Carceri: Cartabia, innovazioni attivate in pandemia vanno mantenute di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 aprile 2022 Nuovo capo del Dap Renoldi scelto in ossequio a quanto previsto dalla normativa. Il carcere è stato “particolarmente segnato da questi due anni di pandemia: sono stati anni durissimi, di grandi tensioni, usuranti per chi in carcere lavora e presta il suo servizio; sono stati anni più afflittivi per i detenuti a causa della sospensione dei colloqui e delle visite dei familiari, dei trasferimenti e di tutte le attività”. Così la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, durante il question time al Senato. “Perciò, in questo biennio, sono stati introdotti interventi riguardanti anche il campo penitenziario”, prosegue Cartabia che ricorda come sia “stata prevista la possibilità di concedere licenze premio straordinarie per i semiliberi, permessi premio straordinari per i detenuti già ammessi al lavoro esterno, e meccanismi deflattivi pensati già nel corso della prima ondata pandemica quali l’accesso alla misura della detenzione domiciliare con braccialetto elettronico”. Questi benefici adottati durante la pandemia - “concessi individualmente” - cesseranno “il 31 dicembre 2022, quindi comunque oltrepassano la durata dello stato di emergenza che si è concluso il 31 marzo scorso. Hanno dato buona prova e possono essere utili per contenere il problema del sovraffollamento”, prosegue Cartabia. “Quanto alla possibilità di intervenire sulla liberazione anticipata, innalzando la detrazione di pena per i detenuti che negli ultimi due anni abbiano dato prova di piena partecipazione all’opera di rieducazione, si tratta di un profilo su cui occorre certamente riflettere, anche tenendo conto delle condizioni particolarmente gravose che hanno subìto negli ultimi due anni”. Riguardo “alle comunicazioni telematiche”, queste “hanno dato un grande sollievo in questo periodo perché hanno consentito di mantenere quei rapporti con i familiari e di svolgere alcune attività anche in periodo di pandemia e pertanto si tratta di quelle innovazioni che è bene mantenere” anche “cessata l’emergenza pandemica”. Rispondendo poi ad un’altra interrogazione sulla nomina del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Carlo Renoldi, considerata dagli interroganti “divisiva”, Cartabia ha affermato che il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria “viene scelto tra i magistrati di Cassazione con funzioni direttive superiori o tra i dirigenti generali di pari qualifica, nominato con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro di grazia e giustizia”. “Non sarebbe dunque stato possibile - prosegue Cartabia - scegliere tra le file del corpo della polizia penitenziaria, secondo quanto sollecitato invece dagli Onorevoli interroganti”, aggiunge confermando che è stata seguita la procedura e che è stata considerata “la documentazione necessaria a valutare la professionalità di Carlo Renoldi e la pertinenza delle sue esperienze pregresse rispetto all’incarico da ricoprire”. Dalla documentazione è emersa “la sua lunga esperienza di 10 anni come magistrato di sorveglianza, il servizio prestato al ministero per affrontare l’emergenza del sovraffollamento carcerario all’epoca della condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Torreggiani, le funzioni ricoperte negli ultimi 6 anni nella prima sezione penale della Corte di cassazione che si occupa, ratione materiae, anche di esecuzione della pena, anche per reati gravissimi inclusa la criminalità organizzata. Il Consiglio dei ministri ha deliberato all’unanimità”. I permessi premio per il Covid: esempio virtuoso che non bisogna cancellare di Mauro Palma* Il Domani, 8 aprile 2022 Ormai più di due anni fa scoppiava la pandemia e fu chiaro fin da subito che le carceri sarebbero state un luogo dove la gestione dell’emergenza avrebbe costituito una sfida improba. Le rivolte di quei primi giorni con il loro carico di morti ne furono la prima e più drammatica tangibile prova: una situazione che non aveva precedenti nei decenni precedenti e che ancora pone inquietanti interrogativi. L’ansia che invadeva la società esterna raddoppiava all’interno di quelle mura sia per la situazione in sé della privazione della libertà, sia perché regole igieniche e di distanziamento che venivano raccomandate non potevano trovare applicazione in carcere perché si sommavano ad altre criticità, prima fra tutte l’affollamento che da sempre grava sugli Istituti del nostro paese. Le misure di libertà - In poco tempo vennero prese alcune misure, di buon senso sebbene molto limitate, per diminuire la popolazione carceraria: l’estensione del numero e della durata dei permessi premio per tutte quelle persone che già ne usufruivano, una timida nuova possibilità di detenzione domiciliare, subito attaccata come troppo lassista, il prolungamento senza limite delle licenze per i semiliberi. Questi ultimi, infatti, avrebbero dovuto passare la giornata fuori e rientrare in carcere alla sera, moltiplicando le possibilità di ingresso del virus negli istituti. Sono attualmente 982, tra essi 31 donne: la licenza prolungata permette loro di rimanere a dormire a casa, fuori dal perimetro detentivo. Attualmente ne usufruiscono in 800. Di pari passo con le proroghe dello stato di emergenza nel Paese, questi benefici pensati come transitori si sono di fatto trasformati in un riuscito esperimento di reinserimento a lungo termine. L’ultimo rinnovo ha spostato dal 31 marzo al 31 dicembre 2022 il termine ultimo di questi benefici, grazie a un emendamento nel decreto Milleproroghe. Per quella data saranno quasi tre anni di sperimentazione de facto. Il dato rilevante di questa esperienza è che nessuno o pochissimi tra i beneficiari hanno compiuto atti che i magistrati di sorveglianza hanno ritenuto tali da dover interromperne il prosieguo, rinviandoli in carcere. Il principio costituzionale che fonda la finalità delle pene ha la sua centralità nella rieducazione del condannato e nel caso della pena detentiva nella positiva reintegrazione della persona detenuta nella società. Ora, quale miglior prova di reinserimento di saper rispettare impegni fissati dai giudici nella quotidianità di studio, lavoro o quant’altro per un periodo lungo come possono essere tre anni? Esperienza da ripetere - Tre anni di norme stringenti anche fuori dal carcere che hanno messo alla prova tutti noi e che non sono state violate da coloro che tuttora sono in permesso o in licenza da semiliberi o detenuti nel proprio domicilio. Va avviata una riflessione sulla condizione di queste persone, in particolare degli 800 semiliberi che, dopo più di mille giorni di sostanziale libertà e di progressi fatti, potrebbero retrocedere al punto di partenza, tornando a varcare le soglie degli istituti penitenziari di provenienza. L’azzeramento della loro esperienza sarebbe un fallimento del sistema detentivo nel suo insieme. Quale strumento mettere in campo per dare il giusto valore a questa esperienza? La liberazione condizionale prevede dei limiti relativi alla quantità di pena scontata, forse non da tutti soddisfatti al primo gennaio 2023, pur essendo in alcuni casi persone anche in là con gli anni, per le quali sarebbe insensato far perdere tre anni di progressivo adeguamento al mondo esterno. Ma anche altre misure potrebbero essere utili, come per esempio un agevolato affidamento in prova ai servizi sociali. Altre ancora possono e devono essere pensate. Del resto anche per tutti gli altri che non hanno usufruito delle misure a suo tempo adottate, perché non erano nei limiti previsti o perché non erano stati valutati come meritevoli, una forma di riconoscimento della maggiore afflittività della pena detentiva vissuta nel periodo della pandemia dovrebbe essere doverosa e portare alla previsione di una misura di compensazione. Un altro capitolo importante per l’uscita da questo difficile periodo vissuto all’interno di quei corridoi divenuti vuoti e muti. Non si tratta di ragionare in termini di una sorta di atto di clemenza generalizzato, che richiederebbe procedure quasi impercorribili nell’attuale panorama politico, bensì di far leva sul senso di giustizia e sulla sua effettività, nel solco che la nostra Carta indica per dare significato e ragione a ogni pena. Occorre, quindi, mettere in campo sin da ora una sensibilità che aiuti ad avviare un percorso virtuoso, nella consapevolezza delle molteplici finalità del non rientro di coloro che sono stati positivamente fuori in questo periodo: non aggravare l’affollamento negli istituti, prendere atto di come la realtà vissuta possa essere di per sé elemento valutativo per un beneficio e, inoltre, essere di riconoscimento e stimolo per tutti quei detenuti che ogni giorno fanno un passo nel difficile cammino del reinserimento nella società. *Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Taser in carcere, Cartabia: “Limiti alla sperimentazione” di Valentina Stella Il Dubbio, 8 aprile 2022 Gli istituti penitenziari al centro del question time di ieri: “Il sovraffollamento è ancora un grave problema”. La ministra difende Renoldi: “Magistrato di lunga esperienza”. Ieri il carcere è stato al centro di quattro interrogazioni parlamentari alle quali la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha risposto durante il question time al Senato. La prima: i senatori di FdI Balboni e Ciriani hanno chiesto perché sia stato scelto come capo del Dap Renoldi e non un appartenente alla Polizia penitenziaria. La Guardasigilli è stata chiara: la norma non prevede di poter selezionare tra gli agenti penitenziari, bensì solo tra “tra magistrati di Cassazione con funzioni direttive superiori ovvero tra dirigenti di livello dirigenziale generale dell’amministrazione penitenziaria”. Di Renoldi ha ricordato il curriculum professionale: lunga esperienza (10 anni) come magistrato di sorveglianza, servizio prestato al ministero per affrontare l’emergenza del sovraffollamento carcerario all’epoca della condanna dell’Italia da parte della Cedu nel caso Torreggiani (2013), funzioni ricoperte negli ultimi sei anni nella prima sezione penale della Cassazione, che si occupa anche di esecuzione della pena, anche per reati gravissimi, inclusa la criminalità organizzata. La seconda è stata posta dal Partito democratico, in particolare dal senatore Mirabelli, sui temi delle licenze premio, liberazione anticipata, comunicazione telematiche dei detenuti. La ministra, nel ricordare a tutti che “il perdurante problema del sovraffollamento è ancora allarmante in Italia”, non ha escluso la possibilità che alcuni dei benefici adottati durante la pandemia - ad esempio licenze premio straordinarie per i semiliberi e permessi premio straordinari per i detenuti già ammessi al lavoro esterno - possano essere estesi, anche a fine pandemia, nella convinzione che “migliori condizioni del carcere portano beneficio a tutti, indiscutibilmente”. Invece, quanto alla possibilità di intervenire sulla liberazione anticipata, “innalzando la detrazione di pena per i detenuti che negli ultimi due anni abbiano dato prova di piena partecipazione all’opera di rieducazione, si tratta di un profilo su cui occorre certamente riflettere, anche tenendo conto che la pandemia ha conferito “maggiore afflittività” - se così può dirsi - alla pena carceraria”. Infine, “con riguardo alle “nuove” forme di comunicazioni telematiche implementate nel periodo pandemico, esse, a detta di tutti, hanno dato un grande sollievo alle tensioni in carcere, non v’è dunque ragione per non estenderne il mantenimento anche a cessata emergenza pandemica, parallelamente, in aggiunta al ripristino dei colloqui e delle lezioni in presenza, che peraltro sono ormai riattivati nella quasi totalità delle sedi penitenziarie”. La terza interrogazione è stata posta dal senatore leghista Pillon che ha chiesto alla ministra se non ritenga necessario dotare anche la polizia penitenziaria dei taser. “Gli operatori di polizia penitenziaria - ha ricordato Cartabia - hanno in dotazione un’arma, ma non possono mai entrare nelle sezioni. Le armi in carcere non entrano perché ogni arma che entra è un elemento di pericolo in più per tutti. Esistono invece gli interventi con armamenti speciali di reparto, come caschi protettivi e maschere antigas, che vengono utilizzati solo in casi di eventi critici, con autorizzazione specifica del direttore della struttura in casi eccezionali. L’eventuale sperimentazione dovrebbe rientrare in questo secondo gruppo, cioè degli strumenti a disposizione del reparto solo in caso di eventi critici, perché bisogna tenere conto che garantire la sicurezza in carcere è compito ben più delicato del già difficile compito che spetta alle forze di polizia all’esterno”. Infine la quarta sollevata, tra gli altri, dalla senatrice Unterberger del Gruppo per le autonomie, che ha chiesto lumi sul nuovo carcere di Bolzano. La situazione è complessa e in stasi, ha concluso la Guardasigilli: l’idea del nuovo penitenziario a Bolzano da 250 posti “risale al vecchio piano carceri del 2010. Sono stati svolti importanti passi, tra cui l’aggiudicazione della gara, ora c’è una situazione di stallo, la procedura è sospesa per un necessario chiarimento sul finanziamento dell’operazione di partenariato pubblico-privato”. Detenuti anziani, tanti suicidi e sovraffollamento: lo sconfortante ritratto delle carceri italiane di Federica Olivo huffingtonpost.it, 8 aprile 2022 Rapporto Space del Consiglio d’Europa. Nonostante la pandemia ancora troppi detenuti rispetto ai posti. Giuliano Amato: “Sovraffollamento misura di tutti i problemi, la Corte potrebbe rioccuparsene”. Antigone sui suicidi: “Sconfitta istituzionale”. Se si esclude il piccolissimo Liechtenstein, nessun Paese membro Consiglio d’Europa ha tanti detenuti in là con gli anni quanto l’Italia. Nel nostro Paese, infatti, oltre un recluso su 4 (il 26,7) ha più di 50 anni. E ciò si traduce con l’elevata presenza di detenuti anziani - molto più che cinquantenni - spesso malati, nelle celle delle carceri nostrane. È uno dei dati più rilevanti del rapporto Space, nel quale il Consiglio d’Europa analizza ogni anno la situazione delle prigioni dei suoi Paesi membri. C’è anche la Russia, perché i dati sono aggiornati a fine gennaio 2021, quando ancora non era stata espulsa. Il nostro paese è tra i primi posti anche per quanto riguarda il sovraffollamento. E per i suicidi in cella. Per avere un termine di paragone sui detenuti over 50, basti pensare che la Francia - che ha sui penitenziari problemi simili ai nostri - ha il 12,7% dei reclusi che hanno superato il mezzo secolo di vita. La Finlandia, Paese virtuoso, ne ha il 14,5%. E la Turchia, dove però l’età media è molto più bassa, il 12,5%. I numeri si traducono in storie. E quelle dei detenuti molto anziani (anche over 80) sono tante. Si tratta spesso di persone che, per questioni di salute, dovrebbero scontare quel che resta della pena lontane dai penitenziari. E invece restano in prigione. È il caso, ad esempio, di quello che fino a pochi mesi fa è stato il detenuto più anziano d’Italia: Carmine Montescuro, già boss napoletano, che è stato scarcerato a febbraio. Aveva 88 anni e 17 patologie, ma incredibilmente le porte del carcere per lui ancora non si erano aperte. La sua storia è nota, l’ha raccontata Il Riformista, tante altre restano nell’ombra. A un gran numero di over 50 corrisponde un’elevata età media: nelle prigioni italiane è di 42 anni. Fanno peggio solo la Georgia, con 44, e il Liechtenstein, con 43,5. Sempre per allargare lo sguardo e dare un termine di paragone, in Francia l’età media è di 34,6 anni, in Finlandia 37,3. In Turchia 36. Il sovraffollamento resta un grosso problema. Perché la mancanza di spazio, quando si è reclusi, si traduce in mancanza di diritti. Per quanto la popolazione penitenziaria sia diminuita - in Italia come nel resto dei Paesi membri - nelle prigioni nostrane ci sono più detenuti che posti. Con un tasso di affollamento che si attesta intorno al 105,5%. I detenuti in totale sono poco meno di 54mila. Prima dell’arrivo del Covid superavano i 60mila. La situazione, dunque, è meno drammatica, ma resta complicata. E, soprattutto, irrisolta. Peggio dell’Italia su questo aspetto ci sono solo Romania, Grecia, Cipro, Belgio e Turchia. Sul tema è intervenuto anche Giuliano Amato, presidente della Corte costituzionale. Rispondendo a una domanda di HuffPost, durante la conferenza stampa successiva alla lettura della relazione sul 2021, ha detto: “Il sovraffollamento è la questione pregiudiziale di un tema difficile, il misuratore di tutti i problemi delle carceri. La Corte se ne è occupata in passato e aveva detto ‘questo problema va risolto, altrimenti dobbiamo risolverlo noi. Può darsi che la questione torni davanti alla Corte. E mi fermo qua”. Lasciando intendere che la Consulta potrebbe, secondo le sue prerogative, intervenire sulla costituzionalità di qualche norma che non impedisce il sovraffollamento. L’altro dato rilevante, nonché il più drammatico, riguarda i suicidi. Nel 2020 l’Italia era al decimo posto per le persone che si sono tolte la vita nei penitenziari. Non è andata meglio nel 2021, quando i detenuti che si sono suicidati sono stati 61. E non sta andando meglio - come HuffPost aveva già raccontato - quest’anno. Dall’inizio del 2022, infatti, secondo i dati di Antigone si sono tolti la vita già 17 reclusi. “Questi numeri ci suggeriscono alcune riflessioni: ogni suicidio è una scelta personale che non va standardizzata né bisogna andare alla ricerca forzata di capri espiatori. Ma ogni suicidio è anche una sconfitta istituzionale in quanto non ci si è resi conto della disperazione di quella persona”, osserva Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Che aggiunge: “I numeri della popolazione detenuta sono tali che il personale non sempre riesce a intercettare quel bisogno di aiuto”. Come provare a fare in modo che questi drammi si riducano? “Qualora dovessimo indicare una azione immediata per la prevenzione dei suicidi suggeriremmo una estensione della possibilità di telefonare ai propri cari. Oggi la corrispondenza telefonica è troppo ristretta anche rispetto ad altri paesi europei. Qualora a un detenuto vengano in mente pensieri suicidari forse potrebbe scacciarli con una telefonata a una persona cara”, conclude Gonnella. Per tornare alle cifre, il tasso di suicidi nel 2020 in Italia è stato pari a 11,4 per ogni 10mila detenuti. Il Paese con il tasso più alto è la Francia (27,9), seguita da Lettonia (19,7), Portogallo (18,4), Lussemburgo (18), Belgio (15,4), Spagna-Catalogna (14), Lituania (13,2), Estonia (12,8) e Olanda (12,7). Fa riflettere anche il numero - coerente con gli anni precedenti - di detenuti in attesa di sentenza definitiva. Sono il 31%. Uno su tre. Presunti innocenti, ma in cella. Nonostante, come ha ripetuto anche il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, la detenzione cautelare debba essere considerata una extrema ratio. Anche a questo problema Amato ha fatto un riferimento, rispondendo ad Huffpost: “Sappiamo che un numero elevatissimo di carcerati è costituito dalle persone in attesa di giudizio e quindi il tema è quanto durano questi giudizi, quanto tempo ci vuole per liberarsi del carico. Poi ci sono altre questioni che riguardano la tipologia dei fatti punti con pena detentiva o altre formule”. Colpisce, ma anche in questo caso purtroppo non è una novità, il numero dei bambini che sono in carcere con le loro mamme. In Italia al 31 gennaio 2021 erano 29, uno dei dati più alti della tabella. Per trovare numeri più alti bisogna guardare alla Polonia, dove sono 53, alla Russia, dove invece sono 330. E alla Turchia, dove addirittura sono 397. Infanzie negate, a Roma, come a Varsavia, a Mosca o ad Ankara. “Troppi suicidi nei penitenziari, si muore in carcere e di carcere” askanews.it, 8 aprile 2022 La denuncia di Dal Mas (FI): “Solo nel 2022 18 vittime tra i detenuti, oltre a tre agenti della Polizia penitenziaria”. “Un drammatico stillicidio. Solo nel 2022 sono 18 i suicidi tra i detenuti, a cui si aggiungono tre eventi suicidari tra agenti della Polizia penitenziaria, l’ultimo neanche dieci giorni fa a Milazzo. Dopo la lieve tregua del 2021 - 132 suicidi tra i ristretti e 6 tra gli agenti - dovuta alla concessione dei domiciliari a una quota di detenuti a causa del Covid, siamo drammaticamente tornati ai livelli pre-pandemia. E al dato degli eventi suicidari portati a compimento vano aggiunti gli oltre mille tentati suicidi e i casi che non vengono comunicati”. Lo scrive in una nota Franco Dal Mas, senatore di Forza Italia e componente della commissione Giustizia. “Numeri allarmanti - sottolinea - che danno la misura di quanto in Italia si sia lontani dalla funzione riparatrice e ricostruttiva della detenzione, così come riaffermato dai lavori della commissione Ruotolo. Funzioni che non possono essere assolte quando la popolazione carceraria è ben superiore alla capienza massima degli istituti: a fronte di 50.853 posti, senza tener conto delle sezioni chiuse per lavori di adeguamento, sono circa 54.600 i detenuti, di cui quasi 9mila in attesa di primo giudizio e circa 7500 con sentenza di condanna non definitiva. Ciò a dire - aggiunge il senatore azzurro - che circa il 30 per cento della popolazione carceraria non ha la certezza di dover scontare una condanna. Poche carceri, e per di più in condizioni pessime, troppi detenuti, pochi agenti di polizia penitenziaria, costretti a lavorare in condizioni a dir poco precarie: fattori che danno la dolorosa somma dei suicidi in carcere, sui cui c’è stata la condanna, questa sì definitiva, da parte del Consiglio d’Europa, riferita a dati del 2020. Numeri che, purtroppo, non accennano a diminuire e non lo faranno se non interveniamo subito con misure efficaci e tempestive”, conclude Dal Mas. “Hai la SLA? Chissenefrega, resta in cella e aspetta la sentenza” di Valentina Ascione Il Riformista, 8 aprile 2022 Condannato in primo grado per estorsione (non per strage...) non ha più nessuna autonomia e gli restano pochi anni di vita. Tenuto chiuso in cella, mentre anche il suo corpo sta diventando una prigione. Accade ad Alessandria, casa circondariale Don Soria. Maximiliano Cinieri, 45 anni, ex allenatore di squadre dilettantistiche di calcio, non può più correre, ma cammina con difficoltà nei corridoi del carcere aggrappato alle stampelle o sulla sedia a rotelle. Sclerosi laterale amiotrofica: è questa la diagnosi, terribile, che si è visto mettere nero su bianco dai medici lo scorso dicembre, anche se i sintomi della malattia erano comparsi circa un anno prima, scrive il quotidiano Repubblica che ha raccontato la sua storia. In custodia cautelare da aprile del 2021, scarcerato e poi nuovamente recluso ad agosto, Cinieri è accusato di estorsione con una condanna in primo grado. Ma sul suo capo pende una condanna peggiore, senza appello: una “sicura condanna a morte”, secondo il dottor Gianluca Novellone, perito di parte incaricato dal detenuto. La sua malattia infatti, “degenerativa del I e II motoneurone di tipo midollare e bulbare”, “nella maggior parte dei casi progredisce fino alla morte dopo 3-5 anni dall’esordio”, si legge nell’ennesima istanza di scarcerazione presentata lunedì scorso al Tribunale di Asti dall’avvocato Andrea Furlanetto e che potrebbe essere esaminata oggi o domani. “Ne ho già presentate una decina: tutte respinte. Ma per Cinieri potersi curare fuori dal carcere significa guadagnare aspettativa di vita”, spiega il legale raggiunto al telefono dal Riformista. “Le sue condizioni si sono aggravate in fretta negli ultimi mesi. Non riesce più a deglutire bene, assume liquidi solo in forma di gel, ha difficoltà a muoversi e deve farsi aiutare da un piantone, o da un altro detenuto che gli è stato affiancato”. Un quadro confermato da chi ha potuto incontrare l’uomo in carcere. “La malattia ha già toccato anche la parola”, riferisce Perla Allegri, attivista di Antigone. Alice Bonivardi, garante dei detenuti, ha incontrato l’uomo la prima volta a novembre, da allora ha avuto con lui diversi colloqui, l’ultimo tre settimane fa. “La situazione è apparsa subito drammatica - dice al Riformista - ma ora si è ulteriormente complicata. Maximiliano è entrato in carcere da persona assolutamente autonoma, dover chiedere aiuto a un estraneo per le cose quotidiane è difficile anche dal punto di vista psicologico. Io sono in contatto con la figlia, la famiglia è molto preoccupata. E poi in prigione ci sono problemi interni, di gestione sanitaria”. A sottolineare i problemi di gestione è anche il medico del carcere, dottor Roberto Carbone, che nell’ultima relazione presentata il 28 marzo scorso ha confermato uno stato di “grave infermità fisica” dell’uomo e affermato che “il carcere non è la collocazione idonea per un detenuto con le sue caratteristiche cliniche”, “la gestione di carceraria metterebbe in grossa difficoltà tutta l’area sanitaria e il nucleo traduzioni”, “non solo per la Sla ma anche per tutte le altre patologie di cui il Cinieri risulta affetto”. E cioè: diabete, cardiopatia ischemica, ipertensione arteriosa, si legge nella relazione. Condizioni incompatibili con il regime carcerario anche secondo il direttore della Neurologia dell’Ospedale civile di Alessandria, Luigi Ruiz. Di diverso avviso però il perito del gip, che ha definito le condizioni di Cinieri compatibili con il carcere, così il giudice Giorgio Morando ha rigettato la richiesta dell’avvocato Furlanetto dei domiciliari con il braccialetto elettronico. La motivazione del rigetto è il pericolo di reiterazione del reato. “Ma è uomo che non è in grado di allacciarsi da solo le scarpe, stanno togliendo a mio padre ogni dignità”, aveva denunciato ai giornali la figlia Valeria. “Ma è giustificabile tutta questa disumanità? Se fosse a casa ce ne occuperemmo noi, potremmo nutrirlo e curarlo a dovere, anche con cure sperimentali e la fisioterapia necessaria per consentirgli di mantenere un po’ piu’ a lungo le funzionalità. Cose che in carcere non vengono fatte”. La riforma del Csm si sblocca, tra pm e giudice un solo passaggio nella carriera di Liana Milella La Repubblica, 8 aprile 2022 Ferri sbatte la porta in faccia e minaccia di non ritirare gli emendamenti di Italia viva. La legge elettorale potrebbe essere quella indicata dalla Lega, il sorteggio dei collegi in chiave anti correnti. Resta l’illecito disciplinare per chi viola la presunzione d’innocenza. E si chiudono, quasi del tutto, anche le “porte girevoli” tra giudice e pubblico ministero. Per dirla tecnicamente, le funzioni di pm e di giudice saranno decisamente distanti. Si potrà passare solo una volta - anziché le quattro di oggi - da una funzione all’altra. Non è la separazione delle carriere, chiesta dal centrodestra, ma poco ci manca. E manca ancora un solo dettaglio per chiudere l’accordo nella maggioranza, stabilire se l’unico passaggio rimasto si potrà fare subito (lo vuole Costa di Azione), oppure nei primi dieci anni (il Pd), o ancora, come mette sul tavolo il M5S, debba essere una sorta di “gettone” da poter spendere lungo l’intera vita professionale della toga. Certo non è per niente una soluzione che piacerà ai giudici, sulla quale sono intenzionati a dare battaglia. Il tavolo della giustizia potrebbe chiudersi oggi. E il bottino, tra politica e magistratura, potrebbe attestarsi sul fifty-fifty. L’ultima parola potrebbe essere messa in giornata, con il sesto vertice tra la ministra Cartabia e i partiti della maggioranza. A partire dalle 10 alla Camera. A parte Cosimo Maria Ferri che, a nome di Italia viva, ieri se n’è andato via dalla riunione sbattendo la porta e minacciando di spaccare la maggioranza, gli altri sono d’accordo ad andare avanti. Ma Ferri punta i piedi: “Noi non ritiriamo i nostri emendamenti, anzi vogliamo che siano votati in commissione” ha detto andando via. Ma se oggi cade l’ultimo tabu - la legge elettorale per eleggere a luglio, i togati del Csm - la legge va in commissione per un rush da lunedì prossimo, e il 19 è in aula, come da programma. La maggioranza - tranne Iv - ieri ha sottoscritto un patto sugli emendamenti, e cioè che non si votano se non è stato raggiunto un accordo preventivo. E anche sulla legge elettorale potrebbe vincere la proposta di Giulia Bongiorno, la responsabile Giustizia della Lega, che ipotizza “il sorteggio dei collegi”, un meccanismo complesso per rendere impossibili gli accordi delle correnti. La legge, assai complicata tecnicamente, prevede sei colleghi nazionali i cui concorrenti sarebbero una parte fissa, e l’altra raggiunta all’ultimo momento scegliendo tra piccoli e piccolissimi collegi., accoppiando con sorteggio i piccoli collegi al premio sei grandi individuata. E qui scatta un piccolo “mercato” degli emendamenti. Il gruppo che ottiene un suo progetto, è disposto a cedere su un altro. Costa, per esempio, in cambio dell’effettiva separazione delle funzioni e della garanzia che non si tornerà indietro sulla presunzione d’innocenza, ha deciso di mantenere l’illecito disciplinare in caso di violazione, accetta di soprassedere sulla responsabilità civile diretta dei magistrati. Anche sulle “porte girevoli” l’intesa è chiusa. Come chiedeva il Pd, gli amministratori locali che restano in carica solo un anno, potranno tornare in carriera. Anche i capi di gabinetto rimettono la toga se il loro incarico è durato meno di un anno. Cartabia ieri, alla fine del vertice, si è limitata a dire “stiamo andando avanti”. Ma ormai il compromesso nella maggioranza sembra decollato. Mentre i magistrati s’interrogano sui punti negativi, dal “fascicolo” del giudice, al sostanziale blocco delle carriere, all’ingessature delle carriere di pm e di giudice. I togati di “Articolo 101” a Cartabia: “La riforma è incostituzionale” di Errico Novi Il Dubbio, 8 aprile 2022 A denunciarlo sono i magistrati Giuliano Castiglia, Stefania Di Rienzo, Ida Moretti e Andrea Reale, ricevuti ieri dalla ministra della Giustizia. “Forti perplessità sul contenuto delle proposte emendative del Governo”, “radicale contrarietà ad alcuni specifici contenuti e molteplici profili di incostituzionalità che contrassegnano la nuova normativa, in particolare in relazione all’art. 107 della Costituzione”. A denunciarlo sono gli esponenti di Articolo 101 al comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati, Giuliano Castiglia, Stefania Di Rienzo, Ida Moretti e Andrea Reale, ricevuti ieri dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, per discutere delle riforme dell’ordinamento giudiziario e del Csm, alla quale, ringraziandola per l’incontro, hanno fatto presente che “di fronte a queste riforme, la magistratura associata non potrà restare indifferente e dovrà assumere adeguate iniziative di denuncia e di contrasto delle gravi conseguenze che esse avranno sul servizio giustizia e sui cittadini”. “Abbiamo evidenziato come, piuttosto che realizzare i dichiarati obiettivi di contrastare il correntismo e di accrescere l’indipendenza interna dei magistrati, la riforma accentua la verticalizzazione e la burocratizzazione della magistratura ed alimenta il conformismo dei magistrati, rischiando di compromettere ulteriormente l’indipendente esercizio della giurisdizione”, riferiscono i magistrati, ricordando di essersi soffermati in particolare “sui temi del trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale e funzionale, dei carichi esigibili, delle cosiddette pagelle, della tenuta dei provvedimenti e dell’esito delle richieste, evidenziando che la linea generale nella quale si muove la riforma altera la natura stessa della giurisdizione, portando i magistrati a concentrarsi non sui casi di volta in volta sottoposti al loro esame ma sugli effetti delle decisioni rispetto alla propria e alle altrui carriere”. Nell’incontro è stata affrontata la questione del sistema elettorale, “evidenziando che la riforma non affronta i problemi che avrebbe dovuto risolvere e comporterà il rafforzamento dei gruppi maggioritari”. Da parte della ministra, riferiscono ancora i magistrati, “abbiamo registrato ampia apertura sulle questioni del trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale e dei carichi esigibili, le cui modifiche in peius presenti nel maxiemendamento avevamo denunciato e portato all’attenzione dei colleghi e del dibattito associativo. Confidiamo, quindi, sulla concreta possibilità che questi istituti non saranno modificati”. “Restano le divergenze sugli altri temi e sull’impianto generale della riforma. In particolare - ricordano - le novità in materia elettorale non intaccano in alcun modo il controllo del Csm da parte delle correnti, lasciando perdurare il contrasto con la Costituzione che vorrebbe i componenti togati “eletti da tutti i magistrati”, mentre oggi sono designati dagli apparati correntizi, e che vorrebbe tali componenti rappresentativi delle “varie categorie” dei magistrati, mentre oggi sono rappresentanti delle correnti che li hanno designati”. Inoltre, concludono le toghe di Articolo 101, “nonostante le rassicurazioni sull’inesistenza di spinte verso il conformismo giudiziario e di qualsiasi intento punitivo, il complessivo disegno riformatore appare oggettivamente improntato a un progressivo ridimensionamento di quelle prerogative dei magistrati che, Costituzione alla mano, costituiscono condizione essenziale per l’effettività dei diritti e dello stato di diritto”. Riforma della giustizia: le barricate delle toghe di Tiziana Maiolo Il Riformista, 8 aprile 2022 Le sabbie mobili: la ministra Cartabia costretta a un corpo a corpo quotidiano con i rappresentanti dei gruppi, i pm non vogliono rinunciare ai loro privilegi. L’emendamento Costa potrebbe cambiare le carte. Forse ritengono di essere dei missionari baciati dalla fortuna e non dei professionisti da valutare per le capacità, tutti questi magistrati che, a partire da quelli del sindacato (Anm) fino a quelli dell’aristocrazia del Csm, rifiutano di essere giudicati. Vogliono continuare a essere promossi almeno nella misura del 99%. Vogliono decidere sulla vita degli altri, ma nessuno può valutare la loro. Sono tutti quelli che non vogliono mai cambiamenti, perché godono di privilegi per loro irrinunciabili, e soprattutto non vogliono che nessuno possa giudicare il loro lavoro. Se fai un blitz con 300 arresti e il tribunale del riesame ne boccia la metà, devi essere promosso lo stesso. Se continui a far arrestare persone che poi vengono assolte, la tua progressione in carriera è ugualmente assicurata, come è successo ai persecutori di Enzo Tortora. Questa è la situazione oggi. Ma qualcosa ora cambierà, grazie a un emendamento alla riforma dell’ordinamento giudiziario del deputato Enrico Costa, che ha raccolto il consenso del ministro Guardasigilli e di tutti i partiti. Pur in una situazione surreale nella Commissione giustizia della Camera dei deputati che dovrebbe licenziare la riforma, e non ci riesce. Con la ministra Cartabia costretta a un corpo a corpo quotidiano con i rappresentanti dei gruppi, alcuni dei quali vorrebbero una vera riforma priva dei condizionamenti della casta togata. Con il Presidente del Consiglio Draghi costretto a fare “giurin giuretta” e a impegnarsi a non chiedere la fiducia sul provvedimento. Con i senatori sconcertati perché viene loro chiesto di trasformarsi in passacarte dei deputati e di ingoiare norme preconfezionate senza osare mai di apporre modifiche. Con tutto questo, che sa di sconfitta per chi nella possibilità di cambiamento crede davvero, anche nel momento in cui la giustizia e la stessa magistratura godono dei minimi storici nell’apprezzamento dei cittadini, ecco spuntare all’orizzonte qualcosa di positivo. Il fascicolo del magistrato. Accade qualcosa di straordinario, di rivoluzionario. Prima di tutto perché si è trovato un accordo tra il governo e tutti i partiti. Poi perché il subbuglio che si sta creando nel mondo delle toghe, sia in quello organizzato del sindacato e del Csm, sia nella spontaneità della base, pare non scalfire le intese raggiunte in sede politica. La carriera prima di tutto. Guai a toccare quella dei magistrati. Basta ricordare il prezzo salatissimo che sta pagando ancora oggi Matteo Renzi da quando, da Presidente del consiglio, aveva osato intervenire sulla lunghezza delle ferie delle toghe e da quando, di fronte alle loro proteste, aveva esclamato quel “brr che paura”, un’ironia che gli è costata cara. Per non parlare di Silvio Berlusconi, da sempre sostenitore della separazione delle carriere, o almeno delle funzioni, tra giudici e pubblici ministeri. Un tema che è oggetto dei referendum indetti da radicali e Lega, ma anche di timide proposte di riforma in Parlamento. Quanti passaggi può fare nel corso della sua carriera l’avvocato dell’accusa verso lo scranno del giudice? Non c’è accordo. E poi, quale sorte deve avere nel suo futuro la toga che è stata prestata alla politica? Può tornare indietro, a giudicare in modo imparziale, dopo aver indossato la veste del politico? Bisognerebbe almeno evitare il ripetersi dei casi come quello di Augusto Minzolini, oggi direttore del Giornale, che si ritrovò a essere giudicato in tribunale da un ex avversario politico del Senato. E ancora -indovinello degli indovinelli- quale sistema elettorale per il Csm dopo gli scandali correntizi denunciati da Luca Palamara? In linea teorica l’ipotesi del sorteggio (che comunque la ministra Cartabia, che ne ha pieno titolo, ritiene incostituzionale) non è una trovata brillante. Ma in questa fase di transizione, e con il rinnovo del Csm previsto per il prossimo luglio, è l’unica soluzione, nella sua forma “temperata”, come pensata dai partiti che la sostengono. È un gioco al ribasso, certo, ma adeguato ai tempi. Se il sorteggio non garantisce vere selezioni sulla base di meriti e capacità, a questo provvederà l’istituzione del “fascicolo del magistrato”, utile per il futuro anche per valutare al meglio i giudici e i pubblici ministeri più adatti per gli incarichi direttivi. La ribellione in atto tra le toghe fa pensare un po’ alla classe degli asini, come se nessuno volesse andare alla lavagna a mostrare quel che sa perché non ha studiato. Poiché questo in gran parte non è vero, perché sono tantissimi i magistrati preparati ed efficienti, quale è quindi il timore? La carriera, che vuol dire anche progressioni di stipendio e di pensione. Altro che missionari! Il fascicolo sarà una fotografia della carriera del magistrato. Aiuterà a distinguere quelli bravi dagli asini. Un po’ come quella che accompagna tutto il percorso lavorativo di un manager o un professionista. E dovrebbe essere nell’interesse di ogni singolo operatore di giustizia il fatto di essere giudicati per quel che si è fatto e quel che si sa fare invece che fare sempre la parte dei raccomandati dalla propria corrente di appartenenza politica. Non è umiliante vedere ogni anno quel 99% di promossi nel giudizio dei consigli giudiziari? Dovrebbero avere un po’ più di pudore, i vertici della Anm, quando dichiarano che, come ha detto il presidente Giuseppe Santalucia, “le votazioni producono inevitabilmente un’ansia competitiva”. Come se i magistrati fossero bambini da proteggere o persone fragili da assistere. Perché non reggono le obiezioni del Csm alla riforma della giustizia di Giacinto della Cananea Il Foglio, 8 aprile 2022 I magistrati faticano ad accettare che qualcuno li giudichi. Perchè le valutazioni fatte dagli avvocati non sono un problema. In ogni democrazia liberale, il miglioramento dell’offerta di giustizia e un più armonico rapporto tra l’indipendenza della magistratura e la sua accountability sono obiettivi da perseguire. In Italia, essi sono vieppiù importanti, in ragione delle antiche tare che si riscontrano nell’amministrazione della giustizia e della persistente ritrosia d’una parte della magistratura ad accettare un’obiettiva valutazione dei propri membri. Ne costituisce un’eloquente dimostrazione il parere formulato nei giorni scorsi dal Csm sugli emendamenti apportati dal governo al disegno di legge sulla riforma dell’ordinamento giudiziario. L’intento del governo era duplice: migliorare la trasparenza e l’efficacia e permettere a tutti i componenti del consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari - quindi anche agli avvocati - di partecipare alle valutazioni di professionalità dei magistrati. Si tratta d’una riforma limitata rispetto alla proposta referendaria che la Corte costituzionale ha recentemente giudicato ammissibile nella sentenza n. 59/2022, perché quest’ultima comporta che partecipino alle valutazioni anche i professori universitari che fanno parte dei consigli giudiziari. Tuttavia, per il Csm nemmeno questa previsione è condivisibile per due motivi: perché la circostanza che l’avvocato continui a svolgere l’attività forense nello stesso distretto del magistrato “può tradursi in un fattore incidente sul sereno svolgimento delle funzioni giudiziarie”; perché i componenti laici del Csm non possono esercitare la professione legale durante il mandato. Nessuna di queste obiezioni regge - però - a un’accurata disamina: non la prima, perché le valutazioni sulla professionalità dei magistrati verrebbero espresse non dal singolo avvocato, bensì in modo unitario, nel caso in cui il consiglio dell’ordine abbia effettuato delle segnalazioni su un magistrato; non la seconda, che è viziata da un’indebita equiparazione tra il fare parte di uno specifico consiglio giudiziario e del Csm, il cui ambito di competenza riguarda l’intera magistratura. È evidente l’estrema debolezza dell’assunto su cui il parere del Csm si fonda, cioè che solo i magistrati possono valutare i propri colleghi. L’esistenza, anziché di una sola, di due o più professionalità assicura dialettica nella valutazione, permette un più obiettivo riscontro dell’adeguatezza delle azioni e delle inazioni dei singoli magistrati. Inoltre, consentire agli avvocati di partecipare a tali valutazioni serve a evitare la sovrapposizione tra controllati e controllori. Non a caso, attualmente gli esiti delle valutazioni effettuate sono pressoché sempre positivi. Il luogo comune coltivato dal Csm, secondo cui qualsiasi giudizio esterno metterebbe a rischio il buon esercizio delle funzioni giudiziarie, è quindi smentito. L’auspicio è che il governo e il Parlamento proseguano, con determinazione, sulla via della riforma della giustizia di cui l’Italia ha bisogno. Il Parlamento e la Corte costituzionale: un dialogo (troppo spesso) tra sordi di Giovanni Guzzetta Il Dubbio, 8 aprile 2022 La relazione annuale del presidente della Corte costituzionale, nella quale viene presentato il bilancio dell’attività della Consulta nell’anno precedente, è un momento di straordinaria importanza nella vita dell’ordinamento costituzionale. Non solo per il ruolo che questo organo riveste nell’architettura del nostro sistema politico- istituzionale, ma anche perché, offrendo un quadro di insieme della giurisprudenza, consente di mettere in evidenza tendenze e problematiche che compongono, in un mosaico complessivo, l’insieme delle singole decisioni assunte durante l’anno. La questione non interessa solo gli addetti ai lavori, ma si proietta sia sul rapporto tra i cittadini e le istituzioni sia sui rapporti tra Corte costituzionale e altre istituzioni, giurisdizionali (le Corti sovranazionali, ad esempio) e politico- amministrative. La vastità delle questioni non può essere riassunta in una breve riflessione. Anche perché la relazione del Presidente è essa stessa già una sintesi ragionata di un’analisi ben più ampia racchiusa nello studio redatto dall’Ufficio studi della Corte costituzionale. Alcune considerazioni, a mo’ di schizzo, sembrano comunque opportune. La prima riguarda i dati quantitativi. L’attività della Corte subisce da alcuni anni una decrescita, in termini di pronunzie, confermata anche quest’anno, nel quale, come ha ricordato il presidente Amato, ha sicuramente inciso l’effetto della pandemia, che negli anni scorsi ha rallentato anche l’attività dei giudici comuni, i quali rimangono i principali “fornitori” di questioni costituzionali alla Corte. Nell’ambito delle pronunzie, un dato da sottolineare è la relativa esiguità delle questioni che riguardano i conflitti tra i poteri dello Stato (solo 12 decisioni su 263), questioni cioè che definiscono l’equilibrio tra i vari poteri pubblici. Si potrebbe dire che questo sia un buon segno e che, tutto sommato, tra le nostre istituzioni regni armonia. In realtà forse non sempre è esattamente così. Un fronte molto interessante, da questo punto di vista, riguarda i conflitti interni agli organi parlamentari. Solo da pochissimi anni la Corte ha riconosciuto, almeno in astratto, l’ammissibilità di un suo sindacato sulla vita interna alle Camere, sulle quali, in precedenza, regnava il dogma dell’insindacabilità dei cosiddetti interna corporis, retaggio di un’idea di impenetrabilità dei rapporti e dei procedimenti che si svolgono al cuore della vita politica. Una deferenza venuta progressivamente meno, sulle orme di altre esperienze costituzionali ben più consolidate, come quella tedesca, anche per il clamore che alcune vicende hanno determinato e la consapevolezza che, in un sistema politico oggi meno consociativo e più competitivo, il rispetto delle procedure interne alle Camere ha implicazioni importanti per la tutela delle minoranze politiche e persino dei singoli parlamentari. Tra l’altro proprio nel 2021 la Corte con la sentenza n. 207 ha pronunziato parole definitive sul principio del libero mandato parlamentare, affermando come da esso discenda che gli eventuali accordi, istruzioni e vincoli tra parlamentari e partiti o gruppi di appartenenza “non sono assistiti da alcuna garanzia giuridica, poiché la loro osservanza è rimessa alla coscienza del singolo parlamentare”. Il parlamentare, insomma, era e resta libero nell’esercizio della rappresentanza. Tornando ai conflitti interni alle Camere si deve però constatare che, a fronte della rivoluzionaria affermazione di principio contenuta nell’ordinanza 17/ 2019, la quale ha ammesso la possibilità del singolo parlamentare di ricorrere alla Corte per la tutela delle proprie prerogative costituzionali, ad oggi, nessuno dei numerosi conflitti sollevati (più di una ventina, se non andiamo errati) è stato in concreto dichiarato ammissibile dalla Corte stessa. Ciò perché non è stata mai riconosciuta dal giudice costituzionale la sussistenza di una “violazione manifesta della prerogativa” del parlamentare, condizione necessaria per avviare il sindacato. Siamo dunque nella fase del “già e non ancora”. La clausola della “violazione manifesta” lascia all’evidenza un certo margine di ponderazione alla Corte. Solo quando tale “violazione manifesta” verrà in concreto rinvenuta si potrà allora veramente capire quali siano i confini e l’impatto della rivoluzione “promessa”. Al di là del tema dei conflitti tra poteri, vi è in realtà un altro indicatore della buona o cattiva salute dei rapporti tra le istituzioni, e in particolare del rapporto tra Corte costituzionale e Parlamento. Nel modello immaginato dal costituente, infatti, tale rapporto avrebbe dovuto essere particolarmente collaborativo, in quanto sarebbe dovuto servire a stemperare la drammaticità della dialettica tra giudice delle leggi e organo rappresentativo. Non bisogna, infatti, dimenticare che il giudizio di legittimità costituzionale è, sul piano sostanziale, un giudizio sull’operato dell’organo di massima rappresentanza della sovranità popolare. Ogni sentenza che annulla una legge, in qualche modo, mette a nudo questa tensione tra istanza democratica e garanzia della Costituzione. Ebbene, su questo punto, il bilancio negli anni non è stato particolarmente felice. Il Parlamento ha spesso fatto orecchie da mercante rispetto ai moniti e alle decisioni della Corte. Mettendo anche in difficoltà lo stesso giudice delle leggi che spesso si è trovato nella condizione di accertare ipotesi di illegittimità costituzionale senza poterle però dichiarare perché l’effetto sul sistema normativo sarebbe stato dirompente o avrebbe determinato lacune ben più gravi della conservazione delle norme illegittime. È così che nel corso degli anni la giurisprudenza della Corte si è arricchita di strumenti volti a propiziare interventi del Parlamento per evitare gli esiti peggiori. Purtroppo il Parlamento spesso non è stato pronto a reagire. Basti ricordare gli esempi del cosiddetto caso Cappato o dell’ergastolo ostativo, per citare i più eclatanti. Ma la casistica è molto più ricca. Nella relazione del presidente Amato c’è un’ampia traccia di questa situazione. Innanzitutto nel mostrare tutto lo strumentario di tecniche utilizzate dalla Corte per sollecitare il Parlamento. Amato cita ben cinque diverse modalità, con differente gradiente di intensità, con cui la Corte ha modulato i propri moniti alle Camere. Nello stesso tempo, a conclusione della sua relazione, il Presidente intravede alcuni segnali confortanti indicando alcuni esempi che mostrerebbero una maggiore reattività delle Camere. Il galateo istituzionale e lo spirito di leale collaborazione hanno consentito al Presidente di valorizzare questi spunti. La realtà è che, in molti casi, si tratta di iniziative parlamentari ancora in corso delle quali non è dato sapere né quale esito avranno in termini di adeguamento alle indicazioni della Corte né se, conoscendo le straordinarie insidie del nostro procedimento legislativo, avranno mai esito alcuno. La Corte e i diritti. Amato: “Noi dobbiamo tutelare anche i criminali” di Errico Novi Il Dubbio, 8 aprile 2022 “Lo chiede al presidente della Corte o a me, al professore?”. Giuliano Amato introduce la sua conferenza stampa, il lungo dialogo in cui si intrattiene con i cronisti dopo aver presentato la Relazione annuale, con un rovesciamento di ruoli. È lui, il vertice della Consulta, che rilancia la domanda al giornalista. E che rivela così di essere sospeso fra due dimensioni: la veste di presidente della Corte costituzionale non rende giustizia alla sua pulsione per l’immediatezza. Amato sta per illustrare le cornici in cui la Carta definisce l’impegno militare dell’Italia, quando chiede appunto in quale veste deve rispondere, ma il suo tono spesso più da professore appassionato che da giudice delle leggi prevale nettamente per l’intera mattinata. E la maratona di Amato parte appunto con la Relazione sull’attività della Consulta nel 2021, esposta dinanzi al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e ad altre cariche dello Stato, tra le quali c’è naturalmente la guardasigilli Marta Cartabia. Nel report sull’anno trascorso, Amato si produce in un continuo distacco dalla formalità della versione scritta, fitta di statistiche ma troppo limitante, eccezion fatta per la lettura delle ultime due pagine, in cui il presidente della Corte si sofferma sulle “preoccupazioni per la tenuta degli ordinamenti costituzionali europei” di fronte alla guerra (aspetto sul quale trovate ampio resoconto in altra parte del giornale, ndr). Ma Amato quasi si sforza di aprirsi uno spazio sui “diritti sociali”, e in particolare su penale e carcere. Già nella Relazione cita una sentenza emessa dalla Corte nel 2021, la numero 137, relativa ai “condannati per delitti di grave allarme sociale, come mafia e terrorismo” che, “se ammessi a scontare la pena ai domiciliari anziché in carcere e bisognosi di sostegni economici, non possono essere esclusi da misure come l’assegno sociale o la pensione di invalidità”. Ricorda, il presidente Amato che, “non si può ritenere un soggetto meritevole di accedere ai domiciliari per poi privarlo dei mezzi per vivere fuori dal carcere”. Altro esempio è il “genitore condannato in passato per reati contro la persona” che “è illegittimo escludere dal diritto alla casa”, tanto più se gli è richiesto “l’onere di accudire i figli”. Dedica un ampio passaggio alla sentenza 150, relativa al carcere per i giornalisti che per la Corte è ammissibile “solo nei casi di eccezionale gravità”. E qui il vertice della Consulta si concede una più che legittima autocelebrazione: “Fortunata l’Italia che ha una Corte pronta a scrivere con successo queste cose”. Si soffermerà di nuovo sul carcere, Amato, non senza aver rilevato “i limiti che la Corte inevitabilmente incontra rispetto ad alcune lacune normative, come sulle Rems, dove sono accolti coloro dei quali si accerta, nel processo penale, una sofferenza per problemi mentali: i posti in tali strutture sono solo 600, a noi la questione è stata sottoposta da un giudice in relazione al mancato coinvolgimento del ministero della Giustizia. Ma ecco, lì abbiamo deciso di rivolgerci al legislatore perché riordinasse l’intera materia ben oltre tale difetto: non potevamo provvedere noi”. Finché, interpellato dal Dubbio sull’eterno conflitto fra garantisti e giustizialisti, Amato sembra sollevato dal poter dire cosa ne pensa: “La la questione mafia ed ergastolo ostativo: “Possiamo citare Hannah Arendt e il suo pro memoria sul diritto ad avere diritti, che appartiene a qualunque essere umano. Naturalmente serve un bilanciamento con altri interessi tutelati dalla Costituzione, a cominciare dalla sicurezza”. Bilanciamento che però non basta a placare i dissensi. “Come si chiamano quelli che si oppongono ai garantisti”, chiede Amato, “giustizialisti? Ecco, capita che le nostre decisioni possano risultare loro sgradite...”. Cita di nuovo la sentenza su assegni di pensione e invalidità che spettano anche ai detenuti di mafia (il presidente tiene a ricordare di esserne stato il relatore e di aver notato “i titoli critici di alcuni giornali”) e arriva appunto all’ordinanza 97 del 2021 sull’ergastolo: “La collaborazione con la giustizia non può essere, per chi è in regime ostativo e chiede i benefici penitenziari, l’unica prova del distacco dall’organizzazione criminale”. Certo, “piuttosto che applicare in tali casi le regole ordinarie, noi diciamo al Parlamento: stabilisci tu le norme necessarie a garantire anche la sicurezza”. Poco dopo il presidente della Corte è sollecitato sul rischio di essere additati come collusi (o quasi) a cui sono esposti coloro che invocano l’umanità della pena anche per i mafiosi, come il nuovo capo del Dap Carlo Renoldi o l’attuale presidente Anm Giuseppe Santalucia, autore, da giudice di Cassazione, dell’atto di promovimento sull’ergastolo. “Come se ne esce? Innanzitutto con uno Stato che tenga conto anche delle sensibilità più attente al rigore. In Parlamento si è detto che la legge sull’ergastolo da noi richiesta avrebbe dovuto escludere dai benefici chi è al 41 bis: ma il 41 bis si applica proprio a coloro che ancora sono ritenuti in rapporto con la mafia, dunque è di per sé preclusivo rispetto alla liberazione. Dopodiché mi chiedo: che senso ha impedire a chi è al 41 bis di cucinare? Si rafforza la lotta alla mafia, se si toglie al mafioso detenuto al 41 bis una delle poche soddisfazioni che può ancora togliersi?”. A chi è favorevole al fine pena mai, incalza Amato, “si dovrebbe chiedere se è consapevole che in tutti i Paesi la recidiva è assai superiore per coloro i quali non hanno usufruito di trattamenti rieducativi e di benefici penitenziari”. Amato di solito non passa per un cultore delle questioni penali, eppure offre una straordinaria lezione garantista. Nella sua giornata non manca il pro memoria su un 2021 in cui il Covid ha innescato sia “il processo costituzionale telematico” che le “pronunce sulle misure relative alla pandemia”. A cominciare dalla sentenza numero 37 in cui il quesito era, dice il presidente, “ma questi Dpcm sono espressione dell’esercizio improprio di una delega legislativa?”. E la risposta è stata no, com’è noto. Non mancano i dati, relativi innanzitutto al numero delle decisioni, 263 contro le 281 del 2020. Variano le statistiche sui tempi delle pronunce, ridotti per quelle assunte “in via principale”, a esempio per i conflitti fra Stato e Regioni: 351 giorni contro i 372 dell’anno prima. Di sicuro, nella giornata clou della Corte, non manca la capacità di affacciarsi su un Paese in cui, come dice Amato, “le posizioni si radicalizzano”, dalla giustizia alla guerra, ma che trova nella Consulta un punto fermo ancora più indispensabile. Stefano Cucchi, otto carabinieri condannati per depistaggi: la sentenza di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 8 aprile 2022 Otto condanne nei confronti di altrettanti carabinieri accusati di avere messo in atto depistaggi dopo la morte di Stefano Cucchi. Il giudice del tribunale monocratico ha inflitto, tra gli altri, 5 anni al generale Alessandro Casarsa e 1 anno e 3 mesi al colonnello Lorenzo Sabatino. Depistaggi del caso Cucchi, il geometra ucciso il 22 ottobre 2009: il giudice Roberto Nespeca ha condannato gli otto carabinieri che, per la Procura, dirottarono la verità sulla vicenda. Cinque anni al generale Alessandro Casarsa il più alto in grado nella scala gerarchica dell’epoca e oggi accusato di falso. Quattro anni a Francesco Cavallo, a sua volta accusato di falso. Quattro anni a Massimiliano Colombo Labriola (falso), 1 anno e 9 mesi a Francesco Di Sano (falso), 1 anno e nove mesi a Tiziano Testarmata (omessa denuncia alla autorità giudiziaria), 1 anno e tre mesi a Lorenzo Sabatino (omessa denuncia all’autorità giudiziaria) e 4 anni a Luciano Soligo (falso). Mentre a Luca De Cianni, accusato di calunnia nei confronti del collega Riccardo Casamassima, sono stati inflitti 2 anni e sei mesi. In primo grado il processo si conclude con una vittoria per gli uffici della Procura e in primis del pm Giovanni Musarò che aveva istruito approfondimenti accurati sulla vicenda. Nella sua requisitoria il magistrato aveva definito i depistaggi sul caso “ostinati e a tratti ossessivi” protratti per anni. Per l’avvocato della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, “è stato confermato che l’anima nera del caso Cucchi è il generale Casarsa”: “Il dato di verità è che tutto quello che hanno scritto su Stefano, che era tossicodipendente, anoressico, sieropositivo è falso. È il momento che si prenda le proprie responsabilità chiunque vada contro questa sentenza e quella pronunciata dalla Cassazione lunedì”. E la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi: “Non credevo ci saremmo arrivati”. Nel frattempo l’Arma aveva voluto prendere le distanze dai suoi militari infedeli con una costituzione di parte civile al processo. Mentre lunedì scorso, giorno della sentenza in Cassazione che aveva confermato le condanne nei confronti degli autori del pestaggio di Stefano Cucchi, i vertici dei carabinieri avevano espresso “profondo rammarico” alla famiglia. Una vicinanza ribadita dopo il pronunciamento: “La sentenza odierna del processo che ha visto imputati otto militari per vicende connesse con la gestione di accertamenti nell’ambito del procedimento “Cucchi-ter”, riacuisce il profondo dolore dell’Arma per la perdita di una giovane vita. Ai familiari rinnoviamo, ancora una volta, tutta la nostra vicinanza - sottolinea il Comando generale dell’Arma - La sentenza, seppur di primo grado, accerta condotte lontane dai Valori e dai principi dell’Arma”. Che ribadisce il “fermo e assoluto impegno” ad agire sempre “con rigore e trasparenza” specie nei confronti dei propri appartenenti. Secco il commento dell’avvocato Adolfo Scalfati, difensore del colonnello Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo dei carabinieri di Roma: “Non ci aspettavamo questa decisione, riteniamo che questa sentenza sia un errore giudiziario”. Nessun commento invece, dopo la sentenza, dal difensore del generale Alessandro Casarsa, l’avvocato Carlo Longari: “Casarsa ha affrontato il processo con serenità e rispetta la decisione del giudice. Le sentenze si rispettano e non si commentano. Adesso aspettiamo le motivazioni”. Caso Cucchi, uno slalom tra falsi e prove nascoste come nei grandi misteri d’Italia di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 8 aprile 2022 Una falsa verità costruita a tavolino attraverso documenti modificati ad arte, cancellati, spariti o negati, che ha resistito finché la tenacia di una famiglia mai arresa e le tecniche investigative di una Procura determinata a riaprire il caso, hanno smascherato l’imbroglio. Dopo quasi tredici anni, il bilancio giudiziario sulla morte di Stefano Cucchi conta tre assoluzioni definitive per gli agenti di custodia mandati alla sbarra nel primo processo; un’assoluzione e quattro prescrizioni (frutto di annullamenti e rinvii) per i medici e gli infermieri; due condanne definitive di altrettanti carabinieri responsabili del “violentissimo pestaggio” e altre due per falso da rivedere in un nuovo appello; otto condanne in primo grado pronunciate ieri dei militari dell’Arma (tra cui alcuni alti ufficiali) imputati per i depistaggi che hanno accompagnato tutte le indagini svolte dal 2009 in avanti. Un cammino lunghissimo e accidentato, tipico dei grandi misteri d’Italia; sentire parlare di Cucchi 1, bis e ter fa pensare ai processi Moro 1, bis e ter, a quelli sulla strage di Bologna (l’altro ieri s’è chiuso in primo grado il quater) o sulla morte di Paolo Borsellino. Proprio con la strage di via D’Amelio emerge l’ulteriore, inquietante analogia di giudizi durati anni contro persone innocenti: a Palermo si videro infliggere l’ergastolo scontando lunghissime reclusioni, a Roma almeno sono stati sempre assolti. Ma resta scolpita la definizione del “Cucchi uno” data dal pubblico ministero del bis e ter Giovanni Musarò: “Un processo kafkiano con i testimoni sul banco degli imputati e gli imputati sul banco dei testimoni”. Persino la deposizione dell’immigrato africano che riferì di aver ascoltato le percosse inflitte dagli agenti penitenziari evoca i falsi pentimenti che hanno inquinato indagini e sentenze sul delitto Borsellino. A questo erano giunti i depistaggi sanzionati con il verdetto di ieri: una falsa verità costruita a tavolino attraverso documenti modificati ad arte, cancellati, spariti o negati, che ha resistito finché la tenacia di una famiglia mai arresa e tecniche investigative degne delle più complicate inchieste antimafia adottate da una Procura determinata a riaprire un caso di fatto archiviato, hanno smascherato l’imbroglio. Arrivato fino in Parlamento, dove un ministro è stato indotto a riferire le stesse bugie. Tutto questo - ha sostenuto l’accusa - per un meccanismo di autoprotezione scattato all’interno dell’articolazione romana dei carabinieri, con lo scopo di evitare che le ombre sulla morte di Cucchi coinvolgessero una struttura già provata in quei giorni da altre vicende poco commendevoli. Tuttavia le condanne (di imputati che continuano a proclamarsi innocenti, e tali vanno considerati in attesa dei prossimi giudizi) non coinvolgono l’Arma nel suo insieme. Uguali davanti alla legge: la lezione di Stefano Cucchi di Carlo Bonini La Repubblica, 8 aprile 2022 Dopo le condanne dei carabinieri per i depistaggi. Sono stati necessari un tempo infinito, tredici anni, e un numero di processi altrettanto incongruo, quindici. Ma ora possiamo dirlo. Finalmente. Stefano Cucchi, la memoria della sua giovane vita e il dramma della sua morte violenta, possono essere consegnati al ricordo riconciliato con la verità di chi lo ha amato da vivo e di quella parte di opinione pubblica che non ha mai smesso di cercare e pretendere giustizia nei confronti di chi lo aveva ucciso. Nello spazio di pochi giorni, prima con la sentenza definitiva di condanna dei carabinieri autori del pestaggio che, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009, pose le condizioni dell’agonia e della morte di Stefano e, ieri, con la condanna in primo grado di otto, tra ufficiali e sottufficiali dell’Arma, che pervicacemente lavorarono al depistaggio della ricerca della verità, la democrazia del nostro Paese si riappropria infatti di un suo principio cardine. Quello di uguaglianza di fronte alla legge. Lo stesso di cui, nella vicenda Cucchi, era stato fatto strame. Nella cinica consapevolezza che, di fronte alla morte di un trentenne romano “tossico” e per giunta di periferia, il costo della responsabilità di quella perdita non dovesse e non potesse gravare su chi, per dovere e giuramento costituzionale, indossa una divisa a protezione della collettività. Già, Stefano Cucchi era considerato un cittadino di serie B. E come tale venne trattato dallo Stato che lo aveva preso in custodia per il possesso di una modesta quantità di hashish. Prima abbandonandolo alla condanna senza processo del pestaggio in caserma dei carabinieri che lo avevano arrestato. Quindi all’indifferenza e al cinismo della medicina riservata ai detenuti nel padiglione “protetto” (ironia degli aggettivi) dell’ospedale Pertini, dove la sua spaventosa agonia venne diagnosticata, fino alla morte, non con la dilatazione abnorme del suo globo vescicale, con la rottura delle vertebre durante il pestaggio, ma liquidata con l’atteggiamento “oppositivo” di un tossico che rifiutava il cibo. Infine, con l’oltraggio del depistaggio nella ricerca della verità orchestrato da alti ufficiali e sottufficiali dell’Arma, fino al punto di condurre le indagini sulla morte di quel ragazzo sul binario di un processo a degli innocenti (gli agenti della polizia penitenziaria che avevano avuto in custodia Cucchi nelle poche ore precedenti il suo processo per direttissima). Per troppo tempo, con la luminosa eccezione di un procuratore della Repubblica (Giuseppe Pignatone) e di un coraggioso pubblico ministero (Giovanni Musarò), lo Stato nelle sue diverse articolazioni, uomini dell’Arma dei carabinieri e la cultura omertosa che innerva storicamente gli apparati della sicurezza hanno lavorato per ostruire la ricerca della verità consegnando una famiglia mite e per bene, i Cucchi, e la forza ostinata del loro avvocato, Fabio Anselmo, in quanto colpevoli della loro resilienza, al dileggio, alla violenza psicologica e verbale di un pezzo di Paese capace di declinare la parola “diritto” solo se coniugata nell’interesse del più forte. Con la certezza dell’indicativo, negli anni, abbiamo ascoltato la tracotanza e incontinenza verbale di ministri della Repubblica (Carlo Giovanardi, Ignazio La Russa) e leader di partito ascesi ai vertici della guida del Paese e degli apparati (Matteo Salvini), financo sindacalisti di destra della Polizia, affermare ciò che oggi si rivela definitivamente falso e che falso è sempre stato soltanto per chi volesse vederlo. E con la stessa tracotanza, in questi 13 anni, non li abbiamo mai sentiti chiedere scusa. A una famiglia e al Paese. È apprezzabile e fa onore ai centomila uomini e donne che appartengono all’Arma e che ogni giorno si dimostrano fedeli al giuramento di lealtà costituzionale, che il comandante generale dei carabinieri, Teo Luzi, in un comunicato diffuso subito dopo la sentenza, parli di “dolore riacuito dell’Arma per la perdita di una giovane vita”, di “rinnovata vicinanza alla famiglia Cucchi”. Ed è altrettanto apprezzabile che, in quello stesso comunicato, Luzi ricordi la costituzione di parte civile dell’Arma in questo ultimo processo e “l’impegno ad agire sempre, con rigore e trasparenza, anche e soprattutto nei confronti dei propri appartenenti”. E tuttavia, come il generale Luzi, ufficiale per bene, sa, il depistaggio e la copertura delle responsabilità per la morte di Stefano Cucchi non sono figlie della perversione di un cesto di “mele marce”, purtroppo. Perché se è vero che le responsabilità penali sono individuali - e guai se non lo fossero - è altrettanto vero che quei depistaggi e il rango degli ufficiali che li resero nel tempo possibili, sono figli di una cultura malata che nell’Arma, come in altri apparati dello Stato, ha albergato e continua ad albergare nei suoi interstizi (i fatti della caserma “Levante” di Piacenza datano l’estate di 2 anni fa). E di cui non basterà una sentenza per liberarsi di incanto. Che è poi la cultura limacciosa, oscura, di una parte del Paese, che obbliga a una necessaria e continua manutenzione della nostra democrazia. Quella cultura che questo processo infinito e queste due sentenze hanno oggi sconfitto. Per una vittoria di cui non dovremo mai smettere di ringraziare una famiglia mite e coraggiosa che ha costretto lo Stato e i suoi apparati a ricordare e onorare il principio di uguaglianza di fronte alla legge. Giovanni, Rita e Ilaria Cucchi. Il padre, la madre e la sorella del cittadino Stefano Cucchi. L’archiviazione da anni non basta per distruggere le intercettazioni di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 8 aprile 2022 Non è abnorme l’ordinanza con la quale il Gip nega al Pm la distruzione. Il Giudice per le indagini preliminari può rifiutare di distruggere, come chiesto dal Pubblico ministero, le intercettazioni relative ad un procedimento anche se archiviato da oltre io anni. La sola archiviazione non basta, infatti, ad escludere la possibilità di una rilevanza futura del materiale archiviato. Mentre la il diritto alla riservatezza degli intercettati resta garantito dalla conservazione nell’archivio della procura della Repubblica, in quanto luogo protetto. Partendo dal presupposto che l’archiviazione è solo una fase del procedimento e dunque di per sé un elemento neutro la Cassazione (sentenza 13459) respinge il ricorso della pubblica accusa. Ad avviso del Pm doveva essere considerata abnorme l’ordinanza con la quale il Gip aveva respinto la sua istanza, presentata nel 2018, di distruggere delle intercettazioni relative ad un procedimento archiviato nel 2005. Una decisione, secondo il ricorrente, in contrasto con l’articolo 269 del Codice di rito penale, secondo comma, tale da creare una stasi del processo risolvibile solo con la sua rimozione. Diversamente da quanto ritenuto dal Gip, infatti, l’inutilità delle intercettazioni sarebbe dimostrata proprio dall’archiviazione del procedimento, disposta anche in considerazione dell’inidoneità dei dialoghi intercettati a supportare un futuro esercizio dell’azione penale. A ulteriore conferma dell’inutilità di scritti e registrazioni, il lungo tempo trascorso, 13 anni, dal decreto di archiviazione, durante il quale non erano emersi elementi tali da giustificare una rivalutazione dei fatti. Per il Pm il no alla distruzione si risolverebbe in una conservazione sine die del materiale e dunque in uno “stallo” procedimentale da rimuovere. Diverso il parere della Cassazione. I giudici di legittimità precisano che l’articolo 269 del Codice di procedura penale prevede che le intercettazioni siano conservate fino alla sentenza non più impugnabile. Fermo restando che la parte interessata, ovviamente Pm compreso, può chiedere la loro distruzione prima se la documentazione non è necessaria. E la valutazione della rilevanza del materiale è subordinata da un procedimento camerale con contraddittorio tra le parti. Iter che, nello specifico, il Gip aveva seguito, scongiurando così il rischio di aver adottato un atto abnorme. Né si può dire che l’ordinanza impugnata determini una stasi, perché non pregiudica la possibilità, per il Pm, di riproporre l’istanza alla luce delle circostanze evidenziate dal Gip. L’archiviazione, di per sé, non giustifica né il no alla distruzione, solo in virtù di una possibile valenza probatoria del materiale, né può essere la ragione per distruggere le intercettazioni perché nulla dice sulla loro rilevanza. Violenza domestica, la Corte di Strasburgo condanna l’Italia di Emanuele Bonini La Stampa, 8 aprile 2022 La sentenza: “I procuratori sono rimasti passivi di fronte ai gravi rischi che correva la donna”. Uomini che aggrediscono le donne: l’Italia ha un problema serio nella prevenzione e nella gestione del fenomeno, tanto che la Corte europea dei diritti dell’uomo condanna il sistema-Paese per la sua inerzia e la sua passività. Ad accendere la luce dei riflettori sull’Italia che non va, è stato il caso di una donna vittima di violenze domestiche. Una relazione con un uomo affetto da bipolarismo tenuto nascosto. L’inizio della relazione nel 2010, due figli, una storia che sembra andare a gonfie vele, fino al 2015, quando la natura del partner inizia a manifestarsi sotto forma di sbalzi d’umore e, soprattutto, episodi di violenza. Scene che si ripeteranno nel tempo. Almeno quattro aggressioni tra il 2015 e il 2018, almeno quelle accertate a livello medico-ospedaliero e dalle forze dell’ordine intervenute a seguito dei litigi e delle segnalazioni. E qui viene chiamato in causa il sistema nazionale, perché alla fine l’uomo, in uno dei suoi raptus, ferisce la compagna e uccide il secondo dei due figli. Secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, “le violenze domestiche potevano essere evitate, come la tragedia che ne è scaturita”. L’organismo di Strasburgo ritiene che le autorità nazionali “sono venute meno al loro dovere di condurre una valutazione immediata e pro-attiva del rischio di reiterazione degli atti violenti commessi contro la donna e i suoi figli”. Si è sottostimata la situazione, e la ripetizione di eventi di aggressioni domestiche non ha indotto chi di dovere a considerare la natura strutturale di un problema che avrebbe dovuto indurre a ragionare sulla cosa. Si mette poi sotto accusa che in genere mette sotto accusa. “I pubblici ministeri, in particolare, erano rimasti passivi di fronte al grave rischio di maltrattamento della signora”, le conclusioni dell’organismo di giustizia internazionale. “La loro inerzia aveva consentito al partner della ricorrente di continuare a minacciarla, molestarla e aggredirla senza ostacoli e nell’impunità”. Si ravvede anche il dolo dell’Italia. Perché, a Strasburgo ne sono certi, le autorità nazionali “erano a conoscenza, o avrebbero dovuto essere a conoscenza”, della situazione e del relativo “rischio reale e imminente per la vita” della donna e dei suoi figli. Le autorità competenti “avrebbero quindi dovuto” dotare misure appropriate e adeguate, e invece non hanno agito “né immediatamente, come richiesto nei casi di violenza domestica, né in qualsiasi altro momento”. La donna, cittadina italiana, è stata dunque lasciata sola, abbandonata dal suo stesso Paese, ora obbligato ad un risarcimento di 32 mila euro per danni morali. Parma. Detenuto tra i malati con patologie psichiatriche rischia di impazzire di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 aprile 2022 La denuncia dell’associazione Yairaiha Onlus: Raffaele Laurenzia, 36 anni, era sano di mente e senza patologie fisiche quando è arrivato, il suo trasferimento urgente è certificato anche dalle perizie psichiatriche. Tutto quello che chiede, è semplicemente di essere trasferito presso un altro carcere dove non sia circondato da detenuti con gravi patologie psichiatriche e fisiche. Si chiama Raffaele Laurenzia, ha 36 anni e ha sette anni da scontare. È entrato nel carcere di Parma sano di mente e senza patologie fisiche, ora si ritrova in una sezione incompatibile con la sua salute, tanto da avergli provocato una patologia psico fisica che prima, appunto, non aveva. Il referto psichiatrico evidenzia il suo isolamento - I referti medici lo mettono nero su bianco e i sanitari stessi chiedono un trasferimento urgente. Ma nulla da fare, sono passati mesi ed è ancora lì, costretto a vivere senza riuscire a compiere alcuna attività trattamentale. In sostanza, di fatto e come se vivesse in completo isolamento nel carcere di Parma. “Riferisce - si legge nel referto psichiatrico - che da quando è arrivato ha iniziato anche una terapia farmacologica, che non ha mai preso in vita sua. Questo disadattamento si manifesta con episodi d’ansia (“…sono chiuso, non posso parlare con nessuno gli altri sono malati e anziani”). Riferisce di non riuscire a frequentare la scuola per difficoltà nell’attenzione e nella concentrazione”. Gli stessi medici hanno richiesto il suo trasferimento urgente - Il referto è datato 10 novembre 2021 e si ripeterà anche qualche tempo dopo. Già allora aveva fatto richiesta trasferimento. I medici stessi, nel referto, hanno scritto: “Ribadiamo la necessità di tale trasferimento al fine di garantire il miglior adattamento possibile”. Eppure ancora oggi, tutto tace. Nessuna riposta da parte della direzione del carcere di Parma e tutto tace anche da parte del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria all’ennesimo sollecito avanzato da Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha Onlus. Da tempo, l’associazione ha ricevuto notizie da Raffale Laurenza, detenuto attualmente presso la casa circondariale di Parma. È già stata presentata l’istanza di trasferimento - Nello specifico ha ricevuto le sue lettere che evidenziano la condizione di precarietà in cui versa. Yairaiha ha così appreso come la situazione in cui vive il Raffaele sia del tutto inopportuna nonché pericolosa per la sua salute psichica. Da una delle lettere ricevute si viene così a conoscenza del fatto che è già stata presentata istanza di trasferimento alla quale non è seguito alcun cambiamento, lasciando così del tutto disattese le sue richieste. La situazione presenta diversi motivi per essere attenzionata. Vive nel panico e non riesce a dormire la notte - L’associazione Yairaiha Onlus osserva che il detenuto Laurenzia si “trova a vivere circondato da compagni affetti da gravi problemi di salute, (finanche il compagno di cella che problemi di autolesionismo, apprendiamo infatti di vari tentativi di tagliarsi le vene) tutto ciò crea forte panico e non gli consente di dormire la notte, né di poter scontare la sua pena in maniera costruttiva tantomeno di portare a termine un piano trattamentale volto alla rieducazione poiché non vi è possibilità di scambio alcuna per lui”. Dalle sue lettere si evince un preoccupante stato depressivo - Non solo. La situazione risulta aggravata dal fatto che non ci sono momenti in cui svolge attività né di studio e quindi formazione o professionalizzazione né ricreative. “Dalle sue lettere - ha segnalato sempre l’associazione Yairaiha - si evince il profondo disagio vissuto, nonché un preoccupante stato depressivo coadiuvato dalla massiccia somministrazione di farmaci, sono presenti cartelle cliniche dove viene somministrato il farmaco: Quetiapina (noto come antipsicotico atipico) 2 volte al dì, ansiolitici e calmanti che acuiscono il suo abbattimento emotivo e lo spingono sempre più in un limbo di arrendevolezza che poco ha a che fare con la rieducazione e un futuro processo di normalizzazione dei detenuti”. La sua condizione confermata dai referti medici - Una condizione che è stata adeguatamente confermata dai referti medici, a seguito della visita specialistica psichiatrica di cui anche Il Dubbio ha potuto visionare, in particolare della documentazione datata 06/12/2021 e 17/12/2021. Le notizie riferite dal detenuto sono poi state corroborate dalle segnalazioni di sua moglie, la quale vive in uno stato di angoscia perenne e preoccupazione per le condizioni di suo marito, deperito al punto di essere diventato irriconoscibile. “Va evidenziato - osserva l’associazione nella segnalazione - inoltre il disagio economico di questa famiglia, la moglie è infatti inoccupata se non saltuariamente impegnata come domestica, che non consente visite da parte dei familiari poiché le spese da sostenere per il viaggio risultano essere esose e quindi impossibili da sostenere”. Nonostante i solleciti non ci sono riscontri all’istanza di trasferimento - Una condizione che di fatto nega la possibilità a Raffaele di vedere i suoi tre bambini e sua moglie e questo non fa che rendere la situazione ancora più pesante da sostenere. Nonostante l’ennesimo sollecito, l’associazione non ha avuto alcun riscontro circa la richiesta del signor Laurenza di trasferimento dal carcere di Parma per i motivi che appaiono essere sufficienti a sostenere l’istanza. Questo - evidenzia sempre l’associazione - “nel rispetto del dettato costituzionale ex art. 27, che ci ricorda come le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, vogliate perciò gradire i nostri più cordiali saluti nella speranza di ricevere presto buone notizie”. Terni. I detenuti pronti a far ripartire la panetteria del carcere Il Messaggero, 8 aprile 2022 Le associazioni Demetra e Arciragazzi Gli Anni In Tasca entrano nella Casa Circondariale di Terni con il progetto “Pane e Piazza”. Un’iniziativa dal duplice significato, che durerà 12 mesi. Da un lato, una pasticciera esperta formerà professionalmente una squadra di 14 detenuti, istruendoli nella preparazione di prodotti da forno, con macchinari già presenti nella struttura. Dall’altro, grazie all’aiuto di 20 persone in misura di Messa alla Prova, saranno riqualificati alcuni spazi attualmente in disuso come l’ex campo di calcio di Quartiere Italia -in collaborazione con Ater- e saranno organizzati nelle piazze cittadine eventi di sensibilizzazione che, allo stesso tempo, permetteranno di conoscere i prodotti sfornati. Per i coordinatori: “Si tratta di mettere in piedi un prodotto competitivo. Sarà infatti avviata un’indagine di mercato per favorire la vendita dei prodotti realizzati nel forno. Un business - spiegano Caterina Moroni e Marco Coppoli - che possa accorciare le distanze tra carcere e società civile e permettere poi ai detenuti di uscire dalla struttura con una specializzazione in tasca”. Il direttore della Casa Circondariale di Terni, Luca Sardella, si dice “Entusiasta del progetto che finalmente rimette in moto l’attività del laboratorio di panetteria esistente all’interno dell’istituto, chiuso ormai da anni con il rischio di deteriorare le attrezzature presenti”. Auspica “che la formazione possa rappresentare per i detenuti selezionati un importante strumento di risocializzazione e di inserimento nel mondo del lavoro esterno, essendo - quella della panificazione - una specializzazione ricercata e gratificante”. Per la direttrice dell’Uepe di Terni, Silvia Marchetti: “Le associazioni Demetra e Arciragazzi Gli Anni in Tasca rappresentano due realtà del privato sociale con le quali l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna ha solidi rapporti di collaborazione per offrire alle persone in esecuzione di misure e sanzioni di comunità valide opportunità trattamentali, ma anche per lavorare alla sensibilizzazione della comunità sul tema della giustizia e della riparazione”. “Ci avviamo - conclude la direttrice dell’Uepe di Terni - ad iniziare questo nuovo progetto nella convinzione che rappresenterà una importante risorsa”. L’iniziativa è realizzata in collaborazione con la Casa Circondariale di Terni, l’ufficio di Esecuzione Penale Esterna di Terni e la società cooperativa sociale Helios, con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni. Sulmona (Aq). Inclusione: dall’Europa progetto formativo per il carcere regione.abruzzo.it, 8 aprile 2022 Il Fondo sociale europeo entra nelle carceri abruzzesi per facilitare l’inclusione sociale e lavorativa dei detenuti. Il progetto Milia, finanziato nell’ambito del Pon nazionale inclusione dal ministero di Giustizia e dalla Regione Abruzzo, prevede la realizzazione di cinque percorsi formativi per l’acquisizione della qualifica di falegname rivolti a 80 detenuti della casa di reclusione di Sulmona. Il carcere della città peligna farà da apripista ad altri progetti di inserimento lavorativo e formativo che in futuro interesseranno gli altri istituti penitenziari regionali. Un progetto, insomma, ad ampio respiro destinato ad entrare anche nella nuova programmazione europea 2021-2027, in questi giorni in dirittura d’arrivo alla Commissione europea. In questo senso, il Dipartimento della Presidenza della Regione ha pubblicato un avviso pubblico rivolto agli organismi di formazione accreditati che sono chiamati ad elaborare un progetto di formazione da attuare nel carcere di Sulmona. L’obiettivo è realizzare un modello sperimentale di intervento per il lavoro e l’inclusione delle persone in stato di detenzione che porti alla realizzazione di manufatti in legno in grado di venire incontro al fabbisogno nazionale di arredi carcerari. La presa in carico dei detenuti, sia nell’attività formativa sia negli aspetti psico-sociali, rappresenta l’elemento innovativo del progetto perché vuole creare le condizioni per un reinserimento sociale del detenuto una volta portata a termine la pena detentiva. Il progetto, per l’azione di formazione che interessa il carcere di Sulmona, ha una dotazione finanziaria di circa 165 mila euro. Gli organismi di formazione dovranno presentare il progetto formativo entro il prossimo 22 aprile 2022. Salerno. Nel carcere dove i detenuti producono mascherine e tessuti pregiati di Marco Belli gnewsonline.it, 8 aprile 2022 La delegazione del Dap e delle Nazioni Unite ha visitato la casa circondariale di Salerno. Dopo aver partecipato ai lavori del convegno dedicato ai risultati del progetto “Mi riscatto per il futuro”, la delegazione del Dap e delle Nazioni Unite ha visitato la casa circondariale di Salerno. Una missione che ha visto la delegazione recarsi anche negli istituti di Santa Maria Capua Vetere e Sant’Angelo dei Lombardi. A Salerno, sono 155 i detenuti impiegati in lavorazioni professionalizzanti. La prima tappa si è svolta nella sartoria artigianale attiva nella sezione femminile. Qui Martha Orozco - responsabile delle Nazioni Unite per il programma di cooperazione internazionale “De vuelta a la comunidad” fra Italia e Messico -, accompagnata dalla direttrice Rita Romano, ha avuto un lungo colloquio con le otto detenute impegnate nel progetto “Cucire per volare”. Si tratta di un’attività di sartoria creativa basata sul riciclo di tessuti preziosi, come le sete di San Leucio, e ricami di qualità eseguiti con ricercate tecniche artigianali. Successivamente, il gruppo si è spostato nello stabilimento industriale allestito per la fabbricazione di mascherine, nell’ambito del progetto “#Ricuciamo”. Qui 24 detenuti, appositamente formati e impiegati, producono circa 33mila mascherine al giorno, in un ambiente rigorosamente controllato sotto il profilo della sicurezza sanitaria e costantemente sanificato. Da quando è stato avviato - nel settembre 2020 -, lo stabilimento di Salerno ha prodotto fin qui 8 milioni e 700 mila mascherine, di cui 7 milioni e mezzo già distribuite. Con la fine dello stato di emergenza, lo stabilimento inizierà presto la produzione di mascherine chirurgiche certificate per la vendita alle Asl. L’ultima parte della visita si è svolta presso la cucina dell’istituto alberghiero dove 30 detenuti, sia uomini che donne, frequentano il corso di studio che li porterà a ottenere un diploma di scuola secondaria di secondo grado. Lecce. Le borse “Made in carcere” nei supermercati di Puglia e Basilicata Gazzetta del Mezzogiorno, 8 aprile 2022 La vendita delle shopper realizzate dalle detenute pugliesi è iniziata oggi e si protrarrà per tutto il periodo pasquale. Diecimila borse “Made in carcere”, in vendita nei supermercati di Puglia e Basilicata, per sostenere e valorizzare il lavoro delle donne detenute nelle carceri pugliesi. L’iniziativa è stata presentata questa mattina a Lequile, nel Leccese. Dal 7 aprile tutti i clienti dei supermercati Ipersisa, Sisa e Quick Sisa di Puglia, Basilicata e Calabria del Gruppo Supercentro potranno acquistare ad un prezzo speciale le coloratissime borse realizzate artigianalmente dalle donne di “Made in Carcere”, brand sociale della Onlus Officina Creativa. “Aderire all’iniziativa - dicono i promotori - significa consentire tramite il lavoro la ricostruzione della dignità e della consapevolezza delle persone e generare bellezza e creatività attraverso queste borse per la spesa e il tempo libero: tutte realizzate con tessuti donati da prestigiose aziende sensibili a temi legati all’inclusione sociale e al rispetto ambientale”. Le borse nascono grazie al progetto di Officina Creativa, una concreta opportunità di riscatto e reinserimento nella vita sociale attraverso l’apprendimento di un mestiere dalle donne in stato di detenzione che percepiscono un regolare stipendio per il proprio lavoro. Vengono realizzate, insieme ad altri prodotti, nelle sartorie degli istituti di pena del Sud Italia anche con materiali riciclati e in esubero. “Anche la Pasqua 2022 verrà celebrata da Supercentro con un gesto di solidarietà, offrendo alle donne che vivono l’esperienza del carcere una concreta opportunità di riscatto sociale, contribuendo a migliorare il loro futuro per un pronto reinserimento nella società - dice Michele Macripò Presidente del Gruppo Supercentro - La nostra sensibilità nei confronti delle donne che nel loro passato si sono ritrovate a fare o subire determinate scelte ci impegna a favorire le realtà come Officina Creativa che, grazie al loro impegno, danno un aiuto concreto e tangibile alle donne detenute. La solidarietà ha un ruolo di primo piano in ciò che facciamo e nel nostro lavoro, i nostri clienti sono sensibili su queste tematiche e ci seguono in tutte le iniziative che fino ad oggi abbiamo promosso”. Alla presentazione hanno partecipato il sindaco di Lequile, Vincenzo Carlà; la direttrice della Casa Circondariale Borgo San Nicola di Lecce, Mariateresa Susca; l’amministratore di Supercentro Spa Leonardo Giangrande; la presidentedi La Sartoria 167 Revolution, Antonia Di Francesco; la Fondatrice di Made in Carcere, Luciana Delle Donne. Napoli. Antimafia la memoria da ritrovare nelle scuole di Antonio Mattone Il Mattino, 8 aprile 2022 Che percezione hanno oggi i giovani della camorra? Cosa sanno dei giudici Falcone e Borsellino, di Giancarlo Siani, di don Peppe Diana e di tutti coloro che hanno dato la vita per contrastare e combattere le mafie? E giudicano comunque degni di rispetto i boss di ieri e di oggi? Sono alcune delle domande attorno a cui ruota il questionario lanciato da “Il Mattino” nelle scuole della provincia di Napoli per intercettare il livello di conoscenza degli studenti del fenomeno criminale e per sensibilizzare le nuove generazioni alla cultura della legalità. Sono trascorsi ormai quarant’anni dalla marcia contro la camorra degli studenti ad Ottaviano, ma sembra essere passata un’eternità. Una iniziativa che partì dalle assemblee del liceo scientifico di Acerra e dal classico di Pomigliano d’Arco e che poi coinvolse gli alunni di Castellammare di Stabia, Torre del Greco e di altri paesi dell’hinterland napoletano, fino a connettersi con quelli di Palermo dove in quei giorni era stato ucciso Pio La Torre. Un grande movimento di opinione che nacque dal basso come reazione alla violenza criminale esercitata da Raffaele Cutolo e che spinse fin dentro le strade del paese del “professore” diecimila ragazzi, sotto gli sguardi guardinghi e circospetti degli affiliati alla Nco. Nei giorni scorsi, proprio in una scuola di Pomigliano, abbiamo registrato come una percentuale non trascurabile di alunni abbia ritenuto l’omertà un fenomeno da non condannare e i boss persone comunque degne di rispetto. Una indulgenza verso chi non denuncia il malaffare e una attrazione perversa del male che sono subito apparse preoccupanti e che ha spinto il nostro giornale ad intraprendere la campagna conoscitiva a cui stanno aderendo numerosi istituti scolastici. Dobbiamo riscontrare un arretramento della scuola, delle istituzioni e più in generale del mondo degli adulti sul fronte dell’impegno culturale sulla lotta alla camorra e al malaffare. In passato si organizzavano assemblee con magistrati, giornalisti e preti per parlare della presenza pervasiva dei clan criminali nella vita cittadina. Ho un ricordo vivido, ad esempio, della visita del Vescovo di Acerra, don Riboldi, al liceo del Vomero che frequentavo. Un’assemblea molto partecipata, cui seguì un vivace dibattito. Se si eccettuano alcune iniziative, come quella del liceo di Pomigliano o degli appuntamenti annuali della giornata in memoria delle vittime innocenti della criminalità organizzata, appuntamenti importanti che però andrebbero approfonditi e analizzati durante tutto l’anno scolastico, della parola camorra non se ne sente parlare troppo. Eppure ci troviamo difronte a sistemi criminali in evoluzione, come è stato descritto dalla recente relazione semestrale della Dia. Infatti, accanto agli omicidi e ai reati classici della malavita, si registrano infiltrazioni criminali nel tessuto economico e produttivo attraverso sofisticate operazioni di riciclaggio nelle aziende, all’azione di insospettabili colletti bianchi divenuti fiduciari dei clan, a reati che vengono consumanti utilizzando il mondo della rete. Del resto, il procuratore della Repubblica di Napoli Gianni Melillo, in occasione della conferenza organizzata dal vescovo don Mimmo Battaglia “Perché la camorra non uccida Napoli”, aveva denunciato che “la camorra è dentro lo Stato e in più contesti le cosche controllano le istituzioni”. Parole che avrebbero dovuto far saltare sulla sedia, ma che sono durate giusto il tempo di un titolo di prima pagina per poi finire nel dimenticatoio. Nuovi scenari di cui i ragazzi devono prendere subito coscienza per essere i protagonisti del cambiamento e della lotta all’illegalità. È necessario allora riprendere quella battaglia culturale che delinei il confine tra il bene e il male, che sappia prima descrivere e poi prendere le distanze da quegli atteggiamenti di cui si nutre la narrazione camorrista. Ricordo che negli anni in cui Raffaele Cutolo era rinchiuso in prigione, ad Ottaviano si diceva che bisognava tributargli grande rispetto perché non si era mai pentito. Probabilmente aveva barattato il suo silenzio con delle garanzie sulla sua famiglia. Occorre invece ricordare i fiumi di sangue fatti scorrere, che non risparmiarono neanche i bambini come la piccola Simonetta figlia del magistrato Alfonso Lamberti, uccisa a 11 anni da un commando cutoliano. Bisogna poi far conoscere la storia dei tanti uomini giusti che hanno perso la vita per servire lo Stato, la verità o il prossimo. Non sapere chi fosse don Peppe Diana o Giancarlo Siani sarebbe una grave mancanza per uno studente liceale di oggi. Testimonianze di uomini straordinari nella loro semplicità, che hanno incarnato quella “la religione del dovere”, che infonde forza e serenità pur nella consapevolezza del pericolo. A quarant’anni dalla prima rivolta anticamorra, “Il Mattino” riprende quel cammino a partire dalle scuole, nello stesso tempo, chiama ciascuno a farsi carico della battaglia per liberare la nostra terra dal malaffare. Se un ex carcere regala nuova vita: il caso di San Sebastiano a Sassari di Marcello Fois L’Unione Sarda, 8 aprile 2022 Un film di successo nella struttura dismessa e abbandonata dal 2000. Seppure in senso lato l’edificio delle Carceri Circondariali di San Sebastiano a Sassari è considerabile un’evoluzione del Panopticon e cioè di quella costruzione che doveva rappresentare il luogo di detenzione ideale secondo il filosofo Jeremy Bentham intorno alla fine del settecento. Siamo in piena era illuminista, la scienza e la ragione dovrebbero avere la meglio su qualunque spinta irrazionale da cui è accompagnata l’idea di pena come castigo, o vendetta sociale anziché come territorio di recupero della propria dignità di cittadino. Il Panopticon era l’idea che un carcere dovesse avere molti operatori e poche guardie. Un tronco centrale racchiudeva le funzioni inerenti alla custodia e, potendo controllare dal centro ogni attività intorno a sé, poteva limitare in numero di guardiani e, di conseguenza garantire un recupero dei detenuti in perfetta sicurezza. Un punto di vista assolutamente attuale se ci si pensa, ma purtroppo un punto di vista che si è limitato, e spesso esaurito, nella progettazione di edifici a pianta circolare o a raggiera. Il Carcere di san Sebastiano è, da questo punto di vista uno straordinario edificio. Assai più bello delle carceri di Buoncammino a Cagliari, ma decisamente meno bello della Rotonda a Nuoro, improvvidamente, demolito, come una Bastiglia locale, negli anni ottanta, per essere sostituito da un penoso e ormai fatiscente Centro Polifunzionale, che non è mai entrato in funzione. Ma questa è un’altra storia. La buona notizia è che dopo troppi tentennamenti quell’edificio a ruota, a sole, a ragno, fate voi, al centro della città, verrà recuperato a adibito a quella che, con una specie di tic urbanistico provinciale, è stata definita Cittadella Giudiziaria. Diciamoci subito che questa nomenclatura in questo caso ha il sapore dell’autogol. Pensiamoci, sulle rovine della Rotonda nuorese è stato costruito un centro polifunzionale, le ex carceri di Bologna di San Giovanni in Monte sono state trasformate in aule Universitarie, altre carceri storiche in giro per l’Italia sono diventate alberghi o musei, ma San Sebastiano diventerà da luogo di pena un luogo dove comminano le pene. Io, opinione del tutto personale, avrei utilizzato fondi ed energie per promuovere quel luogo a spazio di creatività e vita. Non c’è dubbio che il tema di riqualificare spazi è sempre caldo, specialmente se dopo lunga e penosa malattia si decide di non demolire automaticamente, come spesso è stato fatto in passato, e di reinventarsi una destinazione. Quel bellissimo edificio sassarese, dismesso, e abbandonato a se stesso, dal 2000, riprende vita grazie a un film di successo. Risorgendo nelle menti dei sassaresi grazie alla constatazione che se è tanto piaciuto a Leonardo di Costanzo per il suo bellissimo Ariaferma magari valeva la pena di farci un pensierino prima di buttarlo giù. Perché a una riqualificazione di quello spazio ci si era pensato tempo fa, prima che fosse la location di un film, ma allora c’era stato pollice verso. Oggi qualcun altro con sguardo naturale ci ha indicato quel luogo e ci ha colmati di un nuovo entusiasmo mediatico nei suoi confronti. C’è da augurarsi che per il prossimo Mad Max qualche regista ci indichi il territorio di Porto Torres, o quello di Portovesme, non si sa mai che ci venga voglia di risanarli. Parlamento, quelle riforme inceppate di Michele Ainis La Repubblica, 8 aprile 2022 C’è una guerra, certo. Ma c’è anche un’agenda di riforme che reclamano immediata approvazione. Anzi: in vari casi si tratta d’altrettanti obblighi costituzionali, adempimenti imposti dalla Carta o per suo tramite dalla Consulta. Invece il Parlamento traccheggia, tergiversa, temporeggia. O al più s’esercita in riforme minime, talvolta strampalate. “Mai rimandare a domani ciò che puoi fare benissimo dopodomani”, diceva Mark Twain. È il caso del fine vita, che non arriva mai a buon fine. Eppure la Corte costituzionale ha già sollecitato un paio di volte il varo d’una legge organica (decisioni n. 207 del 2018 e 242 del 2019). È il caso, inoltre, del pacchetto di revisioni costituzionali concordato fra i partiti dopo il taglio dei parlamentari. Ossia la riduzione dei delegati regionali che concorrono ad eleggere il capo dello Stato, nonché la formazione del Senato su base circoscrizionale, per non strozzare la rappresentanza delle piccole Regioni. Niente da fare: i delegati regionali saranno sempre 58, poiché questa parte è stata già stralciata dalla proposta di modifica firmata da Fornaro. Quanto ai nuovi collegi del Senato, s’infrangono contro il tabù della legge elettorale, la cui discussione è ferma al settembre 2020, quando spuntò fuori il Brescellum. Non che le Camere siano rimaste con le mani in mano. A febbraio avevano già messo mani alla Costituzione, per introdurvi la tutela dell’ambiente: peccato che quella tutela fosse già garantita, fin dal 2001, dall’articolo 117; e desunta altresì dalla Consulta, fin dagli anni Ottanta, dall’articolo 9. Nel frattempo sono in vista ulteriori orpelli. Per esempio l’inserimento dello sport nella Costituzione, su cui tutti i partiti si dichiarano d’accordo (d’altronde come opporsi al fitness?). Il riconoscimento del “principio di insularità” nell’articolo 119, votato il 30 marzo dalla Camera all’insaputa degli italiani. Senza dire dei poteri di Roma Capitale o dell’abolizione del Cnel, riforme sempreverdi e sempre rimandate. Dopo di che c’è la normale attività legislativa. Dove è ormai normale impegnarsi soprattutto sulla conversione dei decreti governativi o sull’autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali (12 leggi sulle 16 approvate in Parlamento nel primo trimestre di quest’anno). E dove le eccezioni non offrono di certo risultati eccezionali. Così la “Dichiarazione di monumento nazionale dell’ex campo di prigionia di Servignano” (legge n. 20 del 2022). Il voto pressoché unanime della Camera, a gennaio, sul problem solving (che mai sarà?). La legge sulla peste suina, timbrata il 6 aprile. Quella sulla doppia laurea (sempre del 6 aprile), che permette agli studenti d’iscriversi contemporaneamente a due corsi di studio. O il giorno prima il via libera del Senato al terzo mandato per i sindaci dei piccoli comuni, destando l’invidia dei sindaci maggiori. Tuttavia sono altre le riforme di cui abbiamo un gran bisogno. Il fisco (la legge di delega giace sommersa da 440 emendamenti). La concorrenza, a sua volta infilzata da migliaia d’emendamenti. La nuova disciplina della cittadinanza, con 730 proposte di modifica (ora si chiama ius scholae, anziché ius soli o ius culturae, ma rimane sempre un desiderium). E ovviamente la giustizia, madre di tutte le battaglie (perse). La riforma del Csm dovrà approdare in aula il 19 aprile, dopo un carosello di rinvii. Ma non c’è ancora un testo, giacché ci sono troppe teste fra i partiti. Nel frattempo si tengono riunioni su riunioni. Ecco, per i nostri parlamentari la soluzione potrebbe essere questa. Chiudiamoli in conclave, come stabilì la Chiesa nel 1274, dopo gli anni spesi a vuoto dal collegio cardinalizio per eleggere il nuovo Pontefice. E finché non si decidono, buttiamo via la chiave. La guerra puntella una legislatura finita di Stefano Folli La Repubblica, 8 aprile 2022 L’onda lunga sul governo italiano dell’invasione russa dell’Ucraina. La mozione del Parlamento europeo per l’embargo “immediato” del gas e del petrolio russi non è ancora, si capisce, una decisione vincolante, che spetta alla Commissione e ai governi nazionali. Non è nemmeno realizzabile in tempi rapidissimi, per un insieme di ragioni tecniche legate ai meccanismi della produzione industriale. Tuttavia è un passo significativo, un indirizzo di cui si dovrà tener conto. Del resto, il tema energetico è già entrato nel dibattito domestico. La guerra nell’Est, quasi alle porte di casa, condiziona già le mosse di maggioranza e opposizione e carica nuove responsabilità sulle spalle del presidente del Consiglio. Il quale era stato chiamato da Mattarella per gestire i fondi del Pnrr sullo sfondo dell’emergenza Covid e si trova oggi ad affrontare una drammatica crisi internazionale, forse la più grave dalla fine del secondo conflitto mondiale. È una situazione priva di termini di paragone, rispetto alla quale gli strumenti della polemica quotidiana sembrano inadeguati. A meno che non nascondano varie riserve mentali. Sono sembrate, ad esempio, alquanto fuori luogo le critiche via “social” a Draghi per la frase sui condizionatori d’aria e la pace. In realtà il premier ha fatto un tentativo, magari poco riuscito, di semplificare un problema complesso e di spiegare agli italiani che certi sacrifici saranno necessari per contribuire alla soluzione del conflitto punendo la Russia putiniana come Stato aggressore. È così, se si vuole attribuire all’Italia, al pari delle altre nazioni della Ue - e anche della Nato - un ruolo attivo nello sforzo di affrontare la catastrofe umanitaria e disinnescare ulteriori rischi geopolitici. Se invece prevale una pulsione anti-occidentale e anti-atlantica, ovvero si ritiene che la guerra non ci riguardi come europei e italiani, allora è chiaro che le ironie sulla frase di Draghi servono a mascherare il rifiuto di prendere atto della realtà, confermato dalle accuse piuttosto improbabili di “bellicismo” rivolte al governo. Solo il tempo dirà se la maggioranza allargata messa in piedi per affrontare la pandemia è in grado di reggere l’urto di una guerra guerreggiata ai nostri confini. Se si deve giudicare dalle ambiguità che percorrono alcuni partiti, dalla Lega a una fazione dei Cinque Stelle, i dubbi sono più che legittimi. Se poi si guarda alla semi paralisi delle Camere, su temi che non c’entrano con l’Ucraina, ma riguardano da vicino la capacità dell’esecutivo di attuare il suo programma e di rispettare le scadenze del Pnrr, si dovrebbe concludere che il conflitto condiziona, sì, le forze politiche, ma nel senso di incrinare e non di rafforzare lo spirito di unità nazionale. Con il paradosso che sulla politica estera Giorgia Meloni condivide la linea atlantista del governo - e di Enrico Letta - più di chi interpreta posizioni opache pur essendo in maggioranza. Ma c’è dell’altro. Domenica si vota in Francia per il primo turno delle presidenziali. La vittoria finale di Macron resta a tutt’oggi l’ipotesi più probabile, però la crescita di Marine Le Pen nei sondaggi è un fenomeno di rilievo. Vuol dire che la guerra premia l’ambiguità filo-russa della leader della destra? O è il timore della recessione e di quei sacrifici di cui parla lo stesso Draghi? Nell’ipotesi estrema di una vittoria lepenista è chiaro che l’intero assetto tradizionale dell’Unione sarebbe sconvolto, con conseguenze clamorose. E ovvie ripercussioni anche in Italia. Se le proteste contro la guerra restano solo una illusione di Marco Imarisio Corriere della Sera, 8 aprile 2022 All’inizio del conflitto i media del mondo avevano dato grande risalto alle manifestazioni contro la guerra e alla loro repressione. Da allora, quasi più nulla. Quando la protesta è individuale, diventa semplice testimonianza. Nei giorni scorsi, il Moscow Times ha messo in fila alcune foto che dovrebbero documentare il dissenso in Russia. Sono immagini molto belle, che starebbero bene in una galleria d’arte. I primi quattro scatti mostrano un ragazzo sdraiato a terra, con le mani legate, in alcuni dei luoghi più celebri di Mosca. Ci vuole poco per accorgersi che si tratta sempre della stessa persona, protagonista di una rappresentazione tanto estemporanea quanto innocua, quasi fine a sé stessa. All’inizio del conflitto, tutti i media del mondo avevano dato grande risalto alle manifestazioni contro la guerra, e alla loro metodica repressione. C’erano studenti e attivisti che tentavano di esibire i loro cartelli, fino a quando non venivano arrestati. Non erano certo cortei oceanici, ma somigliava a un inizio, grazie al coraggio di un gruppo comunque ristretto. L’adunata di domenica 6 marzo convocata dal dissidente Alexej Navalny, doveva essere il primo segnale forte. Si trasformò invece in un surreale rimpiattino tra qualche centinaio di volonterosi inseguiti e portati via dalle forze dell’ordine tra la piazza del Bolshoi e piazza della Lubjanka, con i turisti del fine settimana che riprendevano la scena e si complimentavano con gli agenti. Da allora, quasi più nulla. Quei semi del dissenso non hanno germogliato. Perché sono stati schiacciati dalla repressione, certo. Ma bisogna anche riconoscere che non avevano radici così profonde come speravano molti osservatori esterni. Anzi. Con il passare dei giorni è diventato chiaro che la maggioranza della popolazione sta Vladimir Putin. Quel che rimane è qualche gesto isolato, come i mazzi di fiori per Mariupol deposti nottetempo in qualche parco della capitale. La speranza che il cambio di regime o la pace possano nascere dal basso non è altro che l’ennesima illusione occidentale. L’Onu ha le mani legate di Stefano Stefanini La Stampa, 8 aprile 2022 Le Nazioni Unite sono sulle spine dopo aver ascoltato, e visto, Volodymir Zelensky. Se non lo sono dovrebbero esserlo. Non solo per quello che il Presidente ucraino ha detto. Neanche per le orrende immagini che ha mostrato. Per la risposta che non gli hanno potuto dare. L’appello di Zelensky è caduto nello smarrimento di una comunità internazionale che ha le mani legate - da sé stessa. Zelensky ha mostrato il re nudo. I limiti delle Nazioni Unite non sono una novità. Ma c’è una differenza fondamentale fra la guerra in Ucraina e i tanti conflitti e guerre di tre quarti di secolo che l’Onu non è riuscita a impedire, riuscendo al massimo a contenerli e gestirli con le operazioni di mantenimento della pace - cui l’Italia ha sempre dato una generosa partecipazione. L’invasione russa dell’Ucraina è una guerra offensiva intrapresa per mire territoriali da una grande potenza contro un vicino più piccolo e più debole. Aggravata da violazioni del diritto umanitario e da crimini di guerra. Esattamente quanto si voleva evitare con l’Onu, con la Carta del 1945, con l’alchimia del Consiglio di Sicurezza che, nell’uguaglianza di tutti gli Stati, ne rende cinque infinitamente più uguali degli altri grazie a seggio permanente e diritto di veto. Così assegna loro una particolare responsabilità per il mantenimento della pace nel mondo - non a caso sono anche le cinque potenze “ufficialmente” nucleari. Il meccanismo del Cds è un compromesso fra legittimità internazionale e realpolitik. Ha sempre funzionato a singhiozzo. Sull’Ucraina si è rotto. O si affronta il problema di come riparalo o anche l’imperfetto multilateralismo, faticosamente dopo la Seconda Guerra Mondiale, è relegato all’archivio della storia. L’Onu sopravverrà comunque come grande, e indispensabile agenzia umanitaria, ma avrà abdicato alla missione principe: pace e sicurezza internazionale. Il problema dei veti non è esclusivo del Palazzo di Vetro. L’unanimità blocca spesso l’Unione europea ed è di regola alla Nato. Ma in un contesto di condivisione di valori e di sistemi politici ha una certa logica. L’universalità delle Nazioni Unite riduce al minimo comun denominatore la base comune dei Paesi membri. In CdS, se non controbilanciato da senso di responsabilità, il veto conduce alla paralisi, mettendo a rischio la pace nel mondo. Le Nazioni Unite sono tanto imperfette per definizione - rispecchiano l’imperfezione della comunità internazionale - quanto infungibili. Ma non possono limitarsi a fare da cassa di risonanza delle diatribe internazionali. Devono ritrovare un ruolo nella tutela di pace e sicurezza. La difesa del multilateralismo tocca tutti, anche Cina, India, Brasile o Sud Africa che contestano l’”ordine liberale internazionale” come creatura imposta dall’Occidente. Il multilateralismo della Carta di San Francisco è un’altra cosa. Rappresenta l’esigenza di legittimità internazionale, valore universale non europeo o atlantico. Ed è quest’ultimo che Mosca sta sfidando. L’impossibilità per l’Onu di intervenire nella guerra della Russia contro l’Ucraina, pur di fronte all’evidenza di crimini di guerra, è una resa dell’intera comunità internazionale. Se, nel 2022, le Nazioni Unite non sono in grado di fermare l’aggressione di una grande potenza contro uno Stato indipendente quale la differenza con l’infelice precedente della Società delle Nazioni che non riuscì a fermare le dittature di Hitler, Stalin, Mussolini, Franco, negli anni ‘30? “Cosa ci state a fare?”, ha chiesto Zelensky ai quindici delegati del Consiglio di Sicurezza. Non ha ricevuto risposta. La domanda era scomoda come lo sono tutte le apparizioni del Presidente ucraino che vanno dritte alla coscienza delle audience cui si rivolge. È rimasta sospesa, senza risposta, sull’aula del Palazzo di Vetro. Il veleno, poi il carcere, ecco il film su Navalny: “Inchioderà Putin” di Mario Platero La Repubblica, 8 aprile 2022 A New York la presentazione del docu-film di Daniel Roher sul leader dell’opposizione, ora in carcere. Il regista: “Nel mio lavoro l’inchiesta investigativa del giornalista Christo Grozev. Mi auguro che i russi possano vedere la mia opera anche in modo clandestino, su Internet, via streaming”. C’è un nuovo guaio per Vladimir Putin e per il suo controllo del potere a Mosca. Stavolta viene da un film, Navalny, proiettato in anteprima a New York. Protagonista di questo documentario straordinario, un thriller che tiene aggrappati alla sedia, è Alexei Navalny, carismatico oppositore del regime putiniano. L’opera del canadese Daniel Roher ricostruisce le dinamiche dell’attentato a Navalny il 20 agosto 2020 e il suo dramma politico e personale. Ma l’importanza del film è nell’essere il primo documento a darci la misura di quanto forte, determinata, diffusa, pronta a tutto, sia la resistenza russa alla dittatura di Putin. Lo avevamo sospettato. Abbiamo visto anche recentemente coraggiose dimostrazioni contro la guerra. Abbiamo seguito alcune voci dissidenti contro Putin e la sua devastante guerra. Ma non avevamo ancora visto, nella coerenza di un’opera a tutto campo, quanto l’ispirazione, l’esempio di un leader d’opposizione come Navalny possa toccare i cuori di milioni di persone. I sondaggi ci raccontano che la maggioranza dei russi è schierata con Putin e che i dissidenti sono una minoranza. Ma da questo documentario si capisce che la minoranza è talmente motivata da rendere possibile un cambiamento al Cremlino. A patto che ai pochi milioni che resistono oggi se ne aggiungano altri. Ben costruito, con molte immagini inedite, il film parte da un’intervista di Roher a Navalny dopo l’attentato e poco prima del ritorno a Mosca nel gennaio del 2021. All’arrivo l’arresto. Da lì, un flashback che ci riporta alle battaglie, alle denunce, ai comizi affollatissimi, ai 182mila volontari che lo appoggiano. E ai momenti chiave della sua battaglia: il viaggio a Tomsk, in Siberia, dove gli agenti del Fsb organizzano l’avvelenamento con il Novichok. Le convulsioni in aereo, l’atterraggio di emergenza a Omsk, l’intervento dei medici che gli danno antidoti provvidenziali, il volo in Germania dove viene curato e dove si prova che l’intossicazione è da Novichok. C’è poi l’incontro con Christo Grozev, il giornalista investigativo di Bellingcat, che riesce a ricostruire alcune dinamiche chiave che puntano il dito direttamente sul Cremlino. Putin nega qualunque coinvolgimento in una conferenza stampa live. Sbertuccia Navalny come un debole. Ma capiamo che la debolezza è da un’altra parte. E quanto la tecnologia possa essere importante: Christo recupera i nomi dei possibili esecutori materiali dell’attentato setacciando biglietti aerei per Tomsk, compra informazioni a buon mercato, riesce a mimetizzare il numero da cui Navalny chiama i suoi attentatori. E, in un momento chiave, il leader politico si presenta come assistente di uno dei capi della Fsb a Konstantin Kudryavtsev, il chimico nel commando organizzato per avvelenarlo. Assistiamo in diretta alla telefonata. Navalny chiede a Kudryavtsev dettagli su quel che è successo a Tomsk per fare un rapporto sul fallimento dell’operazione e quello, convinto di parlare a un suo superiore, confessa tutto. La registrazione viene messa su Internet. Putin è furioso. Kudryavtsev scompare e non sarà mai più ritrovato. Poi, dopo cinque mesi in Germania per curarsi, la decisione di Navalny di rientrare a casa, a Mosca, dove rischia una condanna per ... violazione della condizionale. I protagonisti del giallo sono Navalny stesso, la sua assistente Maryia Pevchickh, la coraggiosa moglie Yulia e, nei momenti più intimi, i figli Daria e Zahar. Incontro alcuni di loro al Walter Reade Theater, al Lincoln Center, a un ricevimento dopo l’anteprima. Yulia mi dice che il film “mobiliterà una protesta che porterà alla liberazione di Alexei”, condannato giorni fa a nove anni di carcere. Daria, che studia psicologia a Stamford, è commovente nel ricordo del padre in prigione: “Non ho mai avuto dubbi, non gli ho mai chiesto di smettere, anche se ero addoloratissima, perché lui è dalla parte della ragione. E vincerà contro la barriera delle menzogne”. Christo mi dice che “ognuno ha la sua versione dei fatti e mente anche senza saperlo. Ma i dati non mentono mai. E i dati che ho recuperato con Alexei inchiodano Putin alle sue responsabilità”. Daniel, il regista, appena 29 anni, ha cominciato con l’idea di raccontare la storia di Bellingcat: “È stato Christo - rivela - a dirmi due anni fa che stava per scoprire cose importanti sull’attentato a Navalny e ho dirottato il progetto. Ora la sfida è politica”. Navalny è anche un film che ci conferma quanto la Russia sia una cugina europea. E che l’Europa - non la Francia, la Germania, l’Italia, ma l’Europa - resta un punto di riferimento chiave per i russi: pur nella loro tradizione, come noi pensano di appartenere alla storia, alla cultura, all’economia europea. Dall’11 aprile il film sarà distribuito in 800 sale in America e in Canada. Presto anche in Italia. E Daniel, felice per aver vinto al Sundance, a gennaio, il premio per il miglior film votato dal pubblico, mi dice che la grande sfida, anzi la promessa della Warner Brothers, che l’ha prodotto con la Cnn, è trovare il modo di distribuirlo a Mosca: “Spero che in Russia possano vedere in molti il film, anche in modo clandestino, su Internet, via streaming o grazie alle copie private”. Se dovesse succedere, se il film sarà davvero visto in Russia, non possiamo non credere, come dice Navalny, che quella minoranza che oggi forma la resistenza a un regime, non possa ingrandirsi davvero, grazie a chi sceglierà di venire allo scoperto. Del resto, la storia conferma: sulle fake news vince l’evidenza dei fatti. Iran. Di notte sento il rumore delle macchine della morte di Saeed Eghbali* Il Riformista, 8 aprile 2022 Ogni martedì sera, nella sezione 4 del carcere Rajai-shahr a Karaj (Iran), c’è il viavai che precede le esecuzioni. Passo in rassegna i volti dei condannati e mi chiedo a chi, l’indomani, il cappio stringerà il collo. Ero un bambino di pochi anni quando ho visto la morte dimenarsi nella piazza principale della mia città. Poi, a Rajai-shahr, ho sentito di persona cosa vuol dire l’esecuzione. Ricordo il mio caro amico e compagno di cella Behnam Mahjoubi, a cui hanno messo il cappio al collo e si è spento davanti ai miei occhi. Tuttora, quando guardo la sua foto attaccata sopra il mio letto, il mio cuore brucia; ricordo la mia solitudine e il mio pianto straziante sotto la doccia. Per le persone come me, appartenenti alla classe più bassa e dimenticata della società, in presenza dell’oppressore, è normale morire e perdere tutto: la vita, le proprietà, il lavoro, i sogni, la pace, l’amore, tutto! Nella nostra classe sociale perdi tutto, o per meglio dire ti derubano di tutto. Nella prigione di Rajai-shahr c’è un luogo chiamato “Suite”, celle di isolamento che sono usate in modi diversi: come punizione di chi litiga, per chi sciopera e per chi commette cosiddetti “reati di carcere”. Ma la cosa più spaventosa è il trasferimento in queste celle dei condannati a morte. Prima dell’esecuzione, che avviene ogni mercoledì mattina, due o tre e, a volte, anche più di dieci prigionieri sono trasferiti in questo luogo. Ho trascorso un periodo nella sezione 209, nella cella 113, con Esmail e Khosrow, condannati a morte e alla fine giustiziati prima che io lasciassi la sezione. La radice di ogni omicidio, stupro e rapina si può scoprire nella struttura di un regime che di per sé genera povertà, ingiustizia e sopraffazione, corruzione, morte e oppressione. In ogni condannato a morte riconosco me stesso. Era della stessa classe di persone i cui sogni e aspirazioni sono stati annientati nel mondo di tenebre creato dalla Repubblica Islamica. E ora deve affrontare la morte con i piedi tremanti. L’autore di questo racconto non è Saeed Eghbali di Rajai-shahr: è l’operaio precipitato dalla cima del palazzo o chi dorme la notte nelle tombe a Behesht Zahra o la prostituta a cui hanno incendiato il corpo e l’anima o la bambina che cerca la sua infanzia nella spazzatura o il tossicodipendente che viene trovato sotto il ponte congelato con una siringa in mano o l’ambulante che ha lividi sotto gli occhi. Oppure chi ogni giorno in quest’aria che sa di morte viene giustiziato. Ecco, tutte queste persone sono io! Nonostante tutte queste esperienze che crocifiggono l’esistenza umana, sappiano i potenti impotenti, non ci pieghiamo la schiena sotto il peso di tali sofferenze; ogni cappio, ogni proiettile e bastone che riservate al nostro popolo ci rende più determinati e avvicina la vostra fine. In memoria dei cari fratelli Hamzeh Savari, Zanyar e Loghman Moradi, Farzad Kamangar, Ali Saremi, Gholam Reza Khosravi, Ramin Hossein Panahi, Reyhaneh Jabbari e Shirin Alam Holi. *La lettera del prigioniero politico Saeed Eghbali, tradotta da Esmail Mohades, è uscita dalla prigione di Rajai-shahr il 24 marzo e il giorno dopo è stata pubblicata sul sito di Iran Human Rights Monitor soprattutto ai nostri giudici di sorveglianza: non siate sempre ancorati al passato della persona, guardate alla persona quale essa è oggi, abbiate il coraggio di metterci alla prova. Nigeria. Condannato a 24 anni di carcere per blasfemia: “Liberate Mubarak Bala” MicroMega, 8 aprile 2022 L’Uaar lancia una campagna per la libertà di Mubarak Bala, arrestato nel 2020 in Nigeria. La sua colpa? Aver criticato una religione. “L’Alta Corte dello Stato di Kano, Nigeria, ha condannato a 24 anni di carcere Mubarak Bala, presidente della Humanist Association on Nigeria. Il suo reato? Aver criticato l’islam con alcuni post su Facebook. Di fronte all’ennesimo caso di repressione del diritto alla libertà dalla religione, ci uniamo alla richiesta di Humanists International di liberazione di Mubarak Bala e di abrogazione delle leggi che puniscono la blasfemia”. Sono le parole di Roberto Grendene, segretario dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (Uaar), alla notizia della condanna diffusa da Humanists International. “Mubarak Bala è stato arrestato nel 2020 e il suo caso è stato oggetto di una serie di irregolarità procedurali che hanno ostacolato il suo diritto a un equo processo”, spiega Grendene. “Gli sono state negate le cure mediche; per più di cinque mesi gli è stato negato l’accesso al suo team legale; le udienze del tribunale sono state oggetto di ripetuti rinvii; le autorità dello Stato di Kano non hanno rispettato una sentenza dell’Alta Corte di Abuja che stabiliva che Bala dovesse essere rilasciato su cauzione. Una vicenda processuale caratterizzata da pesanti violazioni del suo diritto alla difesa conclusasi ora con questa ignobile sentenza”. Mubarak Bala è presidente della Humanist Association on Nigeria, che - come l’Uaar - fa parte di Humanists International, organizzazione che raggruppa le associazioni laiche di un centinaio di Paesi di tutto il mondo, rappresentando le istanze dei non credenti presso l’Onu, il Consiglio d’Europa e altre istituzioni internazionali. “La mobilitazione internazionale può fare la differenza: per questo speriamo che il caso di Mubarak Bala abbia ampia risonanza e non sia al contrario trascurato solo perché, a differenza di altri, riguarda un miscredente”, conclude il segretario dell’Uaar: “24 anni di carcere per aver criticato una religione: non è accettabile. Vogliamo Mubarak Bala libero!”.