Sui suicidi in carcere c’è un silenzio assordante. Che fare? Non lasciamo soli i detenuti di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 10 dicembre 2022 “Il mondo del carcere sta vivendo un momento di particolare complessità e criticità”. Così si legge in apertura della ricerca sui suicidi in carcere del Garante nazionale delle persone private della libertà. E i numeri testimoniano tragicamente questo difficile momento. Nei primi undici mesi del 2022 negli Istituti penitenziari sono decedute 194 persone, di cui ben 79 per suicidio. Una cifra impressionante, di gran lunga superiore - come si legge nella relazione - alla media dei suicidi verificatisi nei nove anni precedenti, che è stata pari a 44. I numeri in questo caso non sono purtroppo freddi. O forse sono invece gelidi nella loro drammaticità. Nelle carceri italiane, in questo momento, sono recluse poco più di 56.000 detenuti. In 79 si sono uccisi nell’anno in corso. Immaginiamo una città o un quartiere che abbia un numero analogo di abitanti e immaginiamo quale potrebbe essere la sensazione di terrore di fronte a tanti propri cittadini che decidono di togliersi la vita. Si interrogherebbero politici, sociologi, opinionisti. Qualche magistrato aprirebbe un fascicolo penale. Rispetto ai suicidi in carcere il silenzio è invece assordante. La ricerca del Garante nazionale aiuta a posizionare i riflettori su un mondo che altrimenti resterebbe opaco, a far conoscere quello che accade giorno per giorno, morte per morte, nella realtà penitenziaria. Ogni detenuto che si suicida porta con sé il proprio carico di disperazione. Faremmo del torto alla loro memoria se li considerassimo solamente numeri da censire. Ma proprio i numeri ci aiutano a interpretare la situazione. Su alcuni di questi numeri intendo soffermarmi. Ben cinque sono le donne che si sono tolte la vita nel 2022. Non accadeva da tempo immemore. Sono 33 i detenuti stranieri che si sono uccisi. Ben 18 di loro risultavano senza fissa dimora: segno di come il carcere sia oggi il luogo di internamento di quell’eccedenza sociale rimossa dal nostro welfare claudicante. Ci si toglie la vita in tutte le fasi della carcerazione, in attesa di primo giudizio o già condannati. Fa tuttavia impressione vedere come ben 15 detenuti si siano suicidati entro i primi dieci giorni dall’ingresso in prigione, nove dei quali addirittura entro le prime 24 ore. Che fare allora di fronte a numeri tanto drammatici? La soluzione non è certo quella di costruire nuove carceri. Né quella di aumentare sempre più la risposta penale e il numero delle persone destinate alla galera (quale sarebbe ad esempio l’esito della norma contro i raduni e i rave parties). C’è bisogno invece di riempire il carcere di vita, di non lasciare sole le persone detenute con i loro pensieri di morte. Chi conosce il carcere sa che c’è bisogno di aprire scuole, università, di offrire lavoro, di aumentare i contatti con il mondo esterno, con le famiglie, con gli amici. C’è bisogno di normalità. Fuori c’è bisogno di un welfare che aiuti le persone a non andare dentro. Dentro c’è bisogno di giovani operatori penitenziari motivati e pieni di energie. In questo momento sono in corso di formazione 57 nuovi direttori penitenziari, vincitori freschi di concorso. Sono ancora troppo pochi per supplire alle tante carenze del sistema. Vi sono regioni dove un direttore deve governare due o tre carceri contemporaneamente. Si rischia il burn out. Per quel direttore c’è la possibilità fondata che i detenuti diventino solamente numeri di matricola. Con difficoltà potrà avere occasione di incrociare il loro sguardo, le loro storie, la loro individualità. Con difficoltà si potrà rendere conto di quando hanno bisogno di sostegno. Con difficoltà potrà aiutare a ridurre il numero dei drammatici episodi sui quali il Garante nazionale ci ha fornito uno spaccato di comprensione. *Coordinatrice associazione Antigone Il magistrato antimafia Giovanni Russo verso la guida del Dap di Nello Trocchia Il Domani, 10 dicembre 2022 I tagli in legge di bilancio, la gestione del 41 bis (il carcere duro), gli organici carenti, ma anche le divisioni all’interno del dipartimento. Sono queste alcune delle questioni che il nuovo capo dell’amministrazione penitenziaria dovrà affrontare. A quanto risulta a Domani la scelta potrebbe cadere sulla figura del magistrato Giovanni Russo, dal 2016 procuratore aggiunto alla direzione nazionale antimafia. L’attuale capo del Dap è Carlo Renoldi, scelto dall’allora ministra della Giustizia, Marta Cartabia, da tempo Lega e Fratelli d’Italia spingono per un avvicendamento. Russo è fratello di Paolo, ex deputato di Forza Italia, e ora responsabile del mezzogiorno del terzo polo. E anche se la decisione non è stata ancora comunicata dal governo Meloni e dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, diverse fonti del mondo penitenziario indicano il magistrato Giovanni Russo come nuovo capo del Dap. “Le voci si rincorrono, ma non c’è nulla di deciso”, dice un esponente del governo. Il magistrato ha una lunga esperienza, iniziata negli anni Ottanta, nella procura calabrese di Castrovillari prima di trasferirsi da pubblico ministero a Napoli. Una carriera che lo ha portato alla Dna, la Direzione nazionale antimafia, dove è diventato sostituto procuratore prima di assumere l’incarico di aggiunto, nel 2016, per decisione del plenum del Consiglio superiore della magistratura. Per alcuni mesi è stato anche reggente della Dna quando l’ex capo Federico Cafiero De Raho, oggi deputato del M5s, è andato in pensione. Il magistrato è stato in corsa, insieme al magistrato calabrese Nicola Gratteri, per la guida della Direzione, ma il Csm ha scelto un altro magistrato napoletano: Giovanni Melillo. L’attuale capo del Dap è Carlo Renoldi, scelto dall’allora ministra della Giustizia, Marta Cartabia, e nominato lo scorso marzo. Da tempo Lega e Fratelli d’Italia chiedono un avvicendamento. In queste settimane sono stati diversi i nomi circolati: da Nicola Gratteri a Luigi Riello, ma anche l’ipotesi, più remota, della riconferma di Renoldi. Gli agenti penitenziari sono da anni sotto organico, mancano circa 18mila unità e l’ultima legge di Bilancio, ora al vaglio del parlamento, prevede anche tagli agli stanziamenti (dieci milioni nel 2023, quindici nel 2024, undici dal 2025, in tutto 36 milioni di euro). La prima bozza della manovra conteneva un riferimento alla ripianificazione dei posti di servizio, dicitura scomparsa dopo le proteste delle sigle sindacali, ora le riduzioni di spesa si chiamano “riorganizzazione e l’incremento dell’efficienza dei servizi degli istituti penitenziari”. Un gioco di parole per nascondere la tagliola dei fondi destinati agli istituti di pena dove si consuma ogni anno una strage. Dall’inizio dell’anno ci sono stati 80 suicidi tra i detenuti e 5 tra gli agenti penitenziari. La stessa presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nel suo discorso di insediamento aveva segnalato il dramma dei suicidi nelle carceri, “è indegno di una nazione civile, come indegne sono spesso le condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria”. Ma non ci sono solo i tagli. Tante le questioni da affrontare, a partire dalla gestione delle sospensioni degli agenti della polizia penitenziaria coinvolti nelle indagini per tortura. Non solo il processo che si è aperto a Santa Maria Capua Vetere, ma anche la recente indagine della procura di Bari. Inchieste che rendono necessario il funzionamento della videosorveglianza in tutte le carceri italiane per monitorare quanto accade negli istituti di pena, estensione sollecitata anche dall’attuale ministro. “Queste sono le questioni più urgenti, ma il nuovo capo del dipartimento, Russo o un altro, dovrà mettere ordine all’interno del Dap, decidere cosa fare con il 41 bis che viene smantellato giorno dopo giorno, soprattutto deve dotarsi di una squadra per operare trasformazioni strutturali altrimenti sarà una nomina senza effetti che non produrrà cambiamenti, l’ennesimo capriccio dei partiti”, dice un alto funzionario del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. “Basta abusi del carcere preventivo nei paesi Ue” di Simona Musco Il Dubbio, 10 dicembre 2022 La carcerazione preventiva nell’Ue “dovrebbe essere usata solo quando strettamente necessaria, come extrema ratio”. A dirlo, al termine del Consiglio di Giustizia a Bruxelles, è il commissario europeo per la Giustizia Didier Reynders. “Vediamo una grande diversità nella detenzione prima del processo nell’Ue - ha sottolineato - la durata media varia da 2,4 mesi a Malta a 12,9 in Slovenia”. E le differenze riguardano anche il costo medio per detenuto, che varia “da 6,45 euro al giorno per detenuto in Bulgaria a 332,63 euro al giorno in Lussemburgo”, mentre in Italia il costo è di 135,5 euro al giorno, a fronte di una media Ue di poco superiore ai 125 euro. Il Consiglio ha approvato giovedì le raccomandazioni volte a migliorare le condizioni di detenzione nell’Unione, un documento dal quale l’Italia esce fuori con le ossa rotte, collocandosi - con una media di sei mesi e mezzo - tra i peggio in europa per utilizzo dello strumento della custodia cautelare. Sono soltanto quattro i Paesi che possono “vantare” una durata superiore: oltre alla Slovenia si tratta di Ungheria (12,3), Grecia (11,5) e Portogallo (11). Ma mancano dati precisi su Paesi come la Francia e la Germania. Secondo il monitoraggio Ue, in Italia circa il 31,5 per cento delle persone in carcere non ha una condanna definitiva, dato che si scontra con la media europea, fissata al 25 per cento. Ma negativo è anche il dato sul sovraffollamento, con una media di 105 detenuti ogni cento posti. Così il nostro Paese è tra i peggiori Paesi in Ue, collocandosi al quinto posto dopo Romania (119,3), Grecia (111,4), Cipro (110,5) e Belgio (108,4). Va solo leggermente meglio in Francia, dove i detenuti sono 103,5 ogni cento posti. La Commissione ha dunque chiesto ai Paesi membri di limitare l’uso della carcerazione preventiva al minimo indispensabile e di provvedere a revisioni periodiche in caso di sua applicazione. Ma le raccomandazioni riguardano anche gli spazi minimi destinati ad ogni detenuto, che deve poter usufruire di una superficie minima di almeno 6 metri quadrati nelle celle a occupazione singola e 4 metri quadrati nelle celle con più persone. Calcolo che deve includere l’area occupata dagli arredi, ma non quella occupata dai servizi igienici. Il vertice di ieri si è però concentrato sulla “lotta contro l’impunità nella guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina”, valutando la possibilità di istituire un tribunale speciale per giudicare “i presunti crimini di guerra commessi dai russi in Ucraina”. Ma non si tratta dell’unica possibilità, ha sottolineato Reynders, che ha evidenziato una soluzione ibrida, ovvero un mix di giudici ucraini e di stati membri dell’Ue con il sostegno dell’Onu e l’input della Corte Penale Internazionale. “La Commissione ha evidenziato - è ad ogni modo determinata a far sì che i responsabili siano assicurati alla giustizia”. Presente al Consiglio anche il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che ha ribadito l’impegno dell’Italia a perfezionare l’adozione di un codice dei crimini internazionali, per assicurare l’adempimento degli obblighi assunti con la ratifica dello Statuto di Roma. Ma tra i temi affrontati c’è anche quello della confisca dei beni. “Condividiamo pienamente l’impostazione della proposta che mira ad assicurare a tutte le persone interessate da queste misure il diritto a un ricorso effettivo e a un giusto processo - ha evidenziato il ministro. In questo senso siamo molto sensibili alle considerazioni che sono state espresse, affinché le persone interessate possano far valere le proprie ragioni e contestare gli elementi di fatto e di diritto su cui il provvedimento si fonda. La nostra esperienza dimostra che è possibile costruire un sistema efficace di misure patrimoniali di contrasto alla criminalità organizzata. Condivido l’ipotesi di estendere gli strumenti di confisca previsti dalla direttiva, alle violazioni di misure restrittive dell’Unione”. Walino da Bari e i tremila carcerati marocchini di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 10 dicembre 2022 Palla al Piede. I festeggiamenti per la nazionale magrebina ci ricordano come sia la comunità più presente dietro le sbarre in Italia: senza poter giocare a pallone. Nel giorno in cui la città era sveglia dall’alba per festeggiare il suo santo, venerato ad est e ovest, Bari ha tenuto il fiato sospeso fino all’ultimo rigore per stringersi intorno a Walino, il suo bomber marocchino. Così come a Bari i tanti Nicola sono chiamati Colino, Walid Cheddira ha avuto la fortuna di essere ribattezzato dai baresi Walino. Da tantissimi anni si attendeva una punta che segnasse a raffica e sostituisse nel cuore il brasiliano Paulo Vitor Barreto, detto Vitino. Così quando Walino, dopo avere segnato nove reti nel campionato di serie B, è stato convocato dal Marocco per partecipare ai Mondiali, la città ha trovato chi tifare. Doppia festa dunque ieri a Bari che sarebbe stata tripla se solo Walino l’avesse buttata dentro dopo essersi fatto spazio tra le maglie della difesa spagnola. E allora altro che fuochi d’artificio per festeggiare San Nicola, le cui ossa furono trafugate ai turchi un migliaio di anni fa da una sessantina di marinai baresi. Forse sarà anche per questo furto che San Nicola è considerato protettore di avvocati, prigionieri e vittime di errori giudiziari. E di prigionieri marocchini in Italia ce ne sono ben 3.602, quasi tutti maschi. Un detenuto straniero su cinque proviene dal Marocco, che rappresenta circa il 6% del totale della popolazione detenuta nel nostro paese. E, purtroppo, i marocchini sono anche quelli che hanno lasciato più morti nelle prigioni italiane. Negli ultimi dieci anni, come ci ha segnalato il Garante Nazionale delle persone private della libertà in una ricerca analitica sui suicidi nelle carceri italiane, ben trentasette marocchini si sono tolti la vita negli ultimi dieci anni, di cui cinque nel solo 2022. Settantanove suicidi in totale dall’inizio dell’anno. Un numero enorme che dovrebbe fermare tutti noi, dovrebbe interrogare le forze politiche e di governo intorno a quello che sta accadendo nel nostro sistema penitenziario. Il più grave errore di fronte alla perdita di una vita è andare alla ricerca del capro espiatorio di turno, piuttosto che mettere in discussione il modello penale e carcerario vigente. Ogni suicidio è una storia a sé di disperazione che non va trattata in modo standardizzato, trasformando quella persona in un oggetto anonimo. Ogni persona suicida ha una storia, una sua biografia. Riprendiamole in mano, restituiamo loro una piena dignità visto che non possiamo ridar loro la vita. Per farlo dobbiamo tornare a residualizzare la risposta carceraria che è sempre patogena, tanto più quanto è lontana dall’essere necessaria. Dobbiamo uscire dal carcerocentrismo che ha colpito i passionari della giustizia bendata e truce. Dobbiamo anche investire tutti i fondi disponibili, non nel costruire nuove prigioni funzionali all’internamento di massa, ma per assumere migliaia di nuovi operatori che possano conoscere una ad una le persone recluse e le loro storie individuali. Conoscerle per aiutarle. Conoscerle per prenderle in carico. Non abbiamo bisogno di nuovi reati ma di umanizzare e modernizzare la vita nelle carceri. La tecnologia va messa al servizio dei diritti dei detenuti, favorendo la promozione di una vita che si approssimi a quella normale. Nei giorni scorsi ero in visita al carcere di Pesaro. Mi è stato detto che i detenuti marocchini avevano festeggiato per la qualificazione agli ottavi di finale. In quel carcere, però, il campo di calcio per i detenuti non sembrava ben messo. La possibilità di fare sport era veramente limitata. Mancanza di risorse, forse. Mancanza di pianificazione, forse. Partiamo da quel campo, e riformiamo un sistema che per ora ha prodotto troppi morti e troppe tragedie. La rivoluzione di Nordio e lo strano silenzio dei partiti: la chiave l’elezione dei 10 laici al Csm di Alberto Cisterna Il Riformista, 10 dicembre 2022 Il discorso programmatico di Nordio innanzi alla commissione Giustizia del Senato ha, per ora, registrato molti silenzi. Anche troppi in verità. Messo da parte il solito refrain forcaiolo di noti circoli che vedono minacciata la vita stessa della Repubblica da una riforma dei reati di corruzione che pare ai più avveduti come inevitabile (si veda l’intervista del procuratore Cantone di ieri), le idee di via Arenula prefigurano un vero e proprio stravolgimento dell’assetto organizzativo della magistratura italiana, a partire dal tema incandescente, anzi rovente, della separazione delle carriere. Sia chiaro, tutti sanno che i passaggi dalla funzione requirente a quella giudicante e viceversa sono ormai pochissimi; tutti sanno che per eseguire una tale inversione di rotta è necessario, e da anni, cambiare il distretto giudiziario di appartenenza; tutti sanno che il brusco innalzamento dell’età media dei magistrati italiani comporta inevitabilmente una scarsa propensione alla mobilità territoriale. È un totem, si potrebbe dire. Ma è al contempo il simbolo di una precisa concezione del ruolo del pubblico ministero, tutto inglobato e coeso con la giurisdizione vera e propria nella consapevolezza che fuori da quel circuito - come dire - non c’è salvezza. Discutere, quindi, degli esigui scambi di funzione, della cristallizzazione territoriale dei magistrati ha poco senso perché, chiaramente, la partita è altra. È tutt’altra. L’inserimento del pubblico ministero nell’alveo costituzionalmente protetto e riparato della giurisdizione conferisce all’esercizio dell’azione penale quarti di nobiltà, stimmate di terzietà che fuori di essa non potrebbe avere. Se da “parte imparziale”, come recitava un’antica teorica, il pm diviene “parte parziale” perché titolare di una precisa posizione antagonista rispetto all’imputato, allora l’espulsione da circuito della giurisdizione è non solo consequenziale, ma addirittura necessaria. Il ministro Nordio muove da due presupposti teorici e politici che è difficile contestare: il codice Vassalli del 1988 è di stampo accusatorio con la diretta dipendenza della polizia giudiziaria agli ordini del pubblico ministero, il ché è urticante da un punto di vista ordinamentale; la riforma dell’art. 111 della Costituzione prescrive che il processo penale debba aver luogo innanzi a un giudizio terzo e imparziale con le parti in posizione di parità tra loro. Da questi capisaldi intende muoversi via Arenula non dimenticando di ricordare che Vassalli, oltre che esimio giurista, era anche un valoroso partigiano e che la riforma del 1999 è stata approvata sotto l’ombrello del governo D’Alema; norme, quindi, esenti da sospetti di simpatie destrorse o antidemocratiche. Ma come si diceva, per ora tutto tace. È evidente che non si vogliano surriscaldare gli animi in vista della scelta, da parte del Parlamento in seduta comune, dei 10 componenti laici che permettano l’insediamento del nuovo Csm già eletto nella parte togata. La possibilità che le opposizioni, con un’intesa della maggioranza con Renzi e Calenda, restino fuori da Palazzo dei Marescialli sarebbe una sgrammaticatura costituzionale, ma in teoria non è detto che tutte le opposizioni debbano avere diritto di tribuna nel Csm: nella scorsa consiliatura Fratelli d’Italia restò senza uno scranno. Il problema non è di poco conto. Un nome autorevole da parte delle opposizioni (e se ne ventilano di molto autorevoli) vedrebbe quasi inevitabilmente coagularsi su questo il consenso della maggioranza della componente togata con la possibilità - o rischio, dipende dai punti di vista - che la vice Presidenza finisca nelle mani proprio di una personalità estranea all’attuale maggioranza parlamentare. Quindi, pensa qualcuno, meglio riporre le scimitarre nel fodero, per sguainarle dopo che la battaglia sul vice presidente sarà conclusa. Una polemica al calor bianco di questi tempi potrebbe indurre la maggioranza a far en plein con scelte sommamente poco gradite a buona parte della corporazione; d’altronde è ciò che capita in tempi di guerra. Quindi, probabilmente, il discorso di Nordio sarà tenuto in sordina e messo da parte nell’attesa - come si vuol dire quando si fa melina e si temporeggia - di leggere con immancabile “attenzione” il testo delle proposte di legge che verranno elaborate dall’Ufficio legislativo di via Arenula, su cui siede un magistrato di altissimo profilo professionale e scientifico, e da un ministro delle Riforme, come la Casellati, con un curriculum di tutto rispetto. Insomma figure che certo non incapperanno nei pasticci di altri dicasteri in queste delicate materie (si pensi al famoso lodo Alfano e alla sua sorte) e che sono per questo interlocutori ancora più temibili. Comunque, i pezzi si stanno collocando sulla scacchiera e inevitabilmente al ministro della Giustizia è spettato il compito di fare la mossa di apertura. Non sarà una partita facile, né scevra da imboscate e durissime polemiche, ma certo la questione ordinamentale - come si ripete da anni - è lo snodo decisivo per affrontare le criticità del processo non solo penale in Italia. Se non si disegna un’architettura equilibrata nel rapporto tra pm/polizia giudiziaria, difesa e giudice non c’è riforma, né garanzia che possa dare frutti duraturi ed efficaci. La riforma della giustizia per ora serve soprattutto a tenere insieme la destra di Alessandro Calvi L’Essenziale, 10 dicembre 2022 Il ministro Carlo Nordio sembra intenzionato a mettere mano ad alcuni temi giuridici, come l’obbligatorietà dell’azione penale, l’uso delle intercettazioni e la separazione delle carriere. Temi delicati che riaprono lo scontro con i magistrati. È quanto meno curioso che la necessità di una stretta sulle intercettazioni telefoniche sia proclamata dal ministro di un governo che solo qualche settimana prima aveva approvato una norma per intercettare perfino gli organizzatori dei rave party. Eppure è ciò che è accaduto. Il ministro è quello della giustizia, Carlo Nordio, e l’annuncio - arrivato nel corso delle audizioni dello stesso Nordio al senato e alla camera del 6 e 7 dicembre - s’inserisce nel quadro di una più ampia riforma del sistema penale anticipata proprio in questa occasione, e che ha già suscitato molte critiche. Nordio è partito dalle cause che, a suo parere, impediscono alla giustizia di funzionare. “La presunzione di innocenza”, ha detto, “continua a essere vulnerata in molti modi”. Tra questi, “l’adozione della custodia cautelare come strumento di pressione investigativa”, lo snaturamento dell’informazione di garanzia “diventata condanna mediatica anticipata” e l’azione penale “diventata arbitraria e quasi capricciosa”. In particolare, l’obbligatorietà dell’azione penale - ossia la regola che impone al pubblico ministero di avviare le indagini quando entra in possesso di una notizia di reato e che è fondamentale per garantire l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge - si sarebbe convertita addirittura in un “intollerabile arbitrio”. L’impossibilità per le procure di gestire migliaia di fascicoli porterebbe infatti a dover scegliere i fatti sui quali indagare e questa situazione, ha affermato il ministro, “conferisce alle iniziative, e talvolta alle ambizioni, di alcuni magistrati, per fortuna pochi, una egemonia resa più incisiva dall’assenza di responsabilità in caso di mala gestione”. Problemi reali. Tra i guasti del sistema ci sarebbe anche l’uso “eccessivo e strumentale delle intercettazioni” telefoniche. “La loro diffusione, talvolta selezionata e magari pilotata”, costituirebbe secondo il ministro “uno strumento micidiale di delegittimazione personale e spesso politica”. “Vigileremo in modo molto rigoroso su ogni diffusione che sia arbitraria o impropria”, ha avvertito Nordio annunciando “una profonda revisione” delle regole. E un cambiamento potrebbe arrivare anche sul fronte della separazione delle carriere della magistratura. Nordio per il momento si è limitato a un accenno, dicendo che non ha senso che giudici e pubblici ministeri appartengano allo stesso ordine. Ma è comunque bastato. D’altra parte la posizione della destra sul punto è ben nota da anni. Come detto, tutto ciò si inserirebbe all’interno di una riforma complessiva del sistema penale e processuale. L’obiettivo è armonizzare le regole contenute nel codice penale, il cui impianto originario risale agli anni del regime fascista, con quelle del codice di procedura, che disciplina indagini e processo. Il codice procedurale è infatti molto più recente del primo, ed è ispirato ai princìpi del cosiddetto processo accusatorio in cui pubblica accusa e difesa sono poste su un piano di parità di fronte al giudice, e sono previste più garanzie per indagati e imputati rispetto al passato. La destra radicale sembra intenzionata ad affrontare le questioni sociali soprattuto in termini di ordine pubblico, dando soluzioni di natura prevalentemente securitaria. Va detto che sul punto Nordio ha ragione. E ha ragione anche a sollevare alcune questioni come quella fondamentale dei problemi che affliggono da molto tempo il funzionamento dell’obbligo di azione penale. Il guaio è però nelle risposte che il governo si prepara a dare. Nonostante la vaghezza con cui il ministro ha accennato al contenuto di quelle riforme, c’è infatti la sensazione che ancora una volta si finirà per correre il rischio di vedere limitata la capacità di azione della magistratura. E c’è chi teme che si potrebbe arrivare perfino a intaccare l’indipendenza delle procure della repubblica. Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), ha affermato che “l’architettura costituzionale del potere giudiziario non andrebbe toccata”. “L’obbligatorietà dell’azione penale e l’unità delle carriere”, ha spiegato, “sono i due pilastri di questa architettura” e un’azione penale discrezionale aprirebbe la strada al controllo politico sulla magistratura, “così come il pubblico ministero separato dalla giurisdizione diventa controllabile”. Anche per Armando Spataro, magistrato di lungo corso, i progetti di riforma annunciati da Nordio, “se approvati, finirebbero con il determinare la sottoposizione dell’ordine giudiziario al potere politico”. Più in generale, il programma annunciato da Nordio presenta diverse convergenze con la visione berlusconiana del sistema penale. Al governo, però, oggi c’è la destra radicale guidata da Giorgia Meloni che esprime una idea di giustizia perfino più inquietante di quella della destra berlusconiana, e che sembra intenzionata ad affrontare le questioni sociali soprattutto in termini di ordine pubblico, dando soluzioni di natura prevalentemente securitaria. E non è un caso se la stessa Meloni, affermando di condividere quanto affermato da Nordio, si è definita “una garantista nella fase di celebrazione del processo e una giustizialista nella fase di esecuzione della pena”. Comunque sia, ci vorranno anni prima di vedere come questa riforma, per il momento so tratteggiata, vedrà la luce, sempre che riuscirà a vederla. Per una parte significativa, infatti, serviranno modifiche alla costituzione, circostanza che ne rende più difficile il cammino poiché presuppone un largo accordo politico che per il momento è difficile immaginare. D’altra parte, lo stesso Nordio di recente aveva spiegato che per il momento la priorità è rendere efficiente il sistema giustizia, poiché la lentezza dei processi comporta anche un costo economico molto ingente. Ciò significa che per ora restano centrali il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), la produttività degli uffici giudiziari, o questioni come la revisione del reato di abuso di ufficio. Insomma, se la sostanza è di là da venire, gli annunci del governo servono per il momento soprattutto a produrre sostanza politica. Il Terzo polo, e in particolare l’area renziana, si infatti è già detto disponibile a sostenere la riforma. E questo esalta le distanze esistenti tra le opposizioni, cosa che a Meloni non dispiacerà, con un Partito democratico che appare smarrito più che mai e un Movimento 5 stelle decisamente contrario. Ma, soprattutto, aprire la questione giustizia consente di restituire peso a una destra che in queste prime settimane al governo ha faticato a trovare temi nobili con i quali caratterizzarsi, avvitandosi in discussioni di piccolo cabotaggio come quella sul pos. E la giustizia, peraltro, è un argomento che consente di ricompattare quella stessa maggioranza che era arrivata al governo divisa su tutto o quasi. Considerato il contesto, probabilmente questo per Meloni è già abbastanza. Il resto si vedrà. Resta però da capire se anche Nordio la pensa così. È la democrazia. Ora la magistratura non faccia la guerra a Nordio di Gian Domenico Caiazza Il Dubbio, 10 dicembre 2022 Il ministro siede su un ossimoro esplosivo, che prima o poi detonerà: “Siamo garantisti sul processo - ama dire la Presidente Meloni - e giustizialisti sulla esecuzione della pena”. Questa sì, una bestemmia. Guardate un po’ cosa succede, in questo nostro sfortunato Paese, se un Ministro di Giustizia si azzarda a compitare alcune basiche proposte di matrice schiettamente liberale. Un putiferio. Una chiamata subitanea alle armi ed ai forconi. Evocazioni addolorate della Costituzione violata e bestemmiata. E soprattutto, quella allarmata ed accorata accusa: è stata dichiarata guerra alla magistratura! La quale ultima accusa è la più esemplare dimostrazione di come, in Italia, i parametri di giudizio riguardo alla politica giudiziaria vengano ormai, da un buon trentennio in particolare, letteralmente sovvertiti. Partiamo proprio da qui, se avrete pazienza di seguirmi. Carlo Nordio è innanzitutto un parlamentare della Repubblica, da subito indicato agli elettori come futuro Ministro Guardasigilli, in forza esattamente di quelle idee liberali sulla giustizia penale che egli professa, con la parola e con gli scritti, da lunga pezza. Lui viene eletto, e lo schieramento politico che lo candidava a regista della politica giudiziaria del Paese stravince le elezioni e dunque governa il Paese. Non mi sfuggono, sia chiaro, ambiguità e misteriose contraddizioni alla base di quella designazione. Nordio siede, infatti, su un ossimoro esplosivo, che prima o poi detonerà: siamo garantisti sul processo - ama dire la Presidente Meloni, che pure è una donna intelligente - e giustizialisti sulla esecuzione della pena. Questa sì, una bestemmia, e staremo a vedere come il nostro Carlo se la sbroglierà. Ma è la democrazia, bellezza. Si chiama volontà popolare. Non è che l’on. Nordio, inebriato dalla prestigiosa nomina, ha cominciato a sproloquiare idee bizzarre e sconosciute. Ripete quelle per realizzare le quali è stato eletto dalla maggioranza degli elettori. Quindi, la prima domanda, molto semplice, è questa: chi sta dichiarando guerra a chi? Non certo l’on. Nordio. È la Magistratura, sono alcuni giornali, è la opposizione parlamentare ad aver dichiarato guerra a Nordio. Lui, con quelle sue idee, è passato al vaglio democratico del voto popolare, e quel vaglio non solo lo facoltizza, ma anzi gli impone di attuarle. A tutti costoro non piacciono le idee liberali sulla giustizia penale. Le patiscono come l’acqua i gatti. Sono estranei e naturalmente ostili ad esse, educati come sono da sempre a considerarle, nella più generosa delle ipotesi, boutade salottiere, e pigramente abituati a Ministri di Giustizia di tradizioni culturali opposte o comunque lontanissime da esse.Cosa ha detto di eversivo il nostro scandaloso Ministro? Per esempio che vuole un ordinamento giudiziario a carriere separate tra PM e Giudici. Si tratta, giusto perché non lo si dimentichi, del sistema ordinamentale più diffuso - nelle sue varie, possibili articolazioni- nelle principali democrazie del nostro pianeta. Siamo noi, insieme a Bulgaria, Romania e Turchia, giusto per capirci, ad essere l’eccezione. E la Francia, dove però i P.M. sono sotto il controllo dell’esecutivo. Non mi risulta che negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Portogallo, in Germania, in Canada, e così via discorrendo, i criminali governino quei Paesi e le persone per bene, terrorizzate, vivano chiuse nelle loro case. Siamo noi in ritardo con la Costituzione, dopo la riforma dell’articolo 111 della Carta, che pretende parità tra accusa e difesa e terzietà del giudice. La magistratura pretende che quella terzietà sia affidata alla virtù del giudice (“cultura della giurisdizione”, viene chiamata nei dibattiti); noi liberali, se non disturba troppo, pensiamo non basti. E con noi, come tutti sanno, la stragrande maggioranza della pubblica opinione. E che dire delle patologie legate all’uso ed al governo incontrollato delle intercettazioni telefoniche? Nordio non ha dettagliato la natura degli interventi che ha in mente, aspettiamo almeno che ce ne possa parlare, senza per questo dover essere accusato di “favorire le mafie” (Cafiero de Raho). E l’obbligatorietà dell’azione penale? Non esiste più, se mai è esistita, tant’è che le leggi prevedono esplicite deroghe. Sapete quale è la vera partita? vogliono che le deroghe (si chiamano “priorità”) continuino ad essere insindacabilmente riservate ai Procuratori della Repubblica. Dunque una scelta politica (tale è una scelta di “priorità” dell’azione penale) affidata ad un qualificato burocrate, che però non ne risponde a nessuno. Per carità, sono idee come altre, ognuno difenda le proprie. Ma piantiamola con questa invereconda buffonata della “dichiarazione di guerra alla magistratura”. Ammoniamo piuttosto la Magistratura a restare nel suo proprio ruolo, e a non dichiarare guerra ad un Ministro democraticamente legittimato a proporre e realizzare quel programma di riforme. Torniamo ad una Politica che abbia l’orgoglio della propria funzione: attuare la volontà dei cittadini come democraticamente espressa nelle cabine elettorali. Siano gli altri a non dichiarare guerra alle regole democratiche. Corri, Nordio, corri! Più veloce dei forcaioli di Valerio Spigarelli Il Riformista, 10 dicembre 2022 Se quello del ministro è un impegno vero, e non il tentativo di salvare la faccia dopo l’inguardabile dl rave, allora si passi ai fatti. O il rischio è che vinca la doppia anima del centrodestra: garantista per sé, forcaiola per tutti gli altri. Le dichiarazioni di Nordio hanno risbattuto in prima pagina la giustizia. La cosa che impressiona non è tanto la rapidità con la quale il tema ha scalato la classifica mediatica ma l’immobilità assoluta dei contenuti ed il riflesso pavloviano che condiziona le forze politiche quando se ne parla. Una reazione che immiserisce la questione e la riduce a politica politicante. Come nel Deserto dei Tartari il protagonista invisibile è sempre lo stesso: la riforma del Titolo Quarto della Costituzione. Qualcuno la evoca, qualcuno la teme, ma nessuno la mette sul piatto. Eppure di ricette pronte, dosate persino nei particolari, da qualche lustro ne esistono più di una. Agli atti parlamentari sono depositate, tra le altre, le proposte della commissione Boato, e quelle del ministro Alfano del 2011, che hanno entrambe il pregio di essere state terreno di confronto trasversale tra le forze politiche nelle commissioni bicamerali che ci hanno lavorato. Senza dimenticare che in Parlamento giace anche la legge di iniziativa popolare dell’Unione delle Camere Penali, che nei contenuti è sovrapponibile a quella di Alfano il quale, a suo tempo, proprio un progetto dei penalisti italiani aveva fatto proprio. Ed allora, l’iniziativa dell’attuale ministro - che sul piano dei contenuti, o meglio dei terreni programmatici, appare largamente condivisibile - ha un solo difetto, quello di aver rinviato ad un indefinito secondo tempo della legislatura la risoluzione dei problemi strutturali che ha evocato parlando di intercettazioni, obbligatorietà dell’azione penale, separazione delle carriere, ventilazione della magistratura, Alta Corte di giustizia disciplinare. Sui tempi Nordio è stato vago, ha concesso alla retorica imperante la necessità di mettere a regime la riforma Cartabia - che invece meriterebbe di essere revisionata in maniera molto più radicale - se non altro per passare alla cassa europea, ma non ha indicato il crono programma della riforma di struttura. Ciò posto, se le parole dell’ex pm sono da intendersi come un reale impegno politico, e non il tentativo di recuperare terreno dopo l’infortunio della inguardabile legge sui rave e le preclusioni ai benefici dell’ordinamento penitenziario, l’unico modo politicamente serio per dimostrarlo è quello di far partire la macchina della riforma varando, subito, una commissione bicamerale. Altrimenti c’è il rischio che la doppia anima del centrodestra, quella che strepita sul garantismo e poi fa legge forcaiole, ovvero indossa le vesti dei grandi riformatori, da Hammurabi a Napoleone, e poi le getta alle ortiche per risolvere le grane giudiziarie del capo di turno, da Previti alle olgettine fino alle case a Montecarlo, alla fine prevalga. Non sarebbe la prima volta, come dimostra proprio la mala sorte della proposta Alfano. Una doppia anima che, a complicare le cose, sul versante forcaiolo oggi vede l’ingresso di una componente ulteriore ben rappresentata dal non meno inguardabile slogan varato dal sottosegretario Del Mastro e subito fatto proprio dalla Meloni: quello che vuole i governativi “garantisti nel processo e giustizialisti sulla pena”. Un ossimoro degno del lettino di uno psicanalista in qualsiasi altro paese, dove personaggi come il citato sottosegretario - che a suo tempo andò sotto il carcere di Santa Maria Capua Vetere a portare solidarietà agli agenti della polizia penitenziaria dopo la mattanza del 2020 e che idolatra il 41 bis, cioè fa quello che fa anche Salvini - difficilmente si ritroverebbero dalle parti di un liberale vero come Carlo Nordio. Però da noi così va il mondo e bisogna far di necessità virtù. Proprio come fa, o tenta di fare, il ministro nella parte più ambigua delle sue dichiarazioni, quando concede ai “giustizialisti” del suo governo che nel nostro sistema la pena avrebbe nella “retribuzione” il suo tratto più marcato. Affermazione su cui si potrebbe discutere a lungo, visto che l’unica funzione che sottolinea l’articolo 27 della Costituzione è che le pene “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione.” Punto. Del resto è lo stesso Nordio ad aggiungere, sempre in tema di sanzioni, che sarebbe opportuno superare il panpenalismo, in favore di ampia depenalizzazione che privilegi sanzioni amministrative ben più effettive. Tra l’altro, anche se la questione non è stata colta dalle cronache, il ministro ha ripreso anche una vecchia proposta di Ettore Randazzo sulla necessità di creare un circuito carcerario realmente diversificato per coloro i quali sono in custodia cautelare. A fronte di tutto questo la reazione di larga parte dell’informazione “progressista”, e del PD nel campo politico, hanno l’unico merito di farci fare un salto all’indietro nel tempo riportandoci al periodo della gioventù. I commenti “a sinistra” seguiti alle parole di Nordio sono sconfortanti. Come se non fossero passati lustri dai tempi dei girotondi, come se anche la parte “progressista” del paese non avesse potuto constatare - grazie alle imprese dell’impresentabile Bonafede - quanti guai alla causa porti la decisione di delegare al Travaglio di turno, e all’ANM in ogni epoca, l’agenda sulla politica giudiziaria. È tutto un fiorire di allarmi democratici, vecchi cliché antiberlusconiani, slogan ancor più triviali di quelli dei forcaioli governativi, e tribune concesse ai super procuratori appena eletti in parlamento. Non c’è nulla da fare, pur di assicurarsi qualche click, ovvero tentare di raccattare qualche voto in libera uscita dal partito del Robespierre con la pochette, la sinistra nel nostro paese rinuncia a ragionare sulla giustizia ormai da decenni. Però stavolta dovrebbe, se non altro perché Renzi e Calenda rendono la strada della riforma costituzionale percorribile a prescindere. Eppure anche a sinistra, sia pur in senso molto lato, qualcosa si muove. Partendo dalla vicenda dell’anarchico Cospito è comparsa sul web una strip di Zerocalcare pubblicata su Internazionale che riflette sull’aberrazione del 41 bis, il totem dell’antimafia. A modo suo, e col suo linguaggio, il fumettista interroga il suo pubblico, che certo non comprende amici dei mafiosi, sul fatto che è inutile girarci attorno: quella misura è una tortura per tutti, anarchici e malacarne, senza distinzioni pelose che dovrebbero salvare l’anima alla parte buona del paese. Augurandoci che il disegnatore romano non venga subito sottoposto ad intercettazione preventiva, se non altro perché vive a Rebibbia, quartiere ad alta densità deviante, c’è da sperare che a sinistra qualcuno tragga ispirazione per sottrarre il cervello dall’ammasso dei luoghi comuni che subito si è formato da quelle parti appena Nordio ha avanzato le sue proposte. Certo in tema di giustizia gli ci vorrebbe una coscienza critica, un Armadillo dietro le spalle, sempre per citare Zerocalacare, a suggerirgli un pensiero libero dalla necessità di grattare consensi ai Cinque Stelle, e dalle parti del PD proprio non si vede. Anzi, quando si affrontano questi temi quel partito riparte sempre dal via, dimenticando gli stessi passi in avanti fatti nel frattempo. L’esempio dell’Alta Corte di Giustizia è illuminante. Durante lo tsunami Palamara la questione sembrava aver mietuto consensi anche in campo democratico, ora che ne parla Nordio ridiventa una proposta demoniaca. Quanto all’ANM niente di nuovo sotto il sole. Le reazioni sono quelle di sempre, compreso il riflesso proprietario sulla giustizia italiana che le condiziona. Speriamo che in questo frangente la realtà gli dia torto: fino ad oggi hanno avuto ragione a pensarla così. Intercettazioni, quanta ipocrisia di Henry John Woodcock Il Fatto Quotidiano, 10 dicembre 2022 I magistrati, gli avvocati, i politici, il Csm e anche i giornalisti hanno finora evitato una discussione seria e aggirano il punto nevralgico: sono il solo mezzo utile per scoprire la corruzione. Non si può certo dire che il tema delle intercettazioni e il dibattito pubblico su tale mezzo di ricerca della prova costituisca un argomento nuovo e rivoluzionario. Tuttavia è altrettanto indubbio che il “sogno” di ogni ministro della Giustizia rimane quello di legare il proprio nome a una riforma epocale su tale materia. Tale tema continua a essere affrontato, con grande ipocrisia, indistintamente, da tutte le parti in causa: magistrati, avvocati, politici e giornalisti. Non c’è dubbio che in particolare i magistrati del pubblico ministero, in alcune occasioni si sono purtroppo illusi di dar forza alle proprie indagini sentendosi gratificati dalla pubblicazione di atti di indagine (e in particolare delle risultanze tratte dalle intercettazioni), di regola depositate e dunque non segrete, ma in alcuni casi poco conferenti rispetto all’ipotesi accusatoria perseguita, appunto nell’illusione che il consenso dell’opinione pubblica potesse surrogare l’avallo del giudice. Spesso, poi, accade che alcuni avvocati si aspettino dalla pubblicazione di intercettazioni riguardanti procedimenti e processi nei quali sono coinvolti loro assistiti una sorta di ritorno pubblicitario, sovente amplificato, in una prospettiva evidentemente distorta, dalla partecipazione degli stessi avvocati a uno dei tanti talk show che si occupano - più o meno sommariamente - di vicende giudiziarie. Ancora gli esponenti politici - senza distinzione di appartenenza - hanno sempre concentrato e continuano a concentrare la loro attenzione sul tema delle intercettazioni esclusivamente quando le stesse riguardano vicende collegate ai reati contro la Pubblica amministrazione, ovvero i così detti reati commessi dai “colletti bianchi”, dimostrando invece assoluto disinteresse e, in alcuni casi anche soddisfazione, nei casi in cui le intercettazioni e la loro pubblicazione riguarda i reati così detti comuni, commessi dai poveri disgraziati e dai diseredati. Infine i giornalisti - che, non senza un pizzico di ipocrisia, hanno sempre rivendicato il ruolo di “arbitri” terzi rispetto all’annosa diatriba tra operatori giudiziari e politica - hanno avuto e hanno le loro responsabilità nella pubblicazione di fatti e di notizie la cui divulgazione avrebbe dovuto, invece, essere evitata. Troppo spesso, infatti, è stato invocato a sproposito il famoso “dovere di pubblicazione” del giornalista sancito dalla Carta dei doveri, che ha rappresentato un facile alibi per la pubblicazione di fatti e vicende prive di interesse pubblico (e magari improvvidamente e inopportunamente inglobati dagli stessi magistrati nei provvedimenti giudiziari) o, peggio ancora, di notizie che hanno determinato danni, magari irreparabili, per le stesse indagini in corso. Per concludere, non può non evidenziarsi che anche il Csm ha le sue responsabilità avendo da sempre abdicato al suo potere di normazione secondaria proprio nella materia riguardante il delicato rapporto tra informazione e pubblicazione di atti giudiziari. Il Csm avrebbe potuto intervenire legittimamente dettando disposizioni più puntuali: si intenda bene, non certo sulla pubblicazione da parte degli organi di informazione delle notizie, che, in una democrazia, è e deve rimanere prerogativa assoluta degli stessi organi di informazione, ma piuttosto sulle modalità di rilascio della copia degli atti. Indubbiamente, tale materia risente dell’anomalia tutta del nostro sistema nel quale non vi è coincidenza tra il venir meno della segretezza di un atto e il divieto di pubblicazione dell’atto medesimo. Tant’è che molti procuratori della Repubblica, per superare tale “corto circuito”, hanno adottato la prassi - a mio avviso sana e virtuosa - di valutare caso per caso la possibilità, una volta che gli atti del procedimento vengono depositati e messi a disposizione delle parti (per esempio a seguito dell’applicazione di misure cautelari), di autorizzare formalmente (anche) i giornalisti a estrarre copia degli atti stessi, in modo da evitare e da scongiurare l’odioso quanto inevitabile “mercato delle carte”. Con riferimento alla questione del rapporto tra giustizia e informazione, è certo che la riforma Cartabia al riguardo non ha proprio colto nel segno. Infatti, da una parte non ha alcun senso aver previsto come nuovo illecito disciplinare quello commesso dal magistrato che informa la stampa dei risultati dell’attività di indagine, e ciò dal momento che - anche a prescindere dalla riforma Cartabia - se un magistrato informa la stampa delle risultanze di indagini in corso prima del deposito degli atti commette un illecito penale, prima ancora che un illecito disciplinare; ha poi ancor meno senso impedire a un magistrato, una volta che gli atti sono stati depositati e le indagini sono concluse, di fornire delucidazioni a un giornalista che, per esempio, sta per pubblicare notizie sbagliate e magari dannose per una parte: si pensi all’ipotesi in cui un giornalista stia per pubblicare la notizia che “Tizio” o “Caio” è stato rinviato a giudizio per un grave reato, mentre invece rispetto a quelle specifiche posizioni il pubblico ministero ha chiesto e ottenuto l’archiviazione. È forse un male evitare che il giornalista che si presenti dal magistrato a chiedere conferma sul punto pubblichi una notizia sbagliata e dannosa per lo stesso cittadino coinvolto? Ancor meno “azzeccata” sembra poi la disposizione secondo la quale solo i procuratori della Repubblica potrebbero parlare con i giornalisti e, ben si intenda, esclusivamente in conferenza stampa; a parte la mia personale idea delle conferenze stampa che fanno venire in mente la straordinaria scena del film Fascisti su Marte di Corrado Guzzanti, pare altrettanto assurdo che, ad esempio, un procuratore della Repubblica che venga contattato telefonicamente da un giornalista di una testata straniera che chiede delucidazioni su un processo ormai chiuso e definito avente a oggetto temi e questioni di rilevanza internazionale assolutamente pubblici, debba essere costretto ad “appendere la cornetta” del telefono o a simulare mutismo. Tornando, e chiudendo sul dibattuto tema delle intercettazioni (a parte i proclami degli ultimi giorni e l’abusato riferimento agli altri Paesi dell’Europa, che probabilmente non tengono conto del fatto che in Italia, e non in Scandinavia, operano e imperversano a tutti i livelli almeno quattro associazioni di stampo mafioso) va infine evidenziato come esse costituiscano l’unico mezzo di ricerca della prova utile e validamente utilizzabile con riferimento al più diffuso dei reati contro la Pubblica amministrazione, il reato di corruzione, e ciò dal momento che questa - reato “contratto” per eccellenza - appare caratterizzata dalla speculare e contestuale incriminabilità di tutti i protagonisti della transazione illecita in oggetto, dovendosi, dunque, escludere la possibilità, almeno di regola, di ricostruire tali condotte criminose con mezzi diversi dalle intercettazioni. Ma vi è di più: in materia di corruzione le intercettazioni e l’utilizzo delle stesse sono destinate a diventare ancor più necessarie, rilevanti e imprescindibili se dovesse tradursi in legge l’idea prospettata dal ministro - per molti versi più che apprezzabile - di introdurre nel nostro sistema la previsione della non punibilità per i soggetti che hanno commesso reati di corruzione che denuncino spontaneamente gli illeciti. Solo le intercettazioni consentiranno di acquisire gli elementi e le risultanze su cui potrà innestarsi la condotta collaborativa del corruttore. A meno che non ci sia qualcuno che immagini che un corrotto o un corruttore si svegli una bella mattina e si presenti spontaneamente al pubblico ministero confessando di aver corrotto o di essere stato corrotto. Speriamo di non esser costretti a sentire anche questo! “Noi toghe non saremo il braccio esecutivo delle forze politiche” di Valentina Stella Il Dubbio, 10 dicembre 2022 Obbligatorietà dell’azione penale, la difesa dei pm. Ma per Campora “è un’ipocrisia”. In Italia l’obbligatorietà dell’azione penale “si è convertita in un intollerabile arbitrio”: così tuonò il ministro Nordio illustrando qualche giorno fa le sue linee programmatiche in Commissione Giustizia del Senato. Per Mario Palazzi, magistrato alla Dda di Roma, esponente di AreaDg, “non deve sorprendere che, pur essendo un pm, per quella cultura che intendiamo preservare, le direttrici evocate nell’intervento parlamentare del ministro mi preoccupino tanto sul tema delle garanzie, quanto su quella dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge”. Per Palazzi, “ipotizzare all’un tempo separazione delle carriere, discrezionalità dell’azione penale e - punto non meno importante - “sganciamento” della Polizia giudiziaria dal pm preannuncia un quadro finale con tinte assai fosche”. Come ha scritto anche il professore Francesco Palazzo su Sistema Penale, “congiungere in un unitario progetto la dilatazione ulteriore della discrezionalità e la separazione delle carriere lascia fatalmente intravedere all’orizzonte un pubblico ministero che, dovendo ineludibilmente rispondere della accresciuta discrezionalità, può diventare braccio esecutivo delle forze politiche di volta in volta (non si dimentichi che le maggioranze cambiano!) dominanti”. Per quanto riguarda l’obbligatorietà, Palazzi ci spiega: “A Roma il Tribunale monocratico non è in grado di assorbire il flusso delle citazioni a giudizio della Procura, perché c’è un problema di risorse. Io posso anche terminare le indagini in sei mesi e chiedere la fissazione dell’udienza; ma se poi questa viene fissata, per esempio, dopo tre anni il destino inesorabile sarà la prescrizione”. Chiediamo al pm come lui gestisce quel flusso enorme: “Inevitabilmente applico una priorità temporale nella trattazione sulla base della gravità dei fatti in linea con i principi stabiliti da questo ufficio giudiziario. Oggi posso dire che tratto primo un fascicolo e poi un altro, ma sono obbligato a trattarli tutti”. Ma poi, si chiede il magistrato, “se mi si impone la discrezionalità, come faccio a decidere quale fascicolo trattare e quale no? Paradossalmente avrei un maggiore potere che io non voglio. Qual è l’alternativa? Ognuno fa per sé? Oppure a decidere chi perseguire dovrà essere il ministro di turno? Già oggi i criteri di priorità sono una realtà e la riforma Cartabia ha attribuito un ruolo non secondario al Parlamento nell’approvazione dei criteri generali che definiranno la cornice entro cui i singoli uffici inquirenti individueranno altri criteri, fisiologicamente di specificazione, di maggior dettaglio”. “Mi chiedo infine - ci dice Palazzi - di questo sì si sente la necessità, che fine ha fatto il progetto di depenalizzazione che pure aveva visto Anm ed avvocatura associata concorde, pronta ad offrire - quota parte - il proprio contributo?” In definitiva “a me pare che l’esordio della nuova legislatura sia stato invece di segno opposto, ancora una volta implementando il già sovraccarico sistema con nuove fattispecie di reato, l’eterno ricorso al diritto penale simbolico di cui il sistema non sentiva la necessità”. Di diversa opinione Marco Campora, appena rieletto presidente della Camera Penale di Napoli: “Il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale è oggi una evidente ipocrisia. Di fronte alla oggettiva impossibilità di perseguire tutti i reati, i pm applicano propri e discrezionali criteri per dare priorità a determinati processi anziché ad altri. In questo modo vi è il rischio concreto di determinare diseguaglianze di disciplina tra i cittadini. Sappiamo che talune procure italiane, tra cui quella di Napoli, hanno emanato linee guida per evitare di portare a processo vicende di scarso rilievo ed impatto sociale e che potremmo definire “bagattellari”. “Le nobili intenzioni che muovono i suoi ideatori/realizzatori, non possono oscurare però - prosegue il penalista - un tema enorme che, se non affrontato apertamente, rischia di far naufragare ogni iniziativa finalizzata alla riduzione effettiva del contenzioso penale. Decidere cosa è meritevole di andare a processo - ed ancora prima decidere cosa è o non è bagattellare - non è una scelta tecnica ma una scelta squisitamente politica, essendo innanzitutto una scelta di valori. Questo è il presupposto di ogni ragionamento intellettualmente onesto sul punto”. Per Campora esistono due pericoli: “Che la magistratura assuma un ruolo di supplenza a fronte dell’inerzia e della pavidità della politica (con tutto ciò che ne consegue in punto di squilibrio dei poteri)” e “la fine di un diritto penale unitario, valido su tutto il territorio nazionale e la nascita di un diritto penale di tipo localistico in cui ciascun territorio, sulla base delle proprie specificità, decide di fatto cosa è reato e cosa non lo è”. La soluzione, ovviamente, per Campora “non è un “liberi tutti”. Dovrebbero essere il Governo, la politica a determinare i criteri”. Avvocato in carcere da innocente: “Per anni mi hanno accusato di aiutare la ‘ndrangheta” di Giorgia Venturini fanpage.it, 10 dicembre 2022 L’avvocato Giuseppe Melzi racconta la sua storia di vittima di un errore giudiziario: “Ero un avvocato che difendeva le vittime di criminalità economica, poi l’arresto da innocente per favoreggiamento a un clan di ‘ndrangheta”. “Immaginate di essere uno stimato avvocato di Milano e di aver speso la vostra vita professionale difendendo le vittime della criminalità economica, come i risparmiatori del crac di Michele Sindona. Immaginate che però in un giorno finite in carcere per mesi con un’accusa infamante, quella di riciclaggio per un clan della ‘ndrangheta”. Racconta a Fanpage.it la sua storia l’avvocato Giuseppe Melzi, vittima di un caso di errore giudiziario. Tre mesi di carcere a San Vittore e a Pavia e tre mesi di carcerazione domiciliare. Per quattro anni e mezzo ha avuto i telefoni sotto intercettazione: 11mila registrazioni su chiamate di lavoro e private. Tutto questo da innocente. L’accusa è di favoreggiamento al clan di ‘ndrangheta Ferrazzo. “Tutta la mia vita e la vita dei miei collaboratori è finita sotto intercettazione” racconta in un’intervista rilasciata a Fanpage.it l’avvocato Melzi. Ho passato notte e giorno in una cella di tre metri per due: camminavo avanti e indietro per cercare di tenermi vivo e scaldarmi. Ma io non sapevo neanche chi fossero i Ferrazzo”. Le indagini a suo carico sono andate avanti per anni e anni: le manette nei suoi confronti sono scattate il primo febbraio del 2008 con l’accusa di aver offerto competenze alla cosca crotonese per riciclare milioni e milioni di euro frutto di affari illeciti. Accuse pensanti con “11mila pagine in cui sostanzialmente non c’è assolutamente nulla”. Anni dopo però, senza che lui venga avvisato, tutto viene archiviato. L’arresto - Il giorno dell’arresto l’avvocato lo racconta così: “Mi trovavo nel mio studio. Avevo un appuntamento con un amico per andare a mangiare una pizza. Appena lo salutai arrivarono due persone in borghese che mi chiesero se ero io l’avvocato Giuseppe Melzi. Mi dissero di avere un provvedimento per me e mi invitarono a seguirli per la notifica”. Alla caserma dei carabinieri a Melzi hanno lasciato il fascicolo: nell’elenco degli indagati c’erano altri sette nomi. Il suo era il secondo nell’elenco. “In caserma rimasi senza parole. Ho chiamato subito Giuliano Pisapia, il mio collega avvocato e amico”. Le accuse sono pesanti: “Soprattutto per chi come me ha portato avanti sempre battaglie contro la ‘ndrangheta e contro la mafia. Nel 2008 il pubblico ministero di Varese ipotizzò che io potessi essere addirittura il regista del clan”. “Nei vari interrogatori il pubblico ministero prendeva il mazzo di chiavi in mano e me lo metteva davanti dicendomi che se io non avessi rivelato tutto sulla cosca Ferrazzo avrebbe buttato le chiavi”. La vita in carcere da innocente - Sebbene Melzi fin da subito si era proclamato innocente, per lui si erano aperte le porte del carcere. “Quando mi portarono in cella venni accolto da tre persone: un signore anziano che era un ladro di professione, un tossicodipendente e un altro soggetto che invece, come me, era per la prima volta in carcere”. L’avvocato ha raccontato, anche in un suo libro, l’accoglienza che ha avuto in carcere fin da subito: “Appena sono arrivato mi fecero il caffè, mi hanno detto di non preoccuparmi e che avevano capito che non ero uno di loro. Per la prima volta mi sono trovato ad essere uno di loro, io che invece mi presentavo sempre in cella come legale dei detenuti”. La vita in carcere era scandita solo da un’ora d’aria che “però non facevo neanche, perché non mi sentivo di scendere”. La solidarietà degli altri detenuti è stata incredibile. L’avvocato ha raccontato di una grande manifestazione di fraternità: “La prima volta che avevo il colloquio con i familiari trovai prima di uscire un sacchetto con dentro il thermos del caffè e i biscotti. Così che quando al colloquio mi sono presentato con il sacchetto è stato un sollievo anche per i familiari”. La scarcerazione - Finalmente dopo mesi è arrivato il provvedimento di scarcerazione: “È stata “radio carcere” a comunicare per prima il mio provvedimento di scarcerazione. Poi c’è stato un boato e la guardia è venuta a portarmi il provvedimento. Tutti gli altri detenuti sono venuti per salutarmi e festeggiarmi. Mi aiutarono a radunare tutte le mie cose. Fuori intanto la mia famiglia che mi stava aspettando stava iniziando anche a preoccuparsi perché ci stavo mettendo tanto. Ma stavo salutando tutti: in quel momento ho provato una sensazione incredibile”. Il ritorno in Tribunale da avvocato - Seppur libero, Melzi è restato sospeso dall’Ordine degli avvocati fino al 2011. Nel gennaio 2009 il procedimento è stato trasferito in Sardegna per competenza territoriale dal momento che si pensava il denaro proventi illeciti fosse stato reinvestito in operazioni immobiliari. Le indagini ripartirono da capo e durarono sette anni: “Non seppi nulla di nulla. Non sono mai stati interrogato”. Poi a un certo punto archiviarono tutto: “Ma io venni a conoscenza di questa archiviazione solo un anno e mezzo dopo”. Dopo anni di indagini nei confronti dell’avvocato cadono le accuse. Si accerto che Melzi non solo non è mai stato un “professionista della ‘ndrangheta” che ha favorito la cosca, ma non aveva mai neanche sentito parlare del clan Ferrazzo. La Procura nel 2016 ha chiesto l’archiviazione per tutti gli indagati, compreso quindi l’avvocato milanese. Archiviazione successivamente accolta: non è mai stato commesso il reato di riciclaggio. Il denaro di proventi illeciti non è mai stati reinvestito in operazioni immobiliari, come si pensava in un primo momento. Finita la sospensione dall’Ordine, Melzi ha ripreso in mano la sua vita: “Mi sono riadattato immediatamente, anche perché sapevo di essere vittima di un’ingiustizia. Non avevo nulla da rimproverarmi. Ho ricominciato da zero, prima avevo uno studio con venti persone. Ho ritrovato i miei amici e i miei vecchi clienti. Mi hanno aspettato”. Ingiusta detenzione, Petrilli prosegue la battaglia: lettera al nuovo governo laquilablog.it, 10 dicembre 2022 Chiede un risarcimento per i danni fisici avuti in conseguenza di una ingiusta detenzione durata cinque anni e otto mesi. Venne arrestato nel dicembre del 1980 con l’accusa di partecipazione a banda armata Prima Linea con funzioni organizzative. “Condannato in primo grado, venni assolto in appello e la sentenza assolutoria fu confermata in via definitiva dalla Cassazione nel luglio 1989. Durante la detenzione, spesso nelle carceri speciali, sotto l’articolo 90 attuale 41 bis, non mi sentivo bene. Una volta nel 1984, arrivai traferito dal carcere di Fossombrone a quello di Ascoli Piceno e come tutti i nuovi arrivati feci la visita medica, quando mi misurarono la pressione ricordo che il medico del carcere fece chiamare il maresciallo della penitenziaria, quando arrivò’ gli disse che avevo una pressione troppo troppo alta e lui alzò le spalle e disse che non poteva fare nulla. Ricordo questo episodio che può essere confermato dalle cartelle cliniche come detenuto, se ancora si trovano, perché’ una volta uscito negli anni successivi, facevo vita regolare anche con attività sportiva ma una mattina mi svegliai e mi resi conto che il cervello non funzionava più mi accompagnarono in ospedale a L’Aquila, pressione 240 max 170 min. Tac d’urgenza. Diagnosi ischemia transitoria. Al reparto di medicina interna il Prof. Ferri disse che mi ero salvato per miracolo perché’ avevo le arterie forti. Disse espressamente era stato come avere un motore Ferrari su una cinquecento. Fui ricoverato e poi passò. Ma dopo un po’ di mesi, non sentendomi bene, venni di nuovo ricoverato questa volta al reparto cardiologia diretto dalla Dott.ssa Sabrina Cicogna che mi dette una nuova terapia con diversi farmaci giornalieri, quattro, che tuttora prendo. Stetti li diversi giorni e ricordo anche che spesso venivo monitorato con l’holter dalla attuale europarlamentare Dott.ssa Elisabetta De Blasis che allora era specializzante. Chiedo un giusto e doveroso risarcimento che quantificate voi per questo grave danno che ho subito conseguente a un errore giudiziario. Spero che questa mia istanza venga accolta senza addurre motivi di temporaneità’ della domanda. Questi danni sono permanenti”. All’ergastolo in Germania chiede il trasferimento in Italia, ma scopre che è più rigido di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 dicembre 2022 Condannato per omicidio dal Tribunale di Monaco, dopo 15 anni avrebbe potuto chiedere la libertà condizionale, mentre da noi deve attendere 26 anni. La Cassazione ha rigettato il suo ricorso. Un italiano è stato condannato all’ergastolo in Germania, dopodiché aveva acconsentito al trasferimento nel nostro Paese senza sapere che, mentre dopo 15 anni avrebbe potuto chiedere l’accesso alla libertà condizionale, ciò non sarebbe potuto avvenire in Italia. Sì, perché da noi - e parliamo dell’ergastolo “normale” - si può fare richiesta dopo 26 anni. Per questo i suoi legali hanno fatto ricorso per la violazione del principio di prevedibilità della pena e pari gravità e afflittività della sanzione nel riconoscimento della sentenza straniera da eseguire in Italia. La Cassazione, con la sentenza 41552/22, ha rigettato il ricorso. La Cassazione ha rigettato il ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello di Catanzaro - Cosa è accaduto? Roberto P., classe 1971, tramite il suo difensore propone ricorso straordinario per errore di fatto avverso la sentenza pronunciata in data 18 ottobre 2021 dalla Corte di Cassazione; con la citata decisione la sesta sezione penale ha rigettato il ricorso avverso la sentenza con la quale, in data 29 aprile 2021, la Corte di Appello di Catanzaro ha accolto la richiesta, avanzata dal Procuratore Generale, di riconoscimento della sentenza irrevocabile emessa in data 24 novembre 2011 dal Tribunale di Monaco di Baviera con la quale l’uomo è stato condannato all’ergastolo per il reato di omicidio volontario. Il detenuto lamenta la mancata informazione in ordine alle conseguenze del suo trasferimento in Italia - In sostanza, Roberto P. lamenta l’omessa considerazione, da parte della Corte, dei motivi nuovi depositati in data 29 settembre 2021 aventi a oggetto l’asserita mancata informazione del ricorrente in ordine alle conseguenze del suo trasferimento in Italia sul regime esecutivo della pena inflittagli in Germania. Con tali motivi nuovi la difesa si è appunto lamentata che l’uomo non era stato correttamente informato che il suo trasferimento in Italia avrebbe determinato l’assoggettamento alla normativa italiana in materia di liberazione condizionale, così compromettendo la posizione penale assunta in Germania. Secondo il suo avvocato si tratterebbe di un’evidente violazione dei diritti di difesa del ricorrente - Tale difetto di informazione, desumibile dalla lettura degli atti ed in particolare del verbale di audizione di Roberto P., avrebbe determinato una evidente violazione dei diritti di difesa del ricorrente e si pone in violazione del principio di prevedibilità previsto dall’art. 7 della CEDU e correlato agli articoli 3, 25, 13 e 27 della Costituzione e del principio del legittimo affidamento nei confronti della giustizia, violazione da cui deriva la nullità assoluta ed insanabile della sentenza di riconoscimento. In sostanza, secondo la difesa, se il Roberto P. fosse stato correttamente messo a conoscenza delle conseguenze negative in tema di liberazione anticipata derivanti dalla presentazione di richiesta di trasferimento in Italia, avrebbe “atteso prima di procedere alla richiesta di trasferimento”. L’uomo aveva chiesto la revoca della sentenza della Cassazione - A giudizio del ricorrente, la rilevanza e potenziale decisività del motivo nuovo di cui si è trattato e l’assoluta carenza motivazionale sul punto da parte della Corte di Cassazione, carenza conseguente all’omessa valutazione di scritti difensivi consente quindi il superamento del limite del giudicato dando accesso alla revisione. L’uomo aveva chiesto la revoca della sentenza della Cassazione avverso la pronuncia della Corte di appello che aveva accolto la richiesta di riconoscimento della sentenza straniera in quanto, com’è detto, la Suprema Corte non aveva considerato la memoria difensiva. La versione italiana dell’ergastolo è decisamente più dura - Con la pronuncia recente, la Cassazione ha dato torto al ricorrente escludendo una violazione della Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale (Strasburgo, 20 aprile 1959, ratificata ed eseguita con legge n. 215 del 23 febbraio 1961) per il fatto che la pena inflitta dall’autorità giudiziaria tedesca (ergastolo con possibilità di libertà condizionale dopo aver scontato 15 anni di reclusione) era stata trasformata in ergastolo, versione italiana e decisamente più dura visto che, com’è detto, un condannato al fine pena mai deve attendere almeno 26 anni per poter fare richiesta del beneficio. Questo per la Suprema Corte non è una violazione dell’articolo 735, comma 3, c.p.p. il quale prevede che “in nessun caso la pena così determinata può essere più grave di quella stabilita nella sentenza straniera” perché in Italia non è stata prevista “l’applicazione di una pena più grave di quella inflitta in Germania” e perché anche in Italia è possibile applicare istituti che permettono al condannato di non scontare l’intera pena. Di conseguenza, la Cassazione ha escluso la violazione dell’art. 735 e della Convenzione di Strasburgo nella parte in cui essa impedisce il trasferimento in un altro Paese se ne deriva un aggravamento “della posizione penale del detenuto”. L’ergastolo non è uguale in Europa, alcuni Stati lo hanno abolito di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 dicembre 2022 In Italia, in caso di buona condotta, il condannato all’ergastolo può chiedere la libertà condizionale solo dopo 26 anni. La pena all’ergastolo, considerando i Paesi Europei, è un istituto che si presenta in forme variegate per quanto riguarda la richiesta dell’accesso ai benefici. Per quanto riguarda la libertà condizionale, il panorama europeo su questo fronte è piuttosto variegato, e l’Italia è tra i Paesi più “duri” sull’accesso a questo beneficio. Ad aver formalmente abolito l’ergastolo sono in pochi: Norvegia, Croazia, Serbia, Bosnia, Portogallo e Città del Vaticano. Per quest’ultimo, ricordiamo che Papa Francesco nel 2013 l’ha sostituito con la detenzione fino a un massimo di 35 anni, in linea con la sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani del 9 luglio 2013. Per quanto riguarda l’Italia, come oramai è noto, abbiamo anche l’ergastolo ostativo e il dibattito - nonostante le condanne da parte della Cedu e le recenti sentenze costituzionali - è ancora molto forte. Ma parliamo dell’ergastolo “normale” che è previsto per delitti contro lo Stato, l’incolumità pubblica e la vita e per tutti quei reati per cui, fino al D.lg. 10/08/44 n. 224, era istituita la pena di morte. Il sistema italiano permette al detenuto, in caso di buona condotta, di chiedere la libertà condizionale dopo 26 anni e maturi sconti di 45 giorni ogni sei mesi per buona condotta. Ma altrove? Il periodo minimo da scontare prima che un detenuto possa avvalersi della libertà condizionale varia da paese a paese, il minimo va dai 12 anni (per esempio Danimarca e Finlandia) ai 15 (per esempio Austria, Belgio, Germania, Svizzera). Nel nostro Paese bisogna attendere 26 anni per fare richiesta. Nelle giurisdizioni del Regno Unito, il periodo di reclusione è determinato al momento della sentenza da parte dell’organo giudicante; la legge non prevede un periodo minimo assoluto a tal riguardo. Altri paesi come la Bulgaria, Lituania, Malta, Olanda e per alcuni reati, Ungheria, Repubblica Slovacca e Turchia, non hanno un sistema di scarcerazione condizionale per i detenuti condannati all’ergastolo, per cui una condanna a vita significa letteralmente e biologicamente a vita. Per rendere bene però l’idea della “durezza” nostrana, bisogna ricapitolare: la legge austriaca ammette l’ergastolo, ma di fatto dopo 15 anni, se è accertato che non esiste più il rischio di recidiva, si può provvedere alla scarcerazione o richiedere la grazia. Lo stesso avviene negli ordinamenti giudiziari di Danimarca (dopo aver scontato almeno 12 anni), Finlandia (11 anni), Germania e Regno Unito (in entrambi 15 anni). Il Belgio di fatto assimila l’ergastolo a 30 anni di reclusione, con possibilità di scarcerazione dopo un terzo della pena prevista se il detenuto, prima del delitto, era incensurato e dopo due terzi se è recidivo, e lo stesso prevede l’ordinamento francese, ma con limiti minimi rispettivamente di 18 e 22 anni, mentre la scarcerazione anticipata si può applicare solo per motivi gravi di salute. Da noi invece - e parliamo sempre di quello “normale” - bisogna attendere 26 anni senza se e senza ma. Da ribadire che, ovviamente, non c’è alcun automatismo. La decisione di concedere o meno la libertà condizionale spetta sempre alla magistratura di sorveglianza. Reggio Calabria. “Liberi di scegliere” arriva dentro il carcere di Arghillà di Cristina Cortese Gazzetta del Sud, 10 dicembre 2022 Non solo il sostegno concreto? ? alle donne oncologiche nella recente iniziativa che ha avuto protagonista il gruppo dei medici e dei musicisti a quel momento di sensibilizzazione per le detenute che non è mai abbastanza, soprattutto nel periodo delle feste dove la luce della speranza è il miraggio per tutti, ma anche altro. Rinnova e diversifica il suo impegno sul territorio? reggino, la associazione Bene Sociale presieduta da Bruna? Siviglia, il progetto Biesse “Giustizia e Umanità Liberi di Scegliere”, mutuato sulla grande rivoluzione culturale operata dal giudice Roberto Di Bella?, per la prima volta? entra nell’istituto? Penitenziario? “G. Panzera”?, sezione? femminile. La proiezione del film omonimo trasmesso sulla RAI, ha suscitato? tanta commozione? tra le detenute? che con attenzione? hanno assistito? a scene di impatto ma anche di significato per quei valori di responsabilità e? consapevolezza ma? soprattutto per la possibilità di risalire la china che ha chi ha sbagliato. È così la standing? ovation? finale? dedicata? al? giudice Roberto Di Bella ha acceso gli occhi? del? direttore? dell’istituto? Penitenziario? Giuseppe? Carrà.? L’Aquila. “Al di là del muro. Riflessioni sulla giustizia riparativa” Ristretti Orizzonti, 10 dicembre 2022 “Al di là del muro. Riflessioni sulla giustizia riparativa” è il titolo dell’evento che si terrà il 16 dicembre alle ore 10:30 presso la sala Rivera di Palazzo Fibbioni. Una riflessione a più voci, a partire dalle associazioni che hanno costituito un’ATS nell’aprile del 2021 per lo svolgimento del progetto Accoglienza e Inclusione. Tale progetto nasce in risposta alla manifestazione di interesse promossa dalla Regione Abruzzo per l’attuazione del progetto Abruzzo Inclusivo, finanziato dalla Cassa delle Ammende per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid 19 negli Istituti penitenziari, giusta convenzione in collaborazione con gli Uffici di Esecuzione Penale Esterna. L’ATS è composta dall’Associazione Fraterna Tau OdV - ETS, capofila, Associazione Il Germoglio, Associazione Voci di Dentro, Fondazione Celestino V Onlus e Basiliade Società cooperativa sociale. Sono state aperte due case di accoglienza, una sul territorio aquilano e uno su quello teramano, che da luglio 2021 ha accolto 15 detenuti in misura alternativa (affidamento o domiciliari) che non dispongono di reti familiari e di un alloggio dove poter scontare il residuo di pena e quindi di poter accedere ad un programmo di reinserimento sociale. Nel corso del progetto sono state attivate altre collaborazioni, in particolare con la sede distaccata del Centro per la giustizia minorile Lazio, Abruzzo e Molise per l’inserimento nel progetto di giovani sottoposti alla misura della messa alla prova e la Casa Lavoro di Vasto. In questa tipologia d’istituto sono internate persone che molto spesso non hanno reti sociali o parenti disposti a farsene carico. Non trovando una soluzione esterna, la magistratura tende a differire i provvedimenti di pericolosità sociale con il rischio di prorogare a tempo indeterminato la misura. Per questo sono fondamentali i progetti di accoglienza, per evitare che persone fragili e senza riferimenti sui territori si trovino senza alternative e senza una reale prospettiva di reinserimento sociale e per far sì che si crei un vero sistema di giustizia di comunità. A concludere l’incontro, l’Associazione Voci di dentro che presenterà il calendario “Volti di dentro” che racchiude fotografie di detenuti ed ex detenuti in affidamento all’associazione. Si pone l’obiettivo di cambiare la prospettiva e gli stereotipi che troppo spesso si hanno nei loro confronti. Persone, volti, sentimenti e quotidianità prima di ogni altra cosa. Sono i volti della sofferenza, diversi dalle “brutte facce” a cui siamo troppo spesso portati a credere, ma sono gli stessi volti che amano la vita, i loro compagni, i loro famigliari, i loro animali, i loro amici. Sono persone che hanno voglia di riscattarsi. Sono occhi che ricordano il passato ma che cercano di portare speranza nel loro futuro. Ognuno di loro, e come loro molti altri quando gli si dà gli strumenti per volare, coltivano passioni, riscoprono dei valori, si impegnano in lavori vecchi e nuovi, cercano di tornare a fare del bene. Milano. La musica come riscatto. Così l’Orchestra Pepita trascina fuori dal carcere di Paola Fucilieri Il Giornale, 10 dicembre 2022 I ragazzi, provenienti da contesti difficili, davanti ai detenuti di Bollate e San Vittore. Aiutarli a uscire dai ghetti della città, a imparare qualcosa di nuovo, a farli stare insieme divertendosi e imparando senza superare i confini, talvolta assai labili, che conducono alla delinquenza o comunque alla degenerazione. E tutto nel nome della musica. Basti pensare che per imparare a cantare e a suonare un ragazzo delle Medie o delle Superiori e la partecipazione è gratuita per chi presenta una dichiarazione Isee. Al resto ci pensano l’associazione internazionale no profit di aiuto ai bambini in difficoltà Children in Crisis e la Fondazione Antonio Carlo Monzino che ha eletto come propria missione la diffusione dell’apprendimento della musica. Grazie a loro e a un’idea di Andrea Pirera e Gianluigi Pezzera, nel 2008 è nata l’Orchestra Pepita che, con il progetto “Cantiamo”, si esibisce al carcere di Bollate (l’ultimo spettacolo è stato il 23 novembre scorso, ndr), in quello di San Vittore, a San Patrignano. A Natale i ragazzi saranno a casa Jannacci e a marzo al rione Sanità. “Un detenuto, dopo un concerto, ha scritto a questi giovani una lettera accorata che diceva più o meno così: Siete fortunati a essere lì, non fate stupidaggini e non buttate via la vostra vita. Si tratta in tutto di cinquanta elementi, dagli 8 ai 18 anni che vivono in periferia in quella che possiamo definire la povertà non tanto strettamente economica ma di famiglie umili. Giovani che, attraverso le attività dell’Orchestra che fa le prove a San Siro, si “allenano” alla vita, piano piano riescono a intraprendere un percorso scolastico e a laurearsi, si fidanzano o semplicemente si aggregano alla compagnia per partecipare a una pizzata. Devo dire che si è creato un gran clima di unità in questo gruppo, sono nati persino diversi amori e vengono anche i profughi ucraini, le madri stanno in compagnia i ragazzi suonano. La musica vien insegnata insomma sul modello dell’educatore-musicista venezuelano José Antonio Abreu, che portava i ragazzi fuori dalle scuole per far fare loro merenda, giocare a pallavolo e suonare tutti insieme”. A raccontarci tutto questo è Barbara Bianchi Bonomi, entusiasta presidente di Children Crisis Italy onlus, donna di grande cuore e molto tenace nell’impegno per i più bisognosi. Con l’Associazione ha appena inviato in Ucraina (e per la terza volta in pochi mesi) cibo, termoventilatori, coperte, omogeneizzati, abbigliamento per ragazzi, pacchi spesa con camion da 33 bancali. “In gennaio saremo in Cambogia dove abbiamo 14 scuole e quattro asili”. Il raggio di azione di Children in Cris Italy onlus però è molto più vasto. “In Sierra Leone, ad esempio, abbiamo costruito un centro dove manteniamo 18 ragazzi disabili che noi sosteniamo tutto l’anno. Per loro è stato creato un villaggio e una comunità. Incontrarli è un miracolo: nonostante siano tutti in carrozzina, non si percepisce né tristezza né dolore” conclude Barbara Bianchi Bonomi. Pozzuoli (Na). “Gli ultimi saranno”: spettacolo interattivo e tavola rotonda napolitoday.it, 10 dicembre 2022 Teatro, reinserimento sociale, rieducazione ed arte. Saranno questi i temi della tavola rotonda e dello spettacolo interattivo a cura del collettivo artistico: ”Gli Ultimi saranno” (a cui parteciperanno anche allieve della scuola e di un laboratorio di scrittura) che si terranno lunedì 12 dicembre presso la Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli, alla presenza dei deputati Cinque Stelle Antonio Caso, Marianna Ricciardi e Raffaele Bruno, promotore di un disegno di legge ”Disposizioni per la promozione e il sostegno delle attività teatrali negli istituti penitenziari”. Sulla questione carceri i deputati del Movimento Cinque Stelle si muovono compatti: ”il recupero dei detenuti è materia di interesse collettivo e non particolare: ricordiamo che gli effetti della più o meno efficace riabilitazione di un singolo ricadono sempre, inevitabilmente, sulla società tutta”. La proposta di legge è chiara e circostanziata. Prevede infatti l’istituzione di un Osservatorio permanente sulle attività teatrali nelle carceri, l’individuazione di uno spazio dedicato a laboratori artistici in ogni istituto, e la promozione e il sostegno di attività laboratoriali attraverso un fondo dedicato. “Il carcere - precisano i deputati - non deve essere il luogo della mortificazione sociale, ma un punto dal quale poter ripartire. Una stanza nella quale ritrovare se stessi provando a familiarizzare con la speranza. Il teatro e l’arte più in generale - concludono - dovrebbero aiutare a scavare nella propria esistenza spingendo il detenuto a liberandosi dall’etichetta di reietto che troppo spesso la società appiccica sulle spalle di chi sbaglia”. Durante la mattinata verranno premiate le allieve di un corso per aiuto cuoco e saranno donati trucchi e smalti raccolti da volontari e attivisti. Giornata mondiale dei diritti umani: oggi mobilitazione a Roma di Anna Lombardi La Repubblica, 10 dicembre 2022 Una marcia per i diritti umani in Iran: e non solo. È quella organizzata dal Partito Radicale stamattina a Roma (appuntamento alle 10 in Piazza dalle Repubblica) in sostegno della protesta contro il regime iraniano, e di tutti i popoli vessati da invasori o governi anti democratici, dall’Ucraina all’Afghanistan. Cui farà seguito domenica 11 alle 20.30 una serata Una serata in onore delledonne iraniane. Domani, alle20.30, il Teatro Franco Parenti di Milano, in collaborazionec on “la Repubblica” e “Linkiesta” organizza l’evento “Donna, Vita, Libertà. Al fianco del popolo iraniano”. Sono previsti interventi e testimonianze dopo la proiezione del film “Climbing Iran”. Sì perché nel 2021 - lo ricorda Amnesty International che ha invece organizzato un evento pomeridiano al Maxxi di Roma - “in almeno 67 stati sono state promulgate norme che hanno inciso negativamente sulla libertà d’espressione, associazione e manifestazione pacifica mentre in 85 stati è stato fatto uso eccessivo o non necessario della forza per disperdere proteste”. Sono solo due dei tanti appuntamenti che si terranno oggi in Italia e nel mondo in occasione di quel World Human Rights Day istituito dalle Nazioni Unite nel 1950, per ricordare la proclamazione da parte dell’Assemblea Generale della Dichiarazione universale dei diritti umani adottato il 10 dicembre 1948 a Parigi. Un documento che ha fatto da apri pista a molte conquiste civili dal dopo guerra in poi. E pure da background ideale alla Carta dei diritti fondamentali della Ue, che con il Trattato di Lisbona ha assunto lo stesso valore giuridico dei trattati. Garanzia di concetti basilari e universali come libertà e uguaglianza, ma pure dei diritti individuali. Ispirando tutt’oggi benefici come il certificato di genitorialità appena proposto dalla Commissione Ue per impedire le discriminazioni verso i figli di coppie dello stesso sesso all’interno dell’Unione Europea, che allargherà così i diritti delle coppie arcobaleno favorendone il riconoscimento negli Stati membri. O la legge approvata ieri in Portogallo che depenalizza l’eutanasia stabilendo la non punibilità se a prendere la decisione è una persona “seria, libera e lucida in situazione di grande sofferenza”. E pure, dall’altra parte dell’Oceano, quella Respect for Marriage Act che è la norma bipartisan per blindare il matrimonio gay nel timore che la Corte Suprema a maggioranza conservatrice potesse annullarlo: “Passo cruciale per garantire che tutti gli americani abbiano il diritto di sposare chi amano”, l’ha definito il presidente Joe Biden. Difesa di diritti fondamentali, su cui in Italia, restiamo indietro. La fine repentina della legislatura ha infatti fatto decadere proposte di legge non approvate come lo “Ius Scholae” che era approdato alla Camera sostenuto da Pd, M5S e parte di Forza Italia e mirava a riconoscere la cittadinanza italiana ai giovani migranti nati in Italia o arrivati prima del compimento dei 12 anni che avessero frequentato almeno 5 anni di scuola nel nostro Paese. E poi la legge sul Fine Vita sollecitata pure dalla Consulta che ora M5s e Pd sono tornati a presentare - con due proposte distinte - a Camera e Senato. Senza dimenticare quel DDL Zan che chiedeva di inasprire le pene contro i crimini omobitransfobici, affossato in Senato con l’aiutino di Italia Viva. Tutte norme cui l’attuale maggioranza è ostile. “Lezioni garantiste nelle scuole”. Così Costa mette alla prova il riformismo del centrodestra di Errico Novi Il Dubbio, 10 dicembre 2022 Carlo Nordio scuote i partiti. Li mette alla prova, li costringe a svelare il loro tasso di garantismo, la loro disponibilità a cambiare davvero la giustizia. E su alcuni temi, come l’uso della custodia cautelare o gli argini alla propalazione incontrollata delle intercettazioni, il guardasigilli spinge i partiti, compresi quelli di maggioranza, verso un bivio: insistere nell’assecondare gli orientamenti securitari dell’elettorato o provare a cambiarli. Ecco, in questa particolare direzione prova a muoversi anche un deputato da tempo fra i più attivi e determinati nelle battaglie garantiste, il vicesegretario di Azione Enrico Costa, da poco nominato al vertice della giunta per le Autorizzazioni di Montecitorio. Visto che a frenare le scelte garantiste dei partiti sembra essere proprio il timore di sfidare le paure degli elettori, Costa propone, con un emendamento alla Manovra, di finanziare iniziative nelle scuole per promuovere un’idea “costituzionale” di giustizia. Più precisamente, il vicesegretario del partito di Calenda ha depositato la seguente proposta di modifica alla legge di Bilancio: “È istituito nello stato di previsione del Ministero della Giustizia un Fondo, con dotazione di 10 milioni annui di euro a decorrere dall’anno 2023, finalizzato allo svolgimento di iniziative e attività presso le scuole medie e superiori di promozione e sensibilizzazione sui princìpi costituzionali del giusto processo, della presunzione di innocenza e della funzione rieducativa della pena”. Sono i cardini delle battaglie garantiste: parità fra accusa e difesa, terzietà del giudice, tutela dalla gogna mediatica e da abusi processuali per le persone accusate, funzione risocializzante (piuttosto che meramente “retributiva”) di qualsiasi pena. Questioni attorno alle quali ruotano alcuni dei provvedimenti entrati in vigore negli ultimi mesi o ancora all’esame del Parlamento, come le nuove norme sull’ergastolo. Costa ha ottenuto rassicurazioni sulla disponibilità di via Arenula a esprimere parere favorevole. “Ma riguardo alle risorse”, spiega, “il ministero non può dare certezze: dovremmo essere noi di Azione a individuare una copertura, all’interno del ristretto perimetro che viene concesso alle forze di opposizione”. Sarebbe importante un segnale positivo della maggioranza. “Posso anche ipotizzare una riduzione della cifra indicata: come è avvenuto per il ristoro delle spese legali agli assolti, anche in questo caso sarebbe già utile far passare il principio, per poi magari, nel tempo, ampliare la disponibilità finanziaria”, dice ancora Costa”. Sulla promozione delle idee garantiste nelle scuole, la convergenza fra centrodestra e Terzo polo non è impossibile. Nei giorni scorsi tra l’altro la commissione Giustizia della Camera ha approvato, proprio grazie alla disponibilità della maggioranza, un altro emendamento alla Manovra presentato sempre da Costa, che innalza da 516mila euro a un milione la somma massima risarcibile per chi ha subito un’ingiusta detenzione. Anche qui si dovranno ora verificare le coperture. “Attendiamo fiduciosi il responso della commissione Bilancio e dell’Aula”, dichiara il presidente della giunta per le Autorizzazioni. Diffondere una cultura diversa sulla giustizia ha un costo. Che, in mezzo a tante emergenze, non è semplice sostenere. Ma investire sul futuro non è mai un azzardo. La giustizia non eccede e non è ideologia di Sarantis Thanopulos Il Manifesto, 10 dicembre 2022 Il trattamento di Alfredo Cospito da parte dello Stato italiano è, al di là delle valutazioni squisitamente giuridiche che sono complicate e difficili, un’eccezione alla vita, cosa ben più grave dell’eccezione alla legge. È un trattamento eccezionale ed eccessivo. La giustizia non deve entrare in contraddizione con il buon senso del vivere. La ragion di Stato (un ragionamento teorico che diventa norma comportamentale) non ha alcuna supremazia etica sulla cultura di vita della comunità di cittadini costruita sulla parità degli scambi, sulla profondità e libertà delle relazioni affettive e sul senso della misura. Queste tre condizioni possono sembrare un ideale che non è mai stato raggiunto. Tuttavia in loro assenza lo Stato si riduce a dispositivo impersonale di potere del tiranno sui sudditi. Più sono, invece, soddisfate, più la Polis è una comunità di diversi ma pari (Aristotele) e lo Stato è democratico nella sostanza e non solo formalmente. Il reato di “strage politica”, che include anche l’attentato alla sicurezza dello Stato, pone una questione di civiltà giuridica: la validazione etica delle leggi, al di là della loro logica normativa. È possibile equiparare sul piano della pena, usando la formula dell’”attentato”, un reato realmente commesso e l’intenzione di commetterlo, senza danneggiare l’equilibrio tra “giusto” e “ingiusto” (tra proporzione e sproporzione) che garantisce il vero senso di sicurezza dei cittadini? L’applicazione del 41 bis alla detenzione di Cospito, che rischia la condanna definitiva all’ergastolo ostativo (“fine pena mai”), è del tutto sproporzionata alla forza organizzativa e alla pericolosità del suo agire. Sembra diretta più contro il suo pensiero che contro le sue potenziali azioni future. Davvero questo pensiero rappresenterebbe una minaccia per uno Stato democratico forte? La spiegazione più ragionevole dell’accanimento nei confronti di Cospito sta nella natura della contestazione anarchica dello Stato. Essa non prende di mira una specifica organizzazione statale con l’ambizione di sostituirla con un’altra: contesta la legittimità dello Stato in quanto tale, non gli riconosce il diritto di esistenza. A questa posizione ideologica, che è una visione del mondo, si oppone storicamente un’altra che è alla base dell’assolutismo: lo Stato è legittimato da sé e a priori e non attraverso la legittimità delle sue azioni (di cui sono garanti il rispetto dei valori etici e il consenso democraticamente ottenuto e espresso dei cittadini). Nello Stato democratico questa ideologia, precedente il suo avvento, sopravvive in tutte le sue forme organizzative in cui si presume che l’efficacia dell’azione sia un fine. La presenza nello Stato di apparati autocratici finalizzati, in fin dei conti, alla propria riproduzione permanente, indebolisce seriamente la democrazia. La fa abitare da un senso di vuoto, corrispondente ai luoghi del suo distacco dal fluire della vita vera, e la rende vulnerabile ai conflitti e alle contestazioni dei cittadini. Usare la legge a scopo difensivo, invece di superare i propri irrigidimenti e automatismi, è un regalo della democrazia all’autoritarismo. La giustizia non eccede e non è un’ideologia. La sconfitta del senso della misura nella sua amministrazione mostra tutta la difficoltà di trarre insegnamento dall’ hubris di Creonte: l’affermazione del pensiero endogamico, indifferenziante e omologante, dell’oikòs patriarcale nella gestione della Polis, l’esatto contrario di quanto una tradizione politico-filosofica, che ha letto male Sofocle, ha sempre sostenuto. La democrazia rispetta i suoi nemici (questo rispetto è la sua forza), non infierisce su di loro quando sono caduti. Non cerca la vendetta, punisce la violazione dei limiti che rendono possibile la convivenza comune, ma nel farlo non cade nell’errore di superarli a sua volta. Migranti. Il governo fa dietrofront: porti aperti alle ong di Carlo Lania Il Manifesto, 10 dicembre 2022 Sblocco navale. Accantonata la linea dura, via libera allo sbarco di 500 naufraghi. Ma la svolta di Meloni rischia di aprire uno scontro nell’esecutivo. Sulla linea dura ha prevalso quella della mediazione, la presa d’atto che un altro scontro sulle navi delle ong avrebbe rischiato di avere in Europa conseguenze politiche pesantissime per l’Italia. E così, a sorpresa, il governo decide che non è il caso di forzare ulteriormente la mano e apre alle tre navi umanitarie con 500 migranti a bordo che da giorni attendono un porto dove sbarcare. Si comincia nella notte con la Louis Michel, imbarcazione di piccole dimensioni con 33 persone a bordo che si trova in difficoltà per le cattive condizioni del mare e che viene scortata dalle motovedette della capitaneria di porto fino a Lampedusa. Poi la nave di Medici senza frontiere, la Geo Barents, che dopo tre evacuazioni sanitarie trasporta 248 migranti e che viene indirizzata verso Salerno. Infine quando è già sera, è la volta della tedesca Humanity 1 alla quale dal Viminale arriva l’indicazione di dirigere verso Bari. I migranti scenderanno tutti a terra, senza distinzioni tra “vulnerabili” e “carico residuale” come accaduto l’ultima volta. Per il governo Meloni, che fin dal primo giorno ha dichiarato guerra alle navi delle ong, è un cambio di rotta plateale anche se adesso bisognerà capire se solo temporaneo o meno. Di sicuro si tratta di una svolta inattesa e probabilmente non condivisa da tutto il governo che adesso, oltre che sulla manovra, rischia di spaccarsi anche sui migranti. Significativo, da questo punto di vista, il silenzio di Matteo Salvini. Solitamente generoso in dichiarazioni, specie quando si parla di immigrazione, il ministro dei Trasporti questa volta preferisce tacere e non commentare le decisioni prese dal collega dell’Interno Matteo Piantedosi sicuramente in accordo con palazzo Chigi. Parla, invece, Antonio Tajani, e lo fa per giustificare la nuova linea dell’esecutivo. “Ogni nave rappresenta un caso a sé. Non manca dall’Italia una risposta solidale, basta che si rispettino le regole” dice il ministro degli Esteri da Alicante, in Spagna, dove si trova per partecipare al vertice dei Paesi del Mediterraneo in sostituzione della premier Meloni, assente perché malata. Dietro la nuova strategia del Viminale potrebbe esserci la presa d’atto che proseguire nello scontro con le ong non avrebbe portato a nulla. Solo due giorni fa Piantedosi si trovava a Bruxelles per un vertice con i colleghi europei dal quale è uscito senza ottenere di fatto nulla di veramente concreto per quanto riguarda le richieste italiane circa una distribuzione obbligatoria tra gli Stati membri dei migranti che arrivano in Italia. Non solo. La Svezia, che il primo gennaio assumerà la presidenza di turno dell’Unione, ha chiesto che tutti i migranti vengano registrati al momento dello sbarco, come previsto dal regolamento di Dublino e come di fatto avviene da sempre. La condizione presuppone però anche un maggiore controllo sui cosiddetti dublinanti, coloro che lasciano il Paese di primo approdo per dirigersi verso il nord Europa. Cosa che alcuni Stati, tra cui Francia e Germania, accusano l’Italia di non fare in maniera sufficiente. C’è poi il caso Francia, mai veramente chiuso dopo lo scontro di alcune settimane fa sul caso Ocean Viking e improvvisamente riacceso giovedì, quando fonti dell’Eliseo hanno ricordato come “sui soccorsi i nodi con l’Italia restano”. Una doccia gelata sulle speranze di un riavvicinamento con Parigi che mettesse finalmente fine alle tensioni. E ieri Tajani ha anche smentito l’ipotesi di un viaggio in Francia della premier: “Non ci sono state dichiarazioni ufficiali - ha spiegato -, ci sono state dichiarazioni informali ma non c’era nessuna visita programmata di Meloni”. La scelta fatta ieri di aprire i porti è quindi un segnale che il governo di destra invia all’Europa, dove più volte si è ricordato all’Italia l’obbligo “morale e legale” di salvare le persone che si trovano in mare. Ma rappresenta una mano tesa anche verso la Francia nel giorno in cui la Germania prende 164 migranti dall’Italia facendo così ripartire il meccanismo di redistribuzione in Europa, rimasto bloccato proprio seguito alle tensioni con Parigi. Migranti. Al confine sloveno tornano i respingimenti bocciati dal tribunale di Fabio Tonacci La Repubblica, 10 dicembre 2022 Un anno fa i giudici li avevano definiti illegali. Ma Piantedosi ha appena firmato una circolare per riattivarli. Tra le polemiche. Sul confine italiano di Nord-Est sono ricominciati i respingimenti dei profughi che percorrono la rotta balcanica. Il Viminale li chiama “riammissioni informali” e sostiene che siano attuabili sulla base di un accordo con la Slovenia del 1996 mai ratificato dal Parlamento. La locuzione burocratica, però, non riesce a nasconderne la vera natura: riconsegnare alla polizia slovena i richiedenti asilo rintracciati nei pressi della frontiera impedisce l’esercizio del diritto alla protezione internazionale, dunque è una pratica illegale. E a stabilirlo è stato il tribunale di Roma con un’ordinanza del gennaio 2021, motivo per cui le riammissioni erano state sospese. Adesso la direttiva del 28 novembre del ministero dell’Interno le ha riattivate. E la Lega esulta. Partiamo da qui, dalla direttiva. Porta la firma di Maria Teresa Sempreviva, Capa di gabinetto del ministro Piantedosi. Si invitano i prefetti di Trieste, Udine e Gorizia nonché il commissario di governo per la provincia di Bolzano “ad adottare iniziative volte a dare ulteriore impulso all’attività di vigilanza sulla fascia di confine, al fine di assicurare la più efficace attuazione degli accordi stipulati con la Slovenia e l’Austria”. Nel testo si spiega che l’input si rende necessario per il “massiccio afflusso di migranti attraverso la rotta balcanica”. Sono riportate anche le cifre: dal primo gennaio al 25 ottobre di quest’anno al confine italo-sloveno “sono stati rintracciati 9.990 migranti irregolari, il 23 per cento in più rispetto allo stesso periodo del 2021”. Non sembrano numeri da esodo bibilco e ingestibile. La direttiva è scritta in modo volutamente vago. Sempreviva si guarda bene dal mettere nero su bianco la ripresa delle riammissioni informali, non foss’altro perché il giudice di Roma Silva Albano, pronunciandosi l’anno scorso sul ricorso presentato da un cittadino pachistano, le ha definite nell’ordine: “illegittime sotto molteplici profili”; contrarie al regolamento di Dublino; contrarie agli articoli 2 e 3 della procedura amministrativa perché ai respinti non veniva dato alcun atto da impugnare; contrarie all’articolo 80 della Costituzione perché il bilaterale con la Slovenia non è stato ratificato dal Parlamento; contrarie all’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il Viminale - allora guidato da Luciana Lamorgese - le aveva interrotte. Le riammissioni, così, erano crollate dalle 1.028 del 2020 alle 18 del 2021, quest’ultime nei confronti di cittadini albanesi, kosovari e stranieri irregolari capitati al confine per caso. Che l’obiettivo del ministro Piantedosi sia ordinare alla polizia di frontiera di riprendere questo tipo di pratica lo ha detto pubblicamente il sottosegretario all’Interno Emanuele Prisco. E a Repubblica lo conferma il prefetto di Trieste Annunziato Vardé. “Dopo la direttiva ci sono già state delle riammissioni, come ci saranno in futuro. Si procederà con quella formula laddove ricorrono i presupposti previsti dall’accordo tra Italia e Slovenia e dalla normativa vigente in materia”. Il prefetto Prisco, però, non fornisce il numero dei riammessi né intende spiegare nel dettaglio quale siano tali presupposti, perché sa bene quanto la materia sia spinosa. Per lui, per il ministero e per chi è chiamato ad applicare la direttiva. L’ordinanza del Tribunale di Roma, infatti, ha bocciato in toto le riammissioni, ritenendole ancor più gravi quando avvengono nei confronti dei richiedenti asilo. E a nulla vale il fatto che poi quel pronunciamento sia stato ritirato perché il ricorrente pachistano non aveva fornito sufficienti prove di essere stato riportato in Slovenia, poi a catena in Croazia e in Bosnia, fuori dall’Ue. La sostanza resta. “Già immaginiamo quali artifici si potranno inventare per sostenere che i prossimi respinti in Slovenia non sono classificabili come richiedere asilo”, ragiona Gianfranco Schiavone, presidente del triestino Consorzio italiano di solidarietà, ente che si occupa dell’accoglienza dagli anni Novanta. “La direttiva di Piantedosi è stata accolta con trionfo dalla Lega e dal governatore Fedriga, che da mesi lancia l’allarme per un’invasione che non c’è ed è smentita dai numeri. Se ci sono profughi che dormono per strada a Trieste è perché da quest’estate il sistema dell’accoglienza è stato deliberatamente ingolfato dalle istituzioni che non hanno gestito i trasferimenti degli ospiti in altre località”. A pesare sulla decisione del Viminale sono le statistiche diffuse dall’agenzia europea Frontex, che registra 128 mila attraversamenti della rotta balcanica nei primi dieci mesi dell’anno contro gli 85 mila del Mediterraneo centrale. Sono per lo più afghani che fuggono dal regime dei talebani. Eppure l’Italia riprende i respingimenti, mascherandoli da riammissioni. Rave e droghe: reprimere fa aumentare i pericoli di Giansandro Merli Il Manifesto, 10 dicembre 2022 Intervista a Elisa Fornero, assistente sociale responsabile del progetto Neutravel, che racconta la realtà dei Rave, dall’ottica di chi si occupa di riduzione del danno causato dall’assunzione di sostanze stupefacenti. “Le persone assumono sostanze per provare piacere, non per uccidersi. Se dai loro strumenti per limitare i danni li usano. I rave consentono una maggiore autoregolazione rispetto ad altri eventi analoghi”, afferma Elisa Fornero, assistente sociale di 41 anni che dal 2010 si occupa di riduzione del danno. È responsabile del progetto Neutravel, nato dal partenariato tra la Asl Torino 4 e la cooperativa Alice onlus, che la regione Piemonte finanzia per intervenire principalmente nei free party. Come fate ad arrivare nelle feste illegali? La notizia circola via flyer. Negli anni ‘90 erano attaccati in città, riconoscibili per le grafiche con sopra i nomi dei sound. Indicavano un meeting point e da lì una cartina. Altre volte c’era un’infoline. Ora il flyer gira nelle chat Telegram e Whatsapp. Data e zona sono approssimative, poi a un certo punto compare la geolocalizzazione. E quando arrivate? Cerchiamo un posto per essere più visibili possibile e montiamo la nostra area. Per noi è fondamentale posizionarci nelle vie principali della festa, che a volte cambiano tra mattina e notte o da un giorno all’altro, soprattutto per il servizio di drug checking. Cioè l’analisi delle sostanze. Vogliamo che le persone sappiano cosa c’è dentro prima di assumerle. Come reagiscono consumatori e spacciatori? Per l’analisi è sufficiente una quantità minima. È difficile capire se hai davanti qualcuno che usa o vende. Comunque le persone reagiscono molto bene: appena inizi a montare si avvicinano per chiedere le analisi. Le nostre non sono quantitative, sulla purezza. Ma qualitative: per capire se quello che hanno in mano è ciò che pensano. Questo potrebbe incentivare i consumi. No, perché non si analizza solo la sostanza ma si offre un servizio integrato. L’operatore, sulla base di uno script condiviso dai progetti europei, invita le persone a riflettere su ciò che stanno facendo. Quando una sostanza risulta diversa da quella attesa, perché tagliata o con un principio psicoattivo sconosciuto, il 60-70% dei soggetti rinuncia. Se invece l’analisi conferma le attese ma la consulenza mostra un consumo “critico”, l’operatore stimola una riflessione. Molti prendono tempo, magari rinunciano all’assunzione. Relazione e confronto mitigano i rischi. Le persone non assumono sostanze per uccidersi, ma per provare piacere. Per questo quando dai loro strumenti per limitare i danni li usano. Così diminuiscono anche i pericoli per la collettività. Cos’è la riduzione del danno? A volte si crede sia ciò che arriva dopo il fallimento di prevenzione e cura, ma è qualcosa che sta tra prevenzione e trattamento. Provo a prevenire ma non ci riesco, perché la gente usa sostanze. Allora cerco di gestire la fase del consumo affinché non diventi dipendenza. Questa non dipende dalle proprietà farmacologiche ma dall’ambiente di vita e consumo, che grazie al drug checking può essere esplorato con maggiore facilità. Perché si parte da un dato concreto. Le sostanze psicotrope circolano in diversi ambienti e classi sociali. Il consumo nei rave ha delle particolarità? Non più. Almeno nel Nord Italia. La ketamina che prima caratterizzava queste feste ora viene assunta, in microdosi, anche durante gli aperitivi in città. Ormai il menu delle sostanze è simile in tutti i posti. L’mdma è la più usata. La cocaina è cresciuta. Nei free party non rileviamo tanto crack, mentre le strade di Torino ne sono piene. Durata e carattere illegale dei free party non moltiplicano i consumi? No, anzi consentono una maggiore autoregolazione. Facciamo un confronto. Nell’agosto 2021 al famoso teknival di Valentano, provincia di Viterbo, abbiamo avuto 120/150 crisi in cinque giorni. Tre persone sono state inviate in ospedale. In un festival di musica elettronica legale che si tiene nello stesso periodo dell’anno a Torino e ha un numero di partecipanti simile a quel teknival si contano circa 150 accessi al punto medico assistito. Ma in due soli giorni e con ambulanze che partono più frequentemente. Questo mostra che il tempo più dilazionato ha un impatto sul tipo di esperienza, anche con le sostanze. Inoltre i festival a un certo punto finiscono e vieni sbattuto fuori, mentre nei rave puoi riposarti prima di salire in macchina. Abbiamo anche notato che quando nei free party ci sono spettacoli, fuochi d’artificio e bancarelle il consumo di sostanze diminuisce. Se c’è solo il muro di casse che spara musica avviene il contrario. Cos’è un’area chill out? Tecnicamente il luogo dove vai a staccare e riprenderti. Per noi operatori è la zona dove montiamo i servizi di riduzione del danno. È divisa in una parte per la decompressione e un’altra per chi non si sente bene. Poi c’è il banchetto con i materiali informativi sulle sostanze e l’acqua per pulire il naso, le gomme da masticare, i succhi di frutta, le merendine, i preservativi. E quello per il drug checking. Pre-pandemia avevamo anche una zona sanitaria con due infermieri. Adesso abbiamo mantenuto il protocollo di intervento con il 112. Noi lo chiamiamo se riteniamo che qualcuno debba andare in ospedale, loro ci avvertono se ricevono segnalazioni. In quei casi nove volte su dieci il ricovero non serve. Così facciamo risparmiare sforzi ai pronto soccorso. Gli invii in ospedale non sono mai tanti. In 15 anni ho visto solo una ragazza rischiare davvero la vita: per una forte reazione allergica. Le droghe fanno male. Perché lo Stato non dovrebbe reprimere iniziative in cui si vendono e consumano? Perché è impossibile fermarne la circolazione. Anni di proibizionismo contro le 10 droghe classiche ne hanno fatte sviluppare altre 870 (dati dell’Osservatorio europeo droghe e tossicodipendenze). C’è mercato perché c’è richiesta, ma con i divieti chi consuma si nasconde. Così aumentano i rischi: le persone hanno paura di chiedere aiuto e noi non studiamo le nuove sostanze. La war on drugs ha fatto più morti di quanti ne voleva evitare. Il nuovo decreto anti rave vi mette in pericolo? Bisogna osservare come andranno le cose da un punto di vista politico e giuridico. Comunque i rave erano illegali anche prima. Siete mai stati denunciati? Sì, può capitare. A me è successo. A volte le forze dell’ordine si trovano semplicemente davanti a qualcosa che non capiscono. Noi mostriamo documenti e autorizzazioni ma non sempre ci credono. In ogni caso è difficile che l’azione penale vada avanti, lavoriamo con i permessi della regione. Su che basi intervenite in situazioni illegali? Intanto l’articolo 32 della Costituzione che tutela la salute di tutte le persone. Poi il dpcm 12 gennaio 2017 che introduce la riduzione del danno tra i livelli essenziali di assistenza per chi usa sostanze. Questa norma nazionale disegna la cornice entro cui le varie regioni definiscono le azioni concrete. In Piemonte nel 2019 un decreto della giunta regionale ha stabilito che tutti i servizi di Neutravel sono riduzione del danno. Non puoi evitare che la gente usi sostanze ma puoi limitare rischi sociali e per la salute. Perché non farlo? Ucraina. La guerra s’allarga, sarà un gelido caldo inverno di Francesco Strazzari* Il Manifesto, 10 dicembre 2022 La temperatura scende sotto lo zero sulle città ucraine, ma la guerra avanza e anzi tracima oltre confine. Il centro di Donetsk è colpito dall’ artiglieria ucraina con morti civili. Kyiv parla di operazioni false flag: l’ennesima falsità architettata dal Cremlino in difficoltà. Del resto lo schema delle accuse incrociate - difficilmente verificabili - è stato ben collaudato attorno a Zaporzhizhia. Proprio qui possiamo forse attenderci il focus dell’iniziativa militare ucraina, per spezzare l’area di occupazione russa in due tronconi (il sud e l’est), così da poter meglio procedere nella riconquista territoriale. Per ora però si combatte lungo tutto il fronte, con gli ucraini che continuano ad erodere la logistica russa, e i russi impegnati in attacchi che mirano ad impedire agli ucraini la controffensiva concentrando truppe. Mosca ha bisogno di tempo, di una pausa operativa per riorganizzarsi in vista della primavera. Impensabile, a questo punto, che il Cremlino dia ordini di smobilitazione e ritorno alla normalità. Al contrario, l’intelligence ucraina sostiene che a Luhansk e Donetsk - le repubbliche separatiste che da tempo fungono da bacino di reclutamento per carne da cannone - si manderanno al fronte anche i diciassettenni. Ragazzini che avevano 9 anni quando, nel 2014, l’orrore della guerra ha avuto inizio. Le forze russe continuano ad avanzare a rallentatore, cercando anche di riconquistare Lyman. Su Bahmut da sei mesi si concentrano i mercenari (ed ex carcerati) convogliati Wagner, la compagnia-fantasma di Evgenij Prighozin, la cui voce ormai pesa distintamente in Russia, accanto a quella della destra ultranazionalista che vuole ulteriori svolte marziali. Prigohzin descrive Bahmut il tritacarne. Di fatto, una battaglia per estenuare gli ucraini, risucchiandoli nelle spire della distruzione cieca, quasi a sfidare il nemico sul terreno in cui si è mostrato più abile: la produzione di senso e giustificazione della guerra stessa. Intanto in Russia è apparso un Vladimir Putin con il bicchiere in mano, confusamente loquace e sorridente nello spiegare che la guerra alle infrastrutture esiste perché l’hanno iniziata gli ucraini con l’ “attacco terroristico” al ponte di Crimea e negando le forniture d’acqua ai territori separatisti. Come se la guerra fosse iniziata in ottobre. Nel ribadire l’idea di una Ucraina che esiste solo grazie a garanzie russe, Putin ha confermato che lo schema politico non cambia, e non ci sono concessioni in vista. La definizione delle operazioni belliche come un “lungo processo” sembra riflettere il crescente peso conquistato dal generale Surovikin, l’uomo che guida la devastazione delle infrastrutture civili ucraine, oltre preparare la popolazione russa a nuove difficoltà e testare la volontà dell’Occidente nel valutarne i costi. Intanto in Russia i pochi volti di opposizione che hanno avuto coraggio di parlare, come Ilya Yashin, vengono condannati a 8 anni di carcere, mentre continuano a bruciare edifici. Da ultimo, a Mosca, un enorme rogo ha devastato la zona del centro commerciale Mega Khimki (7.000 metri quadrati), e poi, a Barnaul è andata a fuoco la fabbrica Altai, che produce pneumatici per l’esercito. Certo si assiste a timidi segnali di dialogo e scambi di prigionieri, tanto fra russi ed ucraini, quanto fra Washington e Mosca: prova ne sia il rilascio della cestista Brittney Griner e dell’arci-trafficante di armi Viktor Bout. Ma il quadro complessivo, ad oggi, ci mostra che l’escalation ha davanti ancora spazio per proseguire. È evidente che per gli ucraini è imperativo mantenere l’iniziativa attraverso una serie di operazioni che sfruttano a loro vantaggio il terreno gelato, forzando in qualche modo l’idea, radicata nella storia, del Generale Inverno amico di Mosca. Per fare questo, Kyiv ha bisogno e di maggiori difese rispetto agli attacchi aerei e missilistici, nonché di rifornimenti di munizioni (da qui gli annunci di incremento di produzione degli alleati, ad esempio il governo slovacco). Questo è, in definitiva, il messaggio portato nei giorni scorsi dagli attacchi che i droni ucraini hanno condotto contro basi russe fin nel cuore della Russia, a 700 km dal proprio confine: anche se questa sortita non viene apertamente rivendicata (la paternità viene anzi disconosciuta da Washington), essa ci dice che non ci sarà pausa, che il diritto alla difesa rivendicato da Kyiv non si ferma alla frontiera o davanti al pericolo di escalation, ma si estende alle basi da cui partono quei bombardamenti che ormai forzano al buio e al gelo l’intera popolazione. Il problema non è tanto l’impatto militare di queste azioni (l’affondamento dell’incrociatore Moskva nel Mar Nero in primavera è stato molto più rilevante sul piano bellico). Il problema è che mano a mano che ci si allontana dal fronte domestico, verso azioni di risposta sui distretti confinanti, siano Kursk o Belgorod, oppure le basi sul Volga, si tocca il delicato nervo che Putin ha voluto allacciare all’idea di sopravvivenza della Russia: quella nozione di potenza imperiale, ancorata all’arsenale nucleare, che il putinismo insegue ed esalta. Si tratta di un leader che si è preso un rischio storico e si ritrova con un esiguo spazio di manovra e scelta strategica, mentre si intravede la sfida di pretoriani, milizie e mercenari. La posta in gioco è troppo alta perché si pensi che trovare uno schema di uscita politica da questa pericolosa traiettoria sia una responsabilità che non riguarda le democrazie occidentali. *Autore di “Frontiera Ucraina. guerra, geopolitiche e ordine internazionale” - Il Mulino 2022 Iran. Sale il livello della repressione: pena capitale per 11 manifestanti di Gabriella Colarusso La Repubblica, 10 dicembre 2022 I capi d’accusa sono “corruzione sulla terra” e “guerra contro Dio”. Il Center for Human Rights: “Processi farsa senza avvocati indipendenti. Moshen Shekari è stato sepolto ieri: nel cimitero Behesht-e-Zahra di Teheran c’erano pochi familiari, all’esterno la strada era blindata da un ingente dispiegamento di forze di sicurezza. Mohsen aveva 23 anni, è il primo manifestante giustiziato in Iran dopo quasi 3 mesi di proteste e un processo che tutti gli avvocati indipendenti e le organizzazioni per i diritti umani hanno definito ingiusto e non equo. Ma nonostante 470 morti, le condanne delle cancellerie occidentali, delle Nazioni Unite e la mobilitazione popolare, dall’establishment arrivano messaggi che fanno presagire una repressione ancora più dura.  Ieri l’agenzia di stampa governativa Fars ha riferito le parole di uno dei giudici della Corte suprema: “La magistratura ha compiuto il primo passo per assicurare alla giustizia i rivoltosi per le loro azioni, eseguendo il verdetto di Mohsen Shekhari. Questo tema diventerà più importante nei prossimi giorni. Shekhari aveva un’arma e ha ferito un poliziotto oltre ad aver bloccato la strada. La condanna di questa persona è la morte ed è diversa dalla vendetta”.  “L’impiccagione di Shekari ha chiaramente come proposito di generare paura negli altri manifestanti”, dice il commissario Onu per i diritti umani, Volker Turk. Ed è il timore di molti in Iran in queste ore.  Nelle prigioni ci sono 18mila persone arrestate negli ultimi tre mesi, “almeno 11 sono state condannate a morte”, conferma a Repubblica Hadi Ghaemi, direttore del Center for Human Rights Iran, una organizzazione non governativa di base a New York che lavora con una rete di ricercatori e attivisti sul terreno che si occupano di verificare gli abusi dei diritti umani. Almeno tre condanne a morte sono state decise per la morte di un basiji, un membro della milizia paramilitare usata per reprimere le manifestazioni, avvenuta a Karaj durante la cerimonia in ricordo di Hadis Najafi al 40esimo giorno dalla sua uccisione. A differenza delle precedenti ondate di protesta, questa volta il numero dei morti tra le forze di sicurezza è più alto: almeno 66 secondo i calcoli dell’analista Ali Alfoneh, la maggior parte dei quali nel Balucistan e nel Kurdistan. Per i fatti di Karaj tra i condannati a morte c’è il medico Hamid Ghare-Hasanlou, e la sua è una storia drammaticamente esemplificativa “di un processo farsa - dice Ghaemi -: era corso sul posto per aiutare un chierico che era stato ferito, ma i testimoni, compreso lo stesso chierico, non sono stati ascoltati”. Operato in ospedale perché gli sono collassati i polmoni e aveva le costole rotte, ha saputo al risveglio della sua condanna a morte. Alla moglie Farzaneh hanno dato 25 anni di carcere. Come lui sono stati condannati a morte anche Mohammad Mehdi Karami, 22 anni, un karateka, e Hossein Mohammadi, 26 anni, attore di teatro. “Questi processi non sono pubblici, gli imputati non possono scegliere avvocati indipendenti, le uniche prove sui cui si basano i verdetti sono spesso le confessioni estorte con la tortura, cosa espressamente vietata dalla legge: quello che succede nei tribunali in Iran non rispetta gli standard internazionali ma nemmeno la Costituzione iraniana”, denuncia Ghaemi. “Le accuse con cui vengono condannati come “corruzione sulla terra” o “inimicizia/guerra contro Dio” sono totalmente arbitrarie”. A volte i processi durano pochi mesi, altre anche pochi giorni.  Ieri il presidente Raisi ha promesso che la magistratura continuerà a identificare, processare e punire i “rivoltosi”, incurante delle critiche internazionali e interne. Sempre ieri ha parlato dai domiciliari Mirhossein Mousavi, ex primo ministro dell’Iran e leader dell’Onda verde, il movimento di protesta del 2009: “Impiccagioni e spari non fermeranno il movimento del popolo per la libertà”, ha detto. La dissidenza interna viene silenziata. La nipote di Khamenei, Farideh Muradkhani, che aveva criticato il governo e chiesto la fine del “regime”, è stata condannata a 3 anni di carcere.  Iran. Da Liliana Segre a Jovanotti, 100 mila firme per salvare Fahimeh Karimi di Niccolò Carratelli La Stampa, 10 dicembre 2022 Sono quasi triplicate nel giro di 24 ore le adesioni all’appello lanciato da La Stampa per salvare la vita di Fahimeh Karimi e per la libertà delle donne iraniane. Il traguardo è 100mila firme, rispetto alle 35mila di giovedì. Tra coloro che si sono aggiunti nelle ultime ore anche la senatrice a vita Liliana Segre, il cantautore Jovanotti, il campione olimpico dei 100 metri Marcell Jacobs, lo scrittore spagnolo Javier Cercas e il collega egiziano Alaa Al Aswany. E poi tanti volti noti del mondo del cinema, da Paolo Virzì a Sergio Rubini, da Marco Giallini a Serena Autieri, da Anna Foglietta a Edoardo Leo. E ancora Iva Zanicchi, Ambra Angiolini e Frankie hi-nrg. Personaggi famosi, ma soprattutto decine di migliaia di comuni cittadini, che hanno sottoscritto l’appello su Change.org, per chiedere di risparmiare la vita a Karimi, allenatrice di pallavolo e madre di tre bambini piccoli, condannata a morte per aver dato un calcio a un paramilitare Basiji durante le proteste seguite alla morte di Mahsa Amini. Tanti i messaggi di indignazione e partecipazione. “Il medioevo deve finire, ammiro queste donne, che hanno il coraggio di mettersi in gioco, per il loro futuro e per le donne che verranno”, scrive, ad esempio, Patrizia Mantovan. “Vogliamo fermare questa crudeltà inumana e salvaguardare i diritti di tutti. Stop a questo scempio! Tieni duro Fahimeh”, è invece il pensiero lasciato da Giacomo Gentile. Per allargare ulteriormente la spinta dal basso, l’appello sulla piattaforma online verrà tradotto anche in altre lingue, tra cui inglese, tedesco e spagnolo. Sul fronte politico italiano, intanto, va registrata la solidarietà bipartisan nei confronti di Pina Picierno, vicepresidente del Parlamento europeo, attaccata dal regime di Teheran per aver condannato pubblicamente l’esecuzione di Mohsen Shekari, il primo manifestante antigovernativo impiccato dalle autorità iraniane. “Trovo inaccettabile l’attacco rivolto a Picierno - dice il presidente del Senato, Ignazio La Russa - Con forza continueremo a chiedere il rispetto dei diritti umani, stando al fianco delle donne e degli uomini iraniani, che con coraggio si oppongono al regime”. Mentre la ministra per la Famiglia, Eugenia Roccella commenta così su Facebook: “Una vita di 23 anni finita con un cappio al collo. E un altro collo, quello della comunità internazionale, che non può voltarsi dall’altra parte. Tenere accesi i riflettori è il minimo che possiamo fare per i coraggiosi iraniani”. Tra i tanti messaggi di sostegno per Picierno anche quelli del ministro per le Politiche europee, Raffaele Fitto, del segretario del Pd, Enrico Letta, e della capogruppo di Forza Italia al Senato Licia Ronzulli. “L’importante è restare vicini alle donne e agli uomini iraniani, che si oppongono a un regime teocratico e illiberale in Iran - avverte Picierno in un post di ringraziamento sui social - Per la politica italiana ed europea è il momento del coraggio”. Un’occasione è la giornata di mobilitazione lanciata per oggi dagli attivisti iraniani, non solo nel Paese, ma anche in diverse città del mondo, tra cui Roma: appuntamento questa mattina alle 10 in piazza della Repubblica. “Vi convochiamo per la morte di Mohsen Shekari, un martire per la libertà del nostro Paese, e contro l’esecuzione dei nostri compagni imprigionati”, recita il comunicato del collettivo giovanile dei quartieri di Teheran. La comunità internazionale “non deve spegnere i riflettori” su quanto sta accadendo in Iran o “sicuramente” ci saranno altre esecuzioni, è l’allarme lanciato da Azar Karimi, presidente dell’Associazione giovani iraniani in Italia, che denuncia la “grande difficoltà” che si incontra nel raccogliere notizie su quanto sta accadendo nel Paese, a causa di “un regime che filtra e censura l’informazione”. Firma anche tu l’appello a questo link https://www.change.org/p/appello-per-la-vita-di-fahimeh-karimi