“Le criticità nelle carceri sono diverse. La principale è il vuoto” di Sara Vanni sardegnareporter.it, 11 dicembre 2022 Intervista a Daniela De Robert, membro dell’Autorità Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà: “La dimensione di un tempo che scorre inutilmente. Un tempo che è semplicemente sottratto alla vita e che non riesce a diventare un’opportunità di crescita di cambiamento. Eppure, la Costituzione ci chiede un reinserimento costruttivo”. A cosa è dovuto questo vuoto? “Dalla mancanza di attività significative durante la reclusione. Inoltre, non dimentichiamoci che durante la pandemia e il lockdown vennero interrotte tutte le attività e gli incontri con i familiari. Un’altra criticità è la sensazione di abbandono e di rimanere segnato per sempre che percepisce chi vive dietro le sbarre. Il carcere, difatti, è come se le persone non appartenessero più alla comunità esterna. C’è la sensazione di essere dei ‘vuoti a perdere’”. Da cosa nasce lo studio dei suicidi negli Istituti penitenziari? “L’altissimo numero dei suicidi non può non preoccupare e interrogare una Autorità di garanzia che ha il compito di vigilare sul rispetto dei diritti delle persone private della libertà. Solo che, l’insieme di cause e di ragioni che spinge al gesto non può essere ricondotta automaticamente e in via esclusiva alla condizione di detenzione in carcere.” La ricerca, infatti, approfondisce le dinamiche dei suicidi in carcere nel 2022 e, nella seconda parte, fa un’analisi diacronica degli ultimi 10 anni... L’abbiamo voluta pubblicare -anche se intermedia- perché ci sembrava importante iniziare ad offrire dei dati precisi sui quali ragionare. Cosa si evince analizzando il rapporto? “Il rapporto di quest’anno evidenzia innanzitutto un record negativo: negli ultimi 10 anni non ci sono mai stati così tanti suicidi. Andiamo nello specifico: 49 persone si sono uccise nei primi mesi di detenzione; 5 di questi nei primi giorni; 9 addirittura nelle prime 24 ore. Alcuni non avevano fatto in tempo neppure ad essere immatricolati perché si sono uccise subito. Quindi non è il sovraffollamento o il carcere degradato a spingere le persone a gesti estremi, ma la disperazione: quella sensazione terribile di chi entra in carcere e pensa: ‘da qui non riemergerò mai più’”. In quale altro momento si registra il picco di suicidi? “L’altro picco di suicidi si registra quando il detenuto sta per uscire a fine pena. Sembrerebbe un controsenso, ma l’uscita può trasformarsi in disperazione, nella paura di non farcela, di solitudine, di non trovare un’accoglienza all’uscita, di non trovare un lavoro per mantenersi, una casa, delle amicizie significative. Senza dimenticare lo stigma”. Chi sono i soggetti particolarmente vulnerabili? “Il rapporto ha fatto emergere che 65 persone (pari all’82,28%) sulle 79 suicidatesi erano coinvolte in altri eventi critici, mentre altre 26 (ossia il 33%) avevano precedentemente messo in atto almeno un tentativo di suicidio (in 7 casi addirittura più di uno). Inoltre, 23 persone (ossia per il 29% dei casi) erano state sottoposte alla misura della ‘grande sorveglianza’ e di queste 19 lo erano anche al momento del suicidio. Va osservato poi che 18 persone tra quelle che si sono tolte la vita risultavano senza fissa dimora e tutte di nazionalità straniera. A proposito di quest’ultimo dato, si evidenzia che il numero delle persone senza fissa dimora che si sono tolte la vita risulta in netto aumento rispetto agli anni precedenti. Questo ci dice che vivere per strada è un fattore di fragilità che si somma alla vergogna di essere finiti in carcere. Inoltre, anche il carcere stesso rende più fragili le persone, specie se sono recluse da tanti anni. Una volta uscite, fanno molta fatica a riprendere il ritmo e possono sentirsi completamente tagliate fuori”. Nordio: “Cambia l’avviso di garanzia e chiedo giudici-manager. Civile, a giugno si accelera” di Massimo Martinelli Il Messaggero, 11 dicembre 2022 Il Guardasigilli: “Le critiche? Me le aspettavo. Ma sono 25 anni che sostengo le stesse cose”. Un nuovo modello di avviso di garanzia, magistrati-manager ai vertici degli uffici giudiziari, utilizzo “flessibile” dei fondi europei per incidere sulle criticità e una data, giugno, per vedere i primi risultati della “rivoluzione Nordio” nella giustizia civile.  Eppure, ministro Nordio, la sua relazione al Parlamento sulla riforma della giustizia ha suscitato anche commenti critici. Qualcuno sostiene che lei si stia addirittura “rivalendo” sugli ex colleghi pm. È così? “Di rivalsa non se ne parla proprio. Quando sono andato in pensione ho ricevuto dai miei colleghi, anche da quelli che la pensavano diversamente da me, manifestazioni di enorme affetto, e con tutti mantengo eccellenti rapporti. Del resto la mia carriera è andata come volevo. Mi piaceva stare a Venezia e fare indagini, non ho mai chiesto cariche apicali e avrei fatto il sostituto fino alla fine. Altra cosa sono le reazioni sui contenuti. Me le aspettavo, ma anche i colleghi dovevano aspettarsi le cose che ho detto, perché le scrivo da 25 anni”.  Soffermiamoci ancora un attimo sulle reazioni di alcuni leader politici davanti alle prime iniziative del governo. Alcune sono state particolarmente violente e, in alcuni casi, sono state seguite da vere e proprie minacce esplicite dirette al premier e ad altri esponenti del governo. Secondo lei questo clima di odio quanto è legato alla esasperazione dei toni introdotta da alcuni leader politici? “Anche questi sibili di rancore erano prevedibili, perché la riforma da me proposta tocca quei santuari ideologici ritenuti fino ad ora intangibili. Da magistrato ne sorridevo e da editorialista reagivo con una certa indulgente ironia, ma da ministro ne tengo conto e risponderò con il dialogo e proposte concrete. Se poi alcuni fanatici faranno del loro peggio, io cercherò di fare del mio meglio”.  Il tema delle garanzie non è mai stato affrontato in maniera compiuta. Ci sono gli aspetti legati alle intercettazioni telefoniche ma anche quello dell’utilizzo mediatico dell’avviso di garanzia. Che farà? “Delle intercettazioni ho ripetuto fino alla noia che sono utili e talvolta indispensabili per i reati di grave allarme sociale, ma che staticamente la gran parte riguarda reati che non hanno nulla a che vedere con mafia e terrorismo, sono costosissime e non servono a niente. È incivile che spendiamo per loro duecento milioni l’anno mentre stentiamo a trovare i soldi per pagare il sostegno psicologico ai detenuti a rischio di suicidio. Quello che comunque va evitato è che finiscano sui giornali. Sul punto ho già detto che la vigilanza sarà rigorosa”.  E l’avviso di garanzia?  “Quanto all’informazione di garanzia, è un istituto che va rivisto: ha cambiato nome mille volte, ma da strumento di garanzia si è trasformato in condanna mediatica anticipata. Ma questo si potrà fare solo con una revisione organica del codice di procedura penale, a cominciare dal registro degli indagati che dovrebbe restare segretissimo e invece si è trasformato in una automatica fonte di delegittimazione di una persona che non è nemmeno imputata”. Spesso i cronisti giudiziari finiscono nel mirino per aver pubblicato intercettazioni e avvisi di garanzia. Quali sono le buone pratiche per un giornalista che si occupa di vicende giudiziarie? “In linea di massima quando pubblica una notizia il giornalista fa solo il suo dovere; se c’è violazione del segreto istruttorio la colpa è di chi divulga o lascia divulgare la notizie, non del giornalista. I limiti sono due: la diffamazione, quando la notizia non è verificata, e la compromissione delle indagini: se ad esempio sta per scattare un’operazione per liberare un ostaggio, il giornalista che ne venga a conoscenza deve tacere. Ma su questo ho sempre trovato, anche da pm, molta responsabilità tra i cronisti giudiziari”. La sua strategia per riformare il processo penale è chiara. Parliamo della giustizia civile, una tartaruga che rallenta anche lo sviluppo economico del Paese. “Questo è il problema prioritario, perché ora dobbiamo incidere sulla parte della giustizia che incide sull’economia: tra l’altro sono temi poco divisivi, su cui ci siamo trovati d’accordo anche con l’Anm. Ha occupato la prima metà del mio discorso programmatico, e ne è stato dato poco risalto perché le polemiche fanno più effetto dal punto di vista mediatico. Ma noi cominceremo proprio incrementando l’efficienza della giustizia civile. La riforma Cartabia andava nella giusta direzione, noi spingeremo l’acceleratore. Implementeremo gli uffici giudiziari con i fondi europei, anche provando a renderli più flessibili, nell’ambito dei vincoli che questi ci impongono. E soprattutto procederemo ad una rivoluzione informatica sulla quale stiamo già lavorando. Entro giugno dovremmo già vedere i primi risultati”. Ci sono in Italia alcuni uffici giudiziari che, a parità di condizioni, funzionano meglio di altri. Come uniformare lo standard e garantire che la legge sia davvero uguale per tutti in ogni tribunale d’Italia? “Lo faremo monitorando costantemente la produttività dei vari uffici, aggregando i dati con frequenza bisettimanale, e confrontando i risultati a parità di risorse e di contenziosi. Quindi aiuteremo gli uffici in sofferenza a trovare le soluzioni adatte anche individuando dirigenti di grande capacità manageriale. Lo stesso Csm dovrebbe privilegiare per le cariche direttive questo ultimo aspetto piuttosto che quello della preparazione teorica. Per individuare queste criticità sarà fondamentale l’Ufficio Ispettivo. Gli ispettori non dovrebbero avere una funzione burocratica statistica o di iniziative punitive ma di ausilio e suggerimenti di pratiche virtuose prendendo esempio dagli uffici meglio organizzati. Si è detto che voglio mandare ispezioni dappertutto: no. Se le regole saranno rispettate, e la stragrande maggioranza dei magistrati le rispetta, il ministero sarà un riferimento di supporto e di confronto, non di vigilanza arcigna”.  Nella sua relazione lei ha parlato degli effetti distorti dell’avviso di garanzia e della carcerazione preventiva. Tra questi ha citato l’estromissione degli avversari dalla scena politica. Significa che parte della magistratura agisce a sua volta come soggetto politico? “Questo no. Vi sono stati certamente casi di protagonismo di magistrati, come ha denunciato il presidente Mattarella pochi mesi fa. Ma la strumentalizzazione delle indagini l’ha fatta la politica, inventandosi l’eresia che bastasse un’indagine per costringere o indurre l’avversario o l’amico a farsi da parte, per prendere il loro posto. Salvo poi essere divorati anche loro da questo coccodrillo famelico”. Le intercettazioni telefoniche sono ormai diventate strumento di prova: una certa conversazione viene considerata prova di responsabilità penale. Ma non dovrebbero essere semplicemente strumenti per “cercare le prove”? Perché questa deriva? “Perché non ci sono più risorse umane per fare bene le indagini, e ci si affida a questo strumento quasi automatico che alla fine qualcosa ti fa trovare. Un po’ come il medico, che non avendo tempo per una vista accurata ti inonda di esami costosi, spesso inutili e anche pericolosi. E il conto alla fine è salatissimo, perché i prezzi sono elevati e i risultati pochi. E poi crediamo davvero che il grande delinquente parli al telefono o a casa sua? Il criminale vero parte dal presupposto di esser intercettato anche in aperta campagna dai microfoni direzionali o da un trojan, e le sue affermazioni sono dirette a ingannare chi lo ascolta, a depistare le indagini o a calunniare terzi”.  I tribunali e le procure, oggi, in alcune città non potrebbero svolgere la loro funzione giurisdizionale senza l’apporto dei giudici onorari. Sono giudici dimezzati, pagati a cottimo, senza garanzie. Non è un altro sintomo di malessere del nostro sistema giudiziario? “Questo problema sarà risolto a breve. I giudici onorari tengono in piedi buona parte del sistema, ma hanno un trattamento irrazionale, senza garanzie economiche e addirittura previdenziali. Fermo restando che in magistratura si entra per concorso, esistono modi per disciplinare lo status di questa essenziale categoria in modo stabile e dignitoso”.  Da Casarini a Gori, i supporter che non t’aspetti per Nordio “garantista” di Lorenzo Salvia Corriere della Sera, 11 dicembre 2022 Chi applaude da sinistra alle riforme annunciate dal ministro. L’ex capo dei Disobbedienti: “Non sono suo amico ma condivido la sua linea”. Il sindaco di Bergamo: “Il garantismo è il fondamento dello Stato di diritto”. “Non sono certo amico di Nordio ma non posso che condividere con lui la volontà di mettere un freno a questo strapotere dei magistrati”. Ricordate Luca Casarini? Ex capo dei Disobbedienti veneti negli anni ‘90, leader del Movimento no global italiano, oggi vive a Palermo e lavora con una ong che si occupa de i migranti in arrivo dalle coste africane. Una voce di sinistra, sebbene irregolare per definizione e per metodo. Che però appoggia gli interventi annunciati dal ministro della Giustizia, iscrivendosi di diritto al fronte pro Nordio che non t’aspetti. “Sul limite alle intercettazioni e sull’eliminazione del carcere preventivo sono completamente d’accordo con lui” ha detto ieri al Corriere del Veneto, dopo una discreta serie di post e di interventi vari in cui aveva già messo agli atti la sua posizione. Certo, dietro un ragionamento politico c’è spesso un concreto elemento autobiografico. Forse anche stavolta è così. Casarini è indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, le intercettazioni delle sue telefonate sono state pubblicate facendo scoppiare un caso: “Ma ero contro la diffusione delle intercettazioni ben prima che capitasse a me” assicura lui, che poi chiama in causa addirittura Berlusconi: “L’accanimento giudiziario contro di lui a cosa ha portato? A vent’anni di berlusconismo”. Resta il fatto che quella di Casarini non è l’unica sorpresa tra le voci a sostegno della riforma annunciata dal nuovo ministro della Giustizia. Difficile immaginare una sinistra più lontana da Casarini rispetto a quella rappresentata da Giorgio Gori, sindaco di Bergamo per il Pd. Eppure, il suo tweet pubblicato pochi giorni fa esprime gli stessi concetti: “Il garantismo è il fondamento dello Stato di diritto”. E poi: “Le proposte di Nordio - rafforzamento presunzione d’innocenza, separazione carriere tra pm e giudici, stop abuso carcerazione preventiva e intercettazioni - vanno sostenute. Stop al giustizialismo di destra e di sinistra”. Tra i commenti sotto il suo post, che naturalmente non costituiscono un campione statisticamente rappresentativo, ci sono tanti complimenti. Ma anche chi gli dice “basta, vai con Renzi”. Ecco, Renzi. Il sostegno suo e di Italia Viva alle riforme annunciate dal ministro Nordio non è certo una sorpresa. Resta il fatto che si tratta di un partito che sta all’opposizione, anche se mai dire mai. E che lo stesso Renzi fino al 2017, non una vita fa, era proprio il segretario del Pd. Nel fronte pro Nordio che non t’aspetti c’è anche Anna Paola Concia, deputata del Pd fino al 2013. Anche lei ha scelto Twitter per sostenere il ministro della Giustizia dopo il suo intervento in Parlamento: “Bravissimo Nordio oggi in commissione Giustizia. Speriamo riesca a fare tutto quello che promette”. Ex di molte cose - tra tutte, consigliere di Massimo D’Alema a Palazzo Chigi - Claudio Velardi è abituato ad andare controcorrente. A volte anche per il gusto di sparigliare, ma stavolta la questione è seria: “Sulla giustizia -scrive su Twitter - hanno fallito tutti i governati del passato. Se il ministro Nordio fa l’ottima riforma annunciata, avvia a soluzione il principale problema italiano dell’ultimo trentennio”. E ancora: “Se ci riuscirà, il governo di Giorgia Meloni acquisirà un merito storico. Se”. L’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione, verrebbe quasi da dire. Nordio, il garantista intermittente tra cene e manette lagunari di Pino Corrias Il Fatto Quotidiano, 11 dicembre 2022 Br, Mose e Meloni Sta con “Mani Pulite”, poi si pente. L’inchiesta sulle coop rosse è un flop. Maledice le intercettazioni, ma ne ha fatto largo uso. A una ferrea regola però non sgarra: in ufficio mai oltre le 17. Per l’età e la sapienza storica si paragona a Churchill. D’aspetto si è gemellato a Giordano Bruno Guerri, quello che vive al Vittoriale con i fantasmi dannunziani. Invece è solo il dottor Carlo Nordio da Treviso, detto l’Intermittente, qualche volta burbero di legge, sempre elegante nei modi, bon vivant per prassi quotidiana e cene veneziane. Ex magistrato di laguna. Neo ministro di lotta e sorprendentemente di governo, visto che per quarant’anni ha ripetuto che un “un magistrato mai e poi mai sarebbe dovuto scendere in politica”. Nemmeno da ex. Tuttavia a 75 anni compiuti, la noiosa pensione gli ha suggerito l’ascensione tra i velluti di Montecitorio con 115 mila voti incassati dai suoi fratelli d’Italia proprio nel collegio dove operò da magistrato, circostanza in verità non del tutto opportuna, ma a lui concessa senza polemiche, vista la fama locale che la bella carriera gli ha concesso. Oltre a un ben temperato salvacondotto che si è guadagnato nel tempo per essere contemporaneamente di destra nella giurisprudenza che punisce e insieme garantista nei convegni di dottrina, dunque prudentemente equidistante tra gli eterni contendenti che in politica si annettono il premio elettorale di una giustizia forte con i deboli, cioè i poveracci, e debolissima con i forti, titolari del quieto vivere e delle carriere. E quindi astro nascente della Nazione securitaria di Giorgia Meloni. Nonché paladino della “difesa sempre legittima” che piace agli spaventati guerrieri di Matteo Salvini. A riprova dell’indole s’è subito schierato con il più prepotente tra i senatori rinascimentali, Matteo Renzi, che tra un viaggio a gettone e l’altro, fa la guerra ai magistrati fiorentini che non solo osano indagare sulla fondazione Open che tiene finanziariamente viva la sua Italia Viva, ma hanno mandato gli atti di indagine al Copasir, il Comitato che si occupa dei Servizi segreti. Il sopruso, ha detto in aula il neo ministro, versione garantista, assecondando i lamenti renziani, “sarà oggetto di immediato e rigoroso, sottolineo rigoroso, accertamento conoscitivo”. Subito dopo, ha aggiunto, “questo dicastero procederà a una approfondita, e sottolineo approfondita, valutazione al fine di assumere le necessarie iniziative”. Minaccia perentoria, purtroppo sgonfiatasi in una sola notte, visto che le carte di indagine su Open sono state mandate al Copasir non per malvagità dei magistrati fiorentini, ma per legittima richiesta. Che peccato, e sottolineiamo peccato. Già pregustava, il Nordio principe del diritto, la bella cronaca delle ispezioni ai suoi ex colleghi, i pubblici ministeri che a vasto raggio detesta forse per averli frequentati a lungo, anche se mai oltre il suo orario d’ufficio, le 17 in punto, ai quali oggi promette carriere separate da quella dei giudici, primo tassello della estesa riforma sempre auspicata dai berlusconiani di lungo corso - i Previti e i Dell’Utri, per esempio - indagati da una trentina d’anni, e dunque competenti per biografia. Quella di Nordio inizia il 6 febbraio 1947, dentro allo scrigno di Treviso, città mirabilmente narrata nel film di Germi Signore e signori, labirinto di piccole e grandi ipocrisie cattolico-borghesi. Entra in magistratura nel 1977, anno di violenza politica, specie in Veneto. Si occupa di Brigate rosse. Smantella la colonna veneta: “Giravo scortato e armato, ricevevo lettere con la stella a cinque punte, ma ricordo che erano in gioco lo Stato e la democrazia”. In quanto a difesa della democrazia, partecipa alla stagione di Mani Pulite, segnata in Veneto dalle parabole dei ministri Gianni De Michelis, socialista, e Carlo Bernini, democristiano, con tanto di arresti preventivi e intercettazioni quanto basta. Salvo pentirsi di quasi tutto. Dei colleghi milanesi di Mani Pulite “che indagano con finalità politiche”. Degli arresti preventivi perché contraddicono “una giustizia che garantisca la presunzione di innocenza”. E delle intercettazioni “che sono uno strumento micidiale di delegittimazione personale e spesso politica”. Per non dire della lunghezza delle indagini a strascico. Tutte considerazioni che andavano di pari passo alle sue lunghe inchieste a strascico sulle cooperative rosse - anni 1993-98 - 278 indagati, compresi i due bersagli grossi, Achille Occhetto e Massimo D’Alema, che fecero titolo sui giornali, ma niente arrosto nelle indagini. Fino a quando l’ufficio dell’Udienza preliminare gli chiese di spedire i fascicoli alla competente Procura di Roma. Ordinanza che lesse e dimenticò nei cassetti per andarsene a cena. Cena che in quel caso durò fino al 2004, quando saltò fuori il trascurabile misfatto, i due indagati immediatamente prescritti e poi risarciti con 9 mila euro a testa per “ingiustificato ritardo”, non dal pm Nordio, già diventato il castigamatti dei pm, ma dallo Stato. Nelle vesti di procuratore aggiunto ha coordinato l’inchiesta sulle tangenti al Mose, le barriere architettoniche che fanno argine all’acqua alta di Venezia, 35 arresti preventivi, intercettazioni illimitate, un centinaio di indagati, tra i quali il sindaco Orsoni, pd, il consigliere politico di Giulio Tremonti, Marco Milanese, Forza Italia, e quel capolavoro di Giancarlo Galan, presidente della Regione Veneto, berlusconiano in purezza, ex Publitalia, che obbligato a restituire la villa dove abitava sui Colli Euganei, come acconto per i 15 milioni di maltolto, si portò via i sanitari e i caloriferi, smontati a martellate dai muri. Nordio considera il suo punto di svolta quando nel 2000 convalidò l’arresto di un geometra che aveva appena caricato una prostituta moldava. E che si suicidò per la vergogna, appena scarcerato. “Mi portò a riflettere su quante misure cautelari potevano essere evitate”. In particolare quella, del tutto arbitraria. La sua intermittenza garantista gli consente oggi di auspicare la riduzione delle leggi che “sono troppo numerose”, spesso emotive, e insieme assecondare quella emotiva e nuovissima “anti rave”. In compenso promette di smantellare l’obbligatorietà dell’azione penale “diventata un intollerabile arbitrio”. Ripristinare l’immunità parlamentare, smontare la legge Severino sulla incandidabilità dei condannati, secretare le intercettazioni. Ci risiamo, dileguati i tempi grami delle mascherine, si torna a quelli vecchi del bavaglio, la stoffa del migliore garantismo per i giustizialisti. Indipendenza bene comune. Azione penale e carriere: i punti fermi di Mario Chiavario Avvenire, 10 dicembre 2022 “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. Non è nuovo il dibattito sulla laconica regola che si legge all’art. 112 della Costituzione; ma a ravvivarlo, in questi giorni, è stato il proposito di revisione, espresso dal ministro Nordio davanti alle Commissioni giustizia delle due Camere, con il concomitante annuncio dell’intenzione di esplicitare, nel testo costituzionale, una netta e radicale separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Numerose, insieme ai consensi non strettamente limitati all’area di governo, le voci polemiche, talora spinte sino all’allarme: e non solo tra i magistrati e tra le forze politiche di opposizione. Non è, del resto, troppo lontano il ricordo di quando il richiamo all’articolo 112 è servito come scudo a sostegno di iniziative dei titolari di indagini delicatissime, per metterli al riparo da cedimenti a suggestioni, a seduzioni e anche a vere e proprie minacce, più o meno velate, di potenti e prepotenti, alle quali si è potuto rispondere: non siamo noi che vi vogliamo perseguire; è la Costituzione che ci obbliga; dunque, le vostre lusinghe e le vostre minacce sono fuori bersaglio e restano vane. Tutto questo è vero. Però è anche vero che il vissuto dell’art. 112, accanto a queste luci, presenta non piccole zone d’ombra. È fuor di dubbio che in quella versione il Costituente si sia espresso con una rigidità non avente uguali nei Paesi europei che pur non meno del nostro possono esibire nella loro storia e nel loro presente i valori dello Stato di diritto. E qui non parlo solo di quelli che, come la Gran Bretagna e la Francia, si ispirano programmaticamente a un principio opposto a quello di obbligatorietà dell’azione penale, all’insegna di una discrezionalità di base che viene esplicitamente lasciata agli organi dell’accusa penale (sempre più ancorata, però, a criteri di esercizio, in radice fissati ab extra) sul se e sul come innescare un processo per i reati che si vengono a scoprire. Penso anche e soprattutto alla Germania, dove pur non è ignoto l’obbligo di procedere, per il pm (seppur non esplicitamente formulato nella Carta fondamentale, lo si ricava sì dall’intero contesto costituzionale), ma è generalmente ammesso che in relazione ai reati minori possa trovare a livello di legge ordinaria - e in effetti trova - varie eccezioni. In Italia quella rigidità ha, in passato, costituito un freno a più che opportune possibilità di “de-processualizzazione” di parte della massa di denunce di scarso rilievo sociale, oltretutto destinate a finire (e, quel che è peggio, a far finire altri casi più gravi) sotto la scure della prescrizione. Oggi, da questo lato, il costo che ne conseguiva si è assai ridotto e quasi azzerato, soprattutto da quando si è riusciti, a dispetto di quella rigidità, a far sì che si possano archiviare, con il beneplacito di pm e giudici, le notitiae criminis concernenti casi di particolare “tenuità”. E, specialmente se troveranno sviluppo gli incentivi alla “giustizia riparativa”, verrà sempre meno a soffrirne la tutela delle vittime dei reati. È rimasta però, finora, un’anomalia di segno diverso: la proclamata obbligatorietà non ha impedito che i magistrati del pubblico ministero dispongano di fatto della più ampia discrezionalità nella scelta dai tempi per le loro iniziative nell’avviare e nel condurre le indagini relative a ciascuna notizia di reato; essa finisce così per coprire un potere che invece va disciplinato. A dire il vero, con la “riforma Cartabia” (la cui entrata in vigore dovrebbe sbloccarsi alla fine dell’anno) anche a tal proposito si sono fatti passi avanti significativi, nel senso di vincolare l’esercizio del potere a quelli che sono stati chiamati “criteri di priorità” tra le varie categorie di reati, da fissarsi, anche in rapporto alle disponibilità di personale e di strutture, a partire da determinazioni parlamentari di carattere generale per scendere alle specificazioni da parte dei singoli uffici di Procura da esternare nei relativi progetti organizzativi. Tutto ciò non esclude l’opportunità di un dibattito a più ampio raggio, che si estenda senza pregiudiziali anche all’art. 112. Non può essere un tabù. Ma non può nemmeno essere un bersaglio intermedio per favorire - anche al di là delle migliori intenzioni - vecchi e nuovi regolamenti di conti di una certa politica con una certa magistratura. Insomma, né privilegi di categoria né attentati all’indipendenza, essenziale, in Italia, anche per i magistrati del pubblico ministero. Per combattere la corruzione non bastano le leggi di Lirio Abbate L’Espresso, 11 dicembre 2022 Le norme proposte dal Guardasigilli Nordio esistono già. E non funzionano. Perché sono i valori condivisi da una collettività a generare comportamenti virtuosi. Senza cultura della legalità le minacce punitive servono a poco. La corruzione torna nell’agenda della politica e ad annotarla è il ministro della Giustizia Carlo Nordio durante un convegno. Letta così appare una buona notizia per un Paese che purtroppo viene ancora piegato a colpi di mazzette. Dopo l’uscita del ministro è stato necessario l’intervento del procuratore Raffaele Cantone. Con la sua lunga esperienza nella prevenzione e lotta alla corruzione, ha ricordato al Guardasigilli che la ricetta che ha proposto, attraverso una norma per incentivare il pentimento di chi corrompe c’è già, ma “non ha dato risultati”. Occorre capire bene in che modo Carlo Nordio voglia riscrivere le norme sulla corruzione. Come ha suggerito Cantone “è un’esigenza giusta dire che è necessario spezzare la complicità tra corrotto e corruttore, ma la legge Spazzacorrotti l’ha già previsto” e quando fu approvata in Parlamento si disse che con questa norma la corruzione sarebbe stata eliminata. E purtroppo, a oggi, non è così. Nell’ultimo anno, come spiegano i dati della Guardia di Finanza, quasi sei miliardi di euro sono stati sottratti a chi ne aveva diritto, sei miliardi stanziati per la spesa pubblica e finiti nelle mani sbagliate. Sono storie di corruzione, truffe e sprechi che hanno riguardato fondi statali e dell’Unione Europea, spesa sanitaria e assistenziale, fondi bancari assistiti da garanzia e appalti. Complessivamente i finanzieri hanno denunciato più di 45mila persone e inviato quasi ottomila segnalazioni alla Corte dei Conti per un danno alle casse dello Stato di tre miliardi e mezzo. Il male è quindi ancora vivo nel corpo del Paese. Il dito contro la linea politica di Nordio l’ha puntato in commissione Giustizia il senatore Roberto Scarpinato (M5s), il quale sostiene, riferendosi al governo, di “depotenziamento della risposta penale nella fase storica in cui le ingentissime risorse economiche del Pnrr hanno mobilitato gli interessi di comitati di affari, delle mafie, di articolate reti corruttive che operano nell’ombra della massoneria deviata”. E chiede se “il governo è consapevole del concreto pericolo che ingenti somme di denaro vengano distratte dalle finalità pubbliche e disperse nel buco nero della corruzione e della gestione clientelare del potere pubblico”. Insomma, le inchieste degli ultimi anni ci descrivono l’esistenza in tutto il Paese e in tutte le fasce sociali di una criminalità sistemica. E questa porzione del Paese illegale ha un forte potere di contrattazione sociale e politica. L’argomento giustizia, come vediamo a ogni governo che si succede, è sempre controverso. Questo condiziona tutte le altre questioni e ogni possibile accordo o soluzione. Dunque si chiede alla politica di assolvere un compito ben preciso: promuovere un’alfabetizzazione sulla cultura della legalità, fondando una nuova etica pubblica. Tra etica e diritto esiste un rapporto inversamente proporzionale. Tanto più si espande la sfera dell’etica, dell’adeguamento spontaneo a regole e a valori condivisi dal corpo sociale, tanto più si restringe la sfera del diritto, momento di imposizione al rispetto delle regole. Non è compito della giurisdizione porre le premesse per la rifondazione dell’etica. Il processo penale è e deve restare una vicenda individuale che non può e non deve assolvere mediante la sua valenza simbolica le funzioni di riorientamento valoriale della collettività. E la politica non può assolvere il suo compito in questo caso varando nuove leggi, perché non è la norma di legge che crea il valore ma, al contrario, il valore che produce la norma, anche quella non scritta. Questo compito può e deve essere assolto soprattutto nutrendo la cultura della legalità con esempi pratici e reali. Da qui devono partire il ministro Carlo Nordio e la premier Giorgia Meloni se vogliono contrastare la corruzione. Con la buona pratica della cultura della legalità. “Da Nordio un coraggio rivoluzionario, ma ora tocca al Parlamento” di Errico Novi Il Dubbio, 11 dicembre 2022 Ciro Maschio, presidente della commissione Giustizia di Montecitorio ed esponente di prima linea, sul tema, per Fratelli d’Italia, ha ben impressa la forza dell’intervento pronunciato da Carlo Nordio alla Camera. “Ma adesso”, aggiunge il deputato del partito di Giorgia Meloni, “è il Parlamento che dovrà tradurre in un percorso di riforme quei principi fissati con un discorso dal profilo così alto. Nel rispetto della separazione tra i poteri, che il ministro ha molto a cuore, come attestano i suoi scritti”. Ma un programma così ambizioso come quello illustrato da Nordio è davvero sostenibile? Intanto con le parole del guardasigilli si compie un salto di qualità nel dibattito. La sua straordinaria cultura giuridica, unita alla sua esperienza, consentono di portare il confronto su un piano più elevato. Ora, appunto, tocca al Parlamento declinare nella forma più appropriata quei principi, secondo una gerarchia di priorità che mi pare molto chiara. E qual è? È evidente come si debba dare priorità a quegli interventi che incidono più direttamente sull’efficienza della macchina giudiziaria. Va fatto per mantenere gli impegni con l’Europa, attraverso una maggiore efficacia e rapidità della giustizia sia penale che civile. E le grandi riforme anche costituzionali? Assestato il quadro, ci sarà modo di passare alle riforme di sistema che il ministro ha illustrato con le sue linee programmatiche. È chiaro che ci vorrà un tempo maggiore. Non si può pensare che interventi di quel tipo si realizzino con la stessa immediatezza. Ma c’è un vantaggio che non va sottovalutato: per la prima volta da almeno due legislature ci si trova con una maggioranza politica ampia e omogenea, che sicuramente può compattarsi attorno al messaggio di Nordio, e che anzi può ottenere, sul punto, convergenze da settori dell’opposizione. Potranno finalmente essere messi in atto principi della nostra civiltà giuridica che negli ultimi anni sono stati spesso sacrificati. Quindi la convergenza col Terzo polo su alcune riforme della giustizia, lei sta dicendo, non riguarda solo FI né rischia di incrinare la maggioranza... Io credo innanzitutto che la convergenza sia nei fatti possibile, anzi certa, per l’intera maggioranza. Anche grazie all’intervento del guardasigilli, è stato allontanato l’equivoco secondo cui alcuni punti sarebbero scarsamente condivisi da parti dell’alleanza di governo. Se ben guardiamo, i principi chiave del discorso di Nordio consistono nel rafforzamento della presunzione d’innocenza e in un’attuazione dell’idea per cui la pena deve essere certa e quindi rapida, effettiva, efficace, immediata e proporzionata. Sono le due facce della stessa medaglia del garantismo. E un’impostazione del genere è condivisa, ripeto, dall’intero centrodestra. Va archiviata la stagione in cui era più facile entrare in carcere da innocenti in applicazione di misure cautelari ed era più facile uscire dal carcere da condannati, il che generava una sensazione di impunità e incertezza. Ma lei crede sia possibile far passare l’idea, anche nell’opinione pubblica, che certezza della pena non equivale a certezza del carcere? Da questo punto di vista va aperta una riflessione importante. A partire dalla condizione attuale del sistema penitenziario, che incide sia sugli agenti che sui detenuti. La base da cui è necessario partire è l’allarme sui suicidi lanciato sia dalla presidente Meloni che dal ministro Nordio. Si tratta di prese di posizione che segnalano la tensione verso il ripristino della civiltà giuridica e la difesa dei diritti. E allora, se si riuscirà a riorganizzare la politica carceraria, a rilanciare l’edilizia penitenziaria, ad attuare accordi con gli altri Paesi in modo che i detenuti stranieri scontino la pena in patria, e se riusciremo così a ridurre la percentuale dei reclusi nelle nostre carceri, che è ancora ben al di sopra della capienza regolamentare fissata dalle norme europee, ecco, in questo quadro più ampio, si potrà fare una riflessione anche sul fatto che la certezza della pena non comporta necessariamente il ricorso alla pena carceraria. Ma, torno a dire, sempre in un quadro in cui, per noi di Fratelli d’Italia, certezza della pena significa rapidità, efficacia, proporzionalità e immediatezza. Equo compenso: meglio varare il prima possibile la legge così com’è stata approvata, da voi alla Camera, nella scorsa legislatura o prendersi più tempo per accogliere anche alcune richieste avanzate dal mondo forense, dal quale lei stesso proviene? È un tema di cui si è discusso in commissione la settimana scorsa e che sarà ripreso nella prossima. Da una parte il meglio è, come si dice, nemico del bene, e potrebbe avere senso arrivare subito all’approvazione dell’equo compenso, tenuto conto che si tratta di una legge molto atteso dai professionisti. Dall’altra parte dobbiamo guardare alla realtà delle prossime settimane, in cui l’agenda parlamentare sarà fittissima. Fra decreto Rave, decreto Aiuti quater, legge di Bilancio e altre scadenze, potrebbe essere impossibile calendarizzare l’equo compenso, e inevitabile aggiornare al nuovo anno il voto sul provvedimento. A quel punto sarebbe ragionevole consentirsi una rifinitura del testo e accogliere alcuni suggerimenti preziosi venuti dall’avvocatura. Diciamolo: negli ultimi giorni si è capito che la sua sarà una commissione tutt’altro che marginale per questa legislatura... Ma certo. Ripeto, da una parte i punti indicati dal ministro nelle linee programmatiche sono condivisi dall’intero centrodestra: dall’uso strumentale dell’informazione di garanzia alle modalità disfunzionali con cui sono state gestite le intercettazioni, fino alla separazione delle carriere. Sono questioni segnalate dal ministro in coerenza con i principi costituzionali e sulle quali il centrodestra è unito. Ora però è il Parlamento a dover trovare il modo di attuare quei principi. E per quanto mi riguarda, lo si dovrà fare senza creare uno scontro tra i poteri dello Stato e con i protagonisti del mondo della giustizia. Si dovrà lavorare sulla base del dialogo e del confronto civile, da cui nessuna delle visioni che esistono nel dibattito sulla giustizia dovrà essere esclusa. Venezia. Malore nel carcere, muore detenuto trevigiano trevisotoday.it, 11 dicembre 2022 L’uomo, un 43enne di Gaiarine, era recluso per effetto di una condanna in primo grado a 4 anni e 8 mesi per traffico di stupefacenti. I fatti risalgono a giovedì 8 dicembre. Stava scontando una pena di 4 anni e 8 mesi per traffico di droga nel carcere di Venezia: l’altra mattina si è svegliato ed è stato colto da un malore. Nonostante i tentativi di rianimazione del personale medico, l’uomo, un 43enne di Gaiarine, è deceduto. Stava attendendo il processo d’appello, per dimostrare la sua innocenza. Il dramma si è consumato giovedì mattina, sul quale farà luce la Procura di Venezia. Il pubblico ministero ha disposto l’autopsia, che verrà effettuata giovedì prossimo, per chiarire con precisione la causa dell’improvviso malore. Sono escluse al momento responsabilità di terze persone, ma l’uomo stava bene e la magistratura vuole fugare ogni dubbio. “Tutti si sono attivati in modo tempestivo per cercare di salvarlo, ma purtroppo non c’è stato nulla da fare. Attendiamo l’esito dell’autopsia”, spiega il suo legale, l’avvocato Giuseppe Basso, che aveva assistito il 43enne in sede processuale insieme all’avvocato Massimo Scantamburlo. Non c’erano stati segnali, anzi quella stessa mattina il 43enne aveva fatto regolarmente colazione. Poi, tornato in cella, si è sentito male. Sono stati gli stessi compagni ad allertare le guardie penitenziarie. Dal carcere di Santa Maria Maggiore è stato richiesto anche l’intervento dell’elisoccorso, però il cuore dell’uomo non ha più ripreso a battere. Sconvolti dal dolore i familiari che abitano a Gaiarine. Cordiglio ai familiari è venuto anche dal sindaco Diego Zanchetta.  II 43enne nel settembre 2021 era stato tra i cinque arrestati di una vasta operazione antidroga eseguita dai carabinieri di Sacile, che avevano smantellato un giro di cocaina e marijuana tra Pordenonese e Trevigiano. Era stato ammesso ai domiciliari e aveva avuto il braccialetto elettronico. Secondo l’accusa era un “braccio esecutivo” del capo spacciatore. Sassari. Alfredo Cospito non molla, l’anarchico al 41bis continua lo sciopero della fame di Frank Cimini Il Riformista, 11 dicembre 2022 Alfredo Cospito continua lo sciopero della fame iniziato oltre cinquanta giorni fa. Ha detto di essere intenzionato a proseguire con sempre maggiore determinazione alla dottoressa Melia che lo ha visitato nella tarda mattinata di oggi nel carcere di Sassari Bancali. Secondo il medico Cospito “sta reggendo abbastanza bene nonostante veleggi verso i due mesi di digiuno. Prende solo qualche cucchiaino di zucchero al fine di tenere sotto controllo la glicemia ed è molto pallido anche perché non usufruisce di ore d’aria”. Cospito, dopo la decisione dei giudici di Torino di inviare gli atti del processo per i pacchi esplosivi di Fossano alla Corte Costituzionale in merito alla concessione dell’attenuante relativa alla lieve entità del danno, è in attesa della scelta del Tribunale di Sorveglianza di Roma sul reclamo contro il 41 bis, l’applicazione del carcere duro con blocco della corrispondenza sia in entrata sia in uscita, socialità pressoché azzerata. I giudici si erano riservati la decisione lo scorso primo dicembre. “Anche oggi come tutti i giorni dall’udienza mi sono recato in sorveglianza per chiedere se vi fossero novità - racconta l’avvocato difensore Flavio Rossi Albertini - mi è stato risposto che il sabato è permesso l’accesso solo per atti urgenti e che non essendo tale la vicenda, da più di 50 giorni è in sciopero della fame, non potevo neppure entrare in Tribunale”. “Ho spiegato che ci sarebbe stata visita medica e che avrei potuto eventualmente comunicare l’esito ma neppure questo argomento ha modificato l’atteggiamento del cancelliere di turno”, ha denunciato il legale di Cospito. Bolzano. Alì, morto di freddo a vent’anni sotto il ponte ferroviario di Paolo Ferrario Avvenire, 11 dicembre 2022 “La nostra città è affollata di turisti - dice il vescovo, Ivo Muser - ma non si è trovato posto per questo giovane, deceduto da solo e al gelo. Non dobbiamo rimanere indifferenti”. Le luci dei mercatini di Natale affollati di turisti le ha viste soltanto da lontano perché a lui, come alle altre centinaia di migranti che si trovano, per strada, a Bolzano, il centro è precluso. Così, un giovane egiziano di nemmeno vent’anni è andato a morire di freddo e solitudine in un giaciglio di fortuna nella zona della Fiera, sotto la linea ferroviaria che collega il capoluogo altoatesino con Merano. È successo l’altra notte, la seconda che il ragazzo passava in Italia, dopo essere entrato dal Brennero percorrendo la famigerata “rotta Balcanica”. E potrebbe succedere di nuovo, visto che, da questa sera, le temperature sono date in picchiata con le minime abbondantemente sotto lo zero. “Questa morte rattrista profondamente, colpisce e fa pensare”, commenta il vescovo di Bolzano-Bressanone, Ivo Muser. “La nostra città è affollata di turisti - ricorda - ma non si è trovato posto per questo giovane, deceduto da solo e al gelo”. La sua tragedia, sottolinea il vescovo, “deve scuotere tutti: per queste persone non c’è posto nella nostra ricca città perché non sono previste, non sono desiderate e non sono benvenute”. E questo, ricorda Muser, accade perché “non portano nulla e non sono fonte di guadagno. Sono soltanto un fastidio, soprattutto nel pieno del consumismo e del divertimento prenatalizio”. Secondo il vescovo Muser c’è solo una risposta che la società deve dare: “Non rimanere indifferenti, non voltarsi dall’altra parte, favorire l’incontro e cercare soluzioni comuni con tutte le parti coinvolte, affinché una cosa del genere non si ripeta”. Sulla strada, per assistere gli ultimi che nessuno vede, ci sono da anni i volontari di Bozen solidale, che già da tempo aveva denunciato la situazione dei migranti che vivono all’addiaccio e che ora parla di questa ennesima tragedia della povertà e dell’indifferenza come di una “morte annunciata”. Nel mirino dell’associazione c’è la circolare Critelli del 2016, emanata dalla Provincia autonoma, che prevede l’accoglienza soltanto per chi è inviato direttamente dal ministero dell’Interno. Per chi arriva a Bolzano autonomamente, come il giovane morto assiderato venerdì notte, ci sono soltanto i due centri di accoglienza comunali di via Comini ed ex-Alimarket, ormai esauriti da tempo. Per chi non trova posto resta soltanto la strada e una coperta. “Attualmente - ricorda la presidente di Bozen solidale, Federica Franchi - in città vivono per strada almeno trecento persone, tutti uomini. Le donne e i bambini, che non trovano posto nei due centri comunali, sono ospitati in alcuni alberghi, ma per gli uomini ci sono soltanto soluzioni di fortuna”. Per cacciare via il freddo pungente di queste notti, non bastano però le coperte e qualche thermos di thè caldo distribuiti dai volontari. “Se ci fossero soluzioni abitative per le centinaia di lavoratori, stagionali e non - rilancia Franchi - chi lavora e vorrebbe pagare un posto letto non sarebbe costretto ad occupare i dormitori a bassa soglia dedicati ai senzatetto”. Già, perché per vivere a Bolzano - dove un posto letto costa anche 650 euro al mese - non è nemmeno sufficiente avere un lavoro, anche a tempo indeterminato, per potersi permettere un tetto sopra la testa. “I proprietari di case preferiscono tenere gli alloggi vuoti che affittarli ai migranti”, denuncia la presidente di Bozen solidale, che lo scorso 24 novembre ha già promosso un presidio in città per “Casa, diritti e dignità”, organizzando una seconda manifestazione pubblica per sabato 17 dicembre, dalle 10,30, davanti all’Università. Sulla morte del giovanissimo migrante egiziano Sinistra die Linke ha annunciato un’interrogazione parlamentare, mentre secondo Anpi Alto Adige, “le periferie urbane, sociali e umane dove, a fianco delle ricche luci dei mercatini affollati e del turismo opulento, si ripetono queste tragedie annunciate sono lo specchio della nostra terra e la misura della sua civiltà, del suo stato di salute, dei suoi fallimenti, dei suoi egoismi. Questa morte non può e non deve lasciare indifferenti”. Torino. Ai domiciliari su un balcone: “Fatemi tornare in carcere” di Federico Gottardo cronacaqui.it, 11 dicembre 2022 La storia di un 51enne che vive all’aperto da quando è uscito di galera. “In carcere avevo la cella di fronte a quel ragazzo che si è ucciso. Ora io sono uscito e rischio di fare la stessa fine”. Marco Coscioni parla dal balcone del residence La Collina, al confine fra Chieri e Pino Torinese. Racconta di essere lì agli arresti domiciliari da due settimane, dopo essere uscito dal carcere di Torino. Peccato che non abbia una stanza e viva nel vano scala della struttura. Che è all’aperto: l’ex carcerato passa giorno e notte al gelo ed è disperato, tanto da raccontare pubblicamente la sua storia e chiedere aiuto. Senza negare le sue colpe: “In questi anni sono entrato e uscito di galera dopo che ho picchiato delle persone che dovevano pagarmi per dei lavori che avevo fatto - ripercorre il chierese, 51 anni e papà di due ragazze - Ho sbagliato e non chiedo sconti. Ma mi serve aiuto: mi hanno dato gli arresti domiciliari per cominciare a reinserirmi in società. Ma come faccio se sono qui a congelare? Ho già rischiato l’ipotermia più volte”. Ma com’è possibile che un uomo, al di là delle sue responsabilità, resti a dormire all’aperto? Dal residence spiegano chiaramente perché non lo accolgono: “Ci deve migliaia di euro e l’ultima volta ci siamo ritrovati la camera devastata - spiegano i gestori della struttura, cui il Comune si appoggia per risolvere le emergenze abitative - Quindi non lo accettiamo più. Abbiamo segnalato che è rimasto lì e che ci sta dando problemi ma non possiamo fare altro”. Dai carabinieri risulta partita la segnalazione al Tribunale per risolvere il problema degli arresti domiciliari in un luogo in cui Coscioni non ha il domicilio: “Se non mi autorizzano, io non posso muovermi da questo indirizzo” sottolinea il 51enne. E il Comune di Chieri non può fare nulla? I servizi sociali conoscono la situazione ma finora non sono intervenuti: “In passato lo abbiamo aiutato direttamente, adesso non abbiamo possibilità - ricostruisce l’assessore alle politiche sociali, Raffaela Virelli - Ci sono delle norme da rispettare ma poi c’è anche l’umanità. Al di là delle colpe di questa persona e delle nostre responsabilità, è giusto sollevare il problema e provare a trovare una soluzione”. Coscioni, tra le lacrime, ne suggerisce una estrema: “Preferisco tornare in carcere dove ho cibo e acqua calda. Così non posso andare avanti. Piuttosto mi ammazzo come ha fatto quel mio vicino di cella”. Napoli. Patto educativo al palo: “Mancano 41 milioni contro la devianza minorile” di Valerio Esca Il Mattino, 11 dicembre 2022 Dopo sette mesi dalla firma dell’accordo resta al palo il Patto educativo. L’intesta siglata lo scorso 13 maggio tra ministero dell’Istruzione, scuole, istituzioni territoriali, enti locali, l’Arcidiocesi di Napoli, organizzazioni del volontariato e del terzo settore, nasce dall’esigenza di arginare il fenomeno della dispersione scolastica e del disagio formativo. Fu annunciato dall’allora ministro Patrizio Bianchi un finanziamento di 41,1 milioni di euro per 217 istituti scolastici dell’area metropolitana di Napoli, grazie ai fondi del Pnrr. Di questi 14,8 milioni destinati a 78 scuole nel Comune di Napoli. I fondi sono stati assegnati, ma non liquidati. In sostanza non sono mai arrivati nelle casse degli istituti: ognuno dei quali avrebbe dovuto ricevere sul proprio conto corrente una media di circa 180mila euro.  Sui territori le imprese del terzo settore - grazie a finanziamenti propri - continuano a portare avanti progetti, laboratori e iniziative con le scuole. Il Comune di Napoli, dal canto suo, lunedì ha convocato la seconda riunione del tavolo sul Patto educativo a cui parteciperanno - oltre ai firmatari Ufficio scolastico regionale, istituzioni religiose e organizzazioni del terzo settore e del volontariato - anche i presidenti di Municipalità, al fine di elaborare sui singoli territori le strategie più efficaci. L’anello mancante è proprio lo Stato, che non solo non ha ancora fornito le scuole dei fondi necessari per portare avanti il Patto, ma non ha neanche definito i criteri relativi alla spesa delle risorse. Due passaggi fondamentali: perché senza soldi e senza linee guida il Patto educativo resta lettera morta. Un appello, affinché “la burocrazia non blocchi il Patto” è stato lanciato dall’arcivescovo di Napoli, don Mimmo Battaglia, durante le celebrazioni nel giorno dell’Immacolata: “Ogni scelta tenga conto dei bisogni dei giovani. Come vorrei, cara Napoli, che nel tempo presente si guardi realmente alla gioia dei bambini, senza arenarsi, tra burocrazie e linguaggi differenti senza cedere a visioni miopi e poco lungimiranti che riducono il Patto educativo alla gestione dei fondi del Pnrr, senza andare oltre, senza dar vita ad un processo lungo e ampio, fatto di confronto paritario e di accoglienza di coloro che cercano con onestà e fatica di custodire la gioia dei bambini, degli adolescenti e dei giovani”.  In un contesto complesso, con una macchina burocratica arrugginita, c’è però chi continua a prodigarsi per i più giovani. “Finanziamo decine di progetti in città grazie ai quali stiamo operando - spiega il presidente dell’impresa sociale “Con i bambini”, Marco Rossi-Doria - Non sono finanziamenti di progetti futuri, ma di cose già in atto. Noi la nostra parte la stiamo facendo”. E aggiunge: “Il Comune ha convocato già due volte i tavoli di discussione e l’Ufficio scolastico regionale partecipa al tavolo di concerto con il Municipio e le altre istituzioni. Basti pensare all’impegno che sta mettendo in campo anche la Curia napoletana. Quindi mi pare che la parte un po’ più a rilento non riguardi le istituzioni territoriali. Per questo auspico che ci sia un’accelerazione”. Rossi-Doria, primo maestro di strada d’Italia (1994-1996), nomina ricevuta dall’allora ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer, conosce bene le problematiche legate alla dispersione scolastica, ma anche le dinamiche governative, avendo ricoperto il ruolo di sottosegretario all’Istruzione dal 2011 al 2014, nei governi Monti e Letta. “Non dobbiamo immaginare che ci sia una cabina di regia che decide cosa di debba fare - rimarca il presidente di Con i bambini - dobbiamo immaginarci che le scuole operano, ma con difficoltà se il ministero non dà i soldi”. “Ben prima del cambio di governo - ribadisce - il Miur non ha fornito alcuna indicazione tecnica operativa su come utilizzare le risorse. Tantomeno le ha trasferite sui conti in banca degli istituti scolastici. I presidi quindi hanno ricevuto nominalmente i soldi per mettere in campo progetti contro la dispersione scolastica, ma non li hanno a disposizione”. Manca addirittura una circolare che lo certifichi: “Il vecchio governo non l’ha fatta per imperizia - rimarca Rossi-Doria - e il nuovo perché non si è ancora predisposto per farla, almeno per il momento”. Intanto lunedì alle 12, presso la sala dei Baroni del Maschio Angioino, durante la seconda riunione del tavolo sul Patto educativo saranno presentati i dati aggiornati sull’evasione scolastica in città, sulla base della nuova piattaforma informatica creata dal Comune di Napoli e che ha ricevuto un plauso recentemente anche dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, nel comitato per l’Ordine pubblico tenutosi in prefettura ed alla luce dei dati raccolti dall’osservatorio comunale. Bergamo. In carcere letture e racconti: nasce il circolo delle narratrici di Rosanna Scardi Corriere della Sera, 11 dicembre 2022 Il progetto coinvolge 20 detenute ed è promosso dal Sistema bibliotecario urbano. Si sono avvicinate alla lettura grazie a libri speciali come graphic novel, albi illustrati, silent book e pop up artistici. Sono le 20 detenute che compongono Il circolo delle narratrici nel carcere di Bergamo. A conclusione della formazione effettuata nella biblioteca della sezione femminile di via Gleno, domani (11 dicembre), alle 14.30, il gruppo coinvolto nel progetto, in collaborazione con le bibliotecarie, si presenterà agli ospiti della Casa circondariale. L’iniziativa è stata promossa dal Sistema bibliotecario urbano del Comune di Bergamo e dall’associazione Il Cerchio di Gesso e sostenuto dalla Fondazione Comunità Bergamasca; rientra nelle iniziative di Bergamo Capitale del volontariato 2022 e affianca i professionisti già attivi nel carcere, supportando il loro operato. Domani le narratrici proporranno “Letture, racconti e compagnia”, narrazioni che saranno condivise nel teatro interno al carcere, esclusivamente con detenute e detenuti, volontarie e volontari. “All’inizio - racconta Candelaria Romero, formatrice dell’associazione e coordinatrice del Circolo dei narratori di Bergamo - ho proposto esercizi di narrazione orale come il presentarsi, in un minuto, sedute sulla sedia del narratore, guardando le altre negli occhi, partendo dal loro nome, spiegando come vogliono o non vogliono essere chiamate. Sono emersi il loro vissuto e i ricordi d’infanzia”. Piano piano, la formatrice ha iniziato a conoscere le sue narratrici, i loro interessi e le idee. Cinque gli incontri del corso, a cadenza settimanale, anticipati da altri conoscitivi, nella biblioteca della sezione femminile, prima poco frequentata. “Il loro desiderio era parlare di relazioni - prosegue l’esperta -, affetti, perdita, oggetti cari e animali. Il tutto si ritrova nelle stanze della casa, che è diventato il tema principale. Senza imporre nulla, le detenute hanno scelto testi in varie lingue che leggeranno: sono tratti dalle “Favole al telefono” di Gianni Rodari, scritti di Pablo Neruda, poesie di Wislawa Szymborska e c’è pure una canzone di Vinicio Capossela”. Lo stesso vissuto di Candelaria Romero si incrocia con questi sofferti percorsi di vita. “Per me non è stato facile entrare in carcere - spiega -. Mio padre ha sofferto le torture subìte durante la sua detenzione in Argentina negli anni ‘70 e la sua voce e le sue urla le sento ogni volta che entro nel carcere di via Gleno, ma lui è riuscito lo stesso a fare della vita una poesia. Le bibliotecarie, con la loro competenza, sono in mezzo a tutte le fatiche delle vite delle detenute, un piccolo faro che illumina, come un libro luminoso”. Il circolo dei narratori nella biblioteca della sezione femminile del carcere di Bergamo, replica, con le necessarie e peculiari differenze, l’esperienza in atto dal 2013 nelle biblioteche di Bergamo, Dalmine e Stezzano, che coinvolge 120 volontari. “Attraverso il progetto organizzato per le detenute - conclude Nadia Savoldelli, vicepresidente del Cerchio di Gesso - che continuerà nel tempo e nella formazione, ci proponiamo di valorizzare le diverse realtà presenti, trattando i temi della convivenza tra culture, esperienze, lingue, usanze e abitudini diverse in uno spazio di condivisione delle loro biografie personali intrecciate con le grandi storie delle letterature”. L’Aquila-Chieti. Una settimana di eventi organizzati dall’associazione Voci di dentro vocididentrojournal.blogspot.com, 11 dicembre 2022 Il calendario 2023 “Volti di dentro”, gli incontri pubblici con Simona e Claudio, distribuzione di vestiti e abiti caldi per le persone detenute, un convegno a L’Aquila, la distribuzione del nuovo numero della rivista dedicato ad Assange. È davvero un programma fitto di iniziative quello che impegna Voci di dentro da domani, domenica 11, fino alla fine del 2022. Tutto all’insegna della solidarietà e della la cultura in difesa dei diritti continuamente violati. In tutti i campi. Domenica 11 dicembre dalle ore 10.30 banchetto di promozione e vendita del Calendario 2023 “Volti di dentro”. A Ripa Teatina. Con le fotografe Irene Ciafardone e Marzia Cotugno. “Volti” racchiude fotografie di detenuti ed ex detenuti in affidamento all’associazione. Si pone l’obiettivo di cambiare la prospettiva e gli stereotipi che troppo spesso si hanno nei loro confronti. Persone, volti, sentimenti e quotidianità prima di ogni altra cosa. Sono i volti della sofferenza, gli stessi volti che amano la vita, i loro compagni, i loro famigliari, i loro animali, i loro amici. Sono persone che hanno voglia di riscattarsi. Sono occhi che ricordano il passato ma che cercano di portare speranza nel loro futuro. Cercano di tornare a fare del bene.  Lunedì 12 dicembre dalle ore 10 distribuzione alle persone detenute del carcere di Pescara di giubbotti, felpe, tute, maglie e calzettoni. L’iniziativa avviene nell’ambito della Tombolata organizzata dalla Croce Rossa. Grazie all’ETS Spazi o Popolare Anna Campbell di Pesaro che da anni raccoglie e distribuisce indumenti, giocattoli e soprattutto aiuto di ogni genere e calore umano alle persone in stato di disagio. Iniziativa in adesione a una campagna di Sbarre di zucchero (gruppo fb). Martedì 13 dicembre e mercoledì 14 dicembre. A Chieti. “Una storia semplice e straordinaria”. Ospiti di Voci di dentro, Simona Anedda e Claudio Bottan racconteranno la loro storia prima agli studenti dell’Istituto Galiani (martedì ore 10.30) e poi a conclusione della loro tappa abruzzese al Teatro Marrucino nell’ambito della rassegna “Amami Teatro” (ore 16). Simona è affetta da sclerosi multipla e sogna di arrivare fino all’Himalaya sulla sua sedia a rotelle, Claudio è un ex detenuto che ha deciso di spendersi in modo definitivo e totale per gli altri. Due storie di fragilità ed esclusione che insieme si completano diventando una sola Storia, semplice e straordinaria: “È difficile raccontare le emozioni e la commozione che si leggono sul volto delle persone che li ascoltano mentre parlano di come si sono conosciuti e del legame che si è creato. Per capire bisogna solo ascoltarli. Simona non muove più braccia e gambe, ma con la sua tenacia e grazie al suo “angelo custode” continua a progettare nuove sfide. Francesco Lo Piccolo: “Simona e Claudio sono speranza, positività e resilienza. Nella loro storia c’è la sintesi dei valori dell’associazione Voci di dentro: reinserimento sociale, diritti, uguaglianza. Voci di dentro è la loro “casa”. Antonella La Morgia: “Senza retorica o lacrime da talk show è la storia di chi impara nuovamente a vivere, nonostante tutti gli imprevisti in cui si può cadere. È la storia di chi impara di nuovo a camminare malgrado i molti ostacoli”. Per l’occasione, Simona, Claudio e Voci di dentro doneranno al Comune una carrozzina per disabili. L’incontro al Galiani è riservato agli studenti, l’incontro al Teatro Marrucino è aperto alla cittadinanza che è invitata a partecipare. In collaborazione con Csv, Ist. Galiani, User, FAI, CNA, e col patrocinio del Comune di Chieti.  Venerdì 16 dicembre. A L’Aquila. Sala Rivera Palazzo Fibbioni. Ore 10:30. Incontro pubblico “Al di là del muro - Riflessioni sulla Giustizia di Comunità”. Interventi di Federico Congiu (Fraterna Tau), Luana Tunno (Direttore Uepe L’Aquila, Angelo Bleve (Il Germoglio ODV), Cinzia Carlone (coordinatrice sezione staccata Centro giustizia minorile per Lazio, Abruzzo e Molise). Nell’occasione sarà presentato il calendario 2023 “Volti di dentro”. Con Francesco Lo Piccolo e le fotografe Irene Ciafardone e Marzia Cotugno. Busto Arsizio. Il calendario dei detenuti: “Dodici mesi per il riscatto” di Rosella Formenti Il Giorno, 11 dicembre 2022 Dal corso di fotografia promosso dalla cooperativa “La Valle di Ezechiele” per i detenuti è nato il calendario 2023 della casa circondariale di Busto Arsizio, iniziativa che ha potuto contare su un contributo importante, la partecipazione di alcuni vip, volti noti di tv e sport, protagonisti con i carcerati negli scatti. Il progetto ha coinvolto la conduttrice Adriana Volpe e con lei Debora Villa, Jo Squillo, Patrick Ray Pugliese, Marco Maddaloni, Martina Tammaro, Erika Mattina. Martedì alle 12 “in calendario” c’è un appuntamento importante, a Roma presso la sala stampa della Camera dei Deputati ci sarà la presentazione ufficiale dell’opera: l’invito è arrivato dall’onorevole Maria Chiara Gadda (Italia Viva). Si tratta - spiega don David Maria Riboldi - di “un inno alla vita, un invito alla speranza, a sognare una vita buona, serena per tutti, anche e soprattutto per chi ha commesso errori nella vita”. Interverranno Adriana Volpe, il campione olimpico Marco Maddaloni, il direttore della Casa Circondariale di Busto Arsizio, Orazio Sorrentini, che si è lasciato a sua volta ritrarre nelle foto di gruppo che fanno da ‘cover’ del calendario, il cappellano don David Maria Riboldi. “Le persone considerate “veramente importanti” - dicono dalla cooperativa La Valle di Ezechiele - hanno varcato i cancelli dell’istituto di pena per dire al mondo che o ci importa veramente delle persone che stanno scontando i loro debiti con la giustizia o non li salviamo più”. Il calendario è acquistabile sul sito della cooperativa “La Valle di Ezechiele”. Pesaro. Teatro in carcere, ora si va in scena. Due giorni di spettacoli e confronti Il Resto del Carlino, 11 dicembre 2022 L’evento a cura dell’associazione “Aenigma” propone sia rappresentazioni dal vivo che video d’autore. Domani e martedì parte il primo festival regionale di Teatro in Carcere a cura dell’associazione Aenigma. L’iniziativa sarà aperta lunedì 12 alle 10,30 nella Sala Convegni di Villa Borromeo a Pesaro con i saluti delle autorità. Il programma prevede la presentazione di opere video che documentano laboratori produttivi realizzati con detenuti e detenute, due performance (una all’esterno e una all’interno del carcere), un incontro con il teatro delle marionette a favore degli allievi preadolescenti dell’Istituto Comprensivo Statale Galilei, l’organizzazione di una installazione di teatro sonoro nel teatro comunale di Cagli nelle giornate del 29 e 30 dicembre. Domani si aprirà con la presentazione di “Rugby, corpo a corpo” della Compagnia Lo Spacco, composta da detenuti e detenute nella Casa Circondariale di Pesaro. A seguire saranno presentati il progetto filmico “Scolpire il movimento” di Beatrice Pucci e Marino Neri nella Casa di Reclusione di Fossombrone. Poi sarà la volta di “Cittadini Invisibili”, cortometraggio di Marco Bragaglia e Francesca Marchetti. Nel pomeriggio, alle 16, sarà invece presentata al pubblico la performance “Testimoni Oltre”, elaborato dai detenuti della Compagnia “Lo spacco” della Casa Circondariale di Pesaro e dagli studenti del Teatro Universitario Aenigma. Il secondo giorno del festival, martedì 13, si aprirà alle 9 nell’Aula Magna dell’istituto Comprensivo Statale Galilei con lo spettacolo “Variazioni”. L’iniziativa è riservata agli allievi dell’Istituto Galilei. Alle 14 nella Casa Circondariale di Villa Fastiggi a Pesaro, con un’iniziativa rivolta alla popolazione detenuta, sarà invece la volta dello spettacolo teatrale “Per sempre amici” della Compagnia Controvento della Casa Circondariale di Pesaro. Il Festival infine prevede una sua appendice nelle giornate del 29 e 30 dicembre al Teatro Comunale di Cagli con l’organizzazione di “Le voci di dentro”, installazione di teatro sonoro a cura di Fabrizio Bartolucci e Anissa Gouizi grazie alle voci dei detenuti attori della Casa di Reclusione di Fossombrone. Informazioni dal sito internet all’indirizzo web www.teatrocarcere-marche.it Roma. “La bontà non lascia soli”, raccolta di panettoni per i detenuti di Rebibbia di Ilaria Sambucci vaticannews.va, 11 dicembre 2022 In occasione delle festività natalizie i cappellani del carcere romano, insieme alla diocesi, promuovono una “dolce” raccolta alimentare per le oltre 2mila persone dei quattro Istituti del complesso penitenziario della capitale. Don Marco Fibbi: “È un segno di riconciliazione da parte della realtà esterna verso il mondo del carcere”. Fare opere di misericordia significa condividere ma anche partecipare alla sofferenza altrui. Visitare i carcerati è un gesto di amore e di attenzione verso coloro che vivono una condizione che limita la loro libertà. Il distacco dai propri cari è ciò che affligge in particolar modo i detenuti, farli sentire parte di una grande famiglia capace di accoglierli è un segno importante di solidarietà, così come può esserlo il dono dei dolci tradizionali in vista del Natale. “Nei confronti dei carcerati c’è uno stigma sociale” - afferma ai microfoni di Vatican News don Marco Fibbi, cappellano coordinatore degli Istituti penitenziari di Rebibbia -, sono considerate persone che pagano per quello che hanno fatto di sbagliato e in tanti casi questo è anche vero, però, noi che siamo esattamente contrari al ‘chiudi la porta e getta la chiave’, non aspettiamo altro invece che questa si riapri e che loro possano tornare nella società”. Un segno di attenzione - “La bontà non lascia soli” è il nome della raccolta di panettoni e di pandoro per i 2500 detenuti dei quattro Istituti penitenziari di cui si compone il carcere romano, in corso in questi giorni a Roma. L’iniziativa, promossa dai cappellani unitamente alla diocesi, ha l’obiettivo di far sentire un po’ meno sole tutte queste persone che vivranno il Natale, festa per antonomasia della famiglia, in stato di detenzione e isolamento. “Questa raccolta nasce molti anni fa - spiega don Marco - e vuole essere un segno di riconciliazione e di attenzione da parte della realtà esterna verso il mondo del carcere”. Sono davvero tante le parrocchie che aderiscono a quest’iniziativa e anche altre realtà, tra queste il Centro internazionale del Movimento dei Focolari, con sede a Rocca di Papa nella zona dei Castelli romani, che dal 2015 contribuisce a rendere più dolce il Natale dei carcerati. “L’anno scorso abbiamo donato 500 panettoni - afferma Dori Antunes della comunità dei Focolari -, da quando abbiamo iniziato ad andare a Rebibbia, questi fratelli sono rimasti nei nostri cuori. Possiamo fare poco, ma quel poco è importante che lo facciamo”, conclude. L’importanza dell’assistenza ai detenuti - Durante l’anno vengono organizzate anche altre raccolte, spiega don Marco, che servono per fornire quel minimo indispensabile ai detenuti, come ad esempio la biancheria intima e gli asciugamani. “L’amministrazione provvede alle esigenze essenziali come quella dell’alimentazione - prosegue il cappellano -, per quanto riguarda quel minimo di vestiario dignitoso di cui c’è bisogno, questo viene raccolto nelle parrocchie e in altre realtà e poi portato al magazzino della Caritas. Quest’ultima provvede alle necessità dei detenuti più indigenti, cioè quelli non assistiti dai familiari, forse perché hanno commesso degli errori anche nei loro confronti. Superare lo stigma sociale - Il Mahatma Gandhi diceva che la qualità di una nazione si misura da come tratta i carcerati. Sicuramente c’è un grande interesse a questa realtà da parte di diverse associazioni di volontariato ma è una solidarietà che deve crescere. “Nei confronti dei detenuti c’è uno stigma sociale - sostiene don Marco -, sono considerati persone che pagano per quello che hanno fatto di sbagliato e in tanti casi questo è anche vero, però, noi che siamo esattamente contrari al ‘chiudi la porta e getta la chiave ‘, non aspettiamo altro invece che questa si riapri e che loro possano tornare nella società”. L’aspetto più importante è l’istruzione e la formazione culturale perchè “molto spesso ci sono italiani e stranieri che sono analfabeti e non hanno gli strumenti necessari per poi potersi gestire una vita normale al di fuori dal carcere”. “Grande è invece la solidarietà all’interno del carcere - prosegue il cappellano - nel senso che le persone all’interno della stessa stanza o della stessa sezione molto spesso si aiutano”. Sappiamo, dice ancora don Marco, che negli Istituti penitenziari non si può entrare liberamente, e che non è facile neppure per i parenti, allora “la cosa più importante è essere con il pensiero e con la preghiera vicino ai detenuti soprattutto in questo tempo di Natale nel quale risentiranno della separazione dalle loro famiglie”. Sarà un modo per compiere quell’opera di misericordia, ‘visitare i carcerati’, che Gesù chiede ai suoi discepoli e che il Vangelo di Matteo ci ricorda. Il caso Tortora, storia di un’ingiustizia italiana di Silvia Fumarola La Repubblica, 11 dicembre 2022 Il conduttore fu arrestato il 17 giugno 1983 e, nel 1985, condannato a dieci anni di carcere per traffico di stupefacenti e associazione a delinquere. Solo nel 1986 la sentenza viene ribaltata. Del caso di Enzo Tortora, vergogna della giustizia italiana, si era occupato di recente anche Ossi di seppia, la serie proposta su RaiPlay. C’è un prima e un dopo: le parole di Raffaele Della Valle, avvocato difensore e amico del presentatore, in quella puntata che ricostruiva la vicenda, lasciano il segno. “Non era un errore giudiziario, era un orrore giudiziario”. Sono passati quarant’anni e adesso anche il regista Marco Bellocchio, che ha debuttato con una serie tv sul caso Moro, annuncia agli Efa, gli Oscar euroepi, che sta preparando un progetto su Tortora. Il caso è clamoroso: il 17 giugno 1983 Tortora viene arrestato e il 17 settembre 1985 condannato a dieci anni di carcere per traffico di stupefacenti e associazione a delinquere di stampo camorristico. Niente di quello che dichiarano i suoi accusatori è vero, Tortora vive un calvario giudiziario. Fino al processo d’appello del 1986 che ribalta la sentenza di primo grado, con l’assoluzione piena confermata in Cassazione l’anno successivo. Le figlie del giornalista, Gaia e Silvia (scomparsa il 10 gennaio 2022), combattono a fianco del padre, segnato dal carcere, dal dolore, dall’incomprensione, da un linciaggio mediatico senza precedenti. Tortora si lega al Partito radicale, la sua battaglia per la giustizia è totale, ascolta i carcerati. Tornò in televisione il 20 febbraio del 1987, ricominciando il suo Portobello. Il ritorno in video fu toccante, accolto da una lunga standing ovation. “Dunque, dove eravamo rimasti? Potrei dire moltissime cose e ne dirò poche”, esordì. “Una me la consentirete: molta gente ha vissuto con me, ha sofferto con me questi terribili anni. Molta gente mi ha offerto quello che poteva, per esempio ha pregato per me, e io questo non lo dimenticherò mai. E questo ‘graziè a questa cara, buona gente, dovete consentirmi di dirlo. L’ho detto, e un’altra cosa aggiungo: io sono qui, e lo so, anche per parlare per conto di quelli che parlare non possono, e sono molti, e sono troppi. Sarò qui, resterò qui, anche per loro. E ora cominciamo, come facevamo esattamente una volta”. Tortora morì a 59 anni la mattina del 18 maggio 1988 nella sua casa di Milano, stroncato da un tumore; i funerali - cui parteciparono tra gli altri Marco Pannella, Enzo Biagi, Piero Angela - si tennero nella basilica di Sant’Ambrogio a Milano. Marco Bellocchio: “Farò una serie sulla tragica odissea di Enzo Tortora” di Arianna Finos La Repubblica, 11 dicembre 2022 Mentre l’Europa lo festeggia a Reykjavík, consegnandogli il premio di regista più innovativo per Esterno notte, Marco Bellocchio annuncia a sorpresa un nuovo progetto: una serie su Enzo Tortora. Il cineasta fa planare la notizia qualche ora prima della cerimonia all’Harpa Concert Hall, l’auditorium in vetro nel cuore della capitale islandese. Arriva nella hall dell’hotel Parlament in contemporanea con Pierfrancesco Favino, sorridente malgrado le valigie sue e della moglie Anna Ferzetti siano rimaste, per un disguido, nello scalo parigino: “Vuol dire che mi metterò il tradizionale abito islandese”, scherza l’attore, che tre anni fa era in gara con Il traditore di Bellocchio e oggi è nella cinquina con Nostalgia di Mario Martone. Bellocchio, si aspettava il premio per la narrazione innovativa, Innovative Storytellng? “Si fa sempre il rapporto tra i miei 83 anni e la giovinezza, di solito all’età mia uno o è rincoglionito o ritirato. Ma Sofocle o geni come Michelangelo, a cui pure non mi paragono, hanno resistito, e io resisto”. Che consigli darebbe a un giovane cineasta? “Non ho assolutamente la presunzione di dare dei messaggi, ma certamente al di là della casualità - perché ci sono geni morti a trent’anni - io penso che la mia situazione sia in parte dovuta a un certo tipo di difesa della propria fantasia. In questo nostro mestiere si fanno tanti compromessi. Però c’è sempre un limite, un confine, e se tu lo oltrepassi rischi di danneggiare molto la tua immaginazione, la tua fantasia. Io ho sempre cercato di fare dei compromessi, ma anche di difendere le mie idee e le mie fonti di ispirazione. Quando dicevano che il cinema italiano si guarda sempre l’ombelico… in realtà quello che noi facciamo è la nostra autobiografia e la nostra vita, è quello che leggiamo, quello che vediamo. Però il problema è come lo trasformi e come lo ribalti, come lo rimetti in rappresentazione. Evidentemente questo movimento funziona ancora. Ci sono grandi registi che improvvisamente si sono bloccati. Sarà ancora perché mi piace questo lavoro, mi piace guardarmi attorno: io vado avanti ed è questo il motivo”. Da tempo gira La conversione, film su Edgardo Mortara, il bimbo ebreo che papa Pio IX fece allontanare dalla famiglia di origine per essere allevato da cattolico: si sono viste le prime immagini, quando sarà pronto? “Dobbiamo ancora girare alcune importanti scene, lavorerò una settimana a gennaio. Però siamo molto avanti con il montaggio. Sarà pronto in primavera e vedremo dove andrà, se piacerà, e poi capiremo quando uscire”. Esterno notte ha riaperto la discussione sul caso Moro, con Tortora affronta una vicenda italiana che, anche se in modo diverso, ha segnato la vita pubblica... “Già da mesi penso alla serie su Enzo Tortora, stiamo lavorando con Stefano Bises e Giordana Mari. Ma siamo all’inizio. L’intento non è quello di fare un santino. Ormai tutti sanno che è stata un’orribile ingiustizia quella che ha subìto. Vorremmo allora cercare di approndire, l’uomo, analizzando anche il suo enorme successo con Portobello. Ci sono una serie di spunti molto importanti. E, come in Esterno notte, la serie non avrà solo l’intento di denunciare l’ingiustizia che lo ha portato alla morte, ma di la sua vita e le persone che ne facevano parte. Va detto che comunque quella giudiziaria è una vicenda interessante, perchè è una storia a lieto fine: in appello e cassazione Tortora è stato assolto, è stato riammesso in televisione, ha ricominciato Portobello, qualcosa però si era rotto in lui, non riusciva più a parlare con il pappagallo. Morirà un anno dopo. Un titolo potrebbe essere La colonna infame, che era il libro che lui volle fosse messo sulla bara quando ci furono i funerali”. Si affronta anche il tema dei pentiti, dei giudici, delle condanne e delle assoluzioni... “Giudici che, di fronte a tutte le evidenze, lo hanno tenuto in galera, lo hanno portato a processo, lo hanno condannato a dieci anni. Non perché fossero cattivi, ma perché se lo avessero assolto sarebbe caduto tutto. Però c’è una giustizia fatta con l’imputato vivo. Non come per il caso Moro. Nel senso che Tortora è stato riabilitato completamente ed è interessante quel passaggio in cui lui ritorna a Portobello ma non è più in grado di farlo. Non ho ancora pensato a un attore”. Perché questa storia è rilevante oggi? “È un uomo che nel momento più alto del successo - Portobello aveva 20 milioni di spettatori - era diventato una vera celebrità. Mi piacerebbe indagare il suo privato: quest’uomo dall’oggi al domani viene portato in manette a Regina Coeli, mi domando del suo stupore. In questa tragica odissea è come se acquistasse ancor più profondità, la forza di difendere la propria identità, la propria innocenza di fronte alle cose orribili che accadono. Di fronte ai pentiti che accusano, ritrattano, accusano di nuovo. Se noi guardiamo la quantità dei testimoni falsi, è sconvolgente. Mi piace la sua determinazione che lo mette in crisi anche per la salute fisica. Era un lottatore. E poi, nonostante tutto, nella stessa Napoli - lui voleva che l’appello fosse in altra sede - trova dei giudici giusti che dicono “è tutto falso” e lo assolvono. Ma non vogliamo fare una serie polemica, gran parte di questi soggetti sono morti, anche i giudici. Nessuno ha pagato; poi c’è stata la legge Vassalli e un referendum vinto con una maggioranza schiacciante, perchè anche i giudici avessero delle responsabilità. Una legge che poi, mi dicono, è stata svuotata. La serie non è fatta per lapidare i giudici del tribunale, ma hanno fatto tutti grande carriera, non si sono dimessi o ritirati in convento per mettersi la cenere sul capo... Alcuni continuavano a dire che avevano ragione...”. La serie è una forma che più si addice all’approfondimento? “Sì, come per Esterno notte, volendo non fare solo la denuncia, che è una voce non dico secondaria ma parallela. Parlando di Tortora e di tutti i personaggi che ci sono intorno, la ricerca è complessa. Qualcuno vicino a Tortora ci spiegava che una parte della stampa ha cavalcato la cosa, anche se alcuni intellettuali si sono poi quasi subito interrogati, penso a Biagi: ‘È davvero colpevole?’. E poi c’era uno Stato che si trovava a far fronte alla mafia e alla camorra quotidianamente e quindi doveva essere usato ogni mezzo. L’autorevolezza dei giudici era sostenuta e la loro azione, da parte di un’opinione pubblica che poi è cambiata, era anche apprezzata”. Amnesty: “Un anno nero, il mondo libero si ribelli” di Eleonora Martini Il Manifesto, 11 dicembre 2022 Parla Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia: “Nel nostro Paese la cultura dei diritti umani è scarsa. E ora, finita una legislatura molto timida, è cominciata un’altra in cui si rischia di fare molti passi indietro. Sotto attacco il diritto alla protesta pacifica. L’Italia e l’Europa convochino gli ambasciatori iraniani”. Il sito di Amnesty International si apre in questi giorni con i visi di sette giovani la cui vita è in pericolo solo perché “credono in un mondo più giusto”. È il lancio della maratona Write for Rights, per “liberare subito” donne e uomini che “lottano per tutti”, come l’artista cubano Luis Otero Alcántara, rinchiuso dal 2021 nel carcere di massima sicurezza di Guanajay in quanto dissidente, o della russa Aleksandra Skochilenko, anche lei artista, detenuta in attesa di processo da 9 mesi in condizioni terribili per un’azione di protesta contro la guerra in Ucraina, o Joanah, Netsai e Cecillia, donne che il regime dello Zimbabwe ha torturato terribilmente per il solo fatto di aver protestato. E ancora: Nasser Zefzafi, marocchino, torturato e condannato a 20 anni per aver criticato un’autorità religiosa, e l’iraniano Vahid Afkari, in carcere dalla manifestazione pacifica del 2018. Non a caso, l’organizzazione internazionale da luglio scorso è impegnata con la campagna “Proteggo la protesta”. Perché, per chi esprime dissenso, è stato - come spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia - “un anno nero”. Un 10 dicembre amaro? Molto, con la guerra che è arrivata in Europa e che prosegue in Paesi come l’Etiopia, con tutto il suo carico di stupri etnici, crimini di guerra e contro l’umanità. È stato un anno in cui il diritto alla protesta pacifica - previsto nella Dichiarazione universale dei diritti umani che oggi si celebra nel suo 74esimo anniversario - è stato sotto attacco. Come in Iran e in Afghanistan. dove per tutto l’anno le giovani delle medie e dei licei non sono andate a scuola, e i talebani hanno ripreso le esecuzioni negli stadi. In Russia sono state adottate nuove norme che prevedono carcere per reati di opinione, quali la diffusione di notizie consapevolmente “false” sull’operato delle forze armate russe; venerdì Ilya Yashin è stato condannato a 8 anni e mezzo per aver scritto che i russi hanno commesso crimini a Bucha, e ci sono centinaia di indagini e processi in corso in Russia per questo tipo di reati. In Israele è stato l’anno peggiore dal punto di vista dei palestinesi uccisi: 130, un numero mai così alto dal 2005, e ci sono più di 500 palestinesi in detenzione amministrativa senza possibilità di ricorrere contro le accuse, che sono segrete. E poi naturalmente l’Iran, che è la storia del giorno, perché oltre a questa repressione di piazza spaventosa, con oltre 400 morti e 44 minorenni uccisi di cui uno aveva due anni e un’altra 6, sono iniziate le rappresaglie per via giudiziaria. Un manifestante è stato impiccato e ce ne sono almeno altri 30 che rischiano l’impiccagione. Le sembra che sull’Iran ci sia una sorta di timidezza da parte dell’Italia e dell’Europa a esercitare pressione? Ho questa sensazione, naturalmente i comunicati stampa e le dichiarazioni di condanna, come quella della presidente Meloni, vanno bene. Purché il giorno dopo non ci si dimentichi di averli fatti. Noi abbiamo chiesto alle ambasciate presenti in Iran di fare una cosa molto semplice: mandare osservatori ai processi dei dissidenti, un segnale di presenza fisica in quelle che sono solo parodie di giustizia. Ci aspettiamo che l’Italia lo faccia. E che, come ha fatto solo la Germania finora, convochi l’ambasciatore iraniano. L’Onu, dal canto suo, ha istituito una commissione di inchiesta, come avevamo chiesto noi, ma il tempo passa e non è stata ancora formata. È evidente che le autorità iraniane stanno aspettando di capire quanto sia forte la reazione del mondo alle impiccagioni per decidere se andare avanti. E se le proteste sono blande, andranno avanti. Ieri a Roma la manifestazione indetta dal Partito radicale a sostegno della popolazione iraniana, a cui avete partecipato anche voi, ha raccolto l’adesione di personalità come Vasco Rossi, Rocco Papaleo, Don Luigi Ciotti, Susanna Camusso… ma pochi partecipanti. C’erano tre iniziative, ieri a Roma, e un tempo inclemente… Non ha aiutato. Però andranno avanti, continueremo a farci sentire. Qual è lo stato dei diritti in occidente e in Italia? Negli Usa, dopo anni consecutivi in cui si era registrata una diminuzione delle esecuzioni capitali, quest’anno sono di nuovo aumentate, e questo è un altro brutto segno. Stati Uniti, così come Polonia e altri Paesi, hanno portato a termini attacchi contro i diritti delle donne e i diritti sessuali riproduttivi. Continuano le politiche di chiusura contro l’immigrazione, sempre più feroci. Quest’anno l’Italia ha deciso di rinnovare il memorandum del 2017 di cooperazione con la Libia. E poi ci sono diritti al palo, come quelli del fine vita, della libertà di protesta o dell’interruzione di gravidanza. In generale, nel nostro Paese la cultura dei diritti umani è scarsa, e ora, finita una legislatura molto timida, è cominciata un’altra in cui si rischia di fare molti passi indietro. Giornata mondiale dei Diritti umani. Mattarella: sentenze capitali e repressioni sono inaccettabili di Adriana Pollice Il Manifesto, 11 dicembre 2022 Md, Asgi, Cgil, Acli e Arci: “Sono ricominciati da parte del Viminale i respingimenti in Slovenia: una grave violazione dei diritti umani e una prassi illegale”. Giornata mondiale dei Diritti umani, ieri, promossa dall’Onu: il tema del 2022 è stato dignità, libertà e giustizia per tutti. In molti Stati, inclusa l’Italia, gruppi di attivisti hanno organizzato manifestazioni per la liberazione di Julian Assange. Proteste anche contro il regime iraniano. Premiati ieri con i premi Nobel per la pace, il Centro ucraino per le libertà civili, l’ong russa Memorial (sciolta dalla magistratura) e l’attivista bielorusso (detenuto) Ales Byalyatski hanno chiesto di non deporre le armi contro Putin. Come ha sottolineato il presidente Mattarella, “è dal 10 dicembre 1948 che l’adozione della Dichiarazione universale dei Diritti umani afferma il rispetto della persona e delle sue libertà fondamentali. Il tema di quest’anno richiama traguardi che non sono stati raggiunti in tante parti del mondo”. Il presidente ha ricordato “la brutale aggressione al popolo ucraino” e la repressione contro quanti si oppongono alle violenze sulle donne “financo con inaccettabili sentenze capitali e i tentativi di sopprimere le voci dei giovani che manifestano pacificamente per chiedere libertà e maggiori spazi di partecipazione”. Il Papa si è fatto sentire via social: “Tutelare la dignità umana dei più deboli affermando i loro diritti contribuisce a far crescere la fraternità umana”. Md, Arci, Asgi, Acli e Cgil hanno scelto ieri per richiamare l’Italia al rispetto dei migranti: “Il Viminale ha riattivato i respingimenti informali in Slovenia, che dei diritti umani sono una gravissima violazione. Si tratta di una prassi giuridicamente illegittima”. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres: “Dobbiamo riaccendere il nostro impegno per tutti i diritti umani: civili, culturali, economici, politici e sociali. Il mondo sta affrontando sfide senza precedenti e interconnesse come l’aumento della fame e della povertà, la riduzione dello spazio civico e un pericoloso declino della libertà dei media e della sicurezza dei giornalisti. Nel frattempo, la fiducia nelle istituzioni sta svanendo mentre la pandemia ha portato a un aumento dei livelli di violenza contro donne e ragazze”. E infine: “Razzismo, intolleranza e discriminazione stanno dilagando, nuove sfide stanno emergendo come la tripla crisi planetaria del cambiamento climatico, della perdita di biodiversità e dell’inquinamento. E stiamo solo iniziando a comprendere la minaccia posta da alcune nuove tecnologie”. Come sono andate le cose nel mondo nel 2021-2022 lo racconta il dossier Amnesty International sui diritti umani. Le Americhe sono la regione più iniqua al mondo in termini di disuguaglianza tra i redditi; le misure adottate per proteggere le donne si sono dimostrate inadeguate. In Messico, ad esempio, la violenza contro le donne è un fenomeno dilagante. In Colombia, 432 femminicidi nei primi otto mesi del 2021, le forze di sicurezza hanno regolarmente commesso atti di violenza sessuale contro donne. Sia Paraguay che Portorico hanno dichiarato lo stato d’emergenza su questo fronte. Nonostante la storica decisione con cui nel 2020 l’Argentina ha legalizzato l’aborto fino alle prime 14 settimane di gravidanza, molti altri paesi non hanno seguito l’esempio. E negli Usa durante il 2021 i governi statali hanno emanato una quantità senza precedenti di provvedimenti restrittivi contro l’aborto. Le popolazioni native delle Americhe hanno continuato a subire gli effetti dell’inadeguato esercizio di alcuni loro diritti. Grave la situazione in Argentina, Brasile, Bolivia, Canada, Colombia, Ecuador, Nicaragua, Paraguay e Venezuela. Poco si muove anche sul fronte del cambiamento climatico. Le Americhe sono rimaste una delle regioni più pericolose al mondo per chi difende i diritti i diritti ambientali e umani: 743 gli attacchi contro attivisti, più 145% rispetto al 2020. I civili hanno continuato a pagare il prezzo dei conflitti armati in Africa. In Burkina Faso, Camerun, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Mali, Mozambico, Niger, Nigeria, Somalia e Sud Sudan le parti in conflitto hanno commesso crimini di guerra e gravi violazioni del diritto internazionale. Ogni conflitto della regione è stato contrassegnato da attacchi contro i civili. Quasi tutti gli attori coinvolti nei conflitti armati dell’Africa hanno utilizzato la violenza sessuale come tattica di guerra. Viene anche bloccato o limitato l’accesso agli aiuti umanitari e i bambini non riescono ad avere un’istruzione. In Burkina Faso, Camerun e Niger, gruppi armati vietano “l’istruzione occidentale” e attaccano le scuole. I conflitti costringono milioni di persone a sfollare dalle loro case. Gran parte dei rifugiati della regione è ospitata in un esiguo numero di paesi, tra cui Camerun, Ciad, Drc, Etiopia, Kenya, Niger, Ruanda e Sudan mentre l’Uganda ha la più vasta popolazione di rifugiati con oltre 1,5 milioni di persone. Paradossalmente, alcuni dei paesi ospitanti hanno prodotto a loro volta enormi flussi di rifugiati. Diversi paesi sono stati particolarmente colpiti da periodi di siccità, aggravata dal cambiamento climatico, mentre in altri sono emerse preoccupazioni riguardanti il degrado ambientale. Migranti. I porti italiani aprono alle navi Ong. Il Viminale: nessun dietrofront di Fulvio Fulvi Avvenire, 11 dicembre 2022 Dopo che sono approdati a Lampedusa i profughi salvati dalla nave Louise Michel, via libera alla Humanity 1 coi suoi 261 a Bari e alla Geo Barents che a Salerno farà scendere a terra i 248 naufraghi In Italia porto sicuro a tre navi di Ong con a bordo migranti: sono la Louise Michel, la Geo Barents e Humanity 1. A quanto si apprende, l’approdo a Lampedusa della notte tra giovedì e venerdì dei 33 migranti sulla nave Louise Michel è stato un evento Sar gestito dalle capitanerie di porto. La nave, di piccole dimensioni, era in una situazione di emergenza per le avverse condizioni meteo-marine. E anche la Humanity 1, con i suoi 261 profughi, mentre annaspava nella tempesta tra la costa libica e la più grande delle Pelagie, ha trovato un porto sicuro a Bari dove approderà domenica mattina. Segnali positivi giungono quindi da Roma, con i “place of safety” indicati dal Viminale alle imbarcazioni delle Ong che nella prima settimana di dicembre hanno salvato in Mediterraneo centinaia di persone da morte certa. L’Italia sembra aver scelto dunque la linea morbida dell’accoglienza. “Non manca una risposta solidale, basta che si rispettino le regole” ha osservato il ministro degli Esteri Antonio Tajani. Un’apertura recepita con favore anche in Europa, con la Germania che ha già preso i primi 164 che avevano richiesto asilo in Italia da quando è stato stabilito il meccanismo di solidarietà Ue a fine giugno, ribadendo che “sulla migrazione la solidarietà funziona”. Ancora un giorno di navigazione, dunque, seppure in condizioni meteorologiche avverse, attende i 248 della Geo Barents di Medici Senza Frontiere: anche per loro un incubo che sembrava infinito si dissolverà. I migranti, tra cui 80 minori e 20 donne, esausti e disperati dopo un travagliato viaggio senza meta, potranno essere accolti e curati a terra. Dopo due richieste rivolte invano a Italia e Malta, il nostro ministero dell’Interno, d’intesa con le autorità marittime, ha deciso che sarà Salerno il porto dove la nave di Msf potrà attraccare domenica alle 7 del mattino. I sopravvissuti, tutti provenienti da Paesi dell’Africa subsahariana, erano stati soccorsi dall’Ong francese in tre diverse operazioni, la prima delle quali effettuata domenica 4 dicembre. “Ora qui il clima è sereno e la speranza si legge negli occhi di tutti” fanno sapere i responsabili dell’organizzazione. Poco prima di ottenere il “placet” per lo sbarco in un luogo sicuro, un ragazzo di 14 anni non accompagnato, in preda a forti dolori addominali, è stato evacuato e portato a Catania dalla Guardia costiera perché necessitava di cure specialistiche urgenti che i sanitari a bordo non potevano fornire. Dal Viminale però si affrettano a ribadire che sull’immigrazione non è stato fatto alcun “dietrofront”. Secondo alcune fonti vicine al Viminale il via libera all’approdo delle navi sarebbe arrivato “perché l’approssimarsi del maltempo e le condizioni del mare avrebbero a breve esposto le persone a bordo a rischi. Le Ong, come già accaduto precedentemente, ne avrebbero tratto un pretesto per dichiarare lo stato di emergenza a bordo e avrebbero così fatto ingresso nei porti della Sicilia, i cui centri di accoglienza sono già congestionati di presenze, rimanendo peraltro in prossimità dei loro scenari operativi”. “La salvaguardia delle persone - sottolineano le stesse fonti - orienterà sempre le decisioni del governo, anche di fronte alle azioni provocatorie e rischiose delle Ong”. In questi giorni che precedono il Natale permangono tensioni e criticità sul tema dei flussi migratori. Sos Humanity ha raccontato che mentre il 6 dicembre all’alba l’equipaggio stava salvando 103 persone in difficoltà ha assistito da vicino a un rimpatrio forzato di migranti in fuga da parte “della cosiddetta Guardia costiera libica”. “Con due motovedette hanno fermato violentemente un gommone non navigabile nel quale si trovavano 50 persone - afferma la Ong tedesca - e sei di loro sono finite in acqua a seguito della rischiosa manovra mentre le altre sono state caricate con la forza sulla lancia e riportate in Libia”. I naufraghi rimasti tra i flutti sono stati poi salvati da una zattera che li ha portati prima sulla vicina Louise Michel e quindi a bordo di Humanity 1. Ma negli ultimi giorni altri due sbarchi, per un totale di circa 150 migranti, sono avvenuti nella Locride. Giovedì sera un’unità navale della finanza, al largo delle coste calabresi ha intercettato e salvato 105 migranti di nazionalità afgana e siriana che vagavano su un barcone. Tra loro c’erano intere famiglie e due neonati di 2 e 5 mesi. Il secondo sbarco, ieri intorno alle 11: circa 40 migranti sono stati intercettati da una motovedetta della guardia costiera e accompagnati anch’essi al porto di Roccella Ionica dove hanno ricevuto le prime cure dai volontari di Croce Rossa, Protezione civile e di Msf. Migranti. Tensioni con la Ue e sfida alle navi: il pressing di Tajani ferma Piantedosi di Alessandra Ziniti La Repubblica, 11 dicembre 2022 La strategia dei porti chiusi si è dimostrata un fallimento, il tentativo (abortito) di sbarchi selettivi ha creato un grosso problema con la Francia e il rapporto con l’Europa è fin troppo importante (e certo non solo per i migranti) per insistere con il pugno duro contro le Ong. È stato così che venerdì Matteo Piantedosi ha dovuto ingoiare un altro boccone amaro e rinunciare al nuovo braccio di ferro con le navi umanitarie. L’indicazione di Palazzo Chigi - L’indicazione arrivata da Palazzo Chigi è stata chiara, sulla linea assai più morbida del ministro degli Esteri Antonio Tajani che non fa mistero di non condividere la crociata di stampo leghista contro le Ong. “Persuaso” ad aprire i porti alle due navi protagoniste dello scontro di novembre, Piantedosi ha dato indicazioni che almeno la Geo Barents e la Humanity 1 fossero mandate il più lontano possibile dai “loro scenari operativi”, come ammesso nella nota (da cui traspare la sua irritazione) inviata per spiegare che l’apertura dei porti “non è un dietrofront”. La marcia indietro sui dublinanti - In realtà di dietrofront non è il solo: anzi in quattro giorni il Viminale di “richiami” ne ha subiti due, a dimostrazione di come anche sull’immigrazione il governo proceda con bruschi stop and go provocati dall’ormai evidente doppia linea. Ultimo quello delle due lettere in 24 ore con cui l’Italia ha rischiato di scatenare un altro incidente diplomatico in Europa: prima comunicando di sospendere le riammissioni dei cosiddetti dublinanti (cioè i migranti approdati in Italia e poi trovati in altri Paesi) poi correggendo il tiro e annunciando solo nuove modalità e tempistiche. Anche questa volta dopo un precipitoso intervento di Tajani e Palazzo Chigi che nulla sapevano. A far esplodere il caso, il 6 dicembre (all’antivigilia del vertice dei ministri dell’Interno della Ue) un tweet della segretaria di Stato belga per l’asilo e immigrazione Nicole de Moore: “Inaccettabile che l’Italia non accetti più le riammissioni da Dublino. Ciascuno Stato membro deve fare la sua giusta parte. Il Belgio ha la sesta più alta pressione sull’asilo nella Ue, l’Italia è solo la sedicesima”. L’ambasciata italiana in Belgio avverte la Farnesina. E si scopre che dall’Unità Dublino del Viminale, guidata dalla viceprefetta Donatella Candura, è stata inviata ai Servizi analoghi degli Stati membri una missiva in cui li si informa che l’Italia sospende tutti i trasferimenti dei dublinanti per mancanza di posti nel sistema di accoglienza. La de Moore convoca i colleghi a Bruxelles: “Noi veniamo condannati per mancata accoglienza e l’Italia sospende l’applicazione del diritto Ue. Ciascun Stato membro deve fare la sua parte, altrimenti non ci può essere solidarietà”. Una seconda lettera dal Viminale risolve il “malinteso”: sì ai dublinanti. Così hanno dato i porti alle Ong - Piantedosi fa buon viso a cattivo gioco, vola a Bruxelles per l’incontro con i colleghi e prepara la strategia da adottare con le tre Ong che hanno soccorso più di 500 persone. Dal Viminale filtra solo un vago “nessun cambio di linea” sulla scorta delle parole dette da Giorgia Meloni a Tirana. E infatti l’8 dicembre, quando il peggiorare del tempo induce le tre navi ad avvicinarsi alle coste siciliane, il copione sembra lo stesso di novembre: viene concesso l’approdo a Lampedusa al piccolo rimorchiatore Louis Michel con 33 migranti a bordo, come fatto con la Rise Above a novembre. E il Viminale puntualizza che la nave è considerata un “evento Sar”, un’emergenza in condizioni meteo non sostenibili per la piccola stazza. Tutto lascia presagire che la Geo Barents e la Humanity 1, navi grandi, lasciate in mare assai più grosso, con più migranti e per molti più giorni a novembre, sono destinate ad una lunga attesa. Ma poche ore dopo arrivano i porti di destinazione, Salerno e Bari, Piantedosi tace, nessuna spiegazione. Fonti di governo fanno notare che all’annuncio della Germania di aver accolto 164 migranti sbarcati in Italia, non si poteva rispondere con un nuovo atto di guerra alle Ong di cui Berlino è il più grande sostenitore. La linea leghista è nell’angolo. Salvini che prova a dissimulare: “Sono ripresi i collocamenti che erano fermi da troppo tempo, sono orgoglioso del lavoro del ministro Piantedosi”. Migranti. Strage dei bambini, quale giustizia se la prescrivono di Enrico Calamai Il Manifesto, 11 dicembre 2022 L’11 ottobre 2013, un barcone partito dalla Libia con 400 persone a bordo affondava in acque rientranti nella zona SAR maltese, ma a poche miglia da Lampedusa. Morirono 268 persone, in prevalenza siriani in fuga dalla guerra, di cui 60 bambini. Viene definita la “Strage dei bambini” - se ne è occupato, tra i pochi e più volte il manifesto - e all’epoca suscitò non poca emozione nell’opinione pubblica italiana. Nei giorni scorsi, il Tribunale di Roma ha dichiarato il non luogo a procedere, perché i reati sono estinti per intervenuta prescrizione, trattandosi di omicidi colposi. La prescrizione è cosa ben diversa dalla dichiarazione di innocenza, ovviamente, lascia tuttavia un sapore terribilmente amaro che una strage di tale portata possa restare senza alcuna condanna, tanto più che il Comitato Diritti Umani delle Nazioni Unite ha dichiarato che nella circostanza l’Italia è venuta meno all’obbligo di tutelare il diritto alla vita dei migranti a bordo dell’imbarcazione e che la strage sarebbe stata imprescrittibile, se riconosciuta come crimine contro l’umanità. Un po’ come quando, fino a pochi anni fa, in Italia non si torturava, perché non c’era il reato di tortura. Colpisce il divario tra l’enormità del fatto e la conclusione dell’iter processuale. Nessuno mette in discussione il diritto/dovere che hanno gli Stati di proteggere i propri confini, sia con le proprie forze armate che con accordi pattizi. Eppure, non è un loro diritto l’omissione di soccorso, mentre è chiaro che il complesso sistema di difesa approntato dagli Stati occidentali mediante sommergibili, aerei spia, droni, satelliti, permette alle autorità militari preposte di seguire passo passo anche i più piccoli movimenti di gruppi umani verso l’Europa, nell’immenso retroterra africano, nell’Atlantico, nel Mediterraneo e nella rotta balcanica. Ben inefficaci d’altronde risulterebbero la difesa europea, e quella italiana in particolare, se un barcone con 400 persone a bordo potesse avvicinarsi alle nostre coste senza essere notato. Gli Stati controllano, vedono, sanno quanto è consequenziale al momento tragico del respingimento, che spesso significa condanna a morte. Deve ormai esserci chiaro che l’esternalizzazione delle frontiere altro non è che la progressiva creazione di un sistema concentrazionario ad intensità variabile, la cui finalità è il respingimento o l’eliminazione fisica di migranti e richiedenti asilo, sempre più a sud, nel nulla mediatico che permette di trasformarli nei desaparecidos dell’Europa opulenta nel nuovo millennio, perché il tutto avviene in modo da non bucare il muro di gomma dell’indifferenza mediatica. Occorre inoltre realizzare che, per quanto siano ovvie le analogie con dinamiche genocidarie, non è possibile fare riferimento alla Convenzione contro il genocidio, in quanto si tratta di soggetti appartenenti a popoli, religioni e culture diverse. È il migrare in sé e per sé, che li accomuna, a venir preso di mira per l’annientamento. Sembrerebbe necessario quindi valutare la possibilità di colmare l’esistente vuoto normativo, arrivando alla formulazione di una nuova fattispecie di crimine contro l’umanità, conseguente alle politiche di sistematico sterminio formulate dai Paesi occidentali. Si potrebbe a tale fine tentare la definizione della categoria del migranticidio, applicabile all’uccisione in massa di migranti da qualunque Paese provengano, a qualunque religione o cultura appartengano, qualunque sia la loro lingua, per arrivare alla formulazione di una convenzione internazionale finalizzata alla sua prevenzione. È da considerarsi scontata, in tale prospettiva, l’opposizione dei Paesi occidentali, sia europei che Nato (dagli Stati uniti all’Australia) sia di Cina e Russia che con gli Usa rifiutano le corti di giustizia internazionali, ma sembrerebbe allo stesso tempo possibile un’apertura da parte dei Paesi africani, asiatici e anche latinoamericani, che sono direttamente interessati alla tutela dei loro cittadini spinti ad intraprendere il tragico viaggio, mentre non necessariamente sono schierati su posizioni a tutti i costi atlantiste. Iran. Condanne a morte, appello delle madri iraniane: “Liberateli tutti” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 11 dicembre 2022 Le madri di Kharavan chiedono la liberazione di tutti i prigionieri politici e la sospensione delle pene capitali, mentre monta la paura per altre due possibili impiccagioni. Hanno preso parola anche loro, le Madri di Kharavan. Come le argentine di Plaza de Mayo, sono le donne iraniane che dagli anni Ottanta chiedono conto della sparizione dei propri cari nelle prigioni dela Repubblica islamica. Il movimento, molto più fluido di quello argentino - nacque negli anni della guerra con l’Iraq e prese vigore alla fine del decennio, con le esecuzioni di massa nelle carceri di oppositori comunisti al regime khomeinista, uccisioni che raggiunsero l’apice nel 1988: fu l’attuale presidente iraniano Ibrahim Raisi, da procuratore aggiunto del tribunale rivoluzionario di Teheran, a firmare la condanna a morte di circa 5mila oppositori marxisti. Venerdì le Madri di Kharavan hanno chiesto la fine immediata delle condanne a morte già comminate e il rilascio di tutti i prigionieri politici, 18mila stimati in tre mesi di rivolta (tra loro anche 60 giornalisti, tantissimi altri quelli convocati e minacciati). L’appello è giunto poco dopo la notizia della prima impiccagione, quella del giovane rapper Mohsen Shekari. Ne potrebbero seguire altre: se sono almeno undici i manifestanti già condannati da un tribunale alla pena capitale (anche se IranWire, portale gestito da giornalisti iraniani in diaspora, con sede negli Stati uniti, ieri parlava di 28 condanne a morte) per il reato di “insulto a dio”, ieri in Iran i social media riportavano di due possibili nuove impiccagioni. Mahan Sadrat, 23 anni, sarebbe stato trasferito nel carcere di Rajaei Shahr, a est della capitale Teheran, per l’esecuzione. E poi Mohammed Mehdi Karami, 21 anni. Giovanissimi, come la stragrande maggioranza delle vittime della repressione di stato: dei 458 uccisi, 63 sono bambini tra i due e i 17 anni e 29 donne. Molti minorenni dunque, come denunciato ieri in un rapporto da Amnesty International che accusa le autorità di Teheran di insabbiare le uccisioni di bambini nelle piazze. Le modalità sono brutali: le famiglie minacciate di non vedersi restituire i corpi delle figlie e dei figli nel caso in cui ne denuncino la scomparsa o trasformino i funerali in una protesta. Come accade ormai quasi ovunque, le minacce servono a poco di fronte all’esasperazione popolare. In alcuni casi, scrive Amnesty, i corpi vengono preparati per la sepoltura dalle stesse autorità, impedendo così alla famiglia e alla comunità di seguire i propri riti religiosi e identitari. “Le autorità uccidono i bambini per spezzare lo spirito di resistenza dei giovani del paese - ha commentato Heba Morayef, direttrice dell’organizzazione per Medio Oriente e Nord Africa - Non solo condannano le famiglie a una vita di inconsolabile dolore ma gli infliggono un’ulteriore angoscia con restrizioni crudeli alle sepolture e alle commemorazioni con l’obiettivo di zittirle”. Iran. Azar Nafisi: “Le donne iraniane vittime di Apartheid. Ma il regime cadrà” di Maurizio Molinari La Repubblica, 11 dicembre 2022 Intervista alla scrittrice iraniana in esilio ed autrice di bestseller come “Leggere Lolita a Teheran” che, in occasione della sua presenza a Roma per “Più libri più liberi”, ha visitato la redazione del nostro giornale. “L’Iran di oggi è come il Sudafrica dell’apartheid, da noi il razzismo è contro le donne ma il regime perderà anche questa volta”. Azar Nafisi, scrittrice iraniana in esilio ed autrice di best seller come “Leggere Lolita a Teheran”, coglie l’occasione della sua presenza a Roma per “Più libri più liberi” e viene in visita alla redazione del nostro giornale. Si unisce alla riunione di redazione. Si informa sugli ultimi eventi in Iran e poi sottolinea l’importanza del ruolo della libera stampa nei Paesi democratici “perché fa sentire le donne meno sole”. E nell’intervista che segue, con voce tenue ma ferma, spiega quale è la genesi del coraggio di chi sfida la teocrazia iraniana togliendosi il “velo dell’oppressione”. Perché una donna trova dentro di sé la forza di sfidare l’hijab? “Perché questo è un regime che sfida e ha sfidato la nostra stessa esistenza di donne. Non è solo una questione politica è una questione esistenziale e fin dall’inizio della Repubblica Islamica, prima di avere la nuova costituzione loro hanno cancellato le leggi di protezione familiare che davano alle donne diritti e protezione a casa e fuori. L’ayatollah Khomeini l’8 marzo 1979 provò a rendere il velo obbligatorio. Ma all’epoca decine di migliaia di donne scesero in piazza. Il loro slogan era “la libertà non è né orientale né occidentale, la libertà è globale”. Questo accadde all’inizio della rivoluzione e come donna la sensazione fu che stavo perdendo me stessa. Se non potevo scegliere cosa indossare, come parlare, come sentire, come connettermi con altra gente, allora avrebbe significato che non ero più io. Quindi mi sento di dire che le donne stanno lottando per la loro vita”. Che rapporto avevano le donne col velo prima della Repubblica Islamica? “Il governo non se ne occupava, non metteva bocca su quel che le donne indossavano. Eravamo libere. Avevo parenti che lo indossavano a cui eravamo molto vicini ed erano donne brillanti e intelligenti come tutto il resto delle donne iraniane. Non c’erano problemi. Mia nonna era una musulmana ortodossa e mia madre non indossava mai il velo. Eppure vivevano fianco a fianco. Mia nonna diceva che il vero Islam non forza le donne a indossare il velo”. Perché per la teocrazia iraniana il velo obbligatorio è così importante? “È un efficace mezzo di controllo. In pratica ci dicono “non possiedi te stessa”, “non possiedi il tuo corpo: siamo noi i tuoi padroni, ti diciamo cosa fare”. È una lotta per il potere. Questo è il motivo per cui oggi indossare il velo è diventato un simbolo, una dichiarazione a favore o contro il regime. Il regime è un sistema totalitario, che impone una divisa ai suoi cittadini, che controlla attraverso la repressione e ci porta via la nostra identità nazionale e individuale”. Questa è la genesi della rivolta delle donne? “Quello per cui stiamo lottando non è a favore o contro il velo, ma libertà di espressione e libertà di scelta”. Chiunque venga in Iran percepisce immediatamente l’energia delle donne. Il loro carattere è una peculiarità del Paese. Dove si origina? “L’Iran ha una storia antica che va indietro fino alla cultura romana. Gli iraniani sono un mix culturale, ma restano fedeli all’immagine dell’Iran nella sua interezza, l’Iran preislamico e post-islamico. Questo gli dà un senso di identità. Attraverso i secoli per esempio gli iraniani hanno continuato a festeggiare il capodanno secondo la tradizione zoroastriana. All’inizio Khomeini e gli altri leader religiosi provarono a dire che era sbagliato. Ma gli iraniani non hanno ascoltato. E infatti si festeggia il 21 marzo, secondo il calendario zoroastriano e anche con più clamore, proprio perché il governo diceva che non si doveva fare. Questo sfidare il governo, non solo politicamente, ma in termini culturali e di identità nazionale, va avanti da 43 anni”. E ora come fa la rivolta a continuare?  “Questa generazione, paradossalmente è quella dei figli della rivoluzione. Non hanno visto come era prima. Eppure le loro mamme, nonne e bisnonne lo ricordano bene. E a casa vedono che ci sono due Iran, quello privato e quello pubblico imposto dalla Repubblica Islamica. È questa giovane generazione che non vede futuro per sé stessa all’interno del sistema”. Perché il regime non riesce a domarla con la repressione? “Non riesce perché l’unica lingua che usa è la forza. Per questo regime, come per qualunque altro regime totalitario, riforme significa rivoluzione. Non possono cedere di un millimetro perché poi si vorrà di più e di più. Non puoi essere un po’ conciliante, devi essere totalitario. Vedono la loro sopravvivenza nell’eliminazione delle voci del popolo iraniano. Come ho già detto, questa non è una lotta politica, ma esistenziale. Per il regime come per il popolo è una lotta per la sopravvivenza. Se fosse stata solo una rivolta politica, sarebbe stato facile prendere i leader dei gruppi politici ed ucciderli”. E invece è una battaglia per i diritti... “L’Iran di oggi è come il Sudafrica dell’apartheid. Il razzismo in Sudafrica era contro i neri, in Iran oggi è contro le donne. Ci sono migliaia di persone che scendono in piazza e non puoi certo ucciderle tutte. E anche se ne uccidi qualcuna ce ne sono ancora altre. E in questo modo il regime sta spingendo sé stesso contro il muro. Non può farcela. Imploderà come avvenuto con il Sudafrica davanti alla sfida di Nelson Mandela”. Come vede l’ondeggiare del regime? Parlano con voci diverse, fanno timide aperture ma poi tornano indietro. Che succede a Teheran? “Le contraddizioni ci sono state fin dall’inizio all’interno del regime e con le proteste delle donne ci sono state anche defezioni interne al regime. Anche queste crepe ricordano il Sudafrica dell’apartheid, quando l’élite bianca iniziò a dividersi”. Come possono le democrazie aiutare le donne iraniane? “Parlando di loro. Perché il regime gli dice in continuazione che sono sole, nessuno al mondo si interessa a loro. È una guerra psicologica. Se l’opinione pubblica nei Paesi liberi parla di loro, compie l’opera più decisiva, importante. Non farle sentire sole. Per questo sono importanti eventi di solidarietà come quello in programma domenica al Teatro Parenti di Milano che voi avete organizzato”. Perché alla fine degli anni Novanta lasciò l’Iran? “Avevo raggiunto il punto in cui non potevo restare, dovevo essere sincera con me stessa. Non potevo vivere con quella censura, mi faceva odiare me stessa. Compresi che venendo via avrei potuto avere un ruolo e dare voce all’altro Iran ma mi sono anche sentita in colpa. E ciò è vero anche ora, perché vivo al sicuro. Mentre queste giovani persone vengono uccise ogni giorno. Il mio cuore si spezza ogni giorno”.  “Mi stanno avvelenando, non ho più tempo”. L’ex presidente della Georgia scrive a Macron dal carcere di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 11 dicembre 2022 L’ex presidente della Georgia e nemico giurato di Putin, Mikheil Saakashvili, in carcere a Tbilisi con una condanna a sei anni, chiede aiuto al presidente francese Emmanuel Macron: “Ho lottato per tutta la vita per la libertà e le riforme in Georgia e in Ucraina e contro la politica imperialista russa. Putin mi considera come uno dei suoi principali nemici. Ha pubblicamente promesso di uccidermi (…) Sono stato avvelenato in prigione. Sto morendo, non ho più molto tempo”. Saakashvili ha fatto avere la lettera, scritta a mano, con grafia incerta e preceduta dalla sigla SOS, all’inviata a Tbilisi del quotidiano francese Le Monde. Saakashvili, 54 anni, è stato uno dei protagonisti dei movimenti filo-europei e anti-russi nello spazio ex sovietico, tra colpi di scena, cadute in disgrazia e risurrezioni. Nato in Georgia ai tempi dell’Urss, dopo gli studi negli Stati Uniti e l’esordio professionale in uno studio di avvocati newyorchese, a metà degli anni Novanta è tornato come collaboratore dell’allora presidente Chevarnadze prima di allontanarsene e partecipare alla “rivoluzione delle rose” del 2004. Presidente della Georgia dal 2004 al 2013, Saakashvili è poi diventato nel 2015 cittadino ucraino e governatore della regione di Odessa, in virtù di un rapporto di alleanza poi diventato rivalità con l’allora presidente Poroshenko. “Salvare l’Ucraina significa salvare anche la Georgia, perché i due Paesi lottano contro uno stesso nemico, la Russia”, diceva allora. Esiliato a New York dopo la rottura con Poroshenko, Saakashvili è tornato in Ucraina nel 2019, richiamato dal nuovo presidente Volodymir Zelensky che lo ha nominato alla guida del Consiglio nazionale delle riforme. Ma un anno dopo Saakashvili annuncia di volere tornare nel suo Paese natale, la Georgia, e nell’ottobre 2021 viene subito arrestato al suo arrivo Tblisi, con un’accusa di “abuso di potere” per il quale è stato già condannato in contumacia a sei anni di carcere. Dopo uno sciopero della fame per protestare contro una condanna considerata ingiusta, le sue condizioni sono peggiorate in modo drammatico, e pochi giorni fa la sua squadra legale ha reso noto un rapporto medico secondo il quale Sakashvili è stato avvelenato. Secondo il tossicologo americano David Smith, “con un ragionevole grado di certezza medica, metalli pesanti come il mercurio e l’arsenico sono entrati nel corpo dell’ex presidente dopo la sua detenzione”. I medici autori del rapporto, datato 28 novembre, sostengono che Saakashvili sta ricevendo cure inutili o dannose e che senza un trattamento adeguato, “che sembra essere stato negato o non è disponibile”, rischia una morte imminente. Le autorità georgiane assicurano che Mikheil Saakashvili è assistito in modo corretto e la presidente Salome Zurabishvili, ex diplomatica francese, ancora non ha risposto alla domanda di grazia. Nella lettera a Le Monde e a Macron, Saakashvili dice di avere già perso oltre un terzo (40 chili precisano i medici) del peso corporeo e di non essere più in grado di tenersi in piedi. L’eurodeputato francese Raphael Glucksmann è stato il suo consigliere politico e braccio destro ai tempi della presidenza in Georgia e lo ha affiancato anche in una fase del suo impegno in Ucraina. “L’Europa non può lasciare questo presidente, che fu per 10 anni il nemico pubblico numero uno di Putin, morire in una cella georgiana. Inconcepibile”. Saakachvili era il capo dello Stato georgiano nel 2008 quando le truppe russe invasero l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud, privando la Georgia del 20% del suo territorio, in una guerra che viene considerata come l’antesignana degli attacchi all’Ucraina del 2014 e del 2022.