Covid e carcere, un’occasione per la giustizia di Luigi Manconi La Repubblica, 15 dicembre 2022 Il 31 dicembre scade la normativa legata all’emergenza Coronavirus e negli istituti penitenziari italiani potrebbero tornare 700 persone. Uomini e donne che in questi due anni hanno avuto la possibilità di trovarsi un alloggio esterno dove vivere, tornare dopo lavoro, riabbracciare i propri cari. Senza delinquere. Il 31 dicembre scade la normativa legata all’emergenza anti-Covid e negli istituti penitenziari italiani potrebbero tornare 700 persone. Questa, infatti, sarebbe la diretta conseguenza di quanto accadrebbe se il Governo non accogliesse la richiesta dei Garanti regionali dei diritti delle persone private della libertà di prorogare la licenza straordinaria per i condannati e le condannate in semilibertà. Più di due anni fa, infatti, quando il virus correva veloce fuori e soprattutto dentro il carcere, tra le misure adottate ci fu anche quella che prevedeva, per le persone detenute in semilibertà, di non rientrare in istituto di notte, limitando così ulteriori rischi di contagio. Uomini e donne che in questi due anni hanno avuto la possibilità di trovarsi un alloggio esterno dove vivere, tornare dopo lavoro, riabbracciare i propri cari e, quindi, ricostruirsi una quotidianità. Persone che hanno scontato quasi tutta la pena in istituto e che, da quando hanno avuto accesso a questa opportunità, nella stragrande maggioranza dei casi non hanno commesso reati né infrazioni disciplinari. Prorogare questa misura sarebbe in linea con quanto prevede la nostra Costituzione e, ancor di più, lo sarebbe immaginarsi una sanatoria valida una volta per tutte, invece di ritrovarci - puntualmente - a dover rincorrere le scadenze. Quello che chiedono i garanti è di permettere a questi detenuti di accedere, per legge, all’affidamento in prova al servizio sociale o alla liberazione condizionale, così da espiare la pena senza dover tornare in carcere. Durante la pandemia le sezioni nido all’interno degli istituti si erano pressoché svuotate (fece scalpore il caso di Eduard, unico bambino recluso a Rebibbia, insieme a sua madre, nel maggio del 2020), grazie all’accesso, per le madri detenute, alle pene alternative. In quel periodo molti furono gli appelli affinché la pratica inaugurata durante l’emergenza sanitaria diventasse strutturale, fino a prevedere la definitiva chiusura di quelle sezioni all’interno degli istituti a favore del ricorso a case famiglia protette. Così non è stato e, oggi, ancorché pochi, i bambini continuano a vivere in carcere con le loro madri. La possibilità di accedere alle pene alternative, giova ricordarlo, non fu una gentile concessione, quanto un diritto previsto per legge, specialmente nei casi di pene brevi a carico di donne con figli con meno di tre anni. Il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha recentemente ribadito come la certezza della pena non significhi, automaticamente, certezza del carcere. Auspicando che tale indiscutibile principio possa prima o poi valere anche per quelle madri detenute, mi chiedo se non sia il momento per il Governo di cogliere l’occasione per rispettare l’articolo 27, comma 3, della Costituzione e, con esso, la vita di centinaia di persone. Scadono le schede sim per le videochiamate, a rischio l’affettività di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 dicembre 2022 Il Dap ha reso “ordinario” l’utilizzo dei cellulari distribuiti 2 anni fa per consentire il colloquio tra detenuti e famiglie. In alcune carceri già sono inutilizzabili. A fine dicembre scade il contratto per tutti. Si ritorna al passato “pre covid” nei penitenziari. Altri passi indietro. Il Dubbio ha appreso che i cellulari distribuiti dal Dap più di due anni fa per consentire le videochiamate tra detenuti e famigliari, man mano stanno diventando inutilizzabili. Già in alcune carceri, come a Ferrara, le schede sim sono scadute. Ma a fine dicembre le schede telefoniche che permettono di collegarsi ad internet scadranno per tutti i 1.600 telefonini distribuiti. Il Dubbio è venuto a conoscenza che non tutti gli istituti penitenziari hanno una potente fibra ottica per sopperire alle sim scadute per consentire le videochiamate a tutti i detenuti, diventate fondamentali e recentemente valorizzate con una circolare dell’amministrazione penitenziaria. Dal prossimo anno tutto sarà più complicato. A marzo del 2020, il Dap ha consolidato con Tim un’importante partnership che ha consentito di mettere a disposizione degli istituti penitenziari 1.600 apparati mobili utilizzabili per le telefonate e soprattutto per le videochiamate tra i ristretti e i loro familiari. Questo per sopperire al blocco dei colloqui a vista, una restrizione dovuta per evitare il contagio da coronavirus. Una iniziativa, scaturita anche dall’allarme lanciato dalle associazioni, in particolare Antigone, le quali chiesero che a tutti i detenuti fossero concesse chiamate e videochiamate in più rispetto a quanto previsto dai regolamenti. Quella richiesta fu accolta e nel giro di pochi giorni nelle carceri di tutto il Paese arrivarono 1.600 dispostivi, senza che ci fossero problemi dal punto di vista organizzativo e della sicurezza. Questa iniziativa servì a riportare la calma negli istituti di pena e consentì ai detenuti di mantenere il rapporto con i propri affetti anche in quel periodo di chiusure parziali o totale. Questa iniziativa, scaturita dall’emergenza pandemica, nel tempo si rivelò fondamentale, tanto da avvicinarsi al discorso della valorizzazione dell’affettività promossa dagli Stati generali per l’esecuzione penale e adeguarsi come tutti gli altri Paesi europei. Ma se da una parte è finita, almeno per ora, l’emergenza covid, dall’altra è arrivata quella drammatica dei suicidi. Con l’ultimo suicidio, avvenuto martedì scorso a Poggioreale, siamo arrivati a quota 80 dall’inizio dell’anno. Ed è anche per far fronte a questa emergenza che il Dap, a settembre scorso, ha emanato una circolare che “stabilizza” le videochiamate e le telefonate dei “ristretti” ai loro familiari. Con il provvedimento numero 3696/6146, infatti, “si intende favorire” il ricorso a questo mezzo di comunicazione, definendolo “particolarmente idoneo ad agevolare il mantenimento delle relazioni socio-familiari e soddisfare le imprescindibili esigenze di sicurezza”. Le videochiamate vengono così estese a tutti i circuiti penitenziari (54mila circa i soggetti interessati), esclusi quelli del regime speciale previsto dall’articolo 41bis dell’ordinamento che riguarda i condannati per reati più gravi che si trovano in stato di isolamento. La circolare individua inoltre alcuni criteri per impedire ai “furbetti” “condotte inappropriate” delle videochiamate e per facilitare il già gravoso compito del personale penitenziario. Il principio è che in un momento di sconforto, quando un detenuto sta sull’orlo della disperazione, una telefonata a una persona cara, poterne vedere il volto e il sorriso, può salvargli la vita. Le videochiamate, come già detto, furono introdotte due anni fa in via sperimentale durante la crisi pandemica quando arrivarono nelle carceri italiane 1.600 cellulari. Vengono quindi riconosciute come un modo ordinario per assicurare a chi vive dietro le sbarre il diritto all’affettività, cioè al mantenimento delle relazioni con i propri cari e con la società, diritto previsto dalla Costituzione. Ma se le schede sim non verranno rinnovate, e in alcuni carceri sono già scadute, come si potrà mettere in atto la circolare innovativa del Dap? Ennesimo ritorno al passato. L’indulto di Papa Francesco di Valter Vecellio L’Opinione, 15 dicembre 2022 Papa Francesco invita i governanti, in vista del Natale, a concedere un indulto. La richiesta è rivolta a tutti i capi di Stato. L’indulto è un provvedimento che in Italia compete al Parlamento. Chissà se e come verrà raccolta, questa sollecitazione. Il capo dello Stato Sergio Mattarella ha però un potere, quello di “Grazia”. Scelga lui, come esempio, un congruo numero di detenuti a cui concederla. Gesto simbolico e denso di significato, che degnamente potrebbe anticipare il discorso di Capodanno ormai vicino. Perché una riflessione e una sollecitazione agli ottanta e più suicidi ufficiali nella e della comunità penitenziaria, ci sta davvero tutto. Questa la notizia diffusa da Vaticannews: Lettera di Francesco ai capi di Stato perché concedano l’indulto a coloro che “ritengano idonei a beneficiare di tale misura”, affinché “questo tempo segnato da ingiustizie e conflitti, possa aprirsi alla grazia che viene dal Signore”. Il gesto simbolico già compiuto nel 2000 da Giovanni Paolo II e poi nel 2002. Anche Bergoglio aveva lanciato lo stesso invito per il Giubileo dei carcerati del 2016. Un “gesto di clemenza” per i detenuti e chi è privato della libertà. È la richiesta che il Papa tramite una lettera sta inviando a tutti i capi di Stato in vista del Natale, invitandoli a compiere un gesto simbolico “verso quei nostri fratelli e sorelle privati della libertà che essi ritengano idonei a beneficiare di tale misura”. “Perché questo tempo segnato da tensioni, ingiustizie e conflitti, possa aprirsi alla grazia che viene dal Signore”, è la motivazione riportata in una dichiarazione del direttore della Sala stampa vaticana, Matteo Bruni. L’appello di Giovanni Paolo II nel 2000 - Il gesto ha radici lontane che affondano nel 2000, anno del Grande Giubileo, quando San Giovanni Paolo II chiese ai governanti del mondo un gesto di clemenza nel documento di 11 pagine per il Giubileo nelle carceri. Era fine giugno, poco più di una settimana dopo, il 9 luglio, il Papa polacco in visita al carcere romano di Regina Coeli per il Giubileo dei detenuti, in nome di Gesù “imprigionato, schernito, giudicato e condannato” domandò “alle autorità competenti” la riduzione della pena per permettere ai detenuti di ritrovare una nuova vita sociale una volta fuori dal carcere. Richiesta reiterata ancora una volta il 14 novembre 2002 a senatori e deputati incontrati in occasione della visita al Parlamento italiano. Il Giubileo dei carcerati del 2016 - Francesco - che non ha mai mancato nei suoi viaggi apostolici e nel corso del pontificato, in particolare durante la Lavanda dei piedi del Giovedì Santo, una visita in un penitenziario - segue le orme del predecessore. Già nel 2016, Anno Santo della Misericordia, in occasione del Giubileo dei carcerati del 6 novembre, il Pontefice all’Angelus, dopo la Messa a San Pietro con i detenuti, aveva sollecitato i governi a compiere per loro “un atto di clemenza”. Lanciando un appello in favore del miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri in tutto il mondo, “affinché sia rispettata pienamente la dignità umana dei detenuti” e ribadendo “l’importanza di riflettere sulla necessità di una giustizia penale che non sia esclusivamente punitiva, ma aperta alla speranza e alla prospettiva di reinserire il reo nella società”, il Papa si era quindi rivolto alle “competenti autorità civili”. A loro in modo speciale aveva sottoposto “la possibilità di compiere, in questo Anno Santo della Misericordia, un atto di clemenza verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di tale provvedimento”. Ora, un uguale invito ma in prossimità del Natale. Anche in carcere c’è del buono: i prodotti di economia carceraria di Antonella Barone gnewsonline.it, 15 dicembre 2022 Il panettone classico Magnum della premiata pasticceria Giotto sfornato nella casa di reclusione di Padova, le Borse di Natale Dolci Evasioni in cotone “fair trade” con prodotti tipici lavorati dai detenuti del carcere di Siracusa. Sono solo alcuni degli articoli di economia carceraria esposti nell’area Prodotti dal carcere sul sito Giustizia.it. Nella vetrina, che rinvia per gli acquisti e i cataloghi completi agli store online dei vari brand, si possono trovare idee per regali originali e aiutare così detenuti in cerca di una nuova occasione. Scelte che vanno nel senso del doppio valore, economico e sociale, che caratterizza le aziende con sedi negli istituti penitenziari o che offrono lavoro, anche fuori dal carcere, a persone che devono concludere un percorso penale. Un duplice beneficio è quanto intende realizzare la legge 193/2000 più nota come “Smuraglia”, dal nome del suo promotore. Le norme prevedono sgravi contributivi e crediti d’imposta a cooperative o imprese che assumono o svolgono attività formativa nei confronti dei detenuti. Dunque il datore di lavoro può risparmiare tra agevolazioni varie circa 520 euro al mese, mentre chi sta scontando una pena può contribuire al proprio sostentamento in carcere e imparare una professione utile, in futuro, al reinserimento nella società. Le produzioni di economia carceraria, spesso frutto di esperienze laboratoriali condotte da grandi esperti di tutti i settori, hanno anche altre “virtù” peculiari, come l’uso di prodotti del territorio di alta qualità, la cura del dettaglio, l’originalità e la creatività. Così, negli store online di prodotti provenienti dal carcere è possibile scegliere tra una vasta gamma di dolci natalizi dai nomi evocativi, come il panettone Maskalzone, con canditi Dolci Evasioni lavorati nel carcere di Siracusa, impastato in quello di Alessandria e realizzato secondo l’autentica ricetta milanese. E ancora, dal Veneto, le Fregolotte e le Veneziane di Libere Golosità, laboratorio nella casa circondariale di Vicenza, e i tipici Dolci del Santo padovani, con il consueto seguito di torroncini, praline e cremini della pasticceria Giotto. Non mancano alternative per i cultori di particolari scelte salutiste, come cesti con prodotti tipici anche nelle loro evoluzioni “bio” “vegan” e “gluten free” e linee di cosmetici naturali, come pure rivisitazioni in chiave etica e creativa dei regali classici. Come la tradizionale cravatta che diventa “insolita”, se confezionata con seta di recupero dalle detenute del laboratorio Made in carcere, nato nella casa circondariale di Lecce, e l’augurale palla natalizia, nella versione proposta dallo stesso brand, che invece di essere riposta insieme alle altre in attesa del prossimo Natale si trasforma in scaldacollo o in braccialetto di tendenza. Anche l’agenda cartacea, sopravvissuta alla digitale, assume altro valore e significato se realizzata in pvc riciclato dai detenuti della Cooperativa sociale Rio Terà dei Pensieri, con sede nel carcere veneziano di Santa Maria Maggiore, o quella di Altracittà, cooperativa che occupa persone provenienti dalle carceri padovane. La pallina scaldacollo di Made in carcere - Immancabile, tra le idee di regalo non consumistiche, il calendario solidale. Quello realizzato dalla cooperativa “La Valle di Ezechiele” con i detenuti della casa circondariale di Busto Arsizio è stato presentato nel corso dell’incontro “Siamo tutti VIP: persone veramente importanti” tenutosi martedì nella sala stampa della Camera dei deputati. Tra i presenti Adriana Volpe (conduttrice tv), Marco Maddaloni (campione olimpico), Orazio Sorrentini (direttore carcere Busto Arsizio), don David Maria Riboldi (fondatore de “La valle di Ezechiele”) e altri rappresentanti del mondo dello sport e dello spettacolo che hanno prestato il volto allo shooting fotografico, tappa finale di un corso di fotografia in cui i detenuti si sono messi alla prova dietro l’obiettivo. “Un progetto interamente realizzato da detenuti, in quanto anche la stampa è stata curata dalla cooperativa Zerografica nella casa di reclusione di Bollate” tiene a precisare il direttore Sorrentini. “La conferenza stampa - aggiunge - è stata un’occasione per riflettere su quanto i percorsi educativi e l’inclusione lavorativa siano parte integrante dell’esecuzione della pena e abbiano un ruolo determinante nella riduzione della recidiva”. Proprio per le importanti ricadute sulla recidiva, l’area della promozione del lavoro in carcere è stata individuata come destinataria di azioni amministrative urgenti tra le iniziative proposte ai direttori dalla circolare DAP del 18 novembre 2022 che ha sintetizzato i lavori della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, istituita dall’ex ministra Marta Cartabia il 20 settembre 2021. Le cooperative e le imprese che usufruiscono degli incentivi della legge Smuraglia potrebbero essere molte di più delle attuali che occupano circa 2500 i detenuti, pari al 13,26% sul totale dei lavoranti e al 4,5% dei presenti potenzialmente occupabili (dati statistiche DAP al 30 giugno 2022). Tra le iniziative proposte dalla circolare ai direttori degli istituti penitenziari, gli open day per mostrare a imprenditori, commercianti e associazioni che li rappresentano quanto di buono, conveniente e produttivo è possibile realizzare in carcere. Intercettazioni, Bongiorno propone un’indagine conoscitiva. Tutti d’accordo, anche Pd e M5S di Liana Milella La Repubblica, 15 dicembre 2022 Il forzista Zanettin vuole sapere tutto sull’uso del Trojan. L’ex pm Scarpinato, per M5S, chiede i dati sugli ascolti preventivi degli 007. Fdl sui controlli telematici. L’obiettivo è uno studio in vista della futura legge del Guardasigilli Nordio che cambierà il sistema degli ascolti. Non è una commissione d’inchiesta, come quelle che il centrodestra vuole sulla magistratura e su Mani pulite alla Camera. Ma un’indagine conoscitiva. Sul sistema complessivo delle intercettazioni. In commissione Giustizia di palazzo Madama la propone, durante l’ufficio di presidenza, la stessa presidente Giulia Bongiorno, senatrice della Lega, avvocato, “esperta” della questione sin dai tempi in cui contestò la stretta che proprio sulle intercettazioni voleva mettere a segno l’allora premier Silvio Berlusconi.  Ed è lei a spiegarla in questi termini: “Durante la sua audizione in commissione la settimana scorsa, il ministro Carlo Nordio, tra i vari temi affrontati, ha parlato anche delle intercettazioni. Si è aperto un dibattito. La mia idea, che oggi ha trovato l’unanimità dei colleghi e delle forze politiche, è stata quella di proporre un’indagine conoscitiva, un approfondimento su questa materia, in modo da avere a disposizione gli elementi conoscitivi in vista di un futuro disegno di legge”. Stavolta sono stati tutti d’accordo, non ci sono stati né distinguo, né levate di scudi. Tant’è che a favore dell’iniziativa hanno votato anche il Pd e pure l’ex pm di Palermo Roberto Scarpinato. Di più: quando Bongiorno ha chiesto se i senatori avevano singole richieste da fare sugli obiettivi dell’indagine, ecco che proprio Scarpinato ha proposto un focus sulle intercettazioni “preventive”, quelle fatte dai servizi segreti, e che come tali non fanno parte del fascicolo del processo, ma sono e restano del tutto riservate.  Il capogruppo di Forza Italia Pierantonio Zanettin ha chiesto invece un focus sull’uso della microspia Trojan che oltre a effettuare registrazioni vocali funziona come una vera e propria telecamera in grado di registrare tutto quello che avviene nella sua sfera di copertura. Zanettin è dell’idea che “il Trojan vada utilizzato solo per i reati gravissimi di mafia e terrorismo”. E forse già pensa di vietarne l’uso per i reati di corruzione, così come lui stesso ha proposto di espungere proprio questo ceppo di reati dall’ergastolo ostativo. Il partito di Meloni invece chiede un approfondimento sulle intercettazioni telematiche, cioè quelle sui computer. La ministra leghista Erika Stefani si è riservata di indicare i nomi di esperti da sentire in commissione.  Intercettazioni, ora Bongiorno segue Nordio: “Indagare” di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 15 dicembre 2022 “Bisogna iniziare a dare attuazione alle parole del ministro della Giustizia Nordio sulle intercettazioni”. Con queste parole ieri la presidente della Commissione Giustizia del Senato, la leghista Giulia Bongiorno ha esordito durante l’Ufficio di presidenza con i rappresentanti dei gruppi parlamentari. Così è stato deciso di partire con un atto concreto: la prossima settimana, su proposta di Bongiorno, la Commissione Giustizia di Palazzo Madama inizierà un’indagine conoscitiva proprio sulle intercettazioni. Solo pochi giorni fa, infatti, il Guardasigilli Carlo Nordio nelle sue linee programmatiche ha annunciato una “profonda revisione” delle intercettazioni e della loro pubblicazione “usata come strumento di delegittimazione personale e politica”: “Una porcheria che combatterò a costo delle dimissioni” aveva concluso il ministro della Giustizia. Non ci sono però atti legislativi che arriveranno a breve: l’agenda del Parlamento è intasata tra legge di Bilancio e decreti da convertire entro fine anno. Inoltre a inizio 2023 Nordio dedicherà il suo lavoro sulla modifica dell’abuso d’ufficio e del traffico di influenze come chiestogli dai sindaci. Ma la commissione Giustizia del Senato si vuole portare avanti: l’indagine conoscitiva servirà per fornire al Guardasigilli una relazione dettagliata su quante intercettazioni vengono fatte ogni anni, a quale costo e soprattutto su come siano state utilizzate durante le inchieste. Durante l’indagine conoscitiva, inoltre, non saranno solo ascoltati gli addetti ai lavori (magistrati, avvocati, professori di diritto) ma i componenti della commissione svolgeranno anche delle ispezioni nei tribunali e negli uffici giudiziari dove materialmente vengono ascoltate e archiviate le intercettazioni. La proposta è passata all’unanimità col voto di tutti i partiti. Che però hanno obiettivi diversi. In particolare, il capogruppo di Forza Italia Pierantonio Zanettin ha colto l’occasione per chiedere di approfondire l’uso del trojan che, ha sostenuto, “è uno strumento molto invasivo della privacy e molto delicato e che ha registrato molte problematiche note”. Zanettin ha anche proposto di visitare i luoghi dove si trovano i server per conservare le intercettazioni. Il capogruppo del M5S, l’ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, invece ha proposto di approfondire il tema delle intercettazioni preventive svolte dai Servizi segreti, Fratelli d’Italia di farlo sugli ascolti telematici mentre il dem Alfredo Bazoli ha chiesto di occuparsi della pubblicazione e divulgazione delle intercettazioni sui mezzi di informazione. Entro martedì, comunque, i partiti dovranno presentare a Bongiorno le loro proposte formali e da lì sarà stabilito un calendario dei lavori. La leghista ha cambiato idea rispetto a dieci anni fa quando, da presidente della commissione Giustizia di Futuro e Libertà (il movimento politico di Gianfranco Fini), si opponeva alla legge voluta dall’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano per stoppare la pubblicazione (“Berlusconi è accecato dall’odio anti-pm”) e si dimise da relatrice del disegno di legge protestando contro il governo: “Con questa norma non si saprà più niente, sono solo leggi che interessano a Berlusconi”, diceva allora Bongiorno. Proposta mai diventata legge per la caduta anticipata del governo. Giustizia, l’accusa del Terzo Polo: “Archiviate troppe azioni disciplinari contro le toghe” di Liana Milella La Repubblica, 15 dicembre 2022 Costa (Azione) interroga via Arenula: su 5.142 richieste di chiudere i casi, il dicastero ne ha riaperte solo 10 in 5 anni. E chiede gli atti contro “questa incredibile inerzia”. La campagna anti magistratura è il “gioco” dell’inverno. Adesso siamo alle premesse per proporre e far partire una commissione d’inchiesta anche sulle azioni disciplinari sui magistrati, come sono state gestite, perché la procura generale ne abbia chiesto l’archiviazione, se il rapporto tra archiviazioni e processi aperti è congruo. Per arrivare a una conclusione che certo piace al Guardasigilli Carlo Nordio ed è in linea con la sua proposta - già di Luciano Violante e quest’anno anche della responsabile Giustizia dei Dem Anna Rossomando - di dar vita a un’Alta corte disciplinare per tutte le magistrature, contro la giustizia “domestica”.  Che l’obiettivo sia questo lo dimostra un’ulteriore iniziativa del deputato di Azione Enrico Costa, al secolo anche vice segretario del suo partito, nonché responsabile Giustizia. Eccolo interrogare via Arenula sul perché, davanti ai grandi numeri delle azioni disciplinari contro le toghe archiviate dalla Procura generale della Cassazione, il ministero della Giustizia si limiti di fatto a una presa d’atto, prendendo per buona quella conclusione. Il suo retropensiero è che proprio il ministero, di fatto gestito dagli stessi magistrati che vi lavorano come fuori ruolo, sia sostanzialmente corrivo. I numeri di Via Arenula - I numeri - ad avviso di Costa - parlerebbero chiaro. Sono freschi di ieri, perché giusto ieri il dicastero di Carlo Nordio, che ha ricevuto il testimone da Marta Cartabia, la quale se l’era visto consegnato da Alfonso Bonafede, ha risposto al quesito di Costa. Con questi dati. Nel 2018 erano arrivate 1.336 richieste di archiviazione, e c’è stata solo una richiesta d’atti da parte di via Arenula, e un’azione disciplinare. Nel 2019 le archiviazioni erano 1.597, cinque le richieste di atti, 3 le azioni disciplinari promosse. Nel 2020 sono 1.173 le archiviazioni, 2 le richieste d’atti, nessuna conseguente azione disciplinare rivolta direttamente al Csm. Nel 2021 le archiviazioni sono 662, 2 richieste d’atti, nessuna azione disciplinare. Quest’anno “solo” 374 archiviazioni, senza alcuna richiesta del ministero. C’è “del marcio”, si chiede Costa, dietro le azioni disciplinari contro i magistrati che vengono archiviate dal procuratore generale della Cassazione, e non vengono mai contestate e riaperte dal ministero della Giustizia che pure potrebbe farlo? C’è una “culpa in vigilando” di via Arenula? Quando, alla Camera, ha in mano i dati del ministero esposti dal sottosegretario leghista Andrea Ostellari, Costa reagisce sospettoso. “Numeri da non credere quelli comunicati oggi dal Governo. Negli ultimi 5 anni il Pg della Cassazione ha archiviato ben 5.142 segnalazioni disciplinari verso le toghe trasmettendo la comunicazione al ministero della Giustizia, che ha facoltà di chiedere copia degli atti e promuovere direttamente l’azione disciplinare. Ebbene, di fronte alle citate 5.142 archiviazioni il ministero ha chiesto la copia degli atti in soli 10 (dieci) casi, e ha promosso l’azione disciplinare in 4 (quattro) casi. Questa è stata l’azione di controllo inflessibile di via Arenula: in 2 casi su mille sono state richieste le copie degli atti, in meno di un caso su mille è stato smentito il Pg della Cassazione”. “Incredibile inerzia” - Scontata la minacciosa conseguenza di Costa: “Chiederemo l’accesso agli atti per verificare il perché di questa incredibile inerzia addirittura nell’avere la copia degli atti. Senza esaminare gli atti è lecito chiedersi su cosa si possa basare l’acquiescenza verso una simile massa di archiviazioni. Un ulteriore tassello che dimostra come, nel nostro Paese, le vie di fuga dalla responsabilizzazione per i magistrati siano infinite”.  Ecco dimostrato come il gioco invernale più gettonato tra i cosiddetti “garantisti” della politica sia quello di accusare i magistrati. Per “garantisti” intendiamo coloro che non perdono occasione di fare le pulci alla magistratura, i fan della presunzione d’innocenza più esasperata per intenderci. Tutti coloro che, da quando Carlo Nordio è diventato Guardasigilli, ha dato interviste e ha parlato nelle commissioni di Camera e Senato illustrando il suo programma, vedono in lui il vessillo anti toghe. Colui che le metterà a posto. E dunque proliferano le iniziative anti-giudici. La commissione d’inchiesta sull’operato di tutta la magistratura chiesta da Forza Italia, quella dedicata solo a Mani pulite di tal Alessandro Battilocchio, l’indagine conoscitiva sulle intercettazioni della Bongiorno.  I pregressi di Costa - In questa attività anti giudici il più causidico di tutti è sicuramente Enrico Costa, ex deputato di Forza Italia, poi passato con Angelino Alfano nell’Ncd, poi di nuovo forzista, e da un anno deputato (riconfermato) di Azione. Lui, alle toghe, non ne fa passare una. Sfruttando ogni strumento possibile, emendamenti, ordini del giorno (con uno lanciò l’anno scorso proprio la presunzione d’innocenza che alla fine è stata approvata con la benedizione di Cartabia), interrogazioni, interpellanze. Ogni strada è buona. Giusto come ha fatto ieri. Ponendo un interrogativo secco al ministero della Giustizia. Che ha fornito i numeri. E non è andato oltre. Conclusione: ombre sul Procuratore generale “buonista”, ombre sui ministri della Giustizia “bendati”, altrettante ombre sui magistrati che siedono all’ispettorato del ministero che pigliano per buono il lavoro della Cassazione. E per chiudere, ombre sul Csm. La magistratura? Tutta da buttare. Azioni disciplinari magistrati, al ministero una verifica ogni mille fascicoli di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 15 dicembre 2022 Nell’ultima legislatura i ministri della Giustizia Alfonso Bonafede e Marta Cartabia hanno verificato meno di 10 casi sugli oltre 5.000 di archiviazione disposti dal procuratore generale della Cassazione. “Sono numeri da non credere quelli che ha comunicato il governo rispondendo ad una mia interrogazione in materia di azioni disciplinari nei confronti dei magistrati”, ha affermato ieri Enrico Costa, vice segretario di Azione e presidente della Giunta per le Autorizzazioni della Camera. Costa aveva presentato nei giorni scorsi una interrogazione per conoscere l’attività svolta negli ultimi 5 anni dai ministri della Giustizia, titolari dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati insieme al procuratore generale della Cassazione, nei riguardi dei provvedimenti di archiviazione disposti da quest’ultimo. Su ben 5142 segnalazioni disciplinari verso le toghe trasmesse a via Arenula, che ha facoltà di chiedere copia degli atti e promuovere direttamente l’azione disciplinare, gli ultimi due Guardasigilli hanno chiesto la copia degli atti in soli 10 casi, ed hanno promosso l’azione disciplinare in quattro casi. “Questa è stata l’azione di controllo inflessibile del ministero della Giustizia: in due casi su mille si sono richieste le copie degli atti, in meno di un caso su mille si è smentito il Pg della Cassazione”, prosegue Costa. Praticamente sia Bonafede che Cartabia hanno avvallato di “default” l’imponente attività di archiviazione posta in essere dal procuratore generale della Cassazione. “Chiederemo a questo punto l’accesso agli atti per verificare perché di questa incredibile inerzia addirittura nell’avere la copia degli atti”, ha aggiunto Costa. “Senza esaminare gli atti è lecito chiedersi - continua - su cosa si possa basare l’acquiescenza verso una simile massa di archiviazioni. Questa vicenda dimostra come nel nostro Paese le vie di fuga dalla responsabilizzazione per i magistrati siano infinite”. “Mi auguro che con Carlo Nordio, che voglio ringraziare per aver fornito i dati, cosa non affatto scontata visti i precedenti, ci sia finalmente un cambio di passo. Questa, comunque, è una delle conseguenze di avere i magistrati fuori presso il ministero della Giustizia”, ha quindi concluso il deputato di Azione. Il dato impietoso di queste migliaia di archiviazioni non può che far riflettere sul potere, di fatto senza alcun controllo, del procuratore generale della Cassazione. A tal riguardo, sempre Costa, nella scorsa legislatura, aveva presentato un emendamento alla riforma dell’ordinamento giudiziario voluta da Cartabia affinché l’attività del procuratore generale della Cassazione fosse almeno sottoposta al vaglio del primo presidente. L’emendamento venne però bocciato e tutto è rimasto come prima. Una domanda destinata a non avere una risposta è come possa il pg archiviare tutti questi procedimenti senza neanche un giudizio. Le norme in vigore vietano, infatti, di avere gli atti. Salvo, appunto, il Guardasigilli, nessuno, né il denunciante, né un’istituzione, né chiunque altro può avere copia degli atti e leggere le motivazioni dei proscioglimenti. Al cittadino che ha presentato denuncia nei confronti del magistrato e chiede le ragioni dell’archiviazione viene risposto con lo “stampone” dalla Procura generale che non ha interesse, visto che il procedimento disciplinare non è finalizzato a tutelare l’interesse di chi ha denunciato, ma quello dell’amministrazione della giustizia. Bisognerà capire, allora, se Nordio riuscirà a “togliere” un po’ di potere al pg della Cassazione che decide da solo e senza che nessuno vagli la legittimità del suo operato. Per quanto noto, la motivazione più utilizzata per archiviare è quella della “scarsa rilevanza” dei fatti addebitati. Ad esempio, il ritardo nel compimento di atti rileva solo se reiterato, grave e ingiustificato, la violazione di legge c’è solo se grave e determinata da ignoranza o negligenza inescusabile, il travisamento del fatto è punito solo se determinato da negligenza inescusabile, l’adozione di provvedimenti in casi non consentiti dalla legge è rilevante solo se frutto di negligenza grave e solo se abbia leso diritti personali o patrimoniali, il sottrarsi all’attività di servizio ha rilievo solo se abituale e ingiustificato, la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione solo quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui. Scarpinato e Travaglio furiosi: ci demoliscono la spazzacorrotti! di Tiziana Maiolo Il Riformista, 15 dicembre 2022 Il Senato ha cancellato dalla legge di Conte e Bonafede la norma che equiparava a un mafioso chi commetteva reati contro la Pa. Solo un ritorno alla normalità, ma che ha fatto impazzire il mondo grillino. Èbastato fare il solletico alla legge “spazzacorrotti” di Conte-Bonafede perché la Presidente del Consiglio fosse considerata amica dei ladri, quella che porta la borsa con la refurtiva del Guardasigilli. Eppure, con la votazione di due giorni fa, il Senato non ha fatto altro che cominciare a tirar giù un mattoncino con cui il furore grillino aveva equiparato a un mafioso o un terrorista chi commetteva un reato contro la pubblica amministrazione. Si torna a prima del 2019, semplicemente. Il pubblico ufficiale che si sia reso responsabile di reati come la corruzione o la concussione sarà arrestato, processato e condannato esattamente come è sempre accaduto prima che i giacobini si impadronissero del governo. Si torna alla normalità. E questo pare inaccettabile. Lo ha detto in aula il senatore Scarpinato, che dopo trent’anni e miliardi spesi per nutrire squadre intere di “pentiti”, dichiara fallimento perché cerca ancora la “verità” sulle stragi degli anni 1992-93. E vuole in galera per sempre i pubblici amministratori allo stesso modo dei mafiosi. “Pentiti” esclusi, naturalmente. Lo gridano i giornalisti di complemento, facendo il gioco delle tre carte e appellando la presidente Meloni come “amica dei ladri”. Ma il Senato ha vissuto una giornata in cui la zampata del ministro Nordio ha lasciato l’impronta, dopo dichiarazioni pubbliche in cui aveva già raddrizzato la rotta, in seguito alla prima strampalata versione del “decreto rave”. Il famoso provvedimento che aveva trasformato d’improvviso le opposizioni al governo Meloni in una squadra di pannelliani, e che comunque noi continuiamo a ritenere quanto meno inutile, ha assunto nella prima votazione del Senato una faccia decisamente più bonaria. Prima di tutto il reato, da delitto contro l’incolumità pubblica scende di livello e diventa contro il patrimonio, punendo in definitiva, se pure in modo severo con pene fino a sei anni di carcere, solo i promotori e gli organizzatori dei rave party. Una discreta verniciata di garantismo, dietro la quale si intravede la mano di Forza Italia e del suo capogruppo in Senato Pierantonio Zanettin. Cui dobbiamo anche quell’emendamento che sottrae i reati contro la Pubblica Amministrazione da quelli “ostativi” rispetto ai benefici di legge, che è ben più di una iniziativa individuale. È una scelta politica dell’intero governo, che è stata subita dal mondo grillino come un colpo micidiale sparato al cuore della “Legge spazzacorrotti” di Conte e Bonafede. Il mondo di Travaglio e Scarpinato è parso impazzito. Si sono messi tutti a correre come i criceti sulla ruota. Hanno sparato insulti e falsità. Il senatore grillino ha svolto la propria parte con onore e disciplina rispetto allo stile del proprio partito. Poi, mentre un direttore del Fatto limitava le proprie ossessioni a quel che sta succedendo al Parlamento Europeo e il Pd, evocando la questione morale di Berlinguer di 40 anni fa, l’altro direttore apostrofava la Presidente del Consiglio con toni da nervi saltati. Cercando di imbrogliarla, prima di tutto. Perché non è vero che il Senato ha stabilito che “i condannati definitivi per corruzione e altri gravi reati contro la Pubblica Amministrazione possano scontare la loro pena senza trascorrere nemmeno un giorno in prigione”. Ed è inutile appellarsi a quell’infausta dichiarazione con cui Giorgia Meloni si era definita “garantista” durante il processo e “giustizialista” nell’applicazione della pena. Perché comunque la presidente ha scelto, persino forzando il garantista Berlusconi, un ministro che ha ribadito anche in questi giorni come non tutto debba essere prigione e manette. Mentre sollecitazioni come quella della lettera del Fatto cercano di sospingere la premier verso un trapassato prossimo della sua storia politica, quasi dimenticando che sia in Alleanza Nazionale che poi nel partito Futuro e Libertà di Gianfranco Fini è esistita anche una cultura di destra tutt’altro che forcaiola. Anche se in Fratelli d’Italia è in parte ancora da costruire. Il codice penale nella sua normalità non fa sconti ai pubblici ufficiali infedeli. E le regole sui benefici di legge previsti a partire dal momento in cui il condannato ha scontato almeno un terzo della pena, valgono per tutti, con l’esclusione appunto dei reati cosiddetti “ostativi”, che in gran parte sono delitti contro la persona e la sua incolumità. In particolare stiamo parlando di terrorismo e mafia. Ma anche di riduzione in schiavitù o violenza sessuale di gruppo. Cioè di responsabili di delitti che comportano situazioni di pericolo, rispetto alle quali, per chi ci crede e ritenga che la soluzione unica per sanzionare chi ha strappato le regole della convivenza civile, sia quella di rinchiudere le persone, il carcere può avere un senso. Per gli altri no. E comunque la reclusione non può essere eterna, dal momento che, come ha detto la Consulta, lo stesso ergastolo sarebbe in contrasto con la funzione rieducativa della pena prevista dall’articolo 27 della Costituzione, se non esistesse per il condannato la possibilità di godere di quei benefici previsti dalla legge che prima o poi gli restituiranno la libertà. Intercettazioni, utilizzo possibile anche dopo lo stralcio per incompetenza di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 15 dicembre 2022 La Cassazione, sentenza n. 47192 deposita oggi, estende l’utilizzo delle intercettazioni anche al procedimento successivo a quello con cui il Gip, che ha emesso la misura cautelare, si è dichiarato incompetente. Si tratta di una lettura “sostanzialistica”, spiega la Corte, che esclude la diversità dei procedimenti a fronte della identità del fatto-reato, ed a prescindere dalla sua eventuale riqualificazione. In tali casi, dunque, non si rientra nel divieto di utilizzo disposto dall’articolo 270 del Cpp per il caso di “procedimenti diversi”. Il “legittimo” giudice delle indagini preliminari, arrivato in seconda battuta, potrà dunque basare la propria ordinanza custodiale sulle medesime evidenze. La Suprema corte ha così bocciato il ricorso di un uomo contro il provvedimento del Tribunale di Firenze che, in sede di riesame, aveva confermato l’ordinanza del Gip di Pisa che gli aveva applicato la custodia cautelare in carcere per una pluralità di furti (un furgone, una vettura e calzature griffate per 150.000 euro). Il primo Gip, tuttavia, dopo aver emesso l’ordinanza cautelare, si era dichiarato territorialmente incompetente (ex articolo 22 Cpp). Il Gip competente, successivamente, aveva emanato una nuova misura cautelare per gli stessi fatti ed utilizzando anche i medesimi elementi emergenti dalle indicate indagini tecniche. Proposto ricorso, la Suprema corte l’ha bocciato. Per prima cosa la Cassazione ricorda che la nozione di “procedimento diverso” non è stata ritenuta “collegata a un dato di ordine meramente formale, quale il numero di iscrizione nell’apposito registro della notizia di reato, posto che la formale unità dei procedimenti, sotto un unico numero di registro generale, non può fungere da schermo per l’utilizzabilità indiscriminata delle intercettazioni, facendo convivere tra di loro procedimenti privi di collegamento reale”. Decisivo, prosegue la decisione, è stato invece ritenuto il riferimento al contenuto della notizia di reato, “ossia al fatto-reato in relazione al quale il Pubblico Ministero e la polizia giudiziaria svolgono le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale”. Il legame tra la notizia di reato in relazione alla quale è stata autorizzata l’intercettazione e quella emersa dai risultati dell’intercettazione che, se riconosciuto, esclude la diversità dei procedimenti e, con essa, il divieto di utilizzazione di cui all’articolo 270, comma 1, cod. proc. pen., “è stato altresì delineato facendo riferimento ad indagini strettamente connesse e collegate sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico al reato alla cui definizione il mezzo di ricerca della prova è stato autorizzato”. Per la Cassazione deve dunque affermarsi il principio per cui, “in ragione del descritto criterio di natura - almeno tendenzialmente - sostanzialistica, che non si versa in ipotesi di “procedimento diverso” ex art. 270 cod. proc. pen. nel caso in cui, come nella specie, si tratti di risultati di intercettazioni disposte in un procedimento instaurato in relazione a reato per il quale l’autorizzazione era stata ab origine disposta e ad essa sia seguito lo stralcio ex art. 22 cod. proc. pen., trattandosi, piuttosto, di esiti di intercettazioni relative a reato per il quale l’autorizzazione era stata ab origine disposta”. Nel rigettare il ricorso, la Corte ha anche affermato l’ulteriore principio di diritto legato alla disciplina emergenziale da Covid-19, per cui (ai sensi dell’articolo 24 Dl n. 137 del 2020 convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176), “la richiesta di riesame deve essere trasmessa non all’indirizzo di PEC dell’ufficio che ha emesso il provvedimento cautelare ma direttamente all’indirizzo di PEC del Tribunale in funzione di giudice del riesame, non potendo l’atto essere presentato presso la cancelleria del Tribunale o del giudice di pace del luogo ove si trova l’impugnante, ferma restando la possibilità di proporla a mezzo posta mediante l’inoltro dell’atto presso il Tribunale in funzione di giudice del riesame”. Stalking, non rileva la rimessione della querela se è commesso unitamente a reato perseguibile d’ufficio di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 15 dicembre 2022 La Cassazione adotta lo stesso principio già affermato in materia di delitti sessuali. Lo stalking contestato unitamente al reato di maltrattamenti in famiglia è ab origine perseguibile d’ufficio. Il procedimento penale non viene quindi meno se essendovi stata querela contro gli atti persecutori questa venga successivamente ritirata dalla parte offesa. La connessione tra i due reati impone l’unitarietà dell’azione penale e attrae nel perimetro della perseguibilità d’ufficio anche il reato di stalking. Fino al punto che, come nel caso concreto, se il reato di maltrattamenti si prescrive resta immutato l’interesse punitivo dello Stato a perseguire il reato di stalking connesso processualmente o materialmente a quello perseguibile d’ufficio. La sottrazione all’iniziativa delle parti si giustifica al fine di garantire l’unitarietà dell’azione penale su reati che vengano accertati con unica attività di indagine in quanto commessi in conseguenza uno dell’altro o per occultare quello commesso prima. La Corte di cassazione con la sentenza n. 47328/2022 ha respinto il ricorso di un uomo che condannato per stalking aveva impugnato la sentenza in sede di legittimità facendo rilevare l’illegittimità della condanna a fronte della rimession della querela. Inoltre il ricorso sottolineava che nel caso concreto il reato perseguibile d’ufficio, i maltrattamenti, era stato dichiarato prescritto dal giudice di merito. La Cassazione penale boccia i due rilievi affermando l’irrilevanza tanto della rimessione della querela e quanto della prescrizione. Lo stalking oggetto di accertamento unitamente ad altri reati che siano perseguibili d’ufficio è quindi inderogabilmente sottratto all’iniziativa delle parti provate. Lombardia. Salute mentale in carcere: situazione critica di Laura Fazzini osservatoriodiritti.it, 15 dicembre 2022 Un aumento delle patologie psichiatriche e la carenza di personale specializzato sono i campanelli d’allarme della situazione sulla salute mentale in carcere in Lombardia. A renderlo noto è la prima relazione conoscitiva della commissione speciale sulle carceri in regione. “Il tasso di detenuti con disturbi mentali è di molto superiore alla popolazione libera, dobbiamo occuparcene e dare risposte concrete, politiche”. A denunciarlo è Paola Bocci, neo presidente della commissione carceri di Regione Lombardia e consigliera regionale del Pd. A palazzo Pirelli è stato presentato il dossier redatto in un anno e mezzo che indica come la salute mentale delle persone detenute sia a rischio. Patologie psichiatriche in aumento dietro le sbarre - I 19 istituti penitenziari lombardi ospitano il maggior numero di detenuti in Italia, circa 8.500. I dati raccolti dalla commissione dal 2019 evidenziano un aumento delle patologie psichiatriche del 17% in un periodo antecedente la pandemia. “Le patologie psichiche sono fra le maggiori cause di malattie nelle carceri italiane, rappresentando circa il 41% di tutti i disturbi che affliggono i detenuti”, insiste la consigliera. Queste percentuali erano già in aumento dal 2019 (dati dell’osservatorio Antigone, che ha collaborato alla stesura del report), ma il Covid-19 ha peggiorato le cose. La sospensione di attività all’esterno, del contatto con i familiari e la paura della malattia hanno incrementato i disturbi, che sono diventati patologici negli ultimi due anni. Alla presentazione del documento ha partecipato anche il Garante nazionale per le persone private di libertà, Mauro Palma: “Sottolineo come la sofferenza psichica e i luoghi di privazione della libertà - ha detto - siano tra loro strettamente interdipendenti. La vita in cattività è “patogenica”, produce malattie perché non è costruita intorno alla naturalezza della vita”. Il Garante ha affrontato anche uno dei quattro temi della relazione, la condizione mentale delle donne detenute. “Ci sono solo 7 istituti su 19 lombardi che hanno una sezione femminile e in quello più grande, San Vittore, i bagni sono ancora alla turca. Bisogna dare alle detenute spazi consoni e rispettosi”. Salute mentale e assistenza psichiatrica in carcere: le criticità - “Bisogna prendersi cura di tutti i fattori di rischio esterni che vengono portati dentro le carceri. Se una persona accede già con alcune patologie è nostro dovere accorgercene e aprire un percorso adatto”, sostiene Roberto Ranieri, responsabile dell’Unità operativa Sanità Penitenziaria della Regione. Ranieri, infettivologo che da oltre 30 anni segue i detenuti lombardi, evidenzia come sia carente la conoscenza di chi entra in carcere, il trascorso personale che spesso porta a delinquere. “Dobbiamo curare le patologie psichiatriche quando sappiamo bene come sta il paziente, senza abusare di farmaci generici. Serve un prontuario farmacologico adatto e una cartella clinica obiettiva che spesso non arriva in tempo o non arriva proprio”. Per curare un paziente detenuto che spesso viene trasferito manca ancora un modo di aggiornare i medici. “Abbiamo finalmente creato una cartella informatizzata ma funziona solo in Lombardia ed Emilia Romagna e se il detenuto arriva da fuori regione non sappiamo come stia e cos’abbia”. Per la tutela della salute mentale in carcere serve personale qualificato - “Il nostro obiettivo è la cura, anche se il detenuto non la vuole. Ma ci servono figure specializzate, il nostro personale di polizia deve essere formato, non sono medici”. A dirlo è Francesca Valenzi, dirigente del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria. I poliziotti sono i primi ad accorrere nel caso di atti di violenza, ma spesso non sono preparati per capire i segnali precedenti. “Dobbiamo ottenere più personale specializzato come psicologi ed educatori. Ad oggi c’è uno psichiatra per 100 detenuti che ha 6 ore settimanali di colloqui. 12 ore settimanali invece per gli psicologi, sempre su 100 detenuti, che per il resto del tempo sono a contatto solo con i poliziotti”, dice Vincenzi. La dirigente spiega come i reparti di articolazione per la salute mentale, settori destinati ai detenuti a cui sono state diagnosticate patologie psichiatriche, sono troppo pochi. “Ci sono 4 posti nel carcere di Monza e poi una sola a Pavia, in tutto il territorio lombardo”. Il rischio è un nuovo taglio all’amministrazione penitenziaria nella nuova legge di bilancio, ancora in fase di discussione, che però porterebbe ad ulteriore stress per chi lavora negli istituti. Oltre ai settori destinati ai detenuti psichiatrici, in Lombardia esiste una sola Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), quella di Castiglione delle Stiviere. “Quelle residenze devono essere l’extrema ratio, c’è un protocollo dal 2019 scritto tra l’area sanitaria della Salute Mentale regionale e la magistratura che è del tutto disatteso. Lì abbiamo scritto che chi ha compiuto un reato, ma è diagnosticato con patologie psichiatriche, deve essere seguito nei centri sanitari territoriali, senza passare un giorno in carcere. Invece spesso il giudice indica la Rems per pressioni esterne”, denuncia Giovanna di Rosa, presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano. Secondo la presidente bisogna fare una nuova scelta culturale per costruire una reale alternativa per chi commette reato ma è malato psichiatrico. Il problema della salute mentale in carcere: record di suicidi - Il punto su cui tutti i relatori si fermano è l’alto tasso di suicidi nel 2022. 16 dei 79 suicidi di quest’anno sono accaduti in Lombardia, di cui 13 under 36. “Il disagio psichiatrico, che talvolta è rappresentato solo da disturbi comportamentali legati anche all’abuso di sostanze, porta però in alcuni casi a sintomi psicotici, fino al tentato suicidio e al suicidio stesso. Questa tragedia deve avere risposte immediate, da noi politici in primis”, sostiene la presidente Bocci. Mauro Palma sottolinea come un terzo dei suicidi si verifichi nei primi dieci giorni dall’accesso in carcere e un altro terzo da persone senza fissa dimora. Parma. Decine di detenuti senza acqua calda né riscaldamento rainews.it, 15 dicembre 2022 La situazione denunciata dalle famiglie e dai legali. Il Garante regionale ha visitato l’istituto e chiede al direttore provvedimenti urgenti. Decine di detenuti senza acqua calda né riscaldamento. Tra loro anche persone anziane e con patologie croniche. In un padiglione del carcere di Parma esposto a Nord, dove si forma costantemente condensa. Lo avevano segnalato nei giorni scorsi famigliari e legali di persone recluse. E la situazione è stata riscontrata anche dal Garante per i detenuti dell’Emilia-Romagna. Roberto Cavalieri.  La lettera del Garante. Dopo aver visitato l’istituto penitenziario, ha inviato una lettera urgente al direttore Valerio Pappalardo. Le criticità si riferiscono a una parte della struttura in particolare. Padiglione MS lato B, poco più di 100 detenuti, tra cui quelli della sezione minorati fisici. Il Garante rileva di aver trovato 21 persone senza acqua calda, 38 senza riscaldamento, 11 sprovviste di entrambi i servizi. Nonostante nei giorni scorsi - si legge ancora nel documento - la situazione possa dirsi comunque migliorata dopo l’intervento di una ditta di manutenzione.  Impianti usurati, anche per il costante sovraffollamento, in un carcere dove ci sono anche detenuti sottoposti a regime di alta sicurezza e condannati all’ergastolo, qualche mese fa qui è stato trasferito anche l’ex terrorista Cesare Battisti. Nella conclusione della sua lettera il Garante chiede al Direttore di attivarsi urgentemente per scaldare le camere con stufe elettriche e di coinvolgere volontari e Croce Rossa per fornire coperte e indumenti pesanti. Milano. Sedicenne torturato e violentato in cella al Beccaria di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 15 dicembre 2022 Una tremenda “violenza sessuale di gruppo” nel carcere minorile Beccaria. Di più, secondo i magistrati milanesi: “tortura” in cella, praticata nella notte tra il 7 e l’8 agosto su un giovane detenuto (peraltro proveniente già da un “campo” libico nella sua traversata verso l’Italia) da tre coetanei, tra i quali uno degli arrestati mesi fa quale “gregario violento nella banda di trapper facenti capo a Simba la Rue e Baby Gang”.  Lo spaventoso episodio affiora dall’arresto notificato in un carcere del Nord Italia all’aggressore (che al momento del fatto era da quattro giorni divenuto maggiorenne), mentre solo l’altro ieri, e grazie agli sforzi del suo avvocato Daniela Frigione, è stato trovato alla vittima un posto in comunità per lasciare il Beccaria.  Il carcere minorile è uno di quegli istituti dove per tenere assieme le esigenze di custodia e di recupero dei minori fanno salti mortali educatori e agenti penitenziari sotto organico, nonché direttori da sempre part-time (solo da poco c’è un facente funzioni presente tre giorni a settimana anziché uno, e finalmente è stato nominato un direttore che prenderà servizio tra alcuni mesi). Ma quando la Procura della Repubblica ha ricevuto la notizia di reato, la scelta è stata duplice: niente facili demonizzazioni, ma nemmeno acquiescenza al tacito argomento del “si sa che in carcere queste cose accadono”.  E invece no, racconta l’esito dell’inchiesta che la pm Rosaria Stagnaro ha svolto facendo lavorare assieme la Squadra Mobile con la polizia penitenziaria. Al 18enne della Costa d’Avorio (interrogato giovedì dal gip Guido Salvini) è contestata non solo la “violenza sessuale di gruppo” ma addirittura la “tortura”, poche volte applicata sinora nelle carceri alle violenze di agenti su detenuti, e qui invece per la prima volta a detenuto su detenuto.  Il motivo sta nel “trattamento inumano e degradante la dignità umana” subìto dall’allora 16enne egiziano proveniente dalla Libia, in custodia cautelare per aver palpeggiato una donna in metrò. Il trio di compagni di cella, capitanato dal trapper neo-maggiorenne che sconta una definitiva condanna a 16 mesi per rapina, tentata estorsione e minaccia nel 2018 a Varese, è infatti accusato di avere approfittato del cambio di turno degli agenti per sorprendere nel sonno il ragazzo, legarlo con i polsi alla finestra del bagno, violentarlo con oggetti, spegnergli una sigaretta in faccia e sul braccio, prenderlo a calci inginocchiato, e gettargli addosso acqua bollente. Lecce. Made in Carcere, il laboratorio sartoriale che dà una seconda vita a tessuti e materiali di Alice Possidente La Repubblica, 15 dicembre 2022 A cucire i prodotti sono i detenuti delle case circondariali di Lecce, Trani e Matera, utilizzando scampoli di stoffa donati da aziende tessili che altrimenti andrebbero in discarica. I tessuti arrivano da aziende che hanno la necessità di disfarsene e i sarti sono persone in stato di detenzione. Sui prodotti, cucita con orgoglio, l’etichetta Made in Carcere, “manufatto di valore realizzato con tessuti di recupero”. Accessori per la casa, braccialetti, shopper bag, gadget, sacchetti per le bomboniere, coprisella per le bici, ma anche capi di abbigliamento come magliette o costumi da bagno. Nei laboratori sartoriali degli istituti penitenziari di Lecce, Trani e Matera, si cuce di tutto. “Fare impresa sociale in carcere è un ossimoro”, spiega Luciana Delle Donne, fondatrice, nel 2006, della cooperativa sociale Officina Creativa che, tra gli altri progetti, ha dato vita a Made in carcere. Eppure, lei che ha alle spalle un’esperienza da dirigente di banca ventennale, è riuscita a ideare un modello d’impresa negli istituti penitenziari, per dare una seconda possibilità a materiali e persone. Ogni manufatto è realizzato con tessuti di prima qualità, ma ormai inutilizzabili nelle industrie e destinate alla discarica. Si tratta di scampoli avanzati, campionari di fiere, scarti di grandi produzioni. “Lavoriamo tutti i materiali che si possono cucire, di seconda mano o di recupero” spiega Delle Donne. ”Non sono scarti brutti, anzi. Le aziende aspettano solo l’occasione giusta per disfarsene”. Tra le aziende tessili italiane si è sviluppato un fortunato passaparola, tanto che ora sono loro stesse a contattarli per svuotare i magazzini pieni di tessuto a volte impolverato ma ancora utilizzabile. L’attenzione ai temi sociali e ambientali è molto alta. “Un prodotto Made in Carcere sostiene in termini ambientali e sociali dodici dei diciassette obiettivi per lo sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 dell’Onu”, continua Delle Donne. “Utilizzare ciò che già esiste, senza dover generare altro consumo o altro materiale inquinante, aiuta a non ingolfare il sistema di smaltimento e inquinamento” spiegano dall’associazione. E sui banchetti dei lavoratori e delle lavoratrici ci si imbatte in stoffa, pelle, carta, persino il tessuto dismesso di una vela di una barca che, assemblati dalle mani dei detenuti e delle detenute, danno vita a oggetti coloratissimi. “Ci chiamano ‘Montessori per adulti’ - sorride Delle Donne - perché utilizzando materiali diversi abbiamo bisogno di accostarli dal punto di vista cromatico, senza farli cozzare tra loro”, stimolando la creatività dei lavoratori. Nei laboratori sartoriali non occorre essere sarti di professione. Oltre a modellare le borse e i capi di abbigliamento, serve qualcuno che si occupi di tagliare le stoffe, impacchettare i prodotti, smistare i materiali. Il resto lo si impara insieme. L’importante è “cucire”, tra borse e abiti, anche una nuova autostima e una nuova identità. Attualmente, grazie al sostegno di Fondazione con il Sud, per il brand “Made in Carcere” lavorano 65 persone in stato di detenzione, al 90% donne. Dal 2016 a oggi, tra le macchine da cucire dei laboratori sartoriali, di detenuti ne sono passati centinaia. Ma nessuno di loro, assicura Delle Donne, “è tornato in carcere. Abbiamo una recidiva pari allo zero per cento”. Ogni lavoratore percepisce un regolare stipendio con cui aiuta la famiglia e i figli. “È importante, per loro, spezzare quella catena del destino per cui ogni figlio di detenuto debba diventare un detenuto”. Nello store di Made in Carcere si possono comprare (a prezzi ragionevoli) braccialetti, borse, portafogli, astucci, custodie per smartphone e tablet, cuscini, grembiuli, tovagliette, mascherine. La calza della Befana costa 19 euro e sono disponibili anche pacchetti a sorpresa da mettere sotto l’albero. Tutto realizzato a mano e con materiali recuperati, da acquistare se si vuole contribuire all’economia circolare per il sociale. Castelfranco Emilia (Mo). Casa di Reclusione all’avanguardia, nuova ala e collaborazioni con chef di Marco Pederzoli Il Resto del Carlino, 15 dicembre 2022 La Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia ha inaugurato ieri pomeriggio una nuova ala, altamente tecnologica, che permetterà di accogliere un maggior numero di detenuti e di insegnare loro a sviluppare nuove abilità, in cucina ma non solo, in vista del loro reinserimento nella società civile. Diverse le autorità presenti ieri per il taglio del nastro, tra cui il cardinale di Bologna, mons. Matteo Maria Zuppi (che per l’occasione ha celebrato una messa), la direttrice della Casa di Reclusione, dott.ssa Maria Martone, e la vicesindaco di Castelfranco Emilia, Nadia Caselgrandi. “Dopo un percorso di ristrutturazione durato oltre tre anni - ha spiegato la direttrice Martone - è stata inaugurata questa nuova ala che comprende 16 camere di detenzione da due posti l’una, ma che possono essere potenzialmente portati anche a tre posti per stanza. La struttura si presenta ad alto contenuto tecnologico e con impianti di ultima generazione per quanto riguarda le parti elettriche, idrauliche e del riscaldamento (ad esempio, in ogni camera c’è il timer per la regolazione della temperatura, ndr). Molto curata è stata anche la scelta dei colori e un’attenzione particolare è stata messa nelle aree ricreative e nella cucina, dotata di strumenti davvero all’avanguardia. Del resto, abbiamo detenuti anche molto abili in cucina, tanto che, assieme all’amministrazione comunale di Castelfranco Emilia e a chef esterni, stiamo studiando la possibilità, in prospettiva, di mettere queste abilità a servizio della comunità esterna. È un progetto ancora tutto da definire, ma l’intenzione c’è”. In ogni caso, la volontà della direttrice della Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia rimane ben chiara. “Abbiamo in progetto - prosegue Martone - altri investimenti produttivi per valorizzare il lavoro dei detenuti, in ambito agroalimentare (la Casa di Reclusione gestisce anche un’azienda agricola, ndr) ma non solo: ad esempio, continua anche la formazione nell’attività di call center”. La nuova ala non è stata ancora occupata, ma lo sarà presto. “Gli spazi saranno impegnati - continua Martone - appena sarà ultimato il piano ferie del personale. Dagli attuali 80 detenuti, passeremo a circa 120”. Per quanto riguarda la tipologia dei reclusi, si tratta di persone non giudicate pericolose dal sistema giudiziario e che hanno come fine pena un periodo inferiore ai 6 anni. Il “modello Castelfranco Emilia” è stato promosso anche dal garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri, che in una nota ha commentato: “Quello di Castelfranco Emilia è un modello virtuoso che mette al centro il lavoro. È anche un modo per investire sulla sicurezza sociale, per frenare il cosiddetto rischio di recidive, contrastando, inoltre, il pericolo suicidario particolarmente presente nelle strutture di detenzione”. Palermo. Gli avvocati: “Il carcere non sia considerato una discarica sociale” di Davide Ferrara Giornale di Sicilia, 15 dicembre 2022 Gli studenti di Giurisprudenza incontrano i detenuti: un progetto della Camera penale in collaborazione con l’Università. Gli istituti di pena come luogo di rieducazione e funzione risocializzante del detenuto e non discariche sociali. Questo l’obiettivo del progetto Gli studenti incontrano i detenuti, promosso dalla Camera penale di Palermo e dall’Università, per aprire una finestra sul mondo delle carceri: da anni in emergenza, infatti, gli istituti penitenziari si mostrano privi di quegli strumenti di risocializzazione dei detenuti che dovrebbero aiutare le persone a costruire un percorso esistenziale diverso. Una tematica che la Camera penale affronta da anni e che adesso vuole portare anche all’interno dell’Università: gli studenti della facoltà di Giurisprudenza, infatti, avranno la possibilità di poter visitare gli istituti e dialogare con i detenuti: “Gli studenti - spiega l’avvocato Fabio Ferrara, presidente della Camera penale - affrontano sotto il profilo giuridico i principi astratti, come l’esecuzione della pena, la risocializzazione, la presunzione di innocenza, il giusto processo. Ma entrare nel carcere e avere un colloquio diretto con i detenuti e capire la realtà nella quale essi vivono, dove cercano di riscattare il loro passato, è qualcosa che va visto e vissuto. È una realtà che ormai è diventata una emergenza: il carcere ancora oggi viene considerato una discarica sociale. Quest’anno sono già 79 i suicidi avvenuti all’interno degli istituti di pena, soprattutto tra persone che hanno fatto ingresso in carcere da poco tempo e che hanno una pena da eseguire relativamente breve. Questo fa riflettere sull’ambiente carcerario”. La proposta è stata accolta con entusiasmo dal rettore Massimo Midiri: “Un’iniziativa dal grande valore culturale e formativo: serve ai detenuti che devono sentire dai loro coetanei un messaggio di speranza per capire cosa c’è fuori dalle sbarre e capire quali sono le prospettive di recupero all’interno del sistema sociale, ma diventa un momento estremamente formativo per i nostri studenti che affrontano percorsi che mai avrebbero potuto fare al di fuori delle loro aule. Il progetto piace molto ai ragazzi, perché è un momento in cui possono testare ciò che imparano nelle aule”. Alla presentazione del progetto erano presenti anche Bartolomeo Romano, professore ordinario di Diritto penale, Rita Bernardini, già deputato al Parlamento italiano, Ferdinando Di Franco, tesoriere della camera penale, Marcello Consiglio, avvocato penalista, e Antonio Balsamo, presidente del tribunale di Palermo: “Un progetto che abbiamo accolto con grande interesse ed entusiasmo, crediamo sia un passo avanti importantissimo sotto il profilo della sensibilizzazione collettiva sotto il profilo delle tematiche della rieducazione e una strada obbligata se si vuole ridurre la recidiva - ha detto il presidente -. Credo ne uscirà una città più sicura e più umana attraverso questa conoscenza del mondo penitenziario e lo sviluppo di tutti gli strumenti di risocializzazione dei detenuti. Per gli studenti significa conoscere a fondo e impegnarsi per la realizzazione di un obiettivo importantissimo voluto dalla nostra costituzione. Chi studia diritto penale non può che impegnarsi a fondo per la funzione rieducativa per qualsiasi sanzione”. San Gimignano (Si). Fare il medico in carcere, la storia di Federico quinewssiena.it, 15 dicembre 2022 Essere il dottore nel penitenziario di massima sicurezza di Ranza è un’esperienza che porta oneri, ma anche gratificazioni sul piano umano. C’è una sanità più nascosta, quella che non si fa dentro gli ospedali o negli ambulatori territoriali, ma che è garantita ed è molto importante, che si occupa di chi, oltre alla salute, ha perso anche un altro bene prezioso: quello della libertà e necessita di un supporto che va oltre la semplice visita o prescrizione. Tra i medici, c’è chi sceglie di intraprendere questo delicato percorso professionale, come il dottor Federico Taddeini, medico in formazione specialistica in igiene e medicina preventiva della Asl Toscana sud est che ci racconta la sua esperienza nella casa di reclusione di San Gimignano. “Da qualche mese mi occupo di assistenza sanitaria a detenuti ad alta sicurezza presso la casa di reclusione di San Gimignano. I turni sono di 12 ore, ma il lavoro non manca mai. Le casistiche spaziano dalla sepsi, all’attacco di panico, alla rottura di caviglia, all’insonnia. Il paziente in carcere è molto esigente, - racconta il dottor Taddeini - necessita di assistenza medica e infermieristica 24 ore su 24. Io per il detenuto, data la particolarità delle condizioni, non sono solo un medico, ma anche un confidente, una persona con cui relazionarsi. Molti di loro hanno grande rispetto della figura del medico, certo capitano anche situazioni complicate da gestire, ma alla fine ciò che conta è la salute del paziente a prescindere da tutto”. “Una delle principali caratteristiche che distingue un medico di un penitenziario rispetto ad un medico di medicina generale - continua Taddeini - è l’evento acuto e traumatico, in questo caso sono io a dover gestire l’emergenza, e se mentre di giorno si può fare affidamento anche sugli infermieri, nel turno notturno sei solo. Quindi devi essere in grado di affrontare tutte le evenienze ma l’esperienza formativa ripaga sia da un punto di vista professionale che umano”. Le prestazioni mediche per detenuti sono analoghe a quelle garantite per i cittadini in stato di libertà. Il detenuto deve avere ogni informazione riguardante il proprio stato di salute durante la sua detenzione e nel momento in cui è rimesso in libertà. Il carcere deve assicurare ai detenuti “prevenzione, cura e sostegno del disagio psichico e sociale”. Per le detenute deve essere garantita l’assistenza sanitaria sia nel periodo della gravidanza sia durante la maternità, oltre a un potenziamento dei consultori e di altri mezzi di informazione. Bari. Manifestarono in sedia a rotelle per i diritti dei disabili davanti alla Regione: condannati a 4 mesi di carcere di Mary Tota Il Fatto Quotidiano, 15 dicembre 2022 L’assessora: “Dalla loro parte”. Condannati a quattro mesi di reclusione per aver manifestato per vedersi riconoscere i propri diritti. A macchiarsi di questa “colpa” otto persone disabili. Quattro di loro protestavano in sedia a rotelle. “Siamo criminali atipici” è l’amara constatazione di Francesca Maiorano, una degli otto destinatari del decreto di condanna a 4 mesi di reclusione (pena sospesa) o al pagamento di 9450 euro di multa, da parte del tribunale di Bari per interruzione di pubblico servizio e invasione di edifici. La vicenda risale al luglio del 2021. In quei giorni particolarmente torridi, un gruppo di persone con disabilità e relativi accompagnatori, decide di manifestare - per la seconda volta a distanza di un mese - dinanzi al palazzo della presidenza della Regione Puglia. Un tratto del lungomare di Bari che molto spesso è scenario di manifestazioni e proteste. Basta passare di lì per trovare bandiere di sindacati, sit-in più o meno organizzati e, a seconda della partecipazione, mezzi di polizia e carabinieri a presidiare la zona. Esattamente come quel giorno in cui il gruppo, avvisando preventivamente Digos e Questura, manifesta nella speranza di incontrare i vertici regionali. Il progetto, però, questa volta, è di non smobilitare il presidio sinché non arrivino risposte concrete. E difatti il gruppo rimane sul posto quattro giorni e tre notti. Una condizione non certamente facile visto il caldo opprimente di quel mese, il fatto che molti di loro sono in carrozzina e, quindi, con delicate e particolari esigenze fisiche, tant’è che l’ingresso alla toilette nel palazzo presidenziale è consentito più volte e senza alcun problema da parte della vigilanza che, come unica accortezza, richiede nominativo e documento prima di lasciar accomodare i fruitori dei servizi. Una notte particolarmente faticosa, è necessario chiedere l’intervento del 118 per soccorrere un manifestante che inizia ad accusare il colpo di un presidio prolungato. Quattro giorni e altrettante notti ad aspettare e presidiare esterno ed interno del palazzo, interrotti solo dall’arrivo dei parenti che, all’ingresso, possono consegnare il cambio dei vestiti. Il weekend imminente, però, dà una accelerata alle comunicazioni e, dunque, una delegazione può interloquire con i vertici regionali. Prima un incontro con il direttore del Dipartimento Sanità e con il segretario generale del presidente, poi un lungo colloquio con l’assessora al Welfare, Rosa Barone, infine il faccia a faccia con il presidente della Regione, Michele Emiliano. Le richieste sul tavolo sono diverse: basta gare al ribasso per gli ausili, più assistenza infermieristica domiciliare Adi, modifiche al bando per Progetti di Vita Indipendente abolendo la clausola fideiussoria, intervento sull’assegno di cura tramutato in contributo Covid-19. Le riunioni finiscono con accordo siglato. Un successo, dopo tanta fatica fisica e psicologica. È la sera del 16 luglio 2021. “Stanchi e distrutti dopo quattro giorni e tre notti trascorsi ad interloquire con tecnici e politici, siamo felici, con l’accordo firmato in tasca, fra cordiali saluti e strette di mano con i funzionari regionali, veniamo accompagnati all’uscita del palazzo della Presidenza della Regione Puglia. Giusto il tempo di abbracciarci fra noi - ricorda Francesca - e di metterci in macchina ed inizia a piovere bruscamente in pieno luglio. Riteniamo quella pioggia improvvisa una benedizione da lassù alla nostra battaglia vinta, anche da parte di chi a causa dei diritti negati non c’è più”. Una felicità che, però, non corrisponde allo stato d’animo di oggi. “Nessuno di noi - dice con amarezza - ebbe mai in quei giorni la percezione che di lì a poco ci avrebbero contestato dei reati. Non siamo riusciti a scansare il colpo di fucile sparato alle nostre spalle, giunto come un conto da pagare per aver osato manifestare”. Ma chi ha sparato quel colpo di fucile? Nessuno dal palazzo della Regione, è la certezza. La denuncia, a quanto pare, è partita d’ufficio dall’esterno, per aver occupato la carreggiata e impedito il transito delle auto. Loro, in sedia a rotelle, hanno bloccato per alcuni momenti il traffico. Tanto è bastato. “Siamo sorpresi per la condanna - è il commento dell’assessora Barone -, ma ci tengo a precisare che dalla Regione non è partita nessuna denuncia. In quei giorni il confronto con i disabili è stato costante, tanto da essere andati incontro alle loro richieste, nonostante ci fossero difficoltà oggettive. Anche oggi sono in contatto costante con alcuni di loro, a cui ho espresso tutto il mio dispiacere per quanto sta accadendo, assicurandogli il supporto da parte della Regione”. Il governatore Emiliano, invece, ha fatto sapere di essere pronto a testimoniare in loro favore nel giudizio di appello. Non tutti, però, presenteranno ricorso. Non lo farà Francesca, probabilmente. “Sono portatrice sana di emofilia e madre di un figlio con Emofilia A grave, figlia di mia madre che era affetta da Alzheimer, a cui ho fatto da caregiver per 10 anni. Non importa se la mia fedina penale fra qualche giorno non risulterà più pulita, non sono una criminale. Incornicerò la condanna in un quadro che appenderò all’ingresso di casa, affinché chiunque venga a trovarmi possa venire a conoscenza di tutto questo, e ci aggiungerò la seguente dicitura: Correva l’anno 2021, sono stata condannata e ritenuta criminale per aver manifestato col solo fine di tutelare i diritti delle persone con disabilità”. Chieti. Disabilità e carcere: vivere nonostante gli ostacoli e i pregiudizi di Alessio Di Florio chietinotizie.net, 15 dicembre 2022 La storia di Simona Anedda e Claudio Bottan con Voci di Dentro. “Una storia semplice e straordinaria” è il titolo dell’evento che si terrà oggi pomeriggio alle 16.00 presso il Teatro Marrucino di Chieti, organizzato da Voci di Dentro. La storia semplice e straordinaria è quella di Simona Anedda e Claudio Bottan, due vite segnate dalla malattia e dalla detenzione che si sono incontrate e insieme stanno superando tante barriere della società odierna.  Simona anni fa ha scoperto di “essere malata di sclerosi multipla progressiva e comincia a paralizzarsi fino a non poter camminare più, a non usare le braccia”, Claudio “con l’esperienza di anni di carcere, cerca di vincere la “carcerite” con la scrittura, e collabora a riviste e giornali perché sente che scrivere è un mondo che non lo giudica per quello che ha fatto (come la società) ma per quello che vale, le sue aspirazioni, la verità che racconta, e come la racconta” presenta i due protagonisti dell’incontro Voci di Dentro. Claudio “un giorno deve raccontare di Simona in un’intervista - prosegue la presentazione di Voci di Dentro - lui e lei si conoscono ma quello che nasce non è solo un articolo ma un cammino” in quanto “capiscono di avere in comune molte cose: paura e voglia di vincere il pregiudizio, sfida di ricominciare per essere visti oltre l’apparenza o le etichette: malata e disabile lei, che però vuole viaggiare, ex detenuto lui, che vuole rifarsi una vita”. “Una storia semplice e straordinaria” per Voci di Dentro: “parla di fiducia verso l’altro, di accoglienza e resilienza, di aiuto a chi si sente diverso ma cerca di vivere “come e con gli altri”“, di quell’uguaglianza nella differenza “per una società che non scarta nessuno” e che è il valore di Voci di dentro.  Durante l’incontro di oggi pomeriggio “con una donazione di 20€ sarà possibile acquistare il libro di Chiara Cerigato A cosa pensi (postfazione di Claudio Bottan) sulla storia di Simona e il Calendario Volti di dentro dell’Associazione - rende noto Voci di Dentro - il ricavato servirà a finanziare il sogno di viaggiare di Simona e i progetti di redazione in carcere di Voci di dentro”. Ieri mattina un primo incontro si è tenuto con gli studenti dell’ITCG Galiani-De Sterlich di Chieti. “Tutto il peso della mia detenzione è niente rispetto al coraggio di lei che, malgrado quello che ha, non demorde” ha dichiarato ai ragazzi Claudio Bottan. “Il coraggio di Simona nell’affrontare la malattia, viaggiando “a modo suo da disabile” da un lato, e dall’altro l’esperienza della detenzione nella vita di Claudio, che affronta il mondo di fuori dopo il carcere, iniziando un altro viaggio, quello con un nuovo se stesso - la sintesi della mattinata della redazione di Voci di Dentro - due pesi (e due sofferenze), che così diversi si sono potuti comunque incrociare e diventare quella “storia semplice e straordinaria”“ che Voci di Dentro ha portato dentro la scuola “con la collaborazione e i contributi delle Istituzioni ed Enti coinvolti: CSV Abruzzo, Comune di Chieti, il progetto Scuola e Volontariato CNA Chieti, Delegazione FAI - Chieti”. I “pesi” che “sono sembrati persino volare leggeri con le loro parole, perché Simona Anedda ha presentato al pubblico dei ragazzi la sua condizione come una nuova normalità. A tutti dovrebbe sembrare normale che un disabile in carrozzina debba e possa fare alcune cose, molte cose: trovare un bagno adatto, fare il turista, accedere a marciapiedi, prendere mezzi. Mentre sappiamo che così normale la vita di un disabile non è - il racconto della mattinata della redazione di Voci di Dentro. La mattinata con Simona Anedda e Claudio Bottan è stata racconto e testimonianza che dal carcere si esce e si fa i conti con una società che nega altra normalità: la normalità di trovare casa e lavoro, di non essere solo e più giudicati ma ri-presi, di dimostrare che si è disposti a dare e fare la propria parte. Perché le persone possono cambiare. Accade e può bastare a farlo accadere - come ci ha raccontato Claudio Bottan - un semplice abbraccio”.   Verbania. Le mani di “sarti per amore” realizzano paramenti sacri di Francesco Rossi Il Verbano, 15 dicembre 2022 “Siete sarti per amore. Il vostro lavoro è un atto d’amore per la nostra comunità e per questo vi diciamo con il cuore: grazie”. Così giovedì 8 dicembre, solennità dell’Immacolata, don Riccardo Zaninetti, parroco di san Leonardo a Pallanza, si è rivolto ai detenuti della Casa circondariale presenti alla messa in collegiata. n grazie è per gli arredi sacri che da qualche settimana colorano l’altare della chiesa. Sono frutto delle preziose mani artigiane di Lorenzo e Michele, due detenuti, coinvolti nel “Laboratorio sacro”. È il progetto nato in collaborazione tra parrocchia e carcere, dove già è presente da qualche tempo un laboratorio di Le mani di “sarti per amore” realizzano paramenti sacri sartoria. Da questo è nata l’idea di dare vita anche a una sezione dedicata ai “paramenti” e addobbi sacri da utilizzare nella collegiata di san Leonardo. Detto, fatto. A novembre è partito il progetto e i primi risultati ora sono già sotto gli occhi dei fedeli. A marzo, a iniziativa conclusa, l’intera produzione sartoriale sarà messa in mostra e presentata alla comunità. “L’obiettivo - spiega don Riccardo - è creare una “rete” di cooperazione tra la comunità parrocchiale e la casa circondariale della città. Tale collaborazione è anche finalizzata a far conoscere il prezioso lavoro educativo e di reintegrazione umano e sociale che il penitenziario ha come specifico della propria missione. n laboratorio inoltre permetterà ai detenuti coinvolti di relazionarsi con un apposito personale esterno che li sensibilizzerà all’arte sacra al fine di aumentare le loro conoscenze culturali e religiose”. A sua volta la direttrice del carcere di Verbania, Stefania Mussio, intervenendo al termine della messa ha evidenziato come “oggi non siamo qua tanto a festeggiare, ma a vivere insieme un momento di solidarietà e di comunità. È importate per le persone detenute poter vivere momenti di normalità. La solidarietà è una delle virtù più grandi. Se il Vangelo ha dedicato una delle beatitudini ai carcerati, un motivo ci deve essere. E deve essere speciale e di forza, di incoraggiamento”. Combattendo la “damnatio memoriae” a partire da sé di Checchino Antonini Il Manifesto, 15 dicembre 2022 “Storie minime di ragazzi di periferia” di Massimo Gentile, per i tipi di Edizioni del Faro. Il libro sarà presentato oggi alle 17 alla Biblioteca Rugantino di Roma con l’autore e Livia De Pietro. Arriva un momento in cui si avverte il desiderio, o il bisogno, di raccontare la propria storia. Il mutamento vorticoso sembra essere una costante del neoliberismo. Vorticoso perché non ha una direzione unica, a volte si manifesta come innovazione, altre come restaurazione. Scrivere di sé, allora, è utile a capire il presente non solo a ritrovare emozioni perdute. Non di rado ha una valenza terapeutica perché consente di avere cura della propria storia, di salvare la memoria del vissuto. Noi siamo la nostra memoria anche se spesso i ricordi collettivi vengono depistati, costretti a fossilizzarsi in un’etnografia dei consumi. La stessa Ostalgie, la nostalgia per i tempi della Ddr è stata rappresentata come nostalgia per alcuni prodotti di consumo. E i social traboccano di gruppi che rimpiangono il tempo dei gettoni del telefono, delle musicassette, di questa o quella marca di merendine o blue jeans. La nostalgia o è consolazione o resistenza. Nel secondo caso, la memoria è un campo di battaglia non solo nella dimensione della macrostoria ma anche in quella più intima, ma non meno politica, dell’autobiografia. La memorialistica sugli anni ‘70 è sicuramente una reazione alla damnatio memoriae di quel decennio che è stato tutto meno che anni di piombo. È su questa scia che si può leggere Storie minime di ragazzi di periferia (pp. 141, euro 13), scritto da Massimo Gentile per i tipi di Edizioni del Faro. Gentile, nato negli anni 60, appartiene a quella generazione cresciuta dentro la poderosa spinta egualitaria ed emancipativa scaturita dalle lotte e dai movimenti sociali. Lui quei cambiamenti li ha vissuti in una periferia romana abitata da un proletariato multiforme ma solidale, mentre la città stessa cambiava pelle prima sotto la spinta delle rivendicazioni sociali, con il cambio di amministratori, Nicolini, Petroselli, poi nella furia restauratrice difficile da intravedere nell’immediato fatto, come spiega Sergio Bologna, da un “groviglio di spinte che si esauriscono e di novità che si sprigionano”. Il prisma che l’autore utilizza per dipanare la propria matassa è sempre quello generazionale, di un’educazione sentimentale (campeggi rocamboleschi, viaggi in autostop, feste, gare sportive, scritte sul muro) che è anche presa di coscienza politica. Da parte sua sceglierà la militanza in Democrazia proletaria (mai citata ma facilmente riconoscibile) mentre altri sceglieranno la strada della lotta armata e intorno a loro fioriranno i riflussi consumisti, nelle forme ludiche dell’omologazione o tragiche dell’eroina. È una storia minima, quella di Gentile, dentro cui ci si può riconoscere chiunque abbia studiato in edifici scolastici di fortuna, facendo i doppi turni, giocando a calcio in piazzali polverosi, vivendo sulla propria pelle la lontananza dal centro di una borgata romana ma anche provando a mettere tutto in discussione a partire dalla famiglia e dalla scuola. A disagio, oggi come allora, per un mondo in cui tutto o quasi si misura coi valori del mercato. La presentazione oggi alle 17 alla Biblioteca Rugantino di Roma con l’autore e Livia De Pietro. Il Servizio Civile fa bene ma piace poco ai giovani. “Ora rendiamolo più smart” di Giulio Sensi Corriere della Sera, 15 dicembre 2022 Il numero di posizioni proposte dallo Stato per progetti sociali è da record: 71.741. Decisivi i fondi Pnrr (650 milioni nel triennio): ma la legge di stabilità pare tagliare. Posti vacanti, abbandoni. L’assegno di 440 euro non invoglia e c’è poca flessibilità. La cifra, record, è 71.741: è il numero più alto di sempre di posti di servizio civile mai proposti dallo Stato. Permetterà nei prossimi mesi ad altrettanti giovani di svolgere un’esperienza di difesa non violenta della Patria in un progetto di utilità sociale - la cui durata varierà dagli otto ai dodici mesi - con un contributo 440 euro al mese. È grazie ai fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, 650 milioni di euro su tre annualità, che il servizio civile sta diventando ciò che l’ultima riforma, quella del 2017, si proponeva quando sostituì la parola “nazionale” con quella “universale”. “Grazie a queste risorse aggiuntive - spiega la direttrice dell’Ufficio Servizio Civile Universale del Dipartimento per le politiche giovanili, Laura Massoli - è stato possibile raggiungere un incremento significativo del numero delle posizioni, un passo importante nella logica dell’universalità a cui tutti gli attori, dai giovani operatori agli enti che li ospitano alle Regioni, stanno lavorando insieme a noi”. Un ingente investimento, e una sfida, che vorrebbe trovare il mondo giovanile pronto ad accoglierla. Preoccupano però le risposte dei ragazzi e delle ragazze al servizio civile: dopo tanto tempo in cui i posti disponibili erano sempre più bassi rispetto alle richieste, negli ultimi anni è progressivamente cresciuto il gap fra quelli messi a bando ed effettivamente avviati. Uno scarto in media del 10-15%. È invece di circa il 5% la quota di coloro che abbandonano il servizio una volta avviato. Un tema su cui il Dipartimento e gli enti si stanno interrogando per cercare di capirne i motivi ed elaborare le contromosse. “La dispersione - aggiunge Massoli - può avere diverse cause, alcune endogene come la lunghezza e la complessità degli step amministrativi e procedurali, altre esogene e di contesto che hanno a che fare con le dinamiche sociali attuali in cui i giovani vivono molte incertezze. Insieme alla Consulta delle associazioni abbiamo avviato un lavoro per analizzare questo fenomeno”. Sforzo di promozione - Le associazioni sono pronte a collaborare, ma chiedono al Dipartimento delle politiche giovanili uno sforzo ulteriore di promozione. “Gli oltre 71.000 posti sono molti - spiega Laura Milani, presidente della Cnesc, la Conferenza nazionale enti per il servizio civile che riunisce alcuni fra i principali enti del Terzo settore in cui i giovani svolgono servizio- e sono possibili grazie al Pnrr e al recupero delle risorse non utilizzate per i mancati avvii del 2022 . in seguito alla notizia che i fondi previsti dalla Legge di stabilità per il servizio civile saranno pari a 111 milioni per il 2023, 150 per il 2024 e 150 per il 2025: significherebbe ridurre ancora”. Dal canto loro i giovani vorrebbero un servizio civile più “smart” e in linea con i tempi. Giovanni Rende è Rappresentante nazionale dei volontari di Servizio civile - un organismo eletto dai volontari - e ricopre anche la carica di presidente della Consulta del Servizio Civile. “Il fatto che rimangano così tanti posti vacanti o che molti giovani decidano di interrompere il servizio - afferma Rende - è rappresentativo di come questo strumento stia perdendo di attrattività. L’assegno di 440 euro non risponde più allo standard di vita di ognuno di noi e non è possibile vivere con questa fonte di reddito. Probabilmente molte persone lasciano perché sono costretti a trovare un altro lavoro che magari non è quello dei propri sogni, ma permette di sopravvivere. Il problema è la scarsa flessibilità del servizio”. Accordi tra enti e volontari - In teoria non esiste incompatibilità con la possibilità di fare anche un altro lavoro, ma le 25 ore da svolgere a settimana prevedono un minimo di 4 giornaliere e non è prevista alcuna forma di smart working che permetterebbe, laddove possibile, ai ragazzi anche di candidarsi su progetti attivi in sedi più remote rispetto a quelle vicino casa. La soluzione, soprattutto secondo i giovani, sarebbe quella di trovare un compromesso. “Dovrebbe essere permesso, senza che sia un’imposizione, - dice ancora Rende - a volontari ed enti di trovare un accordo nell’ambito delle 25 ore settimanali e in parte svolgerlo anche da remoto. Con la pandemia tutto è cambiato, il servizio civile invece è tornato esattamente a come era prima. Con queste due soluzioni cambierebbe già molto. Oppure fare la scelta di permettere alle persone di farla come esperienza totale, come accade per il servizio civile all’estero per il quale viene corrisposto un assegno che arriva a circa il doppio. Credo che sia necessario fare autocritica e cambiare le cose per non continuare a perdere opportunità”. Secondo le associazioni però, serve una riflessione più approfondita. “Sulla flessibilità ho qualche dubbio - dice Milani - perché il servizio civile è un impegno di un certo tipo e richiede tempo e costanza per saper leggere le situazioni. Non vorrei che finisse una delle mille cose che vengono fatte dai giovani, mentre a mio parere c’è bisogno soprattutto di più conoscenza rispetto al valore di questa opportunità”. Una società fondata sul merito non è una società giusta di Andrea Casadio Il Domani, 15 dicembre 2022 L’atto con il significato politico più profondo compiuto dal presidente del consiglio Giorgia Meloni all’insediamento del suo governo è stato quello di cambiare il nome del Ministero dell’Istruzione in Ministero dell’Istruzione e del Merito. La Meloni ha voluto inserire la parola “merito” come a rivendicarne il possesso, come a sottolineare che il merito è un concetto caro alla destra. Il neoeletto ministro dell’Istruzione e del Merito, il professor Giuseppe Valditara, si è affrettato a spiegare il motivo di quel cambio di denominazione: “Perché la scuola oggi è una scuola classista, non è la scuola dell’eguaglianza perché non è una scuola del merito, e non aiuta i ragazzi a realizzarsi costruendosi una soddisfacente vita adulta”. Riassumendo, il pensiero della presidente del Consiglio Giorgia Meloni e della destra è questo: “Gli esseri umani nascono afflitti da disuguaglianze sociali, ma se a scuola studi, ti impegni e sei bravo, allora riuscirai ad emergere, e quel che conquisterai sarà tutto merito tuo”. Questa affermazione, che sembra alimentata da buoni propositi di egualitarismo sociale, in realtà nasconde un pensiero profondamente classista ed elitario, degno di una destra conservatrice come quella che esprime il governo italiano attuale. Su un tema così importante come il concetto di merito, la sinistra italiana è stata zitta: del resto da tempo ha smesso di elaborare un pensiero politico autonomo e nuovo, e si è frantumata in un rissoso comitato di gruppi di potere affaccendati solo a elaborare strategie e alleanze elettorali di breve periodo. Invece, nei paesi dove ancora una sinistra degna del nome esiste - come negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Germania- le forze progressiste stanno da tempo discutendo su cosa sia il merito e se sia un giusto strumento di selezione sociale. Nei paesi dove il dibattito politico è ancora serio, i rappresentanti e gli intellettuali di sinistra hanno incorporato nelle loro riflessioni le ultime conoscenze acquisite nei campi più disparati - dalle neuroscienze all’economia, dalla sociologia alla filosofia sociale: e molti sono giunti alla conclusione che una società in cui il merito è lo strumento privilegiato di selezione sociale non sia giusta. Negli Usa, Michael Sandel, un illustre filosofo e docente di teoria del governo all’Università di Harvard, vicino al partito democratico americano, ha scritto un libro dal titolo “La tirannia del merito” che ha molto contribuito al dibattito sul tema. Sandel sostiene che stiamo vivendo in una “era del merito”, in cui persino politici progressisti come Tony Blair, Barack Obama o altri leader di sinistra hanno promosso l’idea che il merito sia la migliore soluzione alle sfide poste dalla globalizzazione, dalle disuguaglianze e dalla deindustrializzazione, ma così facendo hanno prosciugato i valori della classe lavoratrice occidentale con conseguenze disastrose per il bene comune. Questo modo di pensare ha dato origine a un individualismo di sinistra catastrofico. “Ci dicono che la soluzione ai problemi della globalizzazione e delle disuguaglianze - dice Sandel - è che chi lavora duro e segue le regole alla fine riesce a emergere e a salire nella scala sociale là fino a dove i suoi sforzi e il suo talento lo conducono. Io la definisco “la retorica della scalata sociale”. È quasi diventato un dogma assoluto. Il centro-sinistra dice: se riusciremo ad avere condizioni eque di partenza per tutti, allora tutti avranno chance identiche di farcela. E chi riesce a emergere per il suo talento, il suo duro lavoro e i suoi sforzi allora si merita il posto che alla fine occuperà nella società, se lo sarà guadagnato”. E ovviamente, il miglior modo per salire nella scala sociale è avere un’educazione superiore - su questo destra e sinistra sono d’accordo. Come diceva Tony Blair: “Ci vuole educazione, educazione e ancora educazione”. Ma Sandel e altri intellettuali di sinistra, tra i quali il filosofo americano John Rawls, sostengono che quest’idea favoleggiata delle “eguali condizioni di partenza” rimane una chimera. In tutto il mondo occidentale gli studenti che frequentano le università più prestigiose- come Harvard, la Sorbona o l’Università Normale di Pisa- sono convinti che il loro successo sia merito dei loro sforzi, ma due terzi di loro provengono da famiglie che appartengono al quinto più alto nella scala dei redditi. In quasi tutti i paesi occidentali la mobilità sociale è ormai ferma da decenni, come dice Sandel: “Gli americani nati da genitori poveri tendono a rimanere poveri anche da adulti”. In Italia, un paese gerontocratico e immobile, va ancora peggio che non negli Stati Uniti. Perché questo accada ce lo spiegano in parte le neuroscienze. Ormai è noto che gran parte delle capacità cognitive e dei talenti di ogni essere umano sono ereditari, cioè ci sono trasmessi dai nostri genitori attraverso il patrimonio genetico: ovvero, se hai genitori bravi in matematica è molto probabile che anche tu abbia questa disposizione. Ma ereditare geni che ti permettono di primeggiare in un determinato campo è frutto del caso e non certo un tuo merito. E poi, un filone di rivoluzionari studi neuroscientifici inaugurati a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso da William Greenough e Christopher Wallace, e portati avanti da altri come Eric Kandel e Steven Pinker, hanno minato alle basi la cattedrale del merito. Greenough e Wallace hanno dimostrato che ratti che in tenera età ricevevano scarse cure parentali e che crescevano in una gabbia con pochi oggetti a disposizione, cioè con pochi stimoli - si potrebbe dire in un ambiente povero- sviluppavano un cervello con meno neuroni e più povero di sinapsi, e da adulti possedevano capacità cognitive peggiori rispetto a ratti che in tenera età avevano ricevuto più cure parentali ed erano cresciuti in una gabbia ricca di stimoli - cioè in un ambiente ricco. Ricerche simili sono state condotte sull’uomo, e hanno portato alle stesse conclusioni. Chi nei primi tre anni di vita cresce in un ambiente o in una casa povera di stimoli - di oggetti e di libri, per esempio-, e riceve meno cure perché i genitori sono spesso assenti, da adulto sviluppa capacità cognitive inferiori rispetto a chi cresce in un ambiente o in una casa ricca di stimoli - piena di libri o di stimoli intellettuali per dire-, e riceve più cure da genitori ed altri caregiver. Nei primi tre anni di vita - una fase dello sviluppo che viene detta fase critica - ogni essere umano deve ricevere gli stimoli necessari che permettano al suo cervello, che in questa fase è estremamente plastico, di formare nuove sinapsi e perciò di apprendere funzioni motorie fondamentali -come la deambulazione e i movimenti fini delle mani-, e funzioni cognitive essenziali - quali il linguaggio, il pensiero, le capacità emotive. Passati quei tre anni cruciali, le capacità di apprendimento del nostro cervello diminuiscono enormemente, perciò è critico ed essenziale che in quella fase dello sviluppo il nostro cervello sia bombardato da stimoli: se mancano ne deriveranno deficit motori, emotivi e cognitivi impossibili da eliminare per il resto dell’esistenza. In altre parole, chi nei primi tre anni di vita cresce in un ambiente povero sarà svantaggiato e avrà un cervello - e capacità cognitive - meno sviluppate per tutto il resto della sua vita. E anche nascere in un ambiente, ovvero in una famiglia, ricca di stimoli non è sicuramente merito tuo, ma piuttosto frutto della tua fortuna. Nonostante tutto ciò, la sinistra liberale sostiene questo astratto concetto di meritocrazia come equa misura del successo sociale da più di trent’anni. E c’è di più. Se anche la meritocrazia perfetta esistesse sarebbe lo stesso dannosa, sostengono gli intellettuali progressisti come Sandel. “C’è un lato oscuro nella meritocrazia come viene propugnata anche dalla sinistra”, dice Sandel. “Se la meritocrazia è giusta ciò significa che quelli che non riescono ad ascendere la scala sociale non possono dare la colpa a nessuno se non a sé stessi.” Le elite di centro sinistra liberale hanno abbandonato i vecchi valori di solidarietà e giustizia sociale e hanno assunto il ruolo di moralizzatori, sono diventati, sostiene Sandel, dei “maestri di vita” i quali ci insegnano che in questa società ogni lavoratore è un individuo che deve farcela da solo. Il problema è che questa etica del successo permea incontrastata la nostra cultura. Il messaggio, sostiene Sandel, è “che chi sta ai vertici della scala sociale si merita il posto che occupa, ma anche che chi sta in basso nella scala sociale si merita quel che ha. Non si è sforzato abbastanza, non ha preso una laurea universitaria, e via discorrendo”. Se non ce la fai è colpa tua, insomma: che non è quello che dovrebbe sostenere una forza di sinistra, e soprattutto non è quello che ormai ci dicono le scoperte più recenti delle neuroscienze, della psicologia e dell’economia. Un tempo i politici della sinistra provenivano perlopiù dalle classi lavoratrici e i loro partiti rappresentavano gli interessi dei lavoratori, ma negli ultimi decenni i politici di sinistra provengono sempre più dalle classi medie borghesi, e i loro partiti hanno finito per abbracciare gli interessi dei nuovi ceti professionali in cui essi si riconoscono. E invece hanno abbandonato i colletti blu, gli operai e i lavoratori, che hanno invitato a compiere una scelta senza scampo: migliorarsi oppure sopportare il peso del loro fallimento. “La ribellione populista degli ultimi anni ha rappresentato una rivolta contro la tirannia del merito portata avanti da coloro che si erano sentiti umiliati dalla meritocrazia e dal suo intero progetto politico” sostenuta colpevolmente anche dalle forze di sinistra, afferma Sandel. Le persone che hanno votato per la destra, che hanno sostenuto Trump negli Stati Uniti e che ora sostengono Giorgia Meloni qui in Italia, lo hanno fatto soprattutto per il loro profondo senso di insicurezza e per il risentimento nei confronti delle elite. La colpa delle sinistre è di avere abbracciato in maniera acritica i valori del mercato e della meritocrazia preparando in questo modo l’avvento delle destre. Il solo modo per uscire da questa crisi, sostengono Sandel e altri pensatori di sinistra, è di abbandonare questa ideologia meritocratica che finisce per dividere la società tra vincenti e perdenti. Eppure, la pandemia di Covid-19 ci dovrebbe aver mostrato in maniera lampante quale valore abbia il lavoro umile, e sottopagato. “Dopo la pandemia dovremmo iniziare a dibattere seriamente sulla dignità del lavoro, su come premiare il lavoro sia in termini di salari ma anche in termini di stima sociale. Dovremmo aver capito quanto profondamente noi dipendiamo non solo dall’opera dei dottori e degli infermieri, ma anche da quella dei lavoratori che fanno le consegne, dei magazzinieri, dei camionisti, delle badanti, dei lattai, dei contadini, delle maestre d’asilo, degli insegnanti. Questi ultimi forse non hanno gli stipendi più alti ma sono lavoratori cruciali per le nostre esistenze”. Insomma, la sinistra dovrebbe riflettere se la scuola e l’università siano davvero un luogo adatto per giudicare chi merita e chi no. Dovrebbe invece proporre di investire maggiormente per garantire salari migliori e un welfare più dignitoso a tutti quei lavoratori che non hanno avuto accesso all’università o che svolgono lavori cosiddetti umili. Dovrebbe proporre una tassazione progressiva per rimediare almeno in parte alle disuguaglianze, dato che non tutti quelli che occupano posizioni prestigiose e hanno salari altissimi se li sono guadagnati grazie esclusivamente ai loro meriti, ma in gran parte grazie alla loro sorte e alla loro posizione sociale. Conclude Sandel: “Bisognerebbe coltivare la virtù civica dell’umiltà, che in questo momento è un antidoto necessario alla ubris meritocratica che continua a dividerci”. Stati Uniti. Pena di morte: la governatrice abolizionista salva 17 detenuti di Sara Volandri Il Dubbio, 15 dicembre 2022 Oregon, l’iniziativa della dem Kate Brown. Le condanne sono commutate in ergastoli. La democratica statunitense Kate Brown che ritiene da sempre la pena di morte “una barbarie”, una vendetta di Stato, è stata confermata lo scorso mese governatrice dell’Oregon. È il suo primo atto è stato di assoluta fedeltà ai suoi principi: martedì scorso ha infatti annunciato l’annullamento di 17 condanne alla pena capitale che verranno commutate in altrettanti ergastoli. Un regime detentivo duro, certo, e senza possibilità di libertà vigilata, ma decisamente più umano dell’iniezione letale. “Sono convinta che eliminare una vita non sia una forma di giustizia e che lo Stato non debba giustiare i suoi cittadini, anche quando sono riconosciuti responsabili di crimini tremendi”, ha commentato Brown continuando la moratoria sulla pena di morte imposta dal suo predecessore, l’ex governatore John Kitzhaber. Finora, 17 persone sono state giustiziate negli Stati Uniti nel 2022, tutte per iniezione letale e tutte in Texas, Oklahoma, Arizona, Missouri e Alabama, secondo le statistiche del Death Penalty Information Center. Piace Come l’Oregon, diversi stati si stanno allontanando dalle esecuzioni capitali. In California, il governatore democratico Gavin Newsom ha imposto una moratoria sulle esecuzioni nel 2019 e ha chiuso la camera delle esecuzioni dello stato a San Quentin. Un anno fa, si è mosso per smantellare il più grande braccio della morte americano spostando tutti i detenuti condannati in altre carceri entro due anni. La governatrice è nota per esercitare la sua autorità esecutiva ispirata da una filosofia. Durante la pandemia di coronavirus, Brown ha concesso la grazia a quasi 1.000 persone condannate per vari crimini. Scontrandosi con ben due procuratori distrettuali e con i familiari delle vittime che l’hanno citata in giudizio assieme ad altri funzionari statali per fermare le azioni di clemenza. Ma la Corte d’appello dell’Oregon ha stabilito ad agosto che Brown ha agito nell’ambito della sua autorità. I pubblici ministeri, in particolare, si sono opposti alla decisione di Brown di consentire a 73 persone condannate per omicidio, aggressione, stupro e omicidio colposo mentre avevano meno di 18 anni di richiedere il rilascio anticipato. Brown ha replicato di aver concesso le grazie o le commutazioni a pene minori “a persone che hanno dimostrato una crescita e una riabilitazione straordinarie”, ma ha affermato che questo principio non si applicava alla sua ultima decisione. “Queste commutazioni non si basano su alcuno sforzo riabilitativo da parte delle persone nel braccio della morte”, ha spiegato Brown. “Invece esprimono il riconoscimento che la pena di morte è immorale. È una pena irreversibile che non ammette correzione”. Il Dipartimento penitenziario dell’Oregon ha annunciato nel 2020 che stava gradualmente eliminando nelle carceri le sezioni del braccio della morte e riassegnando i detenuti ad altre unità abitative speciali presso il penitenziario statale di Salem e altre prigioni statali. Un elenco di detenuti condannati a morte fornito dall’ufficio del governatore conteneva 17 nomi. Ma il sito web del Dipartimento penitenziario statale elenca 21 nomi. Uno di quei prigionieri, tuttavia, ha avuto la sua condanna a morte annullata dalla Corte Suprema dell’Oregon nel 2021 perché il crimine che ha commesso non era più idoneo alla pena di morte ai sensi di una legge del 2019. I funzionari dell’ufficio del governatore e del dipartimento penitenziario non avevano poi risposto immediatamente al tentativo di riconciliare le liste. Iran. Con il movimento di massa, senza disincanto di Marco Bascetta Il Manifesto, 15 dicembre 2022 Perché dopo mesi di sollevazione di massa, centinaia di morti, migliaia di arrestati, decine di condanne a morte e due impiccagioni eseguite, nessuna estesa mobilitazione popolare contro il regime di Teheran si è sviluppata in Europa o negli Stati uniti? Dopo la grande manifestazione di Berlino nel mese di ottobre, nessuna piazza si è più riempita significativamente a sostegno delle ragazze e dei ragazzi che, a rischio della vita, sfidano la repressione di un regime oppressivo, spietato, ferocemente patriarcale. E ormai insostenibile per grande parte della popolazione iraniana. Provare a rispondere a questa domanda può forse rivelarci qualcosa sullo stato in cui versano, in generale, i movimenti di lotta nel vecchio continente. Non si tratta di azzardare paragoni con la stagione epica e da tempo tramontata delle lotte internazionaliste, ma di interrogarsi sulle remore, sulle difficoltà e sul disincanto che determinano questa inerzia. Che lascia il campo alle sole condanne formali di governi e istituzioni internazionali, alle note diplomatiche e allo strumento spuntato delle sanzioni che, come ormai ampiamente dimostrato, si abbattono prevalentemente sulla vita dei cittadini del paese colpito, rinsaldano la retorica nazionalista del regime e inaspriscono la persecuzione dei suoi critici. Sanzioni peraltro assai prudenti nel salvaguardare gli interessi economici dei sanzionatori. La prima remora che salta agli occhi è, se non proprio un’assuefazione all’orrore, quel sentimento di impotenza, quel non sapere da dove incominciare, che deriva dal sentirsi spaesati e sopraffatti dalla marcia trionfante della dominazione violenta nel mondo e dal moltiplicarsi delle derive autoritarie: il Myanmar, l’Afghanistan talebano, il sultanato di Erdogan e la sua espansione bellica in Siria, lo Yemen, l’Arabia e gli Emirati che comprano verginità al mercato del Parlamento europeo. Solo un discorso universalistico e fondato sulla trascendenza, come quello della Chiesa riuscirebbe a tenere insieme (quasi) tutto questo, senza peraltro spingersi troppo in là nella legittimazione dello ius resitentiae. In Iran, tuttavia, questa la sua specificità, è in corso non una guerra ma una sollevazione di massa non più inerme. Una rivoluzione democratica e radicale senza partito, che comunque si prefigge di andare fino in fondo. La seconda remora da cui guardarsi è quel purismo che diffida dei caratteri inevitabilmente spuri di ogni grande sommovimento sociale e sobbalza vedendo sventolare tra i manifestanti qualche bandiera monarchica. E che, in questo caso con qualche ragione in più, teme quell’eterogenesi dei fini, che ha mandato in malora rivoluzioni e lotte di liberazione, compresa la rivoluzione iraniana del 1979. Ma il pessimismo storico non è certo argomento che possa essere messo in campo per negare sostegno a chi si batte contro l’oppressione. La terza remora, tenacissima e insidiosa, è il timore di ritrovarsi dentro un movimento di solidarietà “generalista” e indifferenziato che comprenda fanatici dell’atlantismo, adoratori del neoliberalismo, sacerdoti dell’assoluta perfezione dei modelli occidentali, antislamici e partiti passepartout. Tutti insieme a strepitare contro il “medioevo” dei mullah, incensando nel contempo la propria progredita modernità. Non sarebbe impossibile, tuttavia, proteggersi da questa palude larga, prendendo l’iniziativa, affermando una idea non subalterna di democrazia confliggente e adottando pratiche radicali di lotta prive di tatto e in contrasto frontale con l’autocelebrazione occidentale. La quarta remora, che riguarda gli epigoni più o meno tetragoni del terzomondismo, consiste in un sospetto di fondo che effettivamente vi sia, come sostiene il regime di Teheran, qualche zampino occidentale dietro le rivolte. E che, sia pure in una soffocante forma teocratica, l’Iran contrasti comunque efficacemente l’imperialismo americano in Medio oriente e mantenga una ostilità senza compromessi nei confronti dello Stato di Israele. Questo genere di considerazioni ha spinto alcune frange della sinistra radicale a seguire il fondamentalismo sciita anche in quel percorso che cancellava brutalmente le componenti laiche e socialiste che avevano decisivamente contribuito alla cacciata dello Shah nel 1979. Seguendo la sciagurata dottrina che ha legittimato anche le peggiori dittature purché fossero schierate contro gli Stati uniti. Nei prossimi giorni continueremo probabilmente ad assistere a esecuzioni capitali e alle violenze di una milizia pretoriana non dissimile dai Tontons Macoutes che terrorizzarono la gente di Haiti durante la dittatura dei Duvalier. Uno scenario talmente orrorifico da cominciare ad aprire qualche crepa e qualche distinguo anche ai vertici della gerarchia religiosa in Iran. Sarebbe dunque l’ora, superando timori e resistenze, di amplificare al massimo la voce e il peso politico della rivolta attraverso una grande mobilitazione dal basso, a partire dalle studentesse e dagli studenti e da quei movimenti già attivi che alle ragioni di questa insorgenza non sono estranei e non possono essere indifferenti.