma per non mantenere più segrete le archiviazioni disciplinari dei magistrati. “Per limitare il potere in mano al pg di Cassazione si potrebbe prevedere che sia il primo presidente di Cassazione a disporre l’archiviazione”, spiega Costa, che ha già ripresentato una proposta di legge in questo senso all’inizio della nuova legislatura. “Inoltre, i provvedimenti di archiviazione devono essere resi ostensibili a tutti quelli che ne hanno interesse e comunque in primo luogo agli autori delle segnalazioni”.  Una riforma non da poco, anche perché non è l’unico campo in cui si registrano esondazioni del pg di Cassazione dal proprio ruolo. Prima che andasse in pensione a luglio, lasciando il suo posto al nuovo pg Luigi Salvato, Salvi ha emanato una circolare che interpreta la nuova normativa introdotta in attuazione della direttiva europea sul rafforzamento della presunzione di innocenza. Una circolare che, nella sostanza, ridimensiona fortemente i limiti posti dal Parlamento alle comunicazioni di informazioni relative ai casi giudiziari da parte dei magistrati. Ecomafie, 84 reati al giorno contro l’ambiente di Luca Martinelli Il Manifesto, 16 dicembre 2022 Anche nel 2021 in Italia sono stati commessi oltre 30.590 reati ambientali, in media quasi 84 al giorno, tre e mezzo ogni ora. Sono i numeri del report Ecomafia 2022, realizzato da Legambiente e presentato ieri. “Un dato preoccupante e che continua a restare alto, nonostante la leggera flessione del -12,3% rispetto ai dati del 2020, mentre crescono gli arresti toccando quota 368, +11,9% rispetto al 2020” spiega l’associazione. Nel 2021 sono stati inoltre contestati 59.268 illeciti amministrativi relativi a questioni ambientali, con una media di 162 al giorno, 6,7 ogni ora. Sommati ai reati ambientali raccontano di un Paese dove vengono accertate ogni ora circa 10 violazioni di norme poste a tutela dell’ambiente. Lo strumento che agevola questa ondata di reati è la corruzione: 115 le inchieste censite da 16 settembre 2021 al 31 luglio 2022, con 664 persone arrestate, 709 persone denunciate e 199 sequestri. Sempre lo scorso anno sono stati 14 i comuni sciolti per mafia nel 2021, a cui se ne aggiungono 9 nel 2022 (gli ultimi in ordine di arrivo, Anzio e Nettuno, entrambi in provincia di Roma). I dati in questo caso non sono solo numeri freddi: si traducono in ferite insostenibili e in alcuni casi anche insanabili per l’ambiente, la cui tutela - dal 22 febbraio scorso - è entrata tra i principi fondamentali della Costituzione italiana. Tra le filiere in cui l’illegalità è più diffusa c’è quello del cemento, che nel 2021 ha visto 9.490 reati (31% del totale), seguito da quello dei rifiuti (8.473) che registra anche il maggior numero di arresti, ben 287 (+25,9% rispetto al 2020) e di sequestri (3.745, con +15%). A seguire ci sono i reati contro la fauna (6.215). Nel 2021 s’è inoltre assistito ad una vera impennata dei reati contro il patrimonio boschivo, ben 5.385 reati tra incendi colposi, dolosi e generici (+27,2%), con una superficie colpita dalle fiamme di oltre 159.000 ettari (+154,8% sul 2020). Crescono in modo significativo anche i reati contro il patrimonio culturale, con l’aumento dei furti di opere d’arte, che arrivano a quota 603 (+20,4%). Le inchieste contro i traffici illeciti di rifiuti monitorate da Legambiente nel 2021 sono state ben 38, contro le 27 dell’anno precedente, mentre nei primi sette mesi del 2022 la cifra è arrivata a quota 17. I quantitativi di rifiuti sequestrati superano i 2,3 milioni di tonnellate, l’equivalente di 94.537 tir: messi su strada, uno dietro l’altro, formerebbero un serpentone di 1.286 chilometri, che da Reggio Calabria potrebbe spingersi al confine con la Svizzera. Da segnalare i 640.195 controlli eseguiti nel settore agroalimentare e il fatto che tra i nuovi interessi delle ecomafie ci sia il traffico illecito degli oli vegetali esausti. Il Conoe stima che ben 15mila tonnellate all’anno sfuggano alla raccolta e al trattamento dei certificati dei consorzi. Complessivamente, gli interessi ecomafiosi nel 2021 hanno mosso 8,8 miliardi. Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, le quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa, subiscono il maggiore impatto di ecocriminalità e corruzione. Qui si concentra il 43,8% dei reati accertati dalle forze dell’ordine e dalle Capitanerie di porto, il 33,2% degli illeciti amministrativi e il 51,3% delle inchieste per corruzione ambientale sul totale nazionale. Tra le regioni del Nord la Lombardia si conferma quella con il maggior numero di illeciti ambientali (1.821 reati, pari al 6% del totale nazionale e 33 arresti). A livello provinciale, Roma, con 1.196 illeciti ambientali, scalza nel 2021 dalla prima posizione Napoli (1.058), che viene superata di misura anche da quella di Cosenza (1.060). Di fronte a questo quadro complessivo, c’è da dire che nel 2021 le forze dell’ordine hanno applicato per ben 878 volte i delitti contro l’ambiente (legge 68/2015). Il delitto in assoluto più contestato è quello di inquinamento ambientale, con 445 procedimenti penali, ma il maggior numero di ordinanze di custodia cautelare è scattato per l’attività organizzata di traffico illecito di rifiuti, con 497 provvedimenti. Il report ecomafia 2022 (realizzato con il sostegno di Novamont, è anche un libro edito da Edizioni Ambiente) è stato presentato a Roma insieme al nuovo restyling del sito noecomafia.it, strutturato come un vero e proprio centro di documentazione on line. Nell’occasione Legambiente ha presentato anche le sue 10 proposte di modifica normativa per rendere più efficace l’azione dello Stato a partire dall’approvazione delle riforme che mancano all’appello e su cui il Governo Meloni deve dare delle risposte concrete, anche in vista della prossima direttiva europea sui crimini ambientali. La prima della lista è l’approvazione anche in questa legislatura la costituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad esse correlati (la cosiddetta Commissione Ecomafia). Cassazione: è stalking anche quando si inviano messaggi ai parenti e agli amici dell’ex Il Dubbio, 16 dicembre 2022 Gli ermellini hanno sostanzialmente confermato quanto già scritto in primo grado dal tribunale di Parma e in secondo grado dalla Corte d’Appello di Bologna. È stalking anche quando si inviano messaggi telefonici dal contenuto persecutorio ai familiari e agli amici della ex. Lo dice la Cassazione valutando la vicenda di uomo accusato di aver perseguitato la precedente compagna in un piccolo centro in provincia di Parma anche tormentando il fratello della ragazza. Nella recente pronuncia diffusa dallo studio Cataldi e letta dall’AGI gli ermellini chiariscono che “integra il reato di atti persecutori la reiterata e assillante comunicazione di messaggi di contenuto persecutorio, ingiurioso o minatorio, diretta a destinatari a essa legati da un rapporto qualificato di vigilanza ove l’agente agisca nella ragionevole convinzione che la vittima ne venga informata e nella consapevolezza dell’idoneità del proprio comportamento abituale a produrre uno degli eventi previsti dalla norma incriminatrice”. In sostanza i messaggi a una persona vicina alla vittima che li riferisce a lei hanno lo stesso effetto dei messaggi “diretti” nel terrorizzarla facendole cambiare le abitudini di vita. La sentenza conferma quanto già stabilito in primo grado dal Tribunale di Parma e dalla Corte d’Appello di Bologna. L’interdizione quinquennale obbligatoria non disposta può essere applicata dalla Cassazione senza rinvio di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 16 dicembre 2022 Le sezioni Unite bocciano l’opposto orientamento secondo il quale la questione andava posta al giudice dell’esecuzione. Il procuratore generale della Corte di appello può impugnare in Cassazione la decisione che non dispone la pena accessoria dell’interdizione temporanea che discende di diritto dalla condanna a pena detentiva non inferiore ai tre anni. E la Cassazione può disporre direttamente l’applicazione della misura accessoria mancante senza bisogno di rimettere la questione ai giudici di merito: cioè con annullamento senza rinvio. Questi i principi in base ai quali le sezioni Unite penali della Corte di legittimità- con la sentenza n. 47502/2022 - hanno bocciato l’orientamento contrapposto secondo cui si tratterebbe di correzione di errore materiale e la competenza a decidere sulla misura mancante spetterebbe al giudice dell’esecuzione. La decisione - Secondo le sezioni Unite penali non vi è alcuna incompetenza del procuratore generale della Corte di appello a impugnare per cassazione una decisione non appellata dal procuratore della Repubblica presso il tribunale. Va infatti sottolineato che anche a fronte dell’emissione di sentenze di primo grado alla procura generale della Corte di appello esse vengono sempre comunicate. A riprova di un interesse processuale comunque sussistente della procura generale a garantire la legalità delle sentenze emesse. Quindi nulla impedisce che anche senza attendere il passaggio in giudicato della condanna non appellata priva della sanzione accessoria imposta dalla legge, il procuratore generale sia interessato alla cassazione della sentenza sul punto mancante. E che necessariamente andava inserito dal giudice che aveva disposto una condanna a tre anni di reclusione. L’integrazione della lacuna della decisione è legittimamente operata senza necessità di rinvio da parte dei giudici di legittimità a quello di merito in quanto l’interdizione dai pubblici uffici non disposta è già predeterminata per legge nella misura fissa di 5 anni - per condanne a partire da tre anni - rendendo appunto superfluo il rinvio e l’apertura di un nuovo procedimento. La questione come detto può essere posta successivamente nella fase di esecuzione, ma non è un rimedio che esclude l’altro del ricorso per cassazione, con conseguente annullamento senza rinvio. Piemonte. Polveriera carceri, tre direttori chiedono di essere trasferiti di Bernardo Basilici Menini La Stampa, 16 dicembre 2022 La difficile situazione delle carceri piemontesi potrebbe peggiorare ancora nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. I vertici delle strutture penitenziarie della nostra regione, infatti, sarebbero in procinto di fare i bagagli per andare altrove. In particolare, tre direttori hanno partecipato alle procedure di interpello, quelle che permettono di essere spostati di ruolo e di sede. Ad attendere l’esito dell’iter, spiega il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano, ci sono i dirigenti “di Novara e Biella, di Asti e Vercelli e di Torino”. Si andrà ad assottigliare ancora il numero di responsabili delle strutture. Già oggi ci sono diverse figure “a scavalco”: otto direttori per 13 carceri, per la precisione. Che potrebbero scendere ancora di due o tre unità. “E come ci insegna la situazione attuale, non è detto che arrivi qualcuno a prendere il loro posto nel breve periodo”, prosegue Mellano. Insomma, non migliorerebbe la situazione né dei 4.080 detenuti in Piemonte né del personale delle case circondariali, da lungo tempo ormai sotto fortissima pressione. Si tratta di un mondo che da anni convive con suicidi, aggressioni e inchieste. Pochi giorni fa, i sindacati della polizia penitenziaria hanno lanciato un allarme. “E hanno una ragione di fondo - prosegue il garante - che è legata alle capienze troppo basse e al personale carente”. Un esempio? A Torino ci sono appena 14 educatori su 1.450 persone ristrette. Insomma, le figure che dovrebbero occuparsi di preparare il reinserimento dei detenuti si devono occupare, ognuna, di cento di questi. Ma la carenza è anche di ispettori e sovrintendenti. Tornando al discorso della capienza, sempre ieri è emerso come al tradizionale problema della scarsità dei posti se ne sia aggiunto un altro: quello di chiusure di padiglioni, sezioni o bracci per lavori. Ad esempio “nel capoluogo chiuderà l’area dei ‘nuovi giunti”, e si perderanno un’ottantina di posti”, racconta Mellano. Poi i cantieri alle carceri di Cuneo, Alba, gli altri lavori a Torino. In totale ci sarebbe un ammanco di 300/400 posti, circa il 10% del totale. Il tutto in una regione che non si può permettere un lusso del genere, visti i tassi di sovraffollamento che ci sono. Eppure le condizioni degli edifici rendono urgente una loro ristrutturazione. Che fare, quindi? “Smetterla con le carceri divise in scatole cinesi. Ho scritto ieri al capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a Roma di garantire a Torino una diminuzione dei circuiti penitenziari e una diversa distribuzione dei detenuti. Ad esempio, i 50 in regime di alta sicurezza possono essere spostati a Saluzzo o ad Asti, che hanno strutture dedicate a quello”. Ma gli esempi positivi non mancano. Proprio in questi giorni, al Lorusso e Cutugno, partirà un progetto curato da Torino Factory (il brand che ha creato giochi come Torino XXL) per far sì che siano gli stessi detenuti a realizzare il loro prossimo prodotto, dopo 90 ore di formazione. La trama sarà incentrata sull’evasione, “ma avrà un significato figurativo, cioè sarà interpretata come un percorso di maturazione personale per un corretto reinserimento in società”, spiega Filippo Einaudi, uno degli ideatori. Milano. Ipm Beccaria, il ragazzino torturato e violentato doveva stare in cella da solo di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 16 dicembre 2022 La vittima era stata trasferita 24 ore prima dell’aggressione dall’infermeria (distrutta da un detenuto) alla cella degli aguzzini. Chi vuol continuare a far finta di non vedere quanto il sovraffollamento e l’inadeguatezza di personale e condizioni logistiche possano indirettamente determinare spaventose violazioni dei diritti umani delle persone detenute può farsene invece una idea dal caso del ragazzino ferocemente abusato in una cella del carcere minorile Beccaria la notte del 7 agosto, ad opera di tre altri minori detenuti tra i quali un giovane (che era appena maggiorenne da quattro giorni) arrestato mesi fa quale “gregario violento nella banda di trapper facenti capo a Simba la Rue e Baby Gang”, nonché già condannato a 1 anno e 4 mesi per rapina, tentata estorsione e minaccia. Il ragazzino abusato - 16enne, egiziano con una esperienza pesante già in un “campo” libico, finito al Beccaria con l’accusa di avere palpeggiato una donna in metropolitana - fin dal suo ingresso nell’istituto aveva mostrato quelle che gli educatori chiamano “difficoltà di adattamento all’ambiente penitenziario e di inserimento tra gli altri ragazzi detenuti”, sicché proprio “a fini di sua tutela” era stato “collocato nel reparto infermeria”.  Ma proprio il giorno prima di essere aggredito, 6 agosto, “è stato necessario spostarlo presso il secondo gruppo di orientamento (dove il 7 accadrà la violenza, ndr) per ragioni organizzative urgenti e non fronteggiabili in altro modo”, e cioè per il fatto che l’infermeria fosse divenuta inagibile dopo che un altro detenuto l’aveva sfasciata. E siccome (tra varie ristrutturazioni in corso e sovraffollamento) non esisteva nemmeno un altro posto dove tenere da solo il ragazzo, ecco che era stato messo in quella cella insieme a quei tre compagni che poi lo hanno aggredito, e che peraltro già all’ingresso del ragazzo avevano “preteso di sapere quale fosse il titolo di custodia cautelare a suo carico”, con ciò tradendo il pretesto e la propensione a “una “rappresaglia punitiva”. Sul punto il gip Guido Salvini ritiene di osservare che “nemmeno possono invocarsi a “giustificazione” culturale e ambientale di quanto commesso” dagli aggressori “alcuni comportamenti “punitivi” frequenti purtroppo in carcere nei confronti degli autori di alcuni reati, in particolare i violentatori di bambini e di familiari. Infatti il reato per il quale” il ragazzo abusato “era detenuto non era di particolare gravità e non era certamente un reato infamante”. Secondo le indagini della pm Rosaria Stagnaro con la Squadra Mobile e la Polizia penitenziaria, “approfittando del cambio di turno degli agenti” i tre compagni di cella sorpresero nel sonno il ragazzo, lo legarono con i polsi alla finestra del bagno fuori visuale, lo violentarono con oggetti, gli spensero una sigaretta in faccia e sul braccio, lo presero a calci inginocchiato, e gli gettarono addosso acqua bollente: “Una elevata crudeltà nel procurare atroci sofferenze, con una determinazione e per un lasso di tempo tali da comportare anche la contestazione del reato di tortura”. Con una conclusione incredibile in quella notte di violenze rievocata dal ragazzo abusato, oggi assistito dall’avvocato Daniela Frigione: infatti l’aggressore neomaggiorenne, quasi non percependo l’orrore della tortura inflittagli, “gli chiese scusa, gli offrì patatine, Coca Cola e sigarette, e gli propose di contraccambiare la violenza subìta con uno schiaffo a ciascun aguzzino, come se in tal modo potessero essere pari e riappacificarsi”.  San Gimignano (Si). Torture su un detenuto, pm chiede pene dai 6 agli 8 anni per gli agenti di Claudio Coli radiosienatv.it, 16 dicembre 2022 Lunga requisitoria e dure richieste di condanna per i 5 agenti accusati di presunta tortura, lesioni, minaccia e falso in relazione al pestaggio di un detenuto. Il pm Valentina Magnini ha chiesto a vario titolo pene dai 6 anni e 6 mesi fino agli 8 anni e 4 mesi per i 5 operatori di Polizia Penitenziaria a processo per il caso del carcere di Ranza, quando l’11 ottobre 2018, un detenuto di nazionalità tunisina avrebbe subito un presunto pestaggio nel corso di un trasferimento di cella, da parte di un gruppo di agenti della Polizia Penitenziaria. Le accuse mosse sono di lesioni aggravate, falso ideologico, minaccia e tortura, contestazione questa al tempo per la prima volta promossa contro appartenenti alle forze dell’ordine. Le istanze del pubblico ministero sono arrivate al termine di una lunghissima e dura requisitoria di oltre 5 ore, nel corso della quale il pm ha ricostruito la genesi e lo sviluppo dell’inchiesta, riportando alcune intercettazioni e facendo visionare e analizzare anche il filmato della videosorveglianza interna alla casa di reclusione valdelsana che riprende la scena del presunto pestaggio. Per il pm non c’erano i presupposti e situazioni emergenziali tali da giustificare l’intervento di 15 operatori per condurre il detenuto da una cella all’altra, recluso che per l’accusa non opponeva resistenza e non era pericoloso come affermato dagli imputati. “Gli agenti volevano dare un segnale, hanno scelto il più debole - ha detto il pm - ha subito un trattamento disumano: calci, pugni, è stato lasciato sporco e senza assistenza medica. Una aggressione totalmente ingiustificata. Qualcuno gli sfila i pantaloni, dove è il rispetto della dignità?”. Per la pm Magnini gli accusati avrebbero utilizzato “un metodo intimidatorio sulle persone che hanno fatto uscire le notizie dal microcosmo del carcere” ravvisando anche una certa “omertà” e uno spirito da “apparato”. Parma. Camera penale: preoccupa la situazione in carcere. Il Comune nomini il garante dei detenuti La Repubblica, 16 dicembre 2022 La Camera Penale di Parma ha appreso con “preoccupazione la grave situazione carceraria denunciata dal garante regionale delle persone private della libertà personale e che interessa il padiglione media sicurezza lato B del carcere di Parma, il quale è privo di acqua calda e riscaldamento in un periodo dell’anno che registra condizioni climatiche maggiormente severe a causa dell’abbassamento delle temperature”.  Per questo la Camera penale - in una nota del consiglio direttivo presieduto dall’avvocato Michele Cammarata - della Camera Penale di Parma” “rinnova il sollecito, rivolto dal Garante, alla direzione, al fine di ripristinare, in tempi rapidi, l’impianto di riscaldamento e di acqua calda e quindi a eliminare le condizioni, che allo stato, determinano un trattamento inumano e degradante” “Evidenziamo, inoltre, all’Amministrazione comunale di Parma l’urgenza e necessità di portare a termine quanto prima la procedura di nomina del Garante Comunale, posizione ormai vacante da undici mesi. La presenza sul territorio di detta figura è in grado di assicurare un intervento immediato ed efficace a fronte delle segnalazioni provenienti dai detenuti, dai loro familiari e dai loro difensori”. La Camera Penale di Parma “continuerà a monitorare la situazione carceraria locale e in particolare le modalità di esecuzione della pena perché siamo convinti che “il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. Bolzano. Morto di freddo sotto il ponte ferroviario a 19 anni: “Mostafa, da studente a imbianchino” di Chiara Currò Dossi Corriere della Sera, 16 dicembre 2022 In cinquanta alla cerimonia per il giovane. Ora una colletta per aiutare la famiglia. “Avevamo lavorato insieme, in Francia, come imbianchini. Quando abbiamo saputo che, a Bolzano, avremmo potuto chiedere asilo e ottenere un permesso di soggiorno, ci siamo messi in viaggio. Appena arrivati, ci siamo rivolti all’infopoint di Volontarius, in zona stazione, che ci ha indirizzati alla mensa della Caritas. Abbiamo chiesto di poter passare la notte al caldo, ma ci hanno detto che non c’era posto. Che avremmo potuto mangiare lì, ma poi ce ne saremmo dovuti andare. Abbiamo girato per la città, finché non abbiamo trovato un posto appartato, dove poter dormire e proteggerci dal freddo. E lì siamo rimasti finché, a un certo punto, sono andato da Mostafa, per svegliarlo, e mi sono accorto che non si muoveva più. E ho chiamato aiuto”. Ha le labbra e le punte delle dita delle mani bruciate dal freddo, Shabaan Alaa. Egiziano anche lui, 32 anni, insieme a Mostafa Abdelaziz Mostafa Aboulela, 19 anni, è arrivato a Bolzano martedì scorso in cerca di un futuro. Ma, quarantott’ore dopo, in un giaciglio di fortuna allestito in via di Vittorio, sotto il cavalcavia ferroviario, si è ritrovato tra le braccia l’amico senza vita. Nel nord dell’Egitto - Mostafa era originario di Gharbeya, nel nord dell’Egitto. Avrebbe compiuto 20 anni il 10 gennaio, ma il freddo l’ha stroncato prima, intorno alle 3 della notte tra giovedì e venerdì scorsi. Di Mostafa, Alaa conosce lo zio, che vive a Innsbruck. “Volevamo prendere i documenti e restare qui - racconta -. Non avevamo un posto dove andare”. E lui, non ce l’ha nemmeno ora, anche se, per lo meno, dopo la morte dell’amico, un letto caldo per la notte l’ha ottenuto. In Egitto, Mostafa aveva finito gli studi. Nel 2017 si era messo in viaggio, lungo la rotta balcanica. Era arrivato in Francia, appunto, dove per qualche mese aveva lavorato come imbianchino insieme ad Alaa. E poi a Bolzano, dove sognava di costruirsi un futuro. “Voleva proseguire gli studi - racconta l’amico -. Per prima cosa, voleva imparare l’italiano”. E mandare qualche soldo a casa, per aiutare la famiglia e la sorella che voleva sposarsi. Il rimpatrio - E invece, quello che la famiglia di Mostafa si vedrà consegnare, sarà il suo corpo. Grazie al Consolato egiziano di Milano, che si è accollato i costi per il trasporto, la salma verrà fatta rimpatriare tra oggi e domani, non appena saranno pronti tutti i documenti necessari. Intanto, è custodito nella camera mortuaria dell’ospedale di Bolzano, davanti alla quale, nel primo pomeriggio di mercoledì, Hany Abdelkarem, ex presidente della Consulta stranieri, ha organizzato una cerimonia, con un imam che ha guidato la preghiera. Vi hanno partecipato in 50, tra egiziani, marocchini, pachistani. Tutti raccolti attorno alla salma di Mostafa, avvolta in una coperta nera, con scritte in arabo gialle. Lacrime, abbracci. La commozione, era visibile. Anche tra coloro che, Mostafa, non hanno fatto in tempo a conoscerlo. “Siamo nella provincia più ricca d’Italia, con un mercatino di Natale visitato da mezzo milione di persone e miliardi di euro speso - sostiene Abdelkarem -. Non è tollerabile che non ci siano centri di accoglienza sufficienti per l’Emergenza freddo”. E soprattutto, non è tollerabile che un ragazzo di 19 anni muoia di freddo. “Tutti noi siamo colpevoli - afferma - non solo le autorità. Se ci fosse stata una pianificazione sufficiente, tra le associazioni, non sarebbe successo. Anche se, in questo, la legge non aiuta: le associazioni hanno paura a far entrare nei propri spazi persone senza documenti, pena l’essere accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. È come se avessimo le manette”. La raccolta fondi - L’intenzione, adesso, è quella di organizzare una raccolta fondi per realizzare almeno una piccola parte del sogno di Mostafa: aiutare la sua famiglia in Egitto. L’appello, è che vi partecipino anche quelle istituzioni che non sono state capaci di dargli l’unica cosa che chiedeva: un posto caldo dove passare la notte. Ma anche tutti i bolzanini. “Inutile far finta di no - afferma Mustafa, a nome della comunità marocchina -. Tra internet e Facebook ci conosciamo tutti. Non c’è differenza tra cristiani e musulmani, tra italiani e stranieri. Aiutiamo la famiglia di Mostafa, che soffre da quando l’ha lasciato partire”. Al suo, si aggiunge l’appello della comunità pakistana, della quale si fa portavoce Muhammad Umar Naz, consigliere di circoscrizione di Oltrisarco: “Tutti quanti, italiani e stranieri, siamo chiamati a fare la nostra parte”. Roma. L’eredità di Falcone e Borsellino: mostra e convegno al Dap di Marco Belli gnewsonline.it, 16 dicembre 2022 Le indagini e i processi alla mafia, l’impegno civico risvegliato nell’opinione pubblica nazionale; ma anche immagini private dell’infanzia e della vita fra le strade di Palermo: nati nello stesso quartiere a distanza di pochi mesi e a distanza di 57 giorni uccisi dalla mafia. Lo racconta la mostra fotografica “L’eredità di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”, realizzata dall’agenzia di stampa Ansa in collaborazione con i ministeri dell’Istruzione e dell’Università: 14 pannelli allestiti presso la Scuola di formazione e aggiornamento dell’Amministrazione Penitenziaria ‘Giovanni Falcone’ di Roma. Immagini che si compongono di scatti provenienti dal vastissimo archivio dell’Ansa e foto private concesse dalle famiglie Falcone e Borsellino, e che hanno offerto lo spunto per una riflessione dedicata all’eredità dei due magistrati, simbolo della lotta alle mafie, simbolo di un impegno che non può e non deve venire meno e del sacrificio di tutti i servitori dello Stato, caduti nell’esercizio del loro dovere. Il convegno, organizzato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria insieme all’Ansa e alla sezione romana dell’Associazione nazionale magistrati, e moderato dal direttore dell’agenzia di stampa Luigi Contu, ha visto gli interventi del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, del capo del Dap, Carlo Renoldi, del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Giovanni Melillo, del presidente e del segretario della sezione di Roma dell’Anm, Luigi Guariniello ed Emanuela Attura, e del dirigente Ansa Francesco Nuccio, curatore dei testi della mostra. Di fronte a loro, nell’aula magna della Scuola, silenziosi e attentissimi, numerosi studenti liceali e alunni delle elementari di due istituti scolastici romani. “Il tributo che noi oggi rechiamo a questi due colleghi è allargato a tutti gli altri servitori dello Stato, o servitori della società civile, che hanno dato la vita durante questi anni” - ha detto il Guardasigilli Nordio. Che ha inoltre ricordato: “Il maggior tributo doloroso è stato dato proprio dal ministero della Giustizia, dall’Amministrazione penitenziaria e dalla Polizia penitenziaria. Il simbolo che Falcone e Borsellino rappresentano è dunque una sorta di riassunto di tutte queste persone, compresi ovviamente i giornalisti, gli avvocati, gli imprenditori, i poliziotti”. Chiosando, alla fine: “Chiunque operi in qualsiasi ruolo nei confronti della mafia, in specie, e della illegalità, in genere, è un loro fratello”. “Le immagini dell’Ansa - ha sottolineato Renoldi - ce li mostrano come persone, prima che eroi. Forse anche per ricordare a ciascuno che è possibile anche per noi essere un po’ eroi ogni giorno: con un atteggiamento di attenzione alle regole, di adesione ai valori della nostra Costituzione e di fedeltà alle istituzioni che serviamo”. Gli ha fatto eco il procuratore Melillo: “Eroi non perché sono morti. Eroi perché hanno vissuto consapevoli del loro destino. Non capita spesso agli eroi di diventare dei miti fondativi del Al termine del convegno, autorità e ospiti hanno visitato la mostra: un racconto per immagini e testi, completato anche da un volume e da un documentario, concepito dall’Ansa dieci anni fa per raccogliere e documentare momenti entrati nella storia del nostro Paese, ma anche per mostrare un profilo più intimo, personale, dei due magistrati divenuti un’icona mondiale della lotta alle mafie. La mostra, rinnovata e aggiornata in occasione delle celebrazioni del Trentennale delle stragi di Capaci e Via D’Amelio, nel corso degli anni ha viaggiato in luoghi dal valore fortemente simbolico, anche all’estero, e in tantissimi istituti scolastici, dove è stata visitata con grande interesse da migliaia di studenti di tutte le regioni italiane. Torino. “Innocenti evasioni”: la fuga dal carcere diventa un gioco da tavola, con l’aiuto dei detenuti delle Vallette torinoggi.it, 16 dicembre 2022 Nuova iniziativa di Torino Factory (quelli di Torino XXL) in collaborazione con Sapori Reclusi e il penitenziario torinese. E per Natale 2022 arrivano le carte da gioco con gianduiotti, toret, agnolotti e la Mole al posto di cuori, fiori, picche e quadri. Un gioco come momento di evasione: battuta fin troppo facile, ma è lo spirito che anima il nuovo progetto di Torino Factory, gruppo di lavoro che da anni ormai propone giochi da tavola legati alla città della Mole (Da Torino XXL a Giratorino, fino a Torino Memory) e che si prepara a tornare con un gioco con le carte, per Natale 2022, dove al posto di picche, fiori, quadri e cuori ci sono agnolotti, gianduiotti, toret e la Mole (e i Savoia a far da figure). Con “Innocenti evasioni” fuggire dal carcere diventa un gioco - Ma accanto a questo gioco tradizionale che allunga la serie di proposte che Torino Factory ha tributato al capoluogo piemontese c’è anche un altro progetto decisamente speciale. Si tratta di “Innocenti evasioni”, un’iniziativa che prevede la collaborazione con alcuni detenuti del carcere delle Vallette e con l’associazione Sapori Reclusi. “Per ora non abbiamo voluto fissare paletti a questo gioco, nemmeno il nome, perché vogliamo lasciare a chi ci darà una mano la massima libertà - dice Francesco Barontini, socio fondatore di Torino Factory - ma ci affideremo a loro anche per aspetti più concreti, come i rapporti con i fornitori, la cura della distribuzione e tutto il resto”. Innocenti Evasioni trova una sponda nell’associazione Sapori Reclusi, che da tempo opera in ambito carcerario. ”Nasciamo all’inizio degli anni Ottanta - spiega Davide Dutto, di Sapori Reclusi - e abbiamo attraversato situazioni anche molto complesse, con viaggi che sono arrivati a territori come Afghanistan, Iran o Ucraina. Il filo conduttore è sempre stato il cibo: uno strumento di dialogo e di relazione tra le persone. E oggi vogliamo partecipare a questo nuovo progetto anche se non si tratta di cucina”. “Il gioco tratterà di una fuga dal carcere, anche se idealizzata. Ma non sappiamo nemmeno noi quale sarà il risultato finale - concorda Massimo Munafò, di Torino Factory -: quel che sappiamo è che avremo 90 ore di tempo, nel corso degli incontri con i detenuti, per scovare e valorizzare talenti e capacità”. La collaborazione con l’istituto artistico Primo - L’istituto che collaborerà fattivamente a questo lavoro sarà l’istituto artistico Primo, che ha appunto una sezione per detenuti. “Selezioneremo un gruppo di persone con requisiti di creatività e la necessaria spinta a partecipare per acquisire competenze e rapportarsi con il mondo esterno - dice Arianna Balma Tivola, responsabile area educativa presso il carcere delle Vallette di Torino -. L’occasione vuole aprire a chi frequenta la possibilità di lavorare, di mettersi alla prova e sperimentarsi”. Un’iniziativa che arriva in un anno in cui si sono moltiplicati episodi di violenza e suicidio, in carcere. “Episodi di questo genere rappresentano la sconfitta dello Stato e di un sistema che fallisce nel suo compito di riabilitazione e recupero delle persone - sottolinea Balma Tivola -. Se già il mondo fuori è complesso e difficile, dentro il carcere lo è ancora in maniera più acuita”. Mellano: “Iniziativa che porta beneficio a un carcere difficile” - “Un’attività come questa - aggiunge il Garante regionale dei detenuti, Bruno Mellano - porta un beneficio a quello che è considerato il carcere più complesso in Piemonte. Ci sono tante parti al suo interno, tante anime, spesso addirittura incompatibili tra loro. Ma un’iniziativa come Innocenti Evasioni può mostrare ancora di più è meglio come è fatta la condizione dei 4080 detenuti attualmente presenti in Piemonte. I tanti casi drammatici di questi ultimi mesi testimoniano la presenza di una vera e propria pentola a pressione che spesso non trova le risorse e le capacità per essere disinnescata”. Competenze e un percorso per “restituire” qualcosa al territorio - “Un gioco da tavolo ha una sua forma nel momento in cui inizialmente lo pensi, ma nel processo che lo porta al momento di arrivare sul tavolo per essere provato dal pubblico ha già attraversato una dinamica complessa, fatta di fornitori, rapporti, distribuzione e altro ancora - conclude Barontini -. Con questa iniziativa, speriamo che le competenze che abbiamo saputo sviluppare in tutti questi anni possano essere una forma di servizio e di restituzione nei confronti del territorio”. La riforma che serve all’Europa di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 16 dicembre 2022 Diversamente da quanto avviene nei loro Paesi, i cittadini ignorano quali siano le competenze dell’assemblea di Strasburgo e non pensano che il voto sia collegato a un governo. Il caso Qatar e i suoi insegnamenti. È una celebre affermazione di James Madison, un padre fondatore della democrazia americana, quella secondo cui gli esseri umani necessitano delle istituzioni di governo perché “non sono angeli”. Fra quelle istituzioni vanno anche comprese polizie e tribunali. Poiché gli esseri umani non sono angeli, in tutte le democrazie si registrano, periodicamente, episodi di corruzione. Intendendo per corruzione l’attraversamento illegale, ossia in violazione di leggi vigenti, dei confini fra sfera pubblica e sfera privata. Ci sono però circostanze che possono rendere il fenomeno particolarmente pesante. La democrazia bloccata in Italia durante la Guerra fredda, col tempo, favorì uno sviluppo molto consistente di quegli attraversamenti illegali. Si scopre ora che anche il Parlamento europeo era esposto allo stesso virus. Forse hanno contribuito alcune caratteristiche di tale istituzione. Prima di tutto: ma davvero il Parlamento europeo è, in quanto eletto, un organo “rappresentativo”? Certo, formalmente, lo è. Ma lo è anche sostanzialmente? Dal 1979 i cittadini europei eleggono, divisi per Paesi, i membri dell’assemblea di Strasburgo. Quanto basta perché si dica che il Parlamento europeo è una istituzione “democratica” (secondo i principi della democrazia rappresentativa), l’unica i cui membri vengano scelti direttamente dai cittadini. Il problema però è che quando i cittadini “scelgono” i loro (supposti) rappresentanti non lo fanno perché, attraverso quel voto, intendano condizionare le attività del Parlamento europeo. Per due ragioni strettamente collegate. In primo luogo, perché, a schiacciante maggioranza, ignorano quali siano le competenze del suddetto organo. E, in secondo luogo, perché pensano che il loro voto non sia collegato alle sorti di un governo. Quando un cittadino vota per il rinnovo del Parlamento nazionale lo fa, prima di tutto, per influenzare la formazione del governo. Egli sa che esiste una connessione stretta fra i risultati delle elezioni e il tipo di governo che si formerà, sa che, a seconda di quei risultati, nascerà un governo coerente con i suoi interessi oppure un governo che li avversa. Persino in una repubblica presidenziale (o semi-presidenziale), quando si vota per il rinnovo del Parlamento non si vuole solo premiare un candidato o un partito. Si intende anche sostenere o contrastare il presidente in carica. Nel caso europeo non c’è nulla di tutto questo. Tranne gli addetti ai lavori che sanno come la forza dei vari raggruppamenti parlamentari europei incida - ma insieme ai governi nazionali - sulla composizione della Commissione, i cittadini comuni non ne sanno nulla. Mentre il Consiglio europeo, essendo organo intergovernativo, fa storia a sé. Da qui l’inesistenza di incentivi ad informarsi sulle attribuzioni della assemblea di Strasburgo. Da qui, soprattutto, il carattere sui generis delle elezioni del Parlamento europeo. Elezioni che hanno una doppia caratteristica. La prima è l’elevato astensionismo (molti cittadini europei, da sempre, non votano perché non capiscono che senso abbia quel voto). La seconda è che coloro che votano lo fanno per ragioni che nulla c’entrano con l’elezione in questione: lo fanno per manifestare consenso o dissenso nei confronti del governo nazionale. Usano il voto europeo per mandare un “messaggio” a governo e partiti nazionali. Le elezioni europee sono soprattutto un grande sondaggio in cui le forze politiche dei vari Paesi misurano il consenso di cui godono. Si spiega così perché il legame fra gli elettori e gli eletti al Parlamento europeo sia debole. O inesistente. Non c’è un’opinione pubblica qualificata attenta a ciò che fa il Parlamento europeo. Mentre c’è, più o meno, in sede nazionale. In ambito europeo, una volta depositate le schede, la maggior parte dei cittadini non saprà nulla di ciò che accadrà in quella assemblea. Date le vere motivazioni del voto, non avrà alcun interesse ad informarsi. È ovvio che ciò dipende dalle caratteristiche della costruzione europea. L’ortodossia europeista ne trae la conclusione che occorra creare un vero governo democratico dell’Unione. Ma nell’attesa (campa cavallo) che ciò si realizzi che si fa? Sono sempre esistiti (legittimi) dubbi sulla possibilità di una democrazia europea. Per la distanza psicologica, e per le barriere linguistiche, che separano i cittadini dalle istituzioni dell’Unione. Nonché per le differenti tradizioni culturali. Un grande sociologo, Ralf Dahrendorf (era un europeista, membro della Commissione negli anni Settanta) sosteneva, per queste ragioni, che la democrazia può esistere all’interno degli Stati nazionali europei ma è difficilmente trasferibile sul piano continentale. Possiamo non condividere lo scetticismo di Dahrendorf ma non possiamo sostenere che egli agitasse un falso problema. Torniamo al Qatargate e alla corruzione. L’inesistenza di un’opinione pubblica qualificata che possa esercitare un controllo sull’attività del Parlamento europeo, a sua volta conseguenza dei caratteri di tale istituzione, rende assai difficile immaginare che si possano accendere riflettori in grado di restare puntati in permanenza su quell’assemblea assicurando così una certa trasparenza ai suoi lavori e ai comportamenti degli eletti. Certamente, ora verrà usata la scopa per fare pulizia. Ma senza che si possa risolvere il problema “strutturale” che ne spiega le tante opacità. Dato che ciò non costa nulla, si può mettere al lavoro l’immaginazione. In attesa della mitica democrazia europea, forse le cose migliorerebbero un po’ se i governi si accordassero per una riforma che faccia dell’elezione del Parlamento europeo, anziché la somma di tante elezioni quanti sono i Paesi-membri dell’Unione, una vera elezione su scala continentale. Nella quale i cittadini votino per liste europee, per raggruppamenti europei. Resterebbe l’assenza di un collegamento stretto fra l’elezione del Parlamento e il governo dell’Unione. Ma forse finirebbe l’epoca delle elezioni-sondaggio. Con possibili benefici effetti sulle relazioni fra cittadini e Parlamento europeo. Ovviamente, ciò non accadrà, per lo meno nel breve-medio termine. Ma sollevare il tema può almeno impedire che si cada dalle nuvole quando si scoprono le opacità e i comportamenti illeciti che ne discendono. Sarebbe bello che lo fosse ma il Parlamento europeo, nonostante le opinioni correnti, non è (ancora?) una vera “istituzione democratica”. Migranti. Meloni chiede un vertice, Macron conferma la data. Piantedosi: l’ombra dei servizi esteri dietro le Ong di Emanuele Lauria La Repubblica, 16 dicembre 2022 Il debutto al Consiglio europeo della premier Meloni, che invoca un vertice Ue ad hoc, confermato poi dal presidente francese. L’Olanda: tradito il trattato di Dublino, troppi arrivi non registrati nei porti di sbarco. E il ministro dell’Interno invoca “sanzioni più efficaci e un codice di condotta” per le navi umanitarie. Il tema, rubricato alla voce “vicinato meridionale”, era stato posto in coda all’ordine del giorno. Ma quando i Grandi d’Europa si sono trovati ad affrontarlo non sono mancate le scintille. E la presa d’atto di una distanza non colmata, sull’immigrazione, fra l’Italia e altri Paesi dell’Ue. La miccia l’accende il premier olandese, Mark Rutte, che nei lavori pomeridiani del consiglio europeo chiede che sia affrontato il tema dei movimenti secondari. Ovvero dei flussi di richiedenti asilo che, non registrati nel Paese d’approdo, si spostano verso nord in barba alle regole. Un’implicita accusa all’Italia, già nel mirino durante una recente riunione fra i ministri dell’Interno dei governi del Nord dell’Europa con Francia e Germania. In quell’occasione il segretario di Stato belga con delega specifica, Nicole De Moore, ha fatto notare che l’Italia affronta gli sbarchi ma non è il Paese che accoglie più migranti. La tesi è che vengano violate le regole di Dublino. “Ormai siamo tornati al 2015 e 2016, il problema è generale, porlo non è un modo per andare contro i Paesi meridionali”, spiega una fonte diplomatica. Ma anche Austria e Belgio, a margine del consiglio, pongono il problema. “Nel nostro Paese ci sono state 100 mila richieste, di cui 75 mila persone non registrate. È un problema di sicurezza nazionale che va affrontato anche con il rafforzamento dei confini”, dice il cancelliere austriaco Karl Nehammer. È un altro aspetto, non meno delicato, del dossier migrazioni. Un altro punto di attrito. Ma Giorgia Meloni, nel corso del vertice, rintuzza l’assalto. Ribalta il problema: “La questione non è la migrazione secondaria, ma quella primaria. E il fatto che l’Italia è costretta ad affrontare quasi da sola l’impatto di migliaia di persone che arrivano dalle sponde settentrionali dell’Africa”. La premier insiste per una soluzione europea, che vada oltre l’attuale accordo sui ricollocamenti e lo ribadisce davanti agli altri capi di governo, dopo aver ricevuto il “caloroso benvenuto”, per il suo debutto in questo consesso, da parte del presidente del consiglio europeo Charles Michel. E il presidente francese Emmanuel Macron del vertice comunica non solo la definizione ma già la data: “Un Consiglio Europeo straordinario si terrà il 9 e 10 febbraio dell’anno venturo, e sarà concentrato sulle “migrazioni” e sulla risposta all’Inflation Reduction Act adottato dagli Usa”. Macron l’ha detto in conferenza stampa a Bruxelles. Meloni fa sapere che la migrazione non può continuare a essere gestita in assenza di una soluzione strutturale in Europa: per lei, va evitato un “approccio predatorio” al fenomeno migratorio. “La migrazione è un tema centrale per Italia - afferma - un tema complesso su cui gli Stati membri hanno talvolta visioni differenti ma sul quale è importante dare un segnale politico e un impegno chiaro da parte dell’Ue e, se necessario, palandone in un vertice ad hoc”. La questione è rinviata a un consiglio europeo straordinario di inizio febbraio. Raffaele Fitto, l’unico rappresentante della delegazione italiana che in serata si presenta davanti ai giornalisti, minimizza la questione delle migrazioni secondarie: “Le critiche sono, sinceramente, abbastanza singolari. Avevamo un obiettivo, che era quello che questo tema diventasse centrale nella discussione europea e questo è accaduto: un risultato molto importante”. Sullo sfondo rimangono tensioni non sopite, come quelle con la Francia: il ministro dell’Interno Nicola Piantedosi, alla festa di Fratelli d’Italia, attacca le Ong minacciando nuove sanzioni, dice che le Ong sono “inutili” ed esprime il sospetto che “talune formazioni siano ispirate, non so se per effetto di servizi segreti, a creare un meccanismo di condizionamento”. A livello europeo se ne riparlerà l’anno prossimo. Ma Meloni lascia Bruxelles ottimista, anche per avere incassato - spiega Fitto - “un grande successo sulla minimum tax”, la tassa sulle multinazionali che vale 5 miliardi. La premier incontra i leader di Polonia e Repubblica Ceca e supera le resistenze. Lasciando così un’impronta sovranista nella sua prima visita alla casa dell’Europa. In viaggio con i migranti da Ventimiglia a Mentone: “Sfidiamo il Passo della Morte per arrivare in Francia” di Massimo Calandri La Repubblica, 16 dicembre 2022 Ogni notte un centinaio di persone si arrampica sui monti aiutate dai ‘passeur’: “Che bello poi ricevere le foto di chi ce l’ha fatta”. “Segui le briciole lungo il cammino”. Come Pollicino. Sono sparse sul sentiero che dal paesino di Grimaldi s’inerpica nel bosco fino alla rocca Giralda, lassù. Il Passo della Morte. Dove una griglia in fil di ferro arrugginito segna il confine tra Italia e Francia. Jeans, ciabatte, maglioni, spazzolini da denti, giocattoli, trolley, bottiglie di plastica. Le briciole. Quello che non è più necessario e pesa, intralcia, in un’ora di dura salita che si fa sempre più impervia. Servono le mani libere, essere leggeri. Ci sono punti dove devi aggrapparti a una corda per arrampicarti, altri che scivoli nel fango - quanta pioggia e nevischio, in questi giorni - e afferri ciuffi di rosmarino, schivi i rami dei pini. Ogni volta che c’è un ostacolo più complicato da superare, qualcuno abbandona qualcosa. Una tuta da ginnastica. Un tubino nero con inserti in metallo dorato. Un pallone verde, un pigiamino da bimbo. Un Corano, un rosario. In cima, hanno aperto un grande buco nella griglia: ci arrivi sudato fradicio, pure se si muore di freddo. Ancora venti passi, e là sotto ecco l’elegante Mentone. Più lontano si intravvede Nizza. Sembra un miraggio. Ogni giorno - soprattutto la notte, alla luce dei telefonini - un centinaio di migranti, comprese intere famiglie, affronta di nascosto questo percorso. Il numero è aumentato dal mese passato, quando il governo transalpino dopo il caso della Ocean Viking ha rinforzato i controlli di frontiera con 400 gendarmi e agenti. Tra Liguria e Francia, in pochi chilometri sei valichi: Ponte San Ludovico e San Luigi, l’Olivetta e il Fanghetto; poi l’autostrada e la ferrovia. Tutti blindati. Non resta che il Passo della Morte, secolare segreto dei contrabbandieri: durante il fascismo ci sono transitati migliaia di ebrei e dissidenti, anche Sandro Pertini. Nel dopoguerra, gli jugoslavi. È allora che ha preso questo brutto nome, perché tra il 1945 e il 1955 circa 150 persone sono morte precipitando dalla rocca, tradite dal buio: “Si emozionavano, vedendo le luci della Costa Azzurra. Pensavano di avercela fatta e scendevano subito a valle. Troppo pericoloso”. Enzo Barnabà, storico del luogo, conosce ogni centimetro di questo cammino. Insieme ad altri volontari ha chiuso con dei massi il sentiero nel punto in cui si fa più rischioso. Negli ultimi anni, solo un migrante è precipitato. Altri due sono stati soccorsi con un elicottero. “Ora passano più a nord: allungano di diversi chilometri, ma cosa volete che sia per questa gente?”. Dall’altra parte della frontiera, la polizia francese pattuglia le strade asfaltate a ridosso delle piste sterrate, usa i militari della Legione straniera. “Meglio continuare per le montagne”, ripete Enzo. Nell’oscurità, seguendo mappe disegnate a mano: si prende per il Plan du Lion, verso il paesino di Castellaro - state ai margini, guai ad attraversarlo! - dopo qualche ora c’è una piccola stazione ferroviaria, niente controlli. Il primo treno passa alle 5 del mattino: ci vogliono 30 minuti per arrivare a Nizza. E 10 ore per raggiungere Parigi. Ventimiglia è l’imbuto del popolo migrante che dall’Italia vuole andare in Francia e poi nel resto d’Europa. In un anno, Caritas Intemelia soccorre 15.000 persone. La stima complessiva è circa il triplo: 40.000 transitano di qui e tentano di passare. I gendarmi francesi ne respingono ogni giorno un centinaio. Ci riprovano subito. Si affidano a passeur, in genere di origine maghrebina: “Con 150 euro ti garantiscono di andare al di là del confine, ma spesso li abbandonano, li derubano” spiega Jacopo Colomba, di WeWorld Onlus. A mezzogiorno, lungo il sentiero spuntano tre ragazzi tunisini, uno del Ghana, due sudanesi. Wael e Jallili mostrano i fogli di respingimento dalla frontiera, rilasciati solo due ore prima dalla polizia. “Ci hanno preso ieri sera, a Mentone”. Avevano già affrontato il cammino per il Passo della Morte, però dopo pochi minuti hanno preferito deviare, raggiungendo il ponte dell’autostrada che corre sotto. “E a piedi siamo arrivati in Francia”. Camminando con le auto che ti sfiorano di centimetri. “Che problema c’è?”. Negli ultimi anni, tre migranti sono stati travolti e uccisi. Due ragazze eritree sono precipitate del Ponte del Passo: una è morta, l’altra è rimasta tetraplegica. “Questa volta, niente autostrada”, promette Wael. “Giuro: in un modo o nell’altro, ce la faremo”. Buona fortuna. In serata manda una fotografia col cellulare: è già arrivato a Tolone. E poco dopo, un video: “Sono in viaggio, direzione Belgio!”. Filippo Lombardo, pensionato: con la moglie Loredana e il Gruppo Scuola di Pace distribuisce cibo ai migranti accampati a Ventimiglia, lungo il fiume Roja. “Abbiamo deciso di dare un mano nell’agosto del 2020, quando hanno chiuso il centro della Croce Rossa che ospitava circa 700 persone”. Nella sua casa di Ventimiglia Alta accoglie diversi migranti. “I più fragili, indifesi. Per tutto il tempo che serve”. Vicino alla stufa accesa sta dormendo Sergine, una ragazzina ivoriana di 15 anni. “I francesi l’hanno fermata: per legge dovevano occuparsi di lei, è una minore. Invece la polizia l’ha spintonata al di là del confine. Come un animale. Sola, di notte”. Quante persone avranno dormito da Filippo, in questi anni? “Quattro o cinquecento”, sorride sereno. “Le cose sono peggiorate, col governo italiano che fa il braccio di ferro. E noi non possiamo restare inerti, di fronte a tanta ingiustizia”. Ha deciso di diventare anche lui un passeur. Solidale. “All’inizio sono sospettosi, perché non chiedo soldi. Poi diventiamo amici, fratelli. Mostro il cammino e dico loro: seguite le briciole”. Reporters Sans Frontières: la Cina è il Paese con più giornalisti in carcere di Gianluca Modolo La Repubblica, 16 dicembre 2022 Non è un Paese per giornalisti. Anche quest’anno la Cina si conferma la nazione con più cronisti in carcere, secondo l’ultimo rapporto di Reporters Sans Frontières: 110. Il documento pubblicato oggi segnala un nuovo record a livello mondiale: 533 professionisti dei media imprigionati nel 2022, rispetto ai 488 dell’anno scorso. A seguire la Cina in questa triste classifica ci sono Myanmar (62), Iran (47), Vietnam (39) e Bielorussia (31). Anche quest’anno il numero delle vittime in tutto il mondo è salito a 57, mentre 65 giornalisti sono tenuti in ostaggio e 49 risultano dispersi.  “Anno dopo anno, la Cina mantiene il suo status di maggior carceriere di giornalisti al mondo. Sebbene il numero sia leggermente inferiore a quello dell’anno scorso (127, ndr), 99 giornalisti sono detenuti nelle carceri della Cina continentale e 11 in quelle di Hong Kong. L’assenza di nuove incarcerazioni nel 2022 non è tanto un segno di miglioramento della situazione, quanto il risultato di un’oppressione implacabile, di una censura sempre più estesa e di una sorveglianza di vasta portata”, si legge nel rapporto.  Sempre più donne - A crescere, globalmente, è il numero delle giornaliste dietro le sbarre: da 60 nel 2021 a 78 quest’anno. Ed è proprio il rapporto di Rsf, alla voce Cina, a ricordare che nel Paese del Dragone sono 19 le donne in carcere, altro record. Due i casi più noti: Zhang Zhan e Huang Xueqin. I due casi più noti - La prima è la blogger 38enne che aveva documentato i primi giorni della pandemia a Wuhan nel 2020. A causa dei suoi racconti pubblicati sui social, a dicembre dello scorso anno era stata condannata a quattro anni di prigione. Dopo l’ennesimo sciopero della fame, era stato il fratello all’epoca a denunciarne le condizioni in carcere: “Potrebbe non superare l’inverno. Se dovesse morire, voglio che tutti la ricordino com’era”. A novembre 2021, l’ultima volta che i parenti l’hanno potuta vedere, Zhang, alta un metro e 77, pesava meno di 40 chili. Huang Xueqin è una giornalista che in questi anni ha aiutato varie donne a raccontare le loro storie di violenze subite. Il 19 settembre 2021 è stata arrestata a Canton. “Incitamento alla sovversione del potere statale”, l’accusa. Huang aveva già un biglietto aereo in tasca: il giorno dopo sarebbe dovuta partire per l’Inghilterra per frequentare un master all’università del Sussex. Per il suo lavoro - storie di molestie sessuali su donne e ragazze oltre che inchieste su corruzione e inquinamento - Huang era già stata arrestata due volte, accusata di “provocare disordini”: la tipica etichetta che qui appiccicano addosso a chi parla troppo. È detenuta senza processo da oltre un anno. India. “Padre Stan tenuto in carcere nove mesi con prove prefabbricate” di Lucia Capuzzi Avvenire, 16 dicembre 2022 Il centro Arsenal consulting ha dimostrato che i documenti compromettenti erano stati introdotti nel pc del gesuita dalle stesse forze di sicurezza. Swamy, 84 anni e malato di Parkinson, è morto in cella. Padre Stan Swamy è rimasto per 233 giorni nel carcere di Taloja di Mumbai - dove è morto il 5 luglio 2021 - in base a prove fabbricate. Il gesuita 84enne e attivista per i diritti umani l’ha sempre sostenuto. Ora, a confermare le sue affermazioni, è il prestigioso Arsenal Consulting, centro internazionale specializzato nelle analisi forensi digitali a cui la difesa ha affidato l’esame del computer del sacerdote. Al suo interno, la National investigation agency del Jarkhand, Stato dove viveva, aveva detto di avere trovato i documenti che collegavano padre Stan alla guerriglia marxista. Il punto è che erano state le stesse autorità a piazzari nell’hard disk per accusare di terrorismo il prete diventato troppo “scomodo” a causa della sua difesa della minoranza nativa Adivasi. Arsenal consulting ha dimostrato che il pc è stato hackerato in più riprese. La prima nell’ottobre 2014, poi di nuovo nel giugno 2017 e, infine, due anni dopo. Il 5 giugno 2019, i pirati informatici hanno introdotto una cinquantina di files, tra cui quelli decisivi per incriminarlo. Il 12 giugno successivo, l’intelligence ha fatto irruzione a casa del religioso a Ranchi e ha prelevato l’apparecchio su cui si è basato l’intero caso. L’arresto è avvenuto l’8 ottobre. Nonostante i dubbi, espressi fin dall’inizio da esperti e attivisti per i diritti umani, padre Stan non è più tornato a Ranchi. A dispetto del Parkinson e l’età avanzata, è stato tenuto in cella nove mesi. Nemmeno gli evidenti sintomi del Covid hanno portato le autorità a rilasciarlo nonostante le ripetute richieste di libertà su cauzione. La vicenda del sacerdote ha provocato un coro di critiche dal mondo, in primis da parte del Parlamento britannico e dagli Stati Uniti. Le Nazioni Unite hanno definito la morte del gesuita una macchia indelebile per i diritti umani in India. E quello di padre Stan, oltretutto, non è un caso isolato. Per la stessa ragione del religioso, sono finiti in carcere altri sedici noti attivisti per i diritti umani. Undici di loro sono tuttora reclusi, Gautam Navlaka è agli arresti domiciliari. “Noi gesuiti indiani, continuiamo a stare al fianco di quanti sono incarcerati ingiustamente a causa della difesa dei più poveri”, ha sottolineato padre Joseph Xavier, confratello di Stan e responsabile del suo comitato di difesa nel ringraziare Arsenal per avere ristabilito la verità.