Ridurre le condanne al carcere per evitare le sue storture di Lucia Castellano La Stampa, 14 dicembre 2022 Scongiurare le pene detentive e ripensare la gestione degli ospiti è l’unica via per ridare loro dignità. Solo opportunità formative e di contatto con il territorio possono rendere sensato quel tempo. Quale senso può avere essere alla testa di un’istituzione che, nel quotidiano svolgersi della vita “intramoenia”, quella dietro il muro di cinta, sembra tradire il fine che le è stato assegnato dalla Costituzione, ovvero tendere alla rieducazione dei propri ospiti? È la domanda che mi pongo dal 1991, quando ho cominciato il mestiere di direttore penitenziario. Da agosto 2022 sono responsabile degli istituti di pena della Campania (6.777 detenuti su 56.524, distribuiti in 15 istituti di pena) e, dopo una parentesi di 11 anni (di cui 6 nel settore probation), sono tornata a lavorare, appunto, “intramoenia”. E la domanda è sempre la stessa. È un po’ come un ospedale che non cura e una scuola che non insegna… e certo non per l’inadeguatezza di chi governa e gestisce le carceri, anzi. Noi tutti, a ciascun livello, confessiamo l’uno all’altro l’impotenza di trovarci all’interno di un sistema più grande di noi, difficile da cambiare, a volte anche da governare. Donatella Stasio e Mauro Palma descrivono con chiarezza e profondità di pensiero le ragioni di questa distanza tra norme e prassi, principi costituzionali e quotidianità mortificanti: l’isolamento, l’invivibilità dei luoghi, la mancanza di connessione con il territorio. Ancora, un sottile mandato del mondo dei liberi: in fondo se la sono cercata, che stiano lì, nella rancorosa indifferenza degli altri. L’isolamento e la mortificazione della dignità è dunque connessa alla condizione di colpevole? Provo ad aggiungere qualche riflessione, alla luce della mia recente, ritrovata consuetudine con questo mondo, sia pur con un diverso ruolo. Devo premettere che a mio avviso l’insensatezza del carcere va combattuta riducendo drasticamente il ricorso a questa forma di risposta punitiva. Oggi, grazie anche alla riforma Cartabia, abbiamo tutti gli strumenti per farlo. Sotto i 4 anni di pena, in carcere non ci si dovrebbe finire, in sintesi. Sappiamo anche che così non è, ci sono migliaia di persone che devono scontare anche solo un anno e sono dentro. I 15 istituti di pena della mia regione soffrono di gigantismo (il “monstrum” è rappresentato da Poggioreale, con i suoi 2.150 ospiti), e di nanismo (penso a Eboli, che ne ha solo 37). Con tutta la buona volontà possibile riesce davvero difficile garantire condizioni di vita dignitose e una quotidianità costituzionalmente orientata a più di 2.000 persone recluse in un unico posto, per di più dagli spazi estremamente angusti. Gli altri istituti vanno dai 1.254 ospiti del Centro Penitenziario di Secondigliano, agli 847 di Santa Maria Capua Vetere e poi a scendere (500 a Salerno e ad Avellino, 375 a Benevento, 361 a Carinola, fino a raggiungere i 55 detenuti di Arienzo e i 37 di Eboli). La distribuzione dei detenuti, l’organizzazione di circuiti detentivi che consentano una vita dignitosa e un contatto costante con il territorio è impresa titanica, ma è il primo elemento su cui si misura il senso e la dignità della carcerazione. Significa provare a dare un’identità, non solo nominale ma anche sostanziale a ciascun istituto, pretendendo, innanzitutto, una distribuzione omogenea di persone all’interno (non troppe, né troppo poche) e poi un’offerta potente di opportunità lavorative, formative e di contatto con il territorio, che renda sensato il tempo detentivo. Perché è difficile? Torno alle parole di Donatella: molti istituti di pena sono pensati come “non luoghi” costruiti in mezzo al nulla (è il caso di Santa Maria Capua Vetere, della Casa di Reclusione di Carinola); un istituto come Sant’Angelo dei Lombardi, noto per il proliferare di attività di ogni genere e per la qualità della vita intramoenia, non è raggiungibile se non con l’auto. La sfida per una ritrovata identità parte dunque dal territorio, dalla capacità di creare collegamenti adeguati, che consentano di raggiungere l’istituto come qualsiasi altra istituzione cittadina, di stimolare le agenzie pubbliche e private a partecipare alla vita del carcere, a fruire della risorsa che ciascun detenuto rappresenta e, a loro volta, a mettere a disposizione le proprie risorse in favore dell’istituto di pena (scuola, attività culturali, sportive ecc.). Se questo legame non si crea, avremo delle monadi, più o meno abitate, al cui interno si consuma un tempo insensato, per chi le abita e per chi lavora al loro interno. Il rapporto tra carcere e territorio deve essere quello di due vasi comunicanti, o non se ne esce. In tale direzione, Donatella lo descrive bene, si avvia virtuosamente la cittadella penitenziaria di Santa Maira Capua Vetere, costruita senza l’allaccio dell’acqua potabile nel 1996 e per troppo tempo abbandonata; oggi, grazie alla fatica della direzione e degli operatori tutti, l’istituto si apre al territorio, con cui collabora con intelligenza e visione, cercando reali sbocchi lavorativi che rispondano alla domanda espressa dalla comunità dei liberi. E l’aria è cambiata. Da sempre sostengo che il carcere “si respira”. E quando langue nell’isolamento lo si avverte negli sguardi di chi ci lavora e di chi ci abita, nella freddezza spettrale dei corridoi, nella spersonalizzazione dell’identità che porta così spesso, purtroppo, al suicidio. Lavorare sul sistema regione è dunque la prima, difficile sfida, che consiste nel tentativo di ridurre il numero di ospiti a Poggioreale (dove, proprio oggi, si è consumato l’ultimo suicidio, un ragazzo di 30 anni detenuto per spaccio, fine pena 2026) e di proporre, calibrando bene esigenze di sicurezza e di reinserimento sociale, percorsi detentivi quanto più possibile disegnati sulla storia delle persone detenute. È sfidante, e difficile, anche programmare ristrutturazioni degli edifici detentivi che offrano una ritrovata dignità del quotidiano: il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ci ha dato indicazioni precise in tal senso, e anche fondi. In tali operazioni, vale la stessa collegialità e condivisione di obiettivi con il territorio che ho tentato di descrivere prima. È importante che i Provveditorati alle Opere Pubbliche, le Sovrintendenze ai Beni Culturali siano parte attiva del percorso, condividendo l’emergenza umanitaria rappresentata da un posto come Poggioreale, ad esempio. È imprescindibile l’abbandono di qualsiasi forma di burocrazia difensiva, favorendo la snellezza e la velocità delle procedure. Infine, va costruita una quotidianità penitenziaria che riduca al massimo l’afflittività aggiuntiva, fatta di giornate sempre uguali, di regole non spiegate e spesso incomprensibili, di mancanza di scopo e di prospettiva del tempo detenuto. E questa deprivazione si legge anche negli sguardi degli operatori, della polizia penitenziaria e dell’area educativa. Quando invece esiste un progetto, sono gli stessi poliziotti che te lo spiegano, te lo raccontano con orgoglio. E questo dà un senso anche al tempo lavorativo, naturalmente. Nelle mie visite negli istituti campani, il poliziotto che mi mostra il tenimento agricolo e la produzione del miele, quello che con orgoglio mi porta a vedere la sezione che ha appena ristrutturato insieme ai detenuti che lavorano alla manutenzione del fabbricato, mi fanno pensare che la strada è lunga e difficile, ma è quella. E l’applauso all’entusiastica coralità che ha visto detenuti operatori e magistrati recitare insieme nel teatro di Caserta è anche il mio applauso di Provveditrice, la mia convinta adesione all’unica risposta possibile all’insensatezza del carcere. Carceri oltre ogni limite, l’appello dei Garanti di Eleonora Martini Il Manifesto, 14 dicembre 2022 Dal 31 dicembre i detenuti ai domiciliari torneranno in cella. Mauro Palma rilancia l’appello di Bergoglio per un “gesto di clemenza per chi è privato della libertà”. “Il trentenne Francesco, papà di due gemelli neonati, ha compiuto il folle gesto, lasciandosi morire impiccato nella sua cella”, ha rivelato ieri il Garante campano delle persone private della libertà personale, Samuele Ciambriello, aggiungendo particolari a quello che in una contabilità estraniante e fredda viene annoverato come l’80esimo suicidio nelle carceri italiane e il settimo negli istituti penitenziari della Campania dall’inizio dell’anno. Una notizia che arriva da Poggioreale e che mostra - se mai ce ne fosse stato ancora bisogno - l’urgenza di quel “gesto di clemenza per chi è privato della libertà” che Papa Francesco ha chiesto tramite una lettera inviata a tutti i Capi di Stato in vista del Natale, e che ieri è stato rilanciato dal Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma. L’indulto di fine anno richiesto urbi et orbi da Bergoglio sarebbe atto particolarmente necessario anche in Italia, se non altro per rinvigorire il profondo significato dell’”esercizio della giustizia”. “Perché - come sottolinea Mauro Palma - non c’è giustizia senza anche atti di clemenza”. D’altronde, ricorda il Garante nazionale delle persone private di libertà, c’era un tempo in cui “il ministero si chiamava “di Grazia e Giustizia”. È vero che ora la Grazia è presidenziale, non più ministeriale, però la clemenza in qualche modo è anche una componente della giustizia. Deve sempre esserci”. E invece nelle carceri italiane e nel nostro sistema di esecuzione della pena troppo spesso non c’è Grazia e neppure Giustizia. Basti pensare a quanto accaduto nella casa circondariale di Ivrea, dove ieri 8 agenti tra cui il comandante della polizia penitenziaria e il direttore dell’istituto sono stati sospesi per un anno dal Gip, Ombretta Vanini, dopo gli interrogatori di garanzia relativi all’inchiesta sulle presunte violenze e torture inflitte ad alcuni detenuti. Un fascicolo aperto da pochi mesi (mentre le botte e i soprusi sono stati denunciati a più riprese dal 2016 da associazioni come Antigone e partiti come i Radicali e Sel) che coinvolge 45 indagati tra il personale penitenziario, agenti, medici e dirigenti. Ma soprattutto basti pensare all’incomprensibile decisione del Parlamento di far tornare in carcere dal 31 dicembre quei 700 detenuti che dal 2020 scontavano ai domiciliari il residuo di pena (inferiore ai 18 mesi) per limitare la diffusione del Covid in un sistema penitenziario che è cronicamente sovraffollato, e che attualmente ha raggiunto quasi il 120% di saturazione. “Oltre 56.000 detenuti per circa 47.000 posti effettivi, con una crescita di 1.500 unità negli ultimi 4 mesi”, precisa Antigone che chiede al ministro Nordio di intervenire per limitare il danno compiuto dal respingimento della proroga alla scadenza del 31 dicembre che era contenuta nel decreto Rave. Si tratta, come ha spiegato Stefano Anastasia, portavoce dei Garanti territoriali, di “detenuti di lungo corso, da anni in regime di semilibertà, che per due anni hanno goduto di una licenza straordinaria che gli consentiva di restare anche di notte a casa; persone che hanno scrupolosamente osservato le prescrizioni impartitegli dal giudice di sorveglianza, condannati cioè che hanno mostrato oltre ogni ragionevole dubbio il loro positivo reinserimento nella società”. E ora, conclude Anastasia, “dal primo di gennaio dovranno ripresentarsi a dormire in carcere, costringendo l’Amministrazione penitenziaria a liberare gli spazi da loro precedentemente occupati e ora destinati ad altre funzioni. È una palese ingiustizia”. Papa Francesco: “Per Natale un gesto di clemenza verso i detenuti” L’Osservatore Romano, 14 dicembre 2022 Lo chiede il Pontefice in una lettera ai capi di Stato. In occasione del Natale, Papa Francesco “sta inviando a tutti i capi di Stato una lettera per invitarli a compiere un gesto di clemenza verso quei nostri fratelli e sorelle privati ??della libertà che essi ritengano idonei a beneficiare di tale misura, perché questo tempo segnato da tensioni, ingiustizie e conflitti, possa aprirsi alla grazia che viene dal Signore”. Lo ha comunicato ieri il direttore della Sala stampa della Santa Sede, Matteo Bruni. Un gesto che richiama quello che lo stesso Francesco aveva annunciato il 6 novembre 2016, nella giornata del Giubileo della misericordia dedicata ai carcerati, quando - dopo aver celebrato la messa nella basilica di San Pietro con la partecipazione dei detenuti - durante la preghiera dell’Angelus aveva lanciato “un appello in favore del miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri in tutto il mondo, affinché sia rispettata pienamente la dignità umana dei detenuti”. Ribadendo, in particolare, “l’importanza di riflettere sulla necessità di una giustizia penale che non sia esclusivamente punitiva, ma aperta alla speranza e alla prospettiva di reinserire il reo nella società”. “In modo speciale - aveva detto il Pontefice - sottopongo alla considerazione delle competenti autorità civili di ogni Paese la possibilità di compiere, in questo Anno santo della misericordia, un atto di clemenza verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di tale provvedimento”. Nella linea dell’attenzione dei Papi alle persone in carcere, sempre nell’ambito giubilare - era l’Anno santo del 2000 - Papa Giovanni Paolo ii aveva rivolto un appello ai governanti di tutto il mondo, attraverso il messaggio, firmato il 24 giugno, “inviato a quanti hanno la responsabilità di amministrare la giustizia nella società e ai detenuti e alle detenute di ogni parte del mondo in occasione della Giornata del Giubileo nelle carceri”, in calendario il 9 luglio. Un appello non per “applicare quasi automaticamente o in modo meramente decorativo provvedimenti di clemenza che restino soltanto formali, così che poi, a Giubileo concluso, tutto torni ad essere come prima. Si tratta, invece, di varare iniziative che possano costituire una valida premessa per un autentico rinnovamento sia della mentalità che delle istituzioni”. “Continuando una tradizione instaurata dai miei predecessori in occasione degli Anni giubilari - sono le parole del messaggio di Papa Wojty?a - mi rivolgo con fiducia ai responsabili degli Stati per invocare un segno di clemenza a vantaggio di tutti i detenuti: una riduzione, pur modesta, della pena costituirebbe per i detenuti un chiaro segno di sensibilità verso la loro condizione, che non mancherebbe di suscitare echi favorevoli nei loro animi, incoraggiandoli nell’impegno del pentimento per il male fatto e sollecitandone il personale ravvedimento”. E ancora: “L’accoglimento di questa proposta da parte delle autorità responsabili, mentre inviterebbe i detenuti a guardare al futuro con nuova speranza, costituirebbe anche un segno eloquente del progressivo affermarsi nel mondo, che si apre al terzo millennio cristiano, di una giustizia più vera, perché aperta alla forza liberatrice dell’amore”. Il 9 luglio Giovanni Paolo II, in visita al carcere romano di Regina Coeli, nel giorno del Giubileo dedicato ai detenuti, aveva rilanciato i contenuti del messaggio. Ebbe a dire al termine della celebrazione della messa rivolgendosi proprio alle persone in prigione: “Nel messaggio che ho inviato al mondo intero per questa giornata giubilare, sulle orme dei miei predecessori, ho invocato per voi un segno di clemenza, attraverso una “riduzione della pena”. L’ho chiesto nella profonda convinzione che una tale scelta costituisca un segno di sensibilità verso la vostra condizione, capace di incoraggiare l’impegno del pentimento e di sollecitare il personale ravvedimento”. Ripetendo l’appello subito dopo, all’Angelus recitato con i pellegrini in piazza San Pietro. Giovanni Paolo II aveva poi rinnovato la richiesta il 14 novembre 2002, in occasione della sua visita al Parlamento italiano in seduta pubblica comune, nel Palazzo di Montecitorio: “Merita attenzione la situazione delle carceri, nelle quali i detenuti vivono spesso in condizioni di penoso sovraffollamento. Un segno di clemenza verso di loro mediante una riduzione della pena costituirebbe una chiara manifestazione di sensibilità, che non mancherebbe di stimolarne l’impegno di personale ricupero in vista di un positivo reinserimento nella società”. “Giustizia e atti di clemenza”. I primi sì all’appello del Papa di Daniela Fassini Avvenire, 14 dicembre 2022 “Sono pienamente d’accordo con il Papa, perché la clemenza è una componente della giustizia”. Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, è il primo a schierarsi dalla parte di Francesco, ad accogliere cioè l’invito trasmesso dal Papa a tutti i capi di Stato. In vista del Natale, il Pontefice chiede di compiere “un gesto di clemenza verso quei nostri fratelli e sorelle privati della libertà che essi ritengano idonei a beneficiare di tale misura”. Il carcere non è un “altrove”: sottolinea il Garante con la speranza dunque che le sue parole “non cadano nel vuoto”. “Non so se l’invito del Papa sarà accolto - prosegue Palma - ma penso e spero che sia comunque accolto nel dibattito pubblico, perché poi il parlamento molto spesso agisce anche là dove sente che qualcosa ha toccato la sensibilità del dibattito pubblico. Credo, dunque, che premessa affinché il parlamento esamini il problema è la sensazione che il problema stesso abbia toccato qualche corda del dibattito sociale esterno”. “Sottolineo due aspetti - aggiunge Palma - il primo per ricordare che un tempo il ministero si chiamava “di Grazia e Giustizia”: È vero che ora la Grazia è presidenziale, non più ministeriale, però la clemenza in qualche modo è anche una componente della giustizia. Deve sempre esserci. Certo, spetta a un’autorità ecclesiastica e morale come il Papa parlarne, ma spetta a chi gestisce la cosa pubblica trovare anche le forme. La seconda cosa che mi colpisce è che il Santo Padre parla giustamente di persone private della libertà: non parla solo di carcere, perché, attenzione, c’è anche tanta gente che sta, ad esempio, nei Cpr e via dicendo”. “Fintanto che il carcere verrà considerato come un “altrove; e che quindi non ci riguarda - chiosa, infine, il Garante dei detenuti - allora anche le parole del Papa possono cadere nel vuoto. Dobbiamo invece pensare che è qualcosa che interroga noi. E la parte magari malata del nostro corpo sociale, ma è una parte del nostro corpo sociale e non dobbiamo pensarlo come un “altrove”. Intanto c’è preoccupazione per quei detenuti che dal prossimo 1 gennaio dovranno rientrare in carcere a dormire. Si tratta di circa 700 persone che hanno beneficiato del regime di semilibertà varato contro il Covid. “Nel loro caso questi provvedimenti consistevano nel non rientrare in carcere la notte, dopo aver passato la giornata fuori, in libertà, per attività di lavoro o altre attività autorizzate spiega Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - Dal 31 dicembre, senza un ulteriore proroga, questi detenuti dovranno tornare in carcere la notte e, questo, nonostante in questi due anni abbiano dato grande prova di affidabilità, ripagando ampiamente la fiducia che le istituzioni avevano riposto in loro. Proprio questo rapporto di fiducia creatosi dovrebbe portare il governo a decidere per questa proroga”. Per Gonnella, che auspica un intervento del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, “in un momento in cui il sovraffollamento sta tornando a livelli preoccupanti (sono oltre 56.000 le persone detenute per circa 47.000 posti effettivi, con una crescita di 1.500 unità negli ultimi quattro mesi), trovare nuovamente posto a queste 700 persone è un aggravio in più per tutto il sistema penitenziario e per gli operatori”. Il Papa chiede clemenza per i detenuti: Mattarella, ascoltalo perché ha ragione! di Piero Sansonetti Il Riformista, 14 dicembre 2022 Ieri è uscita anche la notizia di un’iniziativa politica e diplomatica di Papa Bergoglio. Si è saputo che ha scritto una lettera a tutti i capi di Stato del mondo per chiedere clemenza per i detenuti. Non conosciamo le argomentazioni contenute in questa lettera, immaginiamo che partano proprio dai fatti di cronaca. Come l’aumento vorticoso, in Italia, dei suicidi, e come l’atrocità delle esecuzioni che stanno avvenendo in Iran, nella folle corsa repressiva dello Stato contro le proteste delle donne e dei giovani. In una settimana sono stati impiccati due ragazzi, come quel ragazzo che si è impiccato a Poggioreale. Il papa non credo che si limiti a chiedere la riduzione degli eccessi punitivi, immagino che sollevi un problema filosofico - se così possiamo dire - più complesso. La necessità di por fine alla società della pena. Cioè a quel modo di pensare la società moderna come un complesso di relazioni umane e sociali e giuridiche regolato essenzialmente dal rigore e dalla certezza della pena. Non è una novità che il papa consideri questo modello di società molto lontano dal modello cristiano che lui ha in mente, avendolo costruito leggendo il vangelo e le idee innovative e modernissime di Gesù. Idee ancora lontanissime dal senso comune che comanda in Europa, e dalle idee politiche della destra e della sinistra. Oggi la popolazione carceraria, in Occidente, è molto grande. Milioni di persone. La maggioranza delle quali vive nelle prigioni americane, cioè del paese guida. Che - oltretutto - oltre al metodo antico e feroce del carcere usa con disinvoltura, ancora, il metodo ancora più antico della pena di morte. Come l’Iran, come la Cina, come la Corea di Kim. Negli Stati Uniti i prigionieri sono circa tre milioni, cioè quasi l’1 per cento della popolazione. In maggioranza neri. In Europa, per fortuna, sono molto meno: circa l’uno per mille. E tuttavia anche l’1 per mille è una cifra altissima. Specialmente se consideriamo che in alcuni paesi europei (l’Italia principalmente) una parte consistente (circa un terzo) dei detenuti è in carcerazione preventiva, cioè senza essere stata riconosciuta colpevole. La lettera del papa è una randellata all’ipocrisia e all’autoritarismo delle democrazie occidentali. Non so se qualcuno vorrà ascoltarlo. Basterebbe che un capo di Stato di un paese importante (Italia, Francia, Spagna, Germania…) decidesse di rispondere al capo della religione cattolica e promettesse di intervenire contro la barbarie del carcere, basterebbe che uno solo avesse questo coraggio e forse, finalmente, si potrebbe avviare un processo di civilizzazione. Io temo che questo non avverrà. E che in Occidente, come in Italia, la scelta sarà quella di seguire ancora Travaglio e non Bergoglio. Altro passo indietro sul carcere: 700 semiliberi ritorneranno in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 dicembre 2022 Niente proroga nel decreto anti rave per i semiliberi, così il governo “premia” chi si è comportato bene per due anni. Intanto Magi di +Europa presenta un emendamento alla manovra: un finanziamento per la legge Smuraglia. Il primo gennaio rientreranno in carcere 700 persone, formalmente detenute, ma che per due anni hanno usufruito della semilibertà grazie alla misura anti Covid che ha consentito di alleggerire i penitenziari. In questi due anni si sono comportati bene, hanno dimostrato responsabilità. Ma nulla. Ora vengono “premiati” con il rientro in carcere. Perché? Bocciati in Senato gli emendamenti - Lunedì, al Senato, la maggioranza che sostiene il governo Meloni ha bocciato gli emendamenti al decreto anti-rave, con i quali si chiedeva la proroga della misura a firma dei senatori del Pd Walter Verini, Anna Rossomando, Alfredo Bazoli e Franco Mirabelli. “Il Senato perde l’occasione di fare una cosa giusta: bocciati emendamenti al decreto rave per proroga licenze straordinarie semiliberi. In 700 rientreranno a dormire in carcere a fine anno dopo più di due anni di ottima prova in libertà. Poi dicono che c’è il sovraffollamento”, tuona Stefano Anastasìa, il portavoce dei garanti territoriali, che tanto si è speso per chiedere la proroga. Anche Mauro Palma, in qualità di garante nazionale delle persone private della libertà, ha fin da subito osservato che tali premessi straordinari sono un esempio virtuoso che non va cancellato. Dopo oltre due anni i semiliberi retrocedono al punto di partenza - Dopo oltre due anni, i semiliberi hanno fatto dei progressi, hanno dimostrato di essere, di fatto, reinseriti gradualmente alla società. Ed ora, con la mancata proroga, retrocedono al punto di partenza, ritornando a varcare le soglie delle patrie galere. La tragedia della pandemia ha, di fatto, come in altri ambiti, trovato impreparate le carceri. Ma dalle emergenze, possono nascere anche azioni positive. Il sistema penitenziario, per far fronte all’emergenza, ha messo in campo misure previste dalla mancata riforma dell’ordinamento penitenziario. Dall’aumento delle telefonate alle licenze straordinarie. Poteva, appunto, essere l’occasione di creare le condizioni adatte per il rinnovamento. Ma la bocciatura degli emendamenti da parte della maggioranza, sono i primissimi segnali di passi indietro, con il rischio concreto di ritornare al punto di partenza. La speranza è che il ministro della Giustizia Nordio possa rimediare dopo una attenta riflessione, convincendo la maggioranza. Emendamento alla manovra di Riccardo Magi per aumentare la spesa per la legge Smuraglia - Nel contempo, sul fronte della legge di bilancio, si gioca un’altra partita sul carcere. Riccardo Magi, deputato e presidente di Più Europa, ha presentato un emendamento che dispone un ulteriore incremento di spesa di 6 milioni di euro a decorrere dall’anno 2023 per favorire l’attività lavorativa dei detenuti. Nel concreto si tratta di finanziare il beneficio contribuito previsto dalla cosiddetta Legge Smuraglia, quella che prevede la concessione di agevolazioni fiscali e gravi contributivi in favore delle aziende pubbliche e private e delle cooperative sociali che forniscono ai detenuti e agli ex detenuti opportunità di lavoro non inferiori ai trenta giorni, o che svolgono attività formative finalizzate all’assunzione nei confronti dei detenuti, e in particolare dei giovani detenuti, con le quali le amministrazioni penitenziarie stipulano convenzioni. Il lavoro può essere svolto sia all’interno che all’esterno degli stabilimenti penitenziari. In particolare si definisce lavoro all’esterno quello che, svolgendosi fuori dalla cinta muraria anche presso imprese pubbliche o private, comporta l’uscita del detenuto dal complesso penitenziario. La distinzione assume rilievo ai fini della concessione delle agevolazioni previste dalla legge. Mentre, infatti, per le Cooperative sociali i benefici trovano applicazione a prescindere dal luogo nel quale le persone detenute o internate svolgono l’attività lavorativa, le aziende pubbliche e private sono ammesse alle agevolazioni limitatamente alle persone impegnate nelle attività lavorative che si svolgono all’interno degli istituti penitenziari. In particolare, agevolazione è costituita da una riduzione delle aliquote contributive dovute dalle cooperative e/o dalle aziende pubbliche o private, relativamente alle retribuzioni corrisposte ai lavoratori. Lo sgravio è stabilito nella misura dell’80% della contribuzione complessivamente dovuta. Per il finanziamento del beneficio contributivo in origine erano destinati complessivamente 5 miliardi di lire (€ 2.582.284,50 Euro) annui. In seguito il Decreto-legge 28 giugno 2013, n.76 ha disposto l’incremento dell’autorizzazione ditale spesa di 5,5 milioni di euro annui. L’emendamento del deputato Riccardo Magi, riferito alla Legge di Bilancio, come è detto, dispone un ulteriore incremento di spesa di 6 milioni di euro a decorrere dall’anno prossimo. In settimana, probabilmente da domani giovedì 15 dicembre, dovrebbero iniziare i voti agli emendamenti. Ci si augura che non sia l’ennesima occasione persa sul carcere. “Basta semilibertà”. Così lo Stato tradisce i detenuti di Stefano Anastasia* Il Riformista, 14 dicembre 2022 A causa del Covid hanno goduto di una licenza che gli consentiva di dormire a casa o in strutture di accoglienza, ora la retrocessione. Lo ha deciso questo governo. Ma la Costituzione parla di rieducazione. “Signor Presidente, esprimo parere contrario su tutti gli emendamenti presentati all’articolo 4”, così la senatrice Buongiorno, relatrice di maggioranza al decreto-legge anti-rave, ha calato la scure non solo sulle ragionevoli proposte di conversione delle semilibertà in affidamento in prova al servizio sociale per coloro che abbiano goduto delle licenze straordinarie durante l’emergenza Covid, ma anche sulla semplice proroga di queste ultime. Ancor più laconico, se possibile, il sottosegretario alla giustizia Ostellari: “Signor Presidente, esprimo parere conforme a quello della relatrice”. Si compie così una palese ingiustizia: detenuti di lungo corso, da anni in regime di semilibertà (che comporta lo svolgimento di un’attività lavorativa esterna e una limitata libertà di movimento in città, ivi compresa la possibilità di cenare a casa con la famiglia prima di rientrare a dormire in carcere), condannati che per due anni e mezzo hanno goduto di una licenza straordinaria che gli consentiva di dormire a casa o in strutture di accoglienza (lasciando liberi spazi nelle carceri nella pandemia), persone che hanno scrupolosamente osservato le prescrizioni impartitegli dal giudice di sorveglianza (e men che meno hanno commesso reati), condannati - cioè - che hanno mostrato oltre ogni ragionevole dubbio il loro positivo reinserimento nella società, dal primo di gennaio dovranno ripresentarsi a dormire in carcere, costringendo l’Amministrazione penitenziaria a liberare gli spazi da loro precedentemente occupati e ora destinati ad altre funzioni. Off records, qualcuno più loquace in ambienti di governo dice che, non essendoci più stato di emergenza covid, non si giustificano più le licenze straordinarie. Ma il punto non è questo. Quella emergenza, bene o male, toccando ferro, sembra essere passata, ma oggi si chiede altro: un’interpretazione fedele alla Costituzione dell’ordinamento penitenziario. Se la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, se la rieducazione deve essere laicamente intesa nel senso del suo reinserimento in condizioni di autonomia e di legalità nel contesto sociale, non è ammissibile una regressione di fatto nel trattamento penitenziario che non sia conseguente a una infrazione penale o disciplinare, a un tradimento, cioè, da parte del condannato, dell’impegno preso con il giudice di sorveglianza nell’esecuzione della misura alternativa o nel godimento del beneficio. Altrimenti il rischio è che il tradimento (uso deliberatamente e consapevolmente questa parola) del rapporto fiduciario si rovesci a carico dello Stato e delle sue istituzioni, che ignorano la correttezza tenuta dai condannati e l’affidabilità dimostrata, in questo caso non in uno o due giorni di permesso, o in un’occasionale licenza più lunga, ma in due anni e mezzo di pena scontata integralmente fuori dal carcere. Il principio della progressività del trattamento penitenziario (non solo nel senso che si fa un passo alla volta, ma che l’uno e l’altro è auspicabile che si facciano nella stessa direzione) impone che non vi sia una “retrocessione” immotivata nel percorso penale delle persone condannate. Dalla laconicità di quelle dichiarazioni di voto riportate in incipit, non possiamo sapere se maggioranza e governo abbiano votato contro gli emendamenti di proroga o di conversione delle licenze straordinarie per convinzione giustizialista, come qualcuno ama dire, o in astio ai proponenti dell’opposizione (il gruppo del Pd), certo è che ora sta a loro, a Governo e maggioranza, mostrare di avere consapevolezza dei problemi del carcere e rispetto per la Costituzione e i principi fondamentali dell’ordinamento penitenziario. Se non gli sono piaciuti quei pur sacrosanti emendamenti dell’opposizione, trovino loro il modo di rimediare alla palese ingiustizia che si compierebbe alla fine dell’anno. *Portavoce della conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà Sì del Senato al decreto su rave e reati ostativi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 dicembre 2022 Il testo passa ora alla Camera. Norma antirave riformulata per evitarne applicazioni estensive; più articolata disciplina transitoria della riforma Cartabia del processo penale; revisione della disciplina sui reati ostativi; rinvio al 30 giugno 2023 delle sanzioni ai no vax tenuti all’obbligo vaccinale. Questi i contenuti principali del decreto legge approvato ieri dal Senato con 92 sì, 75 no e un astenuto; ora il testo del provvedimento, il primo decreto del nuovo Governo, passa all’esame della Camera. Rave, sì del Senato al decreto (intercettazioni comprese) di Simona Musco Il Dubbio, 14 dicembre 2022 Via libera al Senato al dl Rave, con 92 sì, 75 no e un astenuto. Il testo, che contiene le norme che riformano l’ergastolo ostativo e il nuovo reato di rave, con una pena da 3 a 6 anni, passa ora alla Camera. Un decreto fortemente criticato dalle opposizioni - secondo il dem Franco Mirabelli “aiuta corrotti e corruttori” - che hanno contestato il metodo e il merito, puntando il dito, in particolare, sulla distanza tra il garantismo sbandierato da Nordio nelle sue linee programmatiche e la scelta di istituire un nuovo reato per punire i raduni musicali. Il ministro, ha evidenziato Ivan Scalfarotto, di Italia Viva, “ci ha parlato giustamente di presunzione di innocenza, dell’esagerato uso delle intercettazioni e del diritto alla privacy delle persone, nonché dell’esagerazione e della tendenza che la politica ha a risolvere tutti i problemi del Paese grazie a una sanzione penale”. Ma nonostante le sue “dichiarazioni garantiste” il governo “fa un bel reato nuovo di cui non sentivamo nessuna mancanza, un reato punito con una sanzione pesantissima, con una norma scritta tra l’altro in maniera pedestre”. Per Mirabelli “questo è un provvedimento ricco di segnali spesso contraddittori. C’è il massimo rigore contro chi organizza i Rave e meno rigore nei confronti dei corrotti e dei corruttori o dei no vax - ha evidenziato -. C’è rigore sull’uso delle intercettazioni, considerate indispensabili per combattere i rave, ma dall’altra parte non c’è lo stesso rigore quando si spiega che bisogna intervenire per restringere le intercettazioni per reati ben più gravi. È una legge sbagliata”. Critiche sono arrivate anche dal grillino Roberto Scarpinato, secondo cui la nuova formulazione del reato ostativo disincentiverebbe fortemente la collaborazione con la giustizia, “distruggendo uno degli strumenti rivelatisi più efficaci contro le mafie. Riservare ai condannati che collaborano con la giustizia un trattamento in taluni casi peggiore, ed in altri analogo, a quello previsto per condannati che decidono di non collaborare, significa rendere più pagante la fedeltà al codice dell’omertà rispetto alla collaborazione con lo Stato”, ha dichiarato. “Dietro la maschera di un garantismo di facciata”, dunque, c’è un “pugno di ferro” per i reati di gente comune e “guanti di velluto” per i reati dei colletti bianchi, ha aggiunto, criticando l’esclusione dei reati contro la pa dall’elenco dei reati ostativi. Un risultato, quest’ultimo, raggiunto grazie ad un emendamento di Pierantonio Zanettin, di Forza italia, che ha rivendicato la correzione di molte storture del testo. “Il provvedimento oggi è del tutto rispettoso dei principi contenuti negli articoli 17 e 21 della Costituzione, che garantiscono libertà di riunione e di espressione - ha commentato -. Non è una norma liberticida né un pericolo per la democrazia. Il rave diventa quindi reato, perché l’attuale articolo 633 del Codice penale era inadeguato per reprimere efficacemente il fenomeno - ha aggiunto - È giunto il momento di voltare pagina e noi, come già annunziato, siamo pronti. Con una maggioranza parlamentare così ampia e 5 anni di legislatura davanti, possiamo davvero conseguire obiettivi di grande respiro, dalla separazione delle carriere alla revisione della legge Severino fino alla limitazione del trojan ai reati di mafia e terrorismo. E a chi critica la scelta del governo di reprimere i rave mi piace ricordare un precedente storico significativo: anche il Senato Romano, infatti, nel 186 a.c. come ci racconta Tito Livio, proibì eventi simili ai rave, allora si chiamavano baccanali e creavano disordini” ha concluso. Ma a fare un esempio contrario è stata la senatrice dem Anna Rossomando, che ha citato il caso di Danilo Dolci, arrestato mentre guidava un gruppo di braccianti in una protesta non violenta per rivendicare il diritto al lavoro. “Fu accusato - ha evidenziato - di occupazione di suolo pubblico e resistenza a pubblico ufficiale e a Dolci e ai suoi venne negata la libertà provvisoria”. Il processo a Dolci, difeso da Piero Calamandrei, “fu uno scontro sui modi opposti di considerare la legalità in Italia. La Costituzione come regola vivente dei cittadini contro la pratica dell’autoritarismo gerarchico, eredità del regime precedente. Forse oggi stiamo discutendo ancora di questo dibattito”, ha detto Rossomando. Ma a rivendicare il lavoro del governo ci ha pensato il senatore di FdI Alberto Balboni: “I rave non sono ritrovi amicali fra qualche ragazzo che vuole ascoltare la musica; sono zone franche dove girano droga e alcol a fiumi, dove c’è l’illegalità e sono in pericolo l’incolumità e la salute dei nostri giovani - ha concluso -. Ci sono grandi affari dietro ai rave. Ma come, ce l’avete con il barista che non fa lo scontrino per un caffè e ignorate la montagna di danaro che gira in questi raduni illegali?”. Nordio e i suoi compagni di strada di Luigi Manconi La Repubblica, 14 dicembre 2022 L’approccio del ministro alla riforma della giustizia è sgangherato, come sostiene Bonini. Ma l’ex pm è un garantista in una compagine giustizialista. Ha ragione Carlo Bonini (La Repubblica, del 7 dicembre scorso) nel rilevare come per troppi anni siano mancate una riforma, ma anche un’autoriforma, della magistratura, che delle due componenti della giustizia (come potere e come servizio) valorizzasse la seconda ben più della prima. E ha ragione ancora quando, nella sua disamina delle dichiarazioni programmatiche del ministro Carlo Nordio, arriva a definire “sgangherato” il suo approccio politico, condizionato com’è dall’anima profonda di un governo ossessivamente revanscista. E tuttavia la prospettiva disegnata dal ministro, benché non interamente risolutiva, sembra sottendere una convinzione garantista che va apprezzata. Dopodiché, c’è da chiedersi come una simile convinzione possa sopravvivere, senza farsi troppo male, al confronto con l’ispirazione stolidamente repressiva espressa nel secondo Consiglio dei ministri dal decreto rave. La considerazione da cui muove Nordio è che la presunzione d’innocenza (cardine dello Stato di diritto) sia stata lesionata dalla diffusione, a suo dire spesso “pilotata” e selettiva, delle intercettazioni; da un ricorso alla custodia cautelare “come strumento di pressione investigativa” e dallo “snaturamento” dell’informazione di garanzia, risoltasi in una “condanna mediatica anticipata”, quando non addirittura in misura di “estromissione degli avversari politici” dalla sfera pubblica; dalla degenerazione dell’obbligatorietà dell’azione penale in “intollerabile arbitrio”. L’analisi è in gran parte - e qui la mia opinione si discosta largamente da quella di Bonini - condivisibile. La circolazione extraprocessuale indebita delle intercettazioni - capace di distruggere la vita delle persone - va contrastata con una responsabilizzazione, tanto degli uffici giudiziari quanto dei giornalisti, che non devono confondere ciò che è di pubblico interesse con ciò che è di interesse del pubblico (e ha ragione Luciano Violante quando dice che la separazione delle carriere da sancire è quella tra procure e stampa). Le regole di sobrietà contenutistica nella redazione dei brogliacci sono certamente utili ma non ancora sufficienti (anche perché indebolite dal governo Conte I). E nella “profonda revisione” della disciplina annunciata da Nordio vanno comprese anche adeguate garanzie per le intercettazioni mediante captatore, la cui applicazione sta mostrando tutti i limiti di uno strumento potenzialmente “onnivoro” quale il trojan: tanto più se utilizzato “a strascico”. Vanno poi sanciti limiti più incisivi della custodia cautelare, che dovrebbe rappresentare l’extrema ratio cui ricorrere quando ogni altra soluzione non possa garantire le esigenze di prevenzione speciale, integrità probatoria, contenimento del pericolo di fuga dell’indagato. D’altra parte, l’obbligatorietà dell’azione penale è, in linea di principio, un’indubbia garanzia di democrazia ed eguaglianza, ma rischia di risultare velleitaria in un sistema penale ipertrofico quale il nostro, che difficilmente può soddisfare la pretesa di sviluppo giudiziario di ogni notizia di reato. Rispetto a un’obbligatorietà dell’azione penale, affermata solo sulla carta, è allora preferibile ammetterne la discrezionalità, sia pur temperata dalla previsione di criteri di priorità. Tuttavia, prima di una revisione costituzionale si dovrebbe valorizzare lo strumento dei criteri di priorità (stabiliti dalle procure, tenendo conto della realtà anche territoriale di riferimento, sulla base dei parametri indicati dalla legge), previsto dalla riforma Cartabia. Condivisibile anche l’idea, rilanciata da Nordio, della separazione delle carriere dei magistrati, che - magari con la previsione di due distinti organi di governo autonomo - valorizzi la fisiologica dialettica tra giudicanti e requirenti, purché non comporti (come in Portogallo) soggezione all’esecutivo del pubblico ministero. In altri termini, quella separazione andrebbe attuata continuando ad assicurare la felice anomalia che, nel nostro sistema, connota un pubblico ministero, la cui indipendenza è garantita normativamente e il cui criterio d’imparzialità è osservato nella raccolta di tutte le prove pertinenti, sia a carico che a discarico dell’imputato. Il rischio di un esercizio dell’azione penale improntato a logiche di polizia (non escluso, peraltro, neppure nel sistema attuale) potrebbe essere scongiurato con un’adeguata formazione del pubblico ministero (parte pubblica, ma pur sempre parte, nota il ministro) e con un controllo processuale stringente. Infine, non può non condividersi il passaggio in cui Nordio spiega come certezza della pena non voglia dire, necessariamente, certezza del carcere. Di conseguenza, ancora meno si comprende perché con il decreto-rave si sia differita l’entrata in vigore della riforma Cartabia, che, soprattutto con la previsione di nuove misure sostitutive della detenzione, potrebbe ridurre, almeno in parte, l’area del carcere evitabile. C’è da augurarsi che sia stata solo una falsa partenza, ma temo, piuttosto, che si tratti del prevalere di antiche, mai sopite e robustissime, pulsioni giustizialiste. Rispetto alle quali - va riconosciuto con onestà intellettuale - Carlo Nordio rappresenta una acuta contraddizione. Chi ha paura di Carlo Nordio? (Per una giustizia costituzionale) di Paolo Borgna* Avvenire, 14 dicembre 2022 Obbligatorietà dell’azione penale e intercettazioni, su molti temi manca un confronto vero, svincolato dalle contingenze politiche, fra tutti gli attori coinvolti: magistratura, avvocatura, università. In un’intervista a “il Manifesto” di alcuni giorni fa, Nello Rossi, direttore della rivista “Questione giustizia”, auspicava che i magistrati non rimangano stretti nella tenaglia tra l’atteggiamento polemico del guardasigilli Nordio e una “reazione di segno eguale e contrario che contrasti in toto la sua politica, coinvolgendo nel giudizio negativo anche i suoi tratti di garantismo”. Pensiamo che questo sia l’auspicio di un’ampia opinione pubblica, diffusa in tutti gli schieramenti, anche se il pessimismo della ragione ci dice che ciò difficilmente avverrà. Perché, qualunque cosa si pensi delle proposte di Carlo Nordio, non si può negare che esse tocchino problemi reali, elusi da anni dalle correnti di pensiero maggioritarie nella magistratura e dai suoi tifosi incondizionati. Si pensi all’obbligatorietà dell’azione penale: è indiscutibile che l’articolo 112 della Costituzione (che la prevede con parole chiare e inequivocabili) sia stato concepito come baluardo dell’indipendenza della magistratura, che verrebbe intaccata da qualunque tipo di dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo. Ma soltanto un cieco può negare che l’obbligatorietà sia un orizzonte cui tendere, destinato però a non essere mai raggiunto. E che l’enorme espansione del ruolo del giudiziario di questi ultimi decenni ha attribuito alle Procure una discrezionalità di fatto inimmaginabile nel 1948. Non si tratta tanto del decidere se indagare o no su un certo reato. Ma di scelte organizzative che incidono sul concreto esercizio dell’azione penale. Alcuni esempi? Eccoli. Perché il pubblico ministero può decidere di “spostare il fascio di luce delle indagini” (espressione resa celebre da un procuratore della Repubblica) su un fenomeno criminale a scapito di un altro? Perché per alcuni reati vengono istituiti, all’interno delle Procure, gruppi di lavoro specializzati mentre su altri reati le indagini sono distratte e routinarie? Perché, di fronte a una denuncia per un certo delitto, un pubblico ministero può decidere di disporre intercettazioni telefoniche, complesse e lunghe indagini bancarie, rogatorie all’estero; mentre un altro pubblico ministero procede con i piedi di piombo e con mezzi di prova molto meno invasivi? Perché determinati fascicoli, che riguardano reati di minore gravità, sono messi, per decisione di un procuratore della Repubblica, sul binario morto della sicura prescrizione, con l’intento di dedicare le energie investigative a fatti più gravi; mentre il procuratore di un’altra città manda avanti, fino al rinvio a giudizio, i procedimenti per gli stessi reati? Perché una certa indagine viene privilegiata, seguita direttamente in ogni suo passo dal pubblico ministero, che vi dedicherà tempo, intelligenza, lavoro intenso, collaborazione stretta con i poliziotti migliori, sacrificando ad essa altri fascicoli, burocraticamente affidati per le indagini alla polizia, non diretta personalmente? Sono tutte scelte (insindacabili) che avranno conseguenze decisive sullo sviluppo e l’esito delle indagini. Sono queste le scelte che - ha scritto su queste colonne Mario Chiavario - costituiscono una reale discrezionalità di fatto: “Coprono un potere che va disciplinato”. Come? Questo è il nodo. Su cui la discussione dovrebbe essere aperta. Coniugare indipendenza e responsabilità. Perché essere indipendenti non significa essere irresponsabili. Sfida difficile. Ma da qui bisogna passare. Un discorso simile vale per le intercettazioni; che devono rimanere affidate al controllo esclusivo di un magistrato. Ma come negare che nell’uso di questo prezioso strumento di indagine vi siano state gravi distorsioni? Il problema non è soltanto l’inammissibile (ma ricorrente) diffusione di conversazioni attinenti esclusivamente alla vita privata dei cittadini. Il punto critico è ancora più profondo. È che - come ricorda Giovanni Maria Flick - si tende a dimenticare che il codice ammette le intercettazioni soltanto quando sono “assolutamente indispensabili” per proseguire le indagini. L’avverbio “assolutamente” è spesso dimenticato. Si potrebbe dire: ma allora, basta applicare la legge esistente. Ma se a disapplicare la legge sono i magistrati che ne sono custodi? Quante volte, per giustificare intercettazioni particolarmente estese e prolungate, abbiamo sentito dire: “In quel caso le intercettazioni erano utili!”. Ma ci vogliamo ogni tanto ricordare che nella vita, e tanto più nel processo, non tutto quello che è utile è anche giusto? Cosa risponderemmo a chi ci venisse a dire che le torture degli americani a Guantanamo sono state molto utili per fare confessare molti terroristi? D’accordo: il paragone è esasperato. Ma ci aiuta a capire che la risposta “è utile alle indagini” non può soddisfarci. E che ciò che secondo la Costituzione costituisce l’eccezione non può diventare la regola. L’articolo 15 della Carta consacra come “inviolabile” la libertà e segretezza di ogni forma di comunicazione. Certo, il capoverso di quell’articolo aggiunge che anche quel diritto di libertà può essere limitato con un atto motivato dell’autorità giudiziaria. Ma chi è chiamato a esercitare questo terribile potere dovrebbe farlo soltanto dopo un ponderato bilanciamento dei princìpi in gioco: da un lato il dovere di esercitare l’azione penale di fronte a un reato; dall’altro, la libertà di comunicare. E non farebbe male a meditare quanto sia costato, in passato, nella storia italiana, il sacrificio di questa libertà. Su questi temi manca ormai da decenni un confronto reale, svincolato dalle contingenze della politica, fra tutti gli attori coinvolti (università, avvocatura, magistratura): un’elaborazione culturale che sappia ispirare le scelte che la politica autonomamente dovrà compiere. Nessuna grande riforma della giustizia è possibile se qualcuno di questi attori rimane rinchiuso nella propria torre di avorio. La magistratura sarà capace di abbandonare gli anatemi interdittivi e di essere protagonista di questo confronto? Speriamo che ciò accada, come auspica Nello Rossi. Che il pessimismo della ragione sia sconfitto dall’ottimismo della volontà. *Magistrato, già procuratore aggiunto di Torino Giustizia. Un percorso aperto, garantista e dirompente di Guido Stampanoni Bassi* Avvenire, 14 dicembre 2022 Un programma ambizioso e persino rivoluzionario, ma propositi difficili da realizzare Caro direttore, il programma della giustizia penale illustrato dal ministro Carlo Nordio è suonato rivoluzionario e le reazioni, a volte scomposte, che ha suscitato ne sono la conferma. Rivoluzionario non tanto per i concetti che sono stati illustrati - non è certo la prima volta che sentiamo parlare di abuso della custodia cautelare in carcere, uso distorto delle intercettazioni e separazione delle carriere - quanto per chi li ha esposti (un ministro della Giustizia che per decenni ha ricoperto il ruolo di pubblico ministero) e per come lo ha fatto (essendosi detto disposto a “battersi sino alle dimissioni” per raggiungere l’obiettivo). Il filo conduttore delle linee programmatiche del ministro ruota intorno alla (ri)affermazione della presunzione di innocenza, vulnerata - ha correttamente fatto notare Nordio - da una pluralità di fattori, non ultimo quello di una “giustizia mediatica” che finisce con il presentare all’opinione pubblica indagati e imputati già come colpevoli, non solo prima che la loro responsabilità penale sia stata provata in via definitiva ma, molto spesso, senza che il processo sia iniziato. Tra i temi che hanno suscitato le maggiori polemiche vi è quello delle intercettazioni, sul quale il ministro ha evidenziato un duplice problema: un loro eccessivo utilizzo (con conseguenti costi elevati e ingiustificate intromissioni nella vita privata dei cittadini) e una loro incontrollata diffusione, anche pilotata, che da strumento di ricerca della prova le ha trasformate in una vera e propria arma di delegittimazione (a volte anche politica). Le più dure polemiche hanno riguardato il primo aspetto, essendosi letta (o meglio, essendosi voluta leggere) nelle dichiarazioni del Ministro una generale mozione di sfiducia verso l’istituto delle intercettazioni, come se chi ha esercitato per così tanti anni le funzioni di pm potesse davvero credere che le stesse siano un inutile strumento al quale si possa agevolmente rinunciare. Le cose non stanno in questi termini, essendosi Nordio limitato a preannunciare la direzione dei suoi interventi, mettendo in luce un tema che oggettivamente esiste e sul quale non si può far finta di nulla. È noto a chiunque frequenti le aule di giustizia che un’intercettazione, dopo essere stata presentata come schiacciante, possa poi rivelarsi errata (perché trascritta male) o diversamente interpretabile, essendo il contraddittorio - e non le prime pagine dei giornali - il luogo deputato alla formazione della prova. Così come gli addetti ai lavori sanno bene quanto sia potenzialmente facile aggirare i limiti imposti dalla legge in tema di intercettazioni, semplicemente contestando un reato più grave di quello che emerge dagli atti; situazioni in cui - ed è la Corte di Cassazione a dirlo - occorre “prevenire abusi da parte dell’organo requirente, che potrebbe preordinatamente servirsi di una qualificazione giuridica insostenibile al solo scopo di giustificare l’inizio delle captazioni”. Insomma, il problema di un ricorso smodato alle intercettazioni esiste ed è giusto discuterne, senza che ciò possa, in questa fase, essere letto come volontà di ridurre drasticamente la possibilità di servirsi di tale utile strumento. E, del resto, dal ministro non è ancora pervenuta alcuna proposta di legge o testo su cui si possa aprire un dibattito, ma solo l’individuazione di un percorso, nel quale tutte le forze politiche (e non solo) avranno modo di dire la loro. Le critiche piovute addosso a Nordio - accusato addirittura di favorire indirettamente mafiosi e corrotti - sono, dunque, non solo ingenerose, ma quantomeno premature, a meno di non voler sottoporre a critica l’idea stessa che uno strumento dalle potenzialità intrusive così marcate non debba essere usato con maggior cautela e moderazione. Strettamente connessa è l’altra distorsione evidenziata dal ministro, consistente nella (ormai costante) diffusione sulla stampa di stralci e virgolettati delle conversazioni intercettate. Il richiamo di Nordio è espressione di un’idea garantista e liberale della giustizia penale certamente da apprezzare, non essendo tollerabile che, come puntualmente accade in occasioni di vicende giudiziarie di particolare interesse, il diritto alla presunzione di non colpevolezza venga sacrificato in nome di quello che, solo apparentemente, è diritto di cronaca. L’ultimo esempio è dato dall’inchiesta della Procura di Torino nei confronti dei dirigenti della Juventus, con riferimento alla quale ciascuno di noi ha potuto leggere i dettagli delle conversazioni intercettate - molte delle quali con soggetti non indagati e prive di rilevanza penale - in spregio al diritto alla riservatezza e alla presunzione di non colpevolezza dei soggetti coinvolti. Altro delicato punto toccato dal ministro è quello della cosiddetta carcerazione preventiva, su cui, nell’ottica di invocare una maggior ponderatezza nelle decisioni sulla libertà personale degli indagati, si è proposto di attribuire tale funzione non più a un unico giudice, ma a un collegio. Le critiche indirizzate al ministro fanno finta di ignorare un problema - qual è quello dell’abuso della custodia cautelare - su cui, nonostante l’esito del recente referendum, molte delle principali forze politiche erano concordi (stando, quantomeno, alle dichiarazioni rese prima delle ultime elezioni). I propositi del ministro Nordio - ambiziosi e dagli effetti potenzialmente dirompenti - non saranno facili da realizzare e finiranno inevitabilmente per diventare il metro di giudizio sulla base del quale verrà valutato il suo operato. Vedremo, nei prossimi mesi, se il programma sarà davvero realizzabile o se, al contrario, sarà destinato a rimanere il testo di una ipotetica lettera che ogni garantista (molto ottimista) vorrebbe scrivere a Babbo Natale. *Avvocato, direttore della rivista “Giurisprudenza Penale” Nordio vuole cancellare il traffico d’influenze: “Non si capisce il reato che descrive” di Paolo Comi Il Riformista, 14 dicembre 2022 La legge ‘Severino’ andrebbe “modificata” e - forse - anche “abolita”. Parola di ministro della Giustizia. In una lunga intervista ieri al Corriere della Sera, Carlo Nordio è tornato ancora una volta sulle norme volute dall’allora Guardasigilli del governo Monti e ritenute “inadeguate” per mancanza di “tassatività” e “specificità”. Nel mirino, oltre al reato di abuso d’ufficio, il temibile traffico di influenze illecite, lo spauracchio dei pubblici amministratori. Tali norme, nelle intenzioni, avrebbero dovuto agevolare, recependo una indicazione dell’Assemblea generale dell’Onu, il contrasto alla corruzione. Sull’onda, però, delle indagini a tappeto condotte in quel periodo dalle Procure sulle spese elettorali presso i vari Consigli regionali, poi terminate ad anni di distanza con una raffica di assoluzioni, la preside della Luiss ideò una serie di complicati meccanismi di incandidabilità, decadenza, e sospensione dagli incarichi elettivi. In pratica, ricorda l’ex procuratore aggiunto di Venezia, con la legge attuale “tutti possono essere indagati”. “Leggendola non si capisce che reato descrive”, sottolinea Nordio, ricordando che l’Anci è per l’abolizione della Severino e che anche il Pd è disponibile ad una modifica del testo. L’ incandidabilità, nelle intenzioni dell’inquilino di via Arenula, dovrebbe scattare almeno dopo la sentenza di secondo grado. Un altro argomento toccato dal ministro è stato quello dell’abuso delle intercettazioni telefoniche. Attualmente le Procure italiane spendono circa 200 milioni di euro l’anno per gli ascolti. Il Copasir, Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, in una relazione diffusa la scorsa legislatura, aveva stimato in circa 110 mila le utenze sotto controllo. La Procura che effettua più intercettazioni è Napoli dove vengono ascoltati quasi 10mila telefoni ogni anno con un costo di oltre 12 milioni, il 60 percento del budget assegnato dal Ministero. E sempre a Napoli ci sarebbe grande ricorso al trojan, il virus spia che trasforma il cellulare in un microfono sempre acceso. Le intercettazioni, passate da essere strumento d’indagine a fonte di prova, oltre ai costi proibitivi, sono spesso oggetto di divulgazione illecita. Sul punto Nordio si è detto pronto ad un confronto con i rappresentanti dell’Associazione nazionale magistrati, dell’avvocatura, e del giornalismo. Sulla separazione delle carriere fra pm e giudici, invece, il ministro ha messo le mani avanti ricordando che è un obiettivo di “lungo periodo” e che necessita di una modifica della Costituzione. Dopo aver sollecitato una semplificazione legislativa visto che troppe leggi (in Italia sono circa 250mila leggi a fronte di 25mila negli altri Paesi) sono spesso causa di corruzione, Nordio ha infine affrontato il tema delle carceri. Il ministro è consapevole che la costruzione di nuove prigioni per evitare il sovraffollamento non è fattibile. In assenza di una inversione di rotta circa l’esecuzione della condanna non in carcere, alquanto improbabile con l’attuale compagine di governo, servono spazi dove far scontare la pena detentiva. Una soluzione sarebbe il cambio di destinazione d’uso delle tante caserme dismesse. Abolito il servizio militare moltissime strutture sono state infatti abbondante. Si tratta di spazi che difficilmente possono trovare un qualche utilizzo. Nordio vorrebbe quindi trasformare le camerate in celle per i detenuti in attesa di giudizio o condannati per reati minori. Ci riuscirà? “Premesso che siamo garantisti…”, la nuova moda per linciare gli altri di Iuri Maria Prado Il Riformista, 14 dicembre 2022 È la solita storia del “premesso che”. Premesso che siamo garantisti, quello è un ladro. Premesso che siamo garantisti, è una vergogna. Premesso che siamo garantisti, è evidente che quella è una famiglia di farabutti. Premesso che siamo garantisti, insomma, garantiamoci il diritto di fare a pezzi un indagato, e la moglie, e la figlia, arrestate non si sa in base a quali imprescindibili esigenze cautelari, perché d’accordo che la giustizia deve fare il suo corso ma intanto ci pensiamo noi. Per il dovere di informare la gente. Per la difesa dell’onestà. Per la democrazia. E come Soumahoro va strattonato tanto più fortemente perché faceva le mostre di difendere i deboli mentre la moglie si faceva il guardaroba di lusso alle loro spalle, così Panzeri, l’ex deputato del Pd, l’ex sindacalista, va castigato a reti unificate e a prime pagine scandalizzate perché il suo profilo progressista nascondeva in realtà le chat sulle vacanze da centomila euro. Con lo strepito misurato non sulla ipotetica provenienza illecita dei soldi destinati a quel lusso, che ancora ancora ci potrebbe stare, ma sulla intrinseca portata oltraggiosa di tanta spesa. La settimanella nella pensioncina in riviera, evidentemente, non avrebbe revocato la sua perfetta presentabilità democratica. Ovviamente la sua parte politica scaricherà prima del processo, solo sulla base di quel chiasso mediatico e unicamente sull’onda della retata, questo suo eminente (fino a ieri) rappresentante, ed è desolante assistere ai gesti vigliacchi di quelli che rinnegano persino, ora che è finito in disgrazia, di averlo conosciuto (qualcuno, come Andrea Orlando, è arrivato a rimuovere un proprio messaggio con il quale si congratulava con Panzeri per non si sa più quale incarico o iniziativa). Ovviamente non si dice che la notizia dovesse scomparire, o che il milieu politico e amicale di Panzeri dovesse limitarsi, nell’apprenderla, a fare spallucce. Ma anche qui, e per l’ennesima volta pur dopo oltre trent’anni di giustizia giornalistica, il protocollo continua a svilupparsi nel solco tradizionale della condanna già confezionata: e con quella premessa (“premesso che siamo garantisti”) chiamata a un ruolo anche più bastardo, cioè a legittimare i pregiudizi e il verdetto popolar-televisivo che invece dovrebbe sorvegliare e possibilmente inibire. Ti sbattiamo in prima pagina e pubblichiamo le tue chat di famiglia, d’accordo, ma di che cosa ti lamenti? Non sai che siamo garantisti? La premessa garantista è insomma il lasciapassare di cui gode ogni nefandezza giustizialista. Il cosiddetto sistema dell’informazione dovrebbe comportarsi diversamente anche solo in omaggio a una regola statistica, se non già per un minimo di decenza e rispetto dei diritti delle persone: e cioè perché troppe volte, troppe, e con il sacrificio della reputazione, e a volte della vita, di tanti, i presunti scandali avevano di scandaloso soltanto l’inconsistenza su cui si basavano. Può darsi che questo non sia il caso, ma tante volte il caso è stato proprio questo. Non basta a suggerire un po’ di prudenza? E quella premessa farlocca (“premesso che siamo garantisti”), non dovrebbe supporre il dovere di ascoltare anche, forse prima, quel che ha da dire a propria difesa l’indagato? O “premesso che siamo garantisti” significa fare gli equanimi ripetitori dell’accusa? La strage di Piazza Fontana fu fascista, nessuno se lo ricorda? di Luca Casarini Il Riformista, 14 dicembre 2022 12 dicembre 1969, il giorno della strage. Alcuni anni fa fu svolta una ricerca all’interno degli istituti superiori di Milano. Per la maggioranza degli studenti intervistati, la strage fu opera delle Brigate Rosse. Poi via via altre risposte. Pochi la attribuivano correttamente a fascisti e Stato. Sulla natura fascista della sua esecuzione, vi è certezza. Tutta l’operazione si svolse un giorno qualunque di un anno più che caldo, rovente, il 1969, con le piazze piene del conflitto sociale operaio e studentesco e 144 attentati, di cui 90 di matrice fascista. Ma la dicitura “strage di Stato”, che squarcia grazie alla controinchiesta e alla pubblicazione del famoso libro solo mesi dopo la montatura orchestrata per attribuire i morti di Milano agli anarchici, al movimento, oggi è molto più chiara nel suo significato. In particolare sul ruolo delle Forze Armate, dei vertici e del loro servizio di sicurezza, il SID. La fragile democrazia italiana in quel periodo storico, è circondata: La dittatura di Salazar e Caetano in Portogallo, quella di Franco in Spagna e quella dei colonnelli in Grecia. Le forze armate, come in tutti i propositi di golpe e in tutte le dittature realizzate, hanno un ruolo centrale. Allora ascrivere il ruolo delle forze armate italiane come vittime di “poche mele marce” dentro al SID appare riduttivo. I propositi golpisti italiani, poi concretizzati l’anno seguente con Junio Valerio Borghese (come in Germania adesso, un altro “principe”) erano discussi apertamente prima di Piazza Fontana e con la partecipazione di alti gradi, in convegni internazionali (vedasi indagini Guido Salvini), e con il ruolo ispiratore dell’intelligence statunitense e di “Aginter press” del nazista Guerin Serac. Oltre ai militari, altre figure dello stato sono state troppo poco considerate per il loro ruolo: i magistrati che a più riprese hanno depistato, inquinato, impedito le indagini sulla strage, fino a giungere alle incredibili sentenze di Catanzaro. La cellula veneta di Ordine Nuovo che mette materialmente la bomba, è inserita in una rete golpista che va ben al di là dei confini italiani. Credo che una delle ragioni del “compromesso storico” cominci a farsi strada proprio all’indomani del 12 dicembre, all’interno della DC come del PCI. Tenere in piedi lo stato, quello stato, in qualche modo. Il golpe in Cile, tre anni dopo, mentre convinceva una generazione di lavoratori e studenti che bisognasse prepararsi alla difesa in armi della libertà, convinse gli apparati comunisti istituzionali, che era meglio cedere. Il fatto che per la strage di Piazza Fontana non ci sia nessun colpevole per la giustizia italiana, conferma che lo stato, che è un organismo complesso, non ha voluto rinunciare a nessuno dei suoi pezzi, e non lo farà mai. Li depone, li modifica, ma soprattutto li protegge come figli. Lo stato non processa sé stesso, e non consegna mai la verità alla memoria collettiva. Suicidi, abusi, diritti a pezzi. Giusto indagare su Mani pulite di Tiziana Maiolo Il Riformista, 14 dicembre 2022 Se mai aprirà le sue porte la Commissione d’inchiesta su Tangentopoli, non ne varcheranno mai la soglia i testimoni più rilevanti dell’epoca, Severino Citaristi, Vincenzo Balzamo, Marcello Stefanini. I tre tesorieri dei principali partiti della Prima repubblica non ci sono più, e uno di loro, il socialista Balzamo, di Tangentopoli è addirittura morto, di crepacuore, con un infarto che l’ha annientato un mese dopo la prima informazione di garanzia per finanziamento illecito del partito. Era il 2 novembre del 1992, si era ancora all’inizio. E, caduto il responsabile amministrativo del partito, tutto il vaso di pandora delle indagini si rovesciò direttamente sul segretario Bettino Craxi. Il quale non poteva non sapere, gli dissero i pubblici ministeri. E che subì la sorte peggiore, soprattutto nelle interessate vociferazioni di certa stampa e di un’opinione pubblica orientata. Forse anche perché gli mancò quel pungiball che porterà alla morte due anni dopo anche il tesoriere del Pds Stefanini, distrutto dalle inchieste giudiziarie e che immolerà per tutta la vita, fino al 2006, il democristiano Citaristi, uomo per bemorto nella semplicità di una vita sobria, inchiodato al ruolo insano di collettore di tangenti. Su cui si accaniranno, molti anni dopo, nella loro voglia continua di sangue, anche i voraci cultori della finta onestà, con la privazione di una parte del vitalizio. Se coloro che, come l’assessore alla cultura del Comune di Roma del Pd Miguel Gotor, autore di un articolo sarcastico su Repubblica, ritengono che solo la propria categoria sia degna di mettere le mani sulla storia, vogliono provare a farlo con Tangentopoli, sanno da dove cominciare. Dalla riabilitazione di tre persone per bene. Ma non crediamo che ne siano capaci. Prima di tutto perché lo storico lascia intendere la stravagante convinzione che Forza Italia abbia presentato la proposta della Commissione per infierire sul Pd, su Panzeri e sull’inchiesta belga su presunti finanziamenti del Qatar. Nulla di più errato, visto che l’iniziativa era già stata presentata nella scorsa legislatura. E poi perché, forse sentendosi virtuoso per l’ammissione, si lascia andare a dire che “si può serenamente affermare che in quegli anni, in alcuni casi, si registrò un uso inquisitorio dello strumento e della carcerazione preventiva”. Un’affermazione gravissima perché lontana dalla realtà. Perché l’uso della custodia cautelare in carcere non fu una piccola degenerazione isolata di qualche pm eccessivo, ma lo strumento di vera tortura che portò a quarantun suicidi, oltre che alla distruzione di vite e carriere. Fu lo strumento che consentì di trasformare una “normale” inchiesta giudiziaria sul finanziamento illecito dei partiti e su alcuni casi di corruzione personale nella rivoluzione giudiziaria che ha mandato al potere toghe e divise. In questo senso un vero golpe. È inutile citare Sergio Moroni e la straziante lettera letta in aula alla Camera da un presidente Napolitano con la voce rotta. Pessima abitudine dello storico di stralciare un caso come fosse un unicum del panorama, quando invece proprio quel caso clamoroso è la spia di quel che è successo in generale. Come fatto politico e storico. Il Pd, erede degli antenati Pci, Pds, Ds, proprio perché uscito quasi indenne dal “golpe” grazie all’alleanza strategica con i pubblici ministeri, dovrebbe evitare prima di tutto di mostrare paura di quella Commissione. Quella delle facce impietrite di Occhetto e D’Alema quando Bettino Craxi denunciò nell’aula di Montecitorio l’esistenza di bilanci falsi dei principali partiti. Facce impietrite e bocche ammutolite. E dovrebbe poi domandarsi, anche alla luce della propria “normalità” nel finire oggetto, o a volte preda, di una certa voracità giudiziaria che dal 1992 non è mai tramontata nonostante il terremoto che ha distrutto il Csm e la Procura di Milano, perché non ha colto l’occasione di fare propria una cultura riformatrice e costituzionale. Di fare della separazione tra i poteri la propria bandiera. Di esibire con orgoglio, quasi con spavalderia, la giustizia sociale anche come luogo dei diritti e delle garanzie, prime tra tutte, quella della libertà e del principio dell’habeas corpus. Invece di scandalizzarsi se al fianco di uno stimato garantista come Nordio, sia nella difesa dei referendum sulla giustizia che nel suo programma di governo, ci siano gli uomini di Berlusconi e in parte anche quelli di Salvini e Meloni, si domandino le donne e gli uomini eredi di Berlinguer perché non ci sono loro. Perché prima si siano fatti tenere per mano dai pubblici ministeri e poi dai seguaci di Travaglio. Si diano una risposta decente, poi votino per la nascita della Commissione su tangentopoli, e ne rivendichino la Presidenza. Questa è la strada anche per affrontare momenti difficili come questo nato al Parlamento europeo. La condanna (anche per errore) alla sola pena pecuniaria è inappellabile di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 14 dicembre 2022 La Cassazione, sentenza 47031 depositata oggi”, ha confermato la testi più risalente in giurisprudenza anche a seguito di una recente modifica normativa. La Terza Sezione penale della Cassazione, sentenza 47031 depositata oggi e segnalata per il “Massimario”, prendendo posizione su un contrasto giurisprudenziale, sceglie la tesi dell’inappellabilità della sentenza di condanna che abbia erroneamente irrogato sola pena pecuniaria e non anche quella detentiva come invece previsto dalla norma penale. È stato così respinto il ricorso di un uomo condannato a 500 euro di ammenda (“ed alla pena sospesa e non oggetto di menzione”) perché considerato colpevole di aver raccolto funghi epigei nella “zona A” del Parco nazionale dell’Aspromonte, senza avere alcuna autorizzazione in deroga al divieto. Secondo il ricorrente in tal modo egli era stato privato, stante il vincolo imposto in materia di impugnazioni penali dall’articolo 593, comma 3, Cpp, della possibilità di impugnare nel merito la sentenza emessa a suo carico, essendo per lui praticabile la sola via del ricorso per Cassazione, con i relativi limiti. “Non ignora il Collegio - si legge nella decisione - che al riguardo è riscontrabile un contrasto giurisprudenziale”. Infatti, secondo un diverso orientamento, il limite della inappellabilità (articolo 593, comma 3, Cpp) “non opera in relazione ai reati puniti con la pena congiunta dell’arresto e dell’ammenda per i quali il giudice abbia erroneamente applicato la sola pena dell’ammenda, posto che l’illegittima applicazione della pena non può precludere al condannato l’accesso ad un grado di giudizio”. Tuttavia il Collegio aderisce all’opposto e “più risalente” orientamento per cui “è inappellabile la sentenza di condanna alla sola pena pecuniaria, anche se erroneamente inflitta”. Esso infatti “risulta più aderente alla lettera della legge”. Ma soprattutto, a seguito di un recente intervento di interpolazione “indubbiamente” non è “più praticabile” l’altra lettura “non è più praticabile”. Infatti, l’articolo 2, comma 1, lettera a), della legge n. 11 del 2018 ha inserito fra le parole “sono inappellabili” l’espressione “in ogni caso”. Una tale clausola, argomenta la Corte, appare esprimere in termini di “assolutezza e tassatività” la inevitabilità della inappellabilità delle sentenze di condanna alla sola pena pecuniaria, “e ciò, si ritiene ora, anche laddove tale condanna sia il frutto di un errore del giudicante, trattandosi di reato punito con la pena congiunta anche detentiva (o, deve ritenersi, sebbene l’ipotesi appaia quasi di scuola, con la sola pena detentiva)”. Del resto, continua il ragionamento, da tale errore il ricorrente “ha tratto solo vantaggio (fattore che ne esclude l’interesse ad impugnare sul punto la decisione emessa a suo carico)”. Volendo seguire invece il ragionamento dell’imputato, prosegue la Corte, si giungerebbe non solo a risultati “processualmente singolari ma neppure appaganti”. Infatti, l’accoglimento del ricorso comporterebbe la regressione del giudizio di fronte allo stesso Tribunale che ha emanato la sentenza impugnata. Non si celebrerebbe, pertanto, un giudizio di gravame ma un “nuovo” giudizio di primo grado il cui esito però sarebbe pesantemente condizionato dal divieto di reformatio in pejus. Il Tribunale dunque “si vedrebbe costretto ad adottare ex novo una sentenza applicativa della sola pena pecuniaria, innescando in tal modo, in via ipotetica, un vero e proprio circulus inextricabilis, posto che tale seconda sentenza, presentando il medesimo vizio che affettava la precedente, sarebbe, a sua volta suscettibile di annullamento, senza mai che sia possibile celebrare un vero e proprio giudizio di gravame”. Se invece l’impugnazione fosse stata presentata dalla pubblica accusa, conclude la Cassazione, non operando il limite del divieto della reformatio in pejus, il giudice di primo grado “avrebbe potuto ricondurre a giustizia la sanzione irrogata, rendendo virtuoso, trattandosi di decisione questa volta fisiologicamente appellabile dal condannato, l’altrimenti vizioso circolo innescato dall’eventuale accoglimento sul punto della presente impugnazione”. Marche. L’Associazione Antigone denuncia: “Zero garanti comunali, legge ignorata” centropagina.it, 14 dicembre 2022 L’associazione evidenzia di aver scritto ai sei Comuni sul cui territorio c’è un istituto di pena, senza ricevere risposta. Una lettera ai Comuni sul cui territorio si trova un istituto di pena o una Rems (residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) per chiedere loro di istituire la figura del Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale. Come previsto dalla legge italiana. È quella inviata dall’Associazione Antigone Marche il 12 ottobre 2022 ai Sindaci, ai Consigli Comunali e ai Consiglieri Comunali di Pesaro, Fossombrone, Ancona, Fermo, Ascoli Piceno, Macerata Feltria. “A due mesi di distanza dall’invio della lettera, nessun Comune ci ha dato una risposta che andasse oltre l’aver protocollato la richiesta. E Fossombrone, Ancona e Macerata Feltria non hanno fatto neanche quello. Nessun Consigliere ci ha risposto. Ed è superfluo specificare come nessun Comune abbia ancora istituito il Garante. Nessuno ci ha risposto nonostante il recente protocollo sottoscritto l’11 luglio tra Anci e Garante Nazionale per le persone private della libertà”, ha sottolineato l’Associazione.  È assolutamente impensabile, sottolinea sempre Antigone Marche, “che il doveroso esercizio della pretesa punitiva e l’interesse dello Stato a soddisfarla integralmente, o la condizione temporanea di privazione della libertà personale per qualsivoglia natura, possano giustificare la lesione di qualsiasi altro dei diritti inviolabili della persona. Ed è a tutela di questo principio che nasce il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, che ha il compito di vigilare affinché la custodia delle persone sottoposte alla limitazione della libertà personale sia attuata in conformità alle norme nazionali e alle convenzioni internazionali sui diritti umani ratificate dall’Italia”. In sostanza, il Garante sono gli occhi e le orecchie della collettività, dello Stato, nei luoghi di privazione della libertà, ma anche nelle camere di sicurezza dei Commissariati di PS e delle Caserme delle Forze dell’ordine, nonché nelle Rems e le Rsa per anziani. È previsto dalla Legge che anche i Comuni istituiscano la figura del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Ad aprile 2022, però, solo 48 Comuni italiani avevano però nominato i relativi garanti e la Regione Marche primeggia in negativo, non avendo né garanti provinciali né garanti comunali.  “È inconcepibile che i Comuni possano esimersi dall’applicare una Legge. La mancata istituzione della figura del Garante lede non solo i diritti dei detenuti, ma anche delle persone nei luoghi di cura, i migranti e in definitiva di tutti noi - dice Giulia Torbidoni, presidente di Antigone Marche. La mancata risposta da parte di tutti alla nostra lettera è il segnale di un preoccupante disinteresse. Eppure rispettare la legalità significa anche garantire i diritti di tutti, perché da uno Stato trasparente abbiamo da guadagnare tutti quanti, i cittadini e lo Stato stesso: il Garante è una figura essenziale prevista dalle Legge, e i Comuni devono rispettarla. O dovremmo pensare che il rispetto della legge lo si pretende solo da una parte?”. Napoli. Si impicca a Poggioreale: Francesco aveva 30 anni e due gemellini neonati di Ciro Cuozzo Il Riformista, 14 dicembre 2022 Aveva 30 anni, si chiamava Francesco Terracciano ed era papà di due gemelli nati sette mesi fa il detenuto che si è tolto la vita nella casa circondariale di Poggioreale a Napoli. È il suicidio numero 81 registrato nel 2022 in tutte le carceri italiane. Una strage senza precedenti che prosegue indisturbata e nell’indifferenza più totale. Tra suicidi e decessi sono 195 le vittime totali di un anno che terminerà tra poche settimane. Francesco, che viveva in provincia di Napoli, era in carcere per spaccio dal gennaio 2022, pochi mesi prima della nascita dei due figli. Era recidivo dopo una condanna scontata anni fa. È un dramma nel dramma, un inferno che preoccupa poche, pochissime persone. Poco importa se le carceri sono sempre più sovraffollate, se la presenza di educatori, psicologi, medici e personale penitenziario scarseggia, se il nuovo governo ambisce a costruirne di nuovi e se le misure alternative alla detenzione sembrano quasi un miraggio. Francesco “ha compiuto, nella nottata, il folle gesto, lasciandosi morire impiccato nella sua cella” si legge in un comunicato del Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello. È il settimo detenuto che si toglie la vita nelle carceri campane. Una vera e propria ecatombe, fotografata la scorsa settimana dal garante nazionale Mauro Palma (584 suicidi negli ultimi 10 anni, di cui ben 22 registrati a Poggioreale che ha questo raccapricciante primato). “Sono scosso e attonito”, afferma Ciambriello, secondo cui “si continua a morire per le troppe speranze deluse, si muore di fragilità umana e di abbandono”. “I numeri sulle morti per suicidio negli istituti di pena - aggiunge - sono allarmanti e devono indurre ad un’attenta riflessione. Si devono trovare soluzioni in fretta, altrimenti diveniamo complici di queste morti. Chi vive in una condizione psicologica precaria deve poter contare sull’aiuto di figure specializzate e in maniera costante e continuativa, perché, a volte, anche solo parlare con una persona può aiutare a superare un disagio. Per questi detenuti più fragili si potrebbe anche ipotizzare di incrementare le telefonate con i familiari, sempre nell’ottica di dare loro un sostegno, che mira ad evitare che l’espiazione della pena si trasformi in disgrazia”. Il segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria (Spp) Aldo Di Giacomo parla di “una situazione di intollerabile vergogna a cui va rapidamente messo fine”. “Il personale di polizia penitenziaria è stanco di tenere il conteggio dei detenuti che si tolgono la vita e di rinnovare l’allarme a fare presto. E poi altro elemento sempre più preoccupante si abbassa l’età dei detenuti suicidi a riprova che i giovani, insieme ai tossicodipendenti e a quanti hanno problemi psichici sono i più fragili e vulnerabili”, prosegue. Secondo il Spp “questa mattanza silenziosa deve finire con misure e azioni concreti perché lo Stato ha in carico la vita dei detenuti e ne risponde. Si ascoltino le proposte del sindacato di polizia penitenziaria che quotidianamente si misura con l’emergenza suicidi e si metta mano alla manovra di bilancio rimediando al taglio di spesa imposto all’Amministrazione Penitenziaria e al personale”. Verona. Morte in carcere: “Elvira, quel suicidio taciuto per inaugurare l’area cani” di Laura Tedesco Corriere Veneto, 14 dicembre 2022 La denuncia delle amiche detenute nel primo anniversario dal gesto estremo della 27enne in carcere a Montorio. Mai così tanti suicidi come nel 2022 nelle carceri italiane: proprio martedì, con il gesto estremo a Poggioreale nel Napoletano di un detenuto trentenne appena diventato papà di due gemelli, si è raggiunto il tragico record di 81 morti volontarie in cella. Un annus horribilis, in cui a far particolarmente notizia è stato a Verona il suicidio della 26enne Donatella Hodo: era il 2 agosto e quel suo gesto di disperazione colpì l’opinione pubblica oltre ogni previsione facendo decollare un movimento di coscienze in sostegno della popolazione carceraria, femminile soprattutto, raccolto nel gruppo “Sbarre di Zucchero”. Il loro obiettivo primario è “arginare la sempre più preoccupante escalation di vite spezzate in carcere” e proprio da Sbarre, martedì, è stata ricordata un’altra giovane suicida nel penitenziario scaligero di Montorio. Si chiamava Elvira, era amica di Donatella ma anche di due “anime” di Sbarre, Micaela Tosato e Monica Bizaj: martedì, giorno del primo anniversario dalla tragedia di Elvira, hanno lanciato pubblicamente una denuncia sulle modalità in cui venne gestita all’epoca la notizia di un simile dramma. “Elvira aveva un trascorso di tossicodipendenza, le restavano pochi mesi per giungere al suo fine pena. Era rientrata in carcere dopo essere scappata da una comunità, per amore, come tante volte accade. Il 13 dicembre dello scorso anno però - rivelano le amiche - decise di farla finita, dopo una telefonata alla famiglia che le negò il domicilio per poter richiedere una misura alternativa alla detenzione in carcere. Il suicidio di Elvira tuttavia - denunciano le amiche - passò inosservato, doveva essere taciuto, per non rovinare l’evento previsto il giorno successivo, ovvero l’inaugurazione dell’area cani all’interno del carcere, con la presenza delle Istituzioni locali, e così fu, non ci fu giornale o tv locale che ne parlò, Elvira si suicidò nel silenzio più assordante. Lei era una ragazza dolce, tranquilla, non si sentiva mai. Le parlavi e ti sorrideva. Non possiamo immaginare il male che si portava dentro per decidere di impiccarsi… Ciao Elvira - la salutano le ragazze di Sbarre - sei e rimarrai nei nostri pensieri”. Seppure da noi interpellata, la direzione del carcere non ha espresso commenti in merito. Ivrea (To). Trasferiti direttore e comandante, otto agenti sospesi per un anno di Andrea Bucci La Stampa, 14 dicembre 2022 L’inchiesta dopo le botte denunciate da alcuni detenuti: gli indagati sono 45 tra agenti, medici e funzionari. Otto agenti della Polizia penitenziaria sospesi per un anno dal servizio. Cambiano anche il comandante e il direttore. Sono i primi provvedimenti che coinvolgono la Casa circondariale di Ivrea finita al centro dell’inchiesta avvita dalla procura di Ivrea e scattata con le perquisizioni eseguite nella notte tra lunedì 21 e martedì 22 novembre in seguito alle botte denunciate da alcuni detenuti. Gli indagati sono 45 tra agenti, medici in servizio presso la casa circondariale, nonché funzionari giuridico pedagogici e direttori pro-tempore tutti accusati, a vario titolo, di tortura con violenze fisiche e psichiche nei confronti di numerosi detenuti, falso in atto pubblico e reati collegati. La notizia delle otto misure interdittive agli agenti è arrivata ieri al termine degli interrogatori di garanzia durati fino a sera. A firmare il provvedimento di sospensione è stata la giudice per le indagini preliminari, Ombretta Vanini. La pm Valentina Bossi aveva in un primo momento richiesto al tribunale la misura cautelare dei domiciliari nei confronti di sedici agenti appartenenti alla polizia penitenziaria del carcere di Ivrea. L’inchiesta è solo all’inizio. Ivrea (To). La cella delle torture. Il giudice: disumanità inaudita di Giuseppe Legato La Stampa, 14 dicembre 2022 “Poco dopo essere entrato in carcere avevo tentato il suicidio legando un lenzuolo prima alle sbarre e poi al collo. I primi agenti accorsi mi dissero: “Questo infame non si sa fare la galera”. Mi portarono allora in una stanza tutta a vetri in cui non c’era né un letto né un materasso. Quel giorno entrarono 12 agenti, dieci di loro indossavano i guanti neri, uno per uno. Sono rimasto completamente nudo. Mi colpivano anche con calci e pugni e con un manganello ai testicoli dove ero stato operato in passato. Quando ho chiesto di essere portato in infermeria un assistente con accento romano mi ha detto: “Se parli col comandante o con il medico ti ammazzo”. Poi il trasferimento nella cella liscia: “Mi hanno buttato in quello stanzone come un sacco di patate. C’era solo un letto piantato per terra e un materasso di spugna sporco. Mi hanno concesso di mettere le mutande, solo quelle. Non potevo parlare col mio avvocato, non mi era consentito comunicare con gli altri detenuti, mi era negata l’ora d’aria”. L’inferno nel carcere di Ivrea del detenuto Vincenzo Calcagnile è agli atti dell’inchiesta per tortura che vede indagati 45 tra agenti della polizia penitenziaria, educatori, medici interni al penitenziario e vertici - amministrativi e militari - dell’istituto. Meglio: ex vertici. Il Dap li ha rimossi nelle scorse ore dall’incarico nominando due nuovi dirigenti. Contestualmente il gip di Ivrea ha disposto l’interdizione per otto agenti travolti dalla bufera giudiziaria accusati di essere una squadra di picchiatori libera di fare il bello e - soprattutto - il cattivo tempo tra le mura del penitenziario. Non potranno rimettere piede al lavoro per un anno in attesa che l’inchiesta faccia il suo corso. Il giudice descrive il trattamento riservato al detenuto come “connotato da inaudita disumanità che ha causato un’altrettanta inaudita lesione della sua dignità di persona”. In un mese quest’uomo ha perso 18 chili. “Mi somministravano un ansiolitico contro la mia volontà. A seconda di quanto insistevo nel chiedere di parlare col mio avvocato mi costringevano a bere dalle 30 alle 50 gocce. Mi hanno ridotto come un morto vivente, ho paura della mia ombra, ho il terrore anche di sognare. L’unico mezzo per comunicare con l’esterno erano i telegrammi ma mi dicevano sempre: “Hai rotto il cazzo, ora basta”. Una notte arrivò anche una crisi di panico: “Venne un assistente siciliano e mi disse: “Non rompere la minchia e dormi”. Basterebbe questo per raccontare cosa - per i pm - accadeva in questo carcere di provincia al centro di 6 inchieste negli ultimi 5 anni tutte avocate dal procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo una volta preso atto che avevano imboccato la strada dell’archiviazione. Quarantacinque indagati in un filone, 25 in un altro ma in entrambi c’è più di un elemento che convoglia i fatti in un unico imbuto di orrore. Le botte, certo e una presunta squadretta in divisa blu - con nomignoli del tenore di Schumacher, Harley Davidson, Sansone e Kamikaze - che lo stesso ex comandante, sentito dai pm il 22 novembre scorso, racconta cosi: “Nel tempo ho capito che c’era un gruppo di colleghi più anziani che aveva maturato questo modo di lavorare, probabilmente perfezionato durante il periodo in cui erano senza comandante e sono stati lasciati un po’ a se stessi”. Un metodo “di contro segnalazione” dunque, secondo il quale - dice ancora l’ex capo delle guardie penitenziarie - “taluni detenuti malmenati o percossi variamente dai colleghi venivano denunciati per fatti commessi in danno del personale e nessun credito veniva dato alle loro denunce”. Colleghi temuti da tutti “anche dagli altri agenti che non so se per minacce implicite o esplicite - dice ancora - tendono a non riferire le ose come stanno neppure quando li interrogo”. Reticenti anche i medici del penitenziario: “Non riferiscono mai sulle modalità con cui possono essere state prodotte certe lesioni ai detenuti e addirittura in alcuni casi non si trovano i referti e le cartelle”. Una cosa è certa per tutti: “Certo erano anomali i plurimi infortuni accidentali. C’è ancora - e rileva nell’economia delle contestazioni agli indagati - la storia di un detenuto marocchino convocato in un ufficio per comunicargli “il trasferimento ad altro istituto”. Si legge agli atti: “Riceveva un colpo fortissimo alla spalla, lo colpivano al ginocchio e ancora calci pugni e manganellate a cui lui non opponeva resistenza. Si metteva n posizione fetale per proteggersi e in quel momento l’assistente capo lo strangolava alla gola dicendogli: Tu sei un boss ah ah abbiamo un boss”. Ancora a un detenuto italiano è stato spezzato un braccio: “Lo hanno aggredito in quattro - ha confermato un vicino di cella - poi lo hanno fatto sedere su una sedia. Lui piangeva e sveniva. Quando sono entrato in cella ho visto che faceva braccio di ferro con un agente che vantava di avere rapporti con il clan dei Casalesi e per questo era temuto. Ho sentito crac”. Gli indagati dichiararono “che era scivolato perché c’era dell’acqua per terra”. Trento. Mancano educatori, critica la situazione dei detenuti con patologie psichiatriche ildolomiti.it, 14 dicembre 2022 La Garante: “Serve una riforma del sistema”. Se a fine dicembre 2021 le persone affette da grave patologia psichiatrica primaria presenti in carcere erano 30 per 299 presenti; ad oggi ammontano a 45 per 348 persone detenute, mettendo in evidenza un trend in crescita, rispetto a numeri già preoccupanti. Dalla carenza di personale al disagio psichico. Sono queste le principali criticità contenute nella relazione annuale fatta in queste ore dalla garante dei diritti dei detenuti, Antonia Menghini che ha definito allarmante il dato sull’organico effettivo di educatori: “si è persa - ha spiegato - una figura su tre e questo sembra minare gravemente ogni progettualità legata agli obiettivi costituzionali di rieducazione e reinserimento del detenuto”. Una relazione, quella della garante, che mette in luce, però, anche numerose altre criticità come il monte delle ore lavorative consentite e offerte a chi sta in carcere, per ritrovarsi come persona e come cittadino: a Spini il dato è in calo, perché s’è ridotto il budget statale per il pagamento delle mercedi. E’ urgente - ha detto allora Menghini - sostenere le cooperative impegnate su questo fronte, per non disperdere un patrimonio di professionalità ed efficienza. Tra i problemi che anche la struttura di Spini di Gardolo ha affrontato in questi ultimi anni anche quelli riguardanti la pandemia, le restrizioni e i contagi. Nel 2021 è stato registrato un unico focolaio tra febbraio e marzo con 7 casi registrati e poi un recentissimo focolaio, nell’ottobre 2022, con ben 34 persone positive contemporaneamente, per un numero complessivo di 76 positivi. Di queste solo una è stata ricoverata precauzionalmente, mentre le restanti isolate in un’apposita sezione sono risultate asintomatiche o paucisintomatiche. Personale - In particolare permane, anzi si è ulteriormente aggravata, la criticità del personale gravemente sotto organico dell’area educativa con pesanti conseguenze sulla programmazione e il regolare svolgimento delle attività trattamentali. Allo stesso modo permane in sofferenza l’organico della Polizia penitenziaria in forze all’istituto di Spini, nonostante esso sia stato recentemente implementato: ad oggi infatti sono presenti solo 165 agenti in luogo dei 227 previsti dalla pianta organica. L’assistenza sanitaria - Per tutto il 2021 e buona parte del 2022, la situazione relativa all’organico dei medici è apparsa, a più riprese, deficitaria rispetto alla pianta organica prevista e ciò non tanto per la mancanza di risorse a ciò destinate, ma perché le procedure concorsuali sono andate più volte deserte. La situazione si è appunto aggravata considerevolmente durante l’estate 2021, tanto da aver portato alla sofferta decisione di tornare prima ad un regime transitorio misto di copertura fino alle ore 20 per alcuni giorni (il sabato e la domenica) e di copertura sulle 24 ore per altri e poi, dal 25 di ottobre 2021, all’interruzione della copertura delle notti. Già con la fine del 2021 la copertura è stata ripristinata, anche se, a più riprese il problema si è ripresentato anche nell’arco del 2022. Solo recentemente l’organico dei medici è tornato in linea con le previsioni, è subentrato un nuovo dirigente e un nuovo specialista per le dipendenze. Ancora più critica la situazione di quanti soffrono di una patologia psichiatrica vera e propria. Ferma la considerazione più generale che coloro che presentano una grave infermità psichica sopravvenuta non dovrebbero eseguire la propria pena in carcere, l’unica opzione possibile allo stato, per quanto concerne la realtà della casa circondariale di Spini, è ancora una loro allocazione nella sezione infermeria, anche se questa dovrebbe essere una soluzione solo temporanea. “Il detenuto - spiega la garante - in questo modo non ha alcun accesso alle attività trattamentali e finisce col vivere in una situazione che evidentemente, alla lunga, rischia talvolta di compromettere ulteriormente il suo quadro di stabilità psichica ed emotiva”. Purtroppo, non è infatti stato ancora realizzato il centro diurno, immaginato come un luogo in cui le persone affette da disagio psichico potrebbero essere adeguatamente seguite durante la giornata non solo dal punto di vista del supporto medico ma anche dal punto di vista del trattamento inteso in senso ampio. I dati relativi alle persone affette da una patologia psichiatrica primaria evidenziano come nell’anno 2021 siano state 90 le persone a necessitare di assistenza medica psichiatrica in carcere. Durante il 2022, fino a inizio novembre 2022, sono già 88. Inoltre, se a fine dicembre 2021, le persone affette da grave patologia psichiatrica primaria presenti in carcere erano 30 per 299 presenti; ad oggi ammontano a 45 per 348 persone detenute, mettendo in evidenza un trend in crescita, rispetto a numeri già preoccupanti. A questo profilo se ne assomma un altro che riguarda però specificamente chi, condannato, sia stato già dichiarato pericoloso socialmente e si sia visto applicare (e poi confermare) una misura di sicurezza in Rems, allorché il fenomeno delle liste d’attesa che caratterizza a livello nazionale queste strutture, precluda l’accesso nei tempi prospettati. Il problema ha più recentemente riguardato anche la Rems di Pergine. L’offerta lavorativa e i problemi del caro energia - Non è mancato, infine, un riferimento al tema del lavoro, strumento imprescindibile nell’ottica del reinserimento sociale, e alla necessità di investire, anche da parte del nostro territorio, su questo fronte. Una delle principali criticità permane tuttora quella legata alla scarsità di risorse complessivamente intese dedicate al lavoro all’interno del carcere, il che costringe la Direzione ad assegnare i lavori a part-time ed a rotazione con tempi di attesa anche superiori a 4 mesi. Infatti, seppure la percentuale di lavoranti alle dipendenze del Dap nel 2021 mostri un miglioramento rispetto ai tre anni precedenti, legato sia all’incremento del budget che alla riduzione contingente delle presenze, già ad ottobre 2022 le presenze hanno raggiunto nuovamente le 339 unità e conseguentemente i turni di lavoro hanno subito un ulteriore riduzione nonché una diminuzione delle ore lavorative per turno negli ultimi mesi dell’anno. Da ultimo, preme sottolineare come il caro energia abbia causato rilevanti problemi anche per quanto concerne le storiche collaborazioni tra carcere e realtà del terzo settore, quali la cooperativa Venature che ha paventato il rischio di dover concludere la propria esperienza in carcere. Milano. Con i detenuti del carcere di Bollate: “Fine pena quando?” di Gaia Bugamelli cattolicanews.it, 14 dicembre 2022 Entro in carcere sull’attenti, vigilando con timore e curiosità quei lunghi corridoi che andiamo calpestando in avvicinamento alla saletta dove ad attenderci ci sono i detenuti che i miei compagni di studi hanno già avuto occasione di incontrare qualche settimana prima. Ma per me è diverso. Per me, che in carcere ci vado per la prima volta, l’imperativo del “sospendere il giudizio” sembra quasi scontato a dirsi, ma piuttosto difficile a realizzarsi. Io i miei bei preconcetti me li tiro dietro, me li trascino all’interno delle mura della II Casa di Reclusione di Milano, sfidante che “sarà casomai l’esperienza a farmi cambiare idea”. Una delle cose che più apprezzo del Master in Relazioni d’aiuto in contesti di Cooperazione e Sviluppo, è che le lezioni sono costantemente affiancate dalla messa in pratica e dall’osservazione in presa diretta di quanto studiato. Le diverse teorie sulla cooperazione nazionale, e andiamo a visitare centri diurni, CAS e laboratori sperimentali per la riduzione del danno in giro per l’Italia. Teatro sociale, sport e resilienza, e ci ritroviamo al centro sportivo Dainelli a sperimentarci sul campo in una partita di calcio con la squadra di giovani disabili cognitivi del progetto Tukiki. Giustizia riparativa e politiche di reinserimento sociale, ed eccoci qui, al carcere di Bollate, uno dei pochi esempi virtuosi di struttura detentiva in Italia effettivamente atta alla riabilitazione delle persone detenute. Ci dividiamo a gruppetti, due, massimo tre persone in ciascuno, e ascoltiamo per una ventina di minuti le storie di chi, da dentro, ha dato la sua disponibilità a incontrarci oggi. Guardo Corrado negli occhi mentre parla disinvolto, ha uno sguardo tenue e una voglia irreprimibile di raccontarsi, di renderci testimoni della sua esperienza in struttura, dell’arrivo, della stasi, delle attività alle quali si dedica quotidianamente, delle visite settimanali delle figlie che, “nonostante tutto”, lo vengono a trovare con regolarità, facendogli piombare addosso ogni giorno la responsabilità del suo “essere rimasto padre” oltre che detenuto. Tempo esaurito. Prossima attività. Le ore in prigione: l’arco di una vita prescritto da altri in ogni più intimo dettaglio. Facciamo un giro della struttura, abbiamo tante domande, siamo curiosi, bombardiamo di quesiti più o meno irriverenti i detenuti che ci accompagnano alla sala dove pranzeremo tutti assieme. Siamo curiosi. Vogliamo sapere, portare fuori quello che vediamo accadere lì dentro, fare paragoni con quanto appreso a lezione. Senza paura. Michele ha preparato gli gnocchi alla romana, Biagio la parmigiana, e noi ci ritroviamo a nostro agio nel conversare amabilmente con i detenuti che di quelle mura hanno fatto (obbligatoriamente) la propria casa, chi da qualche mese, chi da decenni ormai. “Cos’avranno fatto?”; “Perché?”; “Ne valeva la pena?”; “Ma come facciamo a stare tranquilli che ora siano persone diverse?”; “Si può cambiare in prigione, lo si può fare davvero?” Li osservo parlare e non posso fare a meno di interrogarmi su quella che deve essere la loro opinione di noi. Mi domando come ci vedano, se anche loro ci stiano scrutando provando a non dare nell’occhio come so che, ciascuno di noi gruppo Master, sta segretamente facendo, nel simulare distrattamente il contrario. Ci spostiamo in teatro, dove incontriamo Beatrice e Serena, coordinatrici della Cooperativa Sociale Le Crisalidi, che gestisce laboratori di scrittura creativa e teatro aperti anche ad esterni. Ci stiamo due ore, su quel palco insieme ai detenuti. Ci insegnano, ci fanno vedere, ci aiutano ad orientarci in uno spazio per noi sconosciuto, per loro pane quotidiano. Ridiamo, gridiamo, ci buttiamo per terra e saltiamo, corriamo, sudiamo, stiamo in relazione abbattendo per un istante quel muro invalicabile del “noi fuori e voi dentro”. È il compleanno di Paolo: Amedeo ha preparato una torta e Franco ben tre salami al cioccolato da condividere. Soffiamo le candeline tutti insieme, ispirando quella stanchezza rigenerante ed espirando i nostri pregiudizi, che decidiamo di consegnare al pavimento, deposti nella loro comprovata infondatezza. Usciamo dal carcere a passo stanco, pensierosi e affamati di giustizia. Una giustizia vera, non punitiva e basta, ma che davvero persegua quegli ideali democratici dei quali tanto orgogliosamente ci enunciamo eredi. Una giustizia che non millanti di essere riabilitativa confinando le persone ad una cella per la durata intera della detenzione, ma che si faccia carico della responsabilità costituzionale di rendere il carcere un luogo che deve “tendere alla rieducazione del condannato” (Art. 27 co. 3). Napoli. La cultura nelle carceri, Mann sigla protocollo d’intesa Il Roma, 14 dicembre 2022 Il Museo Archeologico Nazionale di Napoli per il sociale: una vocazione ormai consolidata, che testimonia il dialogo con le comunità del territorio. È stato siglato il protocollo d’intesa che lega, per il 2023, il Mann al Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Campania: nell’accordo, sottoscritto dal direttore dell’Archeologico Paolo Giulierini e dal provveditore Lucia Castellano, sono specificate le attività che saranno portate innanzi dalle due istituzioni nel prossimo anno.  Filo conduttore delle iniziative sarà il recupero sociale e culturale dei detenuti che si trovano negli istituti penitenziari della regione: nel rispetto della normativa di settore, il Museo si configurerà come parte attiva per la realizzazione di laboratori creativi e didattici, tirocini formativi e borse lavoro, con un’attenzione particolare alla proposta di lavori di pubblica utilità inerenti al mondo dell’arte. Anche grazie alla collaborazione con l’Associazione Pediatri della Campania, percorsi ad hoc saranno dedicati ai bimbi figli di detenuti, per dare un supporto concreto a quelli che, nella manualistica di settore, sono definiti casi di “genitorialità complessa”.  “Ancora una volta, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli trova il significato della propria missione nel supporto alle realtà ad alto rischio di marginalità sociale: di recente, abbiamo ospitato una mostra fotografica di ragazzi sottoposti a misure cautelari, adesso rendiamo sistematica la nostra propensione a coadiuvare chi, con grande sacrificio, lavora quotidianamente a contatto con un mondo che è solo apparentemente lontano da noi”, commenta il direttore del Mann, Paolo Giulierini.  “Ritengo questo accordo un formidabile strumento per favorire il rapporto tra il carcere e la città. I detenuti offrono le proprie competenze al Museo e beneficiano nel contempo della relazione con il mondo della cultura, aprono la loro mente ad altri scenari, a volte sconosciuti”, sottolinea il provveditore regionale Lucia Castellano, che aggiunge ”ringrazio il Mann e il direttore Giulierini per la lungimiranza e la visione che hanno portato alla sottoscrizione dell’accordo e auspico che si traduca in concrete azioni di rilievo per la comunità dei cittadini, liberi e reclusi”.  Droghe. La destra sa che siamo in un altro mondo? di Susanna Ronconi Il Manifesto, 14 dicembre 2022 L’esordio del governo Meloni sulle droghe non lascia dubbi: i rave sono un crimine, in cui l’uso di sostanze è parte integrante della “minaccia alla sicurezza pubblica”; le persone che usano droghe (Pud) non vanno chiamate così (non sono persone), se no si avvalla il consumo (affermazione della Regione Lombardia, su cui si vorrebbe l’assenso della Conferenza delle Regioni); la Riduzione del danno (RdD) è una resa e una rinuncia, l’astinenza è l’unico legittimo obiettivo (e pazienza per la salute di chi usa); il “metodo Dadone è finito”, da cui si deduce non si rispetterà più la legge 309/90 laddove prevede di organizzare la Conferenza nazionale ogni tre anni, con il contributo di operatori ed esperti (questo Dadone ha fatto nel 2021, e da qui è uscita la RdD come parte integrante delle politiche nazionali). Nulla di sorprendente, è l’iper-proibizionismo della destra, quello della legge Fini Giovanardi del 2006, della galera, dell’ostracismo ideologico della RdD, non importano gli esiti nefasti in termini di salute, esclusione, carcere, aumento di mercati illegali. Ma se non c’è nulla di nuovo nella retorica della destra, molto di nuovo invece è accaduto: non siamo più nel 2006, e il governo Meloni sulle droghe potrà esercitare il suo potere a colpi di decreti, se crede, ma senza alcuna credibilità. Gli ultimi 20 anni hanno cambiato lo scenario in modo radicale. L’impianto globale ONU, pur restando proibizionista, è stato costretto ad aprire al confronto sulla legalizzazione della cannabis, con un numero crescente di stati a favore; lo stesso UNODC ha incluso la RdD, a lungo strenuamente osteggiata, tra le politiche basilari, e le agenzie ONU dei diritti umani, il cui protagonismo sulle droghe è una incisiva novità, l’hanno inclusa come fattore determinante a garanzia del diritto alla salute; la UE si presenta compatta in sede ONU a sostegno della RdD e dei diritti, e include la RdD nella sua strategia, come un asse strategico. Siamo lontani dal quel 2009, quando all’ONU l’Italia di Giovanardi riuscì a rompere il fronte europeo e impedire l’adozione della RdD. La ricerca, in Europa e nel mondo, produce evidenze sulla RdD e ne valida l’efficacia. Molto è cambiato anche in Italia: la RdD, anche se in modo parziale, poco sostenuta se non sabotata a livello politico, ha prodotto interventi di qualità e ha risposto al bisogno di tenere basso il rischio di consumi che sono di massa. È una realtà competente, trasversale tra settore pubblico, terzo settore e società civile, che sa produrre l’evidenza della sua efficacia. È un LEA (Livelli essenziali di assistenza), ed è entrata nei Piani nazionali Prevenzione e AIDS. Alcune città italiane nel 2021 si sono unite per innovare le politiche locali, e la loro prospettiva è quella della RdD. Le PUD sono un soggetto sociale, rivendicando i loro diritti, anche in Italia: il loro “Nulla su di noi senza di noi” pone alla politica domande legittime e non aggirabili. È sempre più difficile immaginare una regione, sia pure di destra, che si espone al rischio politico e ai costi sociali di un picco di overdose o di sieroconversioni o di emarginazione sociale. A fronte di tutto questo, il governo Meloni dovrà fare i conti con un mondo che non è più quello di Giovanardi, e Mantovano - già alfiere della war on drugs - scoprirà che la sua delega alle droghe troverà non solo l’opposizione di tanti ma anche la sfida della realtà. Per esempio, dovrà rispondere al CESCR, Comitato ONU sui diritti sociali economici e culturali, che sulla base del rapporto di Forum Droghe e altre associazioni, ha riscontrato violazioni in materia di diritto alla salute per la carente diffusione della RdD nel paese, e chiede al governo di provvedere. La frase della viceministra Bellucci, secondo cui “la RdD è superata”, rischia di esporre il governo al ridicolo. L’Europa dei diritti è sotto attacco: ora la politica non ceda a risposte populiste di Davide Varì Il Dubbio, 14 dicembre 2022 L’allarme arriva della presidente Metsola che parla di attacco alle società “aperte, libere e democratiche” ed evoca piccoli “dittatori” interessati. Mentre l’inchiesta è sempre più mediatica e ricorda molto da vicino la “nostra” Tangentopoli. L’Europa è sotto attacco. Non lo dice l’ultimo dei complottisti, ma la presidente dell’Europarlamento in persona: “Il Parlamento europeo, cari colleghi, è sotto attacco; la democrazia europea è sotto attacco; e il nostro modo di essere società aperte, libere e democratiche è sotto attacco”, ha infatti dichiarato in plenaria la presidente Roberta Metsola. E poi, sempre più esplicita: “I nemici della democrazia, per i quali l’esistenza stessa di questo Parlamento è una minaccia, non si fermeranno davanti a nulla. Questi attori maligni, legati a Paesi terzi autocratici, hanno presumibilmente armato Ong, sindacati, individui, assistenti e deputati nel tentativo di soffocare i nostri processi”. Il timore di Metsola è che questa indagine possa trasformarsi una valanga che trascini via tutto, che delegittimi le istituzioni agli occhi dei cittadini europei e faccia terra bruciata di diritti conquistati con fatica e imposti con ostinazione a chiunque in questi anni ha chiesto di far parte dell’Ue. Questo non vuol dire che l’indagine del giudice Michel Claise, già dipinto come il nuovo Tonino di Pietro, sia mirata a indebolire l’Europa, né che vi siano manovratori occulti che guidino o indirizzino l’inchiesta. Nulla di tutto questo. Siamo certi però che qualcuno utilizzerà ogni singolo spazio mediatico a sua disposizione per presentare questa indagine come la tomba dell’Europa dei diritti. Del resto in Italia sappiamo bene come un’indagine per corruzione possa trasformarsi in un valanga che travolge libertà, diritti, garanzie. Lo sappiamo bene per aver vissuto 30 anni fa esatti la stagione di tangentopoli. E se oggi qualcuno pensa che ci sia bisogno di una commissione parlamentare d’inchiesta che “indaghi” sugli eventi di allora, bèh, questo succede perché nel ‘92 è accaduto che una manciata di procure colmassero i vuoti lasciati dalla politica. In nome della lotta alla corruzione, assistemmo a una evidente torsione dei diritti e delle garanzie, di cui ancora oggi portiamo i segni. E non è certo un caso che ultimamente sia stata proprio l’Europa a imporci una legge sulla “presunzione di innocenza”, anch’essa vittima collaterale della furia purificatrice della lotta alla corruzione. Certo, a volte l’Ue si è presentata col volto arcigno dell’esattore, ma non v’è dubbio che dobbiamo soprattutto a lei la tenuta del nostro Stato di diritto. E ora dobbiamo chiederci: a chi giova un’Europa debole e delegittimata? Di certo giova a tutti coloro che in questi anni hanno teorizzato la nascita di una sorta “democrazia autoritaria”, a chi chiede pieni poteri e vive i diritti come ostacolo e argine al suo autoritarismo. Ed ecco che per costoro l’Europarlamento diventa una barriera da abbattere, un contropotere da delegittimare anche attraverso un’inchiesta giudiziaria. D’altra parte anche la risposta endogena e non giudiziaria alla presunta, e ancora tutta da provare, corruzione dell’Europarlamento, può generare risposte “nevrotiche” e pericolose. E anche in questo caso l’Italia ha qualcosa da insegnare. La risposta politica alla corruzione degli anni ‘90 ha infatti generato mostri dei quali ancora non riusciamo a liberarci. Dalla legge Severino, all’esasperazione dell’abuso d’ufficio, fino ad arrivare alla soppressione di fatto dell’immunità parlamentare. E la foga populista è arrivata addirittura a mettere in discussione la libertà del vincolo di mandato dei parlamentari, caposaldo della nostra costituzione. Insomma, a noi non rimane altro che sperare che chi conduce le indagini sappia che sta mettendo le mani nel cuore della nostra civiltà, nell’articolato e delicatissimo sistema dei nostri diritti. E non vorremmo che mentre tutti noi siamo ancora una volta impegnati nella caccia alla “madre di tutte le tangenti”, qualcuno, sotto il nostro sguardo distratto e indifferente, lavori per “indebolire il nostro modo di essere società libere, aperte e democratiche”. Nel mondo oltre 100 milioni di profughi di Giansandro Merli Il Manifesto, 14 dicembre 2022 Il rapporto Migrantes sull’asilo. Aumentano le fughe dai disastri climatici. In Ue “doppio standard” tra ucraini e rifugiati di altre guerre. 100 milioni. È la cifra tonda delle persone costrette a lasciare la propria casa alla ricerca di sicurezza e protezione che nel corso del 2022 è stata, per la prima volta, superata. Sono state 103 milioni in tutto il mondo, cioè un essere umano ogni 77. Dieci anni fa la proporzione era meno della metà: un individuo ogni 167. A dare una spinta le fughe dall’aggressione di Putin all’Ucraina e i disastri ecologici e ambientali. Nel 2021 le persone sradicate, per periodi più o meno lunghi, a causa del cambiamento climatico sono state 23,7 milioni. Quasi 6 milioni in modo stabile. “Sfollati” o “rifugiati” che stentano ovunque a essere riconosciuti perché manca un quadro condiviso in grado di far emergere il loro status. I numeri sono contenuti nella sesta edizione del rapporto su richiedenti asilo e rifugiati redatto dalla Fondazione Migrantes. Uno strumento utile a sprovincializzare il dibattito politico italiano. Questo tende a leggere il fenomeno come se il nostro paese, ultimamente chiamato più spesso “nazione”, ne costituisse il centro a causa della posizione al centro del Mediterraneo. Una retorica che sfocia in vittimismo e discorsi allarmistici, allontanando politiche di gestione strutturali. Sia a livello interno che europeo. Il 70% di quei 103 milioni di persone in fuga, infatti, cerca rifugio in uno Stato confinante. Solo una piccola parte ambisce ad andare in Europa e una porzione ancora minore ci riesce. Per farlo deve affrontare viaggi lunghi e pericolosi e mettersi in mano ai trafficanti, perché anche coloro che hanno diritto alla protezione internazionale possono varcare le frontiere solo in maniera illegale. I canali di ingresso regolari sono un aspetto residuale dei percorsi migratori. Nel territorio dell’Unione, poi, ci sono Stati che fanno già molto più dell’Italia in termini di accoglienza e asilo. A fine 2021, prima dello scoppio della guerra in Ucraina, Roma ospitava 145mila rifugiati, Parigi mezzo milione e Berlino oltre 1,2 milioni. A giugno di quest’anno, nel mezzo della crisi umanitaria di Kiev, nei tre paesi c’erano rispettivamente 296mila, 613mila e addirittura 2.235.000 rifugiati (ucraini inclusi). “Verrebbe da chiedersi chi dovrebbe prendersi i migranti da chi”, si legge nella sintesi del rapporto. Soprattutto considerando che in termini relativi, cioè nel rapporto tra popolazione residente e richiedenti asilo/profughi, l’Italia è ancora più indietro rispetto ai partner Ue. L’anno in corso è stato quello che più di ogni altro ha mostrato l’ipocrisia delle politiche europee, il loro carattere discriminatorio e la strumentalità delle retoriche sull’emergenza. “Un’Unione europea e un’Italia “sdoppiate”: solidale con gli ucraini e discriminante e in violazione dei diritti umani e delle convenzioni internazionali per altri. Per qualcuno le frontiere sono aperte, mentre per altri non lo sono nemmeno i porti dopo un naufragio”, scrivono nell’introduzione Mariacristina Molfetta e Chiara Marchetti. Dieci milioni di ingressi ucraini in Europa, di cui circa 3,7 diventati presenze fisse, non hanno mandato in crisi né i sistemi sociali, né quelli d’accoglienza del Vecchio Continente. I paesi del blocco di Visegrád, da sempre i più ostili all’ingresso dei profughi di altre guerre, hanno aperto frontiere e porte di casa. In Italia gli arrivi da Kiev sono stati circa 170mila, quasi il doppio dei 98mila ingressi via Mediterraneo. Mentre il totale degli attraversamenti “irregolari” di tutte le frontiere Ue, di terra e di mare, è di 228.240 fino a settembre scorso. Ingressi che non corrispondono nemmeno al numero di persone, visto che uno stesso soggetto che viene respinto e ritenta il superamento della frontiera, soprattutto lungo la rotta balcanica, viene contato più volte. La rotta più letale rimane quella del Mediterraneo centrale, dove il report conta 1.295 persone scomparse su un totale di 1.800 nel Mare Nostrum. Preoccupa però la “rotta Canaria”: nel 2021 morti stimati sono stati 1.126, +28% rispetto ale 877 vittime del 2020. Quella rotta, che dalle coste dell’Africa occidentale conduce all’arcipelago spagnolo delle Canarie, segna il record di mortalità relativa: una vittima ogni 20-30 migranti sbarcati. Allarme di Reporter senza frontiere: i giornalisti in carcere nel mondo sono 533 rainews.it, 14 dicembre 2022 Più della metà dei giornalisti detenuti si trova in cinque paesi: Cina (110), Birmania (62), Iran (47), Vietnam (39) e Bielorussia (31). Il numero di giornalisti imprigionati in tutto il mondo ha raggiunto il nuovo record di 533 nel 2022, rispetto ai 488 dell’anno scorso secondo i dati di RSF. Il numero di giornalisti incarcerati nel mondo ha raggiunto un nuovo record nel 2022: sono 533, circa 40 in più rispetto allo scorso anno (488), quando si era già segnato un livello storico. Il rapporto annuale di Reporter senza frontiere segnala anche l’aumento del numero dei giornalisti uccisi (57), in particolare a causa della guerra in Ucraina, mentre era stato “storicamente basso” nel 2021 (48) e nel 2020 (50). Tra loro ci sono Maks Levin, fotoreporter ucraino ucciso dai soldati russi il 13 marzo, e Frédéric Leclerc-Imhoff, videoreporter francese del canale televisivo BFMTV, morto dopo essere stato colpito dalle schegge di un proiettile esploso mentre copriva l’evacuazione di civili. Al momento nel mondo ci sono 65 giornalisti trattenuti in ostaggio e 49 gli scomparsi. Più della metà dei giornalisti detenuti nel mondo al 1 dicembre si trova in cinque paesi: Cina (110), Birmania (62), Iran (47), Vietnam (39) e Bielorussia (31). L’Iran è l’unico Paese che non faceva parte di questa “lista nera” lo scorso anno. La Repubblica islamica ha infatti imprigionato un numero di professionisti dei media “senza precedenti” in 20 anni dall’inizio del movimento di protesta scoppiato a settembre. Trentaquattro nuovi giornalisti si sono aggiunti ai 13 che erano già stati rinchiusi in carcere prima dell’inizio delle proteste. Tra le prime giornaliste arrestate in Iran, due donne, Nilufar Hamedi ed Elahe Mohammadi, che hanno contribuito ad attirare l’attenzione sulla morte della giovane Mahsa Amini. Ora rischiano la pena di morte. “I regimi dittatoriali e autoritari stanno riempiendo più velocemente le loro prigioni incarcerando i giornalisti”, ha denunciato Christophe Deloire, segretario generale dell’ong per la difesa della libertà di stampa. All’interno di questa valutazione globale, Rsf rileva un numero senza precedenti di giornaliste incarcerate: sono 78 (rispetto alle 60 dell’anno scorso). “Le giornaliste rappresentano ora quasi il 15% dei detenuti, rispetto a meno del 7% di cinque anni fa”, secondo la ong. Spagna e Marocco non indagano sulla strage di Melilla: 37 morti accertati e centinaia di feriti di Filippo Zingone Il Manifesto, 14 dicembre 2022 Sono passati quasi sei mesi dal 24 giugno quando alcune migliaia di migranti, per lo più provenienti dalle regioni sub-sahariane, hanno provato a entrare nell’enclave spagnola di Melilla. 37 morti accertati, 77 scomparsi e centinaia di feriti, per cui manca ancora la verità. Anzi manca la ricerca della verità. A dirlo è Amnesty International in un rapporto pubblicato ieri, dove denuncia che le autorità marocchine e quelle spagnole non hanno portato avanti indagini efficaci e trasparenti. Indagini che invece la Ong ha condotto tramite l’ascolto di molti testimoni oculari, riprese video e immagini satellitari. I risultati che Amnesty ha prodotto sono preoccupanti: evidenziano una forte discriminazione dei migranti sub-sahariani e la violazione sistematica dei diritti umani. Violazioni avvenute anche prima del 24 giugno. Nei mesi e nei giorni precedenti al tentativo di entrare in territorio spagnolo i migranti, che vivevano in campi informali, sono stati presi di mira dalle forze dell’ordine marocchine. La polizia, come riporta un testimone ascoltato da Amnesty, tre giorni prima del 24 giugno è entrata in diversi campi dove ha bruciato effetti personali e cibo dei migranti. Qualche giorno dopo, stremati dalle violenze e dall’estenuante attesa di risposte da parte degli uffici per l’immigrazione queste persone si sono dirette verso il confine. Su quest’ultimo punto si è espresso anche il commissario del Consiglio d’Europa per i diritti dei migranti, in visita a Melilla a fine novembre, ritenendo che in Marocco i richiedenti asilo non hanno “genuino ed efficace” accesso alla procedura d’asilo ai varchi di frontiera. Il repor di Amnesty, insomma, dimostra che i fatti del 24 giugno erano prevedibili ed evitabili. Quel giorno le forze di frontiera di entrambi i paesi hanno sparato gas lacrimogeni, proiettili di gomma, lanciato pietre e usato manganelli, non fornendo nessuna assistenza ai feriti che anzi sono stati lasciati sotto il sole per più di otto ore. Con le teste spaccate e il respiro corto, i migranti che erano riusciti a superare il confine sono stati respinti a calci dalle forze di sicurezza spagnole. Nessuno dei due paesi ha aperto indagini sulle forze di confine, né hanno fornito risultanze di eventuali indagini e sia Spagna che Marocco non hanno consegnato le riprese delle centinaia di telecamere presenti al confine. Le autorità marocchine hanno reso praticamente impossibile alle famiglie e alle organizzazioni non governative la ricerca delle persone scomparse e di quelle morte. Iran. I processi farsa del giudice-boia: “Inutile difenderti, ti condanno a morte” di Gabriella Colarusso La Repubblica, 14 dicembre 2022 Il capo della sezione 15 del Tribunale rivoluzionario di Teheran Salavati ha firmato un numero record di sentenze capitali e di lunga prigionia per oppositori e giornalisti. A Teheran lo chiamano “il giudice delle impiccagioni”, una fama oscura di cui si torna a parlare con terrore nei giorni in cui la magistratura iraniana esegue le prime condanne a morte per le proteste. A decidere l’impiccagione di Moshen Shekari, 23 anni, il primo manifestante giustiziato, è stato lui, Abolghassem Salavati, il giudice a capo della sezione 15 del Tribunale rivoluzionario islamico di Teheran. Del suo passato si sa pochissimo: nessuna notizia su dove sia nato o su quale formazione legale abbia. A essere certa è la drammatica conta delle sentenze di condanna a morte o di lunga prigionia che portano la sua firma. Secondo la ong United for Iran, al 15 settembre 2020 Salavati “aveva emesso 25 condanne a morte e condannato 250 imputati a un totale di 1.277 anni di carcere e 540 frustate”. L’organizzazione conta “229 imputati nei suoi casi a cui è stato negato l’accesso all’assistenza legale, non meno di 166 messi in isolamento prolungato, e almeno 104 a cui non sono state consentite visite familiari o telefonate”. Vicino all’attuale capo della magistratura Gholam-Hossein Mohseni-Ejei, il suo nome divenne tristemente noto all’opposizione iraniana dopo le grandi proteste del 2009 contro la vittoria alle elezioni di Ahmadinejad, quando il giudice presenziò diversi processi a carico dei manifestanti, anche in quel caso comminando sentenze pensantissime. Il 29 ottobre davanti alla sua corte sono finiti in un processo collettivo sei manifestanti, Mohammad Ghobadlou, il rapper Saman Seydi (Yasin), Saeed Shirazi, Mohammad Boroughani, Abolfazl Mehri Hossein Hajilou e Mohsen Rezazadeh Gharagholou, tutti accusati di moharebeh, “guerra contro Dio”, o di “corruzione sulla terra”, reati per cui è prevista la pena capitale. Almeno due sentenze di morte, secondo Amnesty, quelle di Ghobadlou e Boroughani, sono state già decise. In aula, alle spalle di Salavati campeggiava la scritta “tribunale per trattare le accuse contro i recenti rivoltosi”. Uno striscione che “rivela la posizione fortemente prevenuta verso gli imputati e che mina la presunzione di innocenza”, denuncia Amnesty. Salavati è il giudice che condannò a morte anche il giornalista e attivista Ruhollah Zam, ideatore di un canale di informazione indipendente seguitissimo in Iran, Amadnews: fu impiccato esattamente due anni fa, accusato di aver fomentato le proteste del 2017 e del 2018: “corruzione sulla terra”. Ma Salavati è anche il giudice che ha presieduto i processi di numerosi cittadini con doppia nazionalità, considerati dalle organizzazioni per i diritti umani non equi e politicamente motivati. Da lui fu condannato per “spionaggio” anche il giornalista iraniano-americano Jason Rezaian, corrispondente da Teheran del Washington Post, che ha passato 544 giorni in carcere. “In aula, dove c’erano le telecamere della tv di Stato, Salavati manteneva un profilo basso. Fuori dall’aula l’ho incontrato tre volte ed era molto intimidatorio”, racconta Rezaian a Repubblica. “Non ho potuto avere un mio avvocato di fiducia e quando incontravo quello assegnatomi Salavati era presente. Immagina che sei sotto processo e vuoi preparare la difesa con il tuo avvocato e il giudice e il magistrato sono lì a ogni incontro, è contro ogni legge”. Rezaian ha raccontato la sua esperienza in un libro e in un podcast. Prima del processo, ricorda, “mi disse: ‘Perché state perdendo tempo? Ti condannerò a morte, tu sei una spia americana’“. I tribunali rivoluzionari furono creati da Khomeini nel 1979 e negli anni sono stati accusati di pesanti violazioni degli imputati, privati di una giusta difesa, di avvocati di fiducia, tenuti in isolamento e giudicati in processi senza prove o contraddittorio. “Non sono veri tribunali, ma corti ideologiche”, dice Rezaian. Nel 2011 Salavati è stato sanzionato dall’Unione europea insieme ad altre 22 persone e nel 2019 anche il dipartimento di Stato Usa l’ha inserito nella lista delle persone sotto sanzioni per violazione dei diritti umani. Georgia. “Saakashvili avvelenato perché nemico di Putin sta morendo in carcere” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 14 dicembre 2022 L’ex presidente della Georgia, Mikheil Saakashvili, sta morendo. Una settima fa il protagonista della “Rivoluzione delle rose” del 2004 è stato avvelenato (si veda Il Dubbio del 6 dicembre). Sono state ritrovate nel suo corpo tracce di mercurio e arsenico. La notizia ha fatto il giro del mondo in pochissimo tempo. Gli avvocati che lo assistono, già nelle scorse settimane, avevano denunciato le precarie condizioni di salute dell’ex presidente georgiano, considerato da Putin un soggetto scomodo per aver ostacolato le mire espansionistiche di Mosca. Saakashvili è finito in carcere da più di un anno e durante la detenzione ha perso ben quaranta chili. Chi lo ha visitato di recente lo definisce irriconoscibile. Alla fine della scorsa estate Saakashvili è stato trasferito in una clinica. Il suo stato di salute è peggiorato anche a seguito dello sciopero della fame avviato per protestare contro le autorità carcerarie, che non si starebbero impegnando per salvargli la vita. Per accendere i riflettori sulla sua vicenda personale e politica Saakashvili, come riportato dal Corriere della Sera, si è procurato carta e penna e fatto pervenire una lettera al quotidiano Le Monde, indirizzata direttamente al presidente francese Emmanuel Macron. Il documento è scritto a mano, con grafia incerta, dall’ex numero uno di Tbilisi. In alto a sinistra spicca la sigla con lettere maiuscole “SOS” per rimarcare l’urgenza della comunicazione e la richiesta d’aiuto. “Assassini! Gli assassini! L’ex presidente georgiano Saakashvili “avvelenato’ con mercurio e arsenico’“, si intitola così l’articolo pubblicato su Le Monde che riporta il testo della lettera dell’ex leader politico, anni fa considerato da George W. Bush un alleato prezioso. “Ho lottato - scrive Misha Saakashvili - per tutta la vita per la libertà e le riforme in Georgia e in Ucraina e contro la politica imperialista russa. Putin mi considera come uno dei suoi principali nemici. Ha pubblicamente promesso di uccidermi (…). Sono stato avvelenato in prigione. Sto morendo, non ho più molto tempo”. Saakashvili cerca di sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale, definendosi un “prigioniero” di Vladimir Putin. Proprio nei confronti del capo del Cremlino riserva l’attacco più duro: “Putin mi considera uno dei suoi principali nemici. Ha pubblicamente promesso di uccidermi. Ora sono in prigione, come uno dei suoi prigionieri personali”. Dito Sadzaglishvili è uno degli avvocati dell’ex presidente della Georgia. “La situazione di Misha Saakashvili - dice al Dubbio - è estremamente delicata e seria. Sta affrontando problemi di salute molto gravi. Stiamo aspettando i rapporti elaborati da alcuni specialisti nel campo della medicina per avere un quadro più chiaro delle sue condizioni di salute”. Secondo Sadzaglishvili, l’ancora di salvezza per il suo assistito può provenire soltanto dall’estero, considerato pure che la presidente georgiana, Salome Zurabishvili, si muoverebbe in base alle indicazioni del Cremlino. “Molto probabilmente - commenta Sadzaglishvili - verrà riaffermata la necessità di un trasferimento all’estero dell’ex presidente georgiano per salvaguardare la sua incolumità fisica, per potergli offrire cure adeguate e un vero processo di riabilitazione. Un trasferimento che diventa sempre più urgente, poiché, dal mese di maggio 2022, le sue condizioni di salute sono precipitate. E tutti gli specialisti che lo hanno visitato personalmente o che hanno studiato la sua cartella clinica sostengono che il processo di riabilitazione di cui ha bisogno non può in alcun modo essere avviato in carcere”. L’avvocato georgiano non ha dubbi sull’accanimento e sulla persecuzione ai danni di Misha Saakashvili, che, dopo aver guidato la Georgia dal 2004 al 2013, ha acquisito la cittadinanza ucraina diventando prima governatore della regione di Odessa e dopo consigliere del presidente Volodymir Zelensky. “È sotto gli occhi di tutti - aggiunge - Saakashvili è perseguitato politicamente. Al di là dell’assurdità delle accuse che gli sono state rivolte, vi sono molte opinioni e reazioni da parte di Ong e di sostenitori della democrazia in Georgia, che hanno messo in discussione, sin dall’inizio della vicenda, la conformità e la validità delle procedure giudiziarie avviate contro l’ex presidente della Georgia”. Sadzaglishvili ha i piedi ben piantati a terra. “Non sono sicuro - conclude - rispetto al suo rilascio, nonostante il caso di Saakashvili sia diventato di rilevanza internazionale. Gli oligarchi russi e la Russia in generale stanno avendo non poca influenza sui destini della Georgia. La discussione sulla situazione politica in Georgia è molto accesa e tante situazione che accadono nel mio paese stanno subendo l’influenza del conflitto in Ucraina”. Nel 2009 Saakashvili scrisse con Raphaël Glucksmann un libro, edito da Spirali, intitolato “Io vi parlo di libertà”. Quasi quattordici anni fa l’ex leader georgiano lanciò un appello all’Europa, chiedendo di vigilare sulla condotta di Mosca. Ieri la Russia puntò la Georgia. Oggi bombarda e affama l’Ucraina. La storia si ripete con tutti gli effetti più tragici.