“La legge sull’ergastolo obbedisce alla Consulta: premiamo chi lo merita” di Errico Novi Il Dubbio, 7 aprile 2022 “Abbiamo seguito la strada indicata dalla Consulta”. Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia di Montecitorio, lo dice a proposito della legge sull’ergastolo ostativo, di cui è stato relatore. Il deputato del Movimento 5 Stelle ne parla in coincidenza con la relazione annuale e la conferenza stampa che il presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato terrà questa mattina, e in cui, con ogni probabilità, sarà chiamato a esprimersi anche sull’iter delle nuove norme per i detenuti “non collaboranti”, attese al vaglio della stessa Consulta nella riunione del prossimo 12 maggio. Presidente Perantoni, il testo sull’ergastolo che avete scritto in commissione e che ha ottenuto il via libera dell’Aula contiene passaggi che sembrano contraddittori. Ad esempio la pretesa che l’ergastolano non collaborante provi anche la rescissione dei legami non solo con l’organizzazione ma anche con il “contesto” di provenienza. Non si rischia di escludere, irragionevolmente, proprio i detenuti di mafia che non parlano per evitare di esporre familiari ancora residenti nella terra d’origine? Questa non è né la lettera né lo spirito della legge. Il mafioso non collaborante dovrà mettere i giudici in condizione di affermare con il massimo grado di sicurezza possibile che egli ha effettivamente interrotto i rapporti con l’organizzazione criminale di provenienza e con il contesto nel quale il reato è maturato. Non è importante se i familiari vivano o no in quel territorio ma se facciano parte del contesto criminale. La società gli dà credito ma il detenuto deve fornire specifici elementi perché i giudici accertino che non ha più alcun legame con la criminalità. E la richiesta al detenuto di prove che escludano il futuro riallacciarsi dei rapporti criminali? Come si fa a provare l’assenza di qualcosa che non può essere ancora avvenuto? Ricordo che l’esclusione del pericolo di ripristino dei collegamenti del condannato con il consesso mafioso o eversivo è uno dei parametri espressamente indicati dalla Consulta tra quelli per i quali il detenuto è tenuto a dare elementi nella sua domanda di accesso ai benefici. Prima di concedere benefici a un mafioso non collaborante, un giudizio di previsione sulla potenziale futura pericolosità, che sulla base di questa riforma non si presume più assoluta e costante, è certamente costituzionalmente compatibile. Richiedete atti di giustizia riparativa, anche patrimoniali: non si rischia di favorire i mafiosi le cui famiglie sono riuscite a conservare risorse accumulate con l’attività criminale? Come è noto ogni reato obbliga alle restituzioni ed al risarcimento dei danni patrimoniali e non. Se il detenuto si trova nell’impossibilità di adempiere a questi obblighi i giudici ne terranno conto. Questo è scritto nel testo. Del resto la norma prevede anche accertamenti patrimoniali puntuali e approfonditi finalizzati anche a fare emergere eventuali patrimoni accumulati illegalmente: no, non ritengo proprio che vi siano i rischi ai quali lei fa riferimento. Ma in generale non teme che una legge così fitta di ostacoli frapposti alla liberazione condizionale dell’ergastolano non collaborante renda di fatto impossibile un percorso netto che porti davvero al beneficio, e si riveli dunque incostituzionale come le norme preesistenti? Come relatore mi sono posto costantemente il tema della tenuta costituzionale del testo e le decisioni della Consulta sono state tenute ben presenti. La stesura del testo è frutto di un lavoro collettivo e tutti coloro che vi hanno preso parte, nessuno escluso, hanno lavorato con la massima attenzione per rispettare il dettato costituzionale. Altrettanto forte è stata la preoccupazione di garantire che potessero godere dei benefici solo persone meritevoli: ricordo che parliamo sempre di mafiosi non collaboranti. Insomma, la Consulta ha indicato la strada, noi l’abbiamo seguita. Corsi, diplomi e campi sportivi: quando il carcere riallaccia vite di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 7 aprile 2022 Poche linee, qualche tratto di pennello: se si potessero mettere su tela le sensazioni che suscitano le iniziative che si tengono in carcere, i colori sarebbero quelli della speranza. Nel carcere San Giorgio di Lucca, poco prima di Natale, è stato realizzato con il contributo del Comune e la collaborazione della Fondazione Cassa di risparmio, il campo sportivo polivalente dove poter giocare a calcio, pallavolo e basket. Il 5 novembre, quando il campo fu inaugurato con una partita di calcetto fra detenuti, avvocati e rappresentanti della Giunta comunale, venne annunciato anche l’arrivo di un defibrillatore che in questi giorni è stato consegnato ai responsabili della struttura penitenziaria. Per il corretto utilizzo del dispositivo salvavita, che è stato sistemato in un locale facilmente accessibile dal campo sportivo, l’associazione Mirco Ungaretti onlus si è offerta per organizzare corsi di formazione rivolti anche ai detenuti. Nel carcere di Rebibbia femminile ‘G. Stefanini’ di Roma sta per terminare invece il primo corso di sommelier, iniziato pochi mesi fa: 23 le partecipanti che prossimamente, il 14 aprile, riceveranno il diploma. Per l’occasione, a consegnare l’attestato sarà proprio il presidente della Fondazione Italia Sommelier, Franco M. Ricci, mentre Albano si esibirà per loro. Fra gli altri sarà presente anche la professoressa Paola Severino, già ministro della Giustizia e vice presidente della Luiss, presidente della Fondazione che porta il suo nome e che si occupa fra l’altro di sviluppare percorsi di formazione, reinserimento sociale e lavorativo per persone detenute ed ex detenute. Le detenute che a breve potranno fregiarsi del diploma e del tastevin, uno degli strumenti del mestiere, hanno già ricevuto offerte di lavoro dalla Ristorazione italiana, per quando avranno finito di scontare la loro pena. Nel carcere viterbese di Mammagialla sono stati consegnati oggi gli attestati di partecipazione del corso per manutentori del verde. Nato dalla collaborazione tra gli uffici giudiziari cittadini e l’azienda agricola ‘Nello Lupori’ dell’Università della Tuscia che ha portato alla stipula di una convenzione nel 2020, il corso si è articolato in quattro moduli formativi organizzati in altrettante giornate, dedicate anche alla sicurezza. Prevista già una nuova edizione per la primavera del 2022. Nel corso della consegna degli attestati, uno dei detenuti giardinieri ha potuto raccontare l’esperienza fatta nel “Giardino della solidarietà”. All’evento hanno partecipato, tra gli altri, il Presidente ff. del Tribunale, il Procuratore capo, il Garante nazionale dei detenuti. Presente anche il Capo dell’Ispettorato generale del ministero della Giustizia, Maria Rosaria Covelli, già presidente del tribunale di Viterbo. Domani pomeriggio, nella casa circondariale di Varese ci sarà la festa della primavera, momento pensato per favorire l’incontro fra padri e figli minori, che si terrà nello “spazio giallo”, dedicato tipicamente alla ricostituzione della famiglia del detenuto. L’evento, pensato dalla direttrice dell’istituto penitenziario, Carla Santandrea, e dal responsabile dell’area pedagogica, Domenico Grieco, inizia domani pomeriggio accogliendo mamme e bambini nei locali del carcere; momenti di intrattenimento per i più piccini, cui seguirà un rinfresco preparato dai detenuti con esperienza di panificazione e pasticceria. Questo incontro arriva a conclusione di un percorso che i detenuti padri hanno compiuto per un anno, alla ricerca delle modalità più adeguate per ricostituire e rinsaldare i legami genitoriali spezzati dalla detenzione. Csm, mediazione in salita per evitare il voto di fiducia di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 aprile 2022 Riforma della giustizia. Draghi: “Serve la collaborazione di tutte le forze politiche per arrivare a un compromesso ragionevole”. Ancora pochi progressi in Commissione. Maggioranza ancora in ordine sparso sulla riforma di Csm e ordinamento giudiziario. E in serata è arrivato il monito del premier. Mario Draghi è tornato così a sottolineare di avere promesso di non mettere la fiducia, esortando nello stesso tempo i partiti a trovare un accordo: “Io ho promesso in consiglio dei ministri di non mettere fiducia sulla riforma del Consiglio superiore della magistratura; spero di mantenere fede alla promessa. Spero che tutte le forze politiche prendano atto di questo segnale e si mostrino collaborative nel giungere a una soluzione per un compromesso che deve tuttavia essere ragionevole”. Certo però che se l’intesa mancasse, visto che il testo è atteso in Aula il 19, il tema della fiducia, forse possibile su un maxiemendamento del Governo che accorpi tutte le proposte approvate, peraltro all’unanimità, in Consiglio dei ministri poche settimane fa, tornerebbe di attualità. Enrico Costa di Azione, tuttavia, ricorda che la fiducia andrebbe piuttosto messa, paradossalmente, sul testo dell’originario disegno di legge Bonafede, approvato da un altro Esecutivo. E di mediazione difficile, posizioni agli antipodi, filo del rasoio, equilibrio precario, con un discreto campionario di espressioni preoccupate, ha parlato il presidente della commissione Giustizia della Camera, Mario Perantoni (5 Stelle) nel fare il punto, a sera, sullo stato dei lavori sulla riforma. Ieri, seconda giornata di votazioni, i progressi sono stati pochi. “Siamo sempre all’inizio - ha spiegato Perantoni - perché abbiamo appena cominciato a votare qualche emendamento dell’articolo 2, abbiamo però ancora degli emendamenti accantonati. I lavori procedono a rilento perché il tema è delicato, stiamo cercando di raggiungere un’intesa collettiva ma non è facile. Le posizioni politiche sono agli antipodi e la mediazione è estremamente difficile”. Oggi la riunione della commissione è stata annullata per consentire ai capigruppo di partecipare senza vincoli di tempo al nuovo vertice della maggioranza con la ministra Marta Cartabia. Perantoni però insiste: “Dobbiamo cercare di far sì che i tempi del 19 vengano rispettati. Come deadline ci siamo dati martedì mattina, dipende dalla riunione di domani (oggi, ndr). È un equilibrio molto precario, camminiamo sul filo del rasoio. Se questo filo si dovesse rompere non so quanto si possa arrivare a chiudere un testo in commissione”. Intanto, nel merito, la giornata di ieri ha visto respingere, in tema di sorteggio, emendamenti che puntavano a inserirlo nelle nomine per gli incarichi direttivi e semidirettivi. Prevedevano infatti che il Consiglio superiore della magistratura, esaurite le procedure di valutazione, indicasse una terna di candidati idonei per l’assegnazione dell’incarico in caso di numero di aspiranti sino a dodici e una quaterna di candidati in caso di numero di aspiranti superiore a dodici, tra le quali scegliere il vincitore sarà prescelto per sorteggio. In dichiarazione di voto il capogruppo di Forza Italia, Pierantonio Zanettin, che invece sostiene il sorteggio temperato per l’elezione del Csm, ha annunciato il voto contrario del suo gruppo perché l’emendamento “non premia la meritocrazia”. Tensione anche sulla proposta di allineamento, nel contesto della disciplina dei fuori ruolo e degli incarichi direttivi, tra la magistratura amministrativa e contabile e quella ordinaria. La riformulazione del Governo che escludeva l’allineamento è stata considerata insoddisfacente dai capigruppo della maggioranza e quindi, almeno per ora, accantonata. La riforma della giustizia e quei partiti inadeguati di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 7 aprile 2022 Dopo l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri del disegno di legge sull’ordinamento giudiziario e sulle modifiche del Csm, Draghi ha rimesso al Parlamento un ulteriore approfondimento su una materia delicata che riguarda la funzione della magistratura nell’attuale contesto democratico. Una decisione molto opportuna ma il Parlamento sta dimostrando di non essere in grado di accogliere proposte che hanno un minimo di strategia giudiziaria per risollevare la magistratura dal pantano in cui si trova. In verità le proposte del governo sono timide, ma rispondono agli interrogativi in discontinuità rispetto all’attuale situazione e dovrebbero trovare approfondimenti nel Parlamento non critiche negative. Il Csm ha approvato un parere negativo e i gruppi parlamentari hanno proposto circa 250 emendamenti che non vanno nella direzione di curare i mali di un corpo giudiziario che in qualche modo, e da tempo è fuori dalle regole della Costituzione. Il corporativismo ha superato il livello di guardia e la chiusura in se stessa della magistratura viene incentivata da un Parlamento nel quale purtroppo prevale l’anima giustizialista e populista dalla quale non si libera neppure il Pd che ritiene di essere un partito strutturato e quindi disponibile ad acquisire una cultura garantista. Come mai il Parlamento, gli stessi magistrati, i giudici, i componenti del Csm non si rendono conto che la magistratura non è in armonia con i tempi ed è totalmente inadeguata ai compiti diversi a cui è chiamata; e come mai la magistratura non si pone il problema che il problema l’indipendenza nel contesto attuale non può non essere collegata alla responsabilità istituzionale. Questi interrogativi non sono nuovi: alcuni, pochi in verità, se li sono posti in anni passati e il mio ricordo ritorna sempre a un prezioso libretto di Marcello Capurso del 1979 che sin da allora si interrogava “sul comportamento che la magistratura stava imprimendo al sistema politico generale in conseguenza del suo ruolo che andava assumendo nel sistema”. Questo problema culturale e istituzionale è stato recepito da alcuni studiosi e da pochissimi magistrati illuminati, e rifiutato come offensivo o (con una frase ricorrente) come “attentato all’autonomia e, all’indipendenza della magistratura”. La sovraesposizione e il ruolo di supplenza sempre denunziati non hanno mai determinato una riflessione culturale da parte della Anm che dovrebbe avere questo compito e non quello di ratificare la lottizzazione fatta dalla “correnti” interne. Si dovrebbe approfondire e individuare il nuovo ruolo della magistratura. Negli anni 50-60, nel periodo immediato dopo la Costituzione del ‘ 48, si diceva che il giudice era “la bocca della legge” e non poteva esercitare un’attività interpretativa e tantomeno creativa della legge perché “nell’applicare la legge, non può attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole e dalla intenzione del legislatore”. Sono espressione anacronistiche del 1956 e cioè della costituzione della Corte Costituzionale. Lo stesso Mastursi, con una frase che ho ripetuto mille volte, ha scritto che il giudice non è più sottoposto alla legge ma è “di fronte alla legge”. Questo porta a dire che la funzione che il costituente ha attribuito al giudice (in verità senza un approfondimento adeguato), non è più attuale per l’evoluzione che la funzione giurisdizionale ha avuto in questi lunghi anni. La magistratura non è più un “ordine autonomo” ma un potere tout court che va disciplinato come tutti i poteri. Ecco il punto vero che il legislatore dovrebbe porsi come problema fondamentale per un nuovo equilibrio dei poteri. Il compito è difficile ma la chiusura corporativa e l’inadeguatezza del legislatore rendono impossibile qualunque soluzione. Il discorso è di sistema e di rilevanza costituzionale e non è legato alla contrapposizione tra politici e magistrati, quasi sempre di basso livello, ma alla consapevolezza che la magistratura spesso è costretta a esercitare il ruolo di supplenza sia per la delega che il legislatore le attribuisce sia per carenze legislative sia per carenze legislative e per la crisi della norma che rende incerto il diritto. Il legislatore dunque non si avvede della supremazia del potere giudiziario per cui la giurisprudenza surclassa la legge, e il magistrato non si avvede che un “potere” surrettizio trasparente ha determinato una vischiosità interna che pone una questione di ordine morale prima ancora che istituzionale. Le proposte della ministra Cartabia si pongono in qualche modo questi complessi problemi come propedeutici a riforme più compiute e sono state ben commentate nei giorni scorsi su questo giornale, per cui è opportuno fare solo ulteriori rilievi per mettere in luce le responsabilità dei parlamentari che dovrebbero essere preoccupati di rappresentare il comune sentimento dei cittadini di scarsa fiducia nella magistratura che il referendum del 12 giugno metterà in evidenza perché il giustizialismo è alle corde! Il Paese avverte che sono necessarie riforme strutturali della magistratura e quelle in discussione al Parlamento sono importanti ma sono contestate. Per iniziativa di un deputato molto combattivo, Enrico Costa, è stato codificato il principio della presunzione di innocenza prevista della Costituzione considerata dai magistrati molto discutibile perché impedisce di fare dichiarazioni scandalistiche anticipando processi mediatici. Si discute della riforma del sistema elettorale del Csm e molti gruppi parlamentari vorrebbero che le candidature si determinassero per sorteggiato, proposta davvero incomprensibile fatta anche da persone acculturate, perché ricorre a un sistema che io definisco vigliacco prima che incostituzionale in materia così delicata. D’altra parte la fiducia nella Costituzione e a un ministro che l’ha rappresentata per il passato egregiamente, dovrebbe far premio su una proposta stravagante. La Camera ha discusso anche su un emendamento che mirava ad abrogare la norma che equiparava reati contro la pubblica amministrazione ai reati di criminalità organizzata e l’emendamento è stato bocciato dal Pd, da Forza Italia e dalla Lega. Questa norma maldestra e punitiva era stata approvata dal governo Conte: una disarmonia grave nell’ordinamento la equiparazione di fattispecie completamente diverse che dimostra una subordinazione populista e giustizialista del Pd ai Cinque stelle, oggi ancora più incomprensibile per la mancanza di consistenza di quel movimento. A queste scelte errate del Parlamento si aggiunge l’incertezza sulle modifiche dell’ergastolo ostativo, così come prescritto dalla Corte Costituzionale, perché è stato approvato un testo considerato addirittura peggiorativo di quello vigente. Che dire? Sì assiste ad un appiattimento su posizioni vendicative punitive che non tengono conto del significato che la Costituzione dà alla pena come espiazione e recupero sociale. Il mancato rispetto nei confronti della Corte Costituzionale, anche da parte di magistrati o ex magistrati che hanno svolto funzioni giurisdizionali è grave e incomprensibile. L’augurio è che la ministra della Giustizia difenda strenuamente i suoi principi per ottenere una discontinuità che anche se non riconosciuta fa bene alla giustizia. Giustizia, maggioranza in panne sul Csm. Cartabia vede i partiti di Ermes Antonucci Il Foglio, 7 aprile 2022 All’interno della maggioranza continuano le trattative estenuanti attorno alla riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario. La commissione Giustizia della Camera riprenderà oggi la votazione degli emendamenti meno divisivi presentati dal governo, ma la vera partita continua a giocarsi nella riunione a oltranza tenuta dalla Guardasigilli Marta Cartabia con le delegazioni dei partiti di maggioranza (aggiornata a oggi pomeriggio). A dividere maggiormente le forze di governo resta il sistema elettorale da utilizzare per il rinnovo del Csm, previsto a luglio. I tempi sono strettissimi, ma nonostante ciò - e i ripetuti appelli del capo dello Stato Sergio Mattarella - i partiti restano distanti da un accordo. L’obiettivo politico comune è quello di attenuare le influenze esercitate dalle correnti nelle procedure elettorali del Csm, ma sullo strumento da impiegare lo stallo prosegue. Le posizioni dei partiti sulla riforma del Csm - Partito democratico e Movimento 5 Stelle hanno accettato il sistema elettorale proposto dalla ministra della Giustizia (maggioritario binominale con correttivo proporzionale). Le forze di centrodestra (Forza Italia e Lega), con l’aggiunta di Italia Viva e Azione, insistono per l’adozione del sorteggio temperato, ritenuto però incostituzionale dalla ministra. Sono questi ultimi partiti a rendere altissime le tensioni nella maggioranza. Forza Italia incalza sulla separazione delle funzioni tra giudici e pm. Il partito guidato da Berlusconi vorrebbe che fosse inserito un limite massimo di un solo cambio di casacca durante la carriera delle toghe, contro i due passaggi previsti al massimo dal testo Cartabia. Lega e Italia Viva spingono per il sorteggio temperato e, soprattutto, chiedono mani libere per effettuare eventuali modifiche al testo anche quando questo passerà al Senato. Una posizione che va nella direzione opposta a quella indicata dal governo, che ieri, tramite il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà, ha chiesto invano di lavorare a un’intesa ampia a Montecitorio in modo che a palazzo Madama il testo non venga più toccato. Azione ripropone con forza il tema della responsabilità civile dei magistrati (il cui referendum promosso da Lega e Radicali e stato dichiarato inammissibile dalla Corte costituzionale). “Le norme sulla responsabilità civile hanno portato in 12 anni a sole 8 condanne di fronte a 664 cause e 154 sentenze definitive. Questo è giusto, ministra Cartabia? Questo è coerente con la Costituzione?”, ha ribadito questa mattina Enrico Costa, deputato e vicesegretario di Azione, annunciando che su “questo insisteremo perché si intervenga efficacemente nella riforma del Csm”. L’intesa della maggioranza sulle “porte girevoli” - Su un punto invece, in fondo non del tutto cruciale, i partiti sembrano essere riusciti a raggiungere ieri un’intesa: quello delle cosiddette “porte girevoli” tra magistratura e politica. Su questo aspetto è infatti emersa la volontà politica da parte di tutti i partiti di maggioranza di una trattazione omogenea di tutti i magistrati, contabili, amministrativi e ordinari, rispetto alla loro collocazione fuori ruolo in occasione dell’assunzione di incarichi elettivi, di governo o apicali politico-amministrativi (ad esempio come capo di gabinetto in un ministero). Oggi pomeriggio in commissione Giustizia alla Camera proseguiranno le votazioni sui punti sui quali esiste un’intesa nella maggioranza. L’esame dei nodi cruciali, tuttavia, è per l’ennesima volta rimandato, nonostante l’approdo in aula della riforma sia previsto per il 19 aprile. Csm, le toghe si ribellano alle pagelle sulla carriera di Liana Milella e Conchita Sannino La Repubblica, 7 aprile 2022 Tensione sulla riforma. Draghi: “Spero di mantenere la promessa di non mettere la fiducia”. Alta tensione sulla riforma del Consiglio superiore della magistratura, in Parlamento. Con il premier che, proprio mentre sembra ribadire il suo impegno a non ricorrere alla fiducia, vincola la propria parola ad una corrispondente “collaborazione” dei partiti, in realtà del blocco Lega-Fi-Fdi-Iv che sembra mancare all’appello. “Ho promesso in Consiglio dei ministri, per quanto riguarda il Csm - scandisce Mario Draghi - di non mettere la fiducia, quindi la mia intenzione è di rimanere fedele all’impegno. Spero però che le forze politiche si mostrino collaborative per raggiungere un compromesso ragionevole”. E tutto accade mentre monta quella che molti magistrati dell’Associazione nazionale, l’Anm, definiscono “la nostra rivoluzione orizzontale”. Perché sono i singoli stavolta a protestare, non le correnti. E perché il dissenso riguarda riforme che non sono solo del Csm, ma di tutta la giustizia e condannano la magistratura “a una deriva verticistica”, spingendo le toghe “verso un efficientismo aziendalistico”. Eccoli, i protagonisti: sono proprio le “vittime” dell’ultima legge in arrivo, ma pure di quella penale di cui via Arenula sta scrivendo i decreti finali. I documenti partono dai piccoli centri. E si moltiplicano. Si lanciano per prime le toghe di Busto Arsizio al Nord, che firmano un documento ripreso da tanti, rispondono quelle di Nola al Sud. Già, Nola, “la terra del libero pensiero e di Giordano Bruno”. E dopo l’assemblea distrettuale Anm di Milano, tre giorni fa, oggi si riunisce Napoli e domani Roma. È la precondizione perché si possa chiedere l’assemblea generale, in via straordinaria, dell’Anm. È una protesta senza etichette, che unisce magistrati in profondo allarme per la riforma che la Guardasigilli Marta Cartabia sta discutendo con una maggioranza divisa, in cui prevalgono ogni giorno le pulsioni del centrodestra, tant’è che il Pd ha lanciato un nuovo allarme. Ecco perché un Draghi preoccupato ha voluto sottolineare che non ricorrere alla fiducia è una “promessa” che meriterebbe ben altra volontà di giungere a una sintesi. L’impressione è che avvenga il contrario, tant’è che il presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni del M5S, dopo ore di protagonismo di Cosimo Ferri di Iv e Giusi Bartolozzi, ex Fi ora nel gruppo Misto - due toghe “prestate” alla politica - parla di “un equilibrio fragilissimo”, e di “un’intesa che non è facile perché le posizioni politiche a volte sono agli antipodi”. Anche l’approdo in aula per il 19 aprile potrebbe diventare difficile. Dal protagonismo del centrodestra potrebbero arrivare le norme che allarmano i giudici. Separazione di fatto delle funzioni, il “fascicolo” di ogni toga, la responsabilità civile diretta, il sorteggio come legge elettorale. Per questo i magistrati contestano “la corsa al carrierismo giudiziario ai danni, in primis, del cittadino”. Dopo Busto Arsizio e Nola, ecco Catanzaro. E poi il tris delle metropoli: Milano, che ha già approvato all’unanimità il documento di Busto. E poi Napoli, Roma. Il presidente Anm, Giuseppe Santalucia, segue la protesta di minuto in minuto, i documenti rispecchiano la sua lettura allarmista: “Questa riforma, sollecitata tante volte da Mattarella, aveva lo scopo di battere il carrierismo. Invece, se dovesse essere confermato l’impianto che via via trapela, finirebbe per ottenere l’obiettivo opposto, esaltare la carriera”. È d’accordo con i colleghi? “Sono le stesse proteste che abbiamo espresso, testimoniano il malessere della magistratura”. Ma si può tenere subito l’assemblea? Il rischio è che arrivi dopo il voto della Camera. Santalucia riunirà “in tempi strettissimi” il parlamentino Anm, mentre segue gli sviluppi, che paiono peggiorativi, dei vertici di maggioranza - oggi un altro è fissato dopo le 15 - e dei lavori in commissione. Da lì, anzi, arriva ieri un’altra piccola provocazione: in futuro una toga potrà presentare solo due domande al Csm per un nuovo incarico. Costa non ci sta: “Così i magistrati condizionano il lavoro parlamentare” di Valentina Stella Il Dubbio, 7 aprile 2022 Riforma del Csm, il deputato di Azione replica al segretario di Magistratura Democratica Stefano Musolino. Non si è lasciata attendere la reazione del responsabile giustizia di Azione, l’onorevole Enrico Costa, all’intervista pubblicata oggi sul Dubbio al Segretario di Magistratura Democratica Stefano Musolino. In essa il magistrato ha spiegato la sua contrarietà a due emendamenti del parlamentare alla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Stamattina Costa in assemblea ha così criticato più il metodo che il merito delle risposte. Vi riportiamo parti tratte dal resoconto: “Dice (riferito al dottor Musolino, ndr) anche: sembra proprio che la politica non conosca il nostro lavoro e non comprenda le nostre dinamiche interne, finendo con il partorire riforme che, invece di far progredire la magistratura, la riportano indietro di 50 anni. Dice anche: forse l’onorevole Costa non sa che, già oggi, uno degli elementi delle valutazioni di professionalità è proprio la verifica di un apprezzabile numero di riforme delle richieste o dei provvedimenti. Le valutazioni di professionalità, contrariamente alla vulgata diffusa ad arte, non sono fatte per premiare alcuno”. Per il vice segretario di Azione sarebbe “evidente che queste affermazioni di un magistrato in carica, il segretario di una corrente, da un lato, ovviamente evidenziano il fastidio per certe proposte, e questo posso anche capirlo, ma trovarle stampate sui giornali, durante l’iter procedimentale del lavoro in Commissione, ritengo che sia un modo, una modalità per condizionare - non voglio arrivare ad usare il termine intimidire - un organo costituzionale che deve svolgere il suo lavoro e l’attività legislativa. Penso che il Presidente della Camera debba essere informato di questo, che il Ministro della Giustizia debba essere informato di questo, e forse mi aspetterei anche qualche parola per svolgere con serenità il compito che sto svolgendo, perché, se questo percorso si fosse effettuato a parti invertite, il Consiglio superiore della magistratura avrebbe subito aperto una pratica a tutela”. Insomma questo è l’ennesimo episodio che dimostra che in questi giorni non c’è un clima sereno tra gli attori protagonisti della riforma: politici, magistrati, avvocati. Non sarebbe il caso di auspicare un confronto più sereno? Molto spesso parlarsi tramite dichiarazioni alla stampa o in contesti in cui manca fisicamente l’interlocutore non facilita la sintesi e il raggiungimento di un obiettivo che dovrebbe essere comune: valorizzare la magistratura sana. Quale metodo adottare senza abdicare alle proprie legittime convinzioni? Pagelle per i pm e bavaglio: ecco Costa, il falco anti-pm di Valeria Pacelli e Ilaria Proietti Il Fatto Quotidiano, 7 aprile 2022 Protagonista delle riforme. Nel 2021 propose una commissione sui rapporti con stampa. Prima la legge sulla presunzione di innocenza (già in vigore), poi la proposta di una sorta di pagelle per i pm (di cui si sta discutendo), prima ancora l’istituzione di una commissione parlamentare che valuti anche il “rapporto tra magistratura e mezzi di informazione” (mai concretizzata). Sono tutte iniziative che portano la firma di Enrico Costa, negli ultimi mesi protagonista delle riforme sulla giustizia. Ma chi è questo deputato di Azione le cui battaglie stanno trovando terreno fertile nei ranghi del governo? Un passato in Forza Italia e poi viceministro a via Arenula con Matteo Renzi, Costa è figlio d’arte: suo padre Raffaele è stato ministro e deputato liberale di lunghissimo corso. E infatti il suo destino politico inizia a Montecitorio: a sette anni Marco Pannella gli insegna a scivolare sui marmi del Transatlantico e a 16 gli regala la tessera del partito radicale. Ma invece dei digiuni e dei banchetti, Costa jr si accasa con Silvio Berlusconi, salvo un momentaneo colpo di testa per l’Ncc di Angelino Alfano e ritorno. Ora sta con Carlo Calenda che come lui non soffre di complessi di inferiorità, diciamo, checchè ne dicano i sondaggi: alla Camera Costa è capogruppo di se stesso, ma sul dossier giustizia conta come un peso massimo. Anche grazie a un certo feeling con la ministra della Giustizia Marta Cartabia che l’altro giorno, per dire, ha accolto la sua proposta sul fascicolo di valutazione dei pm con i risultati da loro conseguiti di tipo quantitativo e qualitativo. Che detta così sembra una schedatura: tot sentenze di condanna ribaltate in appello, ad esempio, peseranno come un 3 in pagella per uno scolaro somaro, e tanti saluti alla carriera. “Ma quale schedatura, il fascicolo vuole solo disinnescare il potere delle correnti: dove esistono dati di valutazione oggettivi la loro voracità ha un freno”, giura Costa al Fatto mentre attende un nuovo round in Commissione sulla riforma dell’ordinamento giudiziario. “Dal 2010 ad oggi sono state avviate 664 cause di responsabilità civile dei magistrati. In media 57 l’anno, 154 le pronunzie: in 12 anni lo Stato ha subito solo 8 condanne, l’1,2% delle cause iscritte. Domando al ministro: è giusto?”. Il momento per Costa è particolarmente felice: infatti lo soddisfa tutto sommato pure la stretta alle porte girevoli politica-magistratura anche se si poteva fare di più e meglio: fin dalla prima ora si è battuto perché i magistrati chiamati ad un incarico di gabinetto non tornassero mai più nelle aule di giustizia, un modo come un altro per scoraggiare la categoria fatalmente attratta dal potere politico, per i critici più banalmente un’operazione scientifica di sostituzione etnica: fuori i magistrati, dentro gli avvocati nei ministeri e a Palazzo Chigi. Durante questa legislatura Costa s’è dato da fare, intanto con tuoni e fulmini contro la riforma Bonafede della prescrizione. Poi con diverse proposte di legge. Come quella, presentata nel maggio 2020, sull’obbligo di trasmettere la sentenza di accoglimento della domanda di riparazione per ingiusta detenzione ai titolari dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati. Due mesi dopo, nel luglio 2020, ne propone un’altra per modificare la composizione del Csm: ridurre la componente togata a favore dell’aumento dei membri laici da eleggere da e tra docenti universitari e avvocati. Però il pallino di Costa restano le pagelle: per questo a maggio 2021 si è speso per l’istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta sulla regolarità del conferimento degli incarichi direttivi dei magistrati, sullo svolgimento delle elezioni del Csm e pure sul rapporto tra la magistratura e i mezzi d’informazione. Finora le sue proposte non hanno avuto soddisfazione, ma da quando c’è Cartabia è strafelice: per Costa la nuova legge sulla presunzione di innocenza è un grandissimo risultato: la norma - che tra le altre cose impone ai procuratori di parlare con la stampa solo tramite comunicati ufficiali - è in vigore dal 14 dicembre scorso. Ora l’auspicio è che il ministro vada avanti con altre riforme: intanto Costa voterà i referendum leghisti sulla giustizia, specie quello sulla custodia cautelare “per quanto è scritto con l’accetta”, dice. Ma tant’è. “Pagelle” ai magistrati: come cambia il sistema di valutazione delle toghe di Giulia Merlo Il Domani, 7 aprile 2022 L’emendamento Costa prevede di inserire i fascicoli di valutazione dei magistrati sostituendo il sistema attuale che promuove oltre il 99 per cento delle toghe. Per ogni magistrato, infatti, verrà formato uno schedario che contiene le attività svolte: dati statistici e documentazione dell’attività svolta, “la tempestività nell’adozione dei provvedimenti, la sussistenza di caratteri di significativa anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi o nei gradi del procedimento e del giudizio”. Fortissima contrarietà a questo sistema è stata espressa a tutti i livelli da parte dei magistrati. Secondo l’Anm è una riforma che punta su “una visione iperproduttivistica” che produrrà “un atteggiamento difensivo da parte del magistrato, determinando una diminuzione dei provvedimenti”. L’accordo complessivo sulla riforma dell’ordinamento giudiziario è ancora lontano, nonostante il premier Mario Draghi abbia chiesto “che i partiti collaborino”, confermando la promessa di non mettere la fiducia. Tuttavia su un punto la convergenza è stata trovata: il via libera alla proposta di Azione, corretta poi dal ministero della Giustizia, sulla creazione del cosiddetto “fascicolo per la valutazione del magistrato”. Il sì unanime della maggioranza, però, fa il paio con la contrarietà compatta (e inascoltata) di tutta la magistratura. La novità del fascicolo - Il fascicolo è una sorta di rivoluzione nel metodo di valutazione e di progressione professionale dei magistrati. Per ogni magistrato, infatti, verrà formato uno schedario che contiene le attività svolte: dati statistici e documentazione dell’attività svolta (non solo quella decisoria ma anche le misure cautelari disposte ed eventualmente revocate) “sia sotto il profilo quantitativo che qualitativo”, “la tempestività nell’adozione dei provvedimenti, la sussistenza di caratteri di significativa anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi o nei gradi del procedimento e del giudizio”, si legge nel testo prodotto dal ministero della Giustizia dopo l’accordo nei vertici di maggioranza. Tale fascicolo diventerà uno strumento essenziale sia “ai fini delle valutazioni di professionalità” e quindi gli aumenti progressivi di stipendio, ma anche per “il conferimento degli incarichi” direttivi e semidirettivi da parte del Consiglio superiore della magistratura, ovvero gli scatti di carriera. Le ragioni della modifica - Si tratta di una modifica sostanziale rispetto al sistema oggi in vigore, introdotto con la riforma del 2006. Attualmente le valutazioni di professionalità dei magistrati, che si svolgono ogni quattro anni e servono per gli scatti di anzianità, vengono fatte dai consigli giudiziari, ovvero gli organi collegiali presenti nei 26 distretti di corte d’appello e composti da magistrati eletti nel territorio e dai membri laici, che tuttavia non hanno diritto di voto su questo specifico tema (ma la riforma punta a modificare anche questo, inserendo il voto unitario dell’avvocatura). La principale critica mossa al funzionamento ora in vigore è che, di fatto, non viene “bocciato” nessuno. Le valutazioni possibili sono tre: positiva, non positiva e negativa. Le ultime statistiche del Csm mostrano come la percentuale di magistrati promossi con valutazione positiva dal 2008 al 2016 sono in media il 98,2 per cento. Il picco più alto nel 2015, con il 99,5 per cento di valutazioni positive, il più basso nel 2012 con il 97,1 per cento. Dal 2017 al 2021, i magistrati che hanno ricevuto un giudizio negativo sono stati 35, cioè lo 0,5%; un giudizio “non positivo” 24, pari allo 0,3%, mentre le restanti 7.394 sono stati giudicati positivi. Il risultato è che praticamente tutti i magistrati raggiungono il livello massimo di carriera, stipendio e pensione. Secondo i magistrati, però, questo risultato è causato da una previsione troppo rigida della riforma del 2006, che prevede che, dopo due valutazioni negative, scatti la dispensa dal servizio. Una conseguenza considerata eccessiva che, in assenza di una maggiore possibilità di gradare i giudizi, produce il profluvio di valutazioni positive. I pro secondo la politica - La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha assicurato che la norma non irrigidisce l’ottica valutativa nei confronti delle toghe ma che il meccanismo serve a migliorare la qualità dei giudizi. Il senso sarebbe proprio quello di invertire la tendenza delle valutazioni tutte positive che di conseguenza rendono anche complicato un giudizio comparativo dei candidati che si presentano al Csm per guidare gli uffici giudiziari. In questo modo, invece, si renderebbe il giudizio il più possibile oggettivo, calibrandolo su evidenze professionali. A cantare vittoria è soprattutto il proponente, il deputato di Azione Enrico Costa, secondo cui il fascicolo consentirà di conoscere di ogni magistrato “i meriti ma anche gli insuccessi e gli errori, le inchieste flop, le sentenze ribaltate e gli arresti ingiusti”, con l’obiettivo di far “fare carriera chi è più bravo e non chi è più organico alle correnti”. L’ipotesi politica è che, ottenuto il sì ai fascicoli di rendimento, il centrodestra possa rinunciare al sorteggio temperato per l’elezione al Csm, che sta bloccando il ddl. I contro dei magistrati - Fortissima contrarietà a questo sistema è stata espressa a tutti i livelli da parte dei magistrati. Il segretario dell’Anm, Salvatore Casciaro, ha parlato di riforma che punta su “una visione iperproduttivistica” che produrrà “un atteggiamento difensivo da parte del magistrato, determinando una diminuzione dei provvedimenti”. Le valutazioni, infatti, servirebbero ad accertare lo standard minimo di diligenza professionale, non a generare competizione tra colleghi. Il presidente, Giuseppe Santalucia, ha spiegato che “le votazioni inevitabilmente producono un’ansia competitiva” e ha messo in luce la pericolosità di agganciare la valutazione di professionalità all’andamento dei processi, “come se un’assoluzione in appello dopo una condanna rappresentasse un errore”, mentre invece “il processo è fatto per accertare la verità. È laborioso e complesso. Bisogna rispettarne tutte le fasi”. Stessa critica è stata mossa anche nel parere del Csm, secondo cui una valutazione di questo tipo “è del tutto ultronea e, portando ad una inammissibile classifica tra magistrati dell’ufficio, potrebbe finire per stimolare quel carrierismo che la riforma vorrebbe invece eliminare”. Tradotto: un meccanismo di valutazione genererebbe concorrenza tra i magistrati, mentre ogni magistrato deve essere autonomo e indipendente e non sottoposto a una gerarchia se non quella organizzativa. Dunque, secondo le toghe, enfatizzare i voti produrrebbe carrierismo: esattamente il male che si vorrebbe estirpare. Non solo, si renderebbero i magistrati meno liberi di agire, perchè condizionati. Sulle obiezioni tecniche dei magistrati prevale però il momento storico, con ancora freschi gli scandali, dal caso Palamara a quello sui verbali di Amara. Per questo la politica ha trovato convergenza su una riforma che introduce criteri di valutazione su un potere che - dalle cronache recenti - è apparso sempre più come casta autogestita secondo meccanismi non sempre trasparenti. Con la cecità delle misure di prevenzione antimafia si strangola il Sud che vive di lavoro legale di Francesco Iacopino e Valerio Murgano* Il Dubbio, 7 aprile 2022 Nel Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo, promosso dall’Unione Camere Penali, i punti 34 e 35 sono dedicati alle misure di prevenzione. Il primo sostiene che dette misure, “nate come strumento eccezionale di controllo sociale di categorie particolari di soggetti (...), tendono oggi ad assumere il carattere del diritto comune e rappresentano un sottosistema parallelo al diritto penale, destinato a colpire dove quest’ultimo non potrebbe mai giungere”. Gli addetti ai lavori sono ben consapevoli che le misure di prevenzione assumono oggi un carattere essenzialmente sanzionatorio, talvolta più della stessa pena: per tale ragione si rivendica l’esigenza che esse abbiano lo stesso statuto di garanzia proprio della materia penale. Gli arsenali afflittivi azionati in detto settore consentono allo Stato di offrire una prova muscolare della propria forza, grazie alla liquidità delle categorie definitorie della pericolosità sociale, al diverso statuto epistemico, alla diversa grammatica probatoria che ne regge il sistema. Su questa impalcatura si edificano misure limitative dei diritti di libertà personale e patrimoniale, dando vita a un terzo binario sanzionatorio, paradigma esterno alla legalità legittimato in nome di un’etica dell’effettività. È stato efficacemente sostenuto che “l’utopia securitaria, nutrita dal sospetto, induce l’autorità pubblica a cercare di controllare ogni momento della vita delle persone” (Sgubbi). È tema assai delicato, che assume contorni ancora più preoccupanti sul terreno delle misure di prevenzione patrimoniali non ablative. Quando, cioè, nel fuoco dell’attenzione statale cade, non già un soggetto portatore di pericolosità, bensì un soggetto economico sano, un imprenditore la cui unica colpa è quella di essere ritenuto a rischio di infiltrazione mafiosa. Sospetto e probabilità divengono, così, regole poste a fondamento giustificativo di provvedimenti limitativi dei diritti di libertà degli individui. Per molte imprese lecite è l’inizio della fine, un percorso infernale degno dei migliori gironi danteschi. In materia vi è una precisa scelta politica del legislatore: la criminalità mafiosa si colpisce su due terreni. Uno radicale di aggressione del patrimonio geneticamente illecito, applicando misure ablative alle imprese mafiose con lo scopo di espellerle dal mercato; l’altro, recuperatorio, di rescissione dei legami che la criminalità (cerca di) allaccia(re) con il tessuto economico sano, curando le imprese che, avendo subito un “contagio” mafioso, si consegnano allo Stato per avviare un percorso terapeutico. Su tale ultimo terreno, il disegno del legislatore è ispirato a una logica aziendalistica. Amministrazione giudiziaria e controllo giudiziario rappresentano un “sottosistema omogeneo” chiamato a operare per liberare l’impresa dai lacci della criminalità e restituirla risanata al circuito dell’economia legale. La storia scritta nei tribunali, però, spesso è drammaticamente diversa e registra un diaframma tra il testo legislativo e la sua interpretazione. Nella prassi applicativa i fattori di rischio di infiltrazione (fornitore ‘ equivoco’, dipendente vicino a una cosca, appalto stipulato con impresa ritenuta ‘ inquinata’) sono stati spesso letti non già in chiave prognostica (quindi verificando se, con l’ausilio dello Stato, vi fossero le condizioni per bonificare le imprese dal condizionamento mafioso), ma in chiave stigmatizzante, mediante una lettura fondata sulla valorizzazione di quei fattori di rischio che sono diventati gli ostacoli al recupero di legalità. Si è così negato (e si nega tuttora) a molte imprese sane l’accesso alle misure patrimoniali non ablative, consumando un’eterogenesi dei fini: invece di liberare le imprese lecite dal circuito della criminalità, le si elimina dal circuito dell’economia legale, creando spazi vuoti di mercato che, certamente, non saranno riempiti da altri imprenditori virtuosi. Emblematica, oltre che drammatica, sul punto, è la vicenda di Rocco Greco, imprenditore agrigentino che, stretto dalla morsa della mafia da un lato, e dalla ostinazione securitaria dello Stato dall’altro lato, non ha trovato altra soluzione alla propria disperazione che quella del suicidio. È chiaro quindi che urge porre rimedio a un ‘ caos interpretativo’ che continua a produrre effetti metastatici sul sistema economico e sociale. Occorre una seria riflessione sulla gestione del fenomeno, soprattutto da parte degli addetti ai lavori, chiamati ad attuare una disciplina che la magistratura requirente non ama (preferendo la logica purificatrice del “fare terra bruciata”), mentre quella giudicante fa fatica a digerire, ora perché il mutamento di paradigma implica un cambio di passo culturale nella lotta alla mafia ora perché obiettivamente gravosa da applicare. Eppure, se lo Stato non comprende - e in fretta - che ha il dovere di tendere la mano agli imprenditori soggiacenti vessati dalla mafia e che ha tutto l’interesse ad attivare con il tessuto pulito dell’economia un’alleanza terapeutica volta a bonificare le aziende dal rischio di contaminazione mafiosa, il costo sociale ed economico sarà devastante per l’intera collettività. Sul tema, l’associazione ‘Nessuno tocchi Caino’ ha pubblicato di recente il volume “Quando prevenire è peggio che punire. Torti e tormenti dell’inquisizione antimafia”. Sul retro della copertina è posta una citazione, che non necessita di alcun commento: “La lotta alla mafia è un obiettivo sacrosanto, ma il modo peggiore per perseguirlo è cercare la mafia là dove non c’è. Per dirla con Voltaire, le streghe hanno smesso di esistere quando noi abbiamo smesso di bruciarle”. *Segretario e Presidente della Camera penale “A. Cantàfora” di Catanzaro Covid e mafia, Dia: “Ecco come la criminalità organizzata ha fatto affari con la pandemia” di Giacomo Galeazzi La Stampa, 7 aprile 2022 Relazione Direzione investigativa antimafia: “Episodi relativi a furto vaccini e tentativi di portarli in altri Stati sono la spia del fenomeno”. Dia: “Ecco come la criminalità organizzata ha fatto affari con il Covid. Episodi relativi a furto vaccini e tentativi di portarli in altri Stati sono la spia di un fenomeno che potrebbe emergere”. A sottolinearlo è la Direzione investigativa antimafia nella relazione relativa al primo semestre del 2021. L’emergenza sanitaria determinata dalla pandemia, sottolinea la Dia, “ha reso necessario un consistente intervento pubblico nell’economia per sostenere le famiglie e le imprese, garantire l’occupazione, solleticando gli appetiti criminali in un settore nevralgico come quello della Sanità, sul quale vengono convogliate cospicue risorse pubbliche, rendendo il settore particolarmente permeabile da una miriade di imprese contigue alla criminalità organizzata”. Risultanze investigative - “Seppur non vi siano allo stato risultanze investigative che confermino con certezza l’interessamento delle mafie, nel corso del semestre in riferimento, sono stati registrati alcuni episodi relativi al furto di vaccini ed al tentativo di trasporto degli stessi fuori dallo Stato italiano - puntualizza la Dia - Tali reati, che non certificano l’interesse della criminalità organizzata verso il fenomeno, potrebbero essere letti come reati spia di un fenomeno che potrebbe essere latente, ma in procinto di emergere”. Truffe on line - La relazione rileva poi che “un altro settore criminale in forte espansione in “epoca Covid” è quello delle truffe on line e delle frodi informatiche, cosiddette “man in the middle” i cui proventi vengono riciclati all’estero attraverso il circuito “money transfer”“. E che “non possono sottacersi le possibilità che l’attuale crisi di molti settori produttivi, duramente colpiti dalle misure di contenimento, potrebbero offrire alla criminalità organizzata: al comparto dei presidi medico-sanitari, pertanto, si aggiungono i settori immobiliare, edile, dei servizi di pulizia, tessile, turistico, della ristorazione e della vendita di prodotti alimentari, dei servizi funerari e dei trasporti verso i quali occorre concentrare l’attenzione investigativa”. Esempi - Paradigmatiche da questo punto di vista sono “alcune recenti attività investigative transnazionali, le cui risultanze hanno fatto emergere la convergenza di strutture criminali, di differente matrice, nella pianificazione condivisa dei business della illecita commercializzazione di carburanti e nel riciclaggio di centinaia di milioni di euro in società petrolifere, sedenti in Italia, intestate a soggetti insospettabili, meri prestanome”, riferisce la Dia. Precisando come “i maggiori cartelli criminali siano fortemente attivi nelle attività di riciclaggio del capitale criminale accumulato in settori economici redditizi, particolarmente permeabili, soprattutto in un momento storico come quello attuale, di crisi economica generalizzata, dovuta alle ricadute della perdurante emergenza pandemica”. Strage di Bologna, l’ergastolo a Paolo Bellini rappresenta un punto per la democrazia di Benedetta Tobagi La Repubblica, 7 aprile 2022 Il verdetto sull’attentato del 2 agosto 1980 alla stazione porta un po’ più di luce negli angoli bui di questo nostro Stato. La condanna di tutti e tre gli imputati nel cosiddetto “processo ai mandanti” per la strage di Bologna è un risultato importante della fatica di Sisifo della giustizia. A partire dalla mole di documenti raccolti dall’associazione delle vittime, contribuisce infatti a chiarire e ampliare il quadro mostruoso di connivenze, depistaggi e abusi di potere intorno alla strage di Bologna, oltre a confermare gli esiti dei giudizi precedenti. L’ergastolo a Paolo Bellini si incastra senza attriti nel mosaico delle responsabilità già accertate. Con i Nar hanno operato diverse “etichette” della destra eversiva dell’epoca, da Terza Posizione a schegge della disciolta Avanguardia Nazionale, in cui aveva militato appunto Bellini, in osmosi tra loro e in contatto con la vecchia guardia di Ordine nuovo. Tutti questi soggetti erano variamente legati ai servizi segreti (a cominciare da Fioravanti: molte testimonianze raccolte contestano ulteriormente la presunta “purezza” da lui sempre rivendicata). L’amministratore di immobili Domenico Catracchia (fiduciario e amico di Vincenzo Parisi, vice e poi capo del Sisde) ha avuto una condanna pesante proprio per aver mentito riguardo all’appartamento affittato, come covo, ai Nar, nell’immobile in odor di servizi di via Gradoli 96, a Roma. La ricostruzione delle protezioni di cui ha beneficiato Bellini è impressionante, dall’inchiesta sull’omicidio del militante di sinistra Alceste Campanile nel ‘75, ostacolata per anni da “disinvolte menzogne e depistaggi” (finché il killer non confessa), ai rapporti col procuratore capo di Bologna Ugo Sisti (che contribuì a dirottare l’inchiesta sulla strage su una presunta pista internazionale), fino agli anni Novanta delle stragi mafiose. Poi ci sono i mandanti. Penalmente non c’è nulla da fare perché i protagonisti sono tutti morti, però la pubblica accusa ritiene ormai storicamente provato che la strage è stata finanziata dal vertice della P2 (dalla minuziosa ricostruzione dei flussi di denaro è risultato peraltro che il Nar Gilberto Cavallini, detto “il ragioniere”, aveva ingenti disponibilità finanziarie, come Bellini). Il “livello superiore” di Gelli innervava le forze di sicurezza, i centri del potere economico e le amministrazioni dello Stato. Era dunque in grado di fare pressioni ai massimi livelli, come dimostra il “documento artigli” del 1987, contenente minacce non troppo velate a indirizzo del Viminale, se mai si fossero poste a Gelli domande scomode sui flussi finanziari ricostruiti in questo processo. Non emerse nulla. Il Venerabile è morto in serenità a casa propria, come auspicava il papello ricattatorio. La condanna per depistaggio di Piergiorgio Segatel, all’epoca Carabiniere del gruppo investigativo di Genova (il coimputato Quintino Spella, responsabile del centro di controspionaggio Sisde di Padova, è morto prima dell’inizio del processo), si inserisce in un quadro da far gelare il sangue, in cui pure è protagonista la P2. Il più grave attentato della storia d’Italia era stato preannunciato da un uomo legato alla destra eversiva; prima della bomba, la confidenza è di fatto “insabbiata”; dopo, i servizi segreti depistano le indagini in tutt’altra direzione, rispetto alle informazioni disponibili. Come la recente sentenza sul caso Cucchi, anche questo verdetto porta un po’ più di luce negli angoli bui di questo nostro Stato. Far chiarezza sugli abusi è uno dei meccanismi fondamentali per migliorare lo stato di salute di una democrazia. In questo senso, il rinvio alla Procura per ulteriori indagini di alcune testimonianze assai delicate (le ipotesi di reato sono depistaggio e falsa testimonianza) fa ben sperare. Condannato all’ergastolo Bellini, ma non parlate di giustizia... di David Romoli il Riformista, 7 aprile 2022 Strage di Bologna, sentenza di I grado. Non c’è giustizia quando un imputato finisce alla sbarra per un’intercettazione mal interpretata. Non c’è giustizia se l’unico indizio diventa la pistola fumante. Paolo Bellini è stato condannato all’ergastolo, con un anno di isolamento diurno. Che sia lui il terrorista che ha materialmente deposto la bomba alla stazione di Bologna, il 2 agosto 1980, non è ancora verità processuale: lo sarà se la sentenza di ieri sarà confermata in appello e in Cassazione e non è affatto detto che sarà così. I familiari delle vittime si sono abbracciati in aula esclamando: “Giustizia è fatta”. Non è vero. Non c’è giustizia quando un imputato finisce alla sbarra per una intercettazione che parla dell’”aviere”, e chi se non lui che ha la patente di volo?, poi l’intercettazione viene ripulita con le tecnologie oggi disponibili, si scopre che non di “aviere” bensì di “corriere” si parla e la corte se la prende con la scientifica di Roma, rea di aver ripulito quella registrazione. Chi ve l’ha chiesto? Come vi siete permessi? Non si può parlare di giustizia quando non viene trovato e neppure cercato un sol contatto tra l’imputato che avrebbe deposto la bomba e quelli che secondo le sentenze avrebbero materialmente organizzato la mattanza, lo avrebbero guidato e diretto. Si erano mai viti? Si conoscevano? Erano a conoscenza della reciproca esistenza? Non si direbbe. Non c’è un solo testimone, un solo indizio che lo attesti. Sono quisquilie, particolari ininfluenti. Che ci vuole a organizzare una strage, la peggiore nella storia della Repubblica, senza neppure incontrarsi. Non si può parlare di giustizia quando l’unica prova è il riconoscimento di un volto tra la folla da parte di una ex moglie che in precedenza aveva assicurato che non si trattasse del soggetto in questione poi, a distanza di decenni, ci ha ripensato. Sarebbe arduo già definire un simile riconoscimento un indizio. Qui è stato considerato più che una prova: la pistola fumante. Non si può parlare di giustizia quando c’è un corpo letteralmente polverizzato, dunque presumibilmente quello di chi si trovava più vicino all’ordigno, e non si sa di chi sia ma la Corte rifiuta ogni accertamento. Anche quando il principale esperto di dna in Italia dichiara di avere ragionevoli probabilità di identificare l’identità ignota se solo gli fosse permesso di procedere. Invece gli è vietato. A Bologna sono stati condannati anche due imputati minori, l’ex amministratore dei condomini di via Gradoli Domenico Catracchia per false informazioni al pm e l’ex capitano dei carabinieri Piergiorgio Segatel, per depistaggio. Non potevano essere invece condannati i presunti mandanti, nomi eccellenti, il vertice della P2, Gelli e Ortolani, il capo degli Ufficio Affari Riservati del Viminale D’Amato, l’allora direttore del Borghese, Tedeschi. Sono tutti morti. Per sapere se la Corte li considera colpevoli, sulla base di uno scarabocchio che il defunto Gelli non ha purtroppo avuto modo di spiegare altrimenti, bisognerà probabilmente attendere le proverbiali motivazioni della sentenza, che in questo caso sarebbero però la sentenza, sia pure postuma e a futura memoria. Non c’è giustizia e non c’è verità. Cosa sia successo a Bologna in quel tragico giorno di inizio agosto, chi abbia voluto la mattanza e perché resta un mistero avvolto nella carta opaca di sentenze ingiuste. 7 aprile del 1979. Quel giorno iniziò lo strapotere delle Procure di Tiziana Maiolo Il Riformista, 7 aprile 2022 Le prove generali ebbero inizio quel giorno, il 7 aprile del 1979 in cui la politica si consegnò ai Pm. Prove di Repubblica Giudiziaria, che avrà il suo epilogo tredici anni dopo con Tangentopoli e di lì non ci abbandonerà più. Con le sue carceri speciali, le infinite custodie cautelari, le trattative con i “pentiti”, le imputazioni che si modificano in corso d’opera, l’uso dei reati associativi in mancanza di fatti concreti, la legislazione d’emergenza diventata ordinaria. E il Pm caput mundi. E la politica con la testa china. Il bandolo della matassa è proprio lì, nel giorno in cui, con una grande complicità culturale e politica e forse anche altro, del Pci, il pubblico ministero di Padova Pietro Calogero diede l’ordine alla Digos per una grande retata, in diverse città italiane. In carcere un gruppo di docenti dell’Università di Padova, facoltà di scienze politiche, di cui il più famoso era Toni Negri, e poi Oreste Scalzone, Emilio Vesce, mentre in modo rocambolesco si era reso latitante Franco Piperno. Decapitata l’ex dirigenza di Potere Operaio, uno dei più agguerriti gruppi della “sinistra extraparlamentare” degli anni settanta che nel frattempo si era sciolto, e dell’Autonomia. Il pm Calogero indagava su quel mondo della sinistra di quegli anni - un mondo che era sicuramente estremista ma anche creativo e intellettualmente appassionato da almeno due anni prima del blitz del 7 aprile. In un’intervista a Panorama del 23 maggio 1978 aveva anticipato il suo pensiero, quello che passerà alla storia come il “teorema Calogero” e che terrà impegnato il mondo politico-giudiziario nei successivi sette anni, creando danni che diverranno permanenti all’amministrazione della giustizia e allo Stato di diritto. “Un unico vertice - aveva detto - dirige il terrorismo in Italia. Un’unica organizzazione lega le Br e i gruppi armati dell’Autonomia. Un’unica strategia eversiva ispira l’attacco al cuore e alla base dello Stato”. Occorre fare un tuffo nel passato per capire la pericolosità, che l’evoluzione processuale chiarirà alla fine di quei sette anni infuocati, di questo pensiero e questa dichiarazione. Che esistesse il terrorismo in Italia era un dato di fatto. Il culmine era stato raggiunto con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Ma gli anni settanta avevano prodotto movimenti e gruppi e gruppetti impetuosi di giovani, che andavano dagli indiani metropolitani fino a coloro che avevano impugnato le armi, come le Br e Prima Linea. Non erano proprio tutti uguali. Lo Stato era impotente, questa è la verità. Non aveva saputo né trattare con i terroristi che avevano rapito Moro e avevano saputo tenerlo nascosto per 44 giorni, né essere inflessibile da vincente, e aveva lasciato ammazzare il segretario della Dc. Così la strampalata tesi del dottor Calogero sembrò essere la soluzione cui l’intera magistratura (con qualche riserva del giudice istruttore Giovanni Palombarini, esponente padovano di Magistratura democratica), il mondo politico e quello giornalistico, con la sola eccezione del manifesto (e in particolare di Rossana Rossanda), si aggrappò come a una soluzione salvifica della tragedia che l’Italia stava vivendo. Così Toni Negri divenne il simbolo di ogni male, non solo il capo di una sorta di spectre che di giorno era solo un “cattivo maestro” di sovversione e di notte il capo delle Brigate Rosse. Non solo era a capo di un tentativo insurrezionale, questo gli veniva contestato dalla magistratura padovana. Ma era anche il capo delle Brigate Rosse e il responsabile della strage di via Fani e del rapimento e assassinio di Aldo Moro e di una serie di altri omicidi. Questa l’imputazione che gli attribuiva il procuratore capo di Roma Achille Gallucci. Le prime incrinature allo Stato di diritto partono di qui. Mai era successo che in Italia si contestasse a qualcuno il reato di insurrezione armata contro in poteri dello Stato, che prevede l’ergastolo e che comporta quanto meno un tentativo di colpo di Stato. E mai era stato applicato il concetto del “tipo d’autore” per cui, una volta individuato il soggetto deviante, gli si attribuiscono tutti i più gravi reati della fase storica. Poiché nella realtà a Toni Negri e gli altri arrestati potevano solo esser attribuiti scritti e discorsi di tipo sovversivo. Anche la teorizzazione di progetti insurrezionali. Infatti ben presto gli inquirenti finirono con l’accontentarsi di contestare altri due reati, e li distribuirono a centinaia di imputati: l’associazione sovversiva e la banda armata. Accuse che resteranno in piedi fino alla fine e saranno oggetto, per alcuni, di condanna. Mentre il “teorema Calogero” crollava. Mentre il Pci faceva appelli alla “vigilanza democratica” per difendere i magistrati da dubbi e critiche, i quotidiani si sbizzarrivano con la fantasia. Soprattutto dal momento in cui Toni Negri fu ritenuto il “telefonista” a casa Moro, insieme a un cronista padovano di nome Pino Nicotri, arrestato nello sbalordimento generale perché sospettato di un’altra chiamata da parte delle Brigate Rosse. Queste storie, viste oggi da lontano, paiono solo grottesche, ridicole, ma tragiche se pensiamo che sono costate anni di carceri speciali a persone innocenti. Sarebbe bastato chiedere subito gli alibi a Negri e Nicotri dei giorni delle telefonate, che erano partite da Roma mentre uno era a Padova in redazione con molti testimoni e l’altro a Milano in compagnia di due persone. E magari anche saper distinguere una parlata marchigiana (il telefonista di casa Moro) dall’accento marcatamente veneto di Toni Negri. Il settimanale L’Espresso, recordman di forche appese, aveva addirittura regalato ai lettori due dischi con le registrazioni delle telefonate con il gioco “fai da te la perizia fonica”. Si è persino chiamato in causa Emilio Alessandrini, che era stato assassinato da Prima Linea tre mesi prima. Qui devo accennare a un episodio che ha visto coinvolta anche la mia persona. Nel 1978, proprio nei giorni del rapimento Moro, avevo partecipato con mio marito a una cena a casa di un pm mio amico, Antonio Bevere, cui erano presenti, con relative mogli, sia Emilio Alessandrini che Toni Negri. Un anno dopo, e dopo il blitz del 7 aprile, i giornali, in particolare l’Unità, cominciarono a parlare di quella cena, insinuando che quella sera Toni Negri avrebbe “preso le misure” del personaggio per poi far uccidere Alessandrini. E anche perché Paola, la moglie del magistrato assassinato (che tra parentesi ha anche fatto finire in galera per due giorni per falsa testimonianza me e mio marito dicendo che alla cena non c’eravamo) si era ricordata che Emilio ascoltando il disco dell’Espresso aveva riconosciuto la voce di Negri, la stessa che aveva potuto ascoltare per un’intera serata a casa di Bevere. Peccato che Alessandrini non l’avesse mai denunciato. Sulla base di questo tipo di “prove” si fondò il processo “7 aprile”. E bisognerà aspettare il “pentito” Patrizio Peci, che era un brigatista vero, per far smontare tutto. Ma l’assalto allo Stato di diritto continua, da quel 7 aprile 1979. Il basso quantitativo della droga rinvenuta non è il solo dato da considerare per l’uso personale di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 7 aprile 2022 L’iniziale contestazione del possesso come illecito amministrativo non impedisce la successiva imputazione per finalità di spaccio. L’uso personale della droga rinvenuta è dimostrato dal concorso di diversi elementi e non solo dal dato quantitativo per quanto di per sé rilevante. Infatti, le modalità della detenzione e altre circostanze di fatto, come la notorietà come “pusher” in una data area di spaccio, possono far regredire la rilevanza del dato ponderale fino all’imputazione penale per detenzione a fini di spaccio. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 12926/2022, ha perciò confermato la condanna per spaccio nei confronti del ricorrente che deteneva droga entro i limiti tabellari dell’uso personale, ma che la custodiva - non in luogo di propria competenza - bensì all’interno di un bar di proprietà di terzi. Vi erano inoltre risultanze investigative da cui emergeva che il ricorrente fosse noto per cedere ad altri sostanze stupefacenti di cui egli affermava però il solo uso personale anche in ragione della ridotta quantità rinvenuta. La Cassazione chiarisce che - ai fini dell’inquadramento della detenzione a uso personale - il preminente dato quantitativo del peso lordo della sostanza stupefacente va correlato alle altre risultanze previste dalla legge quali il confezionamento eventualmente frazionato della droga e le altre circostanze dell’azione dell’imputato. Tanto che al contrario è possibile che sia riconosciuto il solo illecito amministrativo per il possesso a fini di uso personale anche se il dato quantitativo è oltre soglia, ma tutti gli altri elementi dell’azione invece lo affermano. Ne bis in idem - Non viola il principio del ne bis in idem l’imputazione per il reato ex articolo 73 del Testo unico degli stupefacenti se, come nel caso affrontato, vi è stata iniziale contestazione da parte della polizia giudiziaria del solo illecito amministrativo previsto per l’uso personale dall’articolo 75 del testo unico. Tale contestazione non esaurisce il potere punitivo dello Stato a fronte di elementi che facciano emergere la commissione di un fatto più grave che integra il reato. Inoltre, nel caso specifico, non era stata fornita prova dell’avvenuta comminazione della sanzione amministrativa. Per cui non risultava alcuna doppia punizione per il fatto contestato. Sicilia. Detenuti invalidi, molti hanno perso o rischiano di perdere il sussidio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 aprile 2022 La scoperta dell’associazione Yairaiha Onlus: molti sono nell’Atsm di Barcellona Pozzo di Gotto. Nel carcere siciliano di Barcellona Pozzo di Gotto ci sono decine di detenuti invalidi che hanno perso o rischiano di perdere il sussidio. Lo ha scoperto l’associazione Yairaiha Onlus che da poco ha aperto i suoi sportelli anche in Sicilia. La scoperta nasce dai genitori di Giuseppe Pecoraro arrestato con accusa di omicidio il 10 Marzo 2017, condannato in via definitiva all’ergastolo e detenuto presso la casa Circondariale “Vittorio Madia” di Barcellona Pozzo di Gotto a cui l’Inps aveva riconosciuto nel maggio del 2018 un’invalidità dell’80% con relativo accesso alla pensione. I genitori del detenuto hanno lamentato all’associazione problematiche connesse al rinnovo della pensione di invalidità di cui godeva il figlio. Il 30 luglio 2020 infatti, l’Inps di Palermo (comune di residenza di Pecoraro) aveva richiamato il detenuto per una visita di rinnovo della pensione di invalidità, fissando tale visita per il 7 settembre 2020, a Palermo. Come denuncia l’associazione Yairaiha Onlus, i genitori tramite un CAF di Barcellona Pozzo Di Gotto inviano inutilmente una prima istanza alla commissione invalidi dell’Inps per ottenere che la visita si svolga presso l’istituto penitenziario di Barcellona. Nel 2021, è stata inviata una seconda giustificazione amministrativa rimasta ancora una volta inascoltata. La commissione, però, non risponde a queste richieste e l’indennità di invalidità percepita dal detenuto Pecoraro viene revocata e addirittura il 7 giugno 2021 l’Inps di Palermo invia all’indirizzo di residenza del detenuto Pecoraro, la richiesta di rimborso di € 297,45 per indennità indebitamente percepita. Non avendo infatti potuto sostenere la visita, Pecoraro non solo ha perso il diritto alla pensione di invalidità, ma risulta al momento debitore nei confronti dell’Inps. La vicenda personale di Pecoraro ha dato modo all’Associazione Yairaiha, di venire a contatto con una situazione di generale problematicità burocratica che investe parte dei detenuti della Casa Circondariale Vittorio Madia di Barcellona Pozzo di Gotto. L’istituto, infatti, ospita al suo interno un’articolazione per la Tutela della Salute Mentale (Atsm), maschile e femminile e 110 sono attualmente i detenuti che risultano assumere terapia psichiatrica sotto prescrizione medica. Ebbene, secondo le informazioni che l’associazione ha acquisito presso il Caf di Barcellona che si occupa delle problematiche di questi detenuti, circa il 40% degli aventi diritto alla pensione di invalidità, ha attualmente perso il contributo a causa di situazioni simili a quella del signor Pecoraro. L’impasse burocratico nascerebbe dal fatto che il giudice competente non autorizza lo spostamento fuori dall’istituto dei detenuti per poter affrontare la visita di revisione, mentre d’altro canto la commissione invalidi dell’Inps non segue l’iter per effettuare le visite di revisione all’interno della struttura carceraria. “Noi riteniamo - denuncia l’associazione Yairaiha rivolgendosi al garante regionale della Sicilia - che questa situazione sia fortemente lesiva dei diritti di soggetti che vivono in condizione di restrizione della libertà personale e riteniamo necessario un intervento del Garante al fine di verificare la effettiva entità e le cause delle disfunzioni illustrate e per richiedere una gestione coordinata delle azioni di tutte le istituzioni statali coinvolte affinché i diritti spettanti ai detenuti siano salvaguardati”. Alessandria. Detenuto malato di Sla costretto resta in carcere: il giudice gli nega i domiciliari di Carlotta Rocci La Repubblica, 7 aprile 2022 Maximiliano Cinieri è stato colpito da una forma fulminante della malattia neurodegenerativa, fatica a deglutire e ha tra i 3 e i 5 anni di vita. L’avvocato: “Condanna a morte”. La sua famiglia lancia un appello: “Mandatecelo a casa, non può certo fuggire”. Quattro medici hanno stabilito che la condizione di Maximiliano Cinieri non è compatibile con la vita in carcere ma il giudice del tribunale di Asti ha rigettato tutte le richieste di scarcerazione. Cinieri ha 45 anni, una moglie e una figlia, è in carcere dal 24 aprile 2021 (poi scarcerato e nuovamente detenuto dall’11 agosto dello stesso anno), accusato di estorsione e di essere stato responsabile di sette casi di usura registrati nell’Astigiano. A dicembre 2021, mentre era già in carcere, ha ricevuto la diagnosi di Sla, una malattia che aveva dato i primi sintomi circa un anno prima ma che soltanto alla fine dell’anno scorso è stata certificata dagli esami medici. Il dottor Gianluca Novellone, perito di parte incaricato dal detenuto che è assistito dall’avvocato Andrea Furlanetto del foro di Asti, ha definito la sua malattia “una sicura condanna a morte” perché la forma che lo affligge - neurodegenerativa del I e II motoneurone di tipo midollare e bulbare - è particolarmente grave e fulminante, capace di portare alla morte nel giro di tre massimo cinque anni. E infatti le condizioni del detenuto sono peggiorate in fretta. Fatica a muoversi e può farlo solo aiutato dalle stampelle sempre accompagnato da un piantone, ha una ridotta funzionalità delle braccia, non riesce a gestire la deglutizione e la saliva e per questa ragione non può assumere liquidi ma solo acqua in forma di gel. Il medico del carcere Don Soria di Alessandria, Roberto Carbone, nella sua ultima relazione di fine marzo lo definisce affetto da una “grave infermità fisica” e nell’ultima relazione che ha presentato dice che “il carcere non è la collocazione idonea per un detenuto con le sue caratteristiche cliniche”, anzi la sua gestione sarebbe per il carcere “estremamente complessa e metterebbe in difficoltà tutta l’area sanitaria”. Cinieri aggiunge alla Sla una serie di patologie che rendono il suo quadro clinico ancora più complesso. Valutazioni simili sono state fatte anche dal primario della neurologia dell’ospedale di Alessandria Luigi Ruiz e dal professor Umberto Manera, specialista del Cresla di Torino, centro specializzato nel trattamento della Sla. Di diverso avviso il perito incaricato dal gip che ha definito invece la situazione di Cinieri “compatibile con il regime carcerario”. La decisione del giudice Giorgio Morando è andata in questa direzione confermando per l’uomo, che si trova in regime di custodia cautelare da quasi un anno, il carcere rigettando la richiesta del suo legale di accordargli i domiciliari con l’uso del braccialetto elettronico. “Abbiamo presentato una decina di istanze tutte rigettate - spiega l’avvocato Furlanetto - L’ultima è stata depositata lunedì e aspettiamo l’esito. Il mio cliente ha sempre tenuto un comportamento ineccepibile in carcere, ha risarcito tre delle vittime e inviato a tutti una lettera di scuse”. La sua famiglia, la moglie e la figlia Valeria lanciano un appello perché il padre possa essere trasferito ai domiciliari. “È un uomo che non è in grado di allacciarsi da solo le scarpe, come si può sostenere che sussista il pericolo di fuga o di reiterazione del reato? - si chiede la figlia che cita l’ultimo provvedimento di rigetto - Stanno togliendo a mio padre ogni dignità. Lui in carcere piange, dice che ogni giorno in più lì dentro è un giorno in meno con la sua famiglia”. Dovrebbe seguire dei percorsi di fisioterapia che in carcere non sono accessibili, “sono le uniche cure che potrebbero rallentare una malattia che non ha cura, ma lui non può averli”. Cosenza. I penalisti chiedono l’istituzione del Consiglio di aiuto sociale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 aprile 2022 Escono dal carcere, ma si trovano senza il sostegno delle istituzioni. Un problema che in realtà ha una sua soluzione fin dal 1975, quando furono varate le norme sull’ordinamento penitenziario, attraverso i Consigli di aiuto sociale (Cas) che hanno la finalità istituzionale di assistere i detenuti, in particolar modo quelli che finiscono di scontare la pena. Una realtà, unica in Italia, che è stata recentemente costituita dal presidente del Tribunale palermitano Antonio Balsamo. Ora la richiesta della sua istituzione è stata avanzata alla presidente del tribunale cosentino, da parte del direttivo della Camera Penale di Cosenza, assieme alla coordinatrice osservatorio Carcere Chiara Penna e la referente dell’Osservatorio nazionale Valentina Spizzirri. Nella richiesta avanzata alla presidente del Tribunale, l’Osservatorio Carcere della Camera Penale di Cosenza sottolinea che la norma in vigore dal 1975, ma che ancora non ha avuto seguito, prevede che presso il capoluogo di ciascun Circondario sia istituito un Consiglio di aiuto sociale, presieduto dal Presidente del Tribunale o da un magistrato da lui delegato, e composto dal Presidente del tribunale dei minorenni o da un altro magistrato da lui designato, da un magistrato di sorveglianza, da un rappresentante della regione, da un rappresentante della provincia, da un funzionario dell’amministrazione civile dell’interno designato dal prefetto, dal sindaco o da un suo delegato, dal medico provinciale, dal dirigente dell’ufficio provinciale del lavoro, da un delegato dell’ordinario diocesano, dai direttori degli istituti penitenziari del circondario. Ne fanno parte sei componenti nominati dal Presidente del Tribunale fra i designati da enti pubblici e privati qualificati nell’assistenza sociale. “Il Consiglio di Aiuto Sociale - si legge nella richiesta avanzata dai penalisti di Cosenza viene, infatti, informato dal Direttore dell’istituto penitenziario, della prevista dimissione del detenuto, almeno tre mesi prima e cura che siano fatte frequenti visite ai liberandi, al fine di raccogliere tutte le notizie occorrenti per accertare i loro reali bisogni. Il Consiglio studia, dunque, il modo di provvedervi, secondo le attitudini dei liberandi e le condizioni familiari, assistendo poi il liberato con efficaci interventi a suo favore, per curarne il reinserimento sociale”. Non solo. Nella richiesta indirizzata alla presidente del tribunale, si sottolinea che il Cas presta soccorso, con la concessione di sussidi in natura o in denaro, alle vittime del delitto e provvede alla assistenza in favore dei minorenni orfani a causa del delitto. “È talmente rilevante, dunque, il ruolo affidato dal Legislatore ai Consigli di Aiuto Sociale - osservano i penalisti dell’osservatorio carcere - che la loro assenza dimostra evidentemente il disinteresse della politica al reale reinserimento sociale dei detenuti - che, com’è facile comprendere e come dimostrano le statistiche sulle misure alternative, fa diminuire notevolmente il rischio di recidiva - nonché alla effettiva tutela delle vittime di crimini violenti”. Con questa richiesta, sollecitano la presidente del tribunale, per quanto di competenza, a predisporre i necessari atti per la formazione dei Consigli di Aiuto Sociale, dando così attuazione all’art. 74 dell’ordinamento penitenziario. Ricordiamo, come ha riportato Il Dubbio, che recentemente il Dap ha emanato una circolare indicando delle linee guida per preparare i detenuti ad affrontare la libertà. Qualche tempo prima, ad ottobre scorso, il deputato Roberto Giachetti di Italia Viva - su segnalazione di Rita Bernardini del Partito Radicale - ha depositato una interrogazione parlamentare rivolta alla ministra della Giustizia, proprio per chiedere contezza della mancata costituzione dei Cas. Caserta. Progetto Onu per lavori sociali ai detenuti: formati per il primo soccorso di Franco Tontoli Il Mattino, 7 aprile 2022 Cinquantasei detenuti avviati a corsi di formazione lavorativi, 36 in possesso della relativa certificazione e 17 autorizzati dalla magistratura di sorveglianza al lavoro esterno. Sono i numeri del progetto “Mi riscatto per il futuro”, resi noti nel corso di un evento tenutosi al Centro Orafo Tarì di Marcianise; un progetto avviato nel dicembre 2019 nell’area industriale di Caserta sulla base del protocollo siglato dal Consorzio Asi dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dal Tribunale di sorveglianza di Napoli e dal Provveditorato campano alle carceri, e considerato una “Best Practice” da parte dell’Onu, che ha inviato nel Casertano la delegata Martha Orozco, che ieri ha potuto vedere con i suoi occhi i detenuti impegnati in lavori di pubblica utilità, intervistandoli. Uno dei detenuti ha ringraziato per la “fiducia ricevuta”; “la libertà - ha detto - è la cosa più importante”. La Orozco, messicana che gestisce un progetto analogo a Città del Messico intitolato “De vuelta a la comunidad”, si dice “felice di questo progetto perché la gente può vedere cose che non sapeva che esistessero. È difficile capire cosa succede in carcere se non si hanno parenti o amici in cella. Tali programmi garantiscono inoltre la sicurezza di tutti”. Anche il ministro degli Esteri Di Maio ha inviato una lettera in cui esprime le sue congratulazioni per il progetto dicendosi “lieto che tale esperienza sia stata identificato come buona prassi dalle Nazioni Unite”. “Il progetto è fondamentale perché dà concretezza al principio di rieducazione della pena come sancito dall’articolo 27 della Costituzione, perché le carceri non devono essere un luogo di mortificazione in cui la parola futuro deve far paura” ha detto il Sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, che si è collegato da remoto. Sisto ha portato i saluti della Ministra Cartabia, grazie alla quale, aggiunge, “la Carta Costituzionale è tornata centrale”. Gli istituti da cui provengono i detenuti coinvolti nel progetto sono quelli casertani di Santa Maria Capua Vetere, Carinola e Aversa. I detenuti sono stati formati con corsi per addetti al primo soccorso, alla prevenzione di incendi e di gestione delle emergenze, corsi per l’utilizzo in sicurezza di attrezzature da lavoro e relativi alle attività di pianificazione, controllo e apposizione della segnaletica stradale”. I 17 autorizzati al lavoro esterno di pubblica utilità sono dunque impegnati in attività di manutenzione del verde, delle sedi stradali, nel monitoraggio dello stato dei luoghi, e ciò sta avvenendo nelle aree Asi di Caserta-Ponteselice, Marcianise-San Marco, Pignataro Maggiore (Volturno Nord) e Aversa Nord. “Questo progetto - spiega la presidente dell’Asi di Caserta Raffaela Pignetti - è nato sulla base di un’esperienza analoga fatta a Palermo, e grazie alla sua realizzazione, possiamo risolvere definitivamente il problema della riqualificazione dell’area industriale di Caserta, una delle più grandi e importanti d’Italia ma anche quella con meno risorse; e poi possiamo dare un futuro ai detenuti, insegnando loro lavori qualificati in un territorio dove le aziende lamentano la mancanza di manodopera qualificata. Ricordo che la mattina i detenuti escono da soli dal carcere per raggiungere i luoghi di attività, e poi tornano in cella con mezzi dell’Asi”. Per il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello, “questi progetti sono fondamentali ma è arrivato il momento anche di prevedere forme di compenso per i detenuti e di applicare la legge Smuraglia, che prevede sgravi fiscali per aziende che assumono un detenuto. In tutta la Campania sono 71 i detenuti coinvolti in attività di pubblica utilità”. Lucia Castellano, dal due marzo provveditore campano delle carceri, afferma che “il lavoro di pubblica utilità va apprezzato e rafforzato” e, come Ciambriello, invoca “l’applicazione della legge Smuraglia”. Marco Puglia, magistrato di sorveglianza del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, colui che autorizza i detenuti a svolgere lavori esterni, dice che “sono i detenuti stessi a chiedere fiducia per poter rientrare nella società. La pena deve essere un’opportunità”. Il funzionario del Dap Vincenzo Lo Cascio, evidenzia che il “programma con Asi è difficile perché ci troviamo in un territorio difficile, ma è fondamentale perché abitua un detenuto ad avere delle regole; recuperare un detenuto inoltre vuol dire costruire un muro tra carcere e criminalità”. Per Assunta Borzacchiello, dirigente del Provveditorato regionale alle carceri, “il progetto è un esempio dell’importanza di creare rete tra istituzioni e territorio”. Perugia. Il Comune di attiva borse-lavoro per i detenuti di Capanne perugiatoday.it, 7 aprile 2022 La giunta Romizi ha dato il via libera su proposta dell’assessore alle politiche sociali Edi Cicchi. Il Comune di Perugia attiverà tre borse lavoro in favore di detenuti di Capanne attraverso una co-progettazione con la Caritas Diocesana di Perugia-Città della Pieve, in collaborazione con lo stesso complesso penitenziario. La giunta Romizi ha dato il via libera su proposta dell’assessore alle politiche sociali Edi Cicchi. La proposta progettuale, spiega Palazzo dei Priori in una nota, “prevede tre tirocini formativi extracurriculari (borse lavoro) per attività di aiuto cucina per un periodo di 12 mesi (eventualmente rinnovabili) a favore dei detenuti che si trovino nelle condizioni soggettive e oggettive per l’ammissione ai percorsi di esecuzione penale esterna o al lavoro esterno ex art. 21 dell’ordinamento penitenziario”. Le attività “saranno svolte presso la sede della mensa “Don Gualtiero” nel Villaggio della Carità “Sorella Provvidenza” in via Montemalbe; un servizio, questo, rivolto alle persone in difficoltà economica, ai senza fissa dimora e agli anziani soli del territorio perugino con particolare attenzione a chi vive nei quartieri di Case Bruciate, Madonna Alta, Fontivegge e Ferro di Cavallo. Prevista anche la costituzione di un tavolo di coordinamento composto dai soggetti partner. I tirocinanti, inoltre, saranno affiancati da un tutor dedicato per facilitare lo svolgimento delle attività”. “L’Unità operativa Servizi sociali - fa sapere l’assessore Cicchi - attuerà il progetto attraverso il Servizio di accompagnamento al lavoro, che, sulla base delle opportunità presenti nel territorio, elabora progetti differenziati e personalizzati per persone esposte al rischio di esclusione sociale. Il Comune conferma così la sua disponibilità a sostenere le iniziative tese a valorizzare il lavoro come uno degli elementi del trattamento penitenziario finalizzati al reinserimento sociale e all’abbattimento del rischio di recidiva. In tal modo sarà possibile mettere a frutto anche i corsi di formazione già svolti all’interno del carcere”. Viterbo. Il nuovo capo Dap Carlo Renoldi: “Carcere che si apre alla comunità” tusciaweb.eu, 7 aprile 2022 Si è aperta con l’intervento in video collegamento del nuovo capo del Dap, Carlo Renoldi, la cerimonia di consegna degli attestati di “manutentori del verde” ai quattro detenuti del carcere di Mammagialla e ai percettori di reddito di cittadinanza selezionati dal Comune, che si sono guadagnati le competenze sul campo, lavorando come giardinieri presso il “Giardino della solidarietà” del palazzo di giustizia del Riello, inaugurato lo scorso 22 giugno alla presenza della ministra della giustizia Marta Cartabia. Per il capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria una delle prime uscite pubbliche dopo la nomina. Renoldi, 53 anni, originario di Cagliari, già magistrato penale e poi di sorveglianza, parlando del progetto realizzato a Viterbo lo ha definito “espressione di un modello da guardare”, di “carcere che si apre alla comunità, espressione di interlocuzione attiva, fare rete con la società civile”, sottolineandone il ruolo di “chiave di volta”, “modello di integrazione, coinvolgimento, interazione utile”. “Il carcere - ha detto Renoldi - è una comunità nella comunità, non un mondo chiuso da rimuovere dalla vista”. “I processi di integrazione e reinserimento - ha proseguito il capo del Dap - realizzano il principio costituzionale del rispetto della persona, della pena come fattore di reinserimento”. I quattro detenuti-giardinieri sono Moreno, Luigi, Roberto e Franco che, una volta espiata la pena, potranno aspirare a un impiego come “tecnici manutentori del verde”. Per ora hanno imparato, facendo i “giardinieri” a titolo volontario e gratuito, con l’assicurazione contro gli infortuni pagata dall’ordine degli avvocati. Lo scorso 22 giugno Luigi - detenuto, giardiniere e anche poeta - ha regalato alla Guardasigilli Cartabia una raccolta di sue poesie pubblicata grazie all’associazione ex studenti dell’Unitus e - commosso e commovente - ne ha declamata una dal titolo “La lavagna”. Davanti a una folta platea, nell’aula magna del rettorato che ha fatto da sfondo alla manifestazione di ieri, la riconferma che il progetto avrà un seguito e che una seconda edizione del corso è già in fase organizzativa. Premiando la collaborazione tra privati e istituzioni che ha permesso di concretizzare il progetto “manutentori del verde”, il garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Mauro Palma ha sottolineato l’importanza e la necessità di proseguire su questa strada. “In Italia 1260 detenuti sono studenti universitari - ha rimarcato Palma - ma tra i soli detenuti italiani ci sono anche 870 analfabeti e altri 5mila che hanno solo la licenza elementare, che non hanno neanche finito le scuole dell’obbligo”. Intanto a Viterbo, grazie anche ai detenuti, spicca il “Giardino della solidarietà”, un trionfo di oltre 800 tra alberi, arbusti e piante fiorite laddove fino a poco tempo fa c’era il deserto. Un parco di oltre 6mila metri quadrati del palazzo di giustizia che forse non tutti sanno essere di proprietà di Palazzo dei Priori. “Un credito di speranza per chi sta pagando il suo debito alla società”, ha detto il presidente dell’ordine degli avvocati Stefano Brenciaglia, sottolineando come lasci l’amaro in bocca sentire ancora gente che, parlando dei detenuti, si lascia andare a commenti come “buttate la chiave”. “Il sorriso di un detenuto condannato da questo tribunale che la mattina, quando entro, mi dice ‘buongiorno giudice’ mentre è intento nel suo lavoro, è il modo migliore per cominciare la giornata”, ha detto con grande umanità il presidente del tribunale Eugenio Turco, che ha preso il posto di Maria Rosaria Covelli la scorsa estate, quando la ex presidente, anima del progetto, è stata nominata capo dell’ispettorato generale al ministero della giustizia. Non poteva mancare alla consegna degli attestati, Maria Rosaria Covelli, seduta vicino al procuratore capo Paolo Auriemma, a Viterbo da 6 anni, mentre diceva “abbiamo raggiunto una tappa”, ribadendo il suo impegno di uomo e di magistrato nei confronti del fine riabilitativo, rieducativo e di reinserimento sociale della pena. Tempio Pausania. Giovani e detenuti insieme per il progetto Fili in Comune di Maria Verderame galluraoggi.it, 7 aprile 2022 Parte a Tempio il progetto sull’inclusione Fili in Comune, con il primo appuntamento domani 7 aprile alle 17.30 nello Spazio Faber, dove si terrà la conferenza “Connecting people to restore just relations”. L’evento è stato organizzato dal Team delle Pratiche di Giustizia riparativa del Dipartimento di Scienze umanistiche e sociali dell’Università di Sassari, primo appuntamento pubblico del progetto. A essere protagonisti del progetto sono giovani e detenuti, rappresentanti di due realtà distanti ma accomunate dalla difficoltà di diventare parte attiva dei processi sociali ed economici della comunità. Facilitando l’incontro tra queste due realtà, “Fili in Comune” consentirà l’intreccio, la creazione e la ricostruzione di tessuti sociali nuovi e già esistenti. Grazie al bando Anci Nazionale “Fermenti in Comune”, finalizzato allo scambio di creatività per generare l’inclusione sociale, Il Comune ha potuto dare il via al progetto, che ha reso Tempio Pausania prima città riparativa italiana, apprezzata in ambito internazionale e ispiratrice, con il suo modello Co.Re - Comunità di Relazioni riparative, delle altre città italiane. Quella del 7 aprile è, infatti, la prima conferenza cittadina in presenza dopo il lungo stop della pandemia e rappresenta l’occasione per riprendere in mano le trame della comunità e tornare a immaginare un nuovo futuro. Ad accompagnare la comunità nell’inizio di questo nuovo percorso ci sarà, oltre al sindaco Gianni Addis e al vicesindaco e assessora ai Servizi sociali di Tempio Pausania, Anna Paola Aisoni, Daniela Sitzia direttrice A.N.C.I. Sardegna. Relatori dell’evento sono Patrizia Patrizi, ordinaria di Psicologia giuridica e Pratiche di Giustizia riparativa e responsabile scientifica del Team delle Pratiche di Giustizia Riparativa dell’Università degli Studi di Sassari, componente del Board dell’European Forum for Restorative Justice; Gian Luigi Lepri, psicologo esperto in Psicologia giuridica e psicoterapeuta, coordinatore e facilitatore del Team delle Pratiche di Giustizia riparativa; Ernesto Lodi, ricercatore in Psicologia sociale presso l’Università degli Studi di Sassari e coordinatore dell’Area di ricerca e processi di benessere del Team delle Pratiche dì Giustizia riparativa; Maria Luisa Scarpa Psicologa, psicoterapeuta e referente per il counseling psicologico del Team delle Pratiche di Giustizia riparativa; Lucrezia Perrella psicologa e referente per i progetti del Team delle Pratiche di Giustizia riparativa. La conferenza Connecting people to restore just relations è il primo di 3 incontri organizzati dal Team delle Pratiche di Giustizia riparativa del Dipartimento di Scienze umanistiche e sociali dell’Università di Sassari, che si terranno tra aprile e giugno a Tempio. Il progetto è stato supportato dall’A.N.C.I. nazionale, in collaborazione con: Officine Condivise, Casa di reclusione “Paolo Pittalis”, Università degli Studi di Sassari: Dipartimento d Architettura (DADU), Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali (DUMAS) e Master in Giustizia riparativa e mediazione per il benessere di persone e comunità, DECA Master (Master in Diritto e Economia dell’Arte), Agenzia FO.RE.S.T.A.S., Conservatorio di Musica “Luigi Canepa di Sassari, le scuole cittadine: Liceo Artistico e Musicale “Fabrizio De André”, Istituto di Istruzione Superiore “Don Gavino Pes” e Liceo Statale “G.M. Dettori”, Mine Vaganti ONLUS, Associazione Bottega Nomade, ANCI Sardegna, Unione dei Comuni Alta Gallura, GAL Alta Gallura - Gallura, Camera di Commercio di Sassari. Un’epoca di catastrofi e paure di Walter Veltroni Corriere della Sera, 7 aprile 2022 Siamo fragili e impauriti. E questi sono sempre, nella storia, i momenti in cui si commettono gravi errori. Questo millennio è stato inaugurato dall’annuncio di una catastrofe: il temutissimo millennium bug che poi si rivelò la prima grande fake news del nuovo secolo. Ma il vero inizio di questo tempo nuovo avvenne un giorno di settembre, quando migliaia di persone innocenti furono bruciate, asfissiate, costrette a gettarsi nel vuoto da terroristi suicidi incapaci di accettare che potesse esistere qualcosa o qualcuno che avesse una religione diversa dalla loro. E poi, come nella sequenza di “Arancia meccanica” nella quale Malcolm McDowell ha gli occhi sbarrati artificialmente, sono passate davanti ai nostri occhi le immagini di Atocha, della metropolitana di Londra, della redazione di Charlie Hebdo, della spiaggia insanguinata di Sharm El Sheik, del Bataclan, dei ragazzi uccisi a Utoya, dei bambini sequestrati di Beslan, di Aleppo o Grozny rase al suolo, le stragi dei migranti e le catastrofi ambientali. Poi la crisi economica del 2008. E la pandemia, con cinque milioni di morti, le case diventate prigioni, il distanziamento sociale che per molti adolescenti è diventato interruzione della vita. Ora le città bruciate alle porte dell’Europa, i milioni di profughi, i bambini con le generalità scritte sulla schiena, le donne stuprate, le fosse comuni. Persino le voci spaventose sull’uso di forni crematori mobili per cancellare gli orrori compiuti. Sami Modiano, sopravvissuto allo sterminio degli ebrei, ha spesso raccontato dell’orrore che aveva vissuto, in quell’inferno al quale nulla mai può essere paragonato. A me disse tra le lacrime, una volta, che era successo “Tutto davanti a questi occhi”. Come siamo diventati noi, ora? Come ci ha cambiato tutto questo dolore? E come riusciamo a vivere, ogni giorno, portando sulle spalle questo pesante mantello di paure? Le generazioni nate nel dopoguerra si sono vantate a lungo di essere le prime, in Europa, a non aver conosciuto la guerra. Il Novecento è stato un secolo breve ma pieno di sangue. Versato in trincea, sotto i bombardamenti o lottando, in Spagna o a Praga, per la libertà dalle dittature. Eppure ora siamo come pugili suonati, avvertiamo il rischio di finire al tappeto. L’uno-due di pandemia e guerra ci ha mostrato tutte le nostre fragilità e proprio dove meno ce le aspettavamo. Pandemia e guerra sembravano, fino solo a qualche mese fa, citazioni di un tempo lontano e sepolto. La scienza e la pace, le due grandi creature del Novecento, si sono mostrate invece improvvisamente perforabili. Come la democrazia. Siamo fragili e impauriti. E questi sono sempre, nella storia, i momenti più pericolosi. Quelli nei quali viene la tentazione di affidarsi alla sicura protezione dell’uomo forte di turno. Personalmente, spero di sbagliare, non sono sicuro che tutto ciò che sta accadendo abbia come effetto quello di far crescere automaticamente nelle opinioni pubbliche razionalità e altruismo. Temo invece che gli inevitabili effetti sociali di questa guerra, innestati sul paesaggio economico minato dalla pandemia, possano generare, con l’inquietudine e il rischio di retrocedere nei livelli di vita, un sussulto di nuovo populismo, un fascino per le soluzioni autocratiche. I regimi autoritari hanno bisogno della paura. Le democrazie necessitano della speranza. Da queste crisi è emersa una sola buona novella. La più grande costruzione degli ultimi secoli, un continente unito nel segno della libertà e della democrazia, ha fatto, sospinta dalle crisi, degli importanti passi in avanti. L’Europa ha reagito bene alla pandemia e alla guerra. Ma ora deve compiere il passaggio ulteriore: munirsi di una comune politica estera e di difesa e accelerare verso l’unica soluzione ai rischi per la pace nel continente: la costruzione degli Stati Uniti d’Europa. Una comunità di centinaia di milioni di cittadini che, sotto il segno della democrazia, contribuisca a costruire un nuovo ordine mondiale. In fondo i padri dell’idea di Europa la fecero balenare proprio dal confino, quando i limiti degli Stati del continente erano cosparsi di sangue europeo. Putin pensava di concludere questa guerra infame in poco tempo, di cancellare in un battibaleno quel popolo e quello Stato di cui nega la stessa esistenza, di trovare un’Europa divisa e balbettante. Quella degli anni scorsi. Non è andata così, fin qui. Putin potrà ora accettare una soluzione negoziale oppure prolungare e inasprire drammaticamente il conflitto. Questa è divenuta la secca alternativa del momento. E, se l’Europa unita non lascerà solo chi sta coraggiosamente resistendo a un’invasione, l’eterna lotta tra autocrazia e democrazia potrà volgere verso la soluzione auspicata da tutti i cittadini che amano, vogliono e difendono il diritto di essere se stessi. Perché è proprio la libertà di ciascuno la vera posta in gioco, nelle fosse comuni e nei palazzi sventrati che ogni giorno scorrono davanti ai nostri occhi. La guerra mediatica di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 7 aprile 2022 Massiccia ma anche spuntata. La macchina della disinformazione russa, efficace durante le presidenziali Usa del 2016 e la Brexit, oltre che nel seminare discordia in Europa e negli Usa durante la pandemia, è stata mobilitata anche alla vigilia dell’invasione dell’Ucraina. Ma stavolta i risultati, soprattutto in Occidente, non sono stati devastanti. Troppo evidenti i crimini dell’armata di Putin, ma anche pronta la reazione di Zelensky, Casa Bianca e Ue. Decisiva l’azione dell’esercito digitale che in Ucraina combatte una battaglia parallela a quella in campo aperto: la guerra dell’informazione. Ma anche efficace il blocco, in Europa e negli Usa, dei canali “emersi” della propaganda del Cremlino travestiti da siti neutrali d’informazione, da RT a SputnikNews. Non che i governi liberali possano pensare di aver vinto la partita: il vento contrario di fattori ideologici e tecnologici resta forte. Nelle destre sovraniste europee - dalla Le Pen a Orbán passando anche per ambienti politici italiani, soprattutto di area leghista - e in quella americana che fa capo all’ex presidente Trump, Vladimir Putin continua ad essere ammirato: un leader autoritario capace di imporre, anche con la forza, valori ultraconservatori e dell’integralismo cristiano che nell’Occidente del relativismo culturale sono stati marginalizzati. Con lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, poi, è possibile costruire strumenti di disinformazione sempre più raffinati, penetranti e difficili da intercettare. Nel primo conflitto combattuto con un uso massiccio dei social media, Mosca, maestra di desinformatsiya fin dall’era di Stalin, ha messo in campo il suo esercito di hacker capace non solo di distribuire false informazioni in tutto il mondo in molte lingue, ma anche di produrne in modo automatico attraverso i sistemi di machine learning: macchine che valutano in tempo reale il comportamento di differenti gruppi demografici di utenti e inondano la rete di nuovi messaggi simili a quelli che hanno fatto più presa sulle varie audience. Ma se in passato le campagne di disinformazione in Occidente sono passate quasi inosservate - sottovalutate o, addirittura, scoperte con mesi di ritardo con effetti tuttora difficili da valutare su alcuni risultati elettorali e la persistenza delle campagne no vax - con la guerra in Ucraina tutto cambia: il monitoraggio della disinformazione viene fatto in tempo reale da vari osservatori (soprattutto istituti Usa) mentre il governo di Kiev reagisce prontamente dimostrando nell’arco di pochi minuti la falsità delle narrative veicolate da Mosca. Anche Dipartimento di Stato e Pentagono diffondono con prontezza informazioni e immagini satellitari che smentiscono il Cremlino, colto alla sprovvista anche dalla scelta di Joe Biden di rendere pubbliche fin dall’inizio della crisi informazioni raccolte dai suoi servizi segreti, anche a costo di bruciare qualche fonte di intelligence. Intanto, anche gli ucraini cominciano a usare, sia pure in casi limitati e in modo non sistematico, lo strumento della disinformazione. Essere riusciti a contenere, e spesso a neutralizzare, gli effetti di quest’onda di disinformazione è un risultato straordinario se pensiamo che NewsGuard, un software che individua e segnala le notizie provenienti da fonti non affidabili, ha individuato ben 172 organizzazioni che diffondono notizie false a vantaggio della Russia. Di queste, 61 sono in inglese, 33 in francese, 20 in tedesco e 16 in italiano. Tra loro molti siti della propaganda di Mosca, dalla Tass a Sputnik, ma anche misteriose entità private come OneWorld.press: un centro di disinformazione filorussa che si definisce un think tank, ma del quale non si conoscono la proprietà né le fonti di finanziamento. NewsGuard, poi, ha scoperto che il dominio Internet del sito è registrato a Mosca. Tra le narrative false messe in giro: i laboratori per armi chimiche attivi in Ucraina, costruiti con l’aiuto americano, le immagini di soldati americani paracadutati in Ucraina (in realtà foto di esercitazioni svolte negli Usa nel 2016 a Fort Bragg), i soldati-bambini mandati in prima linea dall’Ucraina. Ma, benché non organizzata e sistematica, ora si affaccia anche una disinformazione filoucraina: dalla leggenda del Ghost of Kiev (un inesistente asso dell’aviazione ucraina che avrebbe abbattuto molti aerei russi) all’accusa (infondata) a Mosca di aver lanciato missili contro un deposito di scorie radioattive. Ancora più accurato il censimento del traffico di Twitter sulla guerra eseguito dalla Annenberg School of Communication della University of Southern California: su 9,5 milioni di siti che usano hashtag riferiti al conflitto russo-ucraino, ben 650 mila account sono stati creati dopo l’inizio dell’invasione. Ma, a distanza di più di un mese, i risultati ottenuti dalla disinformazione russa appaiono modesti, rispetto alla vastità della campagna. Questo, però, vale solo per l’Occidente: la propaganda russa in spagnolo ha grande successo in America Latina mentre la disinformazione del Cremlino, sostenuta dalla Cina (non solo dal governo ma anche dalle piattaforme social, da WeChat a Douyin di ByteDance) trova vaste audience in Asia, dal Pakistan, al Bangladesh a Indocina e Indonesia. Ma oggi il vero problema di Putin è la resistenza delle liberaldemocrazie mentre ora lui è costretto a preoccuparsi soprattutto dell’impatto interno delle notizie sui crimini di guerra che, nonostante tutte le censure, trapelano anche in Russia. Costringendo il ministro degli Esteri Lavrov e il portavoce del Cremlino Peskov a esporsi in prima persona per smentire i massacri documentati da giornalisti di molti Paesi e registrati dall’occhio dei satelliti, Putin dà la sensazione di essere a corto di munizioni anche nella guerra mediatica. L’arma della disinformazione di Marco Bentivogli La Repubblica, 7 aprile 2022 Abbiamo ancora bisogno di vedere che la guerra fa male. Le immagini sono sempre terribili, da qualunque parte del mondo provengano. A tentare di sbiadirle, il grottesco bisogno di mistificazione, di cancellazione della realtà. Eppure doveva essere una lezione acquisita quanto la menzogna e la stessa guerra siano il verbo e la parabola di ogni dittatura. Non esistono dittature che non si nutrano di bellicismo o non degradino nella guerra. La novità è l’ingente investimento nella propaganda da parte dei Paesi autocrati verso le democrazie occidentali. Si utilizzano, al contrario, gli stessi strumenti usati per la verifica degli accadimenti e delle fonti (fact-checking) per delegittimare i fatti e diluire e depotenziarne la reazione. A partire dal contagio di ambienti che dovrebbero, piuttosto, aiutare la riflessione. Come dice Sabino Cassese, l’intellettuale è un precursore, riflessivo, conoscitore capace di mettere in connessione i saperi, utilizzando la grande ricchezza delle tradizioni. Insomma l’intellettuale è chi coniuga vita e pensiero e fa sorgere la speranza dove ci sono tenebre. Per questo va oltre il contesto del “presentismo”. È chi allarga lo sguardo perché non si guarda troppo allo specchio. L’esatto contrario del cinismo di chi, utilizza l’attitudine di una società ad illudersi di poter bandire la sofferenza e il dolore, per negare la realtà. E di coloro che, in modo paradossale, negano le atrocità in nome di una libertà da un pensiero dominante, che però gli consente di monopolizzare proprio la scena mediatica. Il loro neutralismo è un anestetico della virtù del discernimento, è solo l’ultimo vettore dell’uno vale uno, di cui abbiamo visto i frutti: negare competenze, responsabilità, verità. Per questo oggi, dopo aver banalizzato tutto, si sposa “la complessità” nella versione lontana dalla verifica delle fonti, dalla multidimensionalità dei fenomeni, confusa col mischiare le carte, mettere i fatti accanto alle bugie, perché ne restino sepolti sotto. I mitomani narcisi, conoscono bene le fragilità e le paure della nostra comunità e sanno che nella povertà educativa le persone che non hanno strumenti per costruirsi un punto di vista critico, vanno portate nel limbo del “non so a chi dare retta”. Come nell’opera teatrale di John Patrick Shanley, “il dubbio può essere un legame tanto forte e rassicurante quanto la certezza”. Perché è così che la spiegano, “ci sono due propagande” per far emergere la loro finta terzietà. Senza provare alcuna vergogna sostengono che la resistenza ucraina è una fiction, nel tentativo di dare dignità alla barbarie di Putin e della sua cerchia criminale. Abbiamo visto che richiamare editori e operatori dell’informazione al senso di responsabilità non funziona. Almeno però, non prendeteci in giro contrabbandando il cinismo con il pluralismo. E non spacciate le fesserie come “critiche al pensiero dominante”. Diffondere falsità è il frutto del più cinico consumismo capitalistico: fare audience costi quel che costi. Non ha nulla di anticonformista. Poi, certo, le responsabilità sono più diffuse. Nel 2018 le elezioni hanno premiato forze politiche collegate in modo, neanche troppo velato, con i regimi autocrati. A costi elevatissimi, le istituzioni sono state utilizzate come scuola di formazione di politici improbabili. Ma tutto ciò che matura ed evolve va accolto con favore. Le ambiguità, tuttavia, lo vediamo anche di fronte alla guerra, sono tutt’altro che dissipate. La guerra è una delle tante evidenze di quanto non possiamo permetterci un giro di giostra sovranista. La collocazione internazionale del nostro Paese determina e al contempo assegna un ruolo all’Italia e all’Europa di difesa autentica della libertà, della democrazia e pertanto della pace. Collocazione che non è più patrimonio di tutti gli schieramenti. Guai a fomentare ulteriori polarizzazioni, ma queste sono scelte di campo. Troppi, di coloro che da anni ci allertavano sui rischi di deriva autoritaria ora che ce l’hanno davanti e ci solidarizzano. Il resto dovrebbe unirsi. Possibile che non si riesca a mettere insieme tutti quelli che hanno un’idea diversa da Orbàn (e dai suoi alleati) sui diritti sociali e civili? Putin e i crimini di guerra, processo che sfocia nella retorica di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 7 aprile 2022 Si lascia intendere che a effettuare l’arresto dello Zar debbano essere i giudici, ma Usa e Russia non hanno mai ratificato lo statuto della Corte internazionale. Il procuratore della Corte penale internazionale, su richiesta di numerosi Stati, ha già aperto una indagine, che riguarda tutti i fatti avvenuti in Ucraina a partire dal 2014, dalla presa della Crimea. Sono oggetto della indagine numerosi episodi di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, così come descritti dallo Statuto della Corte. In ambito nazionale ucraino altra indagine è condotta dalla procuratrice generale. In prospettiva potrebbe verificarsi il blocco del giudizio davanti alla Corte internazionale, poiché questa ha una competenza sussidiaria, che si manifesta solo se le autorità giudiziarie del Paese interessato non volessero o non potessero efficacemente agire. Dunque, per ora si tratta di accertare preliminarmente i fatti, in modo che il procuratore, sulla base di quanto acquisirà, possa chiedere formalmente alla Corte di essere autorizzato a condurre una indagine. Oggetto del giudizio della Corte internazionale non sarà la responsabilità di uno Stato per l’agire dei suoi agenti, ma si tratterà di portare delle persone fisiche al giudizio della Corte, con prove che ne indichino la responsabilità individuale per il singolo fatto criminoso, personalmente commesso o ordinato. Così avviene anche per la giustizia penale nazionale e in generale nei procedimenti a carattere giudiziario. Un giudizio che riguarda responsabilità individuali è particolarmente complesso, per le garanzie individuali che lo caratterizzano. Ciò spiega tra l’altro il fatto che sia prevista la partecipazione necessaria delle persone imputate al processo, che devono essere presenti (arrestate o libere). Le prove presentate al giudice, poi, devono riferirsi al singolo fatto e alla singola persona accusata di averlo commesso. Ciò talora potrebbe essere più facile con riferimento a chi esegue un ordine illegittimo (i soldati sulla strada), che per chi comanda, in una gerarchia che potrebbe finire fino al Cremlino. Una novità di questa guerra è la presenza ovunque dei telefoni cellulari. Essi fotografano, documentano, trasmettono ciò che avviene nelle strade, ma non quello che si svolge nei palazzi del potere. Il processo sarà lungo e probabilmente sarà selettivo, nel senso che il procuratore sceglierà di procedere per i casi più gravi o per i quali ha potuto raccogliere prove sicure. Nel frattempo, la Corte penale internazionali sarà assente sul piano della informazione, cui ha diritto e urgenza l’opinione pubblica. Lo sarebbe anche una Corte specialmente istituita per giudicare i crimini che si commettono nel territorio ucraino. Sempre che a livello internazionale si scegliesse quella via (ma non dall’Onu, il cui Consiglio di sicurezza è bloccato dal veto russo e magari anche cinese). Difficilmente potrà essere soddisfatta la necessità grave e urgente di informazione, che aiuti a conoscere la verità e a contrastare la disinformazione rispetto a fatti tanto crudeli e selvaggi da rasentare l’incredibile che è proprio del disumano. Sarebbe invece indispensabile che indagini affidabili siano rapidamente compiute e che i risultati man mano raggiunti siano messi a disposizione. Infatti l’esito giudiziario, con tutte le sue garanzie e i suoi limiti, è utile, ma nel frattempo il giudizio politico e morale non può essere dilazionato. E se un simile giudizio è impedito in Russia, nell’Occidente libero c’è la possibilità di farsi una opinione, senza essere troppo gravemente vittime della battaglia informativa. E allora l’opera delle organizzazioni umanitarie internazionali sul terreno e di quelle non governative sarà preziosa. E quella delle giornaliste e dei giornalisti. Si può allora credere che l’opera del procuratore e poi della Corte penale internazionale, che è in corso, sia utile ed anzi necessaria, ma non può bastare. L’insistenza da tante parti perché Putin sia processato per crimini di guerra e contro l’umanità o altro ancora, pur prospettabile secondo il diritto internazionale, appartiene principalmente alla retorica politica di guerra. Nessuno pare voler essere lasciato in secondo piano nelle dichiarazioni: non potendo ovviamente arrestarlo, fanno intendere che potrebbero e dovrebbero farlo i giudici. Meccanismo ben noto anche a livello nazionale: colpa dei giudici se non lo faranno. Ma la questione non si risolve con le parole. E lascia perplesso tanto improvviso affidamento ai giudici internazionali. Stati Uniti, Russia, Cina, India, Pakistan, Israele e numerosi altri Stati hanno rifiutato di ratificare il trattato istitutivo della Corte internazionale. Gli Stati Uniti (sotto Trump) erano arrivati a rifiutare il visto di ingresso alla allora procuratrice della Corte internazionale, che indagava su possibili crimini delle truppe americane in Afghanistan e hanno persino imposto sanzioni alla Corte internazionale. Così suscitando proteste vibranti da parte di diversi Stati europei “per l’attacco al cuore della Corte”. Gli Stati Uniti non ammettono che loro soldati possano essere giudicati dalla Corte, ovunque compiano le loro azioni. La Russia, dopo aver sottoscritto lo Statuto della Corte, ha rifiutato di ratificarlo quando la Corte ha iniziato a trattare dell’occupazione della Crimea. Che dire allora di certe difficoltà operative della Corte e del suo procuratore? Come stupirsene? Negli stessi giorni dell’eccidio di Bucha, 200 civili sono stati uccisi in Mali, ad opera probabile dell’esercito e dei miliziani russi del gruppo Wagner. Oscurato dalle vicende ucraine, quest’altro episodio ci ricorda come vasto e crudele sia il male nel mondo. La pace e la preminenza del diritto, che la Comunità internazionale aveva volute con l’istituzione delle Nazioni Unite nel dopoguerra e della Corte penale internazionale nel 1998 sono negate, anche quando vanamente proclamate. E lo sono anche dai governi più potenti. Prepotenti. Consiglio di sicurezza senza la Russia? Le Nazioni Unite salterebbero in aria di Antonella Rampino Il Dubbio, 7 aprile 2022 Cambiare gli equilibri geopolitici nati dalle ceneri della Seconda guerra mondiale sembra impossibile perché l’Onu nasce dal quell’ordine mondiale. Quella che noi chiamiamo guerra, e il conflitto provocato dall’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa lo è a tutti gli effetti, giuridicamente ha il profilo della violazione di accordi internazionali. Anche la nostra Costituzione, ripudiando all’articolo 11 “la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, sancisce la preminenza del diritto. E proprio perché prevede, nella seconda parte di quell’articolo, che sia consentita la limitazione di sovranità, “in condizione di parità con gli altri Stati”, in favore di “un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. È il diritto a garantire la pace, è con la rule of law che ci si oppone alla guerra: questo ci hanno detto i Costituenti. E questo stesso concetto è la pietra miliare su cui è stata eretta nell’immediato dopoguerra, e su cui ancora si regge, la più grande e cruciale delle organizzazioni multilaterali a difesa della non belligeranza: le Nazioni Unite. In qualche modo erede della vecchia Società delle Nazioni, voluta da Woodrow Wilson a piena Prima Guerra Mondiale in corso, nata grazie alla partecipazione dì una cinquantina dì governi e giunta oggi a 193 Paesi membri, ovvero la quasi totalità degli Stati del pianeta, oltre che a essersi dotata dì apposite agenzie in grado di coprire crisi ed emergenze, l’Onu difende la pace per l’appunto con gli strumenti del diritto. Ma perché, ci si chiede in questi giorni e all’Onu lo ha chiesto anche il presidente ucraino Volodimir Zelensky, dato che la Russia invadendo un Paese sovrano e imbracciando le armi ha platealmente violato ogni trattato internazionale, l’Onu non agisce? E soprattutto - questo vorrebbe Zelensky - perché non la si espelle o sospende dal Consiglio dì Sicurezza, ovvero dall’organismo decisionale principale del Palazzo di Vetro, nel quale Mosca, come Washington, Pechino, Londra e Parigi, può esercitare il diritto di veto, bloccando ogni decisione? Il diritto di veto - ha scandito Zelensky - “non si può trasformare in diritto dì uccidere”. Perché il paradosso è quello dì un Paese che, mentre viola la pace e aggredisce un altro Paese, blocca la possibilità dì operare proprio all’organismo multilaterale creato a difesa della pace. Il punto è che le regole dell’Onu non permettono dì sanzionare o espellere un membro del Consiglio dì Sicurezza: non prevedono proprio il caso. La Carta costitutiva delle Nazioni Unite dice all’articolo 5 che uno Stato membro può essere sospeso, e all’articolo 6 che possa essere espulso, se approvato dai due terzi dell’Assemblea Generale. Ma non membri del massimo e unico consesso decisionale, e solo sulle basi dì una raccomandazione proprio del Consiglio dì Sicurezza: l’organismo nel quale i cinque Paesi usciti vittoriosi dalla Seconda Guerra Mondiale possono porre il proprio veto. Se ci si provasse, potrebbe finire come accadde nel 1974, quando si tentò dì sospendere il Sudafrica, all’epoca in regime dì apartheid, per violazione dei diritti umani: la mozione fu bloccata dal veto in Consiglio dì Sicurezza da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Allora, alcuni Stati africani tentarono dì sospendere le credenziali del Sudafrica per partecipare all’Assemblea Generale, con la motivazione che quello Stato, proprio per via dell’apartheid, non rappresentasse tutti i suoi cittadini: la complessa operazione dì trovare i consensi necessari, guidata dall’algerino Bouteflika, funzionò, e il Sudafrica fu riammesso nel Palazzo di Vetro solo a fine apartheid, ovvero esattamente vent’anni dopo. Ma il Sudafrica non era in Consiglio dì Sicurezza, e alla Russia oltretutto non sembra potersi applicare la sanzione amministrativa dell’esclusione dall’Assemblea Generale, perché per essere messa in atto essa richiede la precondizione che il governo del Paese al quale si intende applicare la sanzione non rappresenti legittimamente i suoi cittadini. E questo proprio non è il caso della Russia: Putin è al potere, e da vent’anni, avendo vinto le elezioni. Per non dire poi che per mettere in atto una tale procedura occorre sempre l’autorizzazione proprio del Consiglio dì Sicurezza. Comincia tuttavia a circolare un’altra ipotesi: cercare una strada per sospendere la Russia poiché nella Carta dell’Onu non si parla della Federazione Russia -nata nel 1991- ma ancora dì Unione Sovietica. Ma, per dirla in due parole, realisticamente quali basi giuridiche solide si potrebbero trovare per argomentare che Mosca non sia l’erede di Mosca? Come ha risposto a Zelensky l’attuale segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, “ogni decisione sulla composizione del Consiglio dì Sicurezza deve essere decisa dagli Stati che ne fanno parte”. E deve essere decisa in tutta evidenza all’unanimità: ovvero, con il consenso della Russia. E della Cina. Dunque, quel che si può concludere è che occorrerebbe una generale revisione delle regole costitutive delle Nazioni Unite, poiché l’organizzazione è nata mettendo dì fatto a garanzia dì pace e sicurezza collettiva i Paesi che trovarono a Yalta l’accordo post-bellico, gettando allora le basi per un ordine mondiale. Ma sarebbe come pretendere di riscrivere il primo emendamento della Costituzione americana o l’incipit di quella italiana. Sarebbe come segare le radici istituzionali su cui sono nati quegli organismi: un modo per farli saltare. “Con la guerra in Ucraina è l’ora della verità per la giustizia internazionale” di Anais Ginori La Repubblica, 7 aprile 2022 Intervista all’ex ministro della giustizia francese Robert Badinter “Si devono subito raccogliere le prove. Tutti i responsabili potranno poi essere arrestati e processati da diversi Stati”. “Putin e il suo entourage devono essere processati per crimini di guerra e crimini contro l’umanità”. Davanti ai massacri di Bucha, Robert Badinter non ha più dubbi. “Il carattere sistematico implica la responsabilità dei loro autori davanti alla Corte penale internazionale”, dice l’avvocato e giurista francese, noto per aver fatto abolire la pena di morte quando era Guardasigilli di Mitterrand. Badinter, 94 anni, si è battuto per la creazione della Corte penale internazionale. Sua madre fuggì dai pogrom di Chisinau, nella Bessarabia russa - oggi Moldavia - e il padre combatté nell’esercito imperiale a Odessa prima di arrivare in Francia nel 1919. “A casa parlavano russo solo tra loro, quando non volevano farsi capire”, ricorda Badinter. Cos’è possibile fare per aiutare la giustizia internazionale? “In questa fase è necessario e legittimo che il procuratore della Cpi conduca un’indagine sul campo, raccogliendo testimonianze e prove per sostenere il successivo processo contro gli autori di questi crimini”. Il lavoro di indagine è sufficiente per raccogliere prove? “I carri armati russi sono entrati in Ucraina il 24 febbraio e immediatamente, sotto le bombe, il procuratore generale ha mobilitato tutti i suoi servizi per raccogliere prove: fotografie, interrogatori di testimoni, documenti informatici. È essenziale muoversi subito”. Perché? “La storia dei tribunali penali internazionali, dal Ruanda alla ex Jugoslavia, insegna che se le prove dei crimini di guerra non vengono raccolte immediatamente poi scompaiono. I testimoni muoiono o diventano con il tempo riluttanti. Le prove sono il punto di partenza per i procedimenti e le condanne. Non è solo importante per la Storia, ma essenziale per la giustizia”. Che tempi prevede? “La giustizia è fatta dai vincitori. Norimberga ebbe luogo dopo il crollo del nazismo, non durante la guerra. Hermann Göring, Joachim von Ribbentrop e altri alti membri del regime non si aspettavano certo di trovarsi davanti a un tribunale. Se sono stati processati è dovuto alla cultura giudiziaria anglosassone e in particolare al giudice Felix Frankfurter, amico intimo di Franklin Roosevelt. Stalin riteneva che la giustizia fosse una pallottola nella nuca. Anche Churchill pensava che dovessero essere arrestati e giustiziati. Sono stati gli americani a volere un tribunale per giudicare i capi nazisti dopo aver raccolto tutte le prove necessarie, dopo un contraddittorio e un dibattito pubblico. Avevano ragione”. Quindi, se il regime di Putin rimane al suo posto, ci sono poche possibilità di avere un processo? “Il responsabile non è solo il dittatore onnipotente. Anche i capi di stato maggiore, gli ufficiali superiori, e tutti coloro che partecipano alle decisioni industriali, aiutano a finanziarle, fabbricano armi. Non sono sicuro che agli alti ufficiali russi piaccia l’idea di essere inseguiti da mandati d’arresto internazionali. E gli oligarchi ancora meno”. Tutti complici? “Le responsabilità individuali sono sancite dallo statuto dell’Aia. La scusa della funzione e dell’obbedienza agli ordini non si applica. Tutti coloro che partecipano a crimini di guerra e contro l’umanità e agiscono con consapevolezza sono penalmente responsabili. Putin è il capo dello Stato russo. Non può essere fermato al Cremlino. Ma i suoi numerosi complici, militari e civili, sono penalmente responsabili. E anche se Putin scomparisse, sarebbero perseguibili. Con la giurisdizione universale corrono il rischio di essere arrestati e processati in diversi Stati. Non esiste prescrizione per i crimini contro l’umanità, e quindi dovranno rendere conto per il resto della loro vita. La giustizia non può resuscitare i morti. Ma questi crimini non possono rimanere impuniti”. È fiducioso? “È questione di volontà. Troppe volte siamo rimasti indifferenti. Ora succede in Europa. La passività e la compiacenza non sono accettabili. Dobbiamo sapere chi siamo e cosa vogliamo. E agire di conseguenza. È il momento della verità per la giustizia internazionale. Bisogna superare lo scetticismo e gli interessi nazionali. Ricordo sempre l’assioma di Guglielmo d’Orange: ‘Non è necessario sperare per intraprendere né riuscire per perseverare’“. Siria. Attraverso l’Ucraina cerchiamo l’indignazione mancata di Shady Hamadi* Il Fatto Quotidiano, 7 aprile 2022 Il paradosso della Siria è che oggi la si racconta tramite l’Ucraina. Cerchiamo un’indignazione mancata attraverso il parallelismo della tragedia. Il carnefice è lo stesso, le vittime sono differenti. È tutto già visto. Bucha, località che fino a due giorni fa ci era sconosciuta, è oggi simbolo di una barbarie che colpisce il mondo con il peso di quei corpi gettati lungo una strada. Le mani legate dietro la schiena e il foro di proiettile su ognuno di loro, a testimoniare una esecuzione che ha il sapore di una vendetta portata a termine dai russi. In più, per quei corpi, c’è anche la beffa di essere adoperati come propaganda. “Si muovono, non sono morti” denunciano dal Cremlino, tentando di oscurare con la macchina della disinformazione un crimine di guerra. Ma è tutto già visto, come dicevamo. È mattina ad Aleppo, nel nord della Siria. Alle prime luci del 29 gennaio 2013, 110 cadaveri di uomini e ragazzi, alcuni neanche maggiorenni, vengono ritrovati con le mani legate lungo il canale che incanala verso la città il fiume Quwaiq. I corpi sono stati gettati come si lancia un sasso nello stagno. Sporchi di fango, i parenti di molte persone scomparse da giorni accorrono per provare a riconoscere un loro caro. Chi vede in quei corpi il volto del proprio marito o figlio giura che l’ultima volta erano andati in aree sotto il controllo del governo o ad un checkpoint. Da quel momento non ne avevano avuto più notizie. Di questo massacro, dei corpi di adolescenti e giovani uomini, con sogni e speranza, morti con le mani legate dietro la schiena per impedirgli quasi di coprirsi gli occhi nell’ultimo istante che precede la fine della vita, nessuno ha mai pagato. Ed è impressionante il legame che quei corpi stesi lungo quella riva hanno oggi con quelli che abbiamo visto a Bucha. Sono le stesse vittime, morte per mano di una tragedia identica. Il finale, per i primi, è quello di essere stati dimenticati. Per i secondi c’è ancora tempo per indignarsi, ancora per qualche giorno. Poi saremo pronti a consegnarli all’oblio delle tragedie dimenticate di questi primi venti anni del nuovo millennio. *Scrittore La Birmania tra povertà e instabilità politica. Gli scenari della crisi dimenticata di Antonio Fiori Il Domani, 7 aprile 2022 Pochi, in occidente, si sono accorti che lo scorso 1° febbraio ha segnato l’anniversario del colpo di stato architettato dai militari in Birmania. Quella mattina, infatti, il generale Min Aung Hlaing - comandante del Tatmadaw (le forze armate birmane) - procedette all’arresto di Aung San Suu Kyi e dei vertici della Lega nazionale per la democrazia (Nld), vale a dire la compagine politica che nel novembre 2020 aveva riscosso un enorme consenso elettorale nel paese e che si apprestava ad assumere la responsabilità di dare vita a un governo. All’improvviso, quindi, un decennio di faticosa transizione verso un impianto politico caratterizzato da maggiore democraticità era stato spazzato via dall’ennesimo intervento delle forze armate, riportando le lancette ai giorni bui dell’autoritarismo, da cui il paese era stato piagato sin dal 1962. Contrariamente alle loro aspettative, e malgrado le efferate violenze perpetrate ai danni della popolazione, i militari non sono però riusciti a consolidare il proprio potere all’interno del paese e i costi sociali sono stati catastrofici: finora circa 1.700 civili sono stati uccisi - alcuni dei quali torturati a morte nei centri preposti a condurre interrogatori sommari - più di diecimila incarcerati e oltre 300mila hanno perso quel poco che possedevano a causa delle continue razzie del Tatmadaw nei villaggi al fine di prostrare qualunque forma di dissenso. Crisi umanitaria - Questi nuovi “senza tetto” vanno naturalmente a sommarsi a quelle centinaia di migliaia già presenti nel paese prima del colpo di stato, come i cittadini del gruppo etnico dei Rohingya nello stato del Rakhine. Le conseguenze umanitarie di questo esodo potrebbero essere inimmaginabili. Dal punto di vista economico, oltre all’improvvisa scomparsa di migliaia di posti di lavoro a causa della pandemia, i cittadini hanno dovuto fare i conti con una fortissima spirale inflattiva, che sta determinando una caduta verticale di una grande fetta della popolazione in una condizione di povertà estrema. Le Nazioni unite hanno calcolato che all’incirca 15 milioni di persone, tra cui un terzo rappresentato da bambini, necessiterebbero di cospicui aiuti umanitari. Questa situazione di caos tende ovviamente a favorire l’abbandono del paese da parte di alcuni grandi gruppi industriali esteri, come Chevron e Total Energies. Tutto ciò però sembra non aver indebolito la determinazione di una cospicua parte della popolazione nel continuare a opporre una strenua resistenza alle angherie dei militari. Disobbedire - Nelle città principali questa opposizione ha dapprima assunto la forma del movimento di disobbedienza civile, all’interno del quale sono confluiti studenti e molti di coloro responsabili della fornitura di servizi pubblici essenziali: dottori, personale paramedico, insegnanti si sono semplicemente rifiutati di continuare a espletare le proprie mansioni in un paese sotto il controllo della giunta militare. Il decennio di apertura del paese al mondo esterno, tra il 2011 e il 2021, ha certamente fatto crescere le aspettative della popolazione e dato loro nuove opportunità: la nuova chiusura imposta dai militari ha risvegliato la coscienza collettiva determinata a impedire che le forze armate possano condannare la Birmania a un nuovo indefinito baratro. Nel corso dell’ultimo anno la resistenza, in molte regioni del paese come Sagaing, Magwe e Chin, si è radicalizzata in virtù della comparsa delle Forze di difesa popolare, un assortimento di gruppi etnici armati nominalmente leali al governo di unità nazionale, formato da membri dell’Nlf e dichiaratosi legittimo organo amministrativo in esilio. È forse inutile evidenziare come sia estremamente difficoltoso per il governo di unità nazionale tenere a bada i vari gruppi etnici armati che sono confluiti al suo interno, molti dei quali, in realtà, operano in maniera indipendente e hanno delle posizioni totalmente dissimili sulle strategie di fondo della resistenza. Una questione dimenticata - Negli ultimi tempi, comunque, la crisi birmana ha ricevuto scarsa attenzione da parte della comunità internazionale, soprattutto a causa dei numerosi fronti “caldi” - Afghanistan, Siria e la guerra in Ucraina - a cui è necessario fare attenzione. Gli europei e gli statunitensi hanno adottato svariate misure sanzionatorie contro individui e organizzazioni collaterali al regime, lasciando, però, che della questione birmana si preoccupasse soprattutto l’Asean (Associazione delle nazioni del sudest asiatico), a sua volta profondamente diviso sulle modalità da adottare per riportare la situazione sotto controllo. Incredibilmente, tuttavia, lo scorso gennaio il presidente di turno dell’Asean, il primo ministro cambogiano Hun Sen, è diventato l’unico capo di un governo a recarsi in visita in Birmania per incontrare Min Aung Hlaing. La visita, formalmente finalizzata a discutere dell’attuazione di un piano proposto dall’Asean per porre fine alle violenze, non ha fatto altro se non fornire un qualche tipo di legittimazione al regime militare. Tre scenari - Nonostante nessuno sia effettivamente in grado di prevedere in che modo la situazione in Birmania possa evolvere nei prossimi mesi, è plausibile pensare a tre scenari, nessuno dei quali, peraltro, condurrebbe alla pacificazione e alla rinascita del paese. Il primo è relativo alla affermazione perentoria dei militari, magari anche attraverso una nuova consultazione elettorale, promessa per il 2023. Uno scenario di tal fatta, tuttavia, non contribuirebbe a ridurre il conflitto sociale e anzi imporrebbe ai militari di affidarsi permanentemente a forme di repressione e controllo, condannando il paese all’involuzione politica ed economica. Il secondo, improbabile, scenario vedrebbe il successo del governo in esilio e delle forze di difesa popolare; ciò si tradurrebbe nella necessità di reintegrare le centinaia di migliaia di soldati sconfitti all’interno dei ranghi della società, per evitare che nuovi gruppi armati possano emergere e destabilizzare il paese. Una tale situazione, tuttavia, potrebbe determinare un’ulteriore frammentazione del paese lungo linee etniche, considerato il fatto che nessun governo centrale è mai riuscito a porre sotto il proprio controllo l’intero territorio nazionale. Peraltro, un eventuale crollo del Tatmadaw e la comparsa di un nuovo assetto politico potrebbe rappresentare un’ottima opportunità per alcuni gruppi etnici minoritari di puntare al consolidamento del loro controllo in alcune zone del paese. Tutto sommato, comunque, lo scenario più verosimile rimane l’ultimo, e cioè quello rappresentato dallo stallo in cui versa attualmente la Birmania. Il problema dell’esercito - Le forze popolari difettano di equipaggiamenti militari, strategia e coordinamento per fare efficacemente fronte alle forze armate e il governo di unità nazionale - a parte l’endemica mancanza di risorse finanziarie - non è stato ancora formalmente riconosciuto da alcun governo straniero (fatta eccezione per il parlamento europeo). Il Tatmadaw, dal canto suo, sta scontrandosi con l’impossibilità di concentrare le proprie forze su un unico fronte, visto che l’intero paese è attraversato dal caos. Tra le file dei militari il morale è peraltro sempre più basso. Oltre a non riuscire a controllare efficacemente il territorio, continuano a rincorrersi le notizie relative a episodi di diserzione. Sembra, infatti, che oltre duemila soldati abbiano già abbandonato l’esercito, alcuni dei quali rifugiandosi nei gruppi resistenti. Si tratta di percentuali risibili per le forze armate, che possono contare su più di 300mila uomini, ma questo inedito fenomeno non fa altro che porre in evidenza i numerosi problemi che il Tatmadaw deve affrontare in questo frangente. Se però la situazione attuale dovesse trascinarsi a lungo non solo nessuna delle due parti - le forze armate o l’opposizione - prevarrebbe sull’altra, ma sarebbe solo la Birmania a uscirne sconfitta.