Io, Garante dei detenuti, vi dico perché le carceri riguardano tutti di Mauro Palma* La Stampa, 13 dicembre 2022 Le righe che si succedono lungo l’analisi, rigorosa ed empatica, con cui Donatella Stasio descrive realtà e problemi della detenzione in carcere sul giornale di ieri, giungono a un’affermazione che più di altre richiede una riflessione. È nell’indicare “l’assenza di connessione con il territorio” quale uno dei fattori determinanti nell’allontanare da “una seria prospettiva di rieducazione”. Un’assenza che si accompagna ad altre con pari rilevanza: quella del rispetto della dignità di ogni persona - qualunque sia la sua contingente situazione di libero o recluso e di colpevole o innocente - e quella dell’invivibilità dei luoghi. Tre descrittori di un sistema che, pur in presenza di professionalità e anche di alcune lodevoli esperienze, non funziona né nella direzione di chi lo vorrebbe chiuso e retributivo del male commesso, tale da bloccare l’intenzione di chi potrebbe commetterne altro, né in quella di chi lo vuole positivamente orientato verso un ritorno alla collettività, secondo quel percorso rieducativo che la nostra Carta delinea come finalità tendenziale di ogni pena. Quell’assenza di connessione però non interroga soltanto chi deve amministrare l’esecuzione penale perché pone domande alla collettività tutta che stenta a riconoscere l’appartenenza al proprio corpo sociale anche di chi con la commissione del reato ha reciso fortemente i legami con esso. Interroga tutti noi per la nostra tendenza a pensare la vita oltre quelle mura come un “altrove” che non ci riguarda. Un “altrove” molteplice: nei suoi spazi sempre più confinati ai bordi estremi delle periferie, dove raramente capita di passeggiare, oppure racchiusi nell’antico centro urbano dove l’appartenenza deve misurarsi però con l’invivibilità di ambienti pensati per una diversa quotidianità e certamente per una diversa concezione della pena detentiva. Ma anche un “altrove” concettuale, spesso elaborato come un impossibile vaso di Pandora senza interrogarsi sulla necessità di un investimento sul futuro ritorno; dove anche il linguaggio diviene diverso, come in una sorta di gergo recluso. Soprattutto un “altrove” dello scorrere del tempo interno che ciclicamente ripropone sé stesso e non afferra più lo svolgersi lineare del tempo esterno, quasi che il primo si concretizzi nella ciclicità di una circonferenza, mentre il secondo si allontana come una retta a essa tangente solo in un punto. La significatività del proprio tempo è forse il primo diritto offeso dal nostro sistema di detenzione. Anche più rilevante delle stesse condizioni materiali e di sovraffollamento, nel determinare quel senso di vuoto e di essere “altrove”, appunto, che può giocare un ruolo determinante nell’accentuare la fragilità soggettiva. Perché il tempo privo di significato determina il venir meno del proprio autoriconoscimento come persona completa, seppure privata della libertà, e spesso agisce - ben aiutato dall’istituzione - come attore di un processo di implicita infantilizzazione. Che allontana sempre più dal mondo esterno. Si diviene “oggetti” di un trattamento che altri decidono e su cui valutano i progressi e non più “soggetti”, orientati e supportati, del proprio percorso. Oppure si resta in attesa: oggi quasi 1500 persone sono in carcere per scontare una pena - non il residuo di una pena maggiore - inferiore a un anno, altri 2.700 tra uno e due anni: difficile pensare a una gravità accentuata di quanto commesso, che comunque va sanzionato, ma ancora più difficile pensare che quel tempo segregato abbia per loro un significato se non quello di lasciarlo trascorrere, per poi tornare alla situazione precedente - con in più lo stigma del carcere. Difficile non rendersi conto che quelle vite ai margini dovevano forse essere socialmente intercettate prima con strumenti diversi dal diritto penale e che comunque ora richiedono altre soluzioni e non certo il carcere. Così i numeri diminuirebbero e forse allora il dibattito sull’edificazione di nuove carceri, non in sostituzione di manufatti obsoleti, ma in aggiunta all’esistente, mostrerà tutta la sua debolezza. *Presidente dell’Autorità Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale Il Papa scrive ai governanti: “clemenza” per i detenuti in vista del Natale di Salvatore Cernuzio vaticannews.va, 13 dicembre 2022 Lettera di Francesco ai capi di Stato perché concedano l’indulto a coloro che “ritengano idonei a beneficiare di tale misura”, affinché “questo tempo segnato da ingiustizie e conflitti, possa aprirsi alla grazia che viene dal Signore”. Il gesto simbolico già compiuto nel 2000 da Giovanni Paolo II e poi nel 2002. Anche Bergoglio aveva lanciato lo stesso invito per il Giubileo dei carcerati del 2016. Un “gesto di clemenza” per i detenuti e chi è privato della libertà. È la richiesta che il Papa tramite una lettera sta inviando a tutti i capi di Stato in vista del Natale, invitandoli a compiere un gesto simbolico “verso quei nostri fratelli e sorelle privati?? della libertà che essi ritengano idonei a beneficiare di tale misura”. “Perché questo tempo segnato da tensioni, ingiustizie e conflitti, possa aprirsi alla grazia che viene dal Signore”, è la motivazione riportata in una dichiarazione del direttore della Sala Stampa vaticana, Matteo Bruni. L’appello di Giovanni Paolo II nel 2000 - Il gesto ha radici lontane che affondano nel 2000, anno del Grande Giubileo, quando San Giovanni Paolo II chiese ai governanti del mondo un gesto di clemenza nel documento di 11 pagine per il Giubileo nelle carceri. Era fine giugno, poco più di una settimana dopo, il 9 luglio, il Papa polacco in visita al carcere romano di Regina Coeli per il Giubileo dei detenuti, in nome di Gesù “imprigionato, schernito, giudicato e condannato” domandò “alle autorità competenti” la riduzione della pena per permettere ai detenuti di ritrovare una nuova vita sociale una volta fuori dal carcere. Richiesta reiterata ancora una volta il 14 novembre 2002 a senatori e deputati incontrati in occasione della visita al Parlamento italiano. Il Giubileo dei carcerati del 2016 - Francesco - che non ha mai mancato nei suoi viaggi apostolici e nel corso del pontificato, in particolare durante la Lavanda dei piedi del Giovedì Santo, una visita in un penitenziario - segue le orme del predecessore. Già nel 2016, Anno Santo della Misericordia, in occasione del Giubileo dei carcerati del 6 novembre, il Pontefice all’Angelus, dopo la Messa a San Pietro con i detenuti, aveva sollecitato i governi a compiere per loro “un atto di clemenza”. Lanciando un appello in favore del miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri in tutto il mondo, “affinché sia rispettata pienamente la dignità umana dei detenuti” e ribadendo “l’importanza di riflettere sulla necessità di una giustizia penale che non sia esclusivamente punitiva, ma aperta alla speranza e alla prospettiva di reinserire il reo nella società”, il Papa si era quindi rivolto alle “competenti autorità civili”. A loro in modo speciale aveva sottoposto “la possibilità di compiere, in questo Anno Santo della Misericordia, un atto di clemenza verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di tale provvedimento”. Ora, un uguale invito ma in prossimità del Natale. Il governo riporta in cella 4-500 detenuti ai domiciliari durante l’emergenza Covid di Liana Milella La Repubblica, 13 dicembre 2022 Oggi il voto del decreto Rave. Bocciata la proposta di tenere fuori chi, con i decreti per la pandemia, ha ottenuto di finire di scontare la pena a casa. Dal 31 dicembre tutti dentro nonostante il sovraffollamento. E i condannati per reati contro la Pa escono dall’ergastolo ostativo. Anche quelli delle associazioni a delinquere. Le carceri scoppiano. I suicidi toccano quota 80. Ma torneranno in carcere, a fine dicembre, tra le 400 e le 500 persone. Che vanno ad aggiungersi alle 55mila già rinchiuse. Erano fuori dal 2020 per via del Covid e del sovraffollamento, e grazie a due decreti, Ristori e Milleproroghe. Avevano goduto dei domiciliari tutti coloro che dovevano scontare ancora una pena sotto i 18 mesi, i detenuti già ammessi al lavoro esterno, e i semi liberi per permessi premio. Ovviamente nessuno era stato condannato per reati gravi. E nessuno, di nuovo fuori, ha infranto le regole.  I dem: “Una scelta incomprensibile” - Perché non prorogare la misura? Lo ha chiesto il senatore torinese dem Andrea Giorgis. E con lui i Pd che hanno sottoscritto gli emendamenti, tutti bocciati dalla maggioranza, Walter Verini, Anna Rossomando, Alfredo Bazoli, Franco Mirabelli. Motivazioni semplici. Ha detto Giorgis, al Senato, mentre si votava sul decreto Rave: “Dal giorno della loro introduzione, non risulta che queste misure abbiano prodotto alcun allarme sociale o che vi siano stati casi di revoca per condotte illecite da parte dei detenuti che ne hanno beneficiato. Se è così, se si tratta di misure che hanno dato buona prova di sé, perché non renderle strutturali o perlomeno prorogarle ulteriormente? Perché al prossimo 31 dicembre dovrebbero venire meno?”.  La scelta del governo Meloni - Eh già. Ma non c’è stato niente da fare. Di carcere ci si riempie la bocca. Ma poi, al dunque, la maggioranza di centrodestra sfoggia il suo “giustizialismo”. Del resto, la premier Giorgia Meloni lo ha premesso, garantismo durante il processo, ma a condanna decisa giustizialismo nello scontare la pena. Il Guardasigilli Carlo Nordio ripete di essere per una giusta pena e un giusto carcere. Ma - evidentemente - non è così. E lo dimostra proprio questo “no” alla proroga - e ancor meglio solo alla stabilizzazione - delle misure per scontare la pena stessa ai domiciliari, ovviamente con la garanzia della buona condotta e del rispetto delle regole.  Il colpo di spugna sullo Spazzacorrotti - Ma nel decreto Rave - che vara il pugno duro per gli eventi musical, con un reato da 3 a 6 anni, e quindi pure le intercettazioni, che ha rimesso in corsia i medici No Vax, che ha rinviato di due mesi la riforma penale di Cartabia - non c’è posto per un giusto regalo di Natale che farebbe bene non solo ai semi liberi destinati a ritornare prigionieri, ma alle carceri stesse.  E non basta. Perché oggi, nella versione ormai finale e non più modificabile del decreto, pena la sua decadenza, ci sarà anche il colpo di spugna sulla Spazzacorrotti e sulla norma che dal 2019 ha vietato di accedere ai benefici penitenziari tutti coloro che sono stati condannati per reati contro la pubblica amministrazione. Come dice in aula Ettore Licheri di M5S, non solo “ai condannati per peculato, corruzione e concussione, ma anche ai condannati per il reato di associazione a delinquere finalizzata a commettere quei reati contro la pubblica amministrazione”.  Il voto del 2019 del Pd - Inutilmente, in commissione Giustizia, si è sgolato l’ex pm di Palermo Roberto Scarpinato, oggi senatore del M5S. Ma la maggioranza non ha fatto una piega. Non è passata neppure la proposta del Pd (che poi si è astenuto) per bloccare i permessi almeno in presenza di un’associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, e quando, ha detto il dem Alfredo Bazoli, “è necessario che ci sia una verifica puntuale dell’assenza di collegamenti con i vincoli criminosi che rischiano di essere ripristinati”. Ma nel 2019 il Pd non aveva condiviso l’inserimento dei reati contro la Pa tra quelli dell’ergastolo ostativo.  Dieci anni di Rems: percorso non compiuto e il ritorno della logica manicomiale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 dicembre 2022 Non nascono per sostituire gli Opg, ma come presa in carico dell’autore di reato e dichiarata non penalmente responsabile. Domani un convegno a Torino con gli autori di una ricerca. Le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, in acronimo Rems, hanno compiuto dieci anni. Ma la strada è ancora lunga affinché svolgano il compito per come è concepito dalle leggi che hanno definito il percorso di superamento degli Ospedali Psichiatrici giudiziari (Opg) e normato l’istituzione di tali strutture che sono nate per essere l’estrema ratio. A tal proposito l’università degli studi di Torino ha pubblicato la prima ricerca interdisciplinare che affronta, a livello nazionale, la realtà e l’esperienza delle Rems. Gli autori sono Marco Pelissero, professore ordinario di Diritto penale presso l’Università degli studi di Torino, Laura Scomparin, professoressa ordinaria di Diritto processuale penale presso l’Università degli studi di Torino e Giovanni Torrente, ricercatore a tempo in Sociologia del diritto presso l’Università degli studi di Torino. Come si apprende in premessa, il volume trae spunto dall’analisi dell’impatto della L.81/ 2014 per proporre una riflessione più ampia sull’attuale configurazione del sistema delle misure di sicurezza personali. Come noto, la riforma del 2014 ha previsto - fra le altre misure - la definitiva chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari a favore di un articolato sistema territoriale che vede nell’internamento del reo non imputabile, o con imputabilità diminuita, all’interno delle Rems l’extrema ratio, laddove la pericolosità sociale dell’autore del reato non consenta l’applicazione di una misura non custodiale. In una prospettiva multidisciplinare, il volume, articolato in quattro sezioni, affronta le diverse questioni che hanno accompagnato l’entrata in vigore e l’applicazione della riforma. Nella prima (le persone) sono analizzate le caratteristiche principali dei soggetti che transitano all’interno del sistema delle misure di sicurezza penali, ed in particolare delle Rems. Tale analisi è proposta anche attraverso l’analisi statistica dei dati contenuti nel portale SMOP (Sistema per il Monitoraggio del Superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari) ideato dalla regione Campania ed oggi applicato a livello nazionale nella raccolta dei dati che riguardano l’universo delle Rems. La sezione affronta inoltre alcuni dei principali nodi problematici che accompagnano la concreta applicazione della riforma, dalla definizione di infermità mentale alla delimitazione della categoria della pericolosità sociale. Le questioni sono affrontate in prospettiva multidisciplinare con il contributo di esperti di diritto penale, procedura penale, sociologia del diritto, psichiatrica forense e psicologia giuridica. Nella seconda sezione (i luoghi) è affrontata la materiale organizzazione delle Rems in rapporto agli obiettivi di cura che tale istituzione si prefigge. L’impatto della Rems sui percorsi di cura dei soggetti che vi transitano è quindi affrontato non solo dal punto di vista normativo, ma ancor più dalle prospettive da quello psicoterapeutica, architettonica e di organizzazione istituzionale degli spazi. Nella terza parte (i percorsi), l’analisi si sposta sul terreno dei tragitti - formalmente previsti e concretamente attuati - nell’ambito del sistema delle misure di sicurezza. L’analisi tocca il tema dell’applicazione provvisoria delle misure detentive, formalmente previste come extrema ratio, e il rapporto con il c. d. sistema delle c. d. “liste d’attesa” di ingresso nelle Rems, effetto indirettamente prodotto dalla combinazione della riforma del 2014 con la rigidità nel rispetto del numero massimo di capienza di degenti per struttura al fine di evitare che nelle nuove Residenze si riproponessero i problemi di sovraffollamento che caratterizzano il sistema dell’esecuzione della pena detentiva. Come si apprende sempre nella premessa del volume, questa parte della collettanea propone un’analisi delle “alternative” alle Rems, un variegato insieme di misure limitative della libertà personale che, ad oggi, costituiscono, sia in termini normativi che strettamente numerici, un significativo terreno di applicazione di pratiche di limitazione della libertà personale. La quarta e ultima sezione (i contesti) muove lo sguardo oltreconfine adottando una dimensione comparatista. In questo caso, la riflessione si spinge a riflettere sul quadro sovranazionale del rapporto tra esigenze di difesa sociale e tutela dei diritti fondamentali dei soggetti psichiatrici autori di reato per approfondire l’indagine sul terreno delle norme e pratiche europee in materia di sorveglianza e cura del “folle reo”. Il volume si apre con una presentazione da parte di Mauro Palma, il garante nazionale delle persone private della libertà. Ci mette in guardia dal rischio concreto che le Rems diventino, di fatto, dei mini Opg. Non tanto “mini” se pensiamo - come ricorda Palma - alla Rems lombarda di Castiglione delle Stiviere che “continua a costituire un’enclave manicomiale, al di là dell’impegno professionale degli operatori, per il fatto in sé di ospitare in un solo complesso ben 150 pazienti, seppure suddivisi in moduli. Il nome stesso di Sistema plurimodulare di Rems provvisorie è nella sua involuzione linguistica indicativo di un aggregato di situazioni soggettive e patologiche diverse, confluite in un unico grande complesso di separazione del disagio psichico dalla normalità quotidiana”. Il Garante pone il riflettore sul fatto che non sembra destare scandalo e forse neppure attenzione il lungo permanere in talune Rems di persone formalmente dimesse e ancora di fatto private della loro libertà poiché la dimissione non ha trovato un ordine di esecuzione. Nel contempo, sottolinea Palma, invece trovano molta attenzione i casi di coloro che destinatari di una misura di sicurezza, spesso provvisoria, non sono ancora assegnati a una specifica struttura. “il nodo è quello di sentire la pressione di rispondere rapidamente alla parte inibente di un percorso di presa in carico di una persona con disagio psichico e non sentirne altrettanta per la parte di ripresa di un cammino guidato, ma esterno”, scrive sempre il Garante Nazionale nell’introduzione del volume dell’università di Torino. Domani mattina Bruno Mellano, il garante delle persone private della libertà della Regione Lombardia, ha organizzato un seminario dal titolo “Dieci anni di Rems” presso il palazzo Lascaris - Sala Viglione di Torino. Parteciperanno gli autori della ricerca interdisciplinare dell’Università di Torino, compreso il garante nazionale Palma. “Mille agenti penitenziari in più in quattro anni” di Ermes Antonucci Il Foglio, 13 dicembre 2022 Tagli all’amministrazione penitenziaria? “Già presentato un emendamento di maggioranza per mille nuove assunzioni”, spiega il sottosegretario alla Giustizia Delmastro Delle Vedove, in quota FdI. “Purtroppo la manovra economica, scritta in trenta giorni sull’onda dell’emergenza energetica, ha comportato tagli anche per il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. È pur vero però che abbiamo già dato un primo segnale con la presentazione di un emendamento di maggioranza, a cui ho avuto l’onore di dare il parere favorevole del governo, che prevede l’assunzione di mille agenti di Polizia penitenziaria nei prossimi quattro anni. Questo a far comprendere che l’attenzione alla Polizia penitenziaria da parte del governo è alta”. Ad annunciarlo al Foglio è Andrea Delmastro Delle Vedove, sottosegretario alla Giustizia e deputato di Fratelli d’Italia. L’annuncio del sottosegretario giunge dopo le polemiche per la notizia del taglio di oltre 35 milioni di euro, spalmati per i prossimi tre anni, previsto nella legge di Bilancio per l’amministrazione delle carceri italiane. Una riduzione delle risorse, per di più in un anno segnato da una situazione di emergenza (80 i suicidi tra i detenuti da inizio 2022), che ha mandato su tutte le furie i sindacati della polizia penitenziaria. “Sicuramente - afferma Delmastro Delle Vedove - ben prima della prossima manovra finanziaria adotteremo provvedimenti che rafforzeranno la Polizia penitenziaria. Il mondo del carcere ha bisogno di più risorse umane, più strumenti e maggiori certezze”. “Ad esempio, occorre un protocollo operativo che stabilisca il confine tra lecito e illecito durante gli interventi degli agenti nel corso delle sommosse. Anche l’intervento sulla videosorveglianza, perché possa garantire agli agenti le prove del loro corretto operato, è un altro segnale di grande attenzione”. “Sono tutte cose che faremo ben prima della prossima finanziaria”, conclude Delmastro Delle Vedove. La strategia bifronte di Nordio: bellicoso nei toni, prudente nella pratica di Giulia Merlo Il Domani, 13 dicembre 2022 Nelle interviste porta avanti la sua linea di sempre, contro le intercettazioni e con riforme di sistema soprattutto nel penale e sui pm, per cui vuole la separazione delle carriere e la discrezionalità dell’azione penale. Gli uffici ministeriali, invece, hanno avuto l’input di dare priorità all’applicazione alla riforma Cartabia e a temi “con ricaduta economica”, per rispettare gli impegni del Pnrr. Unico spazio concesso sul fronte delle riforme penali ex novo: Nordio intenderebbe rispettare l’impegno preso con i sindaci dell’Anci e riformare in modo rapido il reato di abuso d’ufficio, su cui non ci sarebbero particolari criticità in maggioranza. Il guardasigilli, Carlo Nordio, è tra i ministri più attivi dell’esecutivo Meloni. Le linee guida del suo dicastero, presentate alle commissioni Giustizia di Camera e Senato, hanno scatenato reazioni di protesta da parte della magistratura e il ministro ha risposto a mezzo stampa con interviste sul Messaggero e Corriere della Sera, rincarando la dose. Stando alle sue parole, il decalogo delle riforme da attuare - “anche costituzionali” - è lungo e complesso e riguarda in particolare il diritto penale, minacciando di essere divisivo per la maggioranza di governo. In concreto, invece, le indicazioni agli uffici ministeriali sono di lavorare sulle emergenze con la chiusura delle riforme necessarie per il Pnrr, sulla scia della ex ministra Marta Cartabia. L’elenco delle riforme - Nelle interviste, Nordio ha messo sul tavolo un elenco di riforme che potrebbero cambiare la faccia dell’attuale sistema penale. La più controversa è quella sul sistema delle intercettazioni, che secondo il ministro hanno “costi alti ma portano pochi risultati”. Di conseguenza andranno mantenute “per i reati di mafia e terrorismo”, ma devono tornare a essere “uno strumento d’indagine e non una prova”. Attualmente le intercettazioni verrebbero disposte per una sorta di automatismo, “che alla fine qualcosa ti fa trovare”. Il ministro ha annunciato una stretta sulla loro pubblicazione illegittima, anticipando che manderà gli ispettori ministeriali ovunque ci sarà una fuga di notizie. Sta poi ragionando su un “nuovo modello di avviso di garanzia” e di “registro degli indagati”, perché da strumenti di tutela per gli indagati si sono trasformati in “condanna mediatica anticipata”. Sul penale, poi, obiettivo è quello di riscrivere o eliminare i reati di abuso d’ufficio e di traffico di influenze illecite, di fatto ridisegnando i reati spia della corruzione. In questa direzione va anche l’altra riforma annunciata: la revisione della legge Severino, eliminando l’incandidabilità per gli amministratori locali condannati in primo grado per reati contro la pubblica amministrazione, perché così “la norma confligge con la presunzione di innocenza”. Sul fronte dell’ordinamento giudiziario, invece, le riforme maggiori riguardano la figura del pubblico ministero. Nordio non arretra sulle sue battaglie storiche come la separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti e introducendo la discrezionalità dell’azione penale. Soprattutto quest’ultimo passaggio ha messo in allarme i magistrati, che hanno reagito per bocca del presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia. Quanto al carcere, Nordio ha parlato di una sua iniziativa per “ottenere parte del tesoretto per devolverlo a polizia penitenziaria e usarlo per i detenuti” per un intervento sia sulle risorse umane che sulle strutture, anche ristrutturando caserme dismesse per separare dai condannati definitivi per reati gravi i detenuti in attesa di giudizio o condannati per reati minori. Infine, il ministro ha annunciato l’intenzione di metter mano all’organizzazione, in particolare del settore civile, spingendo per magistrati-manager alla guida dei tribunali e imponendo un “monitoraggio costante della produttività”, con dati aggregati ogni 15 giorni e dispiegamento di ispettori ministeriali per mettere a fuoco le criticità. Vaste programme, direbbe uno dei modelli di Nordio come Charles De Gaulle. Su cosa lavora - In realtà, il clamore mediatico intorno alle parole del ministro e l’enunciazione di battaglie di sistema che hanno messo in allarme la magistratura, per ora rimarranno solo obiettivi di lungo periodo. Utili sì a disegnare il profilo di un ministro che tiene fede ai suoi orientamenti storici, anche quelli non unanimemente condivisi in maggioranza, ma non da inserire nell’agenda immediata dell’esecutivo Meloni. Al netto delle interviste, infatti, le indicazioni arrivate ai tecnici di via Arenula fissano una road map molto meno pirotecnica e legata alle emergenze del momento: le priorità, infatti, sono l’attuazione delle riforme del civile e del penale legate al Pnrr, che vanno assolutamente messe a terra e rese operative per incontrare le scadenze fissate a livello europeo e l’efficientamento del servizio giustizia con sblocco di risorse economiche per informatizzarlo e telematizzarlo. La riforma penale è stata sospesa nella sua entrata in vigore fino al 31 dicembre ma sarà l’unico stop concesso: dopo quella data, la riforma Cartabia verrà applicata. Unico spazio concesso sul fronte delle riforme penali ex novo: Nordio intenderebbe rispettare l’impegno preso con i sindaci dell’Anci e riformare in modo rapido il reato di abuso d’ufficio, su cui non ci sarebbero particolari criticità in maggioranza, il terzo polo si è già detto favorevole e anche il Partito democratico ha dimostrato prudenti aperture. “Priorità ai temi con ricaduta economica”, è l’indicazione interna. Tradotto: il ministero della Giustizia è bellicoso nei toni ma prudente nella pratica e molto in linea con la precedente guida. Lo stesso Nordio, infatti, in un passaggio dell’intervista al Messaggero ha confermato che “la riforma Cartabia andava nella giusta direzione, noi spingeremo l’acceleratore”. Nordio: “La legge Severino va cambiata”. di Valentina Stella Il Dubbio, 13 dicembre 2022 Il guardasigilli rilancia la riforma: sì di Lega e Forza Italia, tacciono M5S e Anm. I dem parlano di proposta confusa. Ieri, in un’intervista al Corriere della Sera, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha dichiarato tre cose importanti riguardanti il decreto Severino. La prima: “Occorre far sì che la norma sull’incandidabilità non venga applicata ai condannati in primo grado”. La seconda: per non confliggere con la presunzione di innocenza “l’incandidabilità dovrebbe scattare dalla sentenza di appello in poi”. Terza: sui reati più gravi “si può discutere. Certamente la norma non può essere applicata retroattivamente”. Quali sono state le reazioni? Per il Partito democratico il Guardasigilli ha commesso un errore da matita rossa, come hanno spiegato in una nota i senatori dem, Anna Rossomando e Dario Parrini: “Il presupposto per fare delle buone riforme è partire dalle leggi già in vigore e non ignorarle, cosa che non appare dalle parole del ministro Nordio. Oggi (ieri, ndr) infatti, in una intervista, il Guardasigilli parla di una modifica della Severino nella parte che riguarda l’incandidabilità. Peccato che la legge preveda l’incandidabilità solo per sentenze definitive e non, come afferma il ministro, dopo sentenza di condanna di primo grado. Evidentemente confonde l’incandidabilità con la sospensione per diciotto mesi dalla carica per gli amministratori regionali e comunali. Sospensione che oggi scatta anche in presenza di condanne di primo grado: un punto su cui tra l’altro il Pd ha presentato una puntuale proposta di modifica”. Però appoggio alla proposta del Guardasigilli arriva dall’opposizione di Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione: “Siamo d’accordo con quanto detto dal ministro; è evidente, come anche lui ha sottolineato, che bisogna distinguere tra i reati gravi, come mafia e terrorismo, e quelli come l’abuso d’ufficio”. Sull’abuso di ufficio il parlamentare ha presentato una proposta di legge: “Ho chiesto che venga escluso da quei reati per i quali scatta la sospensione dopo una condanna nel primo grado di giudizio”. Ma il punto per Costa è un altro: “Occorre una disciplina omogenea per l’incandidabilità alle elezioni parlamentari e quella per gli enti locali, che attualmente sono diverse”. E replica alla dichiarazione del Pd: “Nordio ha parlato di incandidabilità, i dem replicano che si tratta di sospensione. Tuttavia, è evidente che si tratti di una incandidabilità di fatto perché si sarebbe immediatamente sospesi all’atto dell’insediamento”. Pieno appoggio a Nordio senza se e senza ma da Lega e Forza Italia, considerato, tra l’altro, che entrambe le forze politiche sostennero il referendum del Partito Radicale per l’abrogazione totale della legge Severino. Come ci dice il deputato del Carroccio Jacopo Morrone, “siamo in linea con le sue dichiarazioni. L’esperienza ci dice che ci sono numerosi amministratori che sono stati allontanati dal loro incarico per accuse poi rivelatesi infondate, in contrasto con il principio della presunzione di innocenza. Questo ha rovinato non solo la carriera politica, ma anche la vita privata di tanti bravi amministratori”. Aggiunge il senatore di Forza Italia, Pierantonio Zanettin: “Sono d’accordo con quanto detto dal ministro. Ci sono esempi molto chiari di amministratori condannati in primo grado, decaduti dalla carica e poi assolti in appello, in violazione anche del principio di democrazia, in quanto l’elettorato è stato privato della sua rappresentanza per un errore delle procure”. Per Fratelli di Italia, che quel quesito non l’appoggiò insieme a quello contro l’abuso della custodia cautelare, abbiamo raccolto il commento del senatore Sergio Rastrelli, segretario della Commissione Giustizia di Palazzo Madama: “Guardiamo con interesse alla prospettiva di aprire con coraggio un confronto politico in Parlamento per perfezionare la legge Severino, anche attraverso un suo maggiore “orientamento costituzionale”, magari modellandone le articolazioni applicative, mantenendone però integro il principio di fermezza. In via generale, Fratelli d’Italia condivide le linee guida del ministro Nordio di un progetto di riforma strutturale ed ambizioso, assolutamente in linea con gli impegni assunti in campagna elettorale, ed in grado finalmente di avvicinare la giustizia a cittadini ed imprese”. Anche per il capogruppo di FdI al Senato, Lucio Malan, quelle di Nordio sono “dichiarazioni in linea con il nostro programma. La norma non può andare contro il principio costituzionale della presunzione di innocenza. E la definizione del reato deve essere chiara, altrimenti cessa la certezza del diritto così come la certezza della pena”. Si è rifatto vivo su Facebook anche l’ex senatore Nicola Morra: “Se non c’è più la valutazione morale di opportunità, allora questo paese può sdoganare tutto”. Al momento nessuna dichiarazione da parte del Movimento 5e Stelle. Tace pure per ora l’Anm. Mentre, per l’avvocato Paola Rubini, vice presidente dell’Unione Camere penali, “il ministro Nordio lancia il tema della modifica della Legge Severino basando la sua riflessione su argomenti condivisibili: la norma sulla incandidabilità non può essere applicata ai condannati in primo grado perché ciò confliggerebbe con la presunzione di non colpevolezza tutelata dall’art. 27, secondo comma della Costituzione o, detto in altri termini, con la presunzione di innocenza secondo i dettami della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’Ucpi e numerosi autorevoli giuristi avevano espresso, già al tempo della sua approvazione (a larga maggioranza per il vero), perplessità tecniche e operative proprio con riguardo alla sua compatibilità costituzionale. L’applicazione concreta della legge ha dimostrato nel tempo che queste perplessità erano fondate. Certo, come sottolinea il ministro della Giustizia, si possono operare dei distinguo afferenti alla gravità dei reati o alla sua efficacia magari dal secondo grado di giudizio ma resta il fatto che una siffatta norma che allarga la sua sfera di azione a tutti coloro che vengano condannati in primo grado e solo per questo, pur rivestendo una carica pubblica, decadono da essa manifesta tutta la sua inconciliabilità con i principi dello Stato di diritto, compresa la insostenibilità giuridica della retroattività di una norma che definire capestro è eufemistico. Ora è il tempo della riflessione e del dibattito. Ben venga quello sollecitato dalla autorevolezza del ministro Nordio”. Meno intercettazioni, anzi no. I rave mandano il governo in confusione di Paolo Delgado Il Dubbio, 13 dicembre 2022 Il ministro della Giustizia ha promesso di limitare gli abusi degli ascolti selavaggi, ma oggi il Senato converte un dl che consente l’utilizzo di altre “cimici”. Oggi il Senato convertirà in legge un dl Rave che somiglia appena a quello varato in origine e che nella sua formulazione, nella sua parabola e nel suo approdo finale rivela una confusione e un pressapochismo che sono per il governo una minaccia molto più temibile degli attacchi di un’opposizione per il momento inconsistente. Nella sua formulazione iniziale il decreto era uno svarione costituzionale macroscopico e il solo fatto che il consiglio dei ministri non se ne sia resto conto è elemento che desta a ragion veduta preoccupazione. Sulla base di quel testo le norme punitive si sarebbero potute estendere smisuratamente, dalle occupazioni alle manifestazioni: la Corte costituzionale non avrebbe potuto graziarla. Il governo ha dovuto ingranare una vertiginosa retromarcia e chiarire che la stretta si limita agli “eventi musicali”, risolvendo così un problema ma creandone un altro: perché tanto rigore proprio contro i raduni musicali di questo tipo, che oltretutto si contano su una mano sola, essendosi quest’anno svolti in Italia appena tre Rave illegali? La norma inoltre puniva i partecipanti agli eventi musicali e non solo gli organizzatori e lo faceva comminando multe del tutto sproporzionate, sino a 25mila euro. Indietro tutta anche qui: i partecipanti ai rave non sono più punibili e per gli organizzatori la multa si ferma a 10mila euro. Eppure, anche in questa forma senza dubbio alleggerita, il decreto Rave resta un’aberrazione giuridica che difficilmente passerà il vaglio della Consulta, ancora più difficilmente sarà applicata e comunque rappresenterà per il governo Meloni una falsa partenza da manuale. Oltre al sequestro delle apparecchiature tecniche restano infatti le pene esorbitanti: sino a sei anni di carcere. Il governo ha già fatto filtrare la convinzione che una pena così esagerata, che non trova pari in nessun altro Paese, non sarà mai applicata ma serve a permettere le intercettazioni, che sarebbero proibite con una pena massima più lieve. La spiegazione suona però come la classica toppa peggiore del buco. Prima di tutto perché non dovrebbe essere neppure immaginabile che un governo stabilisca una pena massima contando sul fatto che “tanto poi i magistrati non la commineranno”. Non si vede infatti su quale base il potere esecutivo possa decidere o anche solo prevedere cosa farà, nella sua piena autonomia, quello giudiziario e comunque l’idea di fissare una pensa pensando che non verrà mai applicata rasenta il surreale. Ma anche il sotterfugio, fissare il tetto di pena per poter intercettare, denota massima confusione. Il ministro della Giustizia ha appena promesso di limitare abusi e invadenza delle intercettazioni come strumento. Sembra di capire che nella logica del guardasigilli non si tratta, ovviamente, di sottrarre alle indagini uno strumento in molti casi effettivamente necessario e insostituibile ma di riconoscere che si tratta di uno strumento delicato, che va sì usato ma con oculatezza e non in base a fantasie pericolose di controllo totale. Solo che la decisione di rendere un reato punibile in modo abnorme proprio per poter sfruttare cimici e microfoni va in direzione opposta. In ogni caso si tratta infatti di un crimine minore, di pericolosità contenuta e diffusione limitata. Considerare necessarie le intercettazioni per l’organizzazione di pochi rave illegali ogni anno significa supporle necessarie sempre o quasi. Non è affatto certo, infine, che la legge esca indenne dal vaglio della Consulta. La Costituzione è infatti molto esplicita, all’art. 17, sulla libertà di riunione senza bisogno di preavviso salvo che nei luoghi pubblici, ma anche in questo caso il divieto può scattare solo in caso di “comprovati motivi di sicurezza” . Nei rave si tratta invece di pericolo presunto e in questi casi la Corte è stata di solito rigida, ammettendo il pericolo presunto solo in presenza di rischi massimi. Il dl Rave è stato per il governo una partenza decisamente sbagliata, come è comprovato dalle stesse profonde modifiche che il governo ha dovuto apportare dopo la raffica di critiche. Se il decreto, pur modificato, dovesse essere abbattuto dalla Corte il capolavoro sarebbe completo. Niente paura, la commissione Anitmafia si insedierà. E continuerà a credere ai pentiti pataccari di Riccardo Lo Verso Il Foglio, 13 dicembre 2022 L’Antimafia si interessa nelle sue relazioni al sistema di protezione dei collaboratori e dei testimoni di giustizia. Mai che venga posta la questione se questa protezione la meritino davvero e davvero tutti i pentiti. Così si emettono sentenze, si ritirano patenti di moralità senza accorgersi che nel frattempo la lotta alla criminalità è crollata sotto il peso degli scandali e delle storture. L’Antimafia si era riunita in seduta straordinaria alla prefettura di via Maqueda a Palermo. Analizzando le delibere dell’assessorato all’Edilizia aveva scoperto che oltre un migliaio di licenze erano intestate a una sola persona: Calogero Mancuso. I commissari ordinarono che fosse prelevato dai carabinieri in casa sua e lo ricevettero nel salone degli specchi in un’atmosfera tesa, da grande momento. Cognome, nome, mestiere, gli chiese il presidente. Per il nome e cognome non ci furono problemi, ma alla voce mestiere le cose si complicarono. M’industrio, eccellenza. Ah, allora lei è un industriale? - osservò compiaciuto il presidente della commissione, sicuro di stringere finalmente nel suo pugno la testa del serpente. No eccellenza, m’industrio nel senso che mi di do da fare, faccio cavigghiedde, lavoretti. Mi guadagno il pane facendo lo spicciafaccende davanti all’assessorato dell’Edilizia, quello delle licenze… Eccellenza, in questo mondo c’è chi fa buchi e chi ci mette una pezza sopra. Lui rattoppava. E l’Antimafia finì lì”. I commissari non fecero altre domande, Lilluzzo Mancuso aveva approfittato dell’incapacità di leggere, prima ancora che comprendere, una realtà da cui erano anni luce lontani. Se la commissione parlamentare Antimafia avesse fatto tesoro di quell’episodio avvenuto nella Palermo degli anni Sessanta, e annotato dal cronista in “Nostra signora della necessità”, le cose probabilmente sarebbero andate in maniera diversa, ma con i se e con i ma la storia non si fa.  Sei decenni dopo nella “cattedrale” di palazzo San Macuto, nel cuore di Roma, stanno nuovamente tirando a lucido i marmi in attesa dei nuovi porporati dell’Antimafia, rassicurati dalla certezza che il Parlamento non interromperà la consuetudine. La commissione parlamentare Antimafia si insedierà con tutto il suo carico di eterna emergenza e di retorica stantia di chi per esistere ha bisogno di fingersi necessario. E per riuscire nell’intento si aggrappa al passato, tenendo in vita i fantasmi di una mafia che lo stato ha sconfitto. Sarebbe il caso di concentrarsi su una più produttiva analisi del fenomeno mafioso che si evolve, a dispetto della elefantiaca prassi da carta bollata con cui la commissione vidima le relazioni di fine mandato che, senza offesa, andranno a prendere polvere sugli scaffali. Dai vecchi inquilini di San Macuto, che ospitava nel Seicento l’Inquisizione, i commissari hanno ereditato la vena giustizialista che ha reso la commissione uno dei tanti, troppi tribunali paralleli dell’Italia. Si emettono sentenze, si ritirano patenti di moralità senza accorgersi che nel frattempo l’antimafia è crollata sotto il peso degli scandali e delle storture. I commissari s’industriano, se ne vanno in giro per l’Italia convocando in audizione uomini e donne. A ogni ricorrenza di morte e dolore divulgano (pardon, desecretano, che fa più mistero) le audizioni dei martiri di mafia come se, oltre all’incommensurabile valore storico ed etico, svelassero chissà quali verità giudiziarie nascoste. E mentre si affaticano i commissari hanno smarrito il loro compito istruttorio.  Mille riunioni, mille verbali, mille documenti affidati alla storia come contributo alla costruzione di una società migliore. Tutta fuffa, o quasi. L’ardore delle prime e lungimiranti commissioni, come quella guidata da Gerardo Chiaromonte, è diventato furore. Oggi la commissione si presenta come un’enclave di potere e privilegi, strumento per togliersi persino qualche sassolino dalle scarpe. Si è persa l’occasione di comprendere le evoluzioni delle cosche, dalla Cosa nostra siciliana alla ‘Ndrangheta calabrese, alla Camorra campana. Di studiare quali leggi abbiano funzionato e quali no. Nessuno ha intravisto la necessità che il codice Antimafia e le misure di prevenzione venissero riviste perché, superata la logica emergenziale, stavano per distruggere tutto ciò che toccavano. Si poteva intuire in tempo che per alcuni l’antimafia stava diventando uno spot per mascherare logiche affaristiche e conservare rendite di potere. Si doveva chiedere alla magistratura di riflettere sul modo di condurre le indagini invece di assistere allo spettacolo indecoroso di processi finiti al macero, come quelli sulla strage Borsellino. Oggi la commissione è il luogo dei rimpianti, delle occasioni mancate, della volontà di non farsi nemici, specie se indossano una toga, di non sporcarsi le mani mettendole dove davvero andrebbero messe. Meglio mantenere il candore della parola antimafia. Ha una buona fetta di ragione il giornalista Alessandro Barbano, che ha intitolato il suo ultimo saggio “L’Inganno - Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene”. Ci si misura con un “universo che fa della deroga la regola, e dell’emergenza permanente l’altare su cui sacrificare la libertà in nome della lotta al crimine”.  Prendete le misure di prevenzione dove si è concretizzato, dice Barbano, “un disegno di potere visibile, che si traduce nell’idea di mettere la società sotto tutela”. Il corso della storia poteva cambiare. Davanti alla commissione Antimafia, allora presieduta da Rosy Bindi, il prefetto Giuseppe Caruso denunciò ruberie e malversazioni attorno alle aziende e ai patrimoni sequestrati ai boss e agli imprenditori in odore di mafia. Era il 2014 e il prefetto, che allora guidava l’Agenzia dei beni confiscati, finì sulla graticola, accusato di “delegittimare” il lavoro dei magistrati che rischiano la vita, con “un’accusa generalizzata al sistema”. Un anno e mezzo dopo sarebbe esploso lo scandalo giudiziario che ha portato alla condanna e alla radiazione dell’ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto. L’inchiesta e il processo hanno svelato l’esistenza di un comitato di affari. E’ il meccanismo che non ha funzionato perché, scrive Barbano, c’è stata una “torsione illiberale dell’azione penale, per cui nel suo radar il reo sostituisce il reato, il sospetto la prova, il risultato le garanzie, la morale il diritto”.  Sono passati 40 anni dall’entrata in vigore della legge Rognoni-La Torre che introdusse le misure patrimoniali. L’obiettivo era togliere la forza economica ai clan mafiosi. Azione legittima e sacrosanta, ma quella legge era figlia dell’emergenza. Di recente si è assistito a un’inversione di tendenza sul tema dell’attualità della pericolosità sociale su cui si fonda la misura di prevenzione e sulla cosiddetta “perimetrazione della prova”. L’accusa deve dimostrare se la pericolosità caratterizza “l’intero percorso esistenziale” del proposto per una misura di prevenzione o solo una parte della sua vita. Il problema è che la lotta alla mafia ha azzerato in molti casi lo stato di diritto. Non vale più il principio di non colpevolezza, ma si parte dalla presunzione di colpevolezza. Si inverte l’onere della prova. E’ il cittadino a dovere dimostrare che il suo patrimonio è lecito. Le immagini dei beni che vanno in rovina sembrano rafforzare l’idea di uno stato che bada solo a punire e distruggere in nome di quello che Barbano definisce un “progetto ideologico di matrice rivoluzionaria che si assegna il compito di redistribuire la ricchezza perseguendo quella che si ritiene prodotta ingiustamente”. Il furore giustizialista travolge “non solo gli autori dei reati ma i terzi coinvolti nella proiezione della pericolosità dei beni, e perfino le vittime della mafia come gli imprenditori che pagano il pizzo”. Le parole del prefetto Caruso suonarono come un’eresia per i reduci dell’antimafia. Lo stesso effetto provocarono quelle pronunciate da Salvatore Lupo, professore di Storia contemporanea all’Università di Palermo e studioso, tra i più autorevoli, del fenomeno mafioso. Ebbe l’ardire di criticare, assieme al collega di Diritto penale Giovanni Fiandaca, la fantomatica Trattativa stato-mafia, sulla quale i pubblici ministeri palermitani hanno imbastito un processo che si presenta picconato alla valutazione finale della Corte di cassazione. La commissione invitò Lupo, ma alla fine gli riservò un trattamento inospitale. “Nel suo libro ‘La mafia non ha vinto’ c’è un attacco frontale - non direi qualche sciocchezza - all’impostazione accusatoria della Dda di Palermo rispetto al processo Trattativa”, disse il deputato del Pd Davide Mattiello, cresciuto nel cuore di Libera, l’associazione antimafia fondata da don Luigi Ciotti divenuta una holding per gestire i beni confiscati. Mattiello fece da scudo quando Catello Maresca, procuratore della direzione distrettuale di Napoli, sollevò dubbi su certi metodi adottati da Libera.  Quanta spudoratezza aveva mostrato il professore Lupo nel sostenere tesi scismatiche rispetto al caposaldo che la commissione sia l’alter ego politico delle procure. Il modus operandi lo tracciò nel 1992 il presidente Luciano Violante che raccolse per primo le rivelazioni di Tommaso Buscetta sul terzo livello della mafia. Divennero l’ossatura del processo a Giulio Andreotti avviato dalla Procura di Palermo guidata da Giancarlo Caselli. Commissione e magistratura iniziarono ad andare a braccetto. Perché la magistratura non si discute. Semmai si emula. Fosse stato per Nicola Morra, presidente grillino dell’ultima commissione Antimafia, avrebbe fatto il politico e il magistrato in contemporanea. Una volta ammise che i pubblici ministeri Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita erano “il punto di riferimento per quanto riguarda la mia azione in termini di politica giudiziaria”. Gli stessi princìpi di politica giudiziaria che lo indussero a innalzare l’asticella del giustizialismo. Tra le prerogative di cui va fiera la commissione Antimafia c’è la cosiddetta lista degli “impresentabili”, ovvero dei candidati che pur essendo in possesso di tutti i diritti politici la commissione consigliava di non votare in quanto indagati per qualche ipotesi di reato. Morra si spinse oltre. Bastava il sospetto per marchiare qualcuno. Lo fece con Sandra Lonardo, la moglie di Clemente Mastella, che da senatrice di Forza Italia era divenuta componente dell’Antimafia. Nonostante fosse stata assolta dopo nove anni di processo Morra le affibbiò l’etichetta di “sospettata”. Una persona di cui diffidare, insomma.  E mentre i commissari diffidano e sospettano, l’antimafia militante è andata a sbattere. La cosa grave è che indossava la toga e se ne andava in giro super scortata con le macchine tirate a lucido nelle parate delle commemorazioni. Una certa parte della magistratura si è chiusa a riccio, illudendosi che la toga facesse da paravento, che nascondesse le storture di un metodo investigativo che parte da un postulato e vi ricama attorno le presunte prove che spesso, e non volentieri, altro non sono che i racconti dei pentiti. Quei pentiti che si guadagnano la pagnotta, raccontando storie impossibili da verificare ma che tanto somigliano ai desiderata degli inquisitori. Sono gli attori perfetti per imbastire processi a ogni costo. Che importa se alla fine i processi, per altro costosissimi per l’enorme spiegamento di forze, non solo si perdano, ma allontanino dalla verità come è avvenuto per la strage di via D’Amelio. I magistrati avevano preso il più clamoroso degli abbagli credendo che un malacarne di borgata, Scarantino, avesse partecipato alla deliberazione dell’eccidio. Le commissioni parlamentari, perché esiste anche quella siciliana, sono state il luogo della strenua difesa della magistratura. Non è un caso che Roberto Scarpinato, ex procuratore aggiunto di Palermo e ora parlamentare del Movimento 5 stelle, pochi giorni fa sia stato il primo a depositare il progetto di legge per la costituzione della nuova commissione Antimafia perché “siamo di fronte ai sistemi criminali o addirittura ‘comitati crimino-affaristici’ P3 o P4”.  Le sue linee programmatiche Scarpinato le aveva tracciate quando decise di riversare in commissione la sua “rilettura organica, alla luce delle più recenti conoscenze, di una serie di risultanze processuali acquisite nel corso degli anni in vari processi di cui sono a conoscenza essendomi occupato da tempo di questi temi per i delitti politici mafiosi e per la revisione del processo della strage di via d’Amelio”. Ed ecco il refrain dei magistrati “bersaglio di entità superiori”, delle “entità esterne a Cosa nostra”, delle “menti raffinatissime”.  Era già successo con Gianfranco Donadio, un tempo alla Procura nazionale antimafia che in audizione raccontò alla commissione della sua indagine “parallela” stoppata e denunciata dai procuratori di Caltanissetta e Catania. Aveva sentito 56 collaboratori di giustizia, tra cui Nino Lo Giudice, un tempo a capo di uno dei più potenti clan di Reggio Calabria. Personaggio ambiguo Lo Giudice. Pentito, in fuga dalla località segreta dove viveva sotto protezione, autore di memoriali contro i magistrati Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino e contro Renato Cortese, il poliziotto che arrestò Bernardo Provenzano. Quando lo riacciuffarono disse che era stato minacciato dai servizi segreti. Si fece di nuovo pentito e aggiunse, grazie alla memoria ritrovata, che a fare saltare in aria il giudice Paolo Borsellino sarebbe stato Giovanni Aiello, alias “faccia da mostro”, poliziotto dei misteri, oggi deceduto. L’Antimafia si interessa nelle sue relazioni al sistema di protezione dei collaboratori e dei testimoni di giustizia. Mai che venga posta la questione se questa protezione la meritino davvero e davvero tutti i pentiti. E così i decenni sono trascorsi segnati dalle balle di Vincenzo Scarantino, dai ricordi a rate di Giovanni Brusca, dalle piroette di Massimo Ciancimino. D’altra parte, i commissari, Lilluzzo Mancuso lo aveva capito dall’alto della sua maliziosa ignoranza, spesso non fanno le domande giuste. Facili sì, ma non giuste. Per quelle ci si dovrebbe sporcare le mani, perdendo il candore dell’antimafia.  Perché l’abuso d’ufficio è un guaio di Ermes Antonucci Il Foglio, 13 dicembre 2022 È il reato più temuto da amministratori locali e dirigenti pubblici: l’abuso d’ufficio. Una fattispecie così aleatoria da spingere in molti casi a preferire la paralisi amministrativa. Gli ultimi dati rendono idea del disastro a cui si è di fronte: “Su 5.400 procedimenti nel 2021, nove si sono conclusi con condanne davanti al gip e diciotto in dibattimento”, ha riferito il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, la scorsa settimana al Senato, definendo queste statistiche “a dir poco allarmanti”. L’elenco dei politici e dei funzionari pubblici indagati per abuso d’ufficio e poi prosciolti o assolti è lunghissimo. Si va dai governatori della Campania e dell’Emilia-Romagna, Vincenzo De Luca e Stefano Bonaccini, all’ex presidente della regione Calabria Mario Oliverio, fino all’ex sindaco di Parma Federico Pizzarotti. Ma visto che parliamo di oltre cinquemila procedimenti penali all’anno, si capisce che la stragrande maggioranza dei casi nasca (e muoia) lontana dai riflettori dell’informazione nazionale. Ciò a conferma di quanto il reato di abuso d’ufficio produca danni soprattutto tra gli amministratori pubblici locali, quelli più esposti a questo genere di reato e alla cosiddetta “paura della firma”.  I casi sono tantissimi e non basterebbe un numero intero di questo giornale per riportarli. In questa pagina ci limiteremo a ricordare i più recenti e più singolari. Solitamente, le vicende riguardano le nomine di funzionari o presunte irregolarità nelle procedure di affidamento, ma non mancano storie paradossali, come quelle in cui l’abuso d’ufficio è stato contestato ad amministratori locali per aver corretto un errore urbanistico, o per aver autorizzato una manifestazione con la presenza di conigli senza l’ok dell’Asl, o per aver fatto rimuovere manifesti anti moschea, o per aver chiesto ai dipendenti della società incaricata della pulizia della città di rimuovere la carcassa di un topo da un’abitazione. L’ultima assoluzione per il reato di “abuso d’ufficio” è giunta la scorsa settimana. La Corte d’appello di Reggio Calabria ha assolto la consigliera comunale Angela Marcianò nel processo “Miramare”. Il processo era nato da un’inchiesta sulle irregolarità nelle procedure di affidamento a un’associazione di un hotel di Reggio Calabria.  Prima di lei è stato assolto a Palermo un ex dirigente dell’assessorato alla salute della regione Sicilia, Sergio Buffa, oggi in pensione. L’uomo era stato rinviato a giudizio nel 2020. Secondo l’accusa il dirigente nel 2015 avrebbe modificato il sistema dei rimborsi di alcune prestazioni specialistiche, per favorire alcune strutture convenzionate dove lavoravano alcuni familiari. Buffa inserì una clausola in un decreto assessoriale con la quale si vietava doppi e tripli rimborsi, riunificando in un’unica tariffa le prestazioni che prima venivano pagate separatamente ai cardiologi. In altre parole, Buffa è stato accusato pur avendo fatto risparmiare alla regione circa due milioni di euro all’anno.  Ben più rilevante l’assoluzione definitiva ottenuta a settembre dal governatore campano Vincenzo De Luca, dalle accuse di abuso d’ufficio, falso ideologico e altri reati urbanistici per la costruzione del complesso immobiliare del “Crescent” sul lungomare di Salerno, quando egli era sindaco della città. Una vicenda durata oltre dieci anni e che si è conclusa con l’assoluzione di altre 22 persone.  Il 14 luglio il tribunale di Sassari ha assolto l’ex sindaco di Sorso, Giuseppe Morghen, l’ex assessore alle politiche sociali, Angelo Agostino Spanu, l’ex dirigente comunale Pietro Nurra, e gli ex responsabili dei servizi sociali del comune di Sorso, Bonaria Mameli e Walter Enzo Marchetiello. I cinque erano accusati di abuso d’ufficio nella gestione delle graduatorie per i lavori di pubblica utilità riservati alle persone che si trovano in condizione di povertà estrema, reato che avrebbero compiuto dal 2013 al 2016. È dello scorso giugno l’assoluzione del sindaco di Biella, Claudio Corradino, accusato di aver favorito la nomina di un’amica, militante della Lega, nel consiglio d’amministrazione del Cordar, società municipalizzata che gestisce l’acqua pubblica nel Biellese. “La vicenda fu una botta psicologica”, ha dichiarato Corradino in un’intervista, aggiungendo di aver già speso oltre 36 mila euro in spese legali. “Io non demonizzo l’abuso d’ufficio, ma va cambiato”. Quasi in contemporanea veniva assolto anche Pierluigi Mottinelli, ex presidente della provincia di Brescia, in un’inchiesta per l’erogazione di 800 mila euro a fondo perduto da parte della provincia al comune di Concesio per sostenere i lavori volti alla realizzazione di una nuova canonica nel centro valtrumplino. Assolta, insieme a lui, anche Stefania Zambelli, che era il direttore finanziario dell’ente. A dir poco paradossale la vicenda giudiziaria che si è conclusa lo scorso primo giugno e che ha visto coinvolti per sette anni sindaco, vicesindaco e tecnico comunale di Celle Enomondo, paesino di cinquecento abitanti in provincia di Asti. La vicenda risale al 2015, quando su proposta del tecnico comunale (un geometra) si procedette a una modifica dello strumento urbanistico nella parte che riguardava dei fabbricati di pertinenza di sei cittadini. La procura di Asti contestò allora l’abuso d’ufficio sostenendo che, alla luce di quanto previsto da una legge regionale del 1977, la “correzione dell’errore” andava considerata come una vera e propria “variante”, che invece avrebbe imposto una procedura diversa. Nel 2019 il tribunale di Asti inflisse al sindaco Andrea Bovero otto mesi e quindici giorni di reclusione, alla vicesindaco Monica Omedé un anno e quindici giorni, al tecnico Paolo Gardino dieci mesi e quindici giorni. Il 23 aprile 2021 la Corte d’appello cancellò le condanne “perché il fatto non costituisce reato”. Il primo giugno la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso della procura generale.  A maggio è invece stata archiviata dopo sei anni l’inchiesta nei confronti degli ex sindaci di Lecce, Paolo Perrone e Adriana Poli Bortone, nonché di vari dirigenti comunali, dall’accusa di aver assegnato in cambio di voti alcuni alloggi popolari. Quanti? Due. Una delle case era pure stata confiscata alla mafia. Le assegnazioni, si sosteneva all’epoca, erano state effettuate senza rispettare le graduatorie, ma le tesi sono crollate nel corso delle lunghe indagini.  A marzo il tribunale di Pistoia ha messo fine a una vicenda durata cinque anni che vedeva coinvolti l’ex sindaco della città, Samuele Bertinelli, insieme all’ex assessore della sua giunta Tina Nuti e la ex dirigente comunale Maria Teresa Carosella. Due i filoni dell’inchiesta: uno relativo alla nomina di alcuni dirigenti comunali, un altro su presunte pressioni per la concessione di spazi o per l’erogazione di contributi ad associazioni da parte del comune in occasione di manifestazioni. In un caso, i pm erano arrivati a contestare al sindaco l’autorizzazione di una manifestazione che prevedeva l’uso di conigli, nonostante l’assenza dell’ok dell’azienda ospedaliera locale.  Si arriva a inizio anno, con l’ennesima assoluzione (la quarta) davanti alla Corte d’appello di Perugia dell’ex direttore regionale della sanità, Walter Orlandi, in relazione alla vicenda degli incarichi conferiti alla dottoressa Manuela Pioppo. Anche la Corte dei conti aveva escluso danni erariali e patrimoniali alla regione. Anzi, era emerso che la nomina aveva fatto risparmiare all’azienda ospedaliera di Perugia. Il gip del tribunale di Ferrara, intanto, archiviava a inizio anno la posizione del presidente della regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, che era indagato per abuso di ufficio e concussione, dopo l’esposto del sindaco di Jolanda di Savoia, Paolo Pezzolato. I fatti risalivano alla campagna elettorale per le regionali. Bonaccini era accusato di aver fatto pressioni affinché la vicesindaca del comune ferrarese Elisa Trombin revocasse la candidatura con la Lega e di aver “punito” il comune di Jolanda con la revoca di un comando di dipendenti. Di tutto ciò, secondo la procura, non era stata raggiunta la prova e per questo aveva chiesto l’archiviazione. Si prosegue in ordine sparso. Da ricordare il caso dell’ex sindaco di Cologne (in provincia di Brescia), Danilo Verzelletti, assolto dall’accusa di abuso d’ufficio per una vicenda che risaliva all’agosto del 2011, quando nel ruolo di primo cittadino aveva fatto rimuovere manifesti con il formato di annuncio funebre affissi da alcuni militanti della Lega Nord contro la costruzione di una nuova moschea. L’assoluzione, nel gennaio 2021, dell’ex presidente della regione Calabria, Mario Oliverio, dalle accuse di corruzione e abuso d’ufficio, nell’ambito della maxi inchiesta aperta dalla procura di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri denominata “Lande desolate”. La procura aveva chiesto una condanna a quattro anni e otto mesi di carcere. Oliverio era anche stato raggiunto, quando era ancora in carica, da una misura dell’obbligo di dimora. E come dimenticare la vicenda dell’ex assessore del comune di Brindisi, Pasquale Luperti, assolto dall’accusa di abuso per aver chiesto a dei dipendenti della società in house del comune incaricata della pulizia e della manutenzione della città di rimuovere la carcassa di un topo da un’abitazione. Ci sono poi l’ex sindaco di Gela, Domenico Messinese, l’ex assessore all’ambiente Simone Siciliano, e il dirigente comunale dello stesso settore, Patrizia Zanone, assolti per l’emergenza rifiuti esplosa nel 2015 dopo le elezioni comunali. La città fu invasa dalla spazzatura perché l’impresa che gestiva il servizio di nettezza urbana riteneva che lo smaltimento di cumuli di rifiuti indifferenziati fosse da considerare e da compensare come servizio aggiuntivo. Il sindaco invece era convinto che facesse parte del capitolato d’appalto. Il 24 ottobre 2020 il gup con il rito abbreviato ha assolto tutti gli imputati, mentre ha rinviato a giudizio il responsabile della ditta.  C’è da ricordare l’archiviazione dell’inchiesta sul governatore della Lombardia, Attilio Fontana, accusato di abuso d’ufficio in uno dei filoni nati dalla maxi operazione “Mensa dei poveri” sul sistema di tangenti, appalti e nomine pilotate che ha travolto la politica lombarda. Al centro dello stralcio, archiviato dal gip Raffaella Mascarino c’era la nomina di Luca Marsico, avvocato ed ex socio del suo studio, nel Nucleo di valutazione degli investimenti della Regione. L’assoluzione del sindaco di Orgosolo, Dionigi Deledda, insieme all’ex vicesindaco, Bora Podda, e al capo dell’ufficio tecnico del comune, Agostino Murgia, accusati di aver truccato la graduatoria per il servizio civile. Gli imputati erano accusati di aver gestito in modo poco trasparente le selezioni per due progetti di servizio civile favorendo alcuni candidati ed escludendone altri. Nel corso del processo di fronte al tribunale di Nuoro, invece, le procedure si sono invece rivelate legittime e gli imputati sono risultati estranei agli addebiti. Nel luglio 2020 anche il sindaco di Noto, Corrado Bonfanti, è stato assolto dall’accusa di abuso d’ufficio. Era finito a processo per aver autorizzato un’attività commerciale del centro storico a utilizzare circa sei metri quadrati di suolo pubblico.  Anche se il record per le accuse di abuso d’ufficio spetta probabilmente all’ex sindaco di Parma, Federico Pizzarotti. Da primo cittadino ha dichiarato di essere stato indagato in sette occasioni, venendo sempre prosciolto o assolto. Nel marzo 2019 Pizzarotti è stato prosciolto dall’accusa di abuso d’ufficio per le nomine del direttore generale Marco Giorgio, del suo portavoce Marcello Frigeri e del capo di gabinetto Francesco Cirillo. All’attenzione degli inquirenti era finita una email, precedente al bando per la nomina delle tre figure, dove il sindaco indicava la volontà di continuare a lavorare con i tre dirigenti, già peraltro in forza nell’organico comunale nella precedente legislatura. Gli incarichi sono di tipo fiduciario, legati al mandato del sindaco e quindi prevedono la sua ampia discrezionalità, ma secondo la procura si era andati oltre perché si era scelto senza valutare le posizioni degli altri candidati, che inviarono i curricula nei giorni seguenti. Tesi smentita dal giudice.  “Ha ragione l’Anci a dire che l’abuso di ufficio va modificato”, ha dichiarato poi Pizzarotti. “La colpa però non è dei magistrati, ma del legislatore che per paura delle reazioni dell’opinione pubblica non ha il coraggio di modificare una cosa che non funziona”. Venezia. Detenuto di 43 anni muore in cella: disposta l’autopsia sul corpo di Giacomo Costa Corriere Veneto, 13 dicembre 2022 L’uomo, trevigiano di Gaiarine, nel settembre del 2021 era stato arrestato assieme ad altri quattro con l’accusa di spaccio. La sveglia, la colazione, il rientro in cella, tutto nella norma, poi il malore improvviso, il mancamento da cui non si è più ripreso, nonostante l’immediato allarme dato dai compagni e gli sforzi dei sanitari del 118. Giovedì mattina, negli spazi del carcere di Santa Maria Maggiore, a Venezia, il detenuto 43enne Maurizio Moras è morto per quello che sembra essere un episodio imprevedibile, ma su cui ora la procura vuole provare a fare chiarezza. La pm di turno, Elisabetta Spigarelli, ha infatti disposto l’autopsia sul corpo di Moras: pur non sospettando il coinvolgimento di altri in quello che pare essere stato un collasso fatale, il medico legale potrà tentare di stabilire almeno come sia avvenuta la disgrazia. Moras non aveva dato segni di cattiva salute, giovedì mattina si è alzato regolarmente e ha potuto raggiungere gli spazi per la colazione senza problemi. Una volta rientrato in cella, però, è crollato: la chiamata ai soccorsi è partita immediatamente e si è cercato a lungo di rianimare il 43enne, purtroppo senza successo. L’uomo, trevigiano di Gaiarine, nel settembre del 2021 era stato arrestato assieme ad altri quattro con l’accusa di spaccio: il suo gruppo è stato accusato - e condannato tre mesi fa - di gestire una rete di distribuzione di eroina, cocaina e marijuana, attiva tra il Pordenonese e il Trevigiano, in particolare nel territorio di Sacile. Per il suo ruolo nella banda - nell’indagine era stato descritto come un luogotenente operativo - Moras si era visto assegnare quattro anni e otto mesi, dopo un primo periodo passato ai domiciliari in attesa del processo; i suoi avvocati, comunque, avevano già anticipato l’intenzione di ricorrere in appello. Napoli. Morto in cella a 65anni il boss di Cosa nostra Antonino Marchese di Sandra Figliuolo palermotoday.it, 13 dicembre 2022 Era recluso a Secondigliano, dove avrebbe avuto un infarto: il pm ha disposto l’autopsia per accertare le cause del decesso. Condannato all’ergastolo con il Maxiprocesso, ha passato quasi due terzi della sua esistenza dietro le sbarre. Il Garante campano dei detenuti: “Era malato da tempo, disumano non farlo morire a casa”. È stato uno dei killer più spietati di Cosa nostra e da oltre 40 anni era ormai rinchiuso in carcere. Ed è lì che è morto, in una cella del penitenziario di Secondigliano, a Napoli, Antonino Marchese, 65 anni, fratello di Pino - il primo pentito della mafia “vincente” dei Corleonesi - ma anche di Vincenzina, la moglie del boss Leoluca Bagarella, che si suicidò nel 1995, nonché nipote di Filippo Marchese, alias ”milinciana”, storico boss di corso dei Mille e “amministratore” della Camera della morte di Sant’Erasmo. A stroncare il mafioso - che ha sempre negato di aver fatto parte di Cosa nostra - sarebbe stato un infarto. Il pm della Procura di Napoli che era in turno quel giorno - il primo dicembre - ha deciso di disporre comunque l’autopsia per accertare le cause del decesso. A confermare la notizia a PalermoToday è il garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello: “Il decesso risale al primo dicembre, Marchese era malato da tempo. In 41 anni passati in carcere, per lungo tempo al 41 bis, non ha mai ottenuto un permesso. Soltanto qualche settimana prima della morte gli è stato concesso di uscire per qualche ora, ma restando a Napoli. Un dato che a mio avviso dimostra la disumanità e l’assenza di pietas davanti anche a reati gravi: si sarebbe potuto fare in modo da farlo morire a casa. Invece è morto nella sua cella”. Marchese era detenuto con altri ergastolani ex 41 bis come lui e, alla luce dei suoi problemi di salute, era assistito dal personale medico del carcere di Secondigliano. Il primo dicembre si sarebbe sentito male ed avrebbe chiesto aiuto. Gli agenti e i medici lo avrebbero soccorso, ma inutilmente. Decine e decine gli omicidi a cui Marchese ha preso parte nei pochi anni della sua vita che ha trascorso da libero cittadino. Venne arrestato nell’agosto del 1983 e poi condannato all’ergastolo nel primo Maxiprocesso. Ergastolo che rimediò anche per l’omicidio di Vincenzo Puccio, assassinato nella sua cella dell’Ucciardone nel 1988 a colpi di bistecchiera in ghisa. Ha sempre parlato del fratello pentito come di un “tragediatore”, sostenendo che “tutto quello che dice sono infamità” e che ”tutte le sue dichiarazioni sono tutte tragedie per ottenere i benefici che gli danno”, riferendosi a quelli previsti per i collaboratori di giustizia. Lui non ha mai ceduto, invece, negando nei processi anche le evidenze e chiedendo di essere messo a confronto proprio col fratello che lo accusava. Ed è così che ha trascorso quasi i due terzi della sua esistenza dietro le sbarre, dove anni fa si era persino sposato. Ed è lì che una decina di giorni fa è deceduto. Padova. Il Garante dei detenuti lancia l’allarme: “In aumento gli atti autolesionisti” di Ivan Grozny Compasso padovaoggi.it, 13 dicembre 2022 In Consiglio comunale la relazione annuale del Garante, il dottor Antonio Bincoletto, ha toccato anche il tema della giustizia e di pene alternative. Elogio al terzo settore: “C’è bisogno non solo di personale ma anche di volontari”. In consiglio comunale la relazione annuale del Garante dei diritti delle persone private o limitate nella libertà personale del Comune di Padova, esposta dal dottor Antonio Bincoletto. In una prima parte ha illustrato quelle che sono le attività svolte e che tipo di lavoro è stato portato avanti, successivamente ha esposto quelle che sono le sue osservazioni. Si è concentrato, nei dieci minuti a disposizione, non solo su quanto accade e come si vive standoci dentro, ma chiedendo cosa si fa per consentire a chi esce di costruirsi una nuova vita. E naturalmente si è anche parlato di pene alternative e percorsi che vadano in una direzione non solo punitiva ma che mira al reinserimento.  Anno critico - Che la situazione nelle carceri italiane sia molto critica non è certo una novità e anche Padova in questo senso non fa eccezione, anche se, come spiega successivamente Bincoletto, la situazione nelle carceri della nostra città è certo migliore di molte altre. Ma questo non può evidentemente bastare. Quello trascorso è un anno in cui nelle carceri della nostra città si contano due decessi, un suicidio e un altro le cui cause sono ancora in fase di accertamento. In Italia, quest’anno, sono morti suicidi settantanove detenuti e cinque guardie carcerarie. Che la situazione sia al limite è risaputo, il Covid, lo spiega bene sempre Bincoletto, ha accentuato le criticità, che sono poi le solite da sempre. Inadeguatezza delle strutture, sovraffollamento, mancanza di personale e tutto quello che si può immaginare. Il ministro della giustizia Carlo Nordio si è recentemente espresso sul tema carceri. Nordio, rispondendo a una domanda dei cronisti, aveva spiegato: ”La certezza della pena - ha sottolineato Nordio - prevede che la condanna deve essere eseguita, ma questo non significa solo carcere e soprattutto non significa carcere crudele e inumano che sarebbe contro la Costituzione e i principi cristiani”.  Pena - Per il ministro, la pena non deve coincidere necessariamente con il carcere. Un passaggio che troveremo anche nelle osservazioni del Gatante comunale. I colloqui da lui svolti dal 1°di gennaio al 4 di dicembre 2022 coi detenuti sono stati 342, 309 in Casa di reclusione e 33 nel Carcere circondariale. Per colloqui si intende che i detenuti hanno fatto richiesta di incontrarlo, per sottoporlo a problemi specifici. E lui c’è andato ed ha ascoltato. Nel circondariale si tratta di persone che devono scontare pene brevi o che sono in quel carcere solo di passaggio prima di essere trasferiti, quindi non sempre emergono le tematiche legate ai diritti di cittadinanza dato il periodo medio di detenzione più breve. Ma nel caso dei detenuti con pena definitiva presso la casa di reclusione il numero cresce esponenzialmente. Lavoro, salute e assistenza sanitaria, comunicazione e organizzazione interne al carcere, ottenimento dei benefici di legge, documenti e burocrazia, sono tra i temi più volte affrontati con i detenuti. Ma anche l’aspetto delle relazioni fra detenuti e gli operatori carcerare, quello delle carenze strutturali (spazi, edifici, servizi), è stato manifestato dai carcerati.  Il Garante - Dopo aver relazionato riguardo le attività svolte, tra cui i tanti congressi svoltisi all’interno delle strutture e altre attività, ha illustrato quelle che sono le sue conclusioni rispetto alle attività svolte. “L’anno di attività - ha spiegato dottor Antonio Bincoletto - che si sta concludendo ha confermato quanto complessa sia la realtà carceraria e quanto lavoro si richieda a chi, come un Garante territoriale, si trova ad interfacciarvisi quotidianamente, operando all’interno di essa in ambito extragiurisdizionale e in forma autonoma e indipendente. Il quadro generale pandemico non ha certo facilitato l’espletazione dell’incarico assunto, anche se il 2022 ha visto la chiusura della fase dell’emergenza covid e la ripresa della presenza dei volontari in carcere grazie alla campagna vaccinale che ha coinvolto la quasi totalità della popolazione ristretta. La condizione di supplementare isolamento vissuta per due anni dai reclusi e di frustrazione per chi opera e si occupa dei vari progetti in carcere, assieme alle carenze strutturali e endemiche, hanno comunque accentuato le criticità presenti e lasciato un segno evidente nel malessere diffuso fra la popolazione reclusa e fra gli operatori. L’incremento impressionante degli atti di autolesionismo e suicidari nel carcere ne è sicuramente un sintomo”. Collaborazioni - Il Garante fa notare che la mole di lavoro è grandissima e che sarebbe opportuno rinforzare non solo il personale qualificato ma anche quello dei volontari: “Dare ascolto, risposte, assistenza a chi sta scontando la pena attraverso la privazione della libertà è ora più che mai una premessa importante per rendere possibile l’attuazione del dettato costituzionale; l’attività di ascolto, prerogativa fondamentale del Garante, attraverso i colloqui coi detenuti e il confronto col personale e coi volontari che operano all’interno e all’esterno degli istituti di pena, ha finora consentito di individuare una serie di problematiche e di contribuire al raggiungimento di qualche risultato positivo, dando un apporto essenziale ad alcuni parziali miglioramenti delle condizioni di vita detentive. Per consolidare ed estendere l’operato del Garante sarebbe opportuno valutare la possibilità di aprire l’ufficio a collaborazioni con soggetti disponibili a prestazioni d’opera volontarie in modo da creare un team di supporto”. Padova - Il Garante non ha solo evidenziato le criticità: “Se le carceri presenti della nostra città hanno maturato nel corso degli anni un’immagine positiva, addirittura di eccellenza rispetto alla situazione media degli Istituti di pena nel quadro nazionale, ciò è dovuto sia alla professionalità del personale operante in quel contesto, anche in condizioni molto difficili, sia alla presenza nel territorio padovano di una rete diffusa di associazioni di volontariato e di cooperative sociali del Terzo settore che, offrendo lavoro e assistenza ai reclusi, contribuiscono grandemente a rendere effettiva, efficace e ad ampio spettro l’azione trattamentale prevista dall’ordinamento. Questo non significa ovviamente che non ci siano criticità e obiettivi di miglioramento, come risulta chiaro dalla presente relazione. Essi riguardano anzitutto gli ambiti dell’assistenza sanitaria, psicologica e giuridico-pedagogica, quelli del lavoro, della comunicazione (come dimostra la mole delle domande di colloquio e le relative richieste d’intervento pervenute dai detenuti al Garante), del supporto verso l’esterno, e il loro raggiungimento dipende molto dalla risposta che le istituzioni nazionali e locali daranno alla improrogabile necessità di riforma in quest’ambito e alla cronica carenza di personale e risorse”. Giustizia - Infine una considerazione sul tema “giustizia”: “Non va però dimenticato - conclude il Garante - che alle circa 800 persone attualmente recluse nelle carceri padovane, se ne aggiungono molte altre che stanno scontando la pena in misure di esecuzione penale esterna seguite dall’UEPE. Il nostro Ordinamento penitenziario non parla infatti unicamente di “pena” (reclusione nel carcere) bensì di “pene”, articolantesi in diverse forme e misure alternative (semilibertà, affidamento ai servizi sociali, messa in prova, domiciliari, ecc.), come avviene da tempo in tutte le società giuridicamente più evolute”. Dopo - È forse il passaggio più importante, quello che si riferisce al dopo, una volta che queste persone riacquistano la libertà: ”Il nostro territorio si trova dunque a doversi far carico in qualche misura sia di chi è recluso, sia di chi sta scontando pene alternative al carcere, sia di chi viene scarcerato per fine pena e che spesso si trova privo di mezzi e di riferimenti all’esterno. È importante non scordarsi di queste realtà se si vuole garantire alla nostra città una maggior sicurezza, essendo consapevoli che solo se si sarà in grado di accompagnare queste persone nella ricerca di una collocazione sociale regolare si darà loro la possibilità concreta, una volta scontata la pena, di rientrare in una vita sociale onesta e di non cadere nella recidiva”. Frosinone. “Seconda Chance”, detenuti e volontari ripuliscono la spiaggia di Sabaudia Latina Oggi, 13 dicembre 2022 Ieri mattina la bonifica di un tratto di lungomare col contributo di un gruppo arrivato dal penitenziario di Frosinone. Il vento era molto forte ieri mattina sul lungomare di Sabaudia ma non quanto la voglia di raggiungere un obiettivo davvero importante. Quale? Quello di fare viaggiare sullo stesso binario l’impegno legato al reinserimento dei detenuti a fine pena e quello per la tutela ambientale. Infatti, un gruppo di detenuti provenienti dal carcere di Frosinone ha raggiunto il lungomare di Sabaudia per partecipare insieme ad alcuni volontari ad una mattinata dedicata alla raccolta dei rifiuti, principalmente della plastica. L’iniziativa è stata promossa ed organizzata da Seconda Chance un’associazione non profit del Terzo Settore nata nel luglio 2022 dalla volontà della giornalista del TgLa7 Flavia Filippi, dell’autrice e documentarista Alessandra Ventimiglia, Pieri e della titolare di Ethicatering, Beatrice Busi Deriu. L’associazione è di fatto “una sorta di cerniera tra le carceri e le imprese disposte ad agevolare il re inserimento lavorativo dei detenuti a fine pena usufruendo dei benefici concessi dalla legge Smuraglia”, una realtà che promuove anche attività come quella di ieri. Grazie alla collaborazione della direzione del carcere di Frosinone, delle educatrici, del cappellano e degli agenti di polizia penitenziaria, ieri 13 detenuti hanno potuto partecipare all’iniziativa insieme ai volontari dei Liberi Netturbini Pontini, di Plastic Free ed ovviamente di Seconda Chance. “È importante per noi partecipare a queste iniziative - ha commentato Gennaro che dal carcere di Frosinone ha raggiunto ieri Sabaudia - e spero che altri detenuti possano fare questa esperienza fondamentale per il nostro reinserimento. Per quanto mi riguarda è la seconda volta che partecipo ad una iniziativa di questo tipo ed è bello potere fare qualcosa di utile e positivo per tutti. Sicuramente un ringraziamento va alle associazioni, alla direzione, agli educatori a tutti coloro che materialmente ci hanno accompagnato rendendo possibile questa giornata”. Anche dal punto di vista ambientale il risultato è stato raggiunto considerando i numerosi sacchi di rifiuti raccolti. Sul posto, il presidente del Parco Nazionale del Circeo, Giuseppe Marzano che dopo la mattinata in spiaggia ha accompagnato i partecipanti presso il centro visitatori dell’Ente per una visita al museo. Le attività portate avanti da Seconda Chance sono molte e coinvolgono un sempre maggior numero di imprese disposte a dare una possibilità a chi vive ed ha vissuto l’esperienza del carcere. Non sono parole, sono fatti a cui si legano tante storie durante e dopo la detenzione, iniziative che si trasformano in spiragli positivi nella prospettiva del reinserimento nel mondo del lavoro. Ed è in questo contesto che nascono gesti davvero significativi come quello legato al laboratorio creativo proprio all’interno del carcere di Frosinone in cui, in questi giorni, tanti papà stanno decorando palline di Natale con i nomi dei propri figli. Santa Maria Capua Vetere. Nel carcere delle violenze si producono camicie per Isaia Corriere del Mezzogiorno, 13 dicembre 2022 Il viceministro Sisto in visita: “Straordinario, bello che la Polizia penitenziaria indossi capi cuciti da detenuti”. Una fabbrica nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), aperta nel febbraio scorso dopo un protocollo con la nota camiceria napoletana Isaia, che produce camicie per gli uomini e le donne della Polizia Penitenziaria italiana. “Una notizia straordinaria”, l’ha definita il vice-ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto in visita al carcere casertano per avviare il progetto “Ambiente Colorato”, altro strumento che va nella direzione di rendere il carcere un luogo più umano, come prescrive la Costituzione, mediante il restyling degli spazi interni ed esterni della struttura per i figli dei detenuti. “È bello - ha aggiunto Sisto al quale è stata regalata una camicia - che la Polizia Penitenziaria sappia che indossa le camicie prodotte dai detenuti; ciò costituisce un’importante sinergia anche emotiva”. La camiceria è tra i primi progetti lavorativi realizzati nel 2022 dalla direttrice Donatella Rotundo, arrivata dopo lo scandalo delle violenze in carcere. “Al mio arrivo ho trovato grande disponibilità da parte della società esterna, parlo di imprese ma anche delle istituzioni. Questa camiceria, con la sartoria nel reparto femminile che realizza mascherine e altri oggetti come le pochette, o il laboratorio di dolci, sono il nostro fiore all’occhiello e la testimonianza di come si può concretizzare il principio di rieducazione della pena - ha raccontato - Al momento abbiamo già realizzato le prime 500 camicie grazie al lavoro di una trentina di detenuti occupati, ma a regime, con una decina di occupati in più, ne verranno prodotte 3300. Per noi è un doppio segnale di riscatto, sia per i detenuti che per lo stesso carcere dopo i gravi fatti di due anni fa”. Le camicie hanno il logo della Polizia Penitenziaria ma anche il noto piccolo corallo rosso di Isaia. Vi lavorano detenuti che si sono ben comportati e che non hanno molti anni di carcere da scontare, in modo da poter sfruttare queste competenze all’esterno. Leopoldo è uno di loro: “Sono felice di poter essere utile, anche perché sto imparando un mestiere per quanto sarò fuori”. Santa Maria Capua Vetere. Dal laboratorio sartoriale le camicie per la Polizia Penitenziaria di Marco Belli gnewsonline.it, 13 dicembre 2022 Da quest’anno le camicie per il personale del Corpo di Polizia Penitenziaria vengono prodotte nella Casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere. Il progetto nasce da un protocollo d’intesa sottoscritto nel febbraio scorso con Isaia, brand sartoriale napoletano ben noto a livello mondiale nella produzione di camicie. Già dalla primavera, 30 detenuti sono stati adeguatamente formati nell’utilizzo dei macchinari e nel confezionamento delle camicie. E da settembre scorso sono al lavoro nel laboratorio di sartoria maschile; saranno 40 a inizio del nuovo anno, quando comincerà la produzione a pieno regime. Dopo aver accompagnato l’istituto nell’acquisto dei macchinari e aver illustrato ai detenuti le tecniche di confezionamento, gli esperti sarti di Isaia hanno seguito il primo periodo della produzione e continuano tuttora a svolgere il ruolo di supervisori sulla qualità del prodotto. “E’ bello che la Polizia Penitenziaria sappia che indossa le camicie prodotte dai detenuti; ciò costituisce una importante sinergia anche emotiva”. Lo ha detto il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto che oggi ha visitato l’istituto penitenziario casertano per avviare il progetto “Ambiente Colorato”. “Questa camiceria - ha spiegato la direttrice del carcere, Donatella Rotundo - insieme alla sartoria nel reparto femminile che realizza mascherine e altri oggetti, ma anche il laboratorio di dolci sono il fiore all’occhiello del nostro istituto e la testimonianza di come si può concretizzare il principio di rieducazione della pena”. Il progetto prevede la produzione di 28.500 camicie all’anno. Le prime 500 sono già partite verso i magazzini centrali del Sadav di Rebibbia a Roma. Milano. Indagine conoscitiva per combattere il disagio psichico in carcere lavocedelpopolo.it, 13 dicembre 2022 Presentata ieri a Milano un’indagine conoscitiva realizzata dalla Regione nelle carceri lombarde. Accendere un faro sulle condizioni di salute mentale delle persone in carcere e proporre soluzioni al crescente disagio psichico. Questo lo scopo dell’indagine conoscitiva, promossa dalla Commissione speciale di Regione Lombardia sulla situazione carceraria, illustrata ieri a Milano in un incontro cui hanno partecipato esponenti istituzionali regionali, della magistratura e degli avvocati, oltre che il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, collegato in video. “La salute mentale dentro le carceri è un’emergenza che non solo pesa sulle persone ristrette ma anche sugli agenti di polizia penitenziaria che si trovano ad affrontare situazioni senza avere una competenza specifica - ha sottolineato la Presidente della Commissione speciale, Paola Bocci, del Pd-. E’, quindi, fondamentale che tutte le parti politiche e amministrative, i direttori di istituti penitenziari e chi lavora siano consapevoli delle risposte e delle soluzioni da apportare. Questa indagine conoscitiva, iniziata nell’aprile del 2021, ha misurato sul campo l’aggravarsi del problema post pandemia: si stima, infatti, che il tasso suicidario all’interno delle carceri sia 18 volte superiore a quello della popolazione libera. Ma oltre ai punti critici l’indagine ha evidenziato i punti su cui si può intervenire. Ci auguriamo che anche con le delibere regionali appena approvate si dia subito risposta con piani attuativi che intervengano anche in questo tipo di carenze e criticità”. Il disagio psichico è la forma più diffusa di malattia di cui soffrono i detenuti italiani. Oltre il 40% di tutte le patologie riscontrate nella popolazione carceraria sono di natura psicologica o psichiatrica. Il risultato più evidente di questo vasto e profondo disagio sono i suicidi e gli atti di autolesionismo: nel 2020 sono stati 16 (su un dato nazionale di 62) i detenuti nelle strutture detentive lombarde che si sono tolti la vita, di essi l’80% aveva età compresa tra i 20 e i 45 anni. Per quanto riguarda gli atti di autolesionismo, il Ministero di Giustizia ha dichiarato che nel 2020 si sono registrati 147 episodi nella casa circondariale di Busto Arsizio (Va), 407 a San Vittore, 81 a Monza e 105 a Como. Quattro i filoni di intervento proposti nelle conclusioni dell’indagine: la riduzione delle liste di attesa per entrare nelle Rems (strutture sanitarie di accoglienza per gli autori di reato affetti da disturbi psichici); il ricorso all’interno delle carceri di personale di supporto agli psichiatri (psicologi, infermieri psichiatrici, tecnici di riabilitazione psichiatrica); più formazione specifica per gli agenti, anche con la possibilità di istituire sportelli d’ascolto per coloro che ne avvertissero la necessità; maggiore attenzione ai rischi psicosociali delle donne detenute, anche con interventi di medicina di genere. Al dibattito sono intervenuti Francesca Valenzi, dell’Amministrazione Penitenziaria della Lombardia, Roberto Ranieri, responsabile Unità Operativa Sanità Penitenziaria di Regione Lombardia, Valentina Alberta, vice presidente Camera Penale Milano e Giovanna Di Rosa, presidente Tribunale di Sorveglianza di Milano. Le conclusioni sono state illustrate da Antonella Forattini, neo eletta al Parlamento e già Presidente della Commissione speciale sulla situazione carceraria, che ha auspicato che si proceda nel consolidamento dell’esperienza di giustizia riparativa. Saluzzo (Cn). Le Opere Libere dei detenuti del “Morandi” in mostra al Monastero della Stella targatocn.it, 13 dicembre 2022 Visitabile sabato 17 e domenica 18 dicembre. Sono oggetti realizzati a mano dai detenuti nei laboratori di sartoria, oreficeria, ceramica e pittura. La mostra è un progetto della sezione carceraria del liceo Bertoni. Ingresso libero. I manufatti artistici realizzati dai detenuti nei laboratori artigianali presenti nella Casa di reclusione “Morandi” saranno esposti, sabato 17 e domenica 18 dicembre al Monastero della Stella, in piazzetta Trinità 4/A a Saluzzo, in occasione della mostra “Opere Libere con Creativi-tè”. Gli oggetti in esposizione sono realizzati a mano dai detenuti del carcere di Saluzzo nei laboratori di sartoria, oreficeria, ceramica e pittura. “La mostra, nata da un progetto della Sezione carceraria del Liceo Artistico Soleri Bertoni, anche quest’anno - spiega la referente Daniela Zinola - vede la collaborazione dell’associazione di volontariato penitenziario “Liberi Dentro”. In questa nuova edizione il pubblico potrà ammirare le opere dei Laboratori artistici del Liceo (bijoux, addobbi natalizi, suppellettili in legno e in ceramica, lavori pittorici) e i manufatti del recente Laboratorio sartoriale “Are@51Lab” con le proposte di accessori femminili”. Opere Libere, organizzata in collaborazione con la Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo, prevede l’inaugurazione “Creativi-tè” in cui sarà offerta una degustazione di tè aromatizzati accompagnati dai dolci di “Voci Erranti” prodotti nel biscottificio del carcere Morandi. L’evento sarà allietato dai ragazzi del Coro del Liceo Soleri Bertoni. Le opere esposte potranno essere cedute a fronte di una donazione il cui ricavato sarà utilizzato per il proseguimento delle attività laboratoriali del carcere. Inaugurazione sabato 17 dicembre alle 16, apertura fino alle 19 e domenica 18 dicembre dalle 10 alle 19 con orario continuato. Ingresso libero. Quanto è difficile ottenere un’arma da fuoco in Italia? di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 13 dicembre 2022 L’uomo che ha ucciso tre donne a Roma non aveva il porto d’armi, ma era in possesso di una Glock e 170 munizioni. In Italia manca un sistema per incrociare i dati sulla salute mentale. La brutalità del triplice omicidio di Roma avvenuto durante una riunione di condominio pone interrogativi sulla facilità con la quale il killer sia riuscito ad avere un’arma da fuoco nonostante gli fosse stato negato il porto d’armi in passato. Secondo una prima ricostruzione, nella mattinata dell’11 dicembre l’assassino si è recato in un poligono di tiro a Roma, nel quartiere di Tor di Quinto, dove avrebbe preso - si pensa al furto o al noleggio senza restituzione - una pistola semiautomatica Glock. Il poligono è stato messo sotto sequestro. Ma quanto è complicato ottenere un’arma da fuoco in Italia? Quante sono le armi - Non ci sono dati ufficiali del ministero dell’Interno sul numero delle armi in circolazione. Gli ultimi numeri a disposizione sono quelli della polizia, secondo la quale circa un italiano su 60, ovvero 1.222.537 persone, ha a disposizione una licenza regolare di porto d’armi. La maggior parte di queste sono state rilasciate per la caccia, seguono poi le motivazioni sportive. In Europa i dati sono diversi e tra i paesi con il maggior numero di armi c’è la Finlandia, per via della sua storica tradizione di caccia. Secondo il Flemish Peace Institute sono 25 milioni i cittadini che hanno in possesso almeno un’arma, per un totale di 80 milioni. Il rapporto è quasi di 16 armi ogni cento persone. Se è complicato avere dati precisi sulle armi regolari in circolazione, diventa impossibile per le cosiddette ghost guns, quelle costruite in casa attraverso stampanti 3D, facili da reperire nel dark web, e che non sono registrate. Un fenomeno molto diffuso negli Stati Uniti che ha allarmato la Casa Bianca e ha spinto il presidente Joe Biden ad adottare misure di contrasto. La situazione preoccupa anche le istituzioni europee, dato che questo tipo di armi senza alcun componente metallico non può essere rilevato dai metal detector e rischia di essere utilizzato per attacchi terroristici o omicidi. L’attacco terroristico di Halle in Germania del 2019 è stato compiuto anche con armi da fuoco i cui componenti erano stati fabbricati in casa. Come ottenere un’arma - In Italia vigono regole molto stringenti per ottenere il porto d’armi. Questo può essere rilasciato per tre diversi motivi: uso sportivo, difesa personale o per la caccia (riservato ad alcuni tipi di armi come i fucili). Dopo aver ottenuto l’idoneità psicofisica dalla Asl locale e un certificato che attesti la capacità nel maneggiare l’arma, l’autorizzazione finale per il porto d’armi viene rilasciata dalla questura. Secondo la normativa chi ha la licenzia può detenere fino a 3 armi comuni, 12 armi sportive e un numero illimitato di fucili da caccia (molti dei quali vengono acquistati dai collezionisti) ma per questo serve un’ulteriore autorizzazione da parte della questura. Per quanto riguarda i proiettili, possono essere detenute fino a 200 munizioni per le armi comuni, mille cartucce per fucili da caccia (fino a 1.500 con denuncia). Un numero abbastanza elevato: l’autore del triplice omicidio a Roma è stato trovato in possesso di 170 munizioni ma non è ancora chiaro dove le abbia prese o acquistate. Nel 2018 i carabinieri di Rieti gli avevano negato il porto d’armi. Bruno Frattasi, prefetto di Roma, ha spiegato che si è comunque “recato al poligono, dove era iscritto da diversi anni, e da lì si è allontanato con l’arma. Le indagini sono in corso e la magistratura appurerà le responsabilità e a chi sono ascrivibili”. I carabinieri stanno acquisendo la documentazione, i verbali di ingresso e uscita del poligono e analizzeranno le telecamere presenti all’interno della struttura. Campiti è accusato anche di porto abusivo di armi. Non è escluso che per lui possa scattare anche l’accusa di appropriazione indebita per aver portato via la pistola dal poligono. L’integrità psicofisica - La licenza di portare armi può essere negata a chi ha ricevuto condanne per reati commessi con violenza, a chi ha condanne a pena restrittiva della libertà personale per violenza o resistenza all’autorità o per delitti contro la personalità dello stato o contro l’ordine pubblico. Infine l’autorizzazione può essere negata a chi sia stato già condannato per porto abusivo di armi o per reati come la diserzione in tempo di guerra. In questa procedura burocratica manca però un tassello importante, ovvero un sistema per incrociare le informazioni sullo stato di salute mentale e il possesso di armi. Una proposta di legge presentata alla Camera nel 2021 chiedeva di istituire un collegio medico presso ciascuna azienda sanitaria locale, composto da tre medici del Servizio sanitario nazionale di cui almeno uno specialista in neurologia e psichiatria. Secondo la proposta, “qualora nell’accertamento si riscontrino segni (anche ad uno stadio iniziale) di disturbi psico-comportamentali, è fatto divieto di rilasciare il certificato ed è data immediata comunicazione all’autorità di pubblica sicurezza competente che, a seconda dei casi, rifiuta il rilascio o il rinnovo della licenza di porto d’armi, o ne dispone la revoca”. Vuoti normativi che supportano la cultura delle armi delle destre di Giorgio Beretta Il Manifesto, 13 dicembre 2022 Dopo il triplice omicidio di domenica a Roma. Poligoni di tiro senza verifiche né controlli. E chi ha problemi psichici non è segnalato. La sparatoria che domenica scorsa ha sconvolto un tranquillo rione di Fidene vicino a Roma ricorda i mass-shooting che con puntuale cadenza si verificano nelle più disparate località degli Stati Uniti. La “cultura” delle armi da fuoco, cioè di quelle lecitamente detenute sulla base del fatto che “ad un onesto cittadino non si può negare il diritto a difendersi”, da anni si sta facendo strada anche in Italia. E poco conta se - come dimostro nel mio libro, Il Paese delle armi. Falsi miti, zone grigie e lobby nell’Italia armata, pubblicato da poco da Altreconomia - oggi in Italia la probabilità di essere uccisi da un ladro durante una rapina nella propria abitazione è minore rispetto a quella di essere uccisi per la scarica elettrica prodotta da un fulmine. “Non si può morire così”, è stato il commento della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, per l’omicidio dell’amica Nicoletta Golisano (50 anni). Nella sparatoria Claudio Campiti (57 anni) ha ucciso altre due donne, Elisabetta Silenzi (55 anni) e Sabina Sperandio (71 anni) e ferito altre quattro persone. Lo ha fatto sparando con una pistola semiautomatica rubata ad un poligono di tiro. Ma il problema non può essere relegato all’accertamento in sede giudiziaria delle responsabilità degli addetti del poligono, il Tiro a Segno Nazionale (Tsn) di Tor di Quinto, da cui l’assassino ha sottratto la pistola semiautomatica che ha utilizzato per la strage, insieme a due caricatori e a 170 munizioni. Questo caso mette infatti in luce una serie di vuoti normativi, di vulnus amministrativi e di zone d’ombra che riguardano le norme che regolamentano l’accesso e la detenzione delle armi comuni nel nostro Paese. A cominciare dal fatto che per poter sparare ad un poligono di tiro - dove vengono utilizzate vere armi da fuoco - non è necessario un porto d’armi. È sufficiente iscriversi presentando il proprio certificato generale del Casellario giudiziale e dei carichi pendenti della Procura di residenza. Ma - come si legge proprio sul sito del Tsn di Roma - “in sostituzione dei suddetti certificati l’interessato può sottoscrivere presso i nostri uffici l’autocertificazione prevista dalla Legge 4.1.68 n. 15 art. 20”. E nessuna norma prescrive che il poligono debba poi verificare la veridicità di quanto affermato dall’interessato. Non solo. Ai poligoni non è richiesto di accertarsi presso le autorità di pubblica sicurezza se ad una persona che fa domanda di iscrizione sia stato negato il porto d’armi o sia stata ritirata una licenza per armi. Grazie a questi vulnus normativi, Campiti ha potuto accedere indisturbato al poligono di Tor di Quinto e impratichirsi con le armi nonostante gli fosse stato negato il porto d’armi già dal 2018. Altri vuoti normativi riguardano la mancata comunicazione alle questure e prefetture da parte degli uffici comunali del decesso di una persona che detiene armi: è il caso che ha riguardato la strage di Ardea dell’anno scorso, dove il figlio di una guardia giurata ha continuato a detenere la pistola del padre defunto e con questa ha ucciso due bambini e un anziano. Ma soprattutto la questione riguarda la mancanza di obbligatorietà di comunicazione da parte dei medici di base, delle Asl e di medici specialisti alle autorità di pubblica sicurezza nei casi in cui un legale detentore di armi incorra in problemi di tipo neurologico, in disturbi mentali e della personalità o sia sottoposto a terapie con psicofarmaci che possano, anche temporaneamente, interferire con lo stato di vigilanza. In tutti questi casi, che spesso presentano anche manie persecutorie e tentativi di suicidio, il legale possessore di armi continua a detenerle per tutto il periodo della licenza che generalmente è di 5 anni. E non sono pochi i casi in cui persone depresse o in cura per disturbi mentali hanno utilizzato l’arma per compiere un omicidio. Infine, la normativa attuale prevede che chi fa domanda di porto d’armi lo comunichi ai conviventi maggiorenni, compresa la moglie o la compagna, ma di fatto da oltre 10 anni manca un regolamento attuativo e le autorità di pubblica sicurezza non possono verificare: ciò significa che oggi un uomo può detenere legalmente delle armi all’insaputa della moglie. Se non vogliamo ritrovarci a parlare degli stessi problemi di cui da decenni si discute dopo una strage, è necessario che le forze politiche, soprattutto quelle della destra ancorate alla “cultura delle armi”, comincino a prendere seriamente le proposte avanzata da anni dalle associazioni della società civile. Limitarsi a condannare questi atti non risolve il problema che va invece contrastato con provvedimenti normativi e controlli più frequenti sui legali detentori di armi. Migranti. Il governo avverte l’Europa: pronti a fare da soli di Carlo Lania Il Manifesto, 13 dicembre 2022 Meloni: “La linea non cambia, allo studio nuove norme contro gli sbarchi”. Possibile stretta anche sulla protezione speciale. Un nuovo giro di vite sul fronte interno, mentre contemporaneamente si lavora su quello esterno a un piano per l’Africa che, con il coinvolgimento dell’Unione europea, arrivi a stanziare fino a 150 miliardi di euro di investimenti in infrastrutture. È il doppio binario su cui il governo torna a muoversi sull’immigrazione nella speranza di riuscire a fermare gli sbarchi senza però alimentare nuove tensioni con Bruxelles. Su questo punto, anzi, Giorgia Meloni è stata chiara, anche con gli alleati: “Il coinvolgimento dell’Europa è fondamentale” ha detto nella diretta Facebook “Gli appunti di Giorgia”, utilizzata dalla premier anche per confermare la scelta della linea dura, in modo particolare contro le ong: “Si parla di cambio di rotta del governo - ha detto -. Assolutamente no, il governo non intende cambiare posizione sul tema dell’immigrazione. A livello nazionale già dalla prossima settimana stiamo lavorando per nuove norme per fermare la tratta perché su questo tema non intendiamo mollare”. Quanto accaduto venerdì scorso, quando a sorpresa è arrivato il via libera allo sbarco dei 500 migranti che si trovavano a bordo di tre navi umanitarie, va inteso dunque come una decisione presa solo in conseguenza alle pessime condizioni del mare, come ha spiegato domenica un comunicato del Viminale dai toni accesi. E proprio i tecnici del ministero sarebbero già al lavoro per studiare le misure in grado di fermare le navi delle ong. “Bisogna fare una sintesi tra responsabilità e solidarietà - ha confermato il sottosegretario leghista all’Interno Nicola Molteni -Finora c’è stata responsabilità da parte dell’Italia e non dagli altri Paesi. Se l’Europa non ha consapevolezza che il tema va affrontato assieme, il governo italiano nei prossimi giorni dovrà valutare dei provvedimenti di carattere normativo”. Non sarà facile. L’idea è quella di ripristinare, modificandoli, i decreti sicurezza varati da Matteo Salvini quando era ministro dell’Interno, sapendo però che una parte importante di quelle norme sono state bloccate dalla Consulta e dal Tar, senza parlare dei rilievi fatti dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che non mancò di ricordare come il salvataggio dei migranti in difficoltà “rimane un dovere”. Abbandonata l’idea delle maximulte, il governo pensa di prevedere sanzioni amministrative per le navi che raccoglieranno i migranti nel Mediterraneo senza essersi prima coordinate con le autorità responsabili delle zone Sar nelle quali operano (cosa che però le ong fanno, spesso senza ricevere risposta). In questo modo scatterebbe la confisca del mezzo, la cui decisione spetterebbe ai prefetti e non sarebbe più affidata, come in passato, alla magistratura. Ma non si tratterebbe dell’unica misura allo studio. Il ministro Piantedosi punterebbe infatti anche a riportare al Viminale la decisione di vietare o limitare l’ingresso, il transito o la sosta alle navi per motivi di sicurezza. Del resto è proprio ai decreti di sicurezza salviniani che Piantedosi ha spiegato di aver fatto riferimento nella direttiva firmata a ottobre con i ministri degli Esteri e dei Trasporti durante lo scontro con le navi Ocean Viking e Humanity 1. Infine si starebbe lavorando anche una revisione della protezione speciale, rilasciata al richiedente asilo che non possiede le caratteristiche per avere la protezione internazionale, in modo da renderla più difficile da ottenere. C’è poi il piano per l’Africa, Domenica la Commissione Ue ha lavorato a un pacchetto di investimenti da 150 miliardi di euro destinati alla realizzazione di infrastrutture di vario tipo, mentre ieri sono stati lanciati due piani, uno dei quali destinato al mediterraneo centrale che prevede, in accordo con i Paesi di origine e di transito dei migranti, di mobilitare 1,3 miliardi di euro per lo sviluppo delle economie locai, la prevenzione dell’immigrazione irregolare, i rimpatri e il contrasto delle organizzazioni criminali. Migranti. Decreto flussi, agli uffici dell’impiego la decisione: prima chi ha il reddito di cittadinanza, poi gli stranieri di Alessandra Ziniti La Repubblica, 13 dicembre 2022 Ecco cosa dovranno fare i datori di lavoro per richiedere manodopera dall’estero. Ma gli uffici del governo hanno organici inadeguati. L’ultimo monitoraggio della sanatoria del 2020 rivela: in due anni e mezzo rilasciati solo 4 permessi di soggiorno su 10. Class action di famiglie e associazioni a Roma. I numeri, raccolti dal consorzio di associazioni Ero straniero, sono davvero scoraggianti e non promettono nulla di buono per il futuro. Non solo la sanatoria 2020, quella che avrebbe dovuto regolarizzare 220.000 lavoratori stranieri nel nostro Paese, si conferma un sonoro flop con solo 83.000 permessi di soggiorno (il 37,7%) rilasciati due anni e mezzo dopo per l’inadeguatezza degli uffici delle prefetture chiamati a vagliare e lavorare le domande, ma grosse criticità si rilevano anche nell’applicazione del decreto flussi ormai a conclusione. E non si vede come, con queste carenze, gli stessi uffici e quelli dell’impiego che versano in condizioni ancora peggiori potranno far fronte alle pratiche per il nuovo decreto flussi che il governo promette di varare prima di Natale. Un provvedimento molto atteso non solo dai datori di lavoro affamati di manodopera ma anche perchè è lo strumento con il quale il governo intende aprire veri canali di ingresso legali per i migranti che intendono venire nel nostro Paese. Come funzionerà il nuovo decreto flussi - In attesa di conoscere ancora il numero dei lavoratori (tra 80.000 e 100.000) di cui il governo consentirà l’ingresso con il decreto che potrebbe questa volta avere programmazione triennale e non più annuale come è stato finora, trapelano alcune interessanti modalità operativa che dovrebbero attuare quella che è l’intenzione del governo:dare priorità ai percettori di reddito di cittadinanza definiti impiegabili. Dunque, il datore di lavoro alla ricerca di personale dovrà obbligatoriamente rivolgersi prima all’ufficio del lavoro del suo territorio che vaglierà prima le possibili candidature dei percettori di reddito. Solo se non vi saranno disponibilità, il datore di lavoro potrà chiamare una persona dall’estero. Che gli uffici dell’impiego, che in questi anni non sono mai stati in grado di gestire le offerte di lavoro dei percettori di reddito, saranno improvvisamente in grado di censire i candidati in tempi brevissimi dando risposta al datore di lavoro in modo che possa valutare, è tutto da vedere. Al momento facile intuire che i tempi saranno invece assai lunghi e che alla fine la maggior parte delle richieste rimarranno inevase. Le migliaia di rinunce alla sanatoria - Come è successo a migliaia di persone, buona parte delle quali datori di lavoro nel settore della cura della persona, che dopo aver chiesto a maggio 2020 la regolarizzazione del rapporto di lavoro con badanti, collaboratori domestici addetti alla cura di anziani e fragili, alla fine - non ottenendo risposta - hanno dovuto rinunciare, spesso anche per la morte della persona da assistere, cosa avvenuta assai spesso durante l’epidemia di Covid. I 500 euro pagati invano e il divieto di uscire dal Paese - Una beffa per più di 100.000 datori di lavoro che hanno dovuto pagare subito 500 euro per avviare le pratiche per la sanatoria ma anche per altrettanti lavoratori che, oltre ad essere costretti a continuare a lavorare in nero, sono praticamente rimasti prigionieri in Italia visto che tra le regole per chi chiedeva la regolarizzazione c’era anche il divieto di lasciare l’Italia prima dell’ottenimento del permesso di soggiorno. Divieto che, di fatto, per oltre due anni, ha impedito a questi di lavoratori anche solo di tornare a casa nei Paesi d’origine per le vacanze o per visitare i familiari Il caso Roma e la class action - La situazione a Roma è particolarmente preoccupante: su 17.371 domande di regolarizzazione presentate, al 3 ottobre 2022 il numero di istanze definite positivamente era di 5.202 e 330 erano le persone convocate in Prefettura per procedere alla conclusione del procedimento. Alla luce di questa situazione, a giugno 2022, su iniziativa di alcuni legali, è stata inviata una diffida alla prefettura di Roma e al ministero dell’interno da 30 tra lavoratori e lavoratrici in emersione e sottoscritta da alcune associazioni che hanno depositato al Tar del Lazio una class action contro i gravi e persistenti ritardi della prefettura di Roma. Il prossimo 31 gennaio si celebrerà la prima udienza. I numeri della sanatoria - Nel dettaglio, ad avere in mano finalmente un permesso di soggiorno per lavoro sono 30.266 lavoratrici e 42.288 lavoratori mentre, per quanto riguarda le provenienza, 7.689 sono persone di nazionalità ucraina, 7.314 georgiana, 6.659 marocchina, 6.615 pachistana, 6.522 albanese, 5.486 bengalese, 5.005 indiana, 5.486 peruviana. Trent’anni fa a Sarajevo, per dire no alla guerra di Nicole Corritore* Il Manifesto, 13 dicembre 2022 Intervista a Mario Boccia, fotogiornalista specializzato in reportage, racconta la sua esperienza a Sarajevo durante il dissolversi conflittuale della federazione Jugoslava. Trent’anni fa sei stato uno dei 500 che hanno partecipato a quella che è stata chiamata “Marcia dei 500” verso Sarajevo. Cosa ti ha spinto a farne parte? All’epoca seguivo la Jugoslavia da giornalista da giugno 1991. Un paese importante, membro fondatore delle Nazioni Unite e leader del movimento dei “non allineati”. Confesso il limite di sentirmi personalmente coinvolto in quella storia. Ogni cronista dovrebbe limitarsi a raccontare fatti, controllando le emozioni. Resta il fatto che conoscevo bene quelle terre. Ricordi d’infanzia. Niente in confronto ai tuoi, che mi stai intervistando, ma un poco anche per me quella era una “guerra in casa”, rubando il titolo dell’imprescindibile libro sulle guerre jugoslave scritto (e vissuto) dal nostro comune amico Luca Rastello. Non so se partecipai più da giornalista alla marcia dei “500”, o sperando che quella che alcuni definirono “una pazzia” e don Tonino Bello “un’azione profetica” riuscisse davvero. Credo l’uno e l’altro. Del resto, il lavoro in sé non basta a definire l’identità di una persona… per dire, ho sempre preferito dire “faccio” il giornalista, piuttosto che “sono” un giornalista. Certamente quell’intrusione di persone disarmate e con le mani alzate in un conflitto, aveva un grande fascino. Certamente era anche una notizia da non “bucare” e bisognava esserci per testimoniare quello che poteva accadere intorno a loro, cioè, a noi. Non era mai successo prima che una massa di persone comuni si interponesse in un conflitto, riuscendo ad entrare in una città assediata. La non-violenza poteva fermare la guerra? Credo che nessuno tra i partecipanti non ci avesse sperato davvero, almeno per un minuto. Dicevano che quella era “l’Onu dei popoli”, che poteva aprire spazi ad una trattativa. Era un’idea ingenua, perché quella trattativa, in quel momento, non la voleva nessuno, ad eccezione dei cittadini assediati. Fu un’iniziativa partita dal basso, ma la composizione dei partecipanti era variegata. Come si è formata l’idea e il gruppo che poi è partito? Dipende da cosa vogliamo sottolineare. Erano certamente diverse le culture di riferimento dei partecipanti. Il gruppo, in realtà, era molto unito sulla scelta di mettersi in gioco personalmente per fermare qualcosa di inaccettabile. Si può arrivare alla stessa conclusione partendo dal rispetto di principi religiosi, come dalla volontà laica di combattere le ingiustizie. C’erano sacerdoti, vescovi come Don Tonino Bello e Luigi Bettazzi, e militanti di base di sinistra, dei movimenti pacifisti e non violenti. C’erano Gianfranco Bettin, deputato verde, Eugenio Melandri, missionario e deputato europeo di Democrazia Proletaria e intellettuali cattolici come Raniero La Valle. E tanti e tante altre. Soprattutto c’erano tante persone di ogni età, donne e uomini. Pensionati e studenti, suore e militanti comunisti. C’era di tutto. Che fossero credenti o meno, sembravano molto uniti. Nel libretto con i nomi dei partecipanti non c’era alcuna gerarchia. Tutti in ordine alfabetico, con indirizzo e numero di telefono. L’unico gruppo assolutamente disomogeneo nella spedizione, cioè di testate di diverso orientamento, erano i giornalisti al seguito. Una tra le accuse fatte ai partecipanti era quella di “imparzialità”, del non schierarsi con fermezza dalla parte degli aggrediti. Una cosa palesemente falsa. I 500 andavano a mettersi fisicamente dalla parte degli assediati. Non lo facevano a chiacchiere (oggi diremmo “da social”). Sono andati a condividere il rischio di essere colpiti da una granata o da un tiratore scelto, come qualsiasi bambino di Sarajevo, mettendo in gioco (come ripetevano spesso) i loro corpi. Erano uniti nel rifiutare l’idea che la soluzione potesse venire dalle armi, pur non contestando il diritto all’autodifesa degli aggrediti. Il viaggio fu abbastanza “burrascoso”. Ci puoi raccontare dalla partenza da Ancona fino all’arrivo a Sarajevo quali i momenti che ti sono rimasti impressi? Francamente, ho creduto che la nave stesse per naufragare. Nel corridoio tra le cabine c’erano trenta centimetri di acqua e la nave sembrava inclinata su un lato. Con Luca del Re (che allora lavorava per VM-giornale), prendemmo le nostre cose e raggiungemmo il salone dove c’era il grosso dei partecipanti. Pensavamo di affrontare scene di panico, ma non c’era niente del genere. Qualcuno pregava, altri suonavano e cantavano. La nave aveva subito danni e il viaggio sembrava non finire più. Non ricordo quante ore ci mettemmo. Sicuramente più del doppio del previsto. Ci dissero che a un certo punto la nave aveva lanciato l’SOS e che risultava “dispersa” in Adriatico. Una specie di training a quello che stavamo per affrontare. I momenti più intensi che ricordo del viaggio su terra, furono il silenzio nell’autobus dove eravamo quando tutti videro le prime distruzioni. Case semplici, di campagna. Case “inoffensive”, bruciate e distrutte. Poi le assemblee a Kiseliak, nella palestra della scuola dove ci eravamo accampati. I training dei gruppi non-violenti. Lo stringersi le mani con gli occhi chiusi. Sicuramente il sorriso e l’atteggiamento di Tonino Bello dava coraggio a tutte e tutti. “Si va passo dopo passo, dove possiamo arrivare”, diceva, senza trasmettere quell’ansia da prestazione che caratterizzò la successiva marcia di “Mir Sada - Pace ora” nell’agosto del 1993. All’arrivo a Sarajevo come siete stati accolti e da chi? Sono avvenuti incontri, e in quali condizioni? Entrammo a Sarajevo di notte. In quel caso non ero sul pullman con gli altri, ma in macchina, con Luca del Re. Notai che molti avevano messo gli zaini davanti ai finestrini laterali e si erano accentrati verso il centro dei bus, temendo schegge di granata o colpi di cecchini. Attraversammo i ceck-point da Kiseliak (croato-bosniaci) a Ilidža (serbo-bosniaci) e poi quelli di prima linea, tra serbi e bosniaci, per entrare in centro. Un gruppo di dieci partecipanti rimase “ostaggio volontario” a Ilidža, parte della città controllata dagli etno-nazionalisti serbo-bosniaci, mentre gli altri entrarono in città. Viaggiavamo a luci spente. Entrando, la città era deserta e buia come solo una città in black-out può essere. Quasi tutti passarono la notte nella palestra di una scuola vicina al palazzo del consiglio comunale. La mattina ci fu una specie di corteo in centro, prima degli incontro ecumenici con i religiosi ortodossi, cattolici, ebrei e musulmani. Rimasi colpito dall’atteggiamento delle persone incontrate per strada. Stupore, sorrisi, applausi, abbracci. C’è una foto alla quale sono affezionato. Una foto rivela sempre l’opinione di chi scatta, e solo una parte della “verità”. Ci sono un gruppo di partecipanti alla marcia che passa per la strada, di spalle, e un uomo anziano col cappello che gli tende la mano sorridendo. Lui è fermo, e a fuoco, gli altri sono mossi. Uno resta, gli altri sono di passaggio, ma chi resta sorride. Per me è una sintesi. Anche quando la colonna degli autobus lasciò la città lo fece tra i sorrisi della gente. Seguimmo la carovana fino all’ultimo chek-point bosniaco, poi, con altri giornalisti, rimanemmo ancora alcuni giorni a Sarajevo. Nel tuo lavoro di fotogiornalista, che ti ha portato molte volte sia a Sarajevo sia in altre parti dei Balcani, quella marcia ha avuto un significato particolare nel lavoro successivo? Confermò l’importanza di attraversare spesso le linee, di viaggiare il più possibile in auto, percorrendo molti chilometri. In questo modo hai la possibilità di incontrare le persone, quelle che la guerra voleva dividere, e di ascoltare le loro storie. Avvicinarsi il più possibile ai protagonisti è il privilegio e il limite di ogni cronista. Si rischia di perdere il senso del generale, delle responsabilità politiche che generano i conflitti. Per evitare questo bisogna cercare di mantenere la giusta distanza intellettuale che aiuta a capire le posizioni sul campo. Avvicinarsi è sempre importante, non solo per scattare una buona foto, ma anche per constatare che in tutte le guerre c’è una linea del fronte a-storica che unisce le vittime su entrambi i fronti. In questo senso (solo in questo) le guerre sono tutte uguali. Uno scontro impari tra chi le fa e chi le subisce. Anche tra i combattenti può esserci affinità. La guerra corrompe e spinge a fare azioni disumane anche chi ha ragione. Se l’empatia con le vittime è immediata, con i combattenti è diverso. Ascoltare le loro ragioni è fastidioso. Significa ascoltare spiegazioni aberranti, che cercano di giustificare comportamenti contro natura. Bestemmiano le loro religioni o stravolgono la storia per spiegarti che prendere la mira e sparare a un bambino che gioca a palla è giusto. Conoscere chi lo fa, mentre lo fa, e raccontarlo, aiuta a costruire gli anticorpi per impedire che persone normali arrivino a compiere azioni mostruose. Tutti possiamo assomigliare anche a quei cecchini, non solo alle vittime. Chi posta sui social la foto di una bambina nera annegata in mare e la commenta scrivendo “cibo per pesci”, non è diverso da chi spara a un bambino con un fucile di precisione. In un contesto diverso farà lo stesso. Scheda - L’idea di arrivare a Sarajevo, la capitale della Bosnia Erzegovina sotto assedio da aprile 1992, viene lanciata da Monsignor Tonino Bello nell’estate per cercare di dare un concreto contributo alla pace e alla giustizia in Bosnia con un’iniziativa nonviolenta. L’organizzazione viene assunta dai “Beati costruttori di Pace”. Dopo mesi di preparativi 500 pacifisti sono partiti da Ancona il 7 dicembre del ‘92 con l’obiettivo di arrivare a Sarajevo il 10 dicembre in occasione della Giornata internazionale dei diritti umani. Le difficoltà incontrate durante il viaggio li fa arrivare a Sarajevo la sera dell’11 e il 12 dicembre, in un giorno di cessate il fuoco, riescono a entrare nel centro città e partecipare a diversi incontri. *L’articolo è stato realizzato da Nicole Corritore in collaborazione con l’Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa Usa, lo strano caso della Louisiana: le prigioni scoppiano di detenuti, ma a migliaia non vengono liberati dopo la data della scarcerazione di Massimo Basile La Repubblica, 13 dicembre 2022 Per motivi burocratici, nello Stato americano ogni anno tra le 2mila e le 2.500 persone vengono tenute in cella oltre il termine stabilito, per un “tempo supplementare” in media di di 44 giorni. Un “soggiorno” extra ingiusto e anche costosissimo, soprattutto se le istituzioni venissero costrette ai risarcimenti. Come chiamare il tempo passato ingiustamente in carcere anche se il giudice ha deciso la scarcerazione? In Louisiana non gli hanno dato un nome, ma ne hanno fatto un modello. E si può contare in giorni, settimane, mesi. Johnny Traweek era stato condannato a sette mesi per aver tirato una padellata in faccia a un tipo durante una lite. Il giudice aveva deciso la scarcerazione dalla prigione Orelans Parish entro la mezzanotte di quello stesso giorno. Traweek aveva salutato compagni, restituito le classiche magliette arancione, lenzuola, posate e tutto il resto. Poi aveva aspettato che aprissero la sua cella per l’ultima volta. A mezzanotte non era successo ancora niente. Il giorno dopo neanche. E così per la prima settimana, e poi la seconda. Lui se n’era rimasto sdraiato sul letto, a fissare il soffitto. Passarono diciannove giorni prima che Traweek potesse lasciare il carcere. Il dipartimento di Pubblica sicurezza della Louisiana si era preso tutto il tempo per processare la sua documentazione e mettere il bollo finale al documento di uscita. Quei diciannove giorni in più erano pesati più dei sette mesi precedenti. E sapete qual è la morale di questa storia? Che c’è sempre uno che ha una storia peggiore. La storia di Brian Humphrey - Ci sono detenuti che hanno dovuto attendere quaranta giorni, altri novanta. Brian Humphrey era finito in carcere per aggressione. Dopo tre anni, il giudice ne aveva ordinato la scarcerazione immediata: era il 16 aprile 2019. Anche lui, come Traweek, si era preparato per uscire entro la mezzanotte. Ma il dipartimento, per ragioni mai chiarite, aveva atteso altri dieci giorni prima di analizzare il suo caso. Nel frattempo Humphrey era stato trasferito in un campo di lavoro fuori Shreveport, dove è rimasto fino al giorno del rilascio: il 13 maggio 2019. Erano passati ventisette giorni. Lo strano caso della Louisiana - La Louisiana, come racconta il New York Times, ha uno strano rapporto con la popolazione carceraria: le prigioni scoppiano di detenuti, ma il dipartimento non è mai felice di fare un po’ di posto a nuovi arrivi. Ogni mese duecento persone vengono tenute in cella oltre il termine stabilito, cioè da 2mila a 2.500 ogni anno sui 12-16mila detenuti liberati ogni anno. La media del “tempo supplementare” è stato di 44 giorni nel 2019, secondo dati citati dal quotidiano newyorkese. Ma il board carcerario ha avvertito le famiglie dei detenuti che i tempi possono arrivare anche a novanta giorni. In molti Stati le procedure vengono smaltite nel giro di ore, non giorni o settimane come in Louisiana, ma non mancano casi simili. I risarcimenti di New York - La città di New York di recente ha accettato di pagare un risarcimento complessivo di trecento milioni di dollari a migliaia di denuti rimasti ore o pochi giorni in cella, oltre il termine stabilito. Se la Louisiana accettasse di risarcire i suoi, dovrebbe pagare miliardi di dollari. Non lo farà, ma dal 2020 il dipartimento Giustizia ha avviato un’inchiesta per capire che cosa succede. Tra i casi analizzati figurano quelli di Traweek, Humphrey e molti altri. E pensare che alla Louisiana questo “soggiorno extra” costa quasi tre milioni di dollari l’anno, soldi dei contribuenti che potrebbero essere investiti meglio. Ma è come se la condanna del giudice non venisse ritenuta sufficiente. Quando a un detenuto dicono che il giudice ha deciso che oggi esci, non sai mai se sarà davvero così, o qualcuno si sta divertendo alle tue spalle. Iran, i religiosi sciiti criticano le condanne a morte. Il riformista Karroubi: “Terrore contro la nazione” di Gabriella Colarusso La Repubblica, 13 dicembre 2022 Due ayatollah anziani dei seminari di Qom contestano l’uso della pena capitale per punire chi protesta. L’ex leader dell’onda Verde: “La nazione è stanca di oppressione, umiliazione, discriminazione e corruzione”. L’ex direttore della tv di Stato, un tempo vicino a Khamenei, parla di sistema “insostenibile”. Le esecuzioni di Moshen Shekari e Majidreza Rahnavard, due ragazzi di 23 anni, la condanna a morte di almeno altri 11 manifestanti e la minaccia da parte della magistratura di nuove pene capitali ha aperto una faglia nel clero sciita in Iran. Due ayatollah di peso dei seminari Qom, la città sacra e sede delle più importanti scuole religiose del Paese, si sono espressi contro le sentenze di morte emesse con l’accusa di “moharebeh” - “guerra contro Dio”. L’ayatollah Mohammad Ali Ayazi, un membro anziano dell’Assemblea degli studiosi del seminario di Qom, ha contestato l’uso del “moharebeh”: “Moharebeh non è applicabile nel caso in cui gli agenti impediscano a qualcuno che ha il diritto di protestare contro la situazione esistente di farlo e quando questa persona vuole difendere il suo diritto lo accusano di moharebeh”, ha detto, rispondendo alla domanda di un giornalista dell’agenzia Ilna. Ayazi ha parlato anche del diritto a una giusta difesa, che spesso viene negata ai detenuti, soprattutto ai prigionieri politici e ai dissidenti, e della necessità di processi trasparenti. La stessa famiglia di Shekari ha denunciato che non gli è stato consentito di scegliere un avvocato e sono moltissime le testimonianze di manifestanti arrestati privati del diritto a un legale di fiducia. “In una questione importante come l’esecuzione - ha detto Ayazi - è importante che un avvocato indipendente sia in grado di difendere l’imputato. Il processo dovrebbe essere pubblico e dovrebbe essere presente una giuria”. Se questo non accade, ha aggiunto, “non solo non avrà un effetto positivo sul mantenimento della sicurezza, ma aumenterà il ciclo della violenza”. Contro l’uso arbitrario del “moharebeh” si è espresso anche l’ayatollah Morteza Moqtadaei, che è un religioso conservatore, in passato è stato anche capo della Corte Suprema, e fu uno dei sostenitori della fatwa contro lo scrittore Salman Rushdie. “Se una persona uccide qualcuno, sì, può avere una condanna a morte, ma se minaccia o intimidisce non può ricevere la pena capitale”. Negli ultimi giorni altre voci critiche si sono alzate all’interno dell’establishment politico e religioso iraniano contro la repressione e l’utilizzo della pena di morte come leva per terrorizzare i manifestanti e spegnere le proteste. Il leader riformista Karroubi attacca la strategia “del terrore” - Mehdi Karroubi, ex candidato alle presidenziali e uno dei leader dell’Onda verde del 2009, da 12 anni agli arresti domiciliari, ha attaccato direttamente Khamenei, che “attribuisce ogni protesta al nemico per preparare il terreno alla repressione”. Nel suo messaggio il politico riformista fa direttamente riferimento a Shekari e definisce la sua esecuzione “in linea con la regola del terrore. Temo che l’esecuzione di questa sentenza sarà preludio all’emissione e all’esecuzione di altre sentenze di morte per mietere vite secondo i desideri del sovrano”. Ma la strategia “del terrore non è più efficace”, scrive, “per questa nazione stanca di oppressione, umiliazione, discriminazione e corruzione”. Anche un ex insider del sistema ha rotto il silenzio per criticare il governo: si tratta di Mohammad Sarafraz, che è stato presidente della televisione di Stato, Irib, una nomina che viene decisa direttamente dalla Guida suprema Khamenei. Il “regime è diventato così misero che non riesce a rispondere nemmeno alle richieste di base dei cittadini, ed è un sistema non più sostenibile”. Sarafraz chiama in causa direttamente il figlio di Khamenei, Mojtaba, eminenza grigia del potere in Iran, che secondo una parte degli osservatori iraniani potrebbe anche succedere al padre nel ruolo di Guida Suprema. Il modo in cui “Mr. Mojtaba” ha scelto di governare, dice Sarafraz, è alzando la pressione “sulle persone e ignorando le loro richieste”, ed è un modo “sbagliato”.