La pena oltre il carcere: i 25mila “in prova” per ridare un futuro di Giulio Sensi Corriere della Sera, 12 dicembre 2022 Cresce il numero di chi chiede l’affidamento all’Ufficio di esecuzione penale esterna. La possibilità di scontare il periodo fuori dal carcere è prevista per i reati non gravi. L’emergenza sulle condizioni di detenzione. Scontare la pena fuori dal carcere o vedersi sospeso il processo con una misura come la cosiddetta “messa alla prova” per i reati non gravi non è un’utopia, favorisce il recupero e il reinserimento del condannato e può garantire un notevole risparmio per le casse dello Stato, evitando il sovraffollamento delle strutture penitenziarie. In Italia è in crescita il numero di persone che chiedono la sospensione del procedimento penale e l’affidamento all’Ufficio di esecuzione penale esterna (gli Uepe, organizzati su scala regionale). I numeri della messa alla prova hanno raggiunto i 25.000 individui (erano quasi 24.000 alla fine del 2021) e sono cresciuti esponenzialmente dal 2014 quando, la legge 67 del 28 aprile modificò il codice penale con la previsione di questa misura, per reati puniti con pene fino ai quattro anni, anche per gli adulti dal momento che è utilizzata da sempre per i minori. Nonostante tale importante novità nel sistema penale italiano, i numeri della popolazione carceraria rimangono alti perché coinvolge persone con pene che difficilmente si sarebbero scontate in carcere. Ma la legge proposta dall’ex Ministro della giustizia Marta Cartabia per l’efficienza del processo penale, approvata ad agosto e che è in attesa di attuazione, favorirebbe le sanzioni sostitutive. Il nuovo governo ne ha sospeso l’entrata in vigore fino a fine anno, annunciando modifiche al testo. “Le misure dell’area penale esterna - spiega la coordinatrice dell’associazione Antigone Susanna Marietti - sono tante. Ci sono le classiche alternative che sono la semilibertà, la detenzione domiciliare e quella che è la più aperta di tutte perché garantisce un contesto socializzante incline al recupero: l’affidamento in prova ai servizi sociali. Sono misure possibili con il modello italiano di pena, un modello flessibile, dato che il giudice in sede di condanna infligge un certo numero di anni di reclusione che non sono per forza gli stessi che il condannato sconterà. Dopo subentra quello di sorveglianza che può far guadagnare pezzi di libertà in caso di buona condotta e in risposta ad un piano di reintegrazione sociale”. “Il dato a cui guardare con attenzione quando si valuta con favore l’esecuzione penale esterna - aggiunge Marietti - è quanto tali misure vadano a erodere i numeri del carcere. Tutto in Italia è parametrato al carcere e le sanzioni sostitutive previste fino ad oggi, semidetenzioni e libertà controllata, non hanno funzionato”. Se guardiamo ai numeri, contenuti annualmente nel rapporto di Antigone, in effetti la crescita delle misure alternative non ha abbattuto quelli della popolazione carceraria. “Dal 2010 - precisa Marietti - l’Italia, con i ministri della giustizia Alfano prima e Severino poi, ha iniziato a tagliare la popolazione carceraria, favorendo soprattutto la detenzione domiciliare per parte della pena, in genere quella finale. Ma è la misura più vuota di contenuto riabilitante perché reclude in casa il detenuto e lo inserisce poco nel contesto sociale e lavorativo”. Oltre alla messa alla prova, in Italia ci sono anche i lavori di pubblica utilità che sono sostitutivi alla pena e vengono dati direttamente in sentenza. È una misura che riguarda soprattutto, ma non solo, la grande massa di persone responsabili di reati in violazione del codice della strada, circa 10.000 in questo momento. C’è molta attesa rispetto a quello che sarà l’impatto della riforma Cartabia che vuole rivitalizzare l’ambito delle sanzioni sostitutive alla pena le quali potranno essere assegnate dal giudice di merito. Prevede l’innalzamento di limite di pena che può essere rimpiazzata da esse e un loro allargamento, anche per andare a sanare l’enorme problema dei “liberi sospesi”: una popolazione stimata di oltre 80.000 persone che, condannati ad una pena carceraria bassa, sono ancora in attesa della alternativa che i Tribunali di sorveglianza, sovraccarichi di lavoro, impiegano molto tempo ad assegnare. Abbattere la recidiva - La scommessa, seppur sia ancora timida in Italia, non si vince però senza favorire la rieducazione. “E soprattutto senza il Terzo settore - afferma Ornella Favero, presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia che riunisce enti, associazioni e gruppi impegnati quotidianamente in esperienze di volontariato nell’ambito della giustizia - in Italia non ci sarebbe rieducazione. Significa per gli autori di reato mettersi in gioco, lavorare sul tema della responsabilità perché la società deve sperare che le persone non escano incattivite dal carcere o dallo sconto di pena, ma consapevoli del danno e del dolore che hanno provocato. Parliamo di una popolazione carceraria composta in maggioranza da persone disagiate, che vivono condizioni di povertà o di dipendenza”. In Italia sono migliaia le realtà attive in ogni territorio: fanno attività educative dentro alle carceri e promuovono percorsi di reinserimento sociale e lavorativo. “Percorsi - conclude Favero - che garantiscono l’abbattimento della recidiva perché l’accompagnamento è fondamentale per il recupero”. Arriva la giustizia di comunità. Addio cella: semilibertà, domiciliari, Lpu, pene pecuniarie di Dario Ferrara Italia Oggi, 12 dicembre 2022 Dalla riforma le alternative al carcere fino a quattro anni: una nuova sfida per gli Uepe. Arriva un nuovo modello per la giustizia di comunità dalla riforma del procedimento penale che entrerà in vigore il 30 dicembre. È la risposta all’annoso problema dei “liberi sospesi”, vale a dire i soggetti ammessi finora a fruire delle misure alternative al carcere soltanto dopo molto tempo dal compimento del reato: le sanzioni che sostituiscono le pene detentive brevi, invece, sono ora comminate direttamente dal giudice della cognizione, all’esito di un’udienza di sentencing, secondo il modello anglosassone il tutto entro termini sicuramente più vicini ai fatti per i quali si procede. Le pene disponibili al posto di reclusione e arresto sono: semilibertà detenzione domiciliare lavoro di pubblica utilità pena pecuniaria. Sale da due a quattro anni il limite massimo di pena sostituibile. Vengono soppresse le misure della semidetenzione e della libertà controllata. Scattano la semilibertà e la detenzione domiciliare al posto del carcere entro il tetto di quattro anni di reclusione, mentre è previsto il lavoro di pubblica utilità in luogo della cella fino a tre anni. Raddoppia da sei mesi a un anno la soglia per la detentiva sostituibile con la pena pecuniaria. La durata di semilibertà e detenzione domiciliare è pari a quella della sanzione detentiva sostituita. Una grande sfida, dunque, per gli uffici per l’esecuzione penale esterna (Uepe), le strutture diffuse sul territorio chiamate a gestire i progetti per il reinserimento sociale dei condannati. Il tutto con una “forte spinta deflattiva” per ridurre il volume complessivo degli affari penali e decongestionare le carceri, grazie a “misure fortemente orientate alla risocializzazione”. Insomma: “Un cambio di passo decisivo per l’inveramento di un paradigma di giustizia di comunità al servizio di tutti i cittadini, della loro sicurezza e del loro benessere”, spiega la circolare 3/2022 emessa dalle competenti strutture del ministero di via Arenula, che fa il punto sulle modifiche apportate dal decreto legislativo 150/22 alla legge 689/81 oramai al countdown (salvo norme transitorie dell’ultima ora: al momento non figurano cambiamenti in materia negli emendamenti proposti dal Governo al decreto legge 162/22). Il tutto mentre il dicastero della Giustizia si prepara a implementare il portale per i lavori di pubblica utilità sul suo sito web. Rapporto flessibile. Addio alla semidetenzione in luogo del carcere fino a due anni. Sale a quattro anni il tetto di pena entro cui il giudice che pronuncia la condanna può decidere di applicare la semilibertà sostitutiva. E scende da dieci a otto ore al giorno la frazione minima della giornata da trascorrere in carcere: aumenta il tempo destinato allo svolgimento al trattamento rieducativo. È l’ufficio di esecuzione penale esterna competente per territorio che progetta, realizza e sostiene il percorso di reinserimento: la parte del giorno trascorsa fuori dal carcere risulta destinata allo svolgimento di attività di lavoro, studio, formazione professionale o comunque utili alla rieducazione. E spetta sempre all’Uepe il compito di assistere il condannato in libertà, oltre che vigilare su di lui. Cosa cambia rispetto alla misura abrogata e alla semilibertà come misura alternativa? Nel nuovo istituto i luoghi frequentati nelle ore all’esterno devono essere vicini al penitenziario, mentre i tempi da trascorrere dentro e fuori dall’istituto sono gestiti nell’ambito di un rapporto flessibile. E possono essere modificati in base alle esigenze di trattamento del condannato, fermo restando l’obbligo di trascorrere almeno otto ore nell’istituto di detenzione. Programma risocializzante. La detenzione domiciliare sostitutiva consente al condannato di rimanere nella sua abitazione privata per almeno 12 ore al giorno per giustificate esigenze di vita familiare, di salute, di lavoro, studio e formazione professionale. In alternativa ci sono comunità, case famiglia e altri luoghi di accoglienza o di cura, pubblici o privati. Rispetto agli spazi fisici la prassi deve adattarsi alle diverse esigenze degli interessati, in primis quando a dover scontare la pena sono le detenute madri. Il tutto in tempi anticipati rispetto a quelli dettati dalla concessione della omologa misura alternativa alla pena detentiva. Valorizzata la finalità rieducativa della pena: nella fase di condanna alla sanzione di maggiore utilità il giudice può ritenere determinante la presenza di un programma di trattamento individualizzato, elaborato dall’Uepe, che ne cura l’esecuzione e vigila sullo svolgimento. Il progetto risocializzante estende ai prevenuti, pur costretti a stare per diverse ore al giorno in un domicilio idoneo, la possibilità di restare all’esterno per intraprendere percorsi di studio, di formazione e di lavoro: una possibilità che invece risulta difficilmente consentita dall’omonima misura alternativa, che è gestita dalla magistratura di sorveglianza e privilegia le esigenze di custodia necessità, quest’ultima, che anche la nuova pena sostitutiva non trascura: da una parte, infatti, mutua dagli arresti domiciliari le condizioni di svolgimento per alcuni aspetti dell’esecuzione, perché non consente di abitare in immobili abusivi e rende possibile l’adozione del braccialetto elettronico dall’altra parte presta massima attenzione alla tutela della persona offesa, in particolare se è una donna e vittima di violenza domestica. E quando il condannato indica un domicilio che non risulta adeguato, compete all’ufficio esecuzione penale esterna individuare una soluzione abitativa, ad esempio una comunità: la misura sostitutiva, dunque, affronta un problema molto sentito nelle carceri italiane, piene di detenuti stranieri che devono scontare meno di quattro anni di carcere ma restano fra le sbarre perché non sanno dove andare. Servizi alla collettività. Per la prima volta il lavoro di pubblica utilità è introdotto come fattispecie sostitutiva della pena irrogata per qualsiasi reato entro i tre anni di carcere: consiste nello svolgimento di un’attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, le città metropolitane, i comuni oppure presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato il tutto, di regola, nella regione dove risiede il condannato. La prestazione è compresa tra sei e 15 ore la settimana, da eseguire con modalità che non pregiudicano le esigenze di lavoro, studio, famiglia e salute del prevenuto (che può chiedere al giudice di essere ammesso al Lpu anche per un tempo superiore). La durata dell’attività non può comunque superare le otto ore al giorno. E ai fini del computo della pena un giorno di Lpu consiste nella prestazione di due ore di lavoro. Il tetto massimo ordinario di lavoro settimanale risulta fissato in 15 ore in modo per consentire l’espiazione di un mese di pena detentiva in un mese di Lpu: 30 giorni di reclusione o di arresto corrispondono a 70 ore di prestazioni in favore della collettività, che possono essere svolte lavorando 15 ore alla settimana. Notevoli le conseguenze per il positivo svolgimento delle attività in caso di decreto penale di condanna oppure di patteggiamento: scatta la revoca della confisca, salvi i casi di ablazione obbligatoria, anche per equivalente, del prezzo, del profitto o del prodotto del reato oppure delle cose la cui fabbricazione, uso e porto, detenzione o alienazione costituiscono reato. Ma soltanto se il condannato ha provveduto a risarcire il danno o a eliminare le conseguenze dannose dell’illecito (quando è possibile). Risulta esclusa la revoca della patente di guida, analogamente a quanto previsto per la semilibertà e la detenzione domiciliare sostitutive: si tratta di un incentivo alla sostituzione della pena detentiva con il Lpu, con la correlata inappellabilità della sentenza, che riduce il numero dei procedimenti pendenti in secondo grado, e risponde all’esigenza dei condannati di spostarsi per svolgere l’attività lavorativa, hanno necessità della patente di guida per i propri spostamenti. Come accade nel sistema del giudice di pace penale, il Lpu può essere applicato soltanto con il consenso del condannato: pesa il divieto di lavori forzati o obbligatori di cui all’articolo 4 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La modernità impossibile del carcere senza diritti di Donatella Stasio La Stampa, 12 dicembre 2022 L’idea “giustizialista” della pena rivendicata dalla premier è incompatibile con i tempi. Meloni e Nordio vengano a guardare in faccia la realtà: non c’è rieducazione dove c’è sopruso. Il 21 dicembre - lo giurano - uscirà acqua potabile dai rubinetti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, tristemente noto per l’”ignobile mattanza” di detenuti andata in scena il 6 aprile 2020 nel reparto Nilo, il più moderno di questo parallelepipedo aperto nel 1996, fresco di costruzione avviata negli anni 80. Eccola qui la “modernità” penitenziaria, promessa da tutti i governi e puntualmente rilanciata dal guardasigilli Carlo Nordio, con tanto di commissario straordinario. A Santa Maria, la “modernità” non contemplava il preventivo allaccio alla rete idrica comunale e perciò gli ospiti del carcere hanno fatto a meno dell’acqua per 26 anni, arrangiandosi con bottiglie di minerale da due litri al giorno per lavarsi e dissetarsi, all’interno di reparti chiamati, paradossalmente, con il nome di fiumi: Senna, Tevere, Tamigi, Danubio... Il danno e la beffa. Non l’unica, di questa “moderna” galera che ha soppiantato il vecchio carcere borbonico e che si staglia in una landa desolata, disabitata, priva di trasporti pubblici, paludosa, infestata da insetti, dove, a pochi metri, giganteggia una discarica di rifiuti che costringe detenuti e poliziotti a convivere con esalazioni nauseabonde... Chissà se questo “altrove”, con i suoi 852 detenuti e 500 poliziotti, risponde abbastanza all’idea “giustizialista” del carcere, rivendicata dalla premier Giorgia Meloni. O se invece è “una deviazione dai principi minimi di civiltà giuridica su cui battersi fino alle dimissioni”, per usare le parole del ministro, ma sulle intercettazioni... E chissà se il “garantiste” Nordio verrà qui a Santa Maria per guardare in faccia la modernità, chiedere scusa, condividere una sconfitta che reclama un’assunzione di responsabilità collettiva, dimostrare che il carcere non è un “altrove” ma una porzione della Repubblica. E a battersi per tutto questo, fino alle dimissioni. Al ministro non può certo sfuggire che senza una piena condivisione del senso di comune appartenenza è impossibile “costruire” una pena sensata, rispettosa della dignità delle persone e della sicurezza collettiva. È impossibile la modernità. Lo hanno capito i “cittadini” del “Francesco Uccello” - detenuti, poliziotti, dirigenti, educatori, magistrati di sorveglianza - che nei giorni scorsi hanno messo in scena proprio il senso di comune appartenenza. Una coralità inedita a Santa Maria, da sempre specchio della cultura “giustizialista” del carcere, diciamo pure punitiva, quella che piace a Fratelli d’Italia, al punto da presentare subito, a inizio legislatura, una proposta di riforma della Costituzione (articolo 27) per ridimensionare la “funzione rieducativa” della pena, ritenuta un ostacolo alla sicurezza collettiva, addirittura un “valore tiranno” rispetto alla prevenzione, ha sentenziato il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. Luoghi comuni. La storia di Santa Maria è paradigmatica della condizione delle nostre carceri, moderne o antiche che siano, con 56.524 detenuti presenti al primo dicembre, 8.822 in attesa di giudizio di primo grado e 40.122 condannati definitivi, dei quali 8.200 con pene inferiori a 3 anni. Nei primi 11 mesi dell’anno sono morte 194 persone, e, di queste, 79 si sono suicidate, un numero di gran lungo superiore alla media di suicidi negli ultimi nove anni (44). Torino, Ivrea, San Gimignano, Sollicciano, Bari... l’emergenza diritti fondamentali è ovunque, fatte salve davvero poche eccezioni. L’invivibilità dei luoghi, l’assenza di connessioni con il territorio, il mancato rispetto della dignità umana allontanano qualunque seria prospettiva di rieducazione. Anzi, sono occasione di recidiva, come ben spiegano gli economisti Giovanni Mastrobuoni e Daniele Terlizzese sulle pagine dell’American Economie Journal: Applied Economics di ottobre. Con l’articolo “Leave the door open?”, gli autori analizzano la relazione tra condizioni carcerarie e recidiva e la risposta alla domanda del titolo è: sì, le porte vanno aperte per far respirare al carcere l’aria buona della Costituzione. I due economisti dimostrano che un anno trascorso in un carcere “aperto e umano” rispetto a un carcere “chiuso e duro” riduce la recidiva di 6-10 punti percentuali. Dunque, là dove il carcere è necessario, bisogna investire sulla Costituzione se davvero si vuole investire anche sulla sicurezza collettiva. Non è un’opinione ma un dato scientifico e qualunque governo, se fosse leale verso il Paese, dovrebbe muoversi di conseguenza. D’altra parte, uno dei maggiori filosofi liberali del diritto, Ronald Dworkin, ricordava che la violazione dei diritti umani “mortifica l’orgoglio, l’onore di una nazione” mentre il loro rispetto è the trump, la briscola, per vincere ogni partita, anche sulla sicurezza. Ecco, dunque, la vera questione politica e sociale: costruire una condivisa cultura costituzionale della pena. Ci provò, nel 2016, l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando con gli Stati generali sull’esecuzione penale, dando seguito al messaggio alle Camere inviato nel 2013 dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con il quale ammoniva “le istituzioni e la nostra opinione pubblica a non scivolare nell’indifferenza”. Solo dopo aver condiviso una solida “mentalità costituzionale” - così l’avrebbe chiamata Paolo Grossi, presidente emerito della Consulta - avrà senso progettare nuove carceri. Finché questa destra continuerà invece a coltivare una cultura “giustizialista” della pena, cavalcando slogan come “marcire in galera” o “buttare la chiave”, la modernità sarà sempre e solo un parallelepipedo in una landa desolata, un contenitore di corpi, un altrove esistenziale degradato, un “cimitero dei vivi”, per dirla con i Costituenti, reduci dalla galera del ventennio fascista. Ciò spiega l’indifferenza ultraventennale sulla mancanza d’acqua a Santa Maria, trasversale appunto a governi di destra e sinistra e nonostante le numerose denunce. Nel 2008, la radicale Rita Bernardini presentò all’allora guardasigilli Alfano un’interrogazione parlamentare implacabile, in cui ricordava che l’approvvigionamento idrico avveniva sfruttando alcuni pozzi, la cui acqua richiedeva continui interventi di potabilizzazione e che, da un monitoraggio delle falde acquifere della zona, da parte del Comando militare della Nato, era emerso che in quelle acque vi fosse la presenza di una concentrazione 50 volte superiore alla norma di batteri coliformi e di coliformi fecali. Nel 2017, il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma segnalò le pesanti ricadute sulla qualità della vita detentiva, sulla salute dei detenuti e sulla sicurezza dell’Istituto, chiedendo di affrontare la situazione “con la massima urgenza”. A Santa Maria i lavori per l’acqua sono partiti solo 25 anni dopo l’apertura del carcere, il 6 aprile 2021, con la promessa di terminarli in 300 giorni (ne sono già trascorsi 525)... L’anno prima, stesso giorno e stesso mese, si era consumata “l’ignobile mattanza” dei detenuti, come l’ha definita il Gip del Tribunale di Santa Maria. Per quei fatti, proprio in queste settimane si è aperto il dibattimento nell’aula bunker della Corte d’assise: 106 gli imputati, tra agenti, funzionari medici e dell’Amministrazione penitenziaria (Dap), per reati che vanno dalla tortura all’omicidio colposo, dall’abuso di potere al falso in atto pubblico. E decine di autorità potrebbero essere chiamate a spiegare l’inspiegabile: il silenzio, l’indifferenza, la mancanza di attenzione. Alessandro Margara, che per una vita è stato magistrato di sorveglianza e per un breve periodo capo del Dap, diceva che “il volto violento del carcere non si deve tenere segreto ma bisogna avere l’onestà di guardarlo fino in fondo, con lucidità”. Lo fecero Draghi e Cartabia, scesi a Santa Maria, nel pieno della bufera giudiziaria, per chiedere scusa, appunto, riconoscendo che “non c’è rieducazione dove c’è sopruso” e che “per far voltare pagina al carcere, bisogna guardarlo in faccia”. Faranno lo stesso Meloni e Nordio? Non è più tempo di indifferenza. Anche a Santa Maria vogliono voltare pagina e sarebbe un errore non cogliere il segnale che viene dalla cittadella carceraria dove, dopo il terremoto delle violenze del 2020, è saltata tutta la catena di comando e si fatica a trovare un equilibrio nuovo, un senso, persino un’identità. Il teatro ha offerto a tutti l’occasione per costruire una storia diversa da quella vissuta per 26 anni. La storia di una comunità. Detenuti, poliziotti, magistrati di sorveglianza, educatori, direttrice hanno lavorato insieme per più di un mese e il 25 novembre - al Teatro comunale di Caserta, di fronte a 400 spettatori tra cui i vertici giudiziari della Campania, poliziotti e parenti di detenuti - hanno portato in scena “Epoché (Sospensione)”, storia di detenzione, di speranza, di libertà, di riconciliazione. “Una straordinaria opera corale che racconta la voglia di riscatto e di cambiamento di noi tutti, qui in Campania”, dice Lucia Castellano, da agosto alla guida del Provveditorato delle carceri della Regione. Anima e regista dello spettacolo, un magistrato di sorveglianza, Marco Puglia, che nella notte del 6 aprile 2020 fece l’ispezione al Nilo, teatro della “mattanza”. Nella filosofia greca, Epoché era la sospensione avvertita come necessaria ogni qualvolta non vi fossero sufficienti elementi per giudicare. Qui è l’invito allo spettatore a non affrettarsi a giudicare chi è segnato dal marchio del carcere e ad ascoltare chi si sente spesso inascoltato. Il perché, Puglia lo spiega così: “Siamo tutti attori, nessuno escluso, del destino della nostra società. Solo esibendoci insieme possiamo plasmare e modellare questo destino, nel perseguimento del bene comune”. Insieme, appunto. Nordio: “La legge Severino va cambiata. I condannati in primo grado devono potersi candidare” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 12 dicembre 2022 Il ministro della Giustizia: il traffico d’influenze così non va, è un’intenzione vaga. Lo scandalo di Bruxelles per Paolo Gentiloni è la più drammatica storia di corruzione degli ultimi anni. Carlo Nordio, come ministro della Giustizia, concorda? “È sicuramente un fatto allarmante. Da autentico garantista attendo l’esito delle indagini. Ma, certo, la flagranza del reato e il possesso di fondi enormi ingiustificati, affievolisce il caposaldo della presunzione di innocenza”. Oltre ai singoli, coinvolge il Parlamento europeo... “È questa la cosa più brutta. Se verrà accertato occorrerà una riflessione sul modo in cui vengono approvati i provvedimenti. Per capire se è stata un’eccezione o ci sono precedenti nascosti. E far sì che non accada più”. Sì, ma come? “La ricetta è sempre la stessa: semplificare le procedure e individuare singole competenze e responsabilità. Il groviglio consente a intermediari di intervenire nell’ombra”. Quale lezione possiamo trarre da questa vicenda? “Che la corruzione c’è da sempre, come narrano Cicerone e Lisia. E dappertutto, come dimostrò la vicenda Lockheed, nata in Olanda”. Ma da noi ce n’è di più? “In Italia è più diffusa e capillare perché facilitata da un potere diffuso. La discrezione sconfina con l’arbitrio che spinge a oliare serrature altrimenti chiuse. La percezione da noi è 10 volte più alta. Non è un caso. A fronte di una media europea, a spanne, di 25mila leggi ne abbiamo 250.000. Più lo Stato è corrotto più sforna leggi”. Non insegna anche che le intercettazioni servono ed è pericoloso depotenziarle? “Al netto di quelle per reati di mafia e terrorismo, che non vanno toccate, la norma va modificata: c’è un problema di divulgazione e uno puramente economico, perché vengono spesi centinaia di milioni che potrebbero essere utilizzati per altro, e producono pochi risultati”. La norma è appena stata modificata in modo restrittivo. Perché non basta? “Se intercettazioni estranee al reato e che coinvolgono fatti privati finiscono sui giornali evidentemente non basta. E poi le intercettazioni devono essere uno strumento di indagine e non una prova”. A Bruxelles sono sui giornali. E non ne è nato un caso. Anzi... “Per quanto si è capito, lì è esattamente accaduto ciò che è avvenuto a Venezia sul Mose. Anche noi abbiamo utilizzato intercettazioni. Ma la prova erano i soldi trovati”. Ma l’accesso alle notizie è garantito. Qui, dopo la riforma Cartabia, i magistrati rischiano il procedimento disciplinare. Non è eccessivo? “Non l’abbiamo fatta noi. In effetti il pendolo che ha a lungo oscillato verso la divulgazione forsennata ora è completamente dall’altra parte”. E quindi? “Va rimodulata la norma per conciliare il diritto all’informazione dei cittadini e quello dei singoli a non veder divulgate notizie segrete e intime che li riguardano. Per ripristinare una par condicio di informazione tra le parti”. Perché non lo fate subito? “Siamo apertissimi a cercare un punto d’incontro tra diritto all’informazione e limiti alla graticola mediatica. Sono pronto ad aprire un tavolo di confronto tra rappresentanti dell’Anm, dell’avvocatura e del giornalismo, anche domani”. Non è incongruente la stretta sulle intercettazioni e il decreto sui Rave che le prevede per i ragazzi? “Le intercettazioni non sono obbligatorie. E spero ne facciano poche o affatto”. Non sono troppi sei anni? “La pena rischiava di essere inferiore a quella per invasione di terreni aggravata. Sarebbe stata una contraddizione”. Con l’allarme appetiti della criminalità sui fondi del Pnrr è il caso di rimettere mano alla legge Severino? “Abbiamo ricevuto sollecitazione dall’Anci, e l’apertura del Pd, per abolire o modificare radicalmente abuso d’ufficio e traffico di influenze”. Il traffico di influenze non è il primo passo contro la corruzione chiesto dall’Ue? “Sì, ma l’Ue non ha chiesto una norma inadeguata che manca di tassatività e specificità facendo sì che tutti possano essere indagati ma quasi nessuno condannato. E poi leggendola non si capisce il reato che descrive, c’è solo un’intenzione vaga di punire il lobbismo”. Pensa che invece servirebbe una legge sulle lobby? “Sì. E poi ci sono altre parti della Severino che non funzionano”. A quali si riferisce? “Occorre far sì che la norma sull’incandidabilità non venga applicata ai condannati in primo grado”. Cioè tornerebbero candidabili i condannati? “In primo grado sì. Altrimenti la norma confliggerebbe con la presunzione di innocenza. L’incandidabilita dovrebbe scattare dalla sentenza di appello in poi”. Anche per chi ha commesso reati gravi? “Su questo si può discutere. Certamente la norma non può essere applicata retroattivamente perché è pur sempre un provvedimento afflittivo, visto che chi è in carica vuole rimanerci. Comunque su questo ci sono idee trasversali diverse. Credo che dobbiamo fare un dibattito trasparente e senza pregiudizi”. Non è stato un errore escludere i reati di corruzione dall’ergastolo ostativo? “Abbiamo seguito le indicazioni della Corte Costituzionale. In ogni caso una norma così severa va limitata a reati gravissimi”. Lei è tornato a parlare anche di separazione delle carriere. Perché è urgente? “Non lo è. È un obiettivo a cui tendere. Ma necessita di tempi molto lunghi perché prevede una revisione costituzionale. In questo momento dobbiamo dedicarci a cose meno divisive come l’efficienza della giustizia”. Incontrerà l’Anm che l’ha criticata? “L’ho già incontrata. Queste riforme erano già state anticipate. È stata trascurata la prima parte della mia relazione, proprio quella relativa all’efficienza della giustizia”. Alla luce delle indagini di Bruxelles è il caso di trattare con Paesi a rischio diritti umani, come il Qatar che, a Priolo, è in corsa con gli Usa per acquistare la Lukoil? “È un problema politico di livello più alto. Non compete al ministro della giustizia”. Ha annunciato interventi sul carcere. Quali? “Sto cercando di ottenere parte del tesoretto per devolverlo a polizia penitenziaria e usarlo per i detenuti: l’aiuto psicologico a chi è a rischio suicidio e il lavoro. Serve un intervento sulle strutture anche se le risorse sono scarse”. E allora come? “Con pochi soldi per la ristrutturazione si possono utilizzare le caserme dismesse per detenuti in attesa di giudizio o con reati minori. La migliore socializzazione è il lavoro”. Matteo Renzi: “Giustizia, sto con Nordio. Sanzioni al pm che sbaglia” di Ernesto Menicucci Il Mattino, 12 dicembre 2022 Il leader di Iv: “Interventi disciplinari per chi viola il segreto istruttorio”. Presidente Renzi, avrà letto l’intervista di Nordio al Messaggero. Quanta parte ne condivide? “Dire tutta può sembrare esagerato. E allora mi limito a dire che condivido lo spirito del ministro anche nel metodo, non solo nel merito. E quando Nordio dice al vostro giornale che “più i fanatici faranno del loro peggio, più cercherò di fare del mio meglio” mi congratulo con lui. Perché si può essere su fronti diversi ma non si può non apprezzare lo stile e la serietà di un simile approccio”. Nel merito: registro degli indagati reso segretissimo. Sì o no? “Sì, ma non è questo il punto. Il problema per me è: se c’è un segreto, perché chi lo viola non paga mai? Politico, giornalista, magistrato: nessuno paga mai. Nel mio caso il segreto istruttorio è stato violato in modo reiterato e ripetuto. E non ha pagato nessuno. E in alcune vicende - come quella ormai celebre dell’Autogrill - il segreto calpestato è addirittura il segreto di Stato, la cui divulgazione sarebbe in teoria punita con sanzioni durissime. Allora la vera questione diventa: chi paga per la violazione del segreto?”.  Le intercettazioni: giusto cambiarle? E lei come lo farebbe? Le indagini verrebbero danneggiate da una limitazione sulle intercettazioni? “Nordio spiega molto bene il punto. Partiamo da due assunti talmente solari da essere ovvi. Il primo è che le intercettazioni servono. Il secondo è che l’abuso delle intercettazioni costituisce un segno di inciviltà giuridica. Quando si procede con quella che i tecnici chiamano “pesca a strascico”, ad esempio, si ledono i diritti fondamentali della persona. La Cassazione, nel caso Open, ha parlato di “inutile sacrificio di diritti”. Però i pm che hanno proceduto in quella direzione non sono stati puniti. Anzi: uno di loro si è permesso di non ottemperare alla sentenza della Cassazione. E i colleghi di Genova, con fare corporativo, hanno assecondato questo atteggiamento. Allora va benissimo cambiare le leggi. Ma nel frattempo, perché non rispettiamo le norme che già ci sono? Perché non si interviene mai, quantomeno a livello disciplinare?”.  Come è possibile snellire i procedimenti giudiziari, sia penali che civili? “La strada di individuare “dirigenti di grande capacità manageriali”, come dice Nordio, è quella giusta. Ovviamente la palla tocca anche e soprattutto al Csm. Speriamo che il nuovo Csm, la cui entrata in carica è stata vergognosamente posticipata per colpa della politica e non dei magistrati, sia all’altezza del compito. Aggiungo che ci sono molti esempi di grande efficienza in tanti uffici giudiziari del nostro Paese. Guai insomma a buttare via il bambino con l’acqua sporca”.  Sarebbe favorevole alla responsabilità civile e penale dei magistrati per sentenze palesemente sbagliate? “Mi piacerebbe una responsabilità contabile più che penale: chi paga il conto di indagini infinite e processi inutili? Tuttavia so che non è facile intervenire sulla responsabilità dei magistrati, anche per ragioni comprensibili. E allora mi limito a dire: mi basterebbe avere un sistema in cui si va avanti perché si è bravi, indipendentemente dalla corrente. E se si viola palesemente una norma o una sentenza, nel mio caso è capitato, quantomeno vi sia una responsabilità disciplinare degna di questo nome. Se non si può fare la responsabilità civile o penale o contabile dei magistrati, almeno che ci sia una seria sanzione sulla carriera. Perché la verità è che le prime vittime dell’irresponsabilità di alcuni, pochi pm, insieme agli imputati sono i colleghi, gli altri magistrati. È un intero sistema che viene messo sotto accusa per colpa degli errori di pochi. Io ne parlo a lungo ne “Il Mostro” su casi come quello di Open o per le vergognose indagini sulla tragedia del povero David Rossi a Siena: certe scelte di alcuni pm rischiano di gettare discredito sull’intera magistratura italiana”.  Lei ha detto che “se a Nordio verrà consentito andare avanti, noi siamo con lui”. Si aspetta altre adesioni da parte delle opposizioni? “Noi del Terzo Polo ci siamo. I grillini ovviamente no. Rimane il nodo del Partito Democratico che un tempo era garantista e per il momento si è posizionato su una linea giustizialista folle. Sono sicuro che dopo il Congresso il Pd cambierà posizione. Ma la verità è che anziché dividersi sulle idee di Renzi, loro al congresso dovrebbe discutere le idee di Nordio, non quelle di Renzi. La frontiera tra garantismo e giustizialismo separa due visioni culturali della società che sono agli antipodi: difficile pensare di essere credibile se anche in questo settore non si ha il coraggio delle idee. Sogno un Pd che in Aula vota a favore della riforma Nordio come farà il Terzo Polo”.  Pensa invece che ci saranno resistenze nella maggioranza? E se sì, da parte di chi? “Vediamo. Utilizzando un’espressione poco giuridica e poco tecnica, mi pare di poter dire che Nordio ha messo il carico sulla riforma. Sentirlo in Commissione così lucido e motivato - pronto a battersi fino alle dimissioni - mette oggettivamente in riga la maggioranza. I giustizialisti, che pure nella destra più estrema non mancano, non potranno far venire meno il loro supporto. E Forza Italia per la prima volta può sostenere una riforma garantista e liberale senza l’accusa di farlo per ragioni “ad personam”. Insomma, io sono molto ottimista sul fatto che Nordio avrà i numeri. La sua scelta è al momento la scelta migliore che Giorgia Meloni ha fatto. Noi siamo contro il Governo su molti temi, dalla politica economica all’abolizione folle della 18app. Ma sulla giustizia ci siamo”. Magistrati in campo contro Nordio, da Davigo a Flick: “Ma ha mai fatto il pm?” di Angela Stella Il Riformista, 12 dicembre 2022 Non si placano le polemiche in merito alle linee programmatiche illustrate dal Ministro della Giustizia Carlo Nordio alle Commissioni giustizia di Senato e Camera. Come ha scritto ironicamente - ma non tanto - Filippo Facci, “la nazionale magistrati ha dimostrato di avere la panchina lunghissima: ieri allo stadio Giornaloni (Corriere-Repubblica-Stampa) è stata schierata la formazione Rebibbia, composta da giornalisti e forcaioli che indossavano la maglietta ‘Black Toga Matters’”. Aveva poi precisato: “Informazione di servizio: si avvisa che la prevista disamina degli articoli del Fatto Quotidiano è rinviata a data da destinarsi”. Noi lo abbiamo letto e vi abbiamo trovato, dopo l’editoriale di Travaglio “Corea del Nordio”, un pezzo di Piercamillo Davigo ingaggiato o autopropostosi per criticare le previsioni di riforma del Guardasigilli in materia di intercettazioni. Per lui si tratta di “affermazioni in parte errate e in parte vaghe e superficiali”. Da Repubblica è stato l’ex presidente della Consulta Giovanni Maria Flick a criticare la direzione segnata dal suo ex collega: “Non mi piace più come ministro della Giustizia dopo i suoi discorsi in Parlamento”. Per Flick, l’attacco di Nordio soprattutto al lavoro dei pubblici ministeri si spiegherebbe così: “Ne parla troppo male per non ingenerare il sospetto di un inconscio freudiano e di una latente rivalsa”. Due giorni fa era stato un altro ex magistrato, Armando Spataro, dalle pagine de La Stampa a prendersela con Nordio, con un pezzo dal titolo “Il solito progetto salvifico berlusconiano che finirà per sottoporre i pm ai politici”. Si è chiesto Spataro: “Ma questo ministro ha mai svolto il lavoro di magistrato o è sempre stato un politico di professione?”. L’unico a mostrare una apertura a Nordio è stato Luciano Violante, ex presidente della Camera ed ex magistrato, dalle pagine dei Quotidiano Nazionale: “I magistrati discutano con freddezza e avanzino proposte. Non si può negare un certo arbitrio nell’esercizio dell’azione penale. Sì alla riforma delle intercettazioni. Le norme ci sono, applichiamole”. Ma intanto sono i magistrati ancora in funzione a richiamare il Ministro della Giustizia all’ordine: i consiglieri di AreaDg al Consiglio Superiore della Magistratura - Giuseppe Cascini, Elisabetta Chinaglia, Alessandra Dal Moro, Mario Suriano e Giovanni Zaccaro - hanno inviato al Comitato di presidenza una richiesta: il Csm convochi un plenum con Nordio per un “confronto istituzionale sulle ricadute delle riforme proposte sulla organizzazione del sistema giudiziario e sulla efficacia della azione di contrasto alla criminalità”. Nell’istanza, i consiglieri sottolineano la necessità di un confronto alla luce delle dichiarazioni del Guardasigilli in Parlamento, nelle quali “ha manifestato l’intenzione del Governo di procedere ad interventi molto incisivi sull’assetto ordinamentale del pubblico ministero e sulla utilizzazione delle intercettazioni come strumento di indagine”. E va inoltre considerato, hanno concluso i consiglieri, che “le riforme annunciate avrebbero un rilevante impatto sul funzionamento del sistema giudiziario, e in particolare sulla indipendenza dei magistrati del pubblico ministero e sulla efficacia delle attività di indagine”. Dal campo politico è arrivato l’attacco da parte del Movimento Cinque Stelle, attraverso una nota di Stefania Ascari, Anna Bilotti, Federico Cafiero De Raho, Valentina D’Orso, Carla Giuliano, Ada Lopreiato e Roberto Scarpinato, rappresentanti M5S nelle commissioni Giustizia di Camera e Senato: “La Giornata internazionale contro la corruzione si celebra a poche ore dall’illustrazione dell’inquietante piano di riforma della Giustizia esposto dal ministro Nordio e dalla maggioranza. Il loro è un autentico attacco alla magistratura e a tutto l’impianto a difesa della legalità, con particolare attenzione a non disturbare più i colletti bianchi protagonisti dei reati di corruzione e concussione”. In difesa di Nordio Raffaella Paita, presidente del Gruppo Azione-Italia Viva in Senato che con un tweet ha risposto alla nota del Pd che teme che una questione come la separazione delle carriere possa essere troppo divisiva: “La collega Serracchiani si dice preoccupata per le posizioni espresse dal Ministro Nordio. Io sono preoccupata che i principi di civiltà che Nordio vuole difendere non siano condivisi da lei e dal Pd”. La rivoluzione di Nordio: ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il Governo di David Allegranti publicpolicy.it, 12 dicembre 2022 Riforma delle intercettazioni, della carcerazione preventiva, dell’obbligatorietà dell’azione penale. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha annunciato, la settimana scorsa, un’autentica rivoluzione. Tant’è che da opposizione e magistrati sono arrivate molte critiche e risposte stizzite, compreso il grande classico: così si aiutano le mafie, così si attacca la democrazia, così si vogliono colpire i magistrati. Nordio è un sincero liberale, per questo avevano destato preoccupazione nelle ultime settimane le decisioni in materia di giustizia (decreto anti invasione, rilancio dell’ergastolo ostativo). Ma su separazione delle carriere, intercettazioni e altri incistati bubboni italiani il ministro ha assunto posizioni nette in linea con il suo pensiero, argomentato da anni. Come quando ha detto, parlando di intercettazioni, che attraverso la “diffusione selezionata e pilotata” esse sono diventate “strumento micidiale di delegittimazione personale e spesso politica”. Dalle procure, infatti, le intercettazioni finiscono magicamente sui giornali, anche o forse soprattutto quando sono penalmente non rilevanti. Il ministro ha poi proposto una riforma della custodia cautelare, “proprio perché teoricamente confligge con la presunzione di innocenza, non può essere demandata al vaglio di un giudice singolo. È vero che però, poi, interviene il tribunale del riesame. Nondimeno, anche a prescindere dal condizionamento rappresentato da un provvedimento preesistente, l’intervento collegiale può rimuovere il danno che è stato fatto, ma non quello che è già stato ingiustamente patito”. Circa mille persone all’anno vengono incarcerate, persone che poi risulteranno poi essere innocenti: dal 1992 al 31 dicembre 2020 si sono registrati 29.452 casi. L’Italia è il quinto Paese dell’Unione europea con il più alto tasso di detenuti in custodia cautelare: il 31 per cento, un detenuto ogni tre. La giustizia ingiusta, peraltro, è un salasso per lo Stato: i 750 casi di ingiusta detenzione nel 2020 sono costati quasi 37 milioni di euro di indennizzi. Dal 1992 a oggi lo Stato ha speso quasi 795 milioni di euro. Le reazioni alle parole di Nordio sono state significative, ancorché prevedibili. Walter Verini, già responsabile Giustizia del Pd, ha detto che il ministro, “con il senso politico, inquietante, di questa relazione, ha deciso di ricominciare la guerra politica e magistratura. Ha riaperto una pagina, quella della guerra dei trent’anni, che pensavamo fosse archiviata”. Non è una posizione isolata. È la posizione del Partito democratico, pronto a non appoggiare le riforme di Nordio, mentre Italia viva ha già dato il suo assenso. Fa eccezione nel Pd la presa di posizione di Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, per il quale “il garantismo è il fondamento dello Stato di diritto. Le proposte di Nordio, rafforzamento della presunzione d’innocenza, separazione delle carriere tra pm e giudici, stop all’abuso della carcerazione preventiva e intercettazioni, vanno sostenute. Stop al giustizialismo di destra e di sinistra”. La risposta del M5s è naturalmente la più scontata: una netta contrarietà, condita dai soliti commenti apocalittici sulle ferite alla democrazia e alla magistratura: “La Giornata internazionale contro la corruzione si celebra a poche ore dall’illustrazione dell’inquietante piano di riforma della Giustizia esposto dal ministro Nordio e dalla maggioranza. Il loro è un autentico attacco alla magistratura e a tutto l’impianto a difesa della legalità, con particolare attenzione a non disturbare più i colletti bianchi protagonisti dei reati di corruzione e concussione”, hanno detto Stefania Ascari, Anna Bilotti, Federico Cafiero De Raho, Valentina D’Orso, Carla Giuliano, Ada Lopreiato e Roberto Scarpinato, rappresentanti del M5s nelle commissioni Giustizia di Camera e Senato. Resta da capire quanto di quello che ha detto Nordio sarà effettivamente attuato. Quanto la sua maggioranza lo sosterrà, nonostante le prime rassicurazioni in merito, soprattutto di Giorgia Meloni, che ha spiegato come le posizioni di Nordio siano quelle del Governo. Il che non esaurisce le contraddizioni e le incoerenze dell’attuale Esecutivo. Secondo il presidente dell’Unione Camere Penali Giandomenico Caiazza, Nordio “siede su un ossimoro esplosivo, che prima o poi detonerà: siamo garantisti sul processo - ama dire la presidente Meloni, che pure è una donna intelligente - e giustizialisti sulla esecuzione della pena. Questa sì, una bestemmia, e staremo a vedere come il nostro Carlo se la sbroglierà”. C’è il rischio, infatti, che Nordio possa essere strumentalmente usato come bandierina o, peggio, foglia di fico per celare pulsioni identitarie sulla giustizia, poco compatibili con il profilo liberale che l’ex procuratore sulla carta rappresenta. Il manifesto di Nordio e la bancarotta della giustizia di Claudio Martelli Gazzetta del Mezzogiorno, 12 dicembre 2022 Per chi non lo sapesse l’attuale ministro della giustizia, Carlo Nordio, è un magistrato oggi in pensione che ha esercitato il ruolo di pubblico ministero per circa quarant’anni. All’esperienza istituzionale è venuto poi accompagnando una pregevole attività pubblicistica affidata a libri, saggi, relazioni a convegni con i quali ha espresso la sua ben argomentata e impietosa critica alla progressiva degenerazione dell’amministrazione della giustizia in Italia. In particolare il suo ultimo libro, “Giustizia, ultimo atto”, compendia in una ricostruzione storica accurata le cause e le responsabilità del dissesto e del terribile discredito in cui è precipitata. Con un approccio liberale e in una prosa elegante impreziosita da rimandi letterari che ne rendono piacevole la lettura anche ai non esperti, Nordio non si limita a passare in rassegna fatti e misfatti che da quarant’anni - dal caso Tortora, all’inchiesta Mani Pulite al caso Palamara - hanno via via corroso la giustizia italiana e azzerato la sua credibilità, ma è risalito all’origine di molti dei mali che l’affliggono e che ci affliggono. Diventato prima parlamentare poi ministro della giustizia per volontà di Giorgia Meloni, Nordio è però inciampato in un incidente probabilmente dovuto alle pressioni dei suoi colleghi di governo (immaginiamo in particolare del ministro degli interni) e alla fretta di dare un segno di severo decisionismo. Si tratta del decreto contro i raves - raduni di giovani e non giovani in luoghi pubblici e aperti macchiati da consumo di droghe, alcol e in alcuni casi da devastazioni. Un’iniziativa non necessaria, tantomeno urgente, visto che l’occasione di un imminente rave in quel di Modena che l’aveva suggerita era stata opportunamente e tranquillamente sospesa in base alle leggi vigenti. Un’iniziativa in contraddizione con le convinzioni di Nordio e con la sua battaglia contro il pan penalismo, ovvero contro l’abnorme produzione di sempre nuove leggi destinate a complicare, confondere, intasare un tessuto normativo già sovrabbondante e pericolosamente intricato. Nondimeno, dopo aver parzialmente corretto il testo del decreto il ministro ha sentito il bisogno di fornire un chiarimento generale del suo punto di vista esponendo il suo programma di riforme in un discorso/manifesto illustrato al Senato della Repubblica. E qui abbiamo ritrovato il vero Nordio e la costanza delle sue convinzioni più fondate e radicate. Prima tra tutte, in ordine di importanza e per la cascata di conseguenze indesiderate che trascina con se, egli ha posto la necessità di riconsiderare e riformulare l’articolo 112 della Costituzione che stabilisce che “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. Questa formulazione icastica, rigida e perentoria è stata ed è fonte di problemi insormontabili. Per esempio, come può, concretamente, ogni singolo pubblico ministero perseguire tutti i reati di cui ha notizia? Si tratta con tutta evidenza di un compito impossibile ma, d’altra parte, non esiste una legge che stabilisca quali reati debbano essere perseguiti in via prioritaria. L’effetto combinato di un’impossibilità pratica e di una omissione legislativa assegna al pubblico non un assoluto obbligo ma un assoluto arbitrio. La Costituzione non è chiara e univoca anche per quel che riguarda l’indipendenza del Pubblico Ministero. Nell’articolo 107 per un verso la riconosce nelle giurisdizioni speciali per altro nel comma successivo ne delega la definizione alla legge ordinaria cui nessuno ha mai nemmeno osato por mano. Ebbene, quali sono le conseguenze di questo disordine costituzionale? Mentre il 90 per cento dei reati resta impunito, il 40 per cento delle accuse sollevate dai PM cade per assoluzione già in primo grado o perché il fatto non sussiste, o perché l’imputato non l’ha commesso, o per insufficienza di prove. Nel suo discorso Nordio non ha mancato di denunciare anche l’abuso della carcerazione preventiva, delle intercettazioni telefoniche e degli stessi avvisi di garanzia trasformati in condanne preventive - “coltellate alla schiena” li chiamava Giovanni Falcone il più probo e il più grande di tutti i nostri magistrati. Puntuale è insorta la canea dei soliti giornali e giornalisti mozzaorecchi accusando Nordio di voler demolire la Costituzione con un discorso sgangherato, macchiettistico, odioso, classista degno di un Nerone. Vedremo se anche questa volta avranno partita vinta. La giustizia e il modo d’intenderla della magistratura di Pietro Di Muccio de Quattro L’Opinione, 12 dicembre 2022 Il nuovo ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha esordito con un encomiabile atto di riguardo verso il Parlamento. Ha comunicato in dettaglio al Senato ed alla Camera le riforme che il Governo intende apportare all’ordinamento giudiziario e ai codici. Contrariamente a certi suoi predecessori, i quali o esponevano fumisterie generali o proponevano minute variazioni, egli ha argomentato un corposo programma di modifiche idonee a raddrizzare le principali storture del sistema italiano. La presa di posizione del ministro Nordio è stata subito giudicata secondo l’alternativa faziosa destra-sinistra, maggioranza-opposizione, garantismo-giustizialismo, come se non fosse interesse comune, interesse nazionale, una giustizia secondo diritto. Il programma di Nordio non è stato esaminato con serenità, concedendo al ministro almeno l’esimente della buona fede. Quelle cose, più o meno, le andava dicendo da un pezzo. Quella impostazione di massima era ben nota. Il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, lo ha messo lì al ministero proprio perché Nordio la pensava così e dimostra di continuare a pensarla allo stesso modo. E vuole andare fino in fondo o dimettersi. L’Italia è forse l’unico Paese dove, per indicare l’aspirazione ad una giustizia degna del nome, bisogna rafforzare il sostantivo con l’aggettivo: giustizia giusta. L’articolo 111 della Costituzione, introdotto soltanto nel 1999, è tutto dire, stabilisce con involontaria ironia che “la giurisdizione si attua mediante giusto processo regolato dalla legge”. Agli italiani non basta la giustizia così com’è perché ne scorgono l’ingiustizia, non intesa come somma delle ingiustizie episodiche nei casi concreti, bensì come sistema con molte distorsioni che non fanno collimare perfettamente l’amministrazione della giustizia con un assetto liberale. È singolare e significativo che i giornali, ahimè, tra le tante complesse direttrici di riforma delineate dal ministro hanno focalizzato l’attenzione, e i titoli, sulle intercettazioni telefoniche, punto nodale della faziosità sparata con fughe di notizie penalmente rilevanti e irrilevanti, politicamente utili e inutili, semplicemente pettegole o pruriginose, una gogna mediatica irrogata alla faccia di qualsivoglia protezione costituzionale, concezione di riservatezza, codici deontologici, rispetto umano. Il giudicare in pubblica udienza è stato il passo gigantesco che seppellì l’obbrobrio del processo segreto. Ma l’investigazione, l’istruzione del processo, la formazione dell’accusa non devono squadernare i fatti di causa coram populo per scopi di parte che nulla hanno a che vedere con la sostanza del processo, con la dovuta cronaca e l’informazione corretta. Come pretende chi campa su un’equivoca concezione del potere della stampa e del suo esercizio a fini di lotta politica. L’Associazione nazionale magistrati, parlando per bocca del segretario generale, non contesta, ovviamente, la legittimità di una riforma della giustizia ma è preoccupata dal quadro delle riforme preannunciate dal ministro Nordio. L’Anm, ovviamente, ha un qualificato diritto di parola sull’argomento. Tuttavia, esprime un giudizio più che opinabile allorché, nell’auspicare che non venga toccata, parla di “architettura costituzionale del potere giudiziario”, mentre per la Carta costituzionale “la magistratura costituisce un ordine autonomo” (articolo 104), non quindi un potere o organo di potere, neppure come Consiglio superiore della magistratura. Inoltre, altrettanto più che opinabile, è l’affermazione secondo cui “l’obbligatorietà dell’azione penale e l’unità delle carriere sono i due pilastri di questa architettura”. Detto sommessamente, i due “pilastri” possono sembrare tali se la magistratura viene male intesa come “potere” anziché bene intesa come “ordine”. E che i due pilastri non siano tali sembra dimostrato pure dal fatto che rappresentano una specialità italiana piuttosto che un carattere imprescindibile e connaturato alla vera giurisdizione in quanto tale. Tant’è che gli Stati dove impera per Costituzione l’habeas corpus, esempi terreni di giustizia liberale (in passato tentammo invano di imitarli con il codice Vassalli del 1989 e la riforma costituzionale del 1999), non conoscono né l’uno né l’altro “pilastro”. Per una coincidenza non casuale, nel novembre scorso Carlo Nordio, inaugurando la nuova collana intitolata “Voltairiana”, ha dato alle stampe con l’Editore Liberilibri il libriccino “Giustizia” in cui espone i capisaldi della sua filosofia giudiziaria, sunteggiabili nella conclusione “Princìpi liberali per una riforma radicale”. Sarà la volta buona o prevarrà ancora la tirannia dello status quo? Forza Italia riapre lo scontro dopo 20 anni: “Commissione d’inchiesta su Mani Pulite” di Lorenzo De Cicco La Repubblica, 12 dicembre 2022 Presentato un ddl in cui si cita un’intervista di Di Pietro: “Ho fatto una politica sulla paura delle manette”. Un’altra manina della maggioranza schiaccia sul tasto rewind. Forza Italia vuole una commissione d’inchiesta su Tangentopoli. Il nastro scorre veloce a vent’anni fa, allo scontro fra politica e magistratura. Cavallo di battaglia del berlusconismo rampante tra gli ultimi anni ‘90 e i primi 2000. Rieccoci. Dopo le picconate del Guardasigilli Carlo Nordio sulla separazione delle carriere, le intercettazioni “inutili”, l’obbligatorietà dell’azione penale bollata come “intollerabile arbitrio”, ecco un altro tassello del puzzle: la commissione parlamentare su Mani pulite. La propone il partito di Silvio Berlusconi. C’è già un disegno di legge presentato a Montecitorio, prima firma di Alessandro Battilocchio, parlamentare di lungo corso, ex socialista, vicino a Gianni De Michelis all’epoca del Nuovo Psi. Non è un’iniziativa solitaria, però. Lo conferma Alessandro Cattaneo, capogruppo di FI alla Camera. Dice Cattaneo: “È giusto riaprire quel dossier per consegnare alla storia questa pagina della nostra Repubblica, senza gli eccessi dell’epoca. Le commissioni d’inchiesta hanno funzionato bene, da quella su David Rossi a quella sul sistema bancario. Può essere un valore aggiunto farla oggi su Tangentopoli. Tempo fa, visto il mainstream, sarebbe stato impensabile”. E infatti Forza Italia ci provò anche vent’anni fa. Tra il ‘98 e il ‘99 la propose il Polo, incassando l’appoggio di socialisti e cossighiani, ma non se ne fece nulla. Ora, visto il clima, il tentativo ha sicuramente più chance. La proposta depositata a Montecitorio muove da alcune dichiarazioni di Antonio Di Pietro estrapolate da un’intervista tv del 2017. “Ho fatto una politica sulla paura e ne ho pagato le conseguenze. (...) La paura delle manette - è il breve estratto riportato nel ddl - . Con l’inchiesta Mani pulite si è distrutto tutto ciò che era la cosiddetta Prima Repubblica: il male, e ce n’era tanto con la corruzione, ma anche le idee”. Parole che Forza Italia piega alla ragione politica. Ci sarebbe la necessità a questo punto, si legge nell’atto parlamentare, di “un approfondimento”: “La “paura delle manette”, a cui l’ex magistrato fa riferimento, potrebbe essere stato uno strumento di “politica giudiziaria” in mano alla magistratura. Come tutto questo ha influito sulle dinamiche di creazione e condotta della cosiddetta Seconda Repubblica?”. La proposta è dunque un contro-processo, politico, che si allungherebbe dai primi anni ‘90 fino alla lunga coda politica e istituzionale di Tangentopoli, cioè la stagione berlusconiana. La commissione dovrà “verificare quanto le vicende di quegli anni abbiano influito nell’alterare la politica e la società italiana”. Come per tutti gli organismi parlamentari d’inchiesta, un gruppo di deputati e senatori, se il testo venisse approvato, avrebbe “gli stessi poteri e le medesime limitazioni dell’autorità giudiziaria”. E potrebbe convocare gli ex pm. Compreso Di Pietro. Gattopardi e nostalgici che vogliono riscrivere la storia di Tangentopoli di Miguel Gotor La Repubblica, 12 dicembre 2022 Fermo restando il diritto di un singolo deputato a chiedere l’istituzione di qualsivoglia commissione d’inchiesta sarebbe saggio che il Parlamento non desse seguito a questa istanza per due buone ragioni. Nelle ore in cui una presunta vicenda di corruzione si abbatte sul Parlamento europeo, un deputato di Forza Italia, Alessandro Battilocchio, chiede l’istituzione di una Commissione di inchiesta su Tangentopoli. A quanto pare non si tratta dell’iniziativa estemporanea di un singolo parlamentare, legato alla cultura politica socialista di derivazione craxiana e alla poco fortunata esperienza del Nuovo Psi, dal momento che il capogruppo di Forza Italia Alessandro Cattaneo avrebbe condiviso la proposta. Le intenzioni sono bellicose e appartengono all’armamentario nostalgico e reducista tipico di quella parte della famiglia socialista che, dal 1994 in poi, ha trovato usbergo sotto l’ala protettiva di Berlusconi in alleanza con la destra post-fascista oggi al governo. Costoro continuano a considerare Mani Pulite alla stregua di un golpe mediatico-giudiziario che sarebbe stato ordito da un manipolo di magistrati al servizio, indifferentemente, di poteri forti stranieri o nazionali secondi le versioni più o meno militanti. Fermo restando il diritto di un singolo deputato a chiedere l’istituzione di qualsivoglia commissione d’inchiesta sarebbe saggio che il Parlamento non desse seguito a questa istanza per due buone ragioni. Anzitutto perché sono trascorsi trent’anni dai fatti e la Commissione d’inchiesta rischierebbe di assomigliare a una commemorazione fuori dal tempo in cui riesumare uno scontro politico e ideologico con la magistratura (l’organo avrebbe gli stessi poteri e limitazioni dell’autorità giudiziaria) da piegare poi a tornaconti attuali e contingenti. Non sarebbe cioè uno strumento utile a compiere, in presenza di fatti nuovi in questo caso mancanti, indagini e ricerche su materie di pubblico interesse come previsto dalla Costituzione. In secondo luogo in quanto la politica parlamentare dovrebbe fare un passo indietro lasciando spazio al giudizio degli storici e al libero dibattito dell’opinione pubblica senza provare a condizionare entrambi con il varo di istituti che, a distanza di tanti anni dai fatti, rischiano di avere una funzione di mera propaganda, se non di disinformazione e persino di intossicazione di cui non si avverte il bisogno. Il tappo di Tangentopoli esplose quando finì la Guerra fredda e una serie di comportamenti corruttivi, fino a quel momento tollerati in ragione di una salvaguardia complessiva del sistema, non avevano più ragione di essere ignorati o sottovalutati. Il cosiddetto “sottobosco della politica”, denunciato da Daniele Luchetti nel film “Il portaborse” (1991), era stato caratterizzato da una sostanziale sicurezza d’impunità e da una buona dose di cinismo e di arroganza, ma aveva ottenuto il consenso e la complicità di ampie fasce della società civile e dei ceti produttivi, senza apprezzabili differenze tra il nord e il sud dell’Italia. Alla luce di ciò e senza bisogno di un’apposita Commissione si può serenamente affermare che in quegli anni, in alcuni casi, si registrò un uso inquisitorio dello strumento della carcerazione preventiva e che le parole scritte dal deputato socialista Sergio Moroni in una drammatica lettera d’addio indirizzata il 2 settembre 1992 all’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano per denunciare “il grande velo di ipocrisia (condivisa da tutti) che ha coperto per lunghi anni i modi di vita dei partiti e i loro sistemi di finanziamento” avessero un loro fondamento. Così anche non è possibile esimersi dal ricordare che quanti in quel biennio agitavano cappi in Parlamento (la Lega) o lo accerchiavano al grido “arrendetevi siete circondati” (i giovani del Movimento sociale italiano) oppure mobilitavano le televisioni di proprietà in un’accesa campagna a sostegno del pool Mani Pulite (Berlusconi) già nel marzo 1994 si sarebbero ritrovati alleati e trent’anni dopo, giù per li rami delle rispettive evoluzioni politico-ideologiche e senescenze, lo sono ancora. Non fu quella, infatti, la prima volta nella storia nazionale che il ritorno della restaurazione avrebbe assunto il volto seducente del gesto ribelle, della rottura sovversiva, della mobilitazione giustizialista e indignata di una società civile schierata contro il “Palazzo” della “cattiva politica” tra improvvisi voltafaccia, graduali riposizionamenti e inopinate abiure. Tutto ciò infatti avvenne in un panorama abitato da felpati gattopardi e saettanti camaleonti all’eterna ricerca di un’auto-assoluzione collettiva, che forse questa sì, meriterebbe una commissione d’inchiesta, non parlamentare, ma civile e culturale che avrebbe il sapore di un’autobiografia della nazione. Evasione fiscale: i metodi di contrasto con i limiti imposti da politica, privacy e i colpi di spugna di Milena Gabanelli e Rita Querzè Corriere della Sera, 12 dicembre 2022 L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro e sull’evasione fiscale. Nel 2019 (ultimi dati completi disponibili) sono sfuggiti al fisco 99,24 miliardi di euro di tasse - il 18,5% del dovuto allo Stato - quanto basta per tre manovre di Bilancio. La novità è che se l’evasione non viene ridotta entro il 2024 di quasi 15 miliardi il Pnrr è a rischio. I buchi neri sono tre. Il primo: 32 miliardi di Irpef evasa da lavoratori autonomi e imprese che oggi non pagano il 68,3% del dovuto. Era il 65,1% nel 2015. Il secondo riguarda l’Iva: 27,7 miliardi persi nel 2019, siamo i primi in Europa per ammontare. Il terzo è il lavoro nero: 12,7 miliardi di contributi non versati. Anche questo dato è in continua crescita: nel 2015 erano 11,3 miliardi. Nel 70% delle aziende ispezionate sono riscontrate irregolarità. L’Agenzia delle Entrate fa quello che dice il Mef - Il datore di lavoro dell’Agenzia delle Entrate è il ministero dell’Economia e delle Finanze che, attraverso una convenzione, gli indica ogni anno gli obiettivi da raggiungere: per il 2022 deve incassare 14,4 miliardi di evasioni relative agli anni passati. Quindi è difficile intaccare quella nuova. L’Agenzia delle Entrate della Lombardia deve portarne a casa 2, quella del Lazio 1, l’Emilia-Romagna e Veneto 560 milioni e così via. Ogni sede, una volta raggiunto il budget, può anche fermarsi lì. Nella convenzione sono indicati metodi per scovare gli evasori, a partire dall’analisi del rischio. Si tratta di prendere diverse categorie di attività (dalle gioiellerie, alle carrozzerie, ai negozi di elettronica) e incrociare i dati dell’anagrafe tributaria con quelli dei conti correnti, sostituendo i nomi degli intestatari con uno pseudonimo perché non siano identificabili. Nei casi in cui si evidenziano incongruenze possono partire i controlli in chiaro sul singolo. Il problema è che le analisi del rischio “pseudonimizzate” sono state autorizzate dal Garante della Privacy solo da giugno, dopo tre anni di attesa. E non sono mai partite. Certo, se gli incroci venissero fatti fin dall’inizio senza nascondere i nomi dei contribuenti il processo sarebbe più efficiente e veloce perché consente di andare mirati su chi fa il nero e ricicla escludendo i falsi positivi. Ma questo il Garante, interpretando in modo più restrittivo la direttiva europea, lo vieta. Un altro limite alla lotta all’evasione è la mancanza di interoperabilità delle banche dati. Per esempio incrociando i dati di Inps, Unità di Informazione Finanziaria (l’autorità incaricata di esaminare i flussi finanziari a scopo di prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo) e Guardia di Finanza si potrebbero vedere i travasi di dipendenti o di soldi che svelano subito i grandi illeciti. Ma, come per i conti correnti, a queste banche dati si può accedere solo quando si sta facendo una verifica puntuale. Inoltre questi incroci possono farli soltanto due uffici specializzati (Agenzia e Gdf) perché gli altri non hanno mezzi né personale con le competenze necessarie. La fatturazione elettronica e i “no” del Garante - L’introduzione della fatturazione elettronica ha consentito un grande passo avanti: bloccati falsi crediti Iva per un miliardo prima di arrivare in compensazione e 2,2 di frodi carosello. Il limite, sempre imposto dal Garante per la protezione dei dati personali, riguarda le fatture emesse da un’azienda al consumatore finale: si può vedere che X ha fatturato 10.000 euro a Y ma non l’oggetto della transazione. Una segretezza che, oltre a consentire illeciti di varia natura, impedisce di sapere se è stata applicata l’aliquota del 4% quando magari doveva essere del 22%. Per sfruttare al meglio questo strumento si dovrebbe lavorare sull’anno in corso: se vedo che una società vende trattori o computer, ma non ne acquista, è evidente che sono fatture false e quella attività la blocco subito, non quando il danno è fatto. Poi ci sono le partite iva apri e chiudi: sono migliaia e girano miliardi. Esiste da tempo la norma che consente di andare a vedere subito se quell’attività esiste sul serio e, nel caso, di chiuderla immediatamente, ma questo obiettivo il Mef non lo ha ancora inserito nella convenzione. Lavoro nero - L’introduzione di contratti sempre più flessibili dagli anni ‘90 in poi non ha ridotto il lavoro nero che, al contrario, è aumentato. Ora l’Ue ci dà un target di riduzione dei lavoratori sommersi pari al 2% entro il marzo 2026. Un numero che non si è mai raggiunto, nemmeno attraverso le sanatorie. Dagli ultimi dati Istat sull’economia sommersa (che ammonta a circa 170 miliardi) i lavoratori irregolari superano i 3 milioni: stipendi pagati in contanti, zero tasse e zero contributi versati. La legge 79 del 29 giugno stabilisce che i risultati dell’attività di vigilanza di Ispettorato del lavoro, Inps, Inail, Carabinieri e Guardia di Finanza confluiscano tutti in un unico portale nazionale gestito dall’Ispettorato. Oltre ai numeri però bisognerebbe incrociare i dati a monte: metri quadrati delle attività, consumi di energia, numero di veicoli dell’azienda con numero di dipendenti. Se hai consumi monstre e un dipendente solo qualcosa non torna. E a quel punto fare scattare le verifiche. Si parla da anni di questa misura, ma non è mai stata introdotta. E poi sono cruciali i controlli sul campo. Un obiettivo che non sta nella convenzione. Infine c’è il lavoro grigio: l’impresa si fa prestare i dipendenti da una società che li sottopaga e poi versa i contributi con crediti d’imposta falsi: avviene spesso nella logistica e nell’edilizia. Dall’anno scorso l’Agenzia delle Entrate li intercetta, ma anche in questo caso se ne occupano solo due uffici specializzati. Gli evasori totali come li scovi? La premier Meloni nel suo discorso di insediamento alla Camera ha detto che nel mirino del fisco ci saranno prima di tutto gli evasori totali. Che però - proprio in quanto totali - non lasciano tracce nell’anagrafe tributaria. E quindi qual è la strategia? Per scovarli i francesi nella legge di bilancio 2020 (LOI 2019-1479 du 28 décembre 2019 de finances pour 2020), hanno attribuito alle autorità fiscali la facoltà di controllare la veridicità delle dichiarazioni fiscali attraverso le informazioni presenti sui social network e le piattaforme. Esempio: se sul web una società ricerca personale, ma quella società non è nota al fisco è chiaro che c’è un problema. Inviti bonari e riscossione - C’è chi evade scientemente, chi spera di farla franca, chi per errore non ha allegato tutta la documentazione nella dichiarazione dei redditi. Giustamente prima di arrivare ai ferri corti l’Agenzia avvia l’attività di compliance: ti scrivo per segnalarti che secondo me qualcosa non va e ti invito entro 60 giorni a documentare l’anomalia o a metterti in regola. Il Pnrr prevede entro il 2024 un aumento del 30% delle lettere di compliance, una riduzione dei “falsi positivi” al 5%, e un incremento del 20% degli incassi connessi all’adempimento spontaneo. Nei casi più semplici funziona, ma buona parte dei contribuenti quando sa di essere in torto non risponde. Succede la stessa cosa con le lettere di accertamento: hai 60 giorni per pagare, fare ricorso o rateizzare. Se non rispondi, il debito passa a Equitalia che a sua volta deve attendere per legge 210 giorni prima di procedere al pignoramento. Nel frattempo hai svuotato i conti o chiuso l’attività o è arrivato un condono o una rottamazione: c’è stata nel 2016, 2017, 2021, 2022. Secondo Alessandro Santoro, ex presidente della Commissione che ogni anno redige il rapporto sull’economia sommersa, quando le evidenze di evasione sono robuste, nella lettera di compliance sarebbe il caso di scrivere che, in caso di mancata risposta, l’invito si trasforma dopo i dovuti controlli in cartella esattoriale. Mentre quando il contribuente non reagisce all’accertamento occorre aumentare i poteri dell’Agenzia per accorciare i tempi della riscossione. Il colpo di spugna sull’attività dell’Agenzia delle Entrate e Gdf - Lo scorso anno l’ufficio antifrode, Guardia di Finanza e Procura di Roma in una operazione congiunta hanno avviato un’attività di controllo che ha portato al sequestro e al blocco preventivo di circa 10 miliardi di falsi crediti d’imposta legati ai bonus facciate, sisma, affitti. Poste e Cassa Depositi e prestiti ne hanno acquistati per centinaia di milioni senza fare le dovute verifiche e ora vorrebbero portarli in detrazione alle imposte che devono versare. L’Agenzia delle Entrate ha risposto picche e la Cassazione gli ha dato ragione. Ebbene, per sanare quel buco il 6 dicembre scorso 4 senatori di Forza Italia (Claudio Lotito, Roberto Russo, Dario Damiani, Francesco Silvestro) e 4 di Fratelli d’Italia (Matteo Gelmetti, Paola Ambrogio, Lavinia Mennuni, Vita Nocco) hanno presentato in Senato alla Commissione Bilancio una modifica al decreto Aiuti da convertire in legge entro il 17 gennaio con cui chiedono, in sostanza, di considerare quei crediti “veri” per decreto. Il che porterebbe al dissequestro o allo sblocco, e quindi all’utilizzo, di quei 10 miliardi di crediti falsi. Soldi che poi finiranno a carico dello Stato. Il colpo di spugna è stato infilato anche in un emendamento alla legge di Bilancio presentato da Ubaldo Pagano (Pd): è il numero 51.023. Quello presentato invece da Mazzetti D’Attis e Cannizzaro (il numero 28.010) libera le banche da ogni responsabilità. Se la modifica passa, e gli emendamenti accolti, criminalità organizzata e imbroglioni ringraziano. La volontà politica - Per combattere l’evasione ci vuole la volontà politica e il personale adeguato. Da regolamento l’Agenzia delle entrate deve avere in organico 44.000 persone, oggi sono 29.000. Per potenziare l’attività sono previste 4.113 assunzioni. Con uno scoperto di 11.000 posti non si va molto lontano. E quindi in quale direzione sta andando la volontà politica? La Corte dei Conti, Bankitalia e l’Ufficio parlamentare di Bilancio segnalano nella manovra misure che incoraggiano l’evasione: 1) una nuova rottamazione delle cartelle; 2) la flat tax al 15% estesa dai 65 mila agli 85 mila euro lordi di reddito: chi guadagna oltre 85 mila cercherà di piazzarsi sotto questa soglia; 3) l’introduzione di un limite di 60 euro al di sotto del quale poter rifiutare il pagamento con il Pos ed evitare così il tracciamento della transazione; 4) il passaggio del tetto del contante da 1.000 a 5.000 euro, ulteriore aiuto a chi vuole evitare il tracciamento dei passaggi di danaro. Giorgia Meloni, nel suo discorso di insediamento, ha detto di non inseguire il consenso e di essere disposta a mettere a rischio la vittoria alle prossime elezioni pur di fare la cosa giusta per il Paese. La cosa giusta per il Paese è che tutti paghino il dovuto in base alle reali capacità contributive per far fronte alle spese per sanità e scuola, gli investimenti per creare lavoro e sostenere imprese e famiglie in difficoltà. Solo riducendo quei 99 miliardi di evasione e quei 170 di sommerso sarà finalmente possibile abbassare le tasse per tutti senza massacrare - come sempre - welfare e servizi pubblici. Bologna. Carcere, piano per prevenire i suicidi: “Non psicofarmaci, ma medici. E più lavoro” di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 12 dicembre 2022 La direttrice della Dozza Rosa Alba Casella: “Dobbiamo migliorare le condizioni di vita dei detenuti. Vorrei creare più posti di lavoro e aumentare la presenza dei medici”. Prevenire i suicidi. Creare nuovi posti di lavoro. Aumentare la presenza di medici. Diminuire l’uso (e l’abuso) di psicofarmaci. In una frase: “Migliorare la condizione di vita dei detenuti”, è l’ambizione di Rosa Alba Casella, direttrice del carcere Dozza, da meno di un anno alla guida di un istituto penitenziario afflitto da diversi problemi a partire dal sovraffollamento: 750 persone recluse a fronte di una capienza che dovrebbe oscillare tra 400 e 450 posti. In queste settimane, i vertici della casa circondariale e quelli dell’Ausl si sono incontrati per studiare un piano su più fronti. Al primo punto c’è la prevenzione dei suicidi e dei gesti autolesivi. “Serve la sorveglianza ma non solo, bisogna creare condizioni favorevoli attorno alle persone per aprire spiragli, per evitare che pensino che la morte sia l’unica via d’uscita dalle difficoltà. Bisogna creare condizioni di maggior benessere. Da soli non potremmo farlo”. Qui entra in gioco l’Ausl con Fabio Lucchi, direttore del dipartimento di Salute mentale: “Stiamo studiando una serie di progetti sulla prevenzione non solo sotto la lente psichiatrica ma immaginando azioni concrete: attività fisica, lavorativa, formazione”. Dal punto di vista del rischio dei suicidi, “è stato creato uno staff con tutte le componenti del carcere per valutare le situazioni più critiche. Grazie a un finanziamento che abbiamo recuperato, potremo garantire più personale, attività riabilitative, ore di psichiatria. Ma non pensiamo che una risposta totalmente “psichiatrizzante” sia quella corretta. Anzi, stiamo ragionando anche su un protocollo per l’appropriatezza delle terapie, con l’obiettivo di non ricorrere ai farmaci che, potenzialmente, possono portare a un abuso, e spiegando le ragioni agli stessi detenuti”. “Il lavoro che è stato fatto per togliere gli psicofarmaci è importante - prosegue la direttrice Casella - c’è chi tende a stordirsi per passare il tempo della carcerazione senza pensare”. Cristina Maccaferri, dell’Ausl, spera anche di ampliare l’organico attuale di 21 medici che a turno visitano alla Dozza, anche grazie “a un accordo sulla medicina penitenziaria per rendere più attrattiva questa scelta con una modifica della remunerazione. Ma non c’è solo l’aspetto economico: bisogna sostenere chi fa questa scelta”. Carcere: ipotesi call center per dare lavoro Casella ha anche altre idee. “Il tentativo è rendere l’ambiente più vivibile, affrontando il tema della salute - che non significa solo assenza di malattia - a 360 gradi. Il carcere è un contesto critico, stiamo cercando di lavorare sull’ambiente perché diventi più sano, perché il tempo di detenzione sia pieno, ricco. Abbiamo la scuola, il polo universitario, l’azienda “Fare impresa in Dozza”. Ma i bisogni sono molti di più. Vorremmo lavorare su progetti comuni: lavoro, iniziative culturali, scambi con l’esterno. Mi piacerebbe aprire un’altra attività, stiamo pensando a un call center”. Su cosa servirebbe dentro il carcere, è interessante ascoltare le parole di Federico Boaron, coordinatore dell’équipe psichiatrica della Dozza e del minorile del Pratello: “Se avere più psichiatri significa dare più medicine, rispondo che non è così che possiamo affrontare il problema. A memoria, non ricordo tentativi di suicidio o di autolesioni nei detenuti che lavorano”. Sovraffollamento e una lunga scia di tentati suicidi - L’ultimo suicidio lo scorso settembre: un uomo di 53 anni si impiccò nel reparto di infermeria della Dozza con i pantaloni della tuta. E poi una lunga scia di tentati suicidi, spesso sventati dagli agenti di polizia Penitenziaria, come il caso di un quarantenne salvato lo scorso ottobre. Ma i tentativi sventati di togliersi la vita “posso dire che sono stati tanti”, spiega la direttrice del carcere, ed è stata “preziosa l’attenzione degli operatori per riuscire a intercettare prima i casi”, mentre da tempo i sindacati dei poliziotti chiedono una maggior presenza di medici dietro le sbarre. Nella casa circondariale, su 750 detenuti, il 50% è composto da persone straniere (le nazionalità più rappresentate sono Marocco e Tunisia), mentre nel reparto penale ci sono un centinaio di detenuti definitivi. Le donne nella sezione femminile sono 76 e in questo momento non ci sono mamme con bambini piccoli. Oltre al sovraffollamento cronico del carcere, ci sono “deficit strutturali” importanti. Venezia. Mattia Berto e il film a sostegno dei detenuti: “Per creare un ponte fra dentro e fuori” di Marta Gasparon Il Gazzettino, 12 dicembre 2022 Torna anche quest’anno l’appuntamento con l’asta benefica a favore dell’associazione Il granello di senape, impegnata da 26 anni in attività di volontariato nei confronti dei detenuti, per favorirne il reinserimento sociale e per garantire - quando necessario - un sostegno non solo a loro, ma anche alle famiglie. L’iniziativa si svolgerà oggi, alle 17, al Teatrino di Palazzo Grassi (ingresso libero fino ad esaurimento posti) e sarà animata dal carisma travolgente dell’attore e regista Mattia Berto, ideatore del cosiddetto teatro di cittadinanza, che da anni propone performance in giro per la realtà d’acqua, coinvolgendo i veneziani di tutte le età. Proprio Berto, tempo fa, su proposta del Granello aveva portato la sua arte anche all’interno della Casa circondariale di Santa Maria Maggiore, attraverso un laboratorio. “Quest’anno abbiamo voluto organizzare una serata che avesse un senso preciso e forte: ribadire l’importanza di pensare al carcere come un tassello della città - sottolinea Berto, chiamato a battere l’asta -. Per le persone recluse, sentirsi ancora parte del contesto circostante è prezioso e alle volte persino salvifico”. Una ventina i lotti, ognuno rigorosamente a chilometro zero e Made in Venice: oggetti in vetro di Murano, borse della cooperativa Rio Terà dei pensieri, abbigliamento, libri, un aperitivo per quattro al Caffè Florian, occhiali offerti dall’ottica Urbani, una visita al Museo delle impiraresse, una cena nell’osteria La zucca e tanto altro ancora, per una serata che si aprirà con i saluti della presidente dell’associazione, Maria Voltolina. Sarà poi la volta del cortometraggio realizzato in questi giorni da Berto, insieme al cameraman Giuseppe Drago, basato su una serie di videointerviste in giro per Venezia intervistando - microfono alla mano - persone differenti. Tra loro, l’ex detenuto Fortunato, il piccolo Zaccaria Vianello Novaga, di 12 anni, l’ex assessore Ezio Micelli, un avvocato penalista e un futuro magistrato. “A ciascuno ho posto la stessa domanda: che rapporto c’è fra il carcere e la città? Un’occasione per provare anche a disegnare dei nuovi scenari assieme; d’altronde i bambini sono dei visionari e possono offrire risposte inaspettate”. Seguirà un momento di riflessione e di dialogo condotto dall’attrice Nora Fuser, che con Venezia ha un legame profondo. Il tutto a partire dalla lettura del libro Fine pena: ora di Elvio Fassone, che pone al centro il rapporto fra un giovane ergastolano e il suo giudice, che per oltre vent’anni hanno mantenuto fra loro una corrispondenza. L’evento a favore de Il granello di senape, al quale prenderanno parte anche le altre associazioni cittadine impegnate nel volontariato penitenziario, si concluderà con l’attesa asta benefica. “Non la chiuderò finché non sarà venduto tutto - assicura con ironia Berto -. Sarà una serata pensata per festeggiare tutte le buone pratiche cittadine: quelle realtà capaci di creare ponti fra il dentro e il fuori”. Padova. Una curiosa designazione: l’esperienza di una Terza Categoria in carcere L’Arbitro, 12 dicembre 2022 La partita “Lamonese - Polisportiva Pallalpiede”, valida per il Campionato di Terza Categoria, non si è disputata sulle montagne bellunesi, bensì in Via Due Palazzi a Padova. Non si trattava di una qualsiasi inversione di campo: com’è noto l’indirizzo corrisponde alla casa di reclusione della Provincia.  La società “Polisportiva Pallalpiede” ha fra i suoi giocatori e membri dello staff alcuni dei detenuti del carcere patavino e partecipa, anche se fuori classifica, al Girone A della suddetta categoria. L’inversione di campo è sempre necessaria per le loro partite visto che i calciatori non possono uscire dal carcere e devono quindi giocare sempre in casa. Questo progetto costituisce un’importantissima iniziativa sul territorio: permette ai ragazzi della struttura di praticare l’attività sportiva e, in particolar modo, di fare squadra, guidati dai sani valori che il calcio, quello vero, insegna.  Andrea Carli, il giovane arbitro chiamato a dirigere la gara, ha raccontato: “Il campo di gioco è situato all’interno della struttura circondariale e per accedervi la procedura è tutt’altro che semplice. Il designatore ha inviato i miei dati personali al carcere in modo che potessero effettuare dei controlli; una volta varcati i cancelli è stato necessario consegnare gli oggetti personali, in particolare il telefono e tutto è stato controllato al metal detector. Dopo aver superato un’infinita serie di cancelli e porte, sempre scortato dalle guardie, ho raggiunto il terreno di giuoco. La partita si è svolta con grande agonismo ed intensità, ricca di episodi e con grande sportività da parte delle due squadre. Il risultato finale è stato di 1 a 1 caldamente festeggiato dai tifosi presenti, prevalentemente forza pubblica e altri detenuti. Osservare la gioia nei loro volti a fine partita è stato veramente edificante: sensazione difficile da provare in altre partite dirette”. Andrea Carli ha proseguito dicendo: “Non è stato facile convivere con l’alto muro perimetrale del carcere che correva lungo due lati del recinto di gioco: la soggezione era molta, impossibile dimenticare, anche a partita in corso, dove si stava giocando. Ho scherzosamente pensato che la tecnologia VAR dei campi di Serie A può solo invidiare le numerose telecamere di sorveglianza a circuito chiuso dell’edificio: peccato non averla utilizzata ai fini tecnici”. L’intensa emozione è stata descritta da Andera Carli come “Molto positiva e molto sensibilizzante alle problematiche relative alla reintegrazione sociale dei detenuti. Non dobbiamo dimenticare che i reclusi sono individui al nostro pari e che molte delle loro situazioni non sono dei fallimenti personali, è la società ad aver fallito, la stessa non può quindi abbandonarli nuovamente al loro destino, ma deve prodigarsi per rieducare e reinserire al suo interno i ragazzi. Polisportiva Pallalpiede fa propria questa filosofia e la traduce in fatti concreti da ormai molti anni. Sono lieto di aver avuto l’opportunità di contribuire, anche se in maniera ridotta, a questa importantissima attività”. Prato. Poesie fra carcere e teatro. Torna “La farmacia delle parole” arteventinews.it, 12 dicembre 2022 Terzo incontro al Ridotto mercoledì 14 dicembre, alle 21. Dialogo fra la regista di Teatro Metropopolare e l’erede morale del mondo poetico di Scaldati. Parte l’iniziativa “Quaderno sospeso” a sostegno del laboratorio teatrale dentro la casa circondariale. Un ponte ideale che unisce il carcere e la città di Prato allungandosi fino al Ridotto del Politeama, sulla scia del poeta e drammaturgo palermitano Franco Scaldati. Parole in scena, parole in versi, quelle che tornano protagoniste nella serata di mercoledì 14 dicembre (alle 21) per il terzo appuntamento del ciclo “La farmacia delle parole” al Ridotto. Ancora una volta il progetto a cura di Teatro Metropopolare punta a indagare il valore terapeutico della poesia nella nostra società e lo fa stavolta con l’attore Melino Imparato, direttore artistico della compagnia Franco Scaldati, una delle voci più fiere e indomite del teatro italiano, erede e custode dello spirito, della poetica e del metodo laboratoriale maturato in decenni di teatro insieme a Franco Scaldati. Con lui dialogherà la regista e drammaturga Livia Gionfrida, fondatrice di Teatro Metropopolare con cui il Politeama Pratese ha avviato quest’anno una proficua collaborazione, in un collegamento ideale fra il pubblico detenuto della casa circondariale “La Dogaia” (dove Metropopolare lavora da 15 anni con un progetto di residenza artistica) e il pubblico esterno del Politeama dove Livia Gonfrida e Melino Imparato si sposteranno al termine del laboratorio in carcere sempre nella giornata di mercoledì 14 dicembre. Frammenti di poesie, letture a voce alta di versi che scavano nel proprio vissuto, spunti di riflessione su un lavoro di ricerca artistica che dal carcere si trasferiranno nelle sale del Ridotto, per una riflessione collettiva sul potere “curativo” delle parole. È un filo sottile, del resto, quello che lega Prato a Palermo, dove Imparato da anni porta avanti un percorso artistico verso un teatro che sia portatore di poesia e luogo d’incontro. A marzo ha debuttato al Teatro Biondo di Palermo lo spettacolo Inedito Scaldati, scritto e diretto proprio da Livia Gionfrida, finalista al premio “Le Maschere del Teatro 2022 nella categoria “Novità Italiana”: in scena, fra gli altri attori, proprio Melino Imparato. Franco Scaldati è uno dei principali esponenti della drammaturgia italiana contemporanea (è scomparso nel 2013), autore di una vasta produzione di opere teatrali scritte principalmente in palermitano. Le sue opere restano ad oggi per la maggior parte inedite: alle 13 pubblicate corrispondono 37 inediti, accanto a 12 traduzioni di testi teatrali noti. A proposito di emozioni ed esperienze condivise, durante il secondo incontro con Chiara Lagani è stata lanciata dal Ridotto del Politeama l’iniziativa del “Quaderno sospeso” promossa da Teatro Metropopolare a sostegno del progetto in carcere: per tutto il mese di dicembre sarà possibile acquistare nelle cartolerie di Prato aderenti (Paperbook in viale Vittorio Veneto 49, Bruschi in via del Pellegrino 10, libreria cartoleria Gori in via Ricasoli 26, Buffetti in via Magnolfi 37) quaderni e penne da donare ai detenuti che frequentano il laboratorio teatrale di Metropopolare all’interno della casa circondariale di Prato. “La farmacia delle parole” vede il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Prato per Teatro Metropopolare. Il biglietto d’ingresso è di 5 euro. Informazioni: www.politeamapratese.it Campobasso. “Scrittodicuore”, nel carcere un premio per le lettere d’amore più belle colibrimagazine.it, 12 dicembre 2022 Mercoledì 14 dicembre nella Casa circondariale del capoluogo si svolgerà la cerimonia di premiazione del concorso nazionale che ha coinvolto gli istituti carcerari di tutta Italia. Manca poco alla tappa finale della sesta edizione di Scrittodicuore, il Concorso nazionale di scrittura rivolto ai detenuti degli Istituti carcerari di tutto il territorio nazionale, promosso e organizzato dal Comune di Campobasso e dall’Unione Lettori Italiani con la direzione artistica di Brunella Santoli e con la collaborazione della Direzione della Casa Circondariale di Campobasso nell’ambito di Ti racconto un libro laboratorio permantente sulla lettura e sulla narrazione 2022. Come previsto dal bando, ciascun partecipante, ospite di una casa circondariale sul territorio nazionale, ha inviato una lettera “scritta di cuore” che è stata valutata da due giurie. Nel corso della cerimonia di premiazione verranno proclamati i vincitori designati della prestigiosa Giuria Tecnica, composta da autorevoli scrittori come Franco Arminio, Pino Roveredo, Camilla Baresani e Anna Giurikovic Dato che nei mesi scorsi ha valutato le numerose proposte arrivate quest’anno. Ad affiancarla, la Giuria Giovani, composta da Salvatore Dudiez, Roberta Tanno, Elena Sulmona e Angelica Calabrese, che ha invece segnalato la lettera “scritta di cuore” ritenuta più meritevole. Da sempre convinta che la lettura e la scrittura abbiano un ruolo fondamentale nella costruzione di una società giusta e attenta alle necessità sociali, l’Unione lettori italiani di Campobasso ha voluto coinvolgere ancora una volta gli istituti carcerari, luoghi in cui il tempo e lo spazio in cui vivere i sentimenti confluiscono marcatamente nell’interiorità del singolo. Un modo per tenere aperto il dialogo con il mondo esterno, con cui la comunicazione non è sempre facile, specie quando si tratta di sentimenti. Tra i pochi concorsi pensati appositamente per portare la scrittura negli istituti penitenziari, Scrittodicuore, nella sua fase finale e per la proclamazione dei vincitori, ha scelto di tornare proprio “dentro il carcere” dove la scrittura diventa un importante strumento di contatto indiretto con l’esterno, veicolo fiduciario di una riflessione rispetto a sé stessi e rispetto agli “oggetti” d’amore. Alla cerimonia di mercoledì 14 dicembre, alle ore 16 nella Sala-Teatro della Casa circondariale di Campobasso, insieme al Direttore Antonella De Paola saranno presenti Brunella Santoli Direttore Artistico dell’Unione Lettori Italiani e responsabile del concorso “Scrittodicuore”, Rosanna Coccagno Presidente della Commissione Politiche per il sociale del Comune di Campobasso, Angelica Calabrese e Salvatore Dudiez in rappresentanza della Giuria Giovani. Venezia. Teatro-carcere e Università. Una proficua collaborazione di Domenico Giuseppe Lipani agenda17.it, 12 dicembre 2022 La rassegna Destini incrociati. Il teatro-carcere è ormai una realtà riconosciuta e diffusa, sia sul versante artistico che su quello istituzionale. In Italia nel 2021 su circa 230 istituti di pena ci sono state esperienze teatrali in almeno 127 di essi. Alcune di queste esperienze sono ormai radicate da molti anni, lavorano con continuità e vivono una situazione di riconoscimento formale da parte dell’istituzione carceraria, altre sono ancora estemporanee e vengono attivate di volta in volta sul singolo progetto. Esperienze come quella di Armando Punzo, con la sua Compagnia della Fortezza (Volterra), o di Fabio Cavalli a Rebibbia (Roma) sono realtà ormai internazionalmente affermate e riconosciute per l’alta qualità artistica dei lavori proposti. Negli anni sono arrivate anche al grande pubblico, grazie allo strumento cinematografico.  Un esempio tra tutti “Cesare deve morire”, dei fratelli Taviani, Orso d’oro al Festival di Berlino nel 2012, che racconta la costruzione e la messa in scena del “Giulio Cesare” di Shakespeare a Rebibbia con gli attori detenuti. Un riconoscimento forte alle attività è arrivato grazie alla nascita del Coordinamento nazionale di Teatro Carcere, una rete di soggetti che operano nelle carceri. Questo nel 2013 ha firmato con il Ministero della giustizia un protocollo d’intesa triennale, da allora sempre rinnovato. Il protocollo prevede tra le altre cose che le diverse realtà si impegnino ad attivare iniziative teatrali e/o formative nell’ambito dei mestieri del teatro, a garantire lo sviluppo attraverso il teatro delle competenze espressive, di crescita e di formazione professionale dei detenuti, a sostenere processi di ricerca e studio sulle attività. Oltre a ciò, il Coordinamento organizza una rassegna di teatro in carcere dal titolo Destini incrociati, giunta quest’anno alla nona edizione. Passi sospesi, il progetto teatrale animato da Balamos - L’associazione Balamos di Ferrara, che nelle carceri di Venezia anima il progetto teatrale Passi sospesi, è uno dei soci fondatori del Coordinamento e uno degli enti organizzatori della rassegna di quest’anno, che si è svolta recentemente proprio a Venezia. Balamos è convenzionata con Unife da diversi anni e il nostro Centro Teatro Universitario è partner nonché consulente scientifico di Passi Sospesi nelle carceri veneziane. È legittimo chiedersi il senso di una collaborazione tra enti ed istituzioni così diversi tra loro e con finalità in gran parte divergenti. E la prima risposta non può che essere istituzionale. La Terza Missione dell’Università è oggi sempre più importante nel definire la presenza e il radicamento di un ateneo in un territorio non solo in termini di valorizzazione della ricerca, trasferimento tecnologico o gestione di beni pubblici, ma anche - e in ambito umanistico mi sento di dire soprattutto - in termini di impatto sociale, grazie ad attività dall’alto valore educativo e culturale. La dimensione umana e pedagogica va oltre il public engagement della Terza missione universitaria - E tuttavia, in questa sede, non voglio sottolineare l’adeguatezza istituzionale della partnership di Unife nell’organizzazione di una rassegna teatrale. Cosa che - sia detto per inciso - rientra pienamente nelle attività di public engagement previste per gli atenei. Voglio piuttosto mettere in rilievo la dimensione umana e pedagogica, in senso pieno, che l’Università deve promuovere quando si trova a proporre percorsi di teatro. E questo trascende la singola collaborazione ad una rassegna e si valuta nella continuità della proposta formativa e nelle capacità di porsi in relazione a, e al servizio di reti culturali ed educative.  Giusto per restare nel caso specifico della nostra rassegna, il Centro Teatro ha promosso e sostenuto la partecipazione di uno spettacolo della Scuola Media Tasso, con un gruppo composto da donne detenute della Casa di Reclusione Femminile di Giudecca e alunni della scuola. Ha, inoltre, promosso una mostra fotografica che documenta questi ultimi anni del progetto teatrale in carcere. Insomma, una presenza strutturata, quella del CTU, che ha messo in dialogo Scuola, Università, Carcere, Associazioni di promozione sociale. L’Università è stata di fatto un catalizzatore di incontro tra istituzioni e persone diverse. È strumento di cui dispone un territorio per agevolare la partecipazione democratica e la responsabilità comune nei percorsi educativi e rieducativi. Il teatro-carcere è ormai una realtà riconosciuta e diffusa, sia sul versante artistico che su quello istituzionale. In Italia nel 2021 su circa 230 istituti di pena ci sono state esperienze teatrali in almeno 127 di essi. Alcune di queste esperienze sono ormai radicate da molti anni, lavorano con continuità e vivono una situazione di riconoscimento formale da parte dell’istituzione carceraria, altre sono ancora estemporanee e vengono attivate di volta in volta sul singolo progetto.Foto di Andrea Casari dal progetto Passi Sospesi di Balamos Teatro negli istituti penitenziari di Venezia 2006-2022  Il Centro Teatro Universitario in quasi trent’anni di vita (una delle esperienze più longeve d’Italia) è diventato un soggetto di riferimento nazionale nella formazione delle persone attraverso il teatro. È diventato, soprattutto, una comunità di incontro. È questo il know how specifico che ha messo a disposizione dei tanti partner dell’iniziativa. Come e quando la giustizia è diventata ingiusta di Corrado Ocone Libero, 12 dicembre 2022 Chissà se i responsabili della casa editrice Liberilibri avevano considerato l’eventualità che Carlo Nordio diventasse Ministro quando gli hanno affidato il compito di inaugurare con il suo “Giustizia” (pag. 62, euro 13) una nuova collana (“Voltairiana”) di testi brevi dedicati ai concetti cardini del pensiero liberale? Fatto sta che le linee generali di quella riforma della giustizia che Nordio ha abbozzato l’altro giorno al Senato, fra lo strepitio dei molli giustizialisti che operano nel nostro Paese, sono qui non solo esposte con particolare chiarezza ed efficacia ma anche inserite in un contesto storico-teorico che le giustifica e spiega. Nordio ci accompagna per mano attraverso le successive acquisizioni di civiltà che, dal mondo classico e giudaico-cristiano, hanno rivoluzionato il concetto di pena e quindi la concreta pratica della giustizia. Dall’ “occhio per occhio e dente per dente” si è così arrivati, attraverso un processo storico non sempre lineare, ai limiti posti all’azione penale dallo Stato di diritto. La domanda che ci è posti è: “Perché punire?”. Per una sorta di retribuzione del torto con la sua stessa moneta, per intimidire il reo o per rieducarlo? Nordio giudica utile, da un punto di vista pratico, che non ci si appiattisca su una di queste risposte ma le si tenga appunto tutte insieme, senza dimenticare che la pena è ciò che serve a conservare l’autorità di uno Stato e quindi a placare l’allarme sociale provocato dal reato. Ciò però esige che l’autorità giudicante sia imparziale, che il concetto di “uguaglianza davanti alla legge” sia effettivo e non retorico. Che è ciò che in Italia non può dirsi essere per tutta una serie di motivi storici e culturali che hanno cooperato a quella che può definirsi una vera e propria disfatta storica del principio di Giustizia. E che l’autore di questo libretto elenca puntigliosamente. Particolarmente illuminante è la dimostrazione di come il principio astratto dell’obbligatorietà dell’azione penale, inserito nel nostro ordinamento, sia paradossalmente proprio la larga maglia in cui può inserirsi oggi ogni prevaricazione e arbitrarietà del potere giudicante. La discrezionalità dell’azione penale, propria dei sistemi anglosassoni, trova infatti un limite in criteri oggettivi e consuetudinari; da noi è invece assoluta perché la scelta la impone l’impossibilità di gestire praticamente le migliaia di fascicoli che si accumulano sui tavoli dei pubblici ministeri. I quali, a quel punto, scelgono in base ai loro pregiudizi politici o in base alla possibilità o meno che un determinato caso possa soddisfare la loro vanità umana (visibilità, notorietà, progressi nella carriera). La separazione delle carriere inquirenti e giudicanti, l’eliminazione degli abusi connessi alla carcerazione preventiva, la presunzione d’innocenza legata alla certezza del diritto, sono gli assi attorno a cui si muove quella che Nordio auspica come la “rivoluzione liberale” e garantista del nostro ordinamento. Alla base del quale debbono esserci per lui due principi “filosofici” inderogabili: la salvaguardia della dignità della persona umana, e quindi anche dell’accusato e del reo, e l’idea che la giustizia penale viene esercitata non per imporre un’etica, o perseguire i “peccatori”, ma per far rispettare le regole. Un altro dei punti che Nordio tocca, riguarda la bulimia di leggi, spesso contradditorie, a cui il cittadino italiano dovrebbe far riferimento. Non è un tema nuovo ed è collegato, fra l’altro, a quell’idea di una semplificazione amministrativa che è la grande incompiuta della tradizione italiana. Interessante è però considerare come l’autore di questo libro la colleghi al “vizio illiberale” che permea il nostro ordinamento, tutto proteso al compito non di far rispettare le leggi ma di “redimere” il mondo dai “peccatori”: “Abbiamo disposizioni severe e attitudini perdoniste, una voce grossa e un braccio inerte, una giustizia lunga e un fiato corto: vogliamo intimidire senza reprimere e redimere senza convincere. Siamo anche un po’ ipocriti: contrabbandiamo la nostra accoglienza dei migranti come carità cristiana, mentre si tratta solo di impotenza e rassegnazione davanti alle spregiudicate strategie delle organizzazioni criminali”. Nordio, nel suo J’accuse, non si ferma nemmeno davanti alla Costituzione, che non giudica “la più bella del mondo” ma tale da dover ancora essere resa realmente liberale attraverso profonde modifiche. Qualcuno accuserà Nordio di essere un “rivoluzionario”, ma in fondo la rivoluzione che egli propugna è quella del buon senso. E più che altro è una reazione, la volontà di ritornare dopo anni di ubriacatura democraticista ai sani principi giuridici di una civiltà liberale. Quello spirito inquisitorio che ancora riecheggia nei processi per stupro di Francesca Spasiano Il Dubbio, 12 dicembre 2022 Vittimizzazione secondaria e dominio di genere attraverso il linguaggio. Ne parla l’avvocato Iacopo Benevieri nel suo libro sulle parole nel processo penale. Si è detto e ridetto (e mai abbastanza) che con Tina Lagostena Bassi si è smesso di fare il processo alla donna nei processi per stupro. O almeno si è svelato il trucco. Da allora infatti sono passati 44 anni, e dell’avvocata della “donna Fiorella” ne avremmo ancora bisogno. Poiché la violenza è ancora un fatto. Così come è un fatto che le donne si tengano lontane dalle aule di tribunale, per non finire sul banco degli imputati. Chi lo dice? Tra gli altri l’avvocato Iacopo Benevieri nel suo libro “Cosa indossavi? Le parole nei processi penali per violenza di genere” (Tab Edizioni). E lo dice nel titolo: non si predicano le manette, si predica il linguaggio. La parola dentro quella ““vicenda linguistica” per antonomasia che è il processo penale”. Per capirne il potere si può partire dai numeri, o dalle false credenze. I miti, dice Benevieri, che sono alla radice degli stereotipi odierni: narrazioni codificate fin dall’antichità che rafforzano la rappresentazione della donna attraverso categorie prevalentemente maschili. La letteratura ne è piena, ma lo sono anche le statistiche e i bilanci annuali. “Il 35 per cento delle separazioni giudiziali e dei procedimenti sui minorenni contiene violenza, ma essa viene negata nelle aule giudiziarie”, diceva il rapporto della Commissione Femminicidio al Senato lo scorso maggio. Il fenomeno indagato è quello della vittimizzazione secondaria, che in pratica vuol dire colpire una donna due volte: la seconda con la mano delle istituzioni. Benevieri la spiega così: “È certamente noto come con il termine “vittimizzazione secondaria” si intenda infatti quel dannoso fenomeno derivante dalla sottoposizione della vittima di reati violenti a procedure medico-legali, burocratiche, giuridiche, amministrative che, in varie forme, la inducono, la obbligano, la sollecitano a rivivere, ricordare, rendere presente a sé stessa la violenza subita, provocandole nuovi e ulteriori traumi”. E la riassume così: “Qualsiasi asimmetria sociale si riverbera in tribunale. Dunque l’aula di udienza può essere il proscenio ove si riproducono le medesime asimmetrie presenti fuori di essa. Tra queste asimmetrie, c’è anche quella di genere”. Succede in Italia, e succede sia in sede civile che in sede penale. Sia quando la violenza è ridotta o negata, sia quando si fanno le domande sbagliate. “La Corte considera che la lingua e gli argomenti utilizzati dalla Corte d’appello veicolino preconcetti sul ruolo della donna che esistono nella società italiana e che possono ostacolare l’effettiva tutela dei diritti delle vittime di violenza contro le donne, nonostante un quadro legislativo soddisfacente”, scrivono i giudici della Cedu quando condannano l’Italia nel 2021.Quei preconcetti il nostro autore li prende e li cataloga in 12 false credenze. Convinzioni stereotipate sullo stupro, che “fanno riecheggiare la propria dittatura anche attraverso il linguaggio”. E che si riassumono in un assioma: “molte violenze sessuali sarebbero semplicemente “incidenti” dovuti a “malintesi”, spesso causati dal comportamento della donna”. La donna che insomma, se l’è cercata. Un “mito” ancora vivo che “può acquisire portata normativa e giuridica”. Benevieri ne ha trovato traccia in alcune trascrizioni forensi. Senza cercare nei grossi inciampi della giustizia sul tema, ma scovando il “micro-potere” che si annida nelle sottigliezze. “Dietro un uso inconsapevole della parola - dice - si nasconde il rischio di utilizzarla come strumento di dominio, anche di genere, anziché come strumento di garanzia, resuscitando così mai sopite culture inquisitorie”. Può essere il tono della voce, una certa gestione delle pause, il modo in cui è formulata una domanda, o l’uso di un linguaggio ostico per imbarazzare il teste. Può essere anche una sillaba messa al posto sbagliato. Il punto è che attraverso il linguaggio si veicola un convincimento: che la vittima sia responsabile del fatto subito. O che non si sia “difesa” abbastanza. Qualche volta - troppo spesso - se ne convince la vittima stessa, e allora decide di non denunciare. Soprattutto se lo stupro avviene dentro la coppia. E nonostante i dati statistici dicano che il contesto familiare è quello in cui si consumano maggiormente i “reati spia” della violenza di genere: dagli atti persecutori ai maltrattamenti. “La natura non sempre esplicita dell’efficacia condizionante e stereotipizzante propria di certe strategie comunicative fin troppo spesso sfugge all’attenzione di avvocati e magistrati. Ecco il motivo per cui si ritiene ormai non più rinviabile la necessità che tutti gli operatori che partecipano alla celebrazione dell’udienza penale siano formati anche con adeguate competenze linguistiche e comunicative”, spiega l’avvocato Benevieri. Che vede nella formazione un possibile argine. E che, come esperto della materia, ha edificato intorno al tema una certa idea foucaultiana delle dinamiche in gioco. Garanzia e dominio sono i due poli. E il trucco è quello di sempre: si denigra “l’accusatrice” per depotenziare l’accusa. “Rituali di degradazione”, dice l’autore, inseriti dentro quel rito “teatrale” che è il processo penale, con tanto di attori e regista. “Il codice di procedura penale regola il dibattimento inteso anche come evento linguistico e, pertanto, disciplina per esempio il modo di formulazione delle domande. Proprio nella consapevolezza della dimensione della parola come potere, che può incidere direttamente nella formazione della prova dichiarativa resa in aula, prescrive infatti che le domande non possano essere nocive, cioè formulate in modo tale da nuocere alla sincerità delle risposte”. Domande “nocive”, vietate sempre dal nostro ordinamento, e domande “suggestive”, consentite soltanto nel “controesame”. Un esempio? Benevieri ne pesca uno dalla trascrizione di un processo penale nei confronti di un imputato per violenza sessuale: “L’imputato… Le piaceva, no?”. Che non è una vera richiesta, ma il tentativo di ottenere “una mera ratifica dell’informazione già contenuta nella domanda”. E già tramandata coi miti, da Aracne ad oggi. Gli stereotipi di genere nelle domande. Quando la vittima finisce sul banco degli imputati Pubblichiamo di seguito un estratto del libro “Cosa indossavi? Le parole nei processi penali per violenza di genere” di Iacopo Benevieri (Tab Edizioni, marzo 2022, 144 pp.). Secondo il nostro ordinamento giuridico nel processo penale devono essere distinte due tipologie di domande con effetti condizionanti: quelle nocive e quelle suggestive. Le domande nocive, vietate in termini assoluti, sono quelle che “possono nuocere alla sincerità delle risposte”. Si tratta delle domande che di fatto impediscono al testimone di riferire ciò che vuole, di esprimere fedelmente il proprio pensiero. Linguisti e semiologi hanno infatti evidenziato come “l’atto di parola” (c.d. speech act) presupponga che il flusso comunicativo sia effettivo, tale da consentire al parlante di trasferire consapevolmente l’informazione in modo aderente alla propria intenzione, confidando sul fatto che l’interlocutore la riceva e al contempo riconosca tale intenzione di trasmetterla. Le domande nocive pertanto pregiudicano la libertà di autodeterminazione dell’interrogato e, conseguentemente, compromettono la libertà della relazione comunicativa. La Corte di Cassazione ha precisato come rientrino in questa categoria, e pertanto risultino assolutamente vietate, le domande formulate con il ricorso a espressioni equivoche o ambigue, tali da indurre il testimone in errore; quelle maliziose e suadenti; quelle tendenziose e ovviamente quelle subornanti, intimidatorie, ostili o subdolamente minacciose. Sono invece ammesse, seppur con talune limitazioni, le domande suggestive, cioè quelle che “tendono a suggerire le risposte”: esse sono vietate solo “nell’esame condotto dalla parte che ha chiesto la citazione del testimone e da quella che ha un interesse comune”, vale a dire nel c.d. “esame diretto”. In sostanza, a titolo di esempio, mentre il difensore della persona offesa non può rivolgerle domande suggestive (c.d. “esame diretto”), ciò è consentito al difensore dell’imputato (c.d. “controesame”). Le domande suggestive sono quelle che in vario modo inducono il testimone a fornire la risposta che nella stessa domanda viene suggerita ma, a differenza di quelle nocive, non gli impediscono di esprimere liberamente il proprio pensiero e non pregiudicano la sua libertà di autodeterminazione. È evidente che cogliere con un certo grado di oggettività la componente suggestiva in una domanda è impresa certamente ardua. La complessità dell’atto comunicativo è tale che la idoneità controllante della domanda può risiedere in molteplici aspetti: nel lessico scelto, nella struttura morfosintattica dell’enunciato, nel ricorso a particolari elementi paralinguistici quali, per esempio, il tono, il ritmo, le pause, i silenzi, aspetti questi che si intrecciano con altri fattori come le caratteristiche psicologiche, sociolinguistiche degli interlocutori, la particolare relazione instaurata tra di essi, la specifica posizione della domanda nella sequenza. L’uso strategico di domande più o meno suggestive consente al regista dell’interazione di intervenire sulla risposta dell’interlocutore, condizionandola e, in tal modo, di raggiungere i propri obiettivi strategici nel processo. Avvocati e pubblici ministeri nell’aula di udienza hanno come obiettivo non tanto (o non solo) quello di convincere, di persuadere il testimone o l’imputato interrogato, quanto quello di “manipolare” il discorso, la narrazione, al solo scopo di convincere il giudice. La scelta del tema delle domande, l’ordine delle stesse nella sequenza, la loro formulazione costituiscono la narrazione che ciascun attore fa al tribunale. Numerosi sono stati gli studi di psicologia, linguistica, semiotica, sociologia finalizzati a classificare le domande suggestive seguendo vari criteri, come quello della forma della domanda, del grado di apertura o di chiusura, della inclusione nella domanda di componenti assertive, di presupposizioni o implicazioni. A fronte della ricchezza e della varietà di tali tassonomie, cercheremo di occuparci di quelle domande che possono veicolare in aula stereotipi sessisti a un livello particolarmente subdolo e difficilmente rilevabile, pur mantenendo un rilevante effetto controllante e vittimizzante sulla persona interrogata. Quelle più rappresentative di questa categoria sono costituite prevalentemente dalle domande polari, dalle domande-coda e dalle domande implicative. Queste tipologie di domande presentano tutte un certo grado di coercitività del contenuto atteso delle risposte. (...) Attraverso la scelta della forma sintattica della domanda, l’allocazione di una particella finale, l’inserimento di un enunciato in forma assertiva, insomma attraverso questi atti di micro-potere linguistico la violenza subita diventa atto di cui la persona offesa viene definita incauta autrice. Il rituale di degradazione è compiuto, la faccia della persona offesa è stata minacciata, a lei l’onere di resistere, di contrapporvisi con i limitati diritti e poteri conversazionali che il ruolo di interlocutrice “debole” le assegna. In definitiva attraverso la domanda, che è parola-potere già solo per la sua collocazione sovraordinata nella interazione asimmetrica, il mito può acquisire portata normativa e giuridica, cioè il grado massimo di inveramento nella realtà cui il mito può aspirare. Tale rischio può esser contrastato solo se gli altri registi dell’interazione intervengono affinché sia restituita alla persona interrogata la parola-garanzia, cioè le migliori condizioni per un sereno e autentico esercizio del proprio atto comunicativo. Ciò potrà avvenire solo se tutti gli attori istituzionali dell’aula di udienza penale dispongono di adeguate competenze linguistiche e culturali che forniscano loro gli strumenti idonei per adempiere a tale compito. Iran. Giustiziato il secondo manifestante, condannato per aver ucciso due guardie del regime di Greta Privitera Corriere della Sera, 12 dicembre 2022 Si chiamava Majid Reza Rahnavard ed è stato impiccato nella città di Mashhad. Aveva 23 anni come Mohsen Shekari, il primo ragazzo giustiziato. L’Iran ha eseguito la sua seconda esecuzione legata all’ondata di proteste antigovernative durata quasi tre mesi. Majid Reza Rahnavard è stato impiccato nella città di Mashhad, ha detto la magistratura del paese. È stato condannato per aver accoltellato e ucciso due membri delle forze di sicurezza. La prima esecuzione legata alle proteste è avvenuta giovedì scorso, quando Mohsen Shekari è stato impiccato, scatenando una diffusa condanna. L’Iran esegue la prima esecuzione per le proteste Il ministro degli Esteri britannico James Cleverly ha avvertito all’epoca che il mondo non poteva “chiudere un occhio davanti all’aberrante violenza commessa dal regime iraniano contro il suo stesso popolo”. Le proteste in corso sono state innescate dalla morte di Mahsa Amini, una donna di 22 anni che è stata arrestata dalla polizia morale del paese a settembre ed è morta durante la detenzione. È stata trattenuta per aver presumibilmente indossato il suo hijab, o velo, “in modo improprio”. I disordini, iniziati nella capitale Teheran, dove è morta Amini, si sono estesi a circa 160 città in tutte le 31 province iraniane. Secondo il gruppo per i diritti HRANA, oltre 18.000 persone sono state arrestate e 488 persone sono state uccise durante i disordini. Le proteste sono una delle sfide più serie per la Repubblica islamica sin dal suo inizio dopo la rivoluzione del 1979. Libano. Cinque funzionari a giudizio: finalmente applicata la legge contro la tortura di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 12 dicembre 2022 Il 5 dicembre, per la prima volta, un giudice libanese ha applicato la legge contro la tortura del 2017: cinque funzionari dei servizi di sicurezza sono stati incriminati per la morte del rifugiato siriano Bashar Abdel Saud. Saud era stato arrestato nella sua abitazione della capitale Beirut il 30 agosto ed era morto il giorno dopo a seguito di un violentissimo pestaggio. Il 3 settembre i familiari avevano ricevuto una telefonata da un funzionario dei servizi di sicurezza, che chiedeva loro di recarsi nel quartier generale di Tebneen, nel sud del Libano, per recuperare la salma. Di fronte allo scandalo provocato dalle immagini del corpo torturato di Saud, i servizi di sicurezza avevano diffuso una serie di dichiarazioni contraddittorie: arrestato per il possesso di una banconota falsa da 50 dollari, l’uomo sarebbe stato uno spacciatore di Captagon e, infine, anche un terrorista dello Stato islamico. Perché la legge sulla tortura faccia per la prima volta il suo corso, sarà ora necessario che i cinque funzionari rinviati a giudizio siano processati non in corte marziale bensì presso un tribunale ordinario, come prevede il diritto internazionale nei casi in cui gli indagati siano militari ma la vittima sia un civile. Negli ultimi anni sono state presentate decine di denunce di tortura, soprattutto ai danni di rifugiati siriani. Un caso però ha coinvolto anche il noto attore Ziad Itani. È proprio a causa dello strapotere dei tribunali militari che le indagini per tortura non sono finora mai andate avanti. La speranza è che la vicenda di Saud possa incrinare il muro dell’impunità. *Portavoce di Amnesty International Italia Georgia. Le carceri georgiane e i ladri per legge di Marilisa Lorusso balcanicaucaso.org, 12 dicembre 2022 Carceri sovraffollate, carenza di personale, scarse attività per i detenuti, ma soprattutto il perpetrarsi all’interno del carcere di modelli di criminalità e violenza. Un report del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e dei Trattamenti Disumani e Degradanti. Nel 2022 è stato reso pubblico il report del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e dei Trattamenti Disumani e Degradanti che ha visitato la Georgia l’anno precedente. La Georgia è segnataria della Convenzione, e pertanto ospita periodiche visite, riceve raccomandazioni, risponde ai quesiti che vengono posti. Il Comitato ha visitato le carceri di Ksani, di Rustavi e di Geguti che nel 2021 ospitavano 1812 prigionieri a Ksani, 1506 prigionieri a Rustavi e 680 prigionieri a Geguti, a fronte di una capacità ufficiale più limitata. Ksani per esempio potrebbe ospitare al massimo 1388 detenuti. Le tre carceri sono esclusivamente maschili e sono definite “zone” carcerarie, cioè aree di reclusione semi libera, in cui i detenuti possono muoversi con una certa autonomia negli spazi comuni. Durante alcune visite compiute negli anni passati il Comitato aveva già rilevato quanto segue: carceri sovraffollate, con carenza di personale, con scarse attività per i detenuti, ma soprattutto il perpetrarsi all’interno del carcere di modelli di criminalità e in particolare di violenza, intimidazione ed estorsione tra detenuti e l’influenza della gerarchia informale dei detenuti. Quest’ultimo poi è un problema radicato nelle carceri georgiane, e ha dato vita a una sottocultura carceraria che poi è uscita dalle mura delle prigioni e si è propagata nella società civile, e non solo entro i confini del paese: il cosiddetto fenomeno dei “ladri per legge”. I ladri per legge - La delegazione del Comitato ha notato segni evidenti della presenza di gerarchie informali di prigionieri, nei simboli tipici posti visibilmente al di sopra delle porte delle celle e sui muri delle celle: stelle a otto punte, che indicano il mondo dei ladri, e i lupi ringhianti noti anche come “Oskals”. In tutte le carceri (ma principalmente a Rustavi seguita da Ksani, meno a Geguti) c’era una netta disparità di condizioni tra le celle: mentre la maggior parte dei detenuti doveva vivere in alloggi angusti e piuttosto fatiscenti, certi detenuti (presumibilmente quelli che occupano i ranghi più alti nella gerarchia carceraria) godevano di condizioni relativamente confortevoli. Alcuni detenuti hanno confermato alla delegazione l’esistenza della gerarchia e della riscossione (o meglio dell’estorsione) di denaro (dai detenuti ma più spesso dalle loro famiglie) per il fondo dei carcerati irregolari (“obshchak”). Intimidazioni e violenze sono quindi la conseguenza di queste pratiche illegali, delle gerarchie interne legate alla presenza dei cosiddetti ladri per legge. I ladri per legge, oltre che oggetto di film e libri, sono delle autentiche istituzioni. La comunità dei ladri è sorta e si è sviluppata nelle viscere dei Gulag e si è essenzialmente trasformata durante il periodo dell’era Kruscëv-Breshnev. L’organizzazione originaria era caratterizzata da uno scontro inconciliabile con il governo al potere ma anche una simbiosi con l’amministrazione del campo nell’attività di gestione e di supervisione dei detenuti. I ladri sono nati quindi come una forza anti-statale, ma con incarichi informali di gestione delle aree di detenzione, in origine i Gulag, poi le carceri. Ma appunto la loro capacità di influenza e amministrazione dell’illecito si è spinta oltre le aree di detenzione, e i ladri si sono dati un ruolo di risolutori di contese anche nella società civile, oltre ovviamente a continuare a esercitare attività illecite. La moderna comunità dei ladri per legge si è tramutata in gruppi mafiosi pur conservando le tradizioni di alcuni rituali formali dal valore più simbolico che pratico. I moderni ladri come leader delle società criminali sono una forza che, con la riorganizzazione dell’ex URSS e il capitalismo selvaggio degli anni ‘80-’90, è riuscita a ottenere potere finanziario, influenza politica e connessioni criminali transnazionali che li rendono ancora più pericolosi per lo stato e la società. La Georgia ha adottato una legge sul modello dell’antimafia italiana e da diversi anni i ladri per legge rientrano nelle organizzazioni designate come reti criminali transnazionali. Stando alla definizione delle attività dei ladri da parte dell’Office of Foreign Assets Control statunitense essi “sono diventati una vasta organizzazione criminale che si è diffusa in tutta l’ex Unione Sovietica, in Europa e negli Stati Uniti, impegnandosi in una varietà di crimini, come riciclaggio di denaro, estorsione, corruzione e rapina […] sono mandanti di omicidi […]”. Per entrare nell’organizzazione bisogna vantare un curriculum carcerario, e le carceri georgiane si trasformano in aree di reclutamento. Secondo l’Ombudsperson - L’Ombudsperson in un suo recente rapporto al parlamento ha confermato il quadro presentato dalla delegazione in visita, ed ha sottolineato come il problema del perpetrarsi di schemi criminali e sovraffollamento non sono gli unici delle carceri georgiane. Come emerso dal caso Saakashvili anche l’accesso ai servizi medici rimane problematico. La salute dell’ex presidente sta rapidamente deteriorando, e la percezione del trattamento carcerario che sta subendo è che si sia deciso di lasciarlo morire. La scorsa settimana i suoi avvocati hanno chiesto una sospensione della sentenza. Saakashvili non è l’unico malato per cui il trattamento carcerario potrebbe risultare fatale. Nel 2020 un detenuto di origine iraniana è morto in carcere perché l’intervento a cui doveva sottoporsi in 2 o 5 giorni al massimo è stato poi fatto con sette mesi di ritardo, quando per il malato non c’era ormai più nulla da fare. L’Ombudsperson ha sottolineato che anche la violenza tra le mura del carcere rimane un problema. Oltre ai casi di violenza fra i prigionieri - anche la delegazione in visita riporta di aver casualmente assistito a un violento pestaggio - e l’inefficienza del personale carcerario nel prevenirla, ci sono casi di violenza perpetrata dal personale carcerario stesso o da organi di polizia in aree di detenzione non solo carceraria, come le stazioni di polizia. Ci sono poi una serie di difficoltà relative alla presenza di comunità religiose, etno-linguistiche diverse all’interno delle carceri. Gli stranieri raramente hanno accesso a informazioni e comunicazione in una lingua per loro intellegibile. Le mense delle carceri non sono strutturate per venire incontro a tradizioni alimentari diverse frutto di credenze religiose differenti. In ultimo, l’isolamento è una pratica estremamente utilizzata e non sempre rispetta i dettami di legge. Non è chiaro il regolamento che governa l’utilizzo di questo strumento per cui domina un certo arbitrio che lascia spazio ad abusi.