Ergastolo ostativo: una controriforma che non recepisce i rilievi della Consulta di Fabio Fiorentin* Il Sole 24 Ore, 9 aprile 2022 Scorrendo il contenuto del testo licenziato dalla Camera balza immediatamente all’occhio che, lungi dal recepire le indicazioni della Consulta per rendere a pena dell’ergastolo riducibile anche de facto, l’articolato restituisce una vera e propria “controriforma”, che renderà molto difficile per i detenuti all’ergastolo e per i condannati a una pena riferibile a taluno dei delitti “ostativi” indicati nel comma 1 dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, l’accesso ai benefici penitenziari esterni al carcere in assenza di una positiva collaborazione con la giustizia. La Camera ha approvato a larga maggioranza la proposta di legge sul superamento del cosiddetto “ergastolo ostativo”. Scorrendo il contenuto del testo licenziato balza, tuttavia, immediatamente all’occhio che, lungi dal recepire le indicazioni della Consulta per rendere a pena dell’ergastolo riducibile anche de facto, l’articolato restituisce una vera e propria “controriforma”, che renderà molto difficile per i detenuti all’ergastolo e per i condannati a una pena riferibile a taluno dei delitti “ostativi” indicati nel comma 1 dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, l’accesso ai benefici penitenziari esterni al carcere in assenza di una positiva collaborazione con la giustizia. Come è noto, la Corte costituzionale aveva censurato l’attuale disciplina “ostativa” di matrice penitenziaria (articoli 4-bis e 58-ter dell’ordinamento penitenziario), affermandone l’incompatibilità con la Carta fondamentale nella parte in cui individua nella collaborazione con la giustizia l’unica via possibile per ottenere i benefici penitenziari e aveva invitato il legislatore a intervenire, disponendo, per “esigenze di collaborazione istituzionale”, il rinvio della decisione alla data del 10 maggio 2022, dando così al Parlamento “un congruo tempo per affrontare la materia” con una riforma che contemperasse le esigenze di prevenzione generale e sicurezza collettiva con il rispetto del principio di rieducazione della pena affermato dall’articolo 27, comma 3, della Costituzione (ordinanza n. 97 del 2021; si veda per il testo e il commento di Alberto Cisterna “Guida al Diritto” n. 22, pagine 62 e seguenti). Approssimandosi la scadenza imposta dal Giudice delle leggi, la Camera ha, dunque, confezionato una modifica della disciplina ostativa che - come accennato - va ben oltre le indicazioni della Consulta, riscrivendo estesamente, in termini marcatamente restrittivi, non soltanto la disciplina del cosiddetto “ergastolo ostativo” ma intervenendo anche sulle condanne a pena temporanea per i delitti previsti dall’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario: si introduce un generale divieto di scioglimento del cumulo giuridico di pene nel caso di connessione teleologica tra delitti ostativi e reati comuni; sono abrogate le ipotesi di collaborazione “impossibile” e “inesigibile”; viene stabilita una preclusione legale assoluta a qualsiasi misura penitenziaria esterna per quanti sono sottoposti al regime speciale del “41-bis”; si elevano gli attuali limiti di pena per accedere alla liberazione condizionale nel caso di condanne per delitti “ostativi”; viene introdotto un generalizzato aggravio probatorio per i condannati non collaboranti che aspirano ai benefici esterni al carcere. Una disciplina transitoria impedisce l’applicazione delle modifiche peggiorative ai condannati per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge di riforma, in coerenza con il principio di non retroattività della disciplina di sfavore, sancito in materia penitenziaria dall’arresto costituzionale n. 32 del 2020. L’esercizio della discrezionalità legislativa si è, dunque, esercitato per sterilizzare, piuttosto che per realizzare, il mandato del Giudice delle leggi, operando un ossequio solo formale al dictum ma operando per conseguire un risultato ben diverso da quello auspicato dalla Consulta. Elusiva dell’indicazione del Giudice costituzionale appare, anzitutto, la già ricordata soppressione dell’istituto della collaborazione “impossibile” o “inesigibile” (comma 1-bis dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario) che consentiva di distinguere, ai fini dell’accesso ai benefici penitenziari, la posizione di chi, pur potendo collaborare, non vuole farlo e quella di chi, invece, pur volendo collaborare, non può (ad esempio, in seguito all’integrale accertamento di fatti e responsabilità o per la posizione marginale nell’organigramma dell’associazione mafiosa). La stessa Corte costituzionale, con una recentissima pronuncia (sentenza n. 20 del 2022) aveva, peraltro, ribadito la necessità costituzionale di distinguere sul piano normativo le due posizioni. La scelta del riformatore di modellare la disciplina su due sole ipotesi (la collaborazione positiva con la giustizia e la “non collaborazione”) sembra, dunque, porsi in frizione con il parametro costituzionale (articolo 3 della Costituzione) richiamato nella evocata sentenza n. 20/22, che evidenzia come la differenza “ontologica” tra la non collaborazione per scelta e la non collaborazione “per impossibilità” imponga l’esigenza di una corrispondente, differenziata disciplina normativa. La riforma materializza, in definitiva, un radicale superamento del modello delineato dalla giurisprudenza costituzionale (nella sentenza n. 253/2019 e nell’arresto sopra richiamato), dal momento che le ipotesi di collaborazione “impossibile” o “inesigibile”, che attualmente assicurano al condannato una strada meno impervia per il superamento della presunzione relativa di pericolosità, potranno essere valutate, d’ora in avanti, dal giudice in sede di esame del merito dell’istanza, cioè a valle del controllo di ammissibilità, risultando, in definitiva, depotenziate nella loro efficacia agevolatrice del percorso extramurario. Un irrigidimento della possibilità di accesso ai benefici penitenziari si manifesta, altresì, con l’introduzione di oneri dimostrativi rafforzati per i condannati non collaboratori che intendano accedere ai benefici. Anche in questo caso, il legislatore sembra essere andato (molto) oltre quanto richiesto dalla Consulta nella sentenza n. 253/2019, introducendo nel procedimento davanti al giudice di sorveglianza oneri istruttori particolarmente pregnanti, tanto per l’interessato (sul quale grava sia l’onere di allegazione specifica sull’assenza di attuali collegamenti con la criminalità organizzata, sia la prova negativa del pericolo di un eventuale ripristino dei medesimi), quanto per l’obbligatoria acquisizione, da parte del giudice, di una articolata serie di pareri (da quello del Pna a quello della direzione del carcere). Tale complessa istruttoria viene estesa a tutte le fattispecie inserite nel “catalogo” dei delitti ostativi, così involgendo anche i reati estranei a contesti di mafia e quelli monosoggettivi suscitando non poche incertezze, destinate inevitabilmente a riflettersi sull’uniformità delle prassi applicative. Se infatti, in linea di principio, non ostano ragioni di natura sistematica all’estensione del “doppio binario” penitenziario a categorie di reati diversi da quelli di matrice mafiosa o terroristica, in ragione di una valutazione discrezionale del legislatore sulla gravità e sull’allarme sociale che essi possono suscitare, ciò che andrebbe diversamente disciplinato è, però, il regime di acquisizioni istruttorie, che dovrebbe essere meglio attagliato alle peculiarità delle fattispecie delittuose di volta in volta considerate. Restando sul piano procedurale, un rilevante scostamento rispetto all’assetto vigente si produce con la rimodulazione della competenza a decidere sui benefici del lavoro all’esterno e del permesso premio, che viene assegnata - in specifici casi “ostativi” - alla competenza del tribunale di sorveglianza distrettuale. Si tratta di una scelta che desta perplessità, dal momento che sottrae al giudice di prossimità (cioè al magistrato di sorveglianza) il vaglio sui benefici più direttamente correlati al percorso detentivo che rappresentano i primi momenti di sperimentazione del detenuto nell’ambiente esterno. Sottrarre tale materia al vaglio di meritevolezza del magistrato di sorveglianza (cioè del giudice che ha un contatto diretto, anche attraverso i colloqui in istituto, con il detenuto) pare, dunque, incongruo e - per una sorta di eterogenesi dei fini - anche rischioso, considerando che, mentre la decisione del magistrato monocratico sul permesso premio non è immediatamente esecutiva (e non lo è fino alla definizione del reclamo che può essere proposto dal Pm), quella assunta dall’organo collegiale è, invece, immediatamente eseguita anche in pendenza dell’eventuale ricorso per cassazione. Si segnalano, altresì, gli aumenti di pena inseriti dal testo di riforma per l’accesso alla liberazione condizionale (nel caso dell’ergastolano “ostativo” non collaboratore occorrerà l’espiazione di almeno 30 anni di pena). Anche in questo caso, si tratta di un intervento non richiesto dalla Consulta e, oltretutto, foriero di un possibile contrasto con la giurisprudenza della Corte europea, che ritiene necessario un “periodico riesame” della posizione del condannato, collocandolo temporalmente non oltre i venticinque anni di pena espiata (si veda, tra le molte, le recenti sentenze della Cedu Viola c. Italia e Petukhov c. Ucraina, del 2019). Nella medesima ottica restrittiva spicca il segnale lanciato dal legislatore circa la volontà di mantenere e - anzi - rafforzare l’istituto del regime detentivo speciale di cui all’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario, che assurge a elemento di preclusione assoluta alla concessione dei benefici penitenziari. Si tratta di un’opzione che, seppure esposta a possibili dubbi di costituzionalità, appare in qualche modo “validata” dalla giurisprudenza costituzionale che - diversamente da alcune timide aperture della giurisprudenza di legittimità - pare escludere la compatibilità tra l’applicazione del “carcere duro” e l’ammissione a benefici esterni al carcere (cfr. sentenza n. 197/21). Positivo è, infine, il riferimento espresso alla giustizia riparativa inserito dal testo di riforma tra gli elementi idonei a fondare la valutazione del giudice, benché l’apprezzamento della genuinità dell’adesione dell’interessato a tale importante fattore di composizione della frattura sociale determinatasi con la commissione del reato dovrà essere particolarmente attenta, così da evitarne il possibile utilizzo strumentale. *Magistrato presso il tribunale di sorveglianza di Venezia ed ex componente della Commissione Giostra Viaggio tra luci e ombre nel sistema giudiziario e penitenziario militare di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 aprile 2022 L’unico istituto è a Santa Maria Capua Vetere ed è un carcere modello con un numero esiguo di ristretti. Ma pesa il conflitto tra giurisdizione Militare e Ordinaria e la mancanza di una riforma. Ha un elevatissimo standard delle condizioni di detenzione, è una struttura considerata di assoluta eccellenza dal punto di vista delle condizioni sanitarie, infrastrutturali e per l’elevato livello tecnologico. Da poco, i due carabinieri condannati dalla Cassazione a 12 anni per l’omicidio di Stefano Cucchi, hanno varcato la soglia di questo carcere modello: il penitenziario militare di Santa Maria Capua Vetere. Parliamo di una struttura che fa parte della giustizia militare. Si tratta di un sistema penitenziario e giudiziario parallelo. Ha il suo carcere, la sua amministrazione penitenziaria, i suoi tribunali, magistrati e Consiglio superiore della magistratura annesso. Ad occuparsi di tutta l’organizzazione non è però il ministro della Giustizia ma quello della Difesa. L’Organizzazione Penitenziaria Militare (Opm), gestisce l’amministrazione - Come ogni sistema penitenziario si rispetti, anche quello militare ha il suo Dap. Però si chiama diversamente: Opm e sta per Organizzazione Penitenziaria Militare. Quest’ultima è inquadrata nell’Organizzazione di Vertice della Forza Armata, e rappresenta l’unica realtà del genere in tutto il territorio nazionale ed europeo, con competenze interforze e molteplici relazioni interministeriali, che assolve il delicatissimo compito di assicurare la detenzione del personale militare e di quello appartenente ai Corpi Armati dello Stato a disposizione dell’Autorità Giudiziaria Militare e di quella Ordinaria. La ragione di tale particolare collocazione organica è da individuare nell’eccezionalità e assoluta unicità delle funzioni svolte dall’Organizzazione che può essere definito l’Organo di vertice nella gestione del trattamento penitenziario e dei detenuti ristretti presso gli Istituti penitenziari militari. Il 5 giugno 2008 lo Stato Maggiore dell’Esercito ha istituito il distintivo di appartenenza per il personale effettivo all’Organizzazione Penitenziaria Militare. A forma di scudo sannitico ha il bordo dorato su fondo bianco e una banda rossa nel mezzo quali colori tradizionali della Regione Campania. In cuore alla banda rossa è inserita l’Aquila color oro quale simbolo di appartenenza allo Stato Maggiore dell’Esercito. L’unico carcere militare è a Santa Maria Capua Vetere - Oggi ne esiste solo uno di istituto di pena militare e si trova in Santa Maria Capua Vetere, provincia di Caserta. Fino al 2005 esistevano diverse carceri militari. Si trovavano a Gaeta, Pescheria del Garda, Forte Boccea, Cagliari, Sora, Palermo, Bari, Torino e Pizzighettone. A dispetto di tutti gli altri istituti penitenziari ordinari, quello militare risulta un carcere modello e ha un numero esiguo di ristretti. Molto al di sotto della capienza regolamentare. I detenuti sono pochi perché le sentenze sono diminuite grazie all’abolizione, dal 2005, della leva obbligatoria nell’esercito, che ha drasticamente abbattuto i reati militari un tempo più diffusi, dalla diserzione alla mancanza alla chiamata. Il carcere militare può essere posto ad esempio: ha un elevatissimo standard delle condizioni di detenzione, è una struttura considerata di assoluta eccellenza dal punto di vista delle condizioni sanitarie, infrastrutturali e per l’elevato livello tecnologico. Di detenuti militari ce ne sono pochi, paradossalmente la maggior parte sono poliziotti e carabinieri. Parliamo di un carcere dove non esiste un clima di distacco che solitamente avviene nei penitenziari italiani “civili”: pur nel rispetto dei ruoli, il comandante fa anche da padre, consigliere, a volte amico. Si lavora, esiste la possibilità di coltivare, partecipare a laboratori di cucina e falegnameria. La riabilitazione funziona. Il garante campano Ciambriello: “Una struttura a misura d’uomo” - A confermarlo è stato il garante regionale Samuele Ciambriello che vi ha fatto visita l’anno scorso. Accompagnato dal tenente colonnello Rosario del Prete, comandante/ direttore del carcere ha visitato le celle (singole, doppie o triple) con bagni dotati di doccia, la mensa collettiva e i vari laboratori di bricolage, pittura, ceramica. “Ho trovato una struttura a misura d’uomo, nella quale le persone “diversamente libere” vivono la privazione della libertà nel rispetto della dignità umana, sia negli spazi (singoli e comuni), che sono funzionali al trattamento, alla rieducazione e al rispetto delle norme di sicurezza. Ho potuto visitare l’area verde, che consente ai detenuti di svolgere attività di giardinaggio, una palestra, la sala colloqui, che è un ambiente familiare e confortevole”, ha raccontato Ciambriello. Almeno nel momento della visita c’erano 52 persone ex appartenenti alle Forze armate che scontano pene detentive a seguito di condanne per reati propri e comuni. “Parliamo di un carcere - come conferma anche il garante regionale - dove non esiste un clima di distacco che solitamente avviene nei penitenziari italiani “civili”, ha confermato il Garante. Nel passato, più volte si è detto di sopprimerlo, ma forse, viste le gravi criticità degli istituti penitenziari, bisognerebbe estenderlo e replicarlo anche ai “civili”. Da anni la giustizia militare attende una riforma - Ma ritornando, più in generale alla giustizia militare in tempo di pace, bisogna ricordare che da molti anni attende di essere riformata. Correva l’anno 2013 quando l’allora ministro della Difesa Mario Mauro si impegnava di fonte all’apposita commissione della Camera a mettere mano alla giustizia militare, organo a parte della magistratura italiana con un’attività di lavoro irrisoria e impossibile da scalfire, ma con un peso non indifferente sui conti dello Stato. Parliamo di un totale di 58 magistrati, tra giudicanti e inquirenti, con uno stipendio medio di 150mila euro, che in totale ci costano 20 milioni di euro all’anno. Hanno un loro organo di autocontrollo, il Consiglio della magistratura militare (Cmm) equivalente del Consiglio superiore della magistratura (Csm). Il Cmm è, infatti, competente a deliberare su ogni provvedimento di stato riguardante i magistrati militari e su ogni altra materia ad esso devoluta dalla legge. Il doppio binario: la giustizia ordinaria e quella militare - La giustizia militare risulta iper efficiente semplicemente perché la mole di lavoro è bassissima. In sostanza è una grande macchina, con posti d’oro, ma con pochi oneri per chi vi opera. Dai dati emerge che la produttività nell’ambito della giurisdizione militare è al limite dell’insignificanza statistica per la pochezza numerica e qualitativa del contenzioso penale. Per questo c’è necessità di una riforma che però è rimasta nel limbo. Sono due le scuole di pensiero che si scontrano: una ritiene che la magistratura militare abbia esaurito la sua funzione e debba essere soppressa e assorbita dentro i ranghi della magistratura ordinaria perennemente sotto organico, magari in una sezione specializzata; l’altra è quella di non sopprimerla, ma di aumentare la rosa di reati su cui hanno competenza, sgravando in questo modo gli ordinari di una parte - seppur minima - del contenzioso di cui sono carichi. A questo si aggiunge un altro problema. Facciamo l’esempio di Walter Biot, Capitano di Fregata della Marina Militare italiana. Le accuse contro l’Ufficiale sarebbero quelle di spionaggio per aver ceduto, in cambio di denaro, documenti riservati a un militare Russo. La prima udienza sarà innanzi al Tribunale Militare di Roma. I legali di Biot hanno sollevato il tema del conflitto tra giurisdizione Militare e quella Ordinaria; condizione questa, che allo scopo di ottenere una pronuncia definitiva, li ha indotti ad interessare la Corte di Cassazione. Cosa significa? Il personale con le stellette, come ha affermato ultimamente anche il Procuratore Generale Militare, si trova ad affrontare doppie spese legali poiché, la stragrande maggioranza delle violazioni, a causa di una confusione stratificata di regole, approda sia alla Procura Ordinaria, sia a quella Militare. Lo studio, il teatro, i libri: non sono quello di 30 anni fa di Filippo Rigano* Il Riformista, 9 aprile 2022 Sono stato tratto in arresto nel lontano 1993 e condannato in via definitiva alla pena dell’ergastolo di tipo ostativo per reati di criminalità organizzata. Pertanto, sono detenuto ininterrottamente da quasi 29 anni. Al momento dell’arresto avevo lasciato a casa una moglie e due figlie ancora bambine. Pensando proprio a loro, ho incominciato a riflettere sul mio passato e sul mio futuro e, dopo alcuni anni, ho deciso di dare una svolta alla mia vita. Ho sentito dentro di me che quel malefico passato altro non era stato che fumo, null’altro che una notte buia e triste. Ho compreso che se volevo veramente cambiare, per prima cosa, dovevo trovare la forza e il coraggio di uscire da quella spirale di violenza figlia snaturata dell’ignoranza beata navigante in questa palude infetta e malefica che è il carcere. Attraverso una profonda e dolorosa introspezione, mi sono reso conto che la vera libertà consiste nell’obbedire alle leggi che ci siamo dati. Non mi vergogno di dire che quando 29 anni fa ho varcato le porte del carcere, come titolo di studio avevo solo la seconda elementare, sapevo a malapena leggere e scrivere. Nel carcere di Catania Bicocca, ho incominciato a frequentare la scuola e, giorno dopo giorno, sono arrivato a conseguire la licenza di terza media. Nel carcere di Fossombrone, dopo cinque anni di scuola superiore mi sono diplomato come ragioniere. Nel 2011 sono stato trasferito nel carcere di Rebibbia e mi sono iscritto alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Tor Vergata. Il 23 ottobre 2019, a 63 anni, sono diventato dottore in legge nella sala teatro del carcere di Rebibbia, davanti ai miei professori, ai compagni di sventura dell’Alta Sicurezza, a mia moglie Giuseppina che da 29 anni aspetta il mio ritorno a casa e davanti a Venera e Cristina, le mie adorate figlie che sono state la mia forza per andare avanti. Con una tesi di laurea in Diritto costituzionale dal titolo “Sopra la Costituzione… l’ergastolo ostativo: per chi ha sete di diritti”, ho preso 110 e anche una “lode” che considero il mio personale riscatto dall’infamia del “fine pena mai” che mi aveva tolto il sonno e cancellato il futuro. Oltre all’università, per cinque anni ho frequentato insieme ad altre persone detenute un corso di pratica filosofica dal quale è nato il libro Naufraghi in cerca di una stella, un profondo lavoro di scavo interiore che ha fatto emergere il mio essere autentico seppellito sotto le macerie della mia prima vita. Ho frequentato anche un corso di giornalismo e da sette anni sono attore di teatro nella compagnia di Fabio Cavalli, che ha realizzato Rebibbia Lockdown, un film documentario che racconta il carcere ai tempi della pandemia. Da ultimo, ho dato il mio contributo alla stesura di un altro libro, La ferita della pena e la sua cura, pubblicato di recente. Ho completato gli studi e portato avanti la mia revisione interiore. Così, in questi anni passati in carcere in cui mi sono abbeverato e nutrito di cultura, ho conquistato la mia personale “liberazione”. E, vi assicuro, non è stato facile nella prospettiva di una pena che non finisce mai. Se penso alla mia vita passata in “libertà”, neanche con la fantasia più felice avrei potuto mai immaginare un futuro come quello che vedo oggi, che è di una luce e uno splendore indicibili. Nessun uomo è uguale a quello di venti o trent’anni prima, perciò è doveroso che il giudizio su di lui sia oggi diverso. Si dice: tanto questi non cambiano mai, sempre delinquenti sono. Non è vero, anche la scienza dice che il tempo è un grande scultore, che il cervello si evolve e le persone cambiano. Io non ho nessun contatto con nessuna criminalità, ho avuto il coraggio di recidermi totalmente dalle logiche di un passato maledetto. Sarebbe bello e giusto ascoltarci, perché se nessuno ci ascolta si può pensare che siamo sempre quelli del passato. Mi rivolgo soprattutto ai nostri giudici di sorveglianza: non siate sempre ancorati al passato della persona, guardate alla persona quale essa è oggi, abbiate il coraggio di metterci alla prova. Io non sono più un ragazzino, ho compiuto da poco 65 anni, la mia vita sta finendo. Ma qui si pena sempre e non si vede mai uno sbocco di libertà. Perciò ascoltateci, solo cosi potete capire il nostro cambiamento, come hanno fatto in questi anni tutti gli operatori dell’area educativa, i nostri professori e le nostre tutor di Tor Vergata. Un aiuto non si nega a nessuno, specialmente quando uno ha capito gli errori del passato e dal male si è convertito al bene. Io, personalmente, ringrazio tutte quelle persone che mi hanno aiutato e che continuano a darmi fiducia, una fiducia che - vi prometto - non deluderò. *Ergastolano, detenuto a Rebibbia La gara di ferocia tra toghe contro un malato di Sla di Piero Sansonetti Il Riformista, 9 aprile 2022 È in carcere in attesa di giudizio definitivo. Gravemente malato. Gli restano pochi anni di vita. Ma non ha diritto ai domiciliari. Il presidente del Tribunale approva la decisione del Gip. Il presidente del tribunale di Asti è intervenuto a difesa del Gip che nei giorni scorsi aveva negato gli arresti domiciliari a un detenuto gravemente ammalato di Sla. C’è una perizia - dice il Presidente del Tribunale - che sostiene che la condizione del detenuto è compatibile con il carcere, e quindi è meglio lasciarlo in cella. Sebbene non stia scontando una pena definiva. In teoria è possibile che in appello il detenuto sia assolto, e in quel caso noi sapremo che una persona malata di Sla, alla quale è stato detto che gli restano tra i 3 e i 5 anni da vivere, e che durante questi anni la paralisi aumenterà in modo progressivo fino a renderlo del tutto immobile, e che già oggi si muove con difficoltà, non è in grado di gestire da solo nemmeno la cura del suo corpo, deglutisce con fatica, ha bisogno di aiuto per ogni piccolo spostamento, bene, sapremo magari che questo era innocente ma che siccome su di lui c’erano legittimi sospetti, era una cosa corretta e sacrosanta fargli scontare alcuni anni di prigione in condizioni infernali. (Il detenuto in questione è in prigione sotto l’accusa di estorsione: non di avere sterminato un asilo). Il Presidente del Tribunale di Asti ha diffuso un comunicato stampa per difendere il suo Gip. Lungo e articolato. Persino ineccepibile. Dice, il Presidente: il Gip ha disposto una perizia. Il perito gli ha detto che quel malato sta abbastanza bene e può restare in carcere. Il Gip ha stabilito che c’è il rischio di reiterazione del reato, e questa valutazione è a suo insindacabile giudizio, e dunque il problema dov’è? Che rischiamo di far morire un innocente tra enormi sofferenze in prigione? Non è un problema questo: è già calcolato tra i possibili effetti collaterali della legge. Naturalmente nella prima parte di questo articolo abbiamo voluto immaginare che il detenuto sia innocente. Non per un particolare nostro amore per il paradosso, ma per la semplice ragione che la Costituzione, e da qualche mese anche una specifica legge dello Stato, stabiliscono che fino al terzo grado di giudizio l’imputato è da considerare innocente. Però, parliamoci chiaro, se pure fosse colpevole il problema cambierebbe di pochissimo. La Costituzione in ogni caso viene violata, perché (allo stesso articolo 27 nel quale parla della presunzione di innocenza) vieta trattamenti contrari al senso di umanità. E tenere un malato di Sla in cella è sicuramente contrario al senso di umanità. Non è necessario il parere di un giudice per stabilirlo, basta chiederlo al primo cittadino che passa per strada. Questo è il problema vero. Scusate se abuso di una formula inventata e adoperata per delitti assai peggiori. Ma il problema è questo: “la banalità della sopraffazione”. Il perito che ha stabilito che un malato di Sla può stare in carcere è un burocrate del tutto in buona fedetenuto de. E così il Gip che, letta la relazione del perito, ha deciso di non concedere i domiciliari. Ha guardato i codici e i codicilli, non si è fatto influenzare dall’esistenza di una persona che soffre la Sla e ha preso liberamente la sua decisione. Ha pensato che questo impone l’indipendenza della magistratura che è sottoposta solo alla legge. Impone di rispettare e assecondare la legge, non il buonsenso. Rispettare le norme, non gli esseri umani. E così il Presidente del Tribunale, anche lui burocrate esemplare e in ottima fede, ha ritenuto suo dovere correre in difesa del Gip che era stato criticato da qualche giornale (pochi). Cosa puoi dirgli a questi tre ottimi burocrati? Niente. Però vedete che allora abbiamo ragione noi “anarchici” che chiediamo l’abolizione del carcere? Il carcere va abolito se non altro per questa ragione: perché non disponiamo di una magistratura in grado di gestirlo usando il buonsenso. È questo che rende estremamente pericolose sia le carceri che la magistratura. La figlia di Maximiliano Cinieri: “Per mio padre provvedimento anti-costituzionale” di Massimo Coppero La Stampa, 9 aprile 2022 La figlia Valeria cita la Costituzione, il diritto fondamentale alla salute e chiede la scarcerazione del padre malato di Sla con interviste e anche qualche documentato post su Facebook, accompagnati dai commenti di sostegno di parenti e amici. Il giudice Giorgio Morando, invece, nel provvedimento aveva ritenuto invece fondate le esigenze di custodia cautelare sostenendo il perdurare della pericolosità sociale. Il caso di Maximiliano Cinieri, 45 anni, l’ex calciatore e allenatore in cella al Don Soria di Alessandria con una condanna in primo grado a 8 anni per usura ed estorsione, continua a far discutere. La figlia Valeria, 24 anni, insieme alla madre Livia conduce da mesi una battaglia per far ottenere al padre gli arresti domiciliari. Finito in cella nell’aprile 2021 con un’ordinanza di custodia cautelare chiesta dal pubblico ministero Davide Lucignani nella quale era tra l’altro accusato di aver minacciato con una pistola due commercianti debitori, Cinieri a luglio aveva ottenuto gli arresti nell’alloggio di famiglia in via Pasolini, nel quartiere Praia. Si avvertivano i primi sintomi della malattia, diagnosticata poi ufficialmente con una risonanza magnetica nel dicembre dello scorso anno. Nel frattempo, però, ad agosto l’uomo era tornato in carcere: avrebbe contattato un testimone del processo suggerendogli di negare di aver assistito alle minacce con la pistola ai due commercianti. Circostanza da confermare ma che, secondo la magistratura, al momento rende l’ex allenatore capace di inquinare le prove. Le accuse sono di aver preteso tassi di interesse fino al 110%, con debiti di poche migliaia di euro saliti fino a 40 mila. “Noi possediamo nulla, viviamo in un alloggio popolare e la procura ci ha potuto sequestrare solamente uno smartphone comprato a rate - aggiunge la figlia - Mio padre nega le accuse, anche se ha comunque cercato di risarcire una delle persone che lo hanno incolpato. Anzi, vorrei sottolineare che non si erano presentati spontaneamente dai carabinieri a denunciarlo, ma furono le forze dell’ordine a convocarli in caserma”. Cinieri in carcere sta male, le sue condizioni sono peggiorate e ciò è stato accertato e confermato sia dal medico del Don Soria, sia dal primario di Neurologia del Santi Antonio e Biagio: “La direzione lo segue, gli hanno affiancato un altro detenuto come piantone per assisterlo. Anche i medici della struttura ritengono che sia incompatibile con la detenzione” dice la figlia. Il giudice Morando, che segue il caso fino a quando il fascicolo non sarà trasferito per competenza alla Corte d’Appello, nelle scorse settimane ha fatto compiere una perizia medico-legale da uno specialista di fiducia che non ha dubbi: Cinieri può stare in carcere. Nuovo Csm, tra pm e giudice un solo passaggio di carriera ma sulla riforma Salvini blocca tutto di Conchita Sannino La Repubblica, 9 aprile 2022 Altolà leghista sulla riforma, Forza Italia risponde all’alleato. Rischia di saltare l’approdo in Aula il 19 aprile. Uno stillicidio. Salterà, verosimilmente, anche la data del 19 aprile per l’esame in Aula della riforma sul Csm. La Lega ieri blocca tutto, Forza Italia risponde alla chiamata, e anche i renziani voltano le spalle. Con una telefonata alle 19 al coordinatore degli azzurri Antonio Tajani, il capo del Carroccio Matteo Salvini fa saltare il tavolo. Il Pd, furibondo con la responsabile Giustizia Anna Rossomando e il relatore della riforma Walter Verini, a quel punto pretende un nuovo vertice che, via web, si terrà oggi alle 12. Protesta anche il M5S che accusa Salvini “di voler mandare la legge per aria”. Ma è davvero improbabile che il nuovo incontro porti alla quadratura del cerchio: su cui contava la Guardasigilli Marta Cartabia, che era vicina all’accordo anche sulla separazione delle carriere. L’ipotesi sarebbe quella di prevedere un solo passaggio, nella definizione tra carriera giudicante e carriera requirente. Ma per ora un solo dato è certo: chi riponeva speranze, al tavolo di Palazzo Chigi lo scorso 11 febbraio, su una possibile coesione di maggioranza per portare a casa la nuova legge sull’ordinamento giudiziario, vede la pazienza vacillare. Esattamente due mesi dopo, l’accordo tra i partiti continua a saltare. Il retroscena è tutto nel colloquio tra Salvini e Tajani. Un altolà leghista che si risolve in un nuovo, clamoroso stop. “Di’ ai tuoi di fermarsi - dice Salvini a Tajani - martedì andiamo da Mario Draghi e affrontiamo con lui tutto, fiducia compresa”. L’incontro Salvini-Draghi era già in programma per il tema fisco, ma a questo punto a una grana se ne aggiunge un’altra. Tajani acconsente, chiama subito Pierantonio Zanettin, titolare per i berlusconiani della trattativa sul Csm. “Se ne riparla la settimana prossima”, gli dice. E la riunione, che già stenta nelle conclusioni, si paralizza. Dalla Lega nicchiano, rinviano: complice (e alibi) l’udienza a Palermo che vede imputato Matteo Salvini, e l’impegno della senatrice Giulia Bongiorno, nella vicenda Open Arms. Il capogruppo del Carroccio Giuseppe Turri continua a ripetere: “Non riusciamo a parlare con lei”. Il Pd pretende la riunione di oggi, che non porterà soluzioni: anche perché il punto più controverso tutto aperto, quello della legge elettorale, si complica a ogni passaggio. La Bongiorno aveva proposto di sorteggiare i collegi, accorpando all’ultimo momento i sei più grandi ai più piccoli. Ma dal ministero spiegano che mettere in piedi la faccenda è quasi impossibile. Si lavora per sorteggiare le Regioni, ma restano perplessità. Zanettin dice che “il meccanismo non regge perché per fare un sorteggio bisogna avere realtà omogenee”. Le Regioni non lo sono. E non è finita. Bisogna comunque scegliere lo schema con cui votare. La ministra ha proposto il maggioritario binominale, Rossomando chiede che sia ampliata la quota proporzionale. Dal centrodestra, ecco i mormorii: “Rossomando è portavoce delle richieste della sinistra di Area...”. Sbatte la porta pure Cosimo Maria Ferri, per Iv. I cui vertici, di fatto, gli hanno delegato la trattativa sulla giustizia. Lui fa la voce grossa, parla di “un accordo di maggioranza al ribasso, dove le mediazioni peggiorano il testo”, insomma Iv porterà avanti “le proprie proposte in commissione e in Aula per far riflettere, in modo costruttivo”. Non contento, attacca il segretario di Area, Eugenio Albamonte, il pm romano che ha contestato la sua presenza ai vertici per il conflitto d’interesse, visto che è sotto processo disciplinare al Csm (dopo la vicenda Palamara). Ferri lo attacca (“le toghe pretendono di decidere la delegazione della maggioranza”), Albamonte replica: “La sua sarebbe la voce fuori dalle correnti, mentre la mia la voce del sistema? I fatti dimostrano cose diverse”. Eppure, qualche passo avanti la ministra Cartabia lo aveva ottenuto. Come la riduzione - da 4 a 1 - dei passaggi da giudice a pm e viceversa, con clausola di salvaguardia. Sarà possibile cambiare casacca entro dieci anni dall’ingresso in carriera, lo si potrà fare sempre dal penale al civile. Ma ora l’intero pacchetto è tra le mani di una maggioranza in pezzi. Liti infinite sul testo Cartabia, Lega e FI congelano l’intesa di Valentina Stella Il Dubbio, 9 aprile 2022 Senza esito le riunioni di ieri, si continua oggi: ma la riforma del Csm rischia di non arrivare in aula neanche il 19 aprile. Il no al sorteggio lascia ancora perplessi gli azzurri: ora Tajani subordina il via libera alla trattativa con Draghi sul fisco. Pd e M5S: “Non possono tenerci in ostaggio”. Niente accordo sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Stamane alle 12 nuova riunione tra la maggioranza e la ministra Marta Cartabia. Questo ennesimo slittamento mette in serio pericolo l’approdo del testo in aula subito dopo Pasqua. “Speravo di poter mantenere l’impegno di portare la riforma in Aula il 19 aprile. Vediamo cosa accadrà alla riunione di domani (oggi, ndr), ma a questo punto mi sembra molto irrealistico”, ha detto il presidente della commissione Giustizia Mario Perantoni. Sarebbe il terzo rinvio, dopo l’annullamento delle due date precedenti, il 28 marzo e l’11 aprile. Ogni giorno vi raccontiamo che il prossimo vertice dovrebbe essere quello decisivo per trovare la quadra sui nodi più ingarbugliati, ma evidentemente qualsiasi pronostico ottimista va a sbattere contro la realtà di una trattativa ancora in salita. Eppure il testo emendativo del governo al ddl originario di Bonafede era stato approvato all’unanimità nel Consiglio dei ministri dell’11 febbraio, poi sappiamo cosa è successo, con il banco sempre pronto a saltare. E ora la partita sulla giustizia si intreccia con quella del fisco, come leggerete a breve. Ieri la riunione tra la guardasigilli e i capigruppo di maggioranza era iniziata alle 11.30 e si era interrotta alle 14 per due motivi: fare valutazioni tecniche e consentire a Lega e Forza Italia di confrontarsi con i rispettivi vertici sulle ipotesi di accordo emerse durante la mattinata, soprattutto in merito alla legge elettorale del Csm. Si sarebbe dovuto riprendere alle 17, ma non si è riusciti ad avere risposte dai plenipotenziari della Lega (Matteo Salvini e Giulia Buongiorno), forse per gli impegni nel processo Open Arms. Sta di fatto che dopo l’attesa pomeridiana, la ministra ha deciso di aggiornare la riunione a stamattina, in un incontro da remoto. Riguardo a FI, sono emerse perplessità sull’idea del sorteggio nella formazione dei collegi, siano essi composti dai distretti di Corte d’Appello o dalle regioni italiane. La virata verso quest’altro tipo di selezione casuale c’era stata a causa dell’intransigenza di Cartabia sui profili di incostituzionalità del sorteggio temperato degli eleggibili. Tutto comunque dipenderà dall’incontro tra Antonio Tajani e Mario Draghi, in programma all’inizio della prossima settimana, probabilmente martedì, al rientro del premier dalla visita in Algeria. L’incontro con il presidente del Consiglio sarà preceduto da un colloquio tra Silvio Berlusconi e Tajani. Non a caso ieri dal palco della convention azzurra ‘ L’Italia del futuro’, Tajani ha detto: ‘ “Sostegno al governo Draghi fino al 2023, ma restano aperte due questioni: la riforma del fisco e quella della giustizia, sulle quali non possiamo fare marcia indietro, perché rappresentano l’essenza della nostra azione politica”. Secondo i dem Anna Rossomando e Walter Verini “in questi giorni abbiamo lavorato con la massima apertura, abbiamo fatto un lavoro paziente per tenere insieme la maggioranza. E ora che siamo arrivati davvero all’ultimo miglio per chiudere l’accordo, la Lega non ci ha fatto ancora sapere le sue valutazioni. Siamo preoccupati”, concludono i parlamentari, “non vorremmo che proprio ora, ancora una volta, la giustizia venga usata come una clava. Siccome ci sono polemiche sul fisco, ci si mette anche la giustizia?”. Ad addossare alla Lega tutte le responsabilità del mancato accordo ci hanno pensato anche i deputati del Movimento 5 Stelle: “L’incontro con la ministra Cartabia e le forze di maggioranza poteva essere finalmente decisivo ma la Lega purtroppo non si è mostrata disponibile e sta bloccando la riforma”. Non è soddisfatto, ma per altre ragioni, il deputato di Italia Viva Cosimo Ferri: “La ministra è stata cortese nell’ascolto, ma non disponibile nella sostanza e ha chiaramente fatto capire di voler andare avanti senza Italia Viva, ne prendiamo atto. Una riforma che premia il peso delle correnti e mette in difficoltà chi vuole rimanere fuori dal sistema e pensare solo al lavoro”. Infine un’ennesima stoccata alle toghe rivali di AreaDg: “Non cambierà niente, anzi le correnti saranno più forti di prima. Ora capisco perché il segretario della corrente Area, Albamonte, abbia invaso a gamba tesa il campo della politica pretendendo di decidere la delegazione dei partiti di maggioranza”. Albamonte questa volta ha però replicato: “Leggo i lanci di agenzia nei quali l’onorevole Ferri cita, non a proposito, il mio nome. Stando a queste dichiarazioni la sua sarebbe la voce fuori dalle correnti mentre la mia la voce del sistema. I fatti di questi anni tuttavia dimostrano cose diverse”. Intanto il comitato direttivo centrale dell’Anm ha indetto una riunione straordinaria per discutere della riforma del Csm proprio il 19 aprile. Riforma della Giustizia, la Lega frena e slitta l’intesa. Oggi si riprova di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 9 aprile 2022 L’accordo era a portata di mano. Già trovato sulle “porte girevoli” dei magistrati in politica: quelli ordinari eletti non torneranno in servizio, quelli amministrativi al governo sì, dopo un anno. Vicino persino quello sull’elezione del Csm: pur di accontentare la Lega si ipotizzavano abbinamenti di corti d’appello grandi e piccole. Ma proprio la Lega si è bloccata. Ufficialmente perché non si riusciva a contattare il leader Matteo Salvini e la responsabile giustizia, Giulia Bongiorno nell’aula bunker, per il processo Open Arms, dove manca il segnale per i cellulari. Ma il sospetto del resto della maggioranza è che in vista dell’incontro di martedì con Mario Draghi sul fisco, Salvini avrebbe bloccato l’interessante contropartita della giustizia. E così, per smascherare pretesti, si è escogitato lo slittamento a oggi, alle 12, dato non è prevista alcuna udienza e i telefonini prenderanno. Protesta il M5S: “L’incontro poteva essere finalmente decisivo ma la Lega purtroppo non si è mostrata disponibile e sta bloccando la riforma”. Si era “all’ultimo miglio” ha evidenziato il pd Walter Verini. “Si tratta di una riforma attesa, impegnativa, che richiede responsabilità da tutte le forze politiche”, ha aggiunto la dem Anna Rossomando. Ed Enrico Costa di Azione rimarca: “Noi abbiamo contribuito eliminando dal tavolo temi divisivi. Adesso spetta agli altri dire cosa vogliono fare”. Riforma del Csm, spunta sorteggio Regioni per formare collegi di Francesco Grignetti La Stampa, 9 aprile 2022 Si tratta dell’ipotesi emersa alla riunione tra il ministro Marta Cartabia e la maggioranza dedicata alla riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm. Sorteggiare non i distretti di Corte d’appello per formare i collegi elettorali del Csm, bensì le Regioni: è l’ipotesi emersa alla riunione tra il ministro Marta Cartabia e la maggioranza dedicata alla riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm. Lo apprende l’Ansa da quanti hanno partecipato all’incontro. Altro nodo è la separazione delle funzioni, sulla quale si ipotizza la possibilità per il magistrato di un solo passaggio da una funzione all’altra. L’aggiornamento della riunione alle 17 serve per le verifiche tecnico-legislative e perché ciascun capogruppo si confronti con i vertici del proprio partito. L’insistenza di Cartabia sui dubbi di costituzionalità del sorteggio temperato, sostenuto da Fi, Lega e Iv, ha portato a prendere in seria considerazione l’idea del sorteggio nella formazione dei collegi, su cui esiste un emendamento della Lega, ed anche una vecchia proposta di Carlo Smuraglia (membro laico del Csm dal 1986 al 1990), poi tradotta anche in un ddl. La novità tuttavia sarebbe stata tirata fuori da Fi: nella formazione dei collegi si potrebbero sorteggiare non le 26 sedi di Corte d’Appello, bensì le 20 regioni italiane. Fi avrebbe anche chiesto di abolire la quota di recupero proporzionale che gli emendamenti Cartabia prevedono, ma gli esponenti del Pd hanno detto che sono irremovibili nel difenderla. Per quanto riguarda la separazione delle funzioni, che il ddl Bonafede e gli emendamenti Cartabia fissano in un limite massimo di due passaggi di funzione, a fronte di nessun passaggio proposto da FI e Lega, l’ipotesi a cui si lavora è di un solo passaggio. Fi vorrebbe che ci fosse anche un limite temporale entro cui il magistrato deve fare l’opzione, per esempio 10 anni, limite contro cui si schiera M5s. In proposito ci sono delle difficoltà pratiche legate alle assegnazioni nelle varie sedi. Anche su tale punto il ministero sta svolgendo verifiche tecnico-legislative. I partecipanti interpellati dall’Ansa hanno affermato che visti i notevoli passi avanti, potrebbe essere chiuso un accordo complessivo in serata. Santalucia: “Troppe storture nella riforma, pronti allo sciopero come ai tempi di Berlusconi” di Liana Milella La Repubblica, 9 aprile 2022 Intervista al presidente dell’Anm: “Siamo ai limiti dell’incostituzionalità. Sì a toghe libere e non impaurite, confidiamo nel Parlamento”. “Un sistema democratico ha bisogno di una magistratura libera e non impaurita. Spero ci sia ancora tempo per correggere le storture di questa riforma”. Giusto ieri il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia ha convocato il parlamentino delle toghe nello stesso giorno in cui la legge sul Csm approderà alla Camera “per far sentire l’allarme di tutti i magistrati”. Siete proprio sul piede di guerra... “Siamo molto, molto preoccupati. Confidiamo che il Parlamento si accorga in tempo di quanto il ddl che stanno costruendo nelle riunioni di maggioranza e in commissione giustizia - dalle indiscrezioni che leggiamo - riporterà la magistratura al periodo pre-costituzionale...”. Addirittura? “Eh sì, purtroppo. Perché dietro le parole d’ordine della meritocrazia e delle valutazioni di qualità si nasconde la voglia di gerarchizzare tutti i magistrati, fare sentire loro il timore della soggezione ai capi e allo stesso Csm, che vedrà messa in pericolo la funzione di garanzia che la Costituzione gli assegna”. Tutto questo arriva da una Guardasigilli come Marta Cartabia che è stata al vertice della Consulta... “Purtroppo sembra quasi una beffa che la riforma veda la luce sotto il suo dicastero. Ma la realtà è questa, e non la si può raccontare in altro modo”. Ma lei lo sa che in questa maggioranza ci sono partiti da sempre ostili ai giudici? “Ahimé, purtroppo avverto che questo sentimento di ostilità diventa sempre più forte”. Il suo allarme prelude a una mobilitazione delle toghe. Arriverete allo sciopero? “Mi auguro fortemente che la magistratura non sia costretta a indirne uno come non succedeva dai tempi del governo Berlusconi”. Qual è il rospo della riforma che non volete ingoiare? “C’è più di un aspetto critico che fa oscillare la futura legge tra il pre-costituzionale e l’incostituzionalità piena”. Per esempio? “Il fascicolo delle performance per ogni toga è uno strumento di controllo indebito che potrà intimorire i magistrati, inducendoli a essere conformisti e indifferenti alle istanze di giustizia. Che invece esigono coraggio interpretativo e l’abbandono di soluzioni cristallizzate”. Per Verini (Pd) è una schedatura ma la norma è passata lo stesso... “La sua è una definizione efficace, l’irragionevolezza è palese: si pensi a quanto sarebbe assurdo proporre un corrispondente fascicolo per gli avvocati e per schedare i loro insuccessi in Cassazione”. E sulla ormai quasi separazione delle carriere? “Un solo passaggio da pm a giudice e viceversa nell’arco di una carriera è di fatto proprio la separazione delle carriere. Ma se la si vuol fare davvero allora si guardi in faccia la Costituzione e non la si aggiri”. I giudici potrebbero fare ricorso alla Consulta? “Vedremo, ma per ora confidiamo nel Parlamento e nella sua capacità di evitare l’attrito con la Costituzione”. Ma lei e i suoi colleghi avrete ancora diritto di parola dopo l’illecito disciplinare sulla presunzione d’innocenza su cui ha vinto Costa di Azione? “È un ulteriore esempio della voglia di controllare tutti magistrati comprimendo il loro diritto-dovere di informare i cittadini anche su quello che avviene nella fase delle indagini preliminari”. Giustizia, il Papa al Csm: “Stop a clientelismi e corruzione, i giudici riformino loro stessi” di Paolo Rodari La Repubblica, 9 aprile 2022 Papa Francesco ha esortato il Consiglio superiore della magistratura, che ha ricevuto in udienza, a “lottare fortemente” affinché realtà che il Csm conosce “bene” - “le lotte di potere, la negligenza e le ingiuste posizioni di rendita” - “non crescano” “Nessuna riforma politica della giustizia può cambiare la vita di chi la amministra, se prima non si sceglie davanti alla propria coscienza per chi, come e perché fare giustizia”. Così Papa Francesco, ricevendo questa mattina i membri del Consiglio superiore della magistratura. Il Papa ha raccomandato loro l’insegnamento di Santa Caterina da Siena, che sosteneva che “per riformare occorre prima riformare sé stessi”. La domanda sul per chi amministrare la giustizia illumina sempre una relazione con quel ‘tu’, quel ‘volto’, a cui si deve una risposta”, ha detto ancora Francesco: “La persona del reo da riabilitare, la vittima con il suo dolore da accompagnare, chi contende su diritti e obblighi, l’operatore della giustizia da responsabilizzare e, in genere, ogni cittadino da educare e sensibilizzare”. In quest’ottica, “la cultura della giustizia riparativa è l’unico e vero antidoto alla vendetta e all’oblio, perché guarda alla ricomposizione dei legami spezzati e permette la bonifica della terra sporcata dal sangue del fratello”. “Questa è la strada che, sulla scia della dottrina sociale della Chiesa, ho voluto indicare nell’Enciclica Fratelli tutti, come condizione per la fraternità e l’amicizia sociale”, ha sottolineato il Papa: “L’atto violento e ingiusto di Caino, infatti, non colpisce il nemico o lo straniero: è compiuto contro chi ha lo stesso sangue. Caino non può sopportare l’amore di Dio Padre verso Abele, il fratello con cui condivide la sua stessa vita”. “Come non pensare alla nostra epoca storica di globalizzazione diffusa, in cui l’umanità si trova a essere sempre più interconnessa eppure sempre più frammentata in una miriade di solitudini esistenziali?”, ha attualizzato Francesco: “Questo rapporto che sembra contraddittorio tra l’interconnessione e la frammentazione: come mai? È la nostra realtà, interconnessi e frammentati”, ha aggiunto parlando a braccio. “La proposta della visione biblica è, al cuore del suo messaggio, l’immagine di un’identità fraterna dell’intera umanità, intesa come ‘famiglia umana’: una famiglia in cui riconoscersi fratelli è un’opera a cui lavorare insieme e incessantemente, sapendo che è sulla giustizia che si fonda la pace. Quando le tensioni e le divergenze crescono, per farsi nutrire dalle radici spirituali e antropologiche della giustizia occorre fare un passo indietro. E poi, insieme agli altri, farne due in avanti. Così, la domanda storica sul ‘come’ si amministra la giustizia passa sempre dalle riforme”. Lo stato dei giudici di pace italiani secondo la Corte di giustizia europea di Cristina Piazza Il Domani, 9 aprile 2022 La sentenza della GCUE inequivocabilmente riconosce in capo al giudice di pace - qualificato come lavoratore a tempo determinato- la necessaria sussistenza di condizioni di impiego e quindi di ferie retribuite e di tutele previdenziali e assistenziali, ritenendo “inammissibile” una possibile negazione di tali diritti. Il 7 aprile 2022 è stata pubblicata l’attesa sentenza PG della GCUE nella causa C-236/20, avente ad oggetto la domanda pregiudiziale proposta dal TAR Emilia Romagna con ordinanza del 27 maggio 2020, nel procedimento radicato da un giudice di pace nei confronti del ministero della Giustizia, del Csm e della Presidenza del Consiglio dei Ministri con il quale chiedeva l’accertamento del diritto alla costituzione di un rapporto di pubblico impiego e la conseguente condanna del Ministero al pagamento delle differenze retributive maturate, oltre oneri previdenziali e assistenziali o, in via subordinata, la condanna del Governo italiano al risarcimento dei danni subiti dalla ricorrente derivanti da fatto illecito del legislatore, per violazione delle direttive europee. La pronuncia della CGUE è strettamente legata alla sentenza UX costituendone questa il sostanziale precedente, anche per la particolare concatenazione delle loro fasi processuali. Infatti, a seguito del deposito di quest’ultima, la Corte di Giustizia chiedeva al TAR ER se intendesse mantenere la propria domanda di pregiudiziale. Il Tribunale amministrativo ha voluto che la CGUE esaminasse nuovamente le funzioni esercitate dai Gdp nell’ordinamento giuridico italiano, in quanto, in caso contrario, si sarebbe rischiato un margine di apprezzamento troppo ampio da parte del giudice nazionale, considerato in effetti che ad oggi l’Avvocatura di stato, per il Ministero della Giustizia, il Governo ed il CSM, ha impugnato tutte le sentenze di primo grado che hanno tentato di applicare la sentenza UX. Cosa dice la sentenza - Con la sentenza PG la GCUE inequivocabilmente riconosce in capo al giudice di pace - qualificato come lavoratore a tempo determinato- la necessaria sussistenza di condizioni di impiego e quindi di ferie retribuite e di tutele previdenziali e assistenziali, ritenendo “inammissibile” una possibile negazione di tali diritti (punto 53). Precisa poi che ai magistrati onorari devono essere riconosciuti i diritti a beneficiare di ferie annuali retribuite di 30 giorni e un regime previdenziale e assistenziale dipendente dal rapporto di lavoro, al pari dei magistrati ordinari, se secondo il giudice del rinvio le due figure potranno considerarsi comparabili in applicazione del principio di non discriminazione (punto 54). A tal fine la Corte di Giustizia fornisce una serie di criteri, dovendo egli valutare se la natura del lavoro, le condizioni di formazione e di impiego, l’attività giurisdizionale del giudice di pace sia comparabile a quella del magistrato ordinario. Accertato questo, il giudice del rinvio dovrà poi verificare se vi siano ragioni oggettive che giustifichino una disparità di trattamento, se sia giustificata dalle diverse qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni di cui devono assumere la responsabilità. Ancora, la sentenza PG della CGUE, con portata innovativa rispetto alla UX, afferma che non vi è nell’ordinamento giuridico italiano alcuna disposizione che consenta di sanzionare in modo effettivo e dissuasivo il rinnovo abusivo di rapporti di lavoro a tempo determinato in violazione delle normative europee, sancendo espressamente la violazione del diritto europeo da parte della riforma Orlando (punti 64, 65,66). La pronuncia in commento, che reca come la precedente del giudice di pace di Bologna l’inciso “stato dei giudici di pace italiani”, è stata accolta dalla categoria con l’ auspicio che porti a buoni ma soprattutto definitivi consigli il Governo italiano che ha tentato di minimizzare in ogni modo la portata seppure dirompente della sentenza UX e della conseguente procedura di infrazione notificata allo Stato italiano in data 15.07.2021. Che il giudice di pace sia un lavoratore ormai è entrato nel nostro ordinamento con la legge di bilancio n. 234/2021 che ha modificato gli art. 29 e ss del d.lgs 116/17. Per i magistrati onorari in servizio infatti sono stati aboliti i mandati quadriennali, trovandosi in questo momento nella scomoda posizione di lavoratori non regolarizzati, che attendono di essere “stabilizzati” passando da una procedura valutativa lunga e colma di criticità, che dovrebbe terminare entro il 2024. La stabilizzazione - La previsione di tale “stabilizzazione” è dovuta - per le stesse parole della Ministra Cartabia pronunciate il 15 marzo davanti alla Commissione giustizia del Senato - dal riconoscimento da parte della Commissione Europea della posizione di lavoratori a tempo determinato in capo ai magistrati onorari, soggetti a reiterati mandati rinnovati abusivamente in violazione della normativa europea. L’attuale magistrato onorario italiano in servizio è un ibrido, un po’ trattato come funzionario amministrativo - senza neanche averne riconosciuti tutti i diritti - un po’ è definito dalla c.d. riforma Orlando, normativa dichiarata ormai inadeguata dalla lettera di infrazione del 15.07.2021. In realtà la comparabilità tra il Giudice di pace - lavoratore a tempo determinato - e il magistrato ordinario- lavoratore a tempo indeterminato - emerge chiaramente dal contenuto delle sentenze della Corte Costituzionale n. 267/2020 e n. 41/2021. Il diritto dei magistrati onorari in servizio al risarcimento del danno per la reiterazione abusiva dei contratti a termine e per tutto quanto non percepito a titolo di “condizioni di impiego” è sancito a chiare lettere dalla CGUE e mal si concilia con la rinuncia imposta quale condizione necessaria al fine di accedere alla procedura valutativa prevista per la stabilizzazione. Ora la partita torna non solo al TAR Emilia Romagna al quale tocca il delicato compito interpretativo indirizzato dalla CGUE, ma anche alla Commissione Europea che dovrà procedere con nuovo e risoluto impulso nell’infrazione emettendo il parere motivato al fine indurre lo Stato italiano ad armonizzare la normativa interna a quella europea. Magistratura onoraria, dall’Ue l’ennesima altolà alla giustizia italiana di Valentina Stella Il Dubbio, 9 aprile 2022 Una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sancisce garanzie e tutele per i giudici di pace. Ora la normativa italiana dovrà adeguarsi. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con sentenza del 7 aprile 2022 (causa C?236/20), a seguito di un’ordinanza di rinvio pregiudiziale del Tar Emilia-Romagna, ha riconosciuto ai giudici di pace - ma di conseguenza a tutta la magistratura onoraria - il diritto a ferie retribuite, trattamento pensionistico e tutele assistenziali comparabile a quelli dei magistrati ordinari e ha ritenuto incompatibile con il diritto dell’UE il rinnovo degli incarichi a termine, pratica da sanzionare, previsti dal decreto Orlando del 2017. La normativa italiana è dunque in contrasto con il diritto dell’Unione perché prevede un trattamento differente. “L’importanza della sentenza - commentano gli avvocati campani Giovanni Romano, Egidio Lizza e Luigi Serino, che hanno assistito la ricorrente - risiede nel riconoscimento di un palese contrasto tra le direttive UE in materia di lavoro subordinato e le norme nazionali che, da oltre vent’anni, non prevedono per i giudici di pace il diritto alle ferie retribuite, né un regime assistenziale e previdenziale, ivi compresa la tutela della salute, della maternità e della famiglia, analogamente a quanto previsto per i Magistrati ordinari”. La pronuncia, inoltre, spiegano in una nota, qualifica il Giudice di Pace come lavoratore a tempo determinato che, sempre in base alla normativa UE, non può vedere regolato il rapporto lavorativo in base a reiterati incarichi a tempo. La normativa italiana, dunque, si presenta - ad avviso della CGUE - illegittima anche nella misura in cui consente di rinnovare, fino a tre volte, l’incarico pluriennale conferito, dando così luogo ad una reiterazione abusiva dei rapporti di lavoro a termine, vietata dalle direttive UE. Anzi, i Giudici europei ritengono doverosa l’introduzione, nel sistema interno, della possibilità di sanzionare, in modo effettivo e dissuasivo, detto rinnovo abusivo. “Ciò apre ampio spazio - concludono i legali - all’introduzione di azioni risarcitorie e alla rideterminazione dei trattamenti pensionistici, ma quel che maggiormente conta è che i principi giuridici così delineati dirigono in senso diametralmente opposto a quanto sino ad oggi concretamente fatto dal Ministero della Giustizia, per il quale si impone un cambio di passo”. Cosa accade ora? In ottemperanza a tale pronuncia, si legge nella conclusione della nota stampa, è probabile che lo Stato italiano dovrà ora adeguarsi, sia ripianando il trattamento discriminante utilizzato nel passato per tali giudici, e in generale per la magistratura onoraria, sia conformando per il futuro la propria legislazione al principio di equivalenza con la magistratura ordinaria, richiesto in ambito europeo. A esprimere soddisfazione per la decisione c’è anche il direttivo AssoGot: “La sentenza della Corte di Giustizia rappresenta un’ennesima condanna per lo Stato italiano, per il Ministero preposto all’ organizzazione e al funzionamento della Giustizia e per un Parlamento che appare sempre più inerte. Il paradosso di magistrati chiamati ad applicare il diritto, ma privati dei diritti, scuote e lascia sgomenti i consessi europei, ma lascia indifferenti tutte le nostre istituzioni. Dopo aver vanamente indicato il percorso da seguire nel 2020, la Corte di Giustizia ribadisce l’ovvio: i magistrati onorari sono lavoratori subordinati e ad essi il datore di lavoro è tenuto a garantire previdenza, assistenza e ogni altra normale tutela. Peccato che in Italia anche l’ovvio possa essere negato, con pretesti vari, o procrastinato con rimbalzi, contrasti, analisi, pareri e valutazioni che offuscano la verità, mortificano i valori costituzionali e stritolano le nostre esistenze”. Per questo l’associazione si appella alla Guardasigilli: “Ci rivolgiamo alla ministra Marta Cartabia per ricordarle che non solo siamo lavoratori privi di tutele che servono lo Stato da decenni, ma che svolgiamo mansioni giurisdizionali, non amministrative, e che imporci un aut aut al ribasso, approfittando della condizione di fragilità in cui siamo costretti, configura un’estorsione, ancor più odiosa se a commetterla è il Ministero della Giustizia. Le chiediamo, signora Ministra, una sola cosa: dimostri di avere a cuore la Costituzione e la applichi, subito, ai magistrati onorari”. Proprio l’AssoGot ha organizzato per lunedì 11 aprile un webinar (a cui si può partecipare cliccando qui) durante il quale si discuterà della sentenza ma anche delle future iniziative in sede giudiziaria. Per il Collegio nazionale di difesa della magistratura onoraria - Professori Giorgio Fontana, Bruno Caruso, Antonio Lo Faro e Stefano Giubboni - la sentenza del 7 aprile “segna un’altra tappa dell’anomala vicenda che riguarda la categoria dei magistrati onorari italiani, protagonisti involontari di una situazione paradossale che nasce dall’ostinato rifiuto delle istituzioni nazionali di applicare nei loro confronti le norme vigenti del diritto del lavoro”. Essa “lascia oramai poche scappatoie allo Stato italiano, sottoposto ad una procedura d’infrazione da parte della Commissione europea proprio per la situazione illegittima in cui versa suo malgrado la magistratura onoraria. Non sembra esserci altra strada che adempiere le indicazioni della Corte di giustizia europea, superando le forti ma inutili resistenze corporative. La parola spetta ora al Parlamento e prima ancora alla Corte costituzionale, che prossimamente dovrà pronunciarsi sul “caso” della magistratura onoraria e, verosimilmente, non potrà ignorare le due pronunce dei giudici europei”. Già nel luglio 2020 infatti la stessa Corte di Giustizia, nella famosa sentenza UX, si era espressa a favore della magistratura onoraria, equiparando lo stato giuridico ed economico dei giudici di pace e dell’intera magistratura onoraria in servizio - Got e Vpo - a quello della magistratura professionale. Un anno dopo, la Commissione Europea aveva avviato, inviando una lettera di costituzione in mora al Governo italiano, una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia riguardante la legislazione nazionale che regola l’attività dei magistrati onorari, ritenendola non in linea con il diritto Ue in materia di lavoro. La Ministra della Giustizia Marta Cartabia aveva istituito la Commissione Castelli per elaborare un testo che indicasse possibili soluzioni legislative ma le proposte della relazione non erano piaciute alla categoria né, a quanto pare, ai Commissari europei. Quindi, accantonata la relazione Castelli, l’iniziativa del Governo si è concretizzata in un emendamento alla legge di bilancio 2022 fortemente stigmatizzato, che prevede la prosecuzione del sistema di pagamento a cottimo nonché, tra l’altro, che la domanda per essere confermati in servizio, mediante svolgimento dei colloqui da espletarsi in tre anni, comporta l’automatica rinuncia a ogni ulteriore pretesa di qualsivoglia natura conseguente al rapporto di lavoro pregresso. Ciò è stato ritenuto dalle categorie interessate un vero e proprio ricatto da parte del Governo. Beni sequestrati alle mafie: l’arma della confisca è spuntata da burocrazie e risparmi di Giulio Marotta La Repubblica, 9 aprile 2022 Le misure di prevenzione patrimoniale, introdotte dalla legge Rognoni-La Torre e oggi disciplinate dal codice antimafia (artt. 16 ss.) costituiscono uno strumento fondamentale nel contrasto alla criminalità organizzata, perché consentono di acquisire i patrimoni accumulati con i proventi di attività illecite. Il sequestro (si tratta di oltre 215.000 beni dal 1997 al 2020, che non includono peraltro quelli sequestrati nei processi penali ordinari: soprattutto immobili, ma anche autovetture, aziende etc.) non solo colpisce la forza economica dei clan mafiosi ma ne indebolisce la capacità di infiltrazione nel tessuto economico e sociale ed il consenso fondato sulla distribuzione di posti di lavoro. Le disposizioni del codice antimafia acquistano ancora più importanza se si considera che la perdita dei beni viene percepita dalle organizzazioni criminali, come risulta dalle intercettazioni telefoniche, in termini addirittura superiori alle stesse misure di custodia cautelare o di condanna penale, per la perdita di prestigio sociale e di potere di fronte agli associati. Un ulteriore salto di qualità è rappresentato dalle norme che prevedono la destinazione di beni simbolo del potere criminale per fini di utilità pubblica o sociale, offrendo così nuove opportunità di lavoro e di sviluppo sociale nei territori dove sono ubicati. Il sequestro dei beni appartenenti ai boss mafiosi è disposto dalla sezione misure di prevenzione del tribunale: nel periodo 2010-2020 si registra una media annua di 500 nuovi procedimenti di prevenzione (che riguardano generalmente una pluralità di beni), con una crescita significativa, negli ultimi anni, delle misure di prevenzione adottate dagli uffici giudiziari dell’Italia settentrionale, a ulteriore conferma della forte presenza delle organizzazioni criminali in aree diverse da quelle di radicamento tradizionale. Molto rilevanti i dati sulle confische relative a beni ubicati nel Lazio (e soprattutto a Roma) e in Sicilia. Con il sequestro il bene è sottratto alla disponibilità dei loro proprietari; viene contestualmente nominato un amministratore giudiziario per la gestione provvisoria e la manutenzione ed il giudice competente a coordinare e verificarne l’attività. Si tratta di una fase molto importante perché occorre risolvere una serie di rilevanti problemi. Per i beni immobili si devono verificare i diritti dei terzi (ad esempio il bene può essere occupato dal nucleo familiare del soggetto cui il bene è stato confiscato o da un soggetto agli arresti domiciliari) e lo stato dei beni (sanatoria degli abusi esistenti, realizzazione delle opere di ristrutturazione e manutenzione, messa a norma degli impianti etc.). Per le aziende si tratta di riavviare in tempi brevi l’attività, procedendo anche alla liquidazione dei creditori, superando le difficoltà che emergono spesso per l’interruzione delle linee di credito e per il “costo” derivante dalla “emersione dalla illegalità”: le aziende confiscate sopravvivevano spesso in situazioni di palese illegalità (lavoro nero o comunque irregolare, con mancato versamento contributi; evasione fiscale; emissione di fatture false; inosservanza delle disposizioni sulla sicurezza dei luoghi di lavoro; riciclaggio proventi illeciti, assenza di scritture contabili), rappresentando perciò un ostacolo alla libera concorrenza, con danni rilevantissimi per le imprese che invece rispettano tutti gli adempimenti previsti dalle norme di legge. Quando la confisca è definitiva l’Agenzia nazionale per i beni confiscati può procedere alla destinazione dei beni agli enti locali o ad altre amministrazioni pubbliche a fini istituzionali o sociali, a seguito di un’attenta valutazione delle manifestazioni d’interesse e dei progetti di riutilizzo da parte dei soggetti interessati; i beni possono essere gestiti direttamente oppure affidati in concessione, tramite avviso pubblico, alle associazioni che ne fanno richiesta; gli immobili potranno essere anche locati a persone che versano in particolare condizione di disagio economico e sociale. La legge prevede inoltre possibilità di vendita al miglior offerente: le ipotesi più frequenti sono quelle delle aziende che non risultano in grado di sopravvivere in una condizione di piena legalità ovvero di immobili non riutilizzabili perché in pessime condizioni. Si ricorre inoltre alla vendita per soddisfare le richieste legittime dei creditori. Come affermato dal ministro della Giustizia in Commissione antimafia, Marta Cartabia, “l’Italia è considerata dagli altri Paesi un modello nella lotta alle mafie…. la legislazione riguardante la gestione dei beni tolti ai criminali è considerata da tutti un patrimonio e un pilastro fondamentale, sia per la sua capacità effettiva di generare ricchezza, sia anche per il suo valore simbolico. Un bene, un’azienda, un immobile sottratto alla criminalità organizzata e restituito alla collettività è un messaggio forte che lo Stato manda alle organizzazioni criminali e soprattutto ai cittadini”. Peraltro, a fronte dell’enorme patrimonio dei beni sequestrati alle organizzazioni mafiose, e l’impegno della magistratura nell’esecuzione delle indagini patrimoniali realizzate nei procedimenti di prevenzione, sono emersi una serie di rilevanti problemi, che hanno ostacolato una compiuta attuazione della normativa. Un primo elemento negativo, ai fini di una esatta valutazione dei meccanismi di sequestro e riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie, è rappresentato dalla mancata integrazione dei diversi sistemi informativi, che ostacola anche la trasmissione in via telematica della documentazione tra le diverse amministrazioni; come affermato dalle stesse relazioni semestrali del ministero della giustizia (l’ultima relazione riporta i dati disponibili al 31 dicembre 2021), i dati della Banca centrale del ministero sono ancora largamente incompleti, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, e non consentono di avere un quadro effettivo ed aggiornato della situazione processuale dei singoli beni oggetto di sequestro e dei problemi emersi nel corso della gestione provvisoria né di conoscere puntualmente il loro valore. Un secondo aspetto riguarda i tempi estremamente lunghi che intercorrono tra il primo sequestro, la confisca e la destinazione finale del bene, che favoriscono in molti casi il degrado e l’occupazione abusiva dei beni (si registrano anche atti di vandalismo da parte dei soggetti a cui l’immobile è stato sequestrato) e quindi pregiudicano il loro successivo riutilizzo; la celerità delle procedure assume ancora più importanza con riferimento alle aziende sequestrate. In base ai dati dell’ultima relazione del ministero della giustizia il 41% dei sequestri è poi oggetto a confisca; e, rispetto al totale dei beni confiscati, la percentuale di quelli effettivamente destinati è inferiore al 10 per cento. Ciò è dovuto, innanzitutto, alla complessità delle procedure (la recente relazione della Commissione antimafia formula una serie di proposte per coniugare efficienza e trasparenza delle procedure con la tutela dei soggetti che subiscono il sequestro) e alle carenze dei sistemi informatici; inoltre, solo a molti anni di distanza dalla sua istituzione (2010), si sta finalmente procedendo alla copertura integrale dei larghi vuoti di organico dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati, ciò che ha avuto inevitabili riflessi negativi sull’attività istruttoria necessaria per una sollecita e corretta individuazione della migliore destinazione. Sarebbe inoltre molto utile un maggior ricorso all’assegnazione provvisoria dei beni immobili, al fine di evitare il loro degrado e l’accumulo di debiti dovuti al mancato pagamento delle rate condominiali. Ed ulteriori rilevanti problemi emergono anche con riferimento ai beni che sono formalmente affidati alle Regioni, agli enti locali ed alle altre amministrazioni ma che non risultano però riutilizzati (una prima stima elaborata dall’Agenzia per i beni confiscati indica una percentuale di beni effettivamente riutilizzati del 50%). Ciò è dovuto all’insufficiente preparazione ed interesse delle amministrazioni locali, in particolare quelle di piccole dimensioni (le amministrazioni locali spesso non conoscono nemmeno i beni disponibili nel proprio territorio: a febbraio 2021 poco più di un terzo degli enti locali interessati aveva chiesto l’accesso alla banca dati dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati) e all’assenza di adeguati finanziamenti per i progetti di riutilizzo sociale: in mancanza di risorse economiche per le spese di ristrutturazione e gli oneri di gestione, le associazioni non partecipano alle gare ovvero restituiscono in tempi brevi il bene loro assegnato. Da questo punto di vista, in aggiunta ai finanziamenti già previsti dal PNRR, dai fondi europei e dalle leggi ordinarie (tuttora utilizzati sono parzialmente), nonché alle risorse messe a disposizioni dalle Fondazioni, appare essenziale risolvere il problema dell’utilizzo delle risorse liquide confluite nel Fondo Unico Giustizia (denaro, valori e titoli sequestrati, somme derivanti dalla vendita degli immobili etc.), che ammontano ad una cifra complessiva di oltre 4 miliardi di euro, destinando una quota consistente di tali risorse al riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie nonché a soddisfare i creditori in buona fede. Andranno inoltre utilizzate le opportunità previste dalla legge di ricorrere a forme consortili tra i comuni o di “mettere a reddito” i beni immobili destinati, rispettando naturalmente il vincolo di destinazione a fini sociali della relativa rendita finanziaria. Ed è importante altresì che la manifestazione di interesse degli enti locali sia sempre preceduta (e non seguita) da una verifica della effettiva disponibilità dei soggetti privati interessati, in modo da fondare su basi concrete il progetto di riutilizzo del bene. Da questo punto di vista va vista con favore l’istituzione di momenti di confronto tra amministrazioni statali, regionali, locali e associazioni del terzo settore che faciliti la predisposizione di progetti di riutilizzo dei beni socialmente validi e realmente sostenibili: un esempio significativo è rappresentato dal Forum cittadino sulle politiche in materia dei beni confiscati alla criminalità organizzata di Roma capitale. Un’attenzione particolare merita sicuramente il tema della riconversione delle aziende confiscate. I dati sul campione di 2.796 aziende, già in gestione dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati, evidenziano una fortissima presenza di imprese collegate alla criminalità organizzata nei settori dell’edilizia, del commercio e dei servizi di alloggio e ristorazione. In questo ambito un impegno specifico merita il riutilizzo dei terreni agricoli confiscati alla criminalità organizzata, che assume una rilevanza ancor maggiore nell’attuale fase di crisi internazionale degli approvvigionamenti alimentari. Come già detto, si pone per molte di tali aziende un “costo della emersione dall’illegalità”: le difficoltà nel reperire le risorse necessarie per il riavvio dell’attività in un sistema concorrenziale conduce spesso alla liquidazione delle imprese, a partire da quelle a conduzione familiare e alle ditte individuali. Si tratta di un tema molto importante, che necessita l’adozione, da parte degli amministratori giudiziari, di misure tempestive di rilancio dell’impresa, perché il sequestro determina inevitabilmente un rapido processo di deterioramento della situazione finanziaria ed economica, con conseguenti riflessi negativi dal punto di vista occupazionale. Si corre cioè il rischio che l’intervento dello Stato, agli occhi dei lavoratori dell’azienda sequestrata, sia percepito come la causa della perdita del posto di lavoro e non costituisca invece l’occasione per ottenere finalmente condizioni di lavoro e di retribuzione regolari. Anche a tale proposito la relazione della Commissione antimafia illustra alcune misure utili a garantire il mantenimento delle linee di credito per le aziende confiscate che hanno avviato il percorso per un ritorno alla legalità. Storie di mafia assicurerà un costante lavoro di informazione sullo sforzo compiuto da tante amministrazioni pubbliche ed associazioni per assicurare nuovi servizi alla collettività tramite il riutilizzo dei beni confiscati. “La giustizia sui depistaggi illumina, troppe bugie sul caso di mio figlio Federico Aldrovandi” di Annalisa Cuzzocrea La Stampa, 9 aprile 2022 Il commento di Patrizia Moretti dopo le sentenze sulla morte di Cucchi: “Finalmente hanno preso la catena di comando”. Come Ilaria Cucchi, Patrizia Moretti sa cosa significhi aspettare giustizia. Come la sorella di Stefano Cucchi, la mamma di Federico Aldrovandi ha atteso per anni che un tribunale riconoscesse quello che lei sapeva: nel 2005 suo figlio, dopo una serata fuori, è stato ammazzato di botte da quattro agenti durante un controllo di polizia. Aveva 18 anni. Era a Ferrara, sotto a casa sua. “Quando ho ascoltato la sentenza sugli 8 condannati per i depistaggi del caso Cucchi - racconta - ho provato una sensazione forte. Ho realizzato subito quanto fosse importante. Perché punire chi ha nascosto, coperto, preso in giro i familiari delle vittime, è quello che ho sempre pensato fosse la vera giustizia. Quella che a me manca tanto”. Perché in entrambi i casi, dopo l’omicidio ci sono stati i depistaggi, le coperture, le menzogne. Addirittura gli insulti alle vittime e alle loro famiglie. Se possibile, fa ancora più male? “Stamattina ho sentito Lucia Uva. Ci sono stati talmente tanti e tali ostacoli per tutti. I depistaggi a vario titolo e a vari livelli, anche quello della procura. Intanto è passato il tempo. Giuseppe Uva, Michele Ferulli, non hanno avuto giustizia”. Come mai secondo lei ci sono stati esiti così diversi? “Perché in quei casi le resistenze sono state più forti della verità. Accade sempre, in tutti i casi degli abusi commessi in divisa, che ci siano tentativi di occultamento. Per Uva fu la procura, per me la polizia. Ma anche nel caso di Federico, il pm assegnato in accordo col procuratore capo di allora ha aspettato sei mesi prima di scrivere i poliziotti sul registro degli indagati”. Con quale motivazione? “Era il termine ultimo. Se non si fosse mosso il mondo, i giornalisti, il blog, quello che è davvero accaduto non sarebbe mai emerso. Dicevano che era morto di droga, come per Stefano Cucchi”. Ci si era messa anche la politica, ad accusare le vittime... “Ah sì, i Giovanardi & co”. Il mondo, i giornalisti, li avete mossi voi: lei con il suo blog e il coraggio di mostrare il volto di suo figlio ammazzato. Ilaria Cucchi qualche anno dopo con la stessa determinazione. Ne è consapevole? “Ma se non ci aveste dato voce, nel mio caso non sarebbe passato nulla. Stiamo parlando di 17 anni fa. Il blog era uno dei primi, non c’erano i social, questo sistema di comunicazione diretta”. Perché è così importante la condanna sui depistaggi, oltre a quella di 12 anni agli assassini di Cucchi? “Perché è l’elemento che è mancato in tutte e altre. Nel mio caso ci sono state condanne per piccolissime cose: il centralinista che sembra aver cancellato la conversazione, il poliziotto che sembra aver contraffatto il registro. Passaggi che io ritengo non fossero così estemporanei”. Crede ci fosse una regia? “Sì, e questo nel caso di Cucchi è stato dimostrato perché qualcuno ha parlato. A Ferrara nessuno ha mai detto nulla. Quella mattina c’erano tutti in servizio. C’era il questore reggente. L’effettivo, no, abita a Modena. Era lui che parlava con noi, ci rassicurava, garantiva che avrebbe cercato la verità. Ma in realtà non ha fatto nessuna indagine per aprire gli armadi in cui erano contenuti i manganelli rotti, il mattinale contraffatto. Nel frattempo, quando sul blog casalinghe, pensionati, lo esortavano a indagare, lo accusavano di immobilismo, ha preso a querelare tutti. Per questo sono felice ci siano le sentenze di Cucchi: per le persone che non hanno fatto nulla”. Non ci sono state mai indagini su chi dirigeva la questura... “No, ma ci diceva che Federico era morto di droga quando non poteva non sapere dei manganelli rotti. Era la persona su cui contavo per avere un minimo di giustizia, si era fatto garante di un’indagine corretta. Mio figlio era morto da un giorno e lui mi diceva quelle cose lì. Spero si vergogni tanto tanto, lui e le persone che si sono comportate come lui, per non aver fatto il loro dovere”. Davanti alla sentenza per i depistaggi, Ilaria Cucchi ha detto: “Non credevo sarebbe mai arrivato questo giorno”… “Questo pochino di giustizia sui depistaggi illumina tutti gli altri casi. Noi eravamo presi in giro, continuamente”. Si può sperare che sia il segno di una crescita del Paese? Di una presa di coscienza maggiore? “In un senso sì e in un altro no. All’epoca, nonostante il G8 di Genova ci fosse già stato, su queste cose c’era poca consapevolezza. Io stessa facevo fatica a capire, a immaginare che potesse essere successo. E poi te ne rendi conto in maniera così assurda, straziante, e non c’è più rimedio. E la vedi minimizzata con condanne di tre anni e mezzo per omicidio colposo. Lo disse allora il pm Proto, che ora sta seguendo il processo del 2 agosto: è difficilissimo trovare abbastanza prove per portare in aula un preterintenzionale. Le prove sono state costruite nel processo, quando il giudice e i pm hanno cercato e sentito i testimoni. Prima non ci fu praticamente nessuna indagine. Il fascicolo era una cartellina vuota. Salvo che per la testimone camerunense sentita in incidente probatorio. È grazie a lei che siamo arrivati in aula”. Lei ha detto spesso che gli agenti colpevoli di questo tipo di abuso dovrebbero essere espulsi dall’arma, ma non accade... “Tolgono la divisa a un poliziotto se lo scoprono vestito da donna, se gli trovano una stecca di sigarette di contrabbando, ma se c’è un omicidio no. Credevo fosse una cosa automatica, naturale, normale. Ho scoperto che non è così”. Qualcuno le ha mai offerto parole di pentimento? “No. La dichiarazione che hanno fatto al processo è stata quella di sentirsi vittime per le tribolazioni che hanno dovuto patire nel subire l’inchiesta. Mi rendo conto ora di quanto si sentissero sostenuti. La loro difesa ha seguito una strategia precisa: stessa linea, dichiarazioni unitarie, compatti. Questo accade quando è tutto un sistema a proteggerti. Non sapremo nemmeno mai esattamente il dettaglio di quello che è successo, lo sanno solo loro e le persone a cui lo hanno detto. E lo sa Federico, che non può più dirmelo”. Sente che suo figlio, che aveva solo 18 anni, abbia avuto almeno giustizia? “Non abbastanza, ma in realtà cosa cambia? Io pensavo fosse importante che quelle persone perdessero la divisa subito. L’ho anche chiesto all’allora ministro dell’Interno, come si chiamava, il delfino di Berlusconi che non è più in politica”. Angelino Alfano? “Sì, lui. Mi ha detto: “Ah ma noi non possiamo farci niente, ci sono i regolamenti e qui e là. Sono stati sospesi sei mesi e basta. Due di loro hanno fatto un pochino di carcere a Ferrara, separati da tutti gli altri in condizioni protette. Altri due i domiciliari. Ma non cambia nulla. Federico non torna. E sa cosa fa più male? Questi credo non abbiano mai capito quello che hanno fatto. Non possono pentirsi perché non lo hanno mai ammesso. È qualcosa che va al di là di loro quattro. Per questo le otto condanne per i depistaggi del caso Cucchi sono importanti, oltre ai 12 anni ai responsabili. C’è il generale, hanno preso la catena di comando. Stamattina mi sono svegliata pensando che è qualcosa di grande quello che ha fatto la giustizia. Me ne rendo conto adesso. Forse non ci speravo neanche più”. La maestra “manesca” rischia il carcere di Pietro Alessio Palumbo Il Sole 24 Ore, 9 aprile 2022 Una sentenza della Corte di cassazione fissa limiti rigidi: sul bambino l’uso della violenza per fini correttivi ed educativi non è mai consentito. Nella vicenda sotto accusa il comportamento dell’insegnante. Per quanto vivace o indisciplinato sia, il bambino l’uso della violenza per fini correttivi ed educativi non è consentito. Nell’ambito scolastico il potere educativo o disciplinare dell’insegnante deve essere esercitato con mezzi appropriati e proporzionati alla gravità del comportamento del minore. Entro tali coordinate con la sentenza 13145 del 6 aprile scorso la Corte di Cassazione ha affermato il principio secondo cui, riguardo ai bambini il termine “correzione” va assunto come sinonimo di educazione; e non può mai ritenersi tale l’uso della violenza, sebbene finalizzata a scopi disciplinari. Salvaguardare la dignità del bambino - Ciò sia per salvaguardare la dignità del bambino, ormai soggetto titolare di diritti e non più come in passato semplice “oggetto” di protezione se non addirittura di disposizione da parte degli adulti; sia perché utilizzando un mezzo violento non può perseguirsi quale meta educativa l’armonico sviluppo di personalità del minore, sensibile ai valori della pace, della tolleranza, e della sana convivenza. La vicenda - Nella vicenda la maestra era stata accusata di aver spinto la testa del bambino in uno dei lavandini e nel water del bagno della scuola, forse a seguito di un diverbio con l’insegnante stessa. Il potere educativo o disciplinare non può oltrepassare i limiti della giusta misura o consistere in trattamenti afflittivi della personalità del bambino. In altri termini presupposto del reato - che come nella vicenda può costare anche la reclusione dell’insegnante - è l’uso smodato di mezzi di controllo dei bambini; e misurati certo non sono le percosse o altri analoghi comportamenti violenti, ovvero l’uso di un linguaggio offensivo o denigratorio. Le più recenti acquisizioni della cultura pedagogica hanno consentito di superare le concezioni tradizionali che ammettevano la liceità dell’uso della violenza, fisica o psichica, quale mezzo correttivo e disciplinare, rifiutandosi di ammettere che l’ordinamento penale possa tollerare il ricorso a forme di brutalità per finalità educative. Sicilia. La denuncia dell’Associazione Antigone: “Due suicidi in pochi giorni nelle carceri” di Gabriele Patti meridionews.it, 9 aprile 2022 Due suicidi in pochi giorni: uno all’Ucciardone di Palermo e un altro all’istituto penitenziario etneo. “Forse andrebbero rivisitate le linee guida contro il suicidio negli istituti e verificare ogni rapporto della sanità con le strutture”, denuncia Antigone. Ancora un suicidio in carcere, questa volta a Catania, al carcere di Piazza Lanza. Solo ieri Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, ha denunciato tre suicidi in tre mesi. Oggi, dopo quest’ultimo, che segue quello avvenuto all’Ucciardone di Palermo in cui a togliersi la vita è stato un 30enne extracomunitario, sono diventati quattro, a fronte dei 18 di tutta l’Italia, quasi il 25 per cento a livello nazionale. “Non sappiamo niente sul suicidio avvenuto al carcere di Piazza Lanza - commenta Pino Apprendi di Antigone - solitamente non c’è questa chiusura nella comunicazione perché le notizie filtrano, ma stavolta no”. “Ci siamo rivolti al garante nazionale perché nel report non risultava neanche il suicidio di Palermo”, sostiene Apprendi. “Non è il momento di fare dietrologie perché non servono - sostiene Apprendi - sarebbero necessarie solo le informazioni”. Ma per il momento, come confermano anche fonti di polizia penitenziaria, sarebbero partite le indagini e sulla questione vige il massimo riserbo. Che la situazione delle carceri siciliane non sia delle migliori, tra droni di rifornimento, rivolte, atti di violenza e carenza di personale della polizia penitenziaria, è noto. “Non è accettabile questo silenzio - incalza Apprendi - la situazione è precipitata, i nostri ripetuti appelli sono rimasti inascoltati, ma non ci stancheremo di segnalare tutte le carenze del servizio sanitario nei confronti della fragilità psicologica e psichiatrica”. Basti pensare che la fascia d’età in cui si verificano più suicidi è quella tra i 35 e i 45 anni. “Sono quelli più fragili - commenta Apprendi - pensi a un bruco che vuole diventare farfalla, se non riesce, muore”, è la metafora dell’ex deputato Ars. “Se, per esempio, in carcere c’è un solo medico e nessun mediatore culturale continua Apprendi i detenuti che riscontrano qualche malessere, fisico o psichico, con chi dovrebbero confrontarsi?”. Questi sarebbero alcuni dei motivi che si celano dietro ai tanti suicidi che, in Sicilia, dal 2000 al 2020, ammontano a circa 1240. “È come se fosse svanito un intero Comune”, conclude Apprendi. Le tensioni e gli stati d’animo nel carcere sono stati certamente peggiorati dalla presenza della pandemia che ha contribuito a istillare ulteriori timori fra i detenuti, anche per i propri familiari con i quali non c’è stato più contatto di persona per lunghi periodi. Per l’associazione, dunque, andrebbero rivisitate le linee guida contro il suicidio nelle carceri e al contempo sarebbe necessario verificare ogni rapporto della sanità con le strutture carcerarie. Campania. Carceri, Ciambriello incontra la sottosegretaria alla giustizia Macina di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 9 aprile 2022 Il garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Samuele Ciambriello, ha incontrato nel carcere di Poggioreale, la sottosegretaria alla giustizia Anna Macina, deputato pugliese del Movimento 5 Stelle. Il garante - si spiega in una nota - ha espresso particolare riconoscimento alla sottosegretaria per la visita e l’incontro: “Ho avuto modo di informarla sull’esito dell’incontro svoltosi la settimana scorsa con la ministra Marta Cartabia nell’ambito della conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà. L’ho invitata ad un incontro che si terrà a Napoli nel mese di maggio nell’ambito della conferenza nazionale dei garanti territoriali delle persone private della libertà, sia per fare il punto sulle carceri dopo l’emergenza Covid, che per dare un forte impulso di innovazione al sistema penitenziario”. All’uscita del carcere il garante ha aggiunto: “È stato un incontro che ho richiesto per informare la sottosegretaria sulle buone prassi e sulle criticità degli istituti penitenziari della nostra regione. Ho chiesto un suo impegno concreto per un ristoro legislativo a favore dei detenuti, un provvedimento simbolico anche solo attraverso l’aumento dei giorni di liberazione anticipata”. La sottosegretaria Anna Macina ha dichiarato la sua disponibilità ad essere presente all’incontro con i garanti e ha rassicurato Ciambriello circa l’impegno del governo per una risposta adeguata ai detenuti sofferenti psichici e la riorganizzazione dei luoghi alternativi al carcere per tale categoria di detenuti. Infine, ha garantito circa l’aumento dei provvedimenti riguardanti le misure alternative alla detenzione e l’incremento di vari profili professionali a favore dell’area penale esterna che conta ad oggi circa 8000 persone in Campania e 104.000 in Italia. Tra le altre cose il garante ha informato la sottosegretaria in merito al finanziamento da parte del provveditorato Interregionale per le opere pubbliche della Campania, Molise, Puglia e Basilicata di 12 milioni di euro per la ristrutturazione di quattro padiglioni del carcere di Poggioreale. Veneto. Femminicidio, agli orfani soldi per studi, sostegno e tutela legale di Francesca Visentin Corriere del Veneto, 9 aprile 2022 C’è chi vuole cambiare cognome, cancellare per sempre il padre. Chi appena maggiorenne fugge all’estero. Chi non supera mai il senso di colpa per non avere salvato la madre. Gli orfani di femminicidio dal 2009 al 2021 sono duemila in Italia e 33 nel Veneto. Vittime invisibili. Hanno perso la mamma, ammazzata dal padre, a volte davanti a loro. E hanno perso il padre, o per suicidio, o perché è in carcere. Secondo i dati Eures, tra i 33 orfani veneti, 18 sono femmine e 13 maschi, 27 (circa l’82%) sono minori e 6 sono maggiorenni. Sballottati tra famiglie affidatarie e comunità, senza percorsi di sostegno psicologico adeguati, con un trauma profondo e tanta solitudine. Dolore, paura, rabbia, sensi di colpa e una domanda ricorrente: “Che ne sarà di me?”. Il 74, 4% (24) dei 33 orfani veneti è figlio o figlia sia della vittima, sia dell’autore del femminicidio, mentre il 22,6% (7) è figlio o figlia solo della vittima. Otto hanno assistito al femminicidio della propria madre. Erano lì, l’hanno vista morire. Per sostenere in maniera concreta gli orfani di femminicidio, parte il progetto “Orphan of femicide invisible victim”, con un finanziamento del governo di un milione e 750mila euro in quattro anni. Il Veneto è regione capofila del progetto con la Cooperativa Iside di Venezia, in sinergia con altre quattro regioni e in rete con i Centri antiviolenza del circuito D.i.Re, Università, Terzo settore e istituzioni. I soldi arrivano dal Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, attraverso il bando “A braccia aperte” dell’impresa sociale “Con i bambini”. Obiettivo, garantire assistenza psicologica a orfani, orfane e famiglie affidatarie, sostegno economico per gli studi, i tirocini, gli stage e i master, fino all’inserimento nel lavoro e la tutela legale e assistenza per i risarcimenti di cui hanno diritto o per cambiare il cognome. E in più, formazione specialistica per operatori di pubblico e privato, per terapeuti, tribunali e servizi sociali. In modo da creare professionisti sempre più competenti e un coordinamento tra servizi pubblici e privati. Sono circa 200 tra Veneto, Trentino-Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e Lombardia (le regioni partner) gli orfani che verranno seguiti e sostenuti dal progetto, insieme a tutti i futuri orfani. L’età media delle donne uccise nel Veneto è di 35 anni. Dopo il femminicidio, dei 33 orfani veneti, 16 minori (il 66,7%) sono stati affidati alla famiglia della vittima. Per aiutare in maniera concreta gli orfani di femminicidio parte il progetto “Orphan of feminicide invisible victim”. “Questo è il primo progetto concreto e strutturato che coinvolge gli orfani, le famiglie affidatarie e gli operatori. E mette in rete pubblico e privato con azioni reali - fa notare Simona Rotondi di “Con i bambini”, l’impresa sociale che distribuisce i finanziamenti e che ha anche co-progettato le azioni -. Oggi esiste la legge 4 del 218, che nella realtà è poco applicata, stenta a essere operativa e anche per i risarcimenti agli orfani richiede lunghi percorsi burocratici. Da una parte c’è la sofferenza, il trauma e lo spaesamento degli orfani, dall’altra le famiglie affidatarie che spesso non hanno gli strumenti per gestire queste situazioni senza un aiuto specializzato”. Giorgia Fontanella, presidente della Cooperativa sociale e Centro antiviolenza Iside di Venezia, evidenzia: “Ci siamo rese conto che con gli orfani di femminicidio è fondamentale attivare la stessa rete di sostegno che scatta con le donne nei percorsi di uscita dalla violenza. Va restituita normalità di vita a ragazzi e ragazze, è indispensabile un sostegno psicologico specialistico e un aiuto alle famiglie affidatarie”. Eleonora Lozzi, presidente di Rel.Azioni Positive, cooperativa spin off del Centro Veneto Progetti Donna di Padova, sottolinea: “Il femminicidio non accade casualmente e non è una condizione patologica, porta con sé conseguenze drammatiche, il nostro obiettivo è non lasciare solo chi resta”. “Perché mio padre l’ha fatto?” “Cosa accadrà quando lui uscirà dal carcere?”, sono domande ricorrenti degli orfani. “Hanno bisogno di elaborare quanto accaduto. Il percorso di chi resta è tra dolore e sensi di colpa. Non si perdonano di essere vivi, di non avere salvato la mamma”. In comune hanno tutti lo strazio della perdita e lo sgretolarsi di colpo dei principali riferimenti affettivi. Napoli. La sottosegretaria Macina: sovraffollamento carcere Poggioreale problema serio askanews.it, 9 aprile 2022 “Nel carcere di Poggioreale ci sono oltre 2.200 detenuti. Ma l’istituto, uno dei più grandi d’Italia, ne potrebbe ospitare poco più di 1500. Un tasso di affollamento superiore alla media nazionale, con conseguenze sulla qualità della detenzione e sulla serenità del personale. Sarebbe ingenuo dire che un problema così serio possa essere risolto da un giorno all’altro ma ci sono alcune cose che si possono fare in tempi brevi”. Lo scrive la sottosegretaria alla Giustizia, Anna Macina, al termine della visita di questa mattina al carcere di Poggioreale a Napoli. “Uno dei padiglioni del carcere, il padiglione Genova, è in parte inutilizzato per via di una ristrutturazione degli ambienti ferma da anni. Parliamo di oltre 60 camere indisponibili. Lavori che dovranno arrivare a conclusione, con la riapertura delle sezioni interessate, in tempi certi e celeri. Un altro aspetto riguarda l’organico. Nelle prossime settimane è prevista l’assegnazione di 22 nuove unità di agenti di polizia penitenziaria, un contributo che potrà facilitare il lavoro dell’intero contingente”, aggiunge. “Poggioreale è un istituto in chiaroscuro, molto particolare. I tanti detenuti sono ospitati in una struttura storica costruita nei primi anni del ‘900, in cui solo alcuni reparti sono stati ristrutturati e in cui è complicato ricavare spazi di socialità. Sono però proposte molte attività trattamentali, formative e ricreative. Ho appreso oggi di una convenzione stipulata col San Carlo di Napoli, ho visitato una pizzeria in cui i detenuti si alternano per fare pizze e anche per consegnarle come riders tra i vari reparti. Accanto ad evidenti criticità convivono buone pratiche e anche alcuni locali efficienti. La particolarità è certamente il Sai (il servizio di assistenza intensificata): ha un poliambulatorio completo e ha attivato persino un centro di dialisi (uno degli unici due presenti nei penitenziari italiani). Ho preso nota di tutto e, come sempre fatto dopo ogni visita all’interno di un carcere, sarà mia cura segnalare al Dipartimento tutti gli elementi che richiedono soluzioni, continuando a vigilare perché le risposte attese arrivino davvero”, conclude. Roma. Cura dei detenuti minorenni: Asl e Istituto penale di Casal del Marmo siglano un accordo di Clarida Salvatori Corriere della Sera, 9 aprile 2022 Prevenzione e cura della salute psicofisica dei giovani detenuti e un’attenzione speciale alle donne e alla dipendenza da sostanze stupefacenti. Prestazioni di medicina generale e specialistica. Attività di prevenzione. Tutela degli immigrati. Educazione sanitaria. Cura della salute mentale e dei disturbi correlati alla dipendenza e all’uso di sostanze. Tutela della salute delle donne. Programmi mirati a garantire benessere e prevenzione del disagio psicosociale per i detenuti. Sono questi i punti salienti dell’accordo che è stato firmato questa mattina per l’assistenza sanitaria ai detenuti dell’istituto penale per i minorenni di Casal del Marmo. “L’assistenza agli ospiti dell’istituto penale per i minorenni ha caratteristiche peculiari: si pensi solo al sostegno psicologico e al trattamento delle dipendenze da sostanze stupefacenti - ha spiegato il garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa -. Per questo è importante lo strumento ad hoc sottoscritto oggi”. “L’approvazione del nuovo regolamento - ha aggiunto Angelo Tanese, direttore generale della Asl Roma 1 - dà continuità a una collaborazione già attiva dal 2014. Oggi rafforziamo l’impegno del nostro servizio sanitario nel garantire a questi ragazzi, anche nella loro condizione di detenzione, percorsi di cura e tutela della salute che riducano il disagio psicosociale e promuovano il benessere delle persone”. Cosenza. Gennaro, detenuto 110 e lode: quando il riscatto passa dalla laurea di Domenico Marino Avvenire, 9 aprile 2022 In carcere dall’età di 22 anni, ha discusso una tesi sull’indulto. Con lui c’erano professori e volontari. Sono 44 i detenuti che hanno intrapreso un percorso di studi universitario in Calabria. “Vuole continuare a studiare e a settembre s’iscriverà a Psicologia. Ormai ha rotto i muri, è riuscito a evadere e non vuole tornare recluso. Se fosse stato seguito da bambino, a scuola, non si troverebbe qui”. Ha ragione Adriana Caruso, donna di buona volontà che da dodici anni aiuta i detenuti del carcere di Corigliano Rossano a laurearsi. Il primo iscritto nel 2010, martedì invece il primo a raggiungere la magistrale in Scienze politiche e Relazioni internazionali. Si chiama Gennaro, ha cinquanta anni e arriva da uno dei quartieri più difficili di Napoli. È dentro da quando ne aveva ventidue. Una vita. Quattro giorni fa ha coronato il sogno che spesso emoziona più i genitori che gli studenti. Con tanto di toga, ha discusso in maniera impeccabile la tesi su “Provvedimenti clemenziali del Parlamento. L’indulto del 2006”, meritandosi il 110 e lode. Erano in tanti a gioire con lui: dal direttore Maria Luisa Mendicino al cappellano don Piero Frizzarin, dal vescovo di Rossano Cariati Maurizio Aloise al magistrato di sorveglianza, ai docenti della commissione. È felice Adriana, che con la sua associazione, “Mamre”, è stata sempre accanto a Gennaro e agli altri detenuti che hanno scelto la strada universitaria. Sono quarantaquattro nei vari istituti calabresi. La maggior parte a Rossano, ma anche a Catanzaro e Paola. Ce n’è uno pure a Oristano, dove è stato trasferito il primo studente che aprì la strada dodici anni fa quando era recluso in Calabria. Assieme a un altro giovane si erano iscritti alla sezione dell’Istituto industriale che era stata attivata nel penitenziario, e siccome riuscivano bene, oltre a essersi appassionati, cominciarono a pensare alla possibilità di continuare a studiare, magari iscrivendosi all’università. Come Gennaro, avevano scoperto un nuovo mondo, una vita diversa, e non volevano lasciarsela scappare via un’altra volta. Non sapendo se fosse possibile, né eventualmente come fare, chiesero ad Adriana che in quel periodo assieme al marito portava avanti dietro le sbarre un progetto teatrale. Tutto cominciò così, non per caso ma per la buona volontà dei due studenti e la mano tesa dell’ex maestra, che racconta: “Avevano poco più di trent’anni e stavano scontando condanne gravi, ma volevano provarci”. Dopo anni di lavoro sottotraccia, o quasi, l’Università della Calabria ha siglato un’intesa col Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) regionale, creando nel 2018 il Polo universitario penitenziario (Pup). Cruciale l’impegno dei docenti dell’ateneo cosentino Franca Garreffa e Piero Fantozzi, così come dell’ex docente di religione Igino Romano, impegnato pure con l’Azione cattolica, che opera al fianco di Adriana Caruso e degli altri volontari. Storie nella storia, come quella di Gennaro che Adriana, docente elementare in pensione, ha scoperto essere dislessico. Anche per questo a scuola aveva più difficoltà degli altri a imparare ed è stato bocciato: anche questo lo aveva spinto a lasciare la scuola diventando, lontano dalla classe, facile preda della camorra. Analisi sociologiche e report statistici raccontano, d’altronde, che la bocciatura è spesso il primo passo verso l’abbandono scolastico. Oggi la laurea di Gennaro non è solo un riscatto personale ma anche un successo e un beneficio per la società che recupera un cittadino e ottiene un professionista di qualità. Ed è soprattutto la prova provata che un buon maestro, o una buona maestra, può cambiarti la vita. Gorgona (Li). I detenuti salvano 588 animali dal macello: la battaglia e l’accordo decisivo di Martina Trivigno Il Tirreno, 9 aprile 2022 I detenuti, in collaborazione con la Lav, hanno salvato 588 animali dalla macellazione. La grazia. I detenuti l’hanno chiesta a gran voce per quegli animali che accudiscono e che una voce non hanno. Ormai li chiamano per nome e sentono il dovere di proteggerli. Il lavoro di squadra ha fatto il resto ed eccoli, tutti a bordo di una moderna Arca di Noè - guidata dai volontari della Lav, la Lega anti-vivisezione - che li ha messi in salvo. Sull’isola-carcere di Gorgona, fino al 2020, venivano allevati e macellati centinaia di animali ogni anno. Vitelli, maiali, conigli, galline, pecore, capre, asini e cavalli. Ma per Carlo Mazzerbo, direttore della casa circondariale di Livorno e Gorgona, l’idea di un mattatoio su un’isola-carcere - l’isola dei diritti - strideva. Così in collaborazione con la Lav e il Comune è cominciato un percorso per salvare questi animali. E in 588 sono scampati alla morte. “Se da una parte i costi per l’attività zootecnica erano altissimi, i ricavi erano davvero ridotti: a fronte di una spesa di 120mila euro, il ricavo era di circa 30mila - spiega Mazzerbo. A questo dobbiamo aggiungere il dispiacere, per i detenuti, di portare gli animali al macello. Quegli stessi di cui si erano presi cura. L’onorevole Vittorio Ferraresi, allora sottosegretario alla Giustizia, ha avuto un ruolo centrale per la chiusura del mattatoio”. La Lav coglie la palla al balzo e le attività di rieducazione dei detenuti sono riprese in chiave etica e ambientale, valorizzando la relazione tra uomini e animali. E proprio da qui è nato il libro “Animali che salvano l’anima. L’esperienza nel carcere di Gorgona (Carmignani Editrice)”, realizzato grazie al laboratorio di scrittura creativa con i detenuti, curato da Prita Grassi e Giovanni De Peppo e che sarà presentato sabato 9 aprile, alle 10,30, proprio a Gorgona. Il protocollo d’intesa fra casa circondariale, Comune di Livorno e Lav prevede che 588 animali siano salvati dalla macellazione, ripresa nel 2015, e anche lo smantellamento del mattatoio dentro al carcere. E, di conseguenza, la ricerca di una nuova casa per circa 450 animali che dovranno andare via man mano dall’isola (per il momento saranno accolti nel centro di recupero per animali di Semproniano); gli altri 130, invece, resteranno a Gorgona, curati dai detenuti con un programma di relazione del dipartimento di diritto penitenziario dell’Università Bicocca di Milano. Uno studio sul rapporto uomo-animali che coinvolge la novantina di detenuti che al momento si trovano sull’isola. “Il nostro obiettivo è quello di rendere Gorgona una comunità legata al territorio - sottolinea Mazzerbo che, per la prima volta, è arrivato a Gorgona nel 1989 -. Qui i detenuti sono impegnati in lavori utili per sviluppare un senso di comunità, puntando alla responsabilizzazione dei detenuti. Noi dobbiamo lavorare sui valori: Gorgona è un posto molto bello, ha qualità e potenzialità che nessun altro ha. C’è un orizzonte ampio, sole, mare. E il connubio uomo-natura ha un impatto importante su chi arriva qui. Soprattutto su quelle persone con difficoltà a gestire la rabbia o a esprimere le emozioni. E partendo dal rispetto degli ultimi, si rispettano i diritti di tutti”. Messina. Lavori di pubblica utilità per i detenuti, la direttrice: “Esiti estremamente positivi” di Martina Galletta messinaora.it, 9 aprile 2022 Si è tenuto ieri mattina presso il Tribunale di Sorveglianza di Messina l’incontro conclusivo dei lavori realizzati dai detenuti nell’ambito della Convenzione tra la Casa Circondariale di Messina e il Tribunale di Sorveglianza di Messina attivata per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità. ?La convenzione era stata siglata il 13 settembre scorso ed ha visto coinvolti quattro detenuti ammessi dall’Autorità Giudiziaria che hanno svolto in questo interventi di manutenzione nei locali del Tribunale di Sorveglianza di Messina, mostrando particolare impegno e volontà di affrancarsi dal passato. ?Il Lavoro di Pubblica Utilità (disciplinato dal D.Lgs. n. 124del 2018), si colloca all’interno della riforma dell’ordinamento penitenziario in materia di vita detentiva e lavoro penitenziario; la riforma è finalizzata ad una valutazione più ampia e complessiva del percorso del detenuto e rappresenta uno strumento idoneo per offrire ai detenuti la concreta possibilità di responsabilizzarsi e risocializzarsi, attraverso prestazioni non retribuite a favore della comunità, attivando così un percorso di riparazione e riavvicinamento alla società civile. ?Durante l’incontro conclusivo del Progetto, sono intervenuti Francesca Arrigo, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Messina, Angela Sciavicco, Direttore della Casa Circondariale di Messina, e Isabella Pia Palmieri, presidente pro-tempore del Rotary Club Messina, le quali hanno sottolineato gli esiti e la ricaduta estremamente positivi, evidenziando l’importanza di tali iniziative per la risocializzazione e fornendo testimonianza del costante impegno delle Amministrazioni coinvolte nella promozione di progetti volti a rendere effettiva e concreta la funzione rieducativa della pena. ?”Un ringraziamento particolare va al Rotary Club Messina - si legge in una nota della direttrice Angela Sciavicco - per il costante sostegno ai progetti attivati da questa Direzione, come ad esempio quello appena descritto oppure il corso di sartoria attualmente in corso presso la sezione femminile della nostra Casa Circondariale, che denotano significativa attenzione e impegno del Rotary per le problematiche sociali.” Potenza. Rigenerazione di comunità: detenuti e cittadini protagonisti imgpress.it, 9 aprile 2022 L’11 aprile presso Magazzini Sociali la presentazione del progetto “Extra Moenia” promosso da Compagnia Teatrale Petra in collaborazione con la Casa Circondariale di Potenza. “Extra Moenia - Spazio di connessione territoriale” è uno dei progetti vincitori dell’avviso pubblico Creative Living Lab - 3 edizione, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, che la Compagnia teatrale Petra sta realizzando presso la Casa Circondariale di Potenza. Lunedì 11 aprile 2022, a partire dalle ore 17, sarà presentato presso Io Potentino - Magazzini Sociali, in via Grippo, 10 a Potenza, in un incontro aperto a cittadini, studenti e associazioni interessati ad aderire ai laboratori di comunità in partenza a fine aprile. Prevista la presenza di tutti i partner di progetto, compresi referenti per la Casa Circondariale e per il Comune di Potenza. “Extra Moenia - Spazio di connessione territoriale” è un progetto ideato da Compagnia teatrale Petra di Satriano di Lucania con la collaborazione della Direzione della Casa Circondariale “Antonio Santoro” di Potenza e di Officine Officinali APS e con il sostegno del Comune di Potenza. L’obiettivo del progetto è un intervento di riqualificazione di un’area verde di circa 800 mq, presente nel perimetro della Casa Circondariale di Potenza, a ridosso del quartiere limitrofo di Rione Betlemme. Attraverso un processo di creazione partecipata con i cittadini, uno spazio urbano non utilizzato sarà trasformato in un luogo di idee, dove nuove azioni potranno prendere forma. I protagonisti di “Extra Moenia” saranno i detenuti della Casa Circondariale, l’intera comunità della città di Potenza, in particolare quella del Rione Betlemme, secondo l’idea di “rigenerazione di comunità” che la Compagnia teatrale Petra porta avanti da anni. Il progetto vedrà una inaugurazione il 26 aprile e nelle settimane successive lo svolgimento delle attività condotte da mediatori culturali e operatori della Casa Circondariale di Potenza, presso gli spazi dell’ex Biblioteca Provinciale in via Maestri del Lavoro, per concludersi il 16 giugno con una festa aperta a tutta la cittadinanza nello spazio rigenerato. Nella prima fase di creazione, i laboratori di comunità (26 aprile-14 maggio) con la formatrice teatrale Antonella Iallorenzi e il tecnologo alimentare Daniele Gioia serviranno a stimolare la creatività attraverso il linguaggio teatrale e l’analisi dell’economia circolare e il riciclo delle materie, con l’obiettivo di individuare necessità e bisogni dei fruitori ultimi dell’area oggetto dell’intervento e la sua destinazione d’uso. Nei successivi workshop di comunità (16-27 maggio), coordinati dagli architetti progettisti Giorgia Botonico e Lia Teresa Zanda e dall’illuminotecnico e scenotecnico teatrale Angelo Piccinni, si passerà alla progettazione partecipata dello spazio e ai suoi componenti di arredo, che saranno pensati per recuperare elementi di scarto e inutilizzati in possesso della Casa Circondariale. Durante la fase di autocostruzione (30 maggio-15 giugno) gli schizzi e i disegni prodotti nel workshop di comunità verranno trasformati in manufatti e collocati nello spazio, in un momento di interazione sociale e sperimentazione di nuove forme collaborative e di fruizioni innovative dello spazio. L’appuntamento dell’11 aprile è stato anticipato da un altro incontro, avvenuto lo scorso 18 marzo, nel quale il progetto è stato presentato agli studenti del Liceo Gropius - Indirizzo architettura e ambiente, con i mediatori culturali del progetto: Antonella Iallorenzi, Lia Zanda, Giorgia Botonico e per la Casa Circondariale Giuseppe Palo, funzionario di staff del Provveditore di Puglia e Basilicata, e Sonia Crovatto, responsabile dell’area trattamentale. Per partecipare ai laboratori di comunità, è possibile inviare un’e-mail di richiesta informazioni a progettipetra@gmail.com. Fossano (Cn). Lunedì la presentazione del libro “Tre metri quadri” a cura dei Radicali di Giacomo Giraudo cuneo24.it, 9 aprile 2022 Il volume, scritto dal consigliere regionale del Lazio Alessandro Capriccioli, descrive in forma narrativa le condizioni dei detenuti e del personale delle carceri italiane, questione da sempre molto a cuore per i Radicali. Continua la sensibilizzazione dell’Associazione Radicali Cuneo - Gianfranco Donadei in merito alla situazione di detenuti e personale nelle carceri della Granda e non solo. Lunedì 11 aprile, infatti, a Fossano, i radicali cuneesi presenteranno il libro “Tre metri quadri” scritto dal consigliere regionale del Lazio Alessandro Capriccioli. Il volume si propone di raccontare sotto forma narrativa le principali esperienze vissute dall’autore in svariate visite nelle principali case circondariali del Lazio e non solo, dove ha denunciato diverse criticità nelle condizioni di vita dei detenuti e in quelle di lavoro del personale delle prigioni. Una battaglia contemporaneamente portata avanti anche dai Radicali cuneesi, che negli scorsi mesi hanno potuto visitare le carceri della Granda denunciando numerose lacune, tra cui soprattutto l’assenza di docce nelle celle (obbligatorie per legge) in diversi istituti carcerari, come sostenuto dall’Associazione Gianfranco Donadei nel suo report dello scorso dicembre. Una situazione spesso oscura per la società a causa dell’insufficiente informazione dei media e del silenzio delle istituzioni. Il libro di Capriccioli raccoglie le impressioni e le criticità riscontrate in oltre quaranta visite nelle case circondariali nell’arco di quattro anni. Una situazione spesso critica, comune a tutto il sistema carcerario italiano, e quindi certamente d’interesse anche per il pubblico cuneese. L’evento si terrà a partire dalle 17 presso Palazzo Sacco, in Via Cavour 33 a Fossano. Oltre all’autore, interverranno nella presentazione del volume Igor Boni, presidente dei Radicali Italiani e Filippo Blengino, segretario dell’Associazione Radicali Cuneo, che discuteranno assieme a Capriccioli su questo tema caro a tutti. Serve un nuovo patto sociale di Maurizio Del Conte Corriere della Sera, 9 aprile 2022 Per affrontare la situazione attuale, una lezione utile si può trarre dall’esperienza del governo Ciampi nel 1993. Comunque andrà la campagna militare sul campo, i riflessi sulla nostra economia della guerra che la Russia ha scatenato contro l’Ucraina saranno pesanti e duraturi. Abbiamo appena girato la boa di due anni orribili. Il Paese ha saputo rispondere con forza e unità agli stravolgimenti imposti dalla pandemia. Famiglie e imprese sono state sostenute con un impegno di risorse pubbliche senza precedenti. Gli italiani hanno dato una dimostrazione non scontata di compattezza sociale. La campagna vaccinale ha visto una larghissima adesione, nella prevalente consapevolezza della sua utilità. Stavano, finalmente, consolidandosi i segnali di una promettente ripresa della economia e del lavoro. Ma l’invasione russa nel cuore dell’Europa ha inferto un colpo durissimo alle prospettive di rilancio del Paese. La reazione a questa guerra rischia di essere molto meno composta e solidale di quella che abbiamo saputo offrire di fronte all’emergenza causata dalla pandemia. Per sua natura ogni evento bellico è divisivo. Se la prima reazione è stata caratterizzata dalla solidarietà verso una piccola nazione aggredita da una superpotenza guidata da un oligarca spietato, non si possono trascurare i segnali che stanno emergendo dal dibattito pubblico. Le ripercussioni della guerra sui bilanci delle famiglie fanno crescere la preoccupazione per il futuro. Il rifiuto della guerra si sta trasformando in una opzione politica di disimpegno che, prima o poi, finirà per scontrarsi con la linea della fermezza che impone un crescente sacrificio dei nostri abituali standard di vita. Riemerge quella particolare declinazione di pacifismo che nel secolo scorso, in piena guerra fredda, si era spinta a teorizzare il disarmo unilaterale. Il sindacato, che nel periodo della emergenza sanitaria ha giocato un ruolo importantissimo - per quanto sottovalutato - nell’accompagnare le misure governative, potrebbe ora essere indotto ad abbandonare la linea della responsabilità, se questa dovesse comportare una significativa crepa nella sua base di consenso. Il fronte più a rischio è quello degli assetti negoziali e, quindi, della pace sindacale. I contratti collettivi nazionali oggi in vigore, molti dei quali da poco rinnovati, sono stati siglati sul presupposto di una bassa inflazione, recuperata ex post facendo riferimento all’indicatore l’Ipca che, però, esclude l’effetto dei costi dei prodotti energetici importati. Finora è stato possibile evitare il ritorno a meccanismi di recupero automatico che innescherebbero una pericolosa spirale dei prezzi. Ma se l’inflazione si attesterà su valori tra il 6 e il 7 per cento annuo, già a partire dal prossimo autunno l’erosione del valore reale dei salari potrebbe accendere le polveri. Occorre dunque che il governo assuma l’iniziativa prima di trovarsi a dover gestire una emergenza sociale. Una lezione utile che si può trarre dalla storia ci viene dall’esperienza del governo Ciampi che nel 1993, a fronte della sfida epocale imposta dall’ingresso nella moneta unica europea, chiamò sindacati e rappresentanze del mondo produttivo a stringere un nuovo patto sociale. Oggi, come allora, si pone l’urgenza di ridefinire le regole delle relazioni sindacali e condividere un nuovo modello di gestione contrattuale delle dinamiche salariali. Per evitare pericolosi automatismi tra inflazione e salari occorre introdurre un controllo contrattuale sui meccanismi di recupero ex post. Questi meccanismi, che già sono presenti in molti contratti collettivi, devono essere aggiornati, perché un conto è bloccare gli aumenti salariali per l’intera durata del contratto collettivo in condizioni di inflazione prossima a zero, ma molto diversa è la situazione quando, tra un rinnovo contrattuale e l’altro, l’inflazione si porta via il 15 per cento del potere d’acquisto. Una soluzione di mediazione potrebbe essere quella di introdurre una componente che anticipi nelle retribuzioni una quota parte dell’inflazione programmata, rinviando al momento del rinnovo la verifica del differenziale tra il dato previsto e quello reale. Solo le parti collettive possono efficacemente individuare il punto di equilibrio sostenibile in questo difficile compromesso tra aumento dei costi per le imprese e sostegno dei salari. Ma il governo può giocare un ruolo importante. Ad esempio, estendendo agli incrementi salariali i benefici fiscali oggi già previsti per gli aumenti contrattuali legati alla produttività e alle misure di welfare aziendale. Ma per stringere un nuovo patto tra le parti sociali è necessario avere chiarezza e trasparenza sulla loro effettiva rappresentatività. Da decenni si discute, senza alcun esito, sull’introduzione per legge di un sistema di verifica della rappresentanza sindacale. Non è questo il momento di forzare i delicati assetti delle relazioni industriali, ma il governo - ancora riprendendo lo spirito dell’accordo del 1993 - potrebbe approfittare di questa occasione per farsi garante di quel complesso di regole sulla rappresentanza che sono già state formalizzate in accordi interconfederali, mettendo a disposizione le strutture amministrative idonee a validare i dati e ad accertare i pesi effettivi dei sindacati e delle organizzazioni delle imprese. C’è un giudice a Washington di Gianni Riotta La Repubblica, 9 aprile 2022 Ketanji Brown Jackson è stata nominata da Biden alla Corte suprema, prima donna afroamericana. Da questa estate, i maschi bianchi non saranno maggioranza nella Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, per la prima volta nella storia della repubblica, nata nel 1776. Il Senato ha confermato, 53 favorevoli e 47 contrari, tre senatori repubblicani a votare con la maggioranza democratica, la giudice Ketanji Brown Jackson, 51 anni, laureata ad Harvard, prima donna afroamericana fra i nove magistrati in toga nera da quando, con il Judiciary Act del 1789, la Supreme Court venne chiamata dal presidente George Washington a garantire che nessuna legge fosse in contrasto con la, rivoluzionaria, Costituzione. Dei nove membri attuali, nominati a vita, solo 4 sono maschi e bianchi, finora avevano occupato 108 dei 115 scranni in quattro secoli. Tanti di noi meditano, in queste ore, sentimenti che richiamano i versi in esilio del poeta Brecht, “Davvero, vivo in tempi bui! La parola innocente è stolta. Una fronte distesa vuol dire insensibilità. Chi ride, la notizia atroce non l’ha ancora ricevuta…”, mentre da governi, pulpiti, giornali, tv, web, cattedre le nostre, Dio sa quanto imperfette, democrazie vengono, per interesse, ipocrisia o ignoranza, svillaneggiate da brutte copie dei totalitarismi, ed elezioni, libera informazione, magistratura indipendente svendute, in omaggio a Putin. La nomina di Brown Jackson, scelta dal presidente Joe Biden per mantenere una promessa elettorale, dopo le dimissioni del giudice Stephen Breyer, indica invece quale sia la virtù superiore, politica, etica, giuridica dei paesi liberi, non la presunta “infallibilità” di cui si blatera, ma, tutto al contrario, la capacità, lenta, dolorosa, mai esaurita, di emendare gli errori, verso un futuro meno ingiusto. Razzismo, schiavismo, il maschilismo che ha escluso le donne dal voto fino al XIX Emendamento del 1920, sfruttamento brutale del lavoro, han marchiato gli Stati Uniti, come ogni altro paese occidentale, per generazioni. Il sorriso della giudice Brown Jackson, i suoi ricordi - papà avvocato, mamma preside, la giurisprudenza delle sentenze firmate in tribunale - segnano una strada mai battuta: laureanda ad Harvard nel 1996, solo 33 donne nere in facoltà, vide una bandiera della Confederazione schiavista sventolare provocatoria davanti alla finestra: si unì alle proteste, ammonendo però le compagne- “Saremo in prima fila, ma senza perdere una lezione, dobbiamo laurearci ed eccellere!”. Ancor oggi, negli Usa, solo il 4,7% degli avvocati sono afroamericani, e appena 70 magistrate federali, meno del 2%, sono afroamericane. Nessun dubbio: il cammino verso l’affermazione degli ideali costituzionali di diritti umani, negli Usa e in Europa, sarà lungo e aspro, ma solo in democrazia si realizzerà. Nessun dubbio: la tossica faida politica americana, che ha diviso il Senato con acide domande dall’opposizione a Brown Jackson, permane, e la solida maggioranza della Corte, 6 a 3, è appannaggio di conservatori e destra estrema, con tre giudici nominati dall’ex presidente Donald Trump. Eppure, Biden e Brown Jackson motivano una leva di ragazze e ragazzi, con Abigail Hall, 23 anni, studentessa di legge ad Harvard a scherzare: “Pensavo che sarei stata io la prima afroamericana alla Corte Suprema, seconda dopo K.B.J è OK!”. Diritto e costituzioni non sono il freddo marmo scolpito per sempre, invocato ora dalle nostalgiche letture del nostro articolo 11 su guerra e pace. Insegnava con saggezza Thurgood Marshall, primo giudice costituzionale afroamericano nominato nel 1967 (solo 11 senatori repubblicani contrari…): “La strada della democrazia è strada di mutamento. Le nostre leggi non sono congelate in forma immutabile, sono in perenne revisione, secondo i bisogni della società in perenne evoluzione”.