Consiglio d’Europa: l’Italia tra i Paesi con più sovraffollamento e suicidi nelle carceri di Eleonora Martini Il Manifesto, 6 aprile 2022 Il Secondo il rapporto annuale sulle carceri del Consiglio d’Europa pubblicato ieri con i dati raccolti dal gennaio 2020 al gennaio 2021 in 49 dei 56 Paesi che ne sono membri, la Federazione Russa è al primo posto per il tasso di carcerazione. L’Italia tra i Paesi con più sovrappopolamento e suicidi. Restrizioni alla circolazione durante la pandemia, rallentamento dei sistemi giudiziari e regimi di scarcerazione utilizzati in alcuni Paesi per prevenire o ridurre la diffusione del Covid-19 hanno fatto sì che in Europa la popolazione carceraria sia diminuita tra il 2020 e il 2021. Sono diminuiti i reati, prima di tutto, ma anche le evasioni, sempre a causa della minore libertà di circolazione. Ma il calo non c’è ovunque, e solo in alcuni Paesi del continente la riduzione ha visto consolidare un “trend ormai decennale”, come spiega “Space”, il rapporto annuale sulle carceri del Consiglio d’Europa pubblicato ieri con i dati raccolti dal gennaio 2020 al gennaio 2021 in 49 dei 56 Paesi che ne sono membri (di cui solo 52 si sono dotati di un’amministrazione penitenziaria). Nessun dato è pervenuto da Crimea, Transnistria, Abkhazia, Ossezia meridionale, parte della Regione del Karabakh, Cipro nord, Isole Faroe della Danimarca e dalle dipendenze del Regno Unito (Gibilterra, Guernsey, Isola di Man e Jersey). Dallo studio sono escluse Bielorussia e Kosovo perché non sono membri del Consiglio d’Europa. “L’indagine - si legge nel dossier redatto dall’Università di Losanna - è stata completata prima della decisione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa di escludere la Russia dall’organizzazione a partire dal 16 marzo”. Ed è proprio la Russia a regnare in vetta alle classifiche dei Paesi con più detenuti, più carceri (quindi anche con meno sovraffollamento) e con il periodo di carcerazione medio più lungo. Tutti gli altri dati però non sono stati forniti dalle autorità russe, perciò all’organizzazione di Strasburgo nata nel 1949 non è dato sapere quante donne, quanti stranieri, quanti over 50 siano detenuti nelle prigioni russe, né quanti agenti penitenziari vi lavorino, né tanto meno il numero di suicidi e di morti. Uno dei dati più significativi sulla popolazione reclusa in Europa è il tasso di carcerazione ogni 100 mila abitanti: al 31 gennaio 2021, quando nelle 49 amministrazioni penitenziarie che hanno risposto alle domande per “Space” vi erano 1.414.172 detenuti in totale (102 detenuti ogni 100.000 abitanti, di media), al top della classifica c’erano: Russia (328 detenuti ogni 100 mila abitanti), Turchia (325), Georgia (232), Azerbaigian (216), Slovacchia (192), Lituania (190) e Repubblica Ceca (180). “Non tenendo conto dei Paesi con meno di 300.000 abitanti, i tassi di carcerazione più bassi sono stati riscontrati in Islanda (41), Finlandia (43), Republika Srpska (Bosnia ed Erzegovina) (50), Paesi Bassi (54) e Slovenia (54)”. La densità carceraria è però diminuita in quasi tutti i Paesi paneuropei mediamente “del 5,3% da gennaio 2020 a gennaio 2021 (da 90,2 a 85,4 detenuti ogni 100 posti disponibili)”, anche se ci sono Paesi dove il numero di detenuti è aumentato, come in Svezia (+8,2%), Romania (+6,6%) e Macedonia del Nord (+5,4%). Mentre a calare maggiormente in quel periodo è stato il numero di reclusi a Cipro (-28,3%), Montenegro (-24,4%), Slovenia (-22,1%), Lituania (-13,4%), Finlandia (-13,2%), Georgia (- 12,1%), Francia (-11,7%), Armenia (-11,5%), Italia (-11,1%), Regno Unito (Irlanda del Nord) (-10,9%), Portogallo (-10,8%) e Lettonia (-10,3%). E anche se l’Italia resta tra i Paesi con il sovraffollamento maggiore, la triste classifica vede la Romania al primo posto (119 detenuti ogni 100 posti letto), seguita da Grecia (111), Cipro (111), Belgio (108), Turchia (108) e Italia (106) appunto. Nel 2020 la “densità carceraria era anche superiore a 100 persone ogni 100 posti disponibili in Francia (104), Svezia (101) e Ungheria (101)”. Da noi, grazie anche al decreto legge del 17 marzo 2020 che prevedeva il trasferimento ai domiciliari dei condannati con pena, anche residua, fino a 18 mesi di reclusione, misura prorogata poi con un altro decreto legge nell’ottobre dello stesso anno, il tasso di incarcerazione è diminuito dell’11,1%. All’inizio del 2020 c’erano 101,2 reclusioni ogni 100 mila abitanti, ma alla fine dell’anno la quota era scesa a 90. Il sovraffollamento però a tuttora non è stato risolto, e al 31 gennaio 2021 c’erano 105,5 detenuti per ogni cento posti disponibili. L’Italia è anche il Paese con la più alta percentuale di detenuti over 50 (il 26,7% dell’intera popolazione carceraria rispetto a una media europea del 16, 3%). Infine, il nostro Paese si trova tra i dieci Stati analizzati dal Consiglio d’Europa con il più alto tasso di suicidi in carcere nel corso del 2020 (61, in Italia, di cui 32 non ancora condannati in via definitiva, corrispondente ad un tasso di 11,4 ogni 10 mila reclusi). Anche se Ristretti orizzonti, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti dall’interno della Casa di reclusione di Padova, ne ha contati per quell’anno 62, per un totale di 152 morti in prigione. In generale, il Paese con il tasso più alto di suicidi in carcere è la Francia (27,9), seguita da Lettonia (19,7), Portogallo (18,4), Lussemburgo (18), Belgio (15,4), Spagna-Catalogna (14), Lituania (13,2), Estonia (12,8) e Olanda (12,7). Il Consiglio Ue boccia il nostro sistema penitenziario di Clemente Pistilli La Notizia, 6 aprile 2022 Le criticità: aumento dei suicidi, sovraffollamento e troppi detenuti anziani. Altro che Paese di Beccaria. In Italia le carceri sono un inferno, le condanne per le condizioni in cui vengono lasciati i detenuti aumentano e ora l’ennesima bocciatura è arrivata dal Consiglio d’Europa. Con l’ennesima maglia nera assegnata al Paese per i suicidi dietro le sbarre, il sovraffollamento nelle celle e il record di over 50 privati della libertà e costretti in un penitenziario. Il Consiglio d’Europa, nel rapporto 2020 denominato “Space”, con cui annualmente viene monitorata la situazione delle carceri negli Stati appartenenti all’organizzazione paneuropea, ha evidenziato che in Italia c’è stato un tasso dei suicidi all’interno dei penitenziari tra i più alti d’Europa, un problema di sovraffollamento che neanche una diminuzione dei nuovi detenuti dovuta agli effetti collaterali della pandemia ha risolto e che la maggior percentuale dei carcerati ha più di 50 anni. L’Italia è infatti inserita tra i primi dieci Paesi dell’Unione europea che hanno registrato il più alto tasso di suicidi in carcere nel corso del 2020, 61 in totale, uno ogni 10mila detenuti. E trentadue persone si sono tolte la vita mentre erano ancora in attesa di una sentenza definitiva. In testa alla classifica dei suicidi in carcere stilata dal Consiglio d’Europa si trova la Francia, dove il tasso dei suicidi è pari a 27, 9 ogni 10mila detenuti, seguita dalla Lettonia (19,7), il Portogallo (18,4), il Lussemburgo (18), il Belgio (15,4), l’amministrazione penitenziaria catalana (14), la Lituania (13,2), l’Estonia (12,8) e l’Olanda (12,7). Nessuno, ad eccezione del Belgio, ha però anche un problema di sovraffollamento carcerario come l’Italia. Al 31 gennaio del 2021 risultavano infatti 105,5 detenuti per ogni cento posti disponibili nei penitenziari. Peggio appunto solo il Belgio con 108,4. Una piaga che neppure gli effetti legati alla pandemia, che secondo il rapporto hanno contribuito a ridurre la popolazione carceraria, con il ricorso a misure alternative, ha sanato. In Italia il tasso di incarcerazione è diminuito dell’11,1%. All’inizio del 2020 c’erano infatti 101,2 incarcerazioni ogni 100mila abitanti, mentre alla fine dell’anno la percentuale è scesa a 90. Un trend registrato in molti altri Paesi che, secondo i ricercatori, è legato al particolare che i lockdown hanno ridotto la possibilità di commettere determinati crimini, senza contare che il Covid-19 ha rallentato il funzionamento dei tribunali. Ma il sovraffollamento è ancora eccessivo. Infine la percentuale di detenuti che hanno più di 50 anni. Se si esclude il Liechtenstein, dove gli over 50 dietro le sbarre sono la metà del totale, sei su dodici, per l’Italia si conferma il record assoluto. Rispetto a una media europea del 16,3%, gli over 50 detenuto sono infatti il 26,7% dell’intera popolazione carceraria. Tre elementi che rendono le carceri italiane un inferno e a cui è sempre più urgente porre rimedio. Il Ministero della giustizia sta investendo sulla Polizia penitenziaria. Lo scorso anno, come specificato dal sottosegretario Francesco Paolo Sisto, il Governo ha autorizzato l’assunzione di 2.204 unità e ha previsto un milione di euro per garantire il supporto psicologico degli agenti penitenziari. Il sottosegretario alla giustizia ha poi aggiunto che sono stati finanziati 154 interventi relativi alla videosorveglianza nelle carceri e che l’intera operazione, del valore di 22 milioni, potrebbe completarsi tra la fine del 2023 e il 2024. “Ci aspettiamo - ha concluso -ricadute positive”. I detenuti diventano artigiani e fornai: lavorare in carcere si può (ma in pochi lo fanno) di Nadia Palazzolo today.it, 6 aprile 2022 Attraverso il lavoro chi deve scontare una condanna può imparare un mestiere e iniziare a ricostruirsi una vita, riducendo nettamente la possibilità di tornare a delinquere. Da Nord a Sud sono tanti i penitenziari che ospitano laboratori, officine, botteghe ma i numeri non decollano. C’è chi ha imparato a realizzare mobili e chi a sfornare pane e dolci, chi lavora i tessuti e chi è diventato giardiniere o meccanico. Costruire una nuova vita all’interno del carcere si può. I progetti sparsi in tutta Italia lo dimostrano: negli anni sono state centinaia le persone che hanno acquisito nuove capacità e una volta ritrovata la libertà hanno potuto sfruttare quanto imparato per ricominciare a vivere. Nelle carceri in cui si lavora, inoltre, i problemi disciplinari si riducono. Calano anche gli episodi di autolesionismo, il rapporto con la polizia penitenziaria è meno teso. Secondo gli ultimi dati, circa il 70% dei detenuti italiani torna a commettere reati e ritorna in carcere. La percentuale crolla però se il detenuto ha appreso un lavoro: chi ha acquisito una professionalità varca nuovamente la soglia di una cella solo 2 volte su 100. Le storie di chi impara un mestiere sono storie di successo, eppure i detenuti lavoratori sono ancora pochi rispetto al totale. Lavorare in cella si può - La carta dei diritti e dei doveri dei detenuti e degli internati definisce il lavoro “uno degli elementi fondamentali del trattamento carcerario”. I detenuti possono partecipare, a loro richiesta, ad attività lavorative, sia all’interno dell’istituto sia all’esterno. Il lavoro all’esterno è una modalità di esecuzione della pena: per i condannati per reati comuni è applicabile senza alcuna limitazione, per i condannati alla pena della reclusione per delitti particolari è applicabile dopo l’espiazione di un terzo della pena e per i condannati all’ergastolo è applicabile dopo almeno 10 anni. Il magistrato di sorveglianza approva il provvedimento del direttore dell’istituto e indica le prescrizioni cui attenersi. I condannati e gli internati sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro hanno l’obbligo di prestare attività lavorativa. Il lavoro viene retribuito in modo “non inferiore ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro”. Cosa si può fare - Il lavoro dei detenuti può svolgersi alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e alle dipendenze di soggetti esterni. Il lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria è di tipo domestico, industriale e agricolo. Si tratta di: gestione quotidiana del carcere: pulizie, facchinaggio, preparazione e distribuzione dei pasti, piccoli interventi di manutenzione, attività di magazzino, assistente di un compagno ammalato o non autosufficiente; produzione delle forniture di vestiario e corredo, di arredi e quant’altro è destinato a tutti gli istituti del territorio nazionale. Si avvalgono principalmente di sarti, calzolai, tipografi, falegnami e fabbri e si svolgono in laboratori e officine presenti all’interno delle carceri; le attività agricole occupano detenuti con varie specializzazioni, come apicoltori, avicoltori, mungitori, ortolani che lavorano nelle colonie agricole (case di reclusione di Isili, Mamone Is Arenas in Sardegna e nell’isola di Gorgona) e nei tenimenti agricoli presenti in circa 40 istituti penitenziari. Nel 2000 si è introdotta la possibilità di lavorare alle dipendenze di soggetti esterni. Imprese e cooperative sociali possono avvalersi del lavoro dei detenuti, organizzare e gestire le officine e i laboratori all’interno degli istituti. È possibile anche il lavoro definito di “pubblica utilità”, praticabile “a titolo volontario e gratuito”. Può anche essere svolto all’interno degli istituti o per il sostegno delle famiglie delle vittime dei reati. Dai mobili ai biscotti - Nella casa di reclusione di Sulmona si realizzeranno mobili e suppellettili in legno che serviranno, poi, ad arredare tutte le carceri italiane. Per il progetto, coordinato dalla direzione generale per la coesione del ministero della Giustizia, la Regione Abruzzo ha diramato un avviso pubblico per la formazione di 80 detenuti, già impegnati nella falegnameria dell’istituto di pena. Il budget stanziato per l’iniziativa è di oltre 100 mila euro. L’intervento, che coinvolge in partenariato anche il carcere di Lecce, prevede la presa in carico dei detenuti sotto ogni punto di vista: aspetti psico-sociali, formazione e sviluppo delle capacità lavorative, al fine di garantire loro un reinserimento in comunità più semplice quando finiranno di scontare la pena. Lecce ha visto nascere e crescere il progetto “Made in Carcere”. La filosofia è quella della seconda opportunità: per le donne detenute e per i tessuti. Ironia, semplicità e creatività sono le caratteristiche che contraddistinguono le creazioni tessili “Made in Carcere”: manufatti che nascono dall’utilizzo di materiali e tessuti esclusivamente di scarto, provenienti da aziende italiane. L’Istituto penale per i minorenni di Potenza ha avviato il laboratorio artigianale dolciario “Il Forno dei Briganti”, che produce circa 700 biscotti al giorno con ingredienti ricavati da tre ricette tutte ispirate alla tradizione lucana. A Palermo, all’interno del carcere minorile Malaspina, è stato avviato il progetto “Cotti in fragranza”. I ragazzi imparano a preparare prodotti da forno: dai biscotti alle torte e, per Pasqua, anche la colomba. Al termine del proprio percorso detentivo, infine, i ragazzi continuano a lavorare al progetto, formandosi costantemente e acquisendo sempre maggiori responsabilità. I prodotti sfornati dai ragazzi del Malaspina hanno esordito tra gli scaffali delle botteghe equosolidali nel 2017, coprendo in pochi mesi tutto il territorio nazionale. Poi sono arrivati anche nella grande distribuzione grazie al supporto di Legacoop Sicilia Occidentale. Nel 2018 Cotti in Fragranza ha inaugurato un secondo nucleo operativo al di fuori dalle mura del Malaspina. Cotti in Fragranza ha trasformato un giardino abbandonato nel bistrot Al Fresco. Gambero Rosso ha premiato Cotti in Fragranza come miglior Progetto sociale Food d’Italia per il 2019, e oggi Al Fresco fa parte dell’Alleanza Slow Food dei cuochi, grazie a un menù che esalta le materie prime del territorio, la stagionalità e l’importanza del km 0. A Milano la cooperativa sociale “bee.4 altre menti” segue le attività lavorative all’interno della II casa di reclusione a Bollate “per offrire opportunità di riscatto a chi ha incontrato il carcere durante il proprio percorso di vita”. Nata nel 2013 all’esordio impegnava tre persone nel settore dell’assemblaggio e tre operatori nei primi servizi di natura telefonica. Adesso ha un’importante attività nel customer service nel settore energia, ma non solo. Nell’officina “ri-genera” interna al carcere realizza servizi di revisione, riparazione e rigenerazione di attrezzature professionali legate al mondo del caffè. Presso il reparto femminile c’è un laboratorio interamente dedicato ai settori dell’assemblaggio e montaggio componentistica di vario genere, confezionamento e controllo qualità. Nel febbraio del 2021 avvia la prima esperienza di smartworking in cella grazie a un protocollo operativo assolutamente innovativo per il mondo delle carceri: i detenuti impiegati offrono servizi di assistenza telefonica alle aziende senza uscire dal penitenziario. Come sostenere le realtà delle carceri L’onlus “semi(di)libertà” che cura progetti lavorativi per i detenuti in tutta Italia ha lanciato la piattaforma “economia carceraria”, che aggrega i prodotti italiani fatti in carcere, ora anche e-commerce. Sul sito del ministero della Giustizia c’è poi una “vetrina virtuale” dei prodotti realizzati nelle carceri italiani, che offre un panorama delle attività svolte. I numeri però indicano realtà floride sì, ma ancora con una partecipazione limitata. A oggi il lavoro impegna solo il trenta per cento dei detenuti nelle carceri italiane (che sono oltre 54mila). Secondo i dati pubblicato sul sito del ministero della Giustizia e aggiornati al 30 giugno 2021, i detenuti lavoranti alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria sono 15.827, ai quali vanno aggiunti 2.130 carcerati che lavorano per altre realtà. Altri 1.742 lavorano poi in ambito agricolo. Solo una quota marginale dei detenuti è coinvolta in attività lavorative e questo a discapito degli indubbi vantaggi, economico e sociali, ma anche in termini di recidiva che sono emersi da studi e ricerche ad hoc. Il Covid poi ha complicato la situazione perché molte attività sono state interrotte per colpa della pandemia. Da qui l’auspicio delle associazioni che si occupano di realtà carceraria, una su tutte Antigone, di “tornare a investire sul lavoro all’interno e all’esterno dell’istituzione penitenziaria e che le attività formative possano riprendere” perché è il vero primo passo verso della ricollocazione nella società. Riforma della giustizia, l’ultimatum di Cartabia: intesa o fiducia di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 6 aprile 2022 Entro giovedì occorre trovare un accordo. Ieri seduta tesa che ha registrato una spaccatura con i renziani che avevano votato sì ai primi due emendamenti dell’articolo 1, cui il governo aveva dato parere contrario. Passi avanti sui magistrati che entrano in politica e tornano a indagare e giudicare. Passi indietro sulla presunzione d’innocenza. Ma i nodi delle riforme della giustizia sono ancora tutti lì da sciogliere. E alla fine la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha dato un ultimatum: entro giovedì occorre trovare un accordo. È questo l’esito del vertice di maggioranza che si è tenuto ieri, primo giorno di votazione in commissione giustizia. Una seduta tesa che ha registrato una spaccatura con i renziani che avevano votato sì ai primi due emendamenti dell’articolo 1, cui il governo aveva dato parere contrario. Schermaglie. Il cuore rovente della questione si è affrontato nel vertice: l’elezione del Csm, la responsabilità civile diretta dei magistrati e la separazione delle funzioni di giudici e pubblici ministeri. Con Forza Italia, Lega e Italia Viva che non vogliono accogliere l’invito della ministra a togliere dal tavolo la richiesta di scegliere i candidati al Csm per sorteggio, sia pur temperato, e di far rispondere di responsabilità civile diretta i magistrati. Sulle “porte girevoli” si era giunti quasi a un accordo sulla proposta del ministro che metterebbe fuori ruolo i magistrati eletti e quelli che assumono incarichi di governo. Mentre fermerebbe solo per un anno (con il divieto per tre anni di assumere incarichi direttivi o semidirettivi) capi di gabinetto, capi degli uffici legislativi e altri incarichi assunti dai consiglieri di Stato. Ma la discussione si è accesa quando Enrico Costa, di Azione, ha chiesto il ritiro dell’emendamento Bazoli (Pd) che cancella le norme disciplinari sui magistrati che non rispettano il decreto sulla presunzione di innocenza. I cinque Stelle si sono opposti. La discussione è deflagrata. “È ridicolo pensare che l’ostacolo sia quell’emendamento” dice Bazoli al Corriere. E punta il dito contro FI, Lega e Iv: “Siamo disponibili a ritirarlo ma non vogliamo un disarmo unilaterale”. Rinvio a giovedì. Cartabia tornerà a minacciare un’arma: la fiducia. Giustizia, è tutti contro tutti: così la riforma del Csm non decolla di Francesco Grignetti La Stampa, 6 aprile 2022 Alta tensione tra i partiti di maggioranza. Il sistema elettorale resta un rebus. Corsa contro il tempo: il 19 si va in Aula. La riforma della giustizia non va, inutile edulcorare la situazione. Si vede che i partiti non hanno più tanta paura di perdere i fondi del Pnrr. O forse temono piuttosto di perdere consensi con il proprio elettorato storico. Fatto sta che sono tornate le battaglie identitarie. E la riforma del Consiglio superiore della magistratura galleggia in alto mare. Ieri due riunioni, sostanzialmente inconcludenti. Domani pomeriggio si vedono di nuovo. Ma dovrà essere una riunione che il Pd chiama “di chiarimento politico di fondo”. Già, perché tutti i protagonisti ormai sentono che le situazioni si vanno ingarbugliando. La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, nuovamente ieri ha rinnovato pubblicamente il suo appello: “Abbiamo lavorato tanto, altrettanto siamo pronti a fare, con la necessaria collaborazione di tutti gli attori, a partire dalle forze politiche e dal Parlamento la cui importanza è davvero centrale in tutte le riforme”. Ma poi, nel chiuso della riunione, la ministra ha fatto capire che la pazienza si sta esaurendo: “Sto ancora aspettando le vostre risposte”, ha detto brusca ai protagonisti di alcune battaglie di bandiera, cui aveva chiesto di ritirare degli emendamenti che ritiene incostituzionali: sulla responsabilità civile diretta dei giudici (che ricalca un quesito referendario della Lega), sulla incandidabilità di un parlamentare per il seggio di laico al Csm, sul sorteggio tra i magistrati per poi essere candidati al Csm. Il fatto è che sono diventate tre bandierine a cui nessuno vuole rinunciare. Walter Verini, Pd, a un certo punto ha sollevato un problema non secondario: “Va bene tutto, però qui abbiamo una ministra che ha ascoltato a lungo e poi ha presentato le sue sintesi. Una maggioranza ci crede, oppure salta tutto”. Racconta però uno dei deputati che partecipa agli incontri: “Nessuno ritira i propri emendamenti, perché nessuno si fida degli altri. Gli accordi del mattino vengono ribaltati al pomeriggio”. Effetti da campagna elettorale già in corso. È accaduto ieri mattina, ad esempio, che la plenipotenziaria grillina Giulia Sarti abbia tentato di riaprire una discussione che faticosamente era stata chiusa lunedì sulle possibili sanzioni per i magistrati che violano il silenzio sulle inchieste in corso. Sembravano tutti d’accordo su una nuova fattispecie disciplinare. Martedì non era già più così. Resta il fatto, come hanno toccato con mano ancora ieri sera i rappresentanti dei partiti di maggioranza, che le distanze sono ancora lontane. E anzi le posizioni si sono irrigidite. Figurarsi che cosa potrà poi accadere quando ci si avvicinerà alla santabarbara della riforma, ovvero quale sistema elettorale porterà i magistrati al rinnovo dell’organo di autogoverno. Le prime votazioni del pomeriggio in commissione Giustizia in effetti sanzionano lo stato di guerra, non la pace. La maggioranza ha votato appena 1 emendamento sui 250 presentati. Eppure dovrebbero concludere al più presto, dato che il 19 aprile è convocata l’Aula della Camera. E poi ci sono le resistenze di categoria a complicare tutto. Sono state necessarie 24 ore e due interminabili riunioni per venire a capo di un aspetto francamente secondario, ovvero se le restrizioni alle “porte girevoli”, con un purgatorio prima di tornare alla funzione originaria per i magistrati che hanno svolto incarichi diretti alle dipendenze dell’Esecutivo, si dovesse applicare a tutte le magistrature oppure esentare le magistrature amministrativa e contabile. È sceso in campo il Legislativo di palazzo Chigi, dapprima nella persona del vice Angelo Venturini, poi del capodipartimento Carlo Deodato, per frenare una norma che aveva l’unanimità delle forze politiche. Solo alla fine, palazzo Chigi ha ceduto. Csm, l’allarme del Pd: “Centrodestra e renziani vogliono affossare la riforma” di Liana Milella La Repubblica, 6 aprile 2022 Scontro tra la responsabile Giustizia dei dem Anna Rossomando e il deputato di Iv e tuttora magistrato Cosimo Maria Ferri. Sul tavolo la legge elettorale: renziani e Lega chiedono mani libere al Senato e non vogliono chiudere l’accordo. Lite Rossomando-Ferri durante le trattative politiche sulla riforma del Csm e un pesante warning del Pd sul rischio che il centrodestra e Italia viva, sotto sotto, “vogliano affossare la legge”. L’accusa è netta. E arriva dalla responsabile Giustizia dei Dem Anna Rossomando, vice presidente del Senato, preoccupata dalla piega che sta prendendo la discussione durante l’ennesimo incontro di maggioranza, alla presenza del ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà. Un incontro che proseguirà in serata per tentare di affrontare la questione più calda, proprio quella della legge elettorale per scegliere i futuri membri togati del Csm. Ma che cosa è accaduto nell’incontro tenutosi in mattinata, alla Camera, prima che la commissione Giustizia cominciasse a votare i primi emendamenti? È presto detto. Alla riunione partecipa sempre il deputato di Italia viva Cosimo Maria Ferri che ormai ha assunto un ruolo di protagonista. E che in un’intervista al Dubbio - il quotidiano del Consiglio nazionale forense - rivendica il suo diritto di essere presente alle trattative in quanto parlamentare di Iv. Anche se è sotto inchiesta disciplinare al Csm per le trattative all’hotel Champagne nel maggio 2019 per scegliere il procuratore di Roma. In polemica con le toghe di Area che parlano di un evidente “conflitto di interessi”, lui replica parlando di “un attacco gravissimo” e di “un’interferenza” rispetto alle sue prerogative, tant’è che scriverà al presidente della Camera Roberto Fico per lamentarsi. Succede allora che Rossomando e Ferri litigano. La prima accusa il secondo di voler affossare la riforma. Il secondo insiste sulla sua linea di avere pienamente mani libere al Senato. Proprio come chiede la Lega con la senatrice Giulia Bongiorno, che è anche la responsabile Giustizia del suo partito. Al centro della discussione c’è ancora la legge elettorale, dove Ferri si batte per il sorteggio “temperato” - prima si sorteggiano i candidati, poi si vola sui nomi, un modo per aggirare la Costituzione che parla di membri “eletti” - su cui è d’accordo anche Forza Italia. Un braccio di ferro che sta andando avanti da settimane. Su cui la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha posto una pesante ipoteca, quella che il sorteggio sia del tutto incostituzionale, e quindi proprio lei, che è stata la presidente della Consulta, non potrebbe mai consentirne l’approvazione. Senza contare che sicuramente il Quirinale potrebbe non firmare neppure la legge proprio per il vulnus in essa contenuto. Da qui il nuova alert del Pd - che già nelle scorse settimane aveva annusato cattiva areai - sul rischio che, alla fine, la riforma venga fatta saltare, affossandola soprattutto dal punto di vista dei tempi rispetto alle prossime elezioni del Csm. Csm, dal fascicolo con i “flop” ai fuori ruolo: super stretta sui magistrati di Errico Novi Il Dubbio, 6 aprile 2022 Via libera, anche dal Pd, all’emendamento che vincola promozioni e incarichi di giudici e pm alle performance raccolte nella “banca dati”. Con un doppio livello. Uno sulle toghe ordinarie, che vedranno le loro valutazioni di professionalità subordinate all’ormai famoso “fascicolo delle performance”, proposto dal vicesegretario di Azione Enrico Costa. L’altro per i giudici amministrativi e contabili, che mezza maggioranza vuole - non senza validi motivi - assoggettare al medesimo regime previsto per gli ordinari in materia di “porte girevoli”, anche quando la “contaminazione” con la politica consiste in un incarico da capo di gabinetto. Andiamo con ordine. Intanto ieri ha fatto cilecca il via all’esame formale degli emendamenti nella commissione Giustizia di Montecitorio: un solo voto, ne restano altri 250, tanti quanti i subemendamenti depositati dai partiti al testo Cartabia (che a propria volta integra il ddl base di Alfonso Bonafede). Il presidente della commissione Mario Perantoni, deputato 5S, spiega che, certo, l’articolo 1, in quanto “incipit” era “un’occasione per i vari gruppi di esprimere le posizioni di carattere generale”, dopodiché si deve procedere “quanto prima”. Forse andrà meglio oggi, con nuovo step dell’esame dalle 14. Ma la vera partita si è giocata in sede politica, cioè nel doppio round della riunione fra i capigruppo Giustizia della maggioranza, la guardasigilli e altri rappresentanti del governo, inclusi i dirigenti della Presidenza del Consiglio. Un dato è ormai acquisito: il via libera alla proposta di Azione sul “fascicolo”. Lunedì è arrivato il parere favorevole di Cartabia. All’inizio, davanti alla prima versione della norma, i rappresentanti del Pd hanno obiettato che si rischiava “un accanimento nei confronti della magistratura, uno scivolamento verso pretese punitive che non sembrano coerenti con l’impianto complessivo della riforma”. Ma le preoccupazioni dem sono poi state superate: via Arenula ha riformulato il testo, dettagliatissimo, di Costa, alla fine accolto positivamente da tutti. Il ministero ha assicurato che la norma non irrigidisce l’ottica valutativa nei confronti delle toghe.Il fascicolo viene istituito non solo “ai fini delle valutazioni di professionalità” ma anche per “il conferimento degli incarichi” direttivi e semidirettivi. Tale banca dati sulle performance includerà “per ogni anno di attività i dati statistici e la documentazione necessaria per valutare il complesso dell’attività svolta, inclusa quella cautelare, sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo, la tempestività nell’adozione dei provvedimenti, la sussistenza di caratteri di significativa anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi o nei gradi del procedimento e del giudizio”. C’è tutto: di fatto d’ora in poi gli scatti di carriera e di stipendio (a questo servono le valutazioni di professionalità) e le nomine di procuratori capo o presidenti di Tribunale non potranno prescindere da tale documentazione. E attenti al passaggio della norma in cui si richiama l’eventuale “significativa anomalia” di troppo ricorrenti bocciature per le decisioni (nel caso dei giudici, anche civili) o per le richieste (nel caso dei pm): è il meccanismo a cui da tempo guardava Enrico Costa anche come alternativa al divieto, per il pm, di impugnare le assoluzioni. “Intanto la riformulazione del ministero”, spiega Costa al Dubbio, “ha semplicemente l’obiettivo, come è stato spiegato nella riunione, di ricomprendere nella norma tutti i casi possibili, anche le performance dei giudici civili. In secondo luogo, con un fascicolo del genere anche le famose valutazioni degli avvocati potranno avvenire su basi certe. Ancora”, prosegue il vicesegretario di Azione, “finora il 99 per cento di valutazioni di professionalità positive deliberate dal Csm derivava dal fatto che in realtà non si guarda in concreto l’opera di quel giudice o di quel pm: gli si dà un voto positivo di natura politica”. Riguardo all’accordo raggiunto, sulla proposta, dalla maggioranza, Costa osserva: “C’era stato il no al sorteggio, il no al mio emendamento che avrebbe recuperato nel ddl sul Csm la responsabilità diretta del magistrato non ammessa a referendum: non fosse passata neppure la mia proposta sul fascicolo delle performance, allora saremmo tornati alla carica sui primi due punti”.Il “saremmo” di Costa pare implicitamente alludere anche al centrodestra propriamente detto, che dunque, a fronte dell’ok alla “banca dati” sui flop delle toghe, sarebbe pronta a dire addio al sorteggio temperato. Non alla separazione delle funzioni, sulla quale si dovrà discutere ancora. D’altronde, lunedì c’era stato il via libera anche all’altro emendamento sottoposto due giorni fa da Costa agli alleati, relativo all’illecito disciplinare tipizzato per il pm che induca l’adozione di misure restrittive della libertà personale grazie all’occultamento di elementi favorevoli all’indagato. È ormai acquisito pure l’ok sull’emendamento che introduce un’ulteriore ipotesi di illecito per il magistrato che violi le norme sulla presunzione d’innocenza. Una vera e propria stretta sulla magistratura, dunque: improvvisa e imprevedibile. Grande spazio meriterebbe pure il capitolo sul quale si è infiammata la doppia riunione politica di ieri: i limiti al rientro nella giurisdizione per i fuori ruolo, e in particolare per i magistrati amministrativi e contabili. Già lunedì il legislativo di Palazzo Chigi, il mitico Dagl, aveva chiesto di prevedere una “decontaminazione” più rapida per i giudici di Consiglio di Stato e Tar, inclusi quelli cooptati nei ministeri come capi di gabinetto. Ieri mattina ne ha discusso, con i partiti e Cartabia, il capo del dipartimento, Carlo Deodato, direttamente interessato dalla misura in quanto ex presidente di sezione al Consiglio di Stato. A quanto si apprende, con apprezzabile fair play la presidenza del Consiglio ha consegnato ieri pomeriggio un parere favorevole alla soluzione ormai acquisita come “lodo Caliendo” (dal nome del senatore di FI): dopo l’esperienza da tecnico nel governo, anche il giudice amministrativo deve stare per un anno lontano dalla giurisdizione, con ulteriori tre anni “low profile”, cioè senza possibilità di assumere ruoli direttivi. Solo Italia Viva, con gli emendamenti a prima firma Catello Vitiello condivisi anche dal coraggioso ex magistrato Cosimo Ferri (altro che presenza inopportuna) aveva proposto un divieto di rientro definitivo al pari dei magistrati eletti in Parlamento. Comunque, anche la soluzione passata ieri sera è severa. Ed è un altro segno della virata hard assunta dalla riforma. Musolino: “Con queste riforme la politica dimostra di non conoscere il lavoro di noi toghe” di Valentina Stella Il Dubbio, 6 aprile 2022 “Sembra proprio che la politica non conosca il nostro lavoro e non comprenda le nostre dinamiche interne, finendo col partorire riforme che invece di far progredire la magistratura la riportano indietro di 50 anni”. Parola di Stefano Musolino, Segretario di Magistratura Democratica. C’è molta agitazione all’interno della magistratura per i due emendamenti presentati dal responsabile Giustizia di Azione, Enrico Costa, alla riforma del Csm e “promossi” dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia. Ne parliamo con Stefano Musolino, segretario di Magistratura democratica. Dottor Musolino, un emendamento prevede l’istituzione di un fascicolo delle performance. Che ne pensa? Sembra proprio che la politica non conosca il nostro lavoro e non comprenda le nostre dinamiche interne, finendo col partorire riforme che invece di far progredire la magistratura la riportano indietro di 50 anni. Una siffatta riforma alimenta il conformismo giurisdizionale e rafforza il carrierismo. Perché? Il magistrato viene sollecitato ad adeguarsi all’orientamento giurisprudenziale prevalente per non avere difficoltà di carriera. Questo è prima di tutto un danno per i cittadini perché blocca l’evoluzione del diritto. Ma poi si trasforma anche in un veleno culturale all’interno della magistratura, in quanto il messaggio che ci viene dato è: ‘ Più stai tranquillo e buono e più farai carriera’. Quando i ceti meno protetti si presenteranno dinanzi ad un giudice chiedendogli una applicazione evolutiva della norma, si troveranno sempre di più dinanzi ad un magistrato più preoccupato della propria carriera che ad agire sine spe et sine metu, senza speranza né timore, ma facendo un responsabile esercizio della funzione in scienza e coscienza. Tornando alla proposta Costa, nel nuovo fascicolo dovrebbe essere segnalata la eventuale “significativa anomalia” in relazione all’esito dei provvedimenti... Forse l’onorevole Costa non sa che, già oggi, uno degli elementi delle valutazioni di professionalità è proprio la verifica di un apprezzabile numero di riforme delle richieste o dei provvedimenti. Le valutazioni di professionalità, contrariamente alla vulgata diffusa ad arte, non sono fatte per premiare alcuno. La logica invece è stabilire se esista una patologia nel modo in cui un magistrato esercita la sua funzione, non stabilire se è bravo in base al numero di provvedimenti accolti o non riformati. Peraltro non può mai essere un numero a dare un’autentica valutazione della qualità del magistrato. Per questo dico che chi propone queste misure non conosce il nostro lavoro. Aggiungo, anzi, che spesso capita di verificare come dietro statistiche lusinghiere si occulti un lavoro di bassa qualità. Chi si accontenta di leggere la magistratura attraverso le statistiche fa un favore a quei magistrati che, purtroppo, interpretano questo lavoro come numeri e burocrazia. Questi sarebbero i magistrati perfetti nell’immaginario dell’onorevole Costa, invece per noi sono i peggiori. L’altro emendamento Costa prevede una sanzione disciplinare per chi ha emesso un ordine di carcerazione ‘ al di là dei presupposti di legge, omettendo di trasmettere al giudice, per negligenza grave e inescusabile, gli elementi rilevanti ai fini della decisione’... Questa ipotesi già oggi genera sanzioni disciplinari, nessuno può nascondere prove favorevoli ad un soggetto per cui si chiede una misura cautelare, omettendole al giudice che deve decidere. Per questo le dico che tali proposte appaiono più tese a generare un pregiudizio, fondato su apparenze artificiose al fine di orientare l’opinione pubblica in un periodo di crisi della credibilità della magistratura, piuttosto che soluzioni funzionali a garantire ai cittadini una giustizia più efficiente ed efficace. Sullo sfondo dei singoli emendamenti c’è un clima poco sereno all’interno della magistratura e a farne le spese è anche la dialettica con l’avvocatura... La magistratura ha ben presente che esiste un problema legato alla qualità delle nostre valutazioni di professionalità. Siamo consapevoli che esse troppo spesso sono neutre e non sono in grado di descrivere qualità e limiti del magistrato. E qui è il nocciolo. Se sono neutre subentra l’arbitrio... Ed è per questo che dobbiamo ampliare le fonti di conoscenza. Ed è anche per questo che come Magistratura democratica da tempo diciamo che gli avvocati, che sono tra i protagonisti della giurisdizione, devono partecipare in maniera più attiva di quanto non avvenga oggi ai Consigli giudiziari. Quindi appoggia la proposta del Pd che fa conferire il voto del Coa e non del singolo avvocato? Apprezzo il metodo, ma non l’attribuzione di un voto al magistrato, perché anch’essa corrisponde ad una valutazione generica e burocratica, incapace di cogliere la complessità del nostro lavoro. Già oggi usiamo dei format di valutazione che ci aiutano molto bene a descrivere l’operato del magistrato. Il tema non è sostituirli o integrarli con un voto, ma riempirli di contenuti. È noto che semplificare valutazioni complesse non rende un buon risultato. E non dimentichiamo che la prima valutazione è quella fornita del capo dell’ufficio, che è la fonte principale di conoscenza. L’attribuzione delle pagelle al capo dell’Ufficio accentuerebbe la gerarchizzazione interna che è un veleno culturale che già alligna negli uffici di Procura e che incomincia ad inquinare anche quelli giudicanti. Non è un caso che Palamara, Ferri e vari politici interessati combuttassero per determinare non le sorti di un presidente della Corte di Appello, ma di un procuratore della Repubblica, in modo da garantirsi il controllo della giurisdizione. Ma, a quanto pare, i nostri riformatori preferiscono trascurare questi dati evidenti, rafforzando le cause strutturali della crisi della magistratura, invece di risolverle, in barba agli interessi dei cittadini a cui si vende fumo negli occhi. Riforma della giustizia, più archiviazioni per ridurre i processi e la loro durata di Giuseppe Pignatone La Repubblica, 6 aprile 2022 Nel bilancio sociale della procura di Napoli ci sono tre aspetti esemplificativi per il funzionamento dell’attività dei tribunali: dal rapporto tra gip e pm ai tempi dei dibattimenti. Di recente, la Procura della Repubblica di Napoli ha presentato il proprio bilancio sociale, il documento che rende conto ai cittadini dell’attività svolta, nonché dei criteri e delle scelte organizzative adottate. La dettagliata illustrazione di dati si presta a riflessioni generali e significative sia perché riferite alla procura con il più alto numero di magistrati nel Paese, sia perché essa opera in una realtà socio-economica variegata e con una presenza imponente delle organizzazioni criminali, anche di tipo mafioso. In particolare mi sembrano interessanti tre aspetti: 1) Nel 2021, il gip ha accolto 981 misure cautelari sulle 1.307 richieste dalla Direzione distrettuale antimafia, pari al 75%, rigettando invece il restante 25%. Queste percentuali sono analoghe a quelle registrate alcuni anni fa dall’ufficio gip di Milano, e non solo testimoniano un controllo effettivo sul lavoro svolto dall’ufficio di procura, ma smentiscono anche l’affermazione gratuita - ma ricorrente nelle polemiche politiche e giornalistiche - secondo cui le decisioni del giudice delle indagini preliminari sarebbero di norma appiattite sulle posizioni del pubblico ministero. Peraltro, trattandosi di attività antimafia, è ragionevole ritenere che si tratti di procedimenti particolarmente complessi, seguiti perciò dai pm con particolare attenzione, specie con riferimento alle richieste cautelari, che infatti risultano formulate solo nel 40% dei procedimenti trattati. 2) Nello stesso anno, sono stati intercettati 9.773 “bersagli”, di cui 7.405 in procedimenti della Dda e 121 in materia di terrorismo. Il termine “bersagli” non indica singoli soggetti, bensì gli apparati (linee telefoniche fisse, cellulari, tablet e computer) e gli ambienti sottoposti a intercettazione. Dato che, specie nei contesti criminali, ogni persona dispone di diversi apparati, il numero dei soggetti intercettati è decisamente inferiore a quello dei “bersagli”. Dunque, cifre alla mano (come peraltro hanno riconosciuto anche alcuni avvocati), le intercettazioni coinvolgono un numero contenuto di persone, se confrontato con i tre milioni di abitanti del bacino del Distretto di Corte d’Appello, area storicamente pervasa dalle organizzazioni camorriste. A fronte di questi dati concreti, si rivelano perciò infondati gli allarmi e le critiche sull’uso “ipertrofico” e “sfrenato” delle intercettazioni, che restano strumento irrinunciabile nelle indagini di mafia, specie dopo la drastica diminuzione del numero (e del livello) dei collaboratori di giustizia, il cui utilizzo in sede processuale continua a porre problemi non trascurabili. Anche i 1.367 “bersagli” intercettati nei procedimenti ordinari sono un numero contenuto, in relazione al numero di utenti del tribunale di Napoli (1,3 milioni di residenti) e all’elevato indice di criminalità locale. Un’altra conferma della pretestuosità delle polemiche sul punto e di come sia decisamente fuori luogo l’affermazione secondo cui “i processi si fanno solo con le intercettazioni”, dato che il controllo da remoto su qualche centinaio di persone avviene negli oltre 39mila procedimenti con indagati noti, cui si aggiungono i quasi 60mila fascicoli contro ignoti, indagini, anche queste, che non escludono affatto il ricorso alle intercettazioni. 3) Sui tempi di definizione dei procedimenti è più difficile formulare un giudizio complessivo, dato che la durata può variare in misura notevole, in relazione alla complessità della materia trattata e alle caratteristiche proprie di ogni caso. Tuttavia, il bilancio sociale fornisce due dati che meritano attenzione. Il primo: come ormai quasi tutti gli uffici medio-grandi, anche la procura di Napoli ha adottato, d’intesa con il tribunale e l’Ordine degli avvocati, criteri di priorità nella trattazione dei processi, ispirati a parametri di ragionevolezza e alla conoscenza puntuale delle realtà locali. Il secondo dato è che ogni anno la procura richiede l’archiviazione del 60% dei procedimenti contro indagati noti. Un’azione di filtro consistente, dopo l’iscrizione a registro delle notizie di reato che, è bene ricordarlo, costituisce un obbligo di legge sanzionato disciplinarmente. Questa ‘scrematura’ non è tuttavia sufficiente, sia in relazione alla percentuale elevata di assoluzione dei rinviati a giudizio, specie davanti al giudice monocratico (40%), sia in relazione alla capacità di smaltimento del Tribunale (una delle cause dei tempi lunghi dei processi). È prevedibile, perciò, e auspicabile, che le richieste di archiviazione aumentino grazie alla riforma già approvata con legge delega dal Parlamento, che prevede il rinvio a giudizio solo quando gli elementi acquisiti consentano una ragionevole previsione di condanna. Si tratta di una delle norme-chiave per ridurre il numero, e quindi la durata, dei processi da celebrare a dibattimento. La sua reale incidenza è tuttavia affidata all’interpretazione che ne daranno i magistrati e solo le statistiche dei prossimi anni diranno quali risultati avrà consentito di raggiungere. Derby per l’Antimafia. Al Csm parte la sfida Melillo-Gratteri per il dopo de Raho di Simona Musco Il Dubbio, 6 aprile 2022 Ieri le audizioni dei candidati per la poltrona di via Giulia. Tra oggi e domani la nomina del procuratore di Milano al Csm: Viola in vantaggio su Amato e Romanelli. Sarà un derby tra Nicola Gratteri e Giovanni Melillo la partita per la Direzione nazionale antimafia, aperta ufficialmente ieri con le audizioni in V Commissione dei candidati alla successione di Federico Cafiero de Raho, in pensione da febbraio. A contendersi il posto dell’ex procuratore, oltre ai due vertici delle procure di Catanzaro e Napoli, ci sono anche i colleghi di Catania, Carmelo Zuccaro, di Messina, Maurizio De Lucia e di Lecce, Leonardo Leone De Castris. In corsa anche il procuratore generale di Firenze, Marcello Viola, che tra oggi e domani, però, potrebbe essere nominato procuratore di Milano. Unica candidatura interna alla Dna quella di Giovanni Russo, procuratore aggiunto in via Giulia e reggente dopo l’addio di de Raho, considerato in terza posizione rispetto a Gratteri e Melillo. Il procuratore di Napoli sarebbe, attualmente, il favorito. Ma il suo è un vantaggio “di misura”, stando a quanto trapela da Palazzo dei Marescialli, che si ritrova tra le mani, dunque, due curriculum di peso. La candidatura di Gratteri - Gratteri, 64 anni, in precedenza aggiunto a Reggio Calabria (dove ha trascorso 23 anni) proprio a fianco di de Raho, all’epoca alla guida della procura dello Stretto, si trova a Catanzaro dal 21 aprile 2016, quando il plenum si espresse all’unanimità nel giro di pochi minuti sulla proposta licenziata dalla V Commissione, che registrò la sola astensione del consigliere Lucio Aschettino. Una candidatura da outsider, la sua, rispetto al gioco di correnti che negli anni ha governato le nomine degli uffici più importanti del Paese, tanto da essere sostenitore dell’ipotesi sorteggio per l’elezione del Csm, avversata da buona parte delle toghe e caldeggiata da chi, come lui, gioca da battitore libero, come i colleghi Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita. “Si tratta di una nomina che più di altre, come molte altre, ma in particolare, esalta il merito delle competenze acquisite sul campo da un magistrato di particolare valore aveva evidenziato all’epoca il relatore Carlo Maria Galoppi, togato di Magistratura indipendente - che si è distinto non solo nella lotta alla criminalità organizzata, pagando di persona anche un prezzo alto in relazione ai rischi ai quali è esposta la sua sicurezza personale, ma che ha dato prova di particolare competenza organizzativa, sia dal punto di vista investigativo sia dal punto di vista della elaborazione e adozione di moduli di organizzazione dell’ufficio che sono stati sperimentati, con risultati documentati, presso la Procura della Repubblica di Reggio Calabria. Con questa nomina vince veramente la meritocrazia”. Dopo il suo avvento a Catanzaro diverse toghe del suo distretto sono finite nei guai: clamorosi i casi del procuratore generale Otello Lupacchini, trasferito dal Csm a Torino dopo le critiche espresse nei confronti del procuratore e delle sue inchieste definite “evanescenti”, e dell’aggiunto Vincenzo Luberto, segnalato alla dda di Salerno proprio da Gratteri per via dei presunti rapporti di natura illecita con il deputato pd Ferdinando Aiello. Entrambi, finiti a processo con l’accusa, a vario titolo, di corruzione, falso, omissioni d’atti d’ufficio, favoreggiamento e rivelazione del segreto d’ufficio, sono stati assolti poche settimane fa perché il fatto non sussiste, ma nel frattempo Luberto è stato trasferito a Potenza con le funzioni di giudice civile. La candidatura di Melillo - Melillo, 63 anni, guida invece la procura di Napoli - all’epoca considerata “la più difficile” -, dal 27 luglio 2017, quando, dopo una discussione durata otto ore, il plenum lo preferì con 14 voti a nove proprio a de Raho, “consolato” a novembre dello stesso anno con la nomina al vertice della Dna. Ex capo di gabinetto dell’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando, anche lui estraneo al gioco delle correnti, fu sostenuto soprattutto dalle toghe progressiste del Csm. La consigliera Paola Balducci, relatrice della proposta a suo favore, valorizzò “la complessiva esperienza maturata nell’ambito della conoscenza dell’organizzazione degli uffici giudiziari”, evidenziando la competenza acquisita “sul campo presso la procura di Napoli, dapprima come sostituto e in seguito come procuratore aggiunto” e “presso la Procura nazionale antimafia: invero durante tutto l’arco dell’esperienza giudiziaria è emersa la sua eccellente attitudine organizzativa”, anche in qualità di “coordinatore della procura partenopea nel settore delle misure di prevenzione”, caratteristiche che prevalsero anche sui sette anni di anzianità in più vantati da de Raho. La discussione fu condita però da non poche polemiche, proprio a causa dell’esperienza di Melillo a via Arenula, considerata temporalmente troppo vicina alla nomina, alla quale si aggiunse il ruolo di commissario del Pd ricoperto da Orlando proprio a Napoli. Il togato di Area Piergiorgio Morosini evidenziò “i profili di eventuale incompatibilità”, data “la sostanziale continuità tra un incarico fuori ruolo molto delicato, come quello di capo di gabinetto del ministero della Giustizia, e un incarico importante e delicato nella giurisdizione, come quello della titolarità della procura della Repubblica di Napoli”. Diversa la posizione di un altro magistrato di Area, Antonello Ardituro, che si espresse a suo favore, sottolineando la difficoltà di scegliere tra “uno straordinario magistrato antimafia”, quale de Raho, e “uno straordinario magistrato organizzatore e poliedrico come Melillo, che deve riportare quell’ufficio, oggi in affanno, all’altezza degli altri, attraverso un recupero di leadership”. Dilemma che, ora, potrebbe abbattersi nuovamente sul Csm. Il corpo di Stefano Cucchi, la forza della verità di Luigi Manconi La Repubblica, 6 aprile 2022 Nel pomeriggio del 27 ottobre del 2009, cinque giorni dopo il decesso, i familiari ci consegnano le foto del suo cadavere sul tavolo dell’obitorio. Dopo altri due giorni, la conferenza stampa organizzata da “A buon diritto onlus”: da lì è iniziato il percorso che ha portato alla sentenza di ieri, la condanna a 12 anni dei carabinieri Di Bernardo e D’Alessandro. Ieri la Corte di Cassazione ha condannato per omicidio preterintenzionale i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. Dovranno scontare dodici anni di carcere, un anno in meno rispetto alla sentenza d’appello. La Cassazione, inoltre, ha stabilito un nuovo processo di appello nei confronti di Roberto Mandolini e Francesco Tedesco, in precedenza condannati, rispettivamente, a quattro anni e due anni e mezzo di carcere per aver mentito su ciò che è realmente accaduto la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 nella caserma Casilina. Giovedì prossimo, poi, è prevista la sentenza di primo grado a carico di otto carabinieri (tra i quali il generale Alessandro Casarsa), accusati di aver “depistato” le indagini della magistratura. Siamo, dunque, agli atti finali di una vicenda che, con la sentenza di ieri, ha trovato la sua definitiva soluzione. Dopo dodici anni e mezzo: e questo è un punto sul quale è necessario riflettere. Allo stesso tempo è utile tornare a uno dei momenti di svolta - il primo e principale - di questa lunga storia. Al centro si trovano alcune fotografie. Sono quelle di un cadavere sul tavolo dell’obitorio. Riprendo qui una ricostruzione dei fatti, risalente ai primi mesi del 2011. Quel corpo, incredibilmente e disperatamente magro, prosciugato. La maschera di ematomi sul viso, dalle palpebre fino agli zigomi. Un occhio aperto, quasi fuori dall’orbita, uno completamente chiuso. Le strisce sulla schiena, le lesioni. Il livido nero sul coccige. Segni di bruciature sulla testa e sulle mani. Nel pomeriggio del 27 ottobre del 2009, cinque giorni dopo il decesso, i familiari di Stefano Cucchi consegnano quelle foto a Valentina Calderone, Valentina Brinis e a me. Si trattava di immagini davvero crudeli, di intensa vividezza e di impatto brutale. Quelle foto non solo provavano inequivocabilmente che violenze c’erano state, ma ne tracciavano in qualche modo la dinamica, ne scandivano la successione e disegnavano una sorta di anatomia degli abusi patiti. Eravamo turbati e perplessi. Le immagini avrebbero potuto mettere in moto un meccanismo emotivo destinato a suscitare più pietà che consapevolezza e più compassione che ragionamento. Non solo: ricorrere a una dinamica emotiva quando la questione affonda in dimensioni giuridiche e politiche avrebbe rischiato di spostare l’attenzione su una dimensione impropria e avrebbe potuto prestarsi a speculazioni di segno opposto. Avvertivamo, inoltre, un’ulteriore preoccupazione: si penetrava, con tutta la prevedibile forza dell’interesse mediatico, nella sfera più intima della personalità, laddove il corpo inerme è il corpo senza vita. E là, quel corpo, acquisisce una dimensione che non è enfatico definire sacra perché rimanda all’origine stessa della sua identità, che è un’identità caduca. Il corpo morto è così sacro, sempre e comunque, che qualunque offesa subisca è definibile, presso tutte le culture, come appunto sacrilegio. Sarebbe stato meglio, di conseguenza, preservare quelle immagini dall’offesa di sguardi forse morbosi? Parlammo con Ilaria, la sorella di Stefano, la mattina del 28 ottobre, dicendole che ritenevamo sbagliato anche solo comunicare la nostra opinione e che avremmo aspettato la loro decisione e a quella ci saremmo attenuti. Passarono circa tre ore e mezzo e Ilaria, nonostante non avesse ancora preso visione di quelle immagini, aveva deciso, insieme alla famiglia, per la loro diffusione il giorno successivo. Quindi, nel corso della conferenza stampa di giovedì 29 ottobre, organizzata da “A Buon Diritto Onlus”, distribuimmo una cartella contenente alcune fotografie, autorizzandone la pubblicazione. Si registrò subito un notevole mutamento nell’opinione pubblica e, così, iniziò il percorso che ha portato, infine, alla sentenza di ieri. Cucchi, i carabinieri in cella: “Non siamo assassini” di Stefano Vladovich Il Giornale, 6 aprile 2022 I due militari accusati dell’omicidio si sono consegnati. Nessuna parola alla famiglia. “Non sono un assassino”. Prima notte di galera, nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, per i due carabinieri condannati in via definitiva a una pena di 12 anni per aver ucciso Stefano Cucchi. Dopo la sentenza della Cassazione, Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo si sono presentati in caserma e trasferiti nella struttura carceraria campana. “Cucchi non è morto per colpa mia”, ha detto D’Alessandro. “Sono amareggiato per tutto questo - continua - ma rispetto la decisione dei giudici perché sono un carabiniere nell’animo”. Non una parola alla famiglia Cucchi. Nei vari gradi di giudizio i carabinieri si sono sempre ritenuti non colpevoli della morte del geometra romano. Il motivo lo spiega uno dei loro legali: “La perizia certifica - dice l’avvocato De Benedictis - che Cucchi è morto come conseguenza dell’ostruzione di un catetere. Non è giusto parlare di omicidio preterintenzionale”. Alle parole di D’Alessandro risponde la sorella della vittima: “D’Alessandro - commenta Ilaria Cucchi - deve riflettere ancora per comprendere cosa ha fatto se dice di non sentirsi colpevole. Ricordo quando disse alla moglie come si era divertito assieme al collega Alessio Di Bernardo a pestare quel tossico di merda. Quello di Stefano è stato un omicidio. Sono ancora frastornata ma serena per essere giunta alla fine di questo percorso per quanto riguarda gli autori del pestaggio. Sul maresciallo Mandolini, per il quale è stato disposto un nuovo processo d’Appello, non finisce qui. Ricordo che al primo processo, quello agli agenti di custodia, raccontò di quanto Stefano era stato simpatico quella notte sebbene fosse a conoscenza di quel terribile pestaggio”. Sette processi, uno alle guardie carcerarie e uno ai medici dell’ospedale Pertini nonostante i carabinieri sapevano cosa era accaduto la notte in cui Cucchi viene fermato con la coca. Gonfiato di botte anche quando, ammanettato, è a terra. È la “punizione” per il suo rifiuto alla fotosegnalazione. Alla direttissima i militari non spiegano al giudice che Cucchi non è un senza fissa dimora e, nelle sue condizioni, sarebbe potuto andare agli arresti domiciliari. Lesioni alla spina dorsale, versamento all’addome, costole fratturate. Poi la morte. Domani la sentenza di primo grado per gli 8 ufficiali alla sbarra per depistaggio. Il pm Giovanni Musarò ha chiesto 7 anni per l’ex comandante del Gruppo Roma, generale Alessandro Casarza, cinque anni e mezzo al tenente colonnello Francesco Cavallo, ex comandante del Reparto operativo, 5 anni al maggiore Luciano Soligo, ex comandante della compagnia Montesacro e per il carabiniere Luca De Cianni, 4 anni per Tiziano Testarmata, ex comandante del nucleo investigativo, tre anni e mezzo per Francesco Di Sano, in servizio a Tor Sapienza, tre anni per Lorenzo Sabatino, 18 mesi per Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione Tor Sapienza. La lotta ai crimini gravi non giustifica la conservazione generalizzata dei dati di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 6 aprile 2022 Il principio di effettività impedisce la tenuta indifferenziata e preventiva delle informazioni ricavabili dal traffico telefonico. La Grande sezione della Corte dell’Unione europea ha affermato l’illegittimità di una legge nazionale che, ai fini della lotta contro i reati gravi, consenta la conservazione generalizzata e indifferenziata - e soprattutto “preventiva” - dei dati sul traffico e sulla localizzazione nelle comunicazioni elettroniche. La decisione sulla causa C-140/20 risolve il rinvio pregiudiziale operato dal giudice irlandese. Il caso - La vicenda riguardava il ricorso di un imputato per omicidio che riteneva violati i propri diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta Ue in ragione di indagini fondate su dati ricavabili dalle comunicazioni elettroniche illegittimamente conservati in maniera indifferenziata e generalizzata, al di là di fattispecie che compromettano la sicurezza nazionale. Contro la condanna in primo grado all’ergastolo per omicidio presentava appello, contestando l’erronea ammissione di fonti di prova fondate sui dati relativi al traffico e all’ubicazione derivati da chiamate telefoniche. Inoltre, in parallelo, il condannato ha intentato un’azione civile presso l’Alta Corte d’Irlanda, sostenendo l’invalidità della legge irlandese del 2011, che disciplina la conservazione di tali dati e l’accesso agli stessi, per violazione dei diritti conferiti ai singoli dalle norme Ue. L’Alta Corte ha accolto l’argomento e lo Stato irlandese ha impugnato tale declaratoria di illegittimità dinanzi alla Corte suprema d’Irlanda, giudice del rinvio alla Cgue. Il rinvio pregiudiziale - Il quesito chiedeva chiarimenti sul giusto equilibrio tra i requisiti di conservazione di dati ricavabili dalle comunicazioni elettroniche e le garanzie necessarie in caso di accesso a essi, nelle ipotesi di lotta ai crimini gravi. E, infine, se fosse possibile delimitare l’efficacia temporale della declaratoria di illegittimità di una normativa in materia. Il quadro normativo - Per la Cgue la direttiva del 2006 relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche non si limita a disciplinare le garanzie dirette a prevenire gli abusi in caso di accesso, ma stabilisce di fatto un divieto della memorizzazione dei dati relativi al traffico e all’ubicazione. Agli Stati membri è consentito di derogarvi, ma in base al principio di proporzionalità, che impone il rispetto non solo dei requisiti di idoneità e di necessità, ma anche la commisurazione all’obiettivo perseguito di lotta ai crimini più gravi. Tale obiettivo non è di per sé sufficiente a giustificare come necessaria una misura di conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e all’ubicazione. Infine ricorda la Cgue che le norme sull’accesso ai dati delle comunicazioni elettroniche non possono avere l’effetto di giustificare ingerenze tanto gravi come quelle derivanti dalla previsione di una conservazione “indiscriminata”. In quanto si verificherebbe la compromissione di diritti fondamentali della quasi totalità della popolazione. E senza che i dati degli interessati siano idonei a rivelare una connessione, almeno indiretta, con l’obiettivo perseguito. La sicurezza nazionale - Nel precisare l’obiettivo che legittima l’accesso a tali dati generalizzati la Corte precisa che la lotta ai crimini gravi non può essere equiparata a una minaccia per la sicurezza nazionale reale e attuale o prevedibile, in grado di giustificare una misura di conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e all’ubicazione degli uteti delle comunicazioni elettroniche. Tale “minaccia”, che giustifica una tale misura, deve distinguersi per i suoi caratteri di gravità e specificità delle circostanze di un rischio generale e permanente alla sicurezza pubblica. Le misure adottabili - Le autorità nazionali competenti possono adottare una misura di conservazione mirata basata su un criterio geografico, ad esempio il tasso medio di criminalità in una data zona geografica, senza necessariamente disporre di indizi concreti relativi alla preparazione o alla commissione, nelle zone interessate, di atti di criminalità grave. Le autorità nazionali competenti possono disporre una misura di conservazione “rapida” fin dalla prima fase dell’indagine relativa a una minaccia grave per la sicurezza pubblica o a un eventuale atto di criminalità grave, ossia dal momento in cui tali autorità, secondo il diritto nazionale, possono avviare una siffatta indagine. E solo in tali ipotesi una tale misura può essere estesa al traffico delle comunicazioni o all’ubicazione di persone diverse da quelle sospettate di avere progettato o commesso un reato grave o un attentato alla sicurezza nazionale. Ma solo se tali dati possano realmente contribuire, in base a elementi oggettivi e non discriminatori, all’accertamento di un siffatto reato o attentato alla sicurezza nazionale, come quelli relativi alla vittima o al suo ambiente sociale o professionale. Le diverse misure possono, a scelta del legislatore nazionale e nel rispetto dei limiti dello stretto necessario, essere applicate congiuntamente. Misure non giustificate in via generale e preventiva dalla lotta ai crimini gravi in cui non rientri la tutela della sicurezza pubblica. Infine, spiega la Corte che gli accessi della polizia a tali dati vanno autorizzati da figura autonoma e indipendente quale quella del giudice, cui è affidato un controllo preventivo a seguito della richiesta motivata presentata dagli inquirenti. La Corte precisa, in conclusione, che l’ammissibilità degli elementi di prova ottenuti da una generalizzata e preventiva conservazione rientra nel principio di autonomia procedurale degli Stati membri, ma sempre nel rispetto dei principi di equivalenza e di effettività. Stalking occupazionale se il datore di lavoro crea un danno all’autodeterminazione del lavoratore di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 6 aprile 2022 Il mobbing integra il reato di atti persecutori quando determina come conseguenze ansia o timore o cambiamento dello stile di vita. Il mobbing integra il reato di stalking quando determina una delle conseguenze previste dall’articolo 612 bis del Codice penale. E il ruolo di sovraordinazione di chi agisce contro i lavoratori con reiterate molestie, minacce e pretestuose incolpazioni disciplinari comporta l’aggravamento del reato per essere stato commesso con abuso di autorità. Lo afferma la Corte di cassazione penale con la sentenza n. 12827/2022. Il ricorrente era stato condannato per il reato di atti persecutori nei confronti di alcuni dipendenti della società municipalizzata nella quale rivestiva il ruolo di presidente. I lavoratori venivano apostrofati in pubblico con affermazioni offensive dall’imputato che arrivava addirittura a sfidarli fisicamente. Inoltre, le vessazioni morali venivano condite da plurime contestazioni disciplinari pretestuose che culminavano in un caso anche in un licenziamento ritorsivo. Il ricorrente pretendeva di difendersi dall’accusa di stalking affermando che ciascuna delle condotte contestate erano state condivise dal consiglio di amministrazione della società di servizi, che le riteneva giustificate per raggiungere una maggior efficienza aziendale e le considerava legittimamente agite per contrastare comportamenti dei lavoratori inadempienti agli ordini di servizio impartiti dal ricorrente. Ma sicuramente l’obiettivo di efficientamento dell’attività aziendale non giustifica minimamente l’uso di violenze morali o minacce. E la circostanza della condivisione con l’organo collegiale societario non attenua in alcun modo la responsabilità dell’agente, ma è semmai fondamento per la chiamata in correità dei consiglieri. Nel caso i giudici avevano accertato un perdurante stato di ansia dei lavoratori indotto dal ricorrente attraverso un uso illecito e persecutorio del proprio potere disciplinare. Ma il ricorrente contestava la sussistenza del dolo dello stalking, asserendo che - a differenza del mobbing che punta all’isolamento della vittima nell’ambiente di lavoro - esso si fonda sulla volontà dell’agente di instaurare un “rapporto” con la vittima. La Cassazione però respinge l’argomento difensivo asserendo che il mobbing attuato dal datore di lavoro integra il reato di atti persecutori quando genera nella vittima una delle conseguenze previste dall’articolo 612 bis del Codice penale. Ed essendo sufficiente il solo dolo generico basta che l’autore delle reiterate molestie e minacce sia consapevole delle possibili conseguenze a carico delle vittime della sua “persecuzione”. Dalla sentenza emerge, ad esempio, che una delle finalità illecite delle ripetute contestazioni disciplinari era quello di contrastare in azienda la presenza di lavoratori appartenenti a una data sigla sindacale. Campania. Il Garante: “Contro le falle del sistema più giustizia riparativa e mediazione” di Viviana Lanza Il Riformista A Napoli e provincia su circa 5.400 persone in area penale esterna si contano 24 assistenti sociali. Gli educatori sono ancora meno. Secondo i dati forniti dal garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello, solo l’Uepe di Napoli, cioè l’ufficio che si occupa dell’esecuzione penale esterna e quindi di favorire il reinserimento sociale delle persone che hanno subito una condanna definitiva, conta 10mila pratiche inevase. “Ma di cosa parliamo….” esclama a braccia aperte il garante regionale snocciolando cifre che descrivono le criticità del sistema. Se in tutta Italia si contano 110mila soggetti in area penale esterna, in Campania si è arrivati a 7.400. Di qui l’importanza della giustizia ripartiva e della mediazione penale come strumento non più da affiancare ma proprio da integrare a quelli tradizionali. Il convegno “Mediazione penale e Mediazione minorile”, promosso dal garante Ciambriello, è stata l’occasione per affrontare il tema della giustizia riparativa da diverse angolazioni, lanciando uno sguardo al futuro della mediazione penale nel processo giudiziario. “La giustizia tradizionale e quella ripartiva devono mantenere la loro autonomia - spiega Ciambriello - ma non possono rinunciare alla ricerca e all’individuazione di momenti di connessione e di comunicazione, a cominciare dalla condivisione delle regole di partenza”. C’è da tracciare un nuovo percorso. “Noi - aggiunge il garante - non stiamo mettendo in campo soluzioni da consegnare ai comitati di esperti della ministra della Giustizia, i nostri sono viottoli di campagna. La scorsa settimana noi garanti regionali e territoriali abbiamo incontrato la politica assente e la ministra Cartabia, la quale ci ha detto che siamo antenne sul territorio e che dobbiamo far arrivare a lei momenti di sperimentazione. Ecco - afferma Ciambriello - noi qui stiamo mettendo in campo un modello di giustizia diverso ma non incomunicabile con i metodi che già ci sono”. Quello tradizionale è un modello che guarda al passato, ricostruisce fatti per raccogliere prove che i giudici utilizzeranno per emettere sentenze. “Ma vale ricordare che nella nostra Italia democratica queste “prove” hanno portato in carcere ben 27mila innocenti”, sottolinea Ciambriello. Ed ecco, quindi, l’importanza del mediatore in un modello di giustizia ripartiva. “Il mediatore - dice il garante - è un educatore che mette in moto la storia dei protagonisti e tira il meglio dalle persone. È come un ago che serve a ricucire quello che si è rotto. È camminando che si apre il cammino”. E questo cammino verso la giustizia ripartiva ha animato anche l’avvio di due corsi di formazione per mediatori penali e mediatori penali minorili, patrocinati dal garante dei detenuti della Campania ed erogati dall’Associazione italiana mediatori penali e dall’Associazione italiana risoluzione alternativa conflitti. “Oggi - aggiunge Ciambriello - non si può non tenere conto di un modello di giustizia diverso da quello punitivo. La giustizia riparativa potrebbe essere un buon rimedio ad inadeguatezze e limiti della giustizia tradizionale. La mediazione penale, e accanto ad essa altre forme di giustizia riparativa, può costituire uno strumento non per negare il conflitto, se pur impegnativo e doloroso, ma per affrontarlo in prima persona con coloro che sono coinvolti”. La mediazione coinvolge tutti i protagonisti di una vicenda: il responsabile del reato, la vittima e l’intera collettività. Se immaginiamo il responsabile del reato su una strada e la vittima su una strada opposta, la mediazione può essere descritta come una terza strada, il percorso alternativo da trovare per riparare nel senso di responsabilizzare l’autore del reato, come sottolineato anche da Giuseppe Centomani, dirigente del Centro di giustizia minorile della Campania, ma anche per dare una dignità alla vittima, mettendola al centro del percorso di responsabilizzazione e sollevandola dal ruolo marginale che spesso ha nei processi e nei percorsi della giustizia tradizionale. Ravenna. Detenuto si toglie la vita in cella di Mario Tosati Il Resto del Carlino, 6 aprile 2022 È accaduto ieri, poche ore dopo la notizia sulla bocciatura da parte del Riesame della richiesta di domiciliari. La notizia sulla bocciatura da parte del tribunale del Riesame della sua richiesta di domiciliari a casa della madre in Sicilia, gli era giunta giusto ieri mattina. L’uomo - un 58enne autotrasportatore - poco dopo si è tolto la vita all’interno del carcere cittadino dove si trovava dal 13 marzo scorso per via di fatti commessi nei confronti della moglie dalla quale si stava separando. Quel giorno, una domenica, era andato a cercare la donna con una pistola calibro 7.65 in tasca con caricatore inserito e otto proiettili dentro. I carabinieri che lo avevano arrestato, gli avevano trovato anche una corda con cappio riposta nell’armadio in camera. Il gip, che aveva poi disposto la custodia cautelare in carcere, aveva rilevato una “apparente risoluzione omicidiaria e suicidiaria” del 58enne anche sulla base degli appunti vergati sui taccuini trovati a casa sua nei quali l’uomo, che era incensurato, palesava il suo desiderio di regolare i conti con la ex e poi di farla finita. “Una bruttissima notizia, siamo sconvolti” ha detto il suo legale, l’avvocato Cristofero Antonio Alessi del Foro di Catania. Secondo quanto spiegato dal legale, la comunicazione dell’esito del riesame “mi è giunta alle 10.08”. Contestualmente la decisione dev’essere probabilmente stata comunicata anche al 58enne. Di fatto “alle 14.02 il direttore del carcere mi ha chiamato per avvisarmi”. Un lasso di tempo così breve insomma da lasciare supporre che le due cose - esito riesame e gesto estremo - possano essere collegate tra loro. L’ultima volta si erano sentiti venerdì scorso proprio in occasione dell’udienza: “Mi sono collegato a distanza e niente lasciava presagire un epilogo così tragico: un colloquio normale, abbiamo parlato, scherzato, proprio niente faceva pensare a ciò che è accaduto”. In una nota, il segretario nazionale della Uilpa polizia penitenziaria Domenico Maldrizzi, ha spiegato che l’uomo “si è impiccato legandosi alle grate” e che “a rinvenire il corpo esanime, è stato il suo compagno di cella” il quale “non si è accorto del gesto estremo: nonostante abbia immediatamente dato l’allarme, a nulla sono valsi i soccorsi immediati”. Maldrizzi ha anche aggiunto che “quella cui stiamo assistendo è una carneficina che, in un Paese che voglia dirsi civile, va immediatamente fermata. Se si continuasse con questa media, in un anno morirebbero ben oltre cento detenuti”. Per questo motivo “servono interventi urgentissimi per migliorare le strutture e le infrastrutture ma soprattutto per potenziare gli organici della polizia penitenziaria, mancanti di 18 mila unità, e per fornire gli equipaggiamenti”. Alessandria. Appello di un detenuto malato di SLA: “Fatemi tornare a casa per curarmi” di Daniela Peira lanuovaprovincia.it, 6 aprile 2022 Niente libertà nonostante il parere di specialisti e dello stesso medico della struttura di Alessandria in cui è recluso. I primi segni della malattia sono emersi nel dicembre del 2020 nel pieno di una ondata di pandemia da Covid ma la diagnosi, terribile, è arrivata solo a dicembre del 2021: SLA, ovvero sclerosi laterale amiotrofica di tipo bulbare. Lui, un paziente di 45 anni, Massimiliano Cinieri, in pochi mesi ha perso molte delle sue funzioni, così come purtroppo accade a chi è colpito da questa malattia che non lascia scampo se si presenta in forma grave. E’ molto limitato nei movimenti degli arti, cammina a fatica e solo con una stampella. E’ stato colpito soprattutto al tronco, quindi ha una ridottissima funzionalità delle braccia, le mani sono già quasi del tutto atrofizzate (non riesce neppure a legarsi le scarpe), non riesce a gestire la deglutizione della saliva, non può più assumere liquidi, anche l’acqua gli viene somministrata in forma di gel. Non si capisce quasi più a parlare a causa della salivazione eccessiva; sbava pochi secondi dopo aver iniziato un discorso e deve bloccarsi. E tutto questo in un carcere. E tutto questo, inoltre, aggiunto ad altre patologie particolarmente importanti come il diabete e una cardiopatia post-infarto. Perchè Max Cinieri, come è più conosciuto, è detenuto al carcere alessandrino Don Soria per una misura di custodia cautelare. La sua famiglia, in particolare la moglie e la figlia Valeria, attraverso l’avvocato Furlanetto che segue le vicende giudiziarie dell’uomo, hanno chiesto più volte la sua scarcerazione, o almeno la trasformazione della detenzione in arresti domiciliari. “È evidente che le sue condizioni fisiche, dovute alla malattia, siano incompatibili con la detenzione - dice la figlia Valeria - e non siamo noi a dirlo, ma i medici”. Cinieri, infatti, è stato sottoposto ad una serie di visite e gli specialisti hanno dichiarato il suo grave stato di salute. Lo ha fatto il primario di Neurologia dell’ospedale di Alessandria, lo ha fatto lo specialista del Cresla di Torino (Centro di riferimento europeo per i malati di SLA), lo ha fatto il neurologo incaricato dalla famiglia, lo ha fatto lo stesso medico del carcere di Alessandria presso il quale Cinieri è detenuto. Tutti hanno riferito di condizioni molto gravi. Unica voce fuori dal coro quella del perito incaricato dal gip di Asti per deciderne la scarcerazione che, pur riconoscendo la malattia, la ritiene compatibile con la detenzione e dunque Cinieri per ora rimane in carcere. “Gli hanno dovuto affiancare un compagno di cella che gli fa da accompagnatore perché non riesce neppure a vestirsi da solo - prosegue la figlia - Ma è giustificabile tutta questa disumanità? Se fosse a casa ce ne occuperemmo noi, potremmo nutrirlo e curarlo a dovere, anche con cure sperimentali e la fisioterapia necessaria per consentirgli di mantenere un po’ più a lungo le funzionalità. Cose che in carcere non vengono fatte”. E lo dice anche il medico del carcere, che in una sua relazione dichiara espressamente che “il carcere non è la collocazione idonea per un detenuto con le caratteristiche cliniche di Cinieri”. Lo scrive ritenendo il detenuto nella condizione prevista da un articolo del codice penale che prevede il rinvio obbligatorio della pena in caso di condizioni di “grave infermità fisica”. Inoltre la gestione carceraria del detenuto così malato metterebbe in grossa difficoltà l’intera struttura e i servizi degli agenti penitenziari deputati al trasporto dei detenuti per le sue costanti ed imprevedibili visite da effettuare presso gli ospedali. Senza contare le numerose barriere architettoniche del carcere di vecchia concezione che peggiorano le difficoltà quotidiane di deambulazione dell’uomo. La famiglia ora spera nell’ennesimo ricorso al tribunale della Libertà. Alessandria. Questo è legno rianimato dai detenuti di Eugenio Fatigante Avvenire, 6 aprile 2022 Possono diventare delle “ali della libertà”, a modo loro, per i detenuti dell’istituto di pena di Alessandria. Sono quelle dei piccoli volatili che ora avranno una nuova casa grazie al loro lavoro e al progetto voluto da un’azienda vitivinicola di primo piano, la Ricci Curbastro, leader in Franciacorta. Un progetto basato su una sorta di “ciclo virtuoso” del legno. Che, da albero, dà vita alle classiche barriques, i barili dove matura il vino. Ora, poi, le doghe dei barili si tramutano in nidi artificiali costruiti appunto dai reclusi. Viaggia all’insegna del recupero di persone e materiali il percorso “Le tre vite dell’albero”, primo capitolo del progetto “Il Nido della Sostenibilità” che il patron Ricci Curbastro svilupperà nel corso dei prossimi anni assieme ai figli Gualberto e Filippo, che hanno voluto come partner la cooperativa sociale “Idee in fuga” attiva nella prigione alessandrina. Ai detenuti del carcere piemontese è stato infatti affidato il compito di trasformare le doghe in cassette per nidi artificiali, destinati ai vigneti aziendali per ospitare cinciallegre, codirossi e altri insettivori utili all’equilibrio naturale e alla protezione delle vigne stesse, che da 25 anni non vengono più trattate con pesticidi. “Tutto ciò che utilizziamo in cantina segue una logica di naturale recupero”, spiega Riccardo Ricci Curbastro, titolare dell’azienda (certificata sostenibile con lo standard Equalitas dal 2017), “come il sughero dei tappi usato per produrre pannelli fonoassorbenti e coibentanti o, su alcuni vini fermi, i tappi in polimero prodotto da canna da zucchero, ad impatto produttivo neutro e interamente riciclabili”. Il legno di barili e barriques, che in questo caso proviene da foreste demaniali francesi gestite in modo sostenibile, non è sempre facile da riciclare. “Offriamo allora a questo legno di rovere una terza vita - evidenzia l’imprenditore - dopo la crescita in foresta e l’uso per svariati anni come contenitore per la maturazione”. Al concetto di sostenibilità ambientale ed economica, si è aggiunto così il terzo pilastro: quella etica, grazie appunto alla lavorazione assegnata al reparto di falegnameria del carcere. Catanzaro. Concluso il progetto “Restauro legno” per i detenuti dell’Istituto Minorile catanzaroinforma.it, 6 aprile 2022 Realizzato, su impulso del direttore dell’istituto, Pellegrino del Presidente dell’Associazione Un raggio di sole Piero Romeo e con la supervisione dell’Educatrice Chiara Crociani coadiuvata dal personale della Polizia Penitenziaria. Gli anni 2020 e 2021, sono stati gli anni che sicuramente non dimenticheremo mai per via della pandemia. Nonostante ciò, l’Associazione di Volontariato “Un Raggio di Sole” - Ente del Terzo Settore - fra le sue numerose iniziative, proprio nel 2021 ha realizzato e concluso in questi giorni, di concerto con il Ministero della Giustizia - Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, un Laboratorio di “Restauro Legno” presso l’Istituto Penale Minorile “Silvio Paternostro” di Catanzaro a beneficio di un gruppo di ragazzi detenuti che hanno inteso avvalersi di questa opportunità formativa. Infatti, fra le numerose attività previste dall’Istituto per la rieducazione e il reinserimento nel contesto sociale, le attività progettuali vanno in questa direzione. La realizzazione del laboratorio, su impulso del direttore dell’istituto, Francesco Pellegrino del Presidente dell’Associazione Piero Romeo e con la supervisione dell’Educatrice Chiara Crociani coadiuvata dal personale della Polizia Penitenziaria, è stato condotto da due esperti in restauro legno e mobili antichi, Luigi Peronace e Antonio Macrina, peraltro tutti Volontari della stessa Associazione. Le attività formative sono state strutturate in due fasi: la prima, di carattere propedeutico ha visto gli allievi impegnati nello studio della storia del legno; la seconda di approfondimento e restauro vero e proprio. A questo proposito si è provveduto ad allestire un vero e proprio laboratorio in cui gli allievi hanno potuto mettere in pratica sia la teoria che la tecnica nelle varie fasi, ristrutturando vari arredi della Comunità. Attualmente si sta lavorando alla realizzazione di una mostra dei lavori realizzati dai ragazzi. Parma. Il carcere e la città: una Rete vincente è possibile di Laura Ruggiero parmateneo.it, 6 aprile 2022 All’Università di Parma un incontro per parlare di sistema penitenziario e città, ripercorrendo le sue riforme tra miglioramenti ma anche, purtroppo, molti passi indietro: come negli anni 90 con la Bossi-Fini, la Fini-Giovanardi e poi la “ex Cirielli”. Il carcere oggi è una struttura “autopoietica”, sempre più distaccata dall’esterno. Il carcere viene tendenzialmente considerato una realtà scomoda, lontana e talvolta invisibile. Uno di quei posti destinati a chi commette errori più o meno gravi. Quando sentiamo o leggiamo la notizia di un crimine commesso, di impulso speriamo che quella persona finisca in carcere e magari ci resti più tempo possibile. Eppure, il carcere è una realtà molto più complessa e non può limitarsi semplicemente a punire. Almeno teoricamente, dovrebbe avere una funzione riabilitativa e rieducativa che in Italia non sta funzionando, i dati parlano chiaro. Come riporta Il Sole 24 Ore, i detenuti affidati al circuito carcerario nel 68% dei casi tornano a delinquere, mentre il tasso di recidiva tra chi è affidato a misure alternative si ferma al 19 per cento. Il seminario “Le infinite riforme. Il carcere e la città”, organizzato dall’Università di Parma, cerca di sdoganare alcuni luoghi comuni, di tracciare sinteticamente la storia di questa istituzione e di capire cosa le città possano fare per questa realtà. “Le infinite riforme” che non risolvono il problema - Il professor Giuseppe Mosconi, docente di sociologia del diritto penale all’Università di Padova, ha cercato di sintetizzare alcune delle principali riforme che hanno interessato il sistema carcerario. A partire dal 1975 diverse leggi hanno cercato di far fronte ad una situazione estremamente complessa ed intricata, caratterizzata dall’allarme crescente per l’incremento della criminalità organizzata e da una particolare crisi della pena detentiva. La critica della pena detentiva si fonda non solo su considerazioni di carattere umanitario, ma nasce proprio dalla constatazione degli effetti deludenti e addirittura controproducenti quanto ad efficacia rieducativa. Le riforme di questi anni si alternano tra aperture riformatrici e pesanti battute d’arresto. Di fatto, con l’approvazione della legge 22 maggio 1975 n. 152, non è stato affrontato in modo adeguato il problema della sicurezza, ma è stata proclamata genericamente la missione di trattamento e rieducazione. A questa riforma sono seguite tante leggi restrittive, senza garanzie giuridiche. Nel 1986 viene approvata la legge Gozzini che, seppur con alcuni limiti e contraddizioni interne, rappresenta un primo passo in avanti verso il cambiamento. La legge in questione introduce la possibilità di modulare e graduare la pena nel corso dell’esecuzione in modo da favorire il processo rieducativo del condannato, attraverso i cosiddetti “benefici” della Gozzini. I corsi di istruzione, di formazione professionale, le attività culturali e ricreative sono solo alcune delle novità introdotte. La legge Gozzini individua misure alternative per offrire maggiori possibilità di scontare la pena fuori dal carcere, sancisce la partecipazione del detenuto al trattamento e la possibilità di premiare il suo impegno. I progressi raggiunti con fatica in questi anni vengono demoliti negli anni ‘90 con le famose “leggi carcerogene”: la Bossi-Fini, la Fini-Giovanardi e poi la “ex Cirielli” che limiterà fortemente le misure alternative appellandosi alla recidiva reiterata. Si ritorna così ad una nuova stretta con a capo il Ministro degli Interni Roberto Maroni, il quale approva una serie di riforme che talvolta fuoriescono dalle garanzie penali, come le famose autorizzazioni ai sindaci della facoltà di emettere ordinanze restrittive. L’Italia tocca l’apice della repressività con la sentenza Torreggiani che, l’8 gennaio 2013, condanna lo Stato italiano per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu). Il caso riguarda trattamenti inumani o degradanti subiti da sette persone detenute per molti mesi nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione. In questo periodo i detenuti in Italia sono circa 70 mila. Diventa, quindi, necessario introdurre una legislazione volta a ridurre la pressione nelle carceri. In realtà le misure approvate saranno molto blande e, dopo un apparente successo iniziale, il numero dei carcerati tornerà nuovamente a crescere. La pandemia mette in luce questo insuccesso e i magistrati si mostrano maggiormente predisposti ad offrire misure alternative: cala il numero di quel 60% di condannati presenti in carcere che avrebbero già diritto alle misure alternative ma risultano ancora reclusi. Escono 8.000 detenuti, ma poi riprende il processo di crescita. Un’infinità di riforme che di fatto non riesco ad offrire una soluzione concreta al problema. Struttura e sovrastruttura del carcere - Rispetto a questa situazione è necessario ritornare ad uno dei motivi per cui è nato il carcere: controllare la marginalità. Di fatto quel sistema basato sulla retributività, sulla funzione rieducativa e sulla funzione di prevenzione generale e speciale si è dimostrato altamente inefficace. “In realtà, il carcere non rieduca, il carcere stabilisce delle pene altamente impari pur a parità di tipologia di reato, il carcere non può essere retributivo, il carcere non intimorisce perché ben altre sono le motivazioni che portano al reato” afferma il prof Mosconi. Al di sotto di questi tre paradigmi ciò che detta davvero legge, secondo il docente, è il cosiddetto “zoccolo duro del carcere” a sua volta costituito dal concorrere di almeno cinque elementi: la cultura punitiva; una struttura autopoietica dell’istituzione, che tende continuamente a ridefinire se stessa e a riprodursi dal proprio interno; una struttura burocratica assolutamente inamovibile dal punto di vista della gerarchia, delle regole, degli interessi corporativi, della modalità organizzativa; una narrazione verso l’opinione pubblica del carcere indispensabile per la sicurezza; un universo comunicativo e culturale che mette in relazione il linguaggio politico in una serie di retoriche che vertono sulla rassicurazione, sull’innovazione e sulla restaurazione. Sulla base di questo sistema, che rimane tendenzialmente invariato, le riforme dei vari partiti politici risultano totalmente inefficaci e incapaci di risolvere le questioni di fondo. Come si vive realmente in carcere? Giacinto Siciliano, direttore della casa circondariale di San Vittore, ha cercato di dare concretezza alle parole del prof Mosconi illustrando la sua esperienza di dirigente penitenziario. Il primo esempio citato riguarda la nascita e la crescita di Bollate, un carcere totalmente nuovo sulla base di normative esistenti. Questo cambiamento si deve al dottor Luigi Pagano che pone al centro della sua azione un chiaro principio: la cella deve essere il luogo dove si va a dormire, ma non quello dove si vive. Crea, quindi, un carcere aperto, con luoghi dove si studia, dove si lavora, dove si fa sport, dove si vivono relazioni sociali e lo fa “semplicemente” rileggendo le riforme. Anche ad Opera, carcere fortemente caratterizzato dalla presenza della criminalità organizzata, ci si rende conto che è necessario impegnarsi per cambiare, anche in contesti difficili e a prescindere dalla tipologia di detenuti. “Sono belle le riforme e sono a favore della giustizia riparativa - sostiene il dottor Siciliano - ma mi trovo a gestire il carcere con quello che ho, dovendo affrontare numerose problematiche, come le persone incapaci di intendere e di volere che non dovrebbero stare in carcere. Siccome non c’è un posto dove metterle, di fatto continuano a stare in carcere, anche se non ci dovrebbero stare”. Il carcere è diventato così il posto dove si gestisce tutto quello che non si riesce a controllare altrove. Due degli obiettivi principali che si pone il carcere sono la gestione della fase del processo, questione estremamente complessa per via dei lunghissimi tempi necessari, e poi il concetto della rieducazione, lavorare con le persone per aiutarle a capire che esistono delle regole per vivere in una società. Questo discorso deve avere necessariamente come fulcro la dignità delle persone che sono in carcere: i detenuti e anche chi ci lavora. In quest’ottica bisogna considerare anche il fattore tempo, che in carcere è tendenzialmente fermo. Un tempo che scorre spesso uguale e questo probabilmente interferisce con la rieducazione. Inoltre, secondo il dott. Siciliano, c’è ancora troppo spesso la logica dell’adempimento: “Si fanno le cose semplicemente perché si devono fare, come nel caso dell’accoglienza”. Generalmente si fa il colloquio di primo ingresso e si raccolgono poche informazioni senza prestare sufficiente attenzione al riconoscimento della persona, all’inquadramento e all’orientamento all’interno della struttura. Il carcere, in quanto comunità chiusa, può assumere così una valenza negativa o trasformarsi in un’esperienza positiva che aiuta a prendere delle nuove scelte e ad iniziare dei percorsi. Oltre al contesto e al clima, un carcere funziona se dispone di un grande pacchetto di offerte: dev’essere in grado di soddisfare i bisogni, di orientare le persone, di dare delle possibilità e di costruire delle abilità. “È importante provare a dare un senso al carcere che comunque c’è, è una realtà che fa parte della nostra società. A questo punto, assume una certa importanza il ruolo della città e della collettività, poiché tutti questi elementi esistono e hanno senso solo se il carcere non rimane confinato tra le sue mura e si integra con la struttura sociale. Bisogna far sentire alle persone che c’è un’attenzione nei loro confronti”, afferma il dottor Siciliano. È il caso, ad esempio, di San Vittore che può contare su una città molto attiva e su un volontariato forte. Prima della pandemia sono state organizzate mostre, eventi teatrali e culturali per cercare di dare un senso al carcere. Si lavorava su un tema e poi si organizzava l’evento aperto non solo ai detenuti, ma anche alla città. Il dottor Siciliano, pur consapevole dei limiti delle istituzioni, sostiene che l’unica cosa possibile da fare sia impegnarsi, “avere voglia di dare un senso al carcere. Questo è possibile solo nella misura in cui si riesce a stabilire, con il territorio esterno, una rete che sia risorsa da entrambe le parti”. Carcere-città, binomio indissolubile - Stefano Anastasia, ricercatore di filosofia e sociologia del diritto nell’Università di Perugia, si occupa di tutela dei diritti dei detenuti. Nel suo intervento pone un accento particolare proprio sull’indissolubile legame tra il carcere e la città, per varie ragioni. Il carcere assume un’opera di contenimento e di accoglienza di quella gran parte della marginalità sociale che la nostra comunità esterna non è capace di gestire. Ne consegue un paradosso insito al sistema di rieducazione “perché si cerca di produrre una nuova forma di integrazione sociale per quelle persone che sono state espulse dalla società, attraverso la loro separazione dalla stessa società. Queste persone stanno lì esattamente perché la città non li ha voluti”, sostiene il professore Anastasia. Emblematico è l’esempio delle persone giudicate “non imputabili” che sono in attesa di un provvedimento di internamento. Il problema, nella maggior parte dei casi, è proprio l’incapacità dei servizi e delle strutture legate alla salute mentale di riuscire a seguire queste persone. Le istituzioni devono riuscire a farsi carico delle persone che hanno bisogno di una tutela della salute mentale. In realtà, quando il territorio non riesce si opta per la chiusura “perché il matto che ha commesso un reato continua a fare paura”. Gli enti territoriali dovrebbero programmare politiche pubbliche sul territorio, servizi e attività, perché le carceri non possono più essere competenza esclusiva del Ministero della Giustizia. “Non è la giustizia che deve chiamare il Comune a far quel che deve fare, ma è il Comune che deve sentirsi parte di questo sistema, perché chi è dentro il carcere è sempre un cittadino del territorio. Questa consapevolezza non c’è ancora né da parte della giustizia né da parte degli enti territoriali”, conclude Anastasia. Il filo comune che unisce questi tre interventi è sicuramente l’idea che sia necessario rinnovare e riformare l’istituzione carceraria. Mosconi, Siciliano e Anastasia hanno espresso un giudizio favorevole verso la riforma Cartabia che si pone, tra gli altri, l’obiettivo di garantire tempi ragionevoli per i processi e di risolvere il problema del sovraffollamento e della violenza nelle carceri. Eppure, come dimostra l’iniziativa del dottor Pagano a Bollate, è possibile attuare dei cambiamenti anche sulla base delle riforme già esistenti. L’intervento delle città è un altro punto decisivo e iniziative come quelle organizzate a San Vittore sono la dimostrazione di quanto il binomio territorio-carceri possa essere utile e fruttuoso da entrambe le parti. Il carcere viene considerato così sotto un’altra ottica, come fase di transizione per i detenuti e di preparazione ad una nuova vita lontana dalla cella e dagli errori del passato. L’obiettivo finale è quello di rendere queste strutture un posto migliore grazie all’organizzazione di numerose attività, per cercare di ridurre i casi di recidiva. Questo reinserimento sociale è una responsabilità che riguarda tutte le istituzioni. Brescia. Giustizia riparativa, terzo incontro alla Cattolica quibrescia.it, 6 aprile 2022 Giovedì 7 aprile alle 15, nell’Aula Magna di via Trieste il terzo appuntamento del ciclo “Giustizia riparativa e comunità. Riprendere la parola e le relazioni”, con Luciano Eusebi. Giovedì 7 aprile alle 15, nell’Aula Magna dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia (via Trieste 17), si terrà l’incontro “Giustizia riparativa: normativa italiana e prospettive di riforma”, terzo appuntamento del ciclo “Giustizia riparativa e comunità. Riprendere la parola e le relazioni”. Luciano Eusebi, professore ordinario di Diritto penale e Penale minorile e di Elementi di diritto della famiglia e dei minori dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, dialogherà con l’Avvocato del Foro di Brescia Andrea Vigani. Coordinerà l’incontro il professor Domenico Simeone. Per partecipare in presenza, con diritto ai crediti formativi per avvocati e attestato di partecipazione per gli insegnanti, occorre prenotare rivolgendosi a Casa della Memoria tel. 030.2978253 - mail: casamemoria@libero.it. L’ingresso è consentito secondo le vigenti misure anti-covid (possesso Greenpass secondo normativa - mascherina FFP2). L’incontro sarà trasmesso anche online sui canali del Ctb: YouTube, Pagina Facebook, Sito internet - https://www.centroteatralebresciano.it Informazioni: Casa della Memoria tel. 030.2978253. Successivi incontri già prenotabili: giovedì 21 aprile al Palazzo di P. Giustizia: “Giurisprudenza e Giustizia Riparativa”, con Marco Bouchard già Magistrato; giovedì 5 maggio, al Museo Diocesano: “Bibbia e Giustizia Riparativa”, con Padre Guido Bertagna; giovedì 19 maggio, presso l’ Università Statale “Il contesto scolastico e la Giustizia Riparativa” con Marzia Tosi, criminologa e Marta Martotti, Dirigente Scolastica; Giovedì 9 giugno a Palazzo Martinego delle Palle: “Comunità locali e Giustizia Riparativa” con Emilio del Bono, Sindaco di Brescia, Francesca Lucrezi - Direttrice Carcere, Carlo Alberto Romano-criminologo, e un rappresentante delle OO.SS. ed infine, giovedì 23 giugno al Salone Vanvitelliano: “Riflessioni conclusive”. Milano. Detenuti che diventano poeti e scrittori nel carcere di Opera di Annalisa Cretella agi.it, 6 aprile 2022 Oltre 400 negli anni, hanno partecipato ai laboratori di leggere Libera-Mente. “Si sentono dei privilegiati” e solo lo 0,5% delinque ancora una volta fuori, racconta all’AGI Barbara Rossi di Cisproject. Giuseppe e Antonino scrivono poesie, Alfredo è tornato a casa, cerca di recuperare il rapporto con la figlia, e pubblica romanzi. Gaspare ha aperto un negozio di ortofrutta, Pino si sta dedicando alla carriera di musicista e di fornaio. Storie di vite che rinascono, che riprendono un percorso interrotto dal carcere. Ne può raccontare tante, molte sono a lieto fine, Barbara Rossi, psicologa psicoterapeuta che ha ideato il progetto “Leggere Libera-Mente”, insieme ad altri due operatori penitenziari Antonella Conte e Paolo Pizzuto, fondando l’associazione Cisproject. All’AGI ha raccontato l’impegno e la soddisfazione degli anni passati a ‘inventare’ laboratori che potessero interessare i detenuti, fino alla vittoria dell’Ambrogino d’oro, la massima onorificenza del Comune di Milano per il giornale ‘In corso d’Opera’, e anche le difficoltà di un’associazione che si regge sul volontariato. I risultati incoraggiano ad andare avanti: “a oggi solo lo 0,5% degli oltre 400 corsisti che hanno seguito per un certo tempo i nostri corsi hanno commesso nuovamente dei reati una volta tornati in libertà” spiega Rossi. Una percentuale decisamente inferiore alle statistiche sulla recidiva riguardante ex detenuti che hanno seguito percorsi di rieducazione (20% circa, contro l’80% di chi non ha usufruito di percorsi). “Il progetto - racconta - è nato nel 2008, quando lavoravo in carcere come psicologa penitenziaria ed ero consulente del Ministero della giustizia. C’erano state così tante riduzioni di finanziamenti che mi ero ritrovata ad avere 5 minuti al mese per persona detenuta”. Un tempo infinitesimo, nel quale, “ho pensato che la mia professionalità non potesse svolgersi in modo adeguato e dignitoso. Quindi con alcuni colleghi ci siamo chiesti cosa potevamo offrire di diverso, abbiamo studiato un po’ le attività che si facevano in carcere e visto quali piacevano di più, tra queste ci ha colpito il laboratorio di lettura”. Utile per diversi motivi, per come ci si relaziona, “quando qualcuno legge e gli altri devono ascoltare, parlare uno alla volta e per il fatto che i libri diventavano delle miniere di parole alle quali attingere per arricchire il proprio vocabolario. E abbiamo notato che anche il comportamento, in generale migliorava, era più rispettoso”. Per tutti questi motivi, il laboratorio settimanale, dalle 3 ore iniziali di lettura, è passato rapidamente a 22 ore. Si tiene il lunedì, martedì, mercoledì e venerdì in carcere e il giovedì c’è anche un laboratorio all’esterno. “E’ pensato per chi è uscito, o ha dei permessi, in modo che possa avere ancora un punto di riferimento. Per alcuni è fondamentale soprattutto all’inizio”. Anche perché ad Opera, il più grande carcere italiano, con 1400 detenuti, nella maggioranza dei casi, le pene sono molto lunghe. Con il passare del tempo, non si fa più solo lettura, si sono aggiunti i laboratori di scrittura creativa, giornalistica, autobiografia, poesie. “Ci sono tante modalità di espressione, e ognuno può trovare la propria”. Per far fronte a questa mole di lavoro la squadra si è arricchita man mano di altri volontari, “tutti professionisti”. Ci sono scrittori, giornalisti, un filosofo, un counselor, una studentessa universitaria. E anche un’attrice, la bravissima Anna Nicoli. I risultati sono evidenti, anche guardando ai numerosi premi ricevuti dai detenuti. Loro “si considerano dei privilegiati, si definiscono così perché possono partecipare a un progetto interessante, nel quale si apprendono tante cose. E imparano anche a esplorare una parte di sé che non conoscevano”. La poesia e la scrittura sono le loro finestre sul mondo, le porte dell’anima. Anche se è difficile che una volta fuori facciano gli scrittori a tempo pieno, perché è un mestiere con il quale si fa fatica a mantenersi, però la passione la conservano e partecipano a concorsi letterari, che spesso vincono”. Uno sta per partire adesso. Si chiama ‘Adotta l’orso - Per uscire dall”Auto-reclusione’, il riferimento è alla tendenza a chiudersi in se’ stessi in qualsiasi ambiente ci si trovi a vivere. Possono partecipare tutti, scrivendo un racconto, una lettera, una pagina di diario, una poesia che abbia come tema di fondo l’autoreclusione, l’isolamento volontario, e anche quello che tutti abbiamo sperimentato, l’isolamento dovuto al Covid. Milano. Nel carcere di San Vittore i detenuti cantano assieme a magistrati, giudici e avvocati di Giovanna Maria Fagnani Corriere della Sera, 6 aprile 2022 La serata “Voci in dialogo. Concerto per la pace” è stata promossa dall’Associazione Quartieri Tranquilli, presieduta da Lina Sotis, e Associazione Amici della Nave, in collaborazione con la direzione dell’istituto. Detenuti e magistrati, giudici, avvocati. In Tribunale le quattro voci della giustizia siedono su fronti opposti, spesso in conflitto. Lunedì sera, invece, nella rotonda del Carcere di San Vittore, si sono riunite in una eccezionale polifonia. L’occasione era la serata “Voci in dialogo. Concerto per la pace”, promossa dall’Associazione Quartieri Tranquilli, presieduta da Lina Sotis, e Associazione Amici della Nave, in collaborazione con la direzione dell’istituto. In scena, uno accanto all’altro, due cori: i 34 coristi-detenuti de “La Nave” (uomini fra i 18 e i 60 anni e oltre) e la Corale Polifonica Nazariana, che dal 2003 inaugura l’anno giudiziario coi suoi concerti ed è composta da oltre 60 elementi, tra cui giudici - come il direttore Lucio Nardi - e poi avvocati e magistrati. Dopo un mese e mezzo di prove distinte, l’emozione delle generali d’insieme e, infine, il concerto, eccezionale non solo perché metteva insieme queste voci, ma anche perché si è trattato della prima riapertura al pubblico (stavolta su invito) del carcere di San Vittore, dopo la pandemia. Il “canzoniere” da Verdi a Vasco, Battisti e Dalla - Il Va pensiero di Giuseppe Verdi, eseguito insieme in apertura, poi brani di Vasco Rossi, Lucio Dalla, i Maneskin, Lucio Battisti (“Il mio canto libero”) e l’inno della Nave per i detenuti e Mozart, Jenkins e brani di altri compositori di musica sacra e non per la Corale. Gran finale, con “O sole mio”, cantata anche dal pubblico, tra cui c’erano i rappresentanti delle istituzioni: la vicepresidente della Regione Lombardia Letizia Moratti, la vicesindaco Anna Scavuzzo, il senatore pd Franco Mirabelli e il capogruppo dem in consiglio comunale Filippo Barberis, la presidente del Tribunale di Sorveglianza Giovanna Di Rosa e il direttore del carcere Giacinto Siciliano. Nel pubblico anche l’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati e altre personalità del mondo della giustizia. Applausi e tante manifestazioni di affetto per la dottoressa Graziella Bertelli, fondatrice de “La Nave”, il reparto di cura e trattamento avanzato per detenuti-pazienti con problemi di dipendenza, gestito da una équipe specializzata della Asst Santi Paolo e Carlo. E per Lina Sotis, ideatrice della serata. “Un evento simbolico, ma vero e nel momento giusto. Qui siamo tutti uguali”, ha detto. I detenuti a colloquio con Letizia Moratti - Al termine del concerto, alcuni detenuti si sono fermati a parlare brevemente con Letizia Moratti, chiedendole notizie della comunità di San Patrignano. “Serate come questa - ha detto poi la vicepresidente - danno ai giovani detenuti la possibilità di capire che un dialogo c’è sempre, che una seconda, terza, quarta possibilità nella vita c’è sempre, bisogna solo saper impegnarsi per ottenere i risultati che possono arrivare. Il simbolo di un coro che canta insieme può far capire che non sono soli, che la società non li condanna e che possono andare avanti a trovare la loro strada”. Nel pubblico anche Anna Scavuzzo, vicesindaco di Milano: “È stata una serata molto bella: sono venuta qui molte volte, per la Prima della Scala o altri eventi, ma oggi eravamo noi in ascolto di loro” dice. Il direttore del carcere Giacinto Siciliano ha sottolineato come il concerto segni una ripartenza. “Possiamo riprendere la grande progettualità che c’era prima del Covid e che comprende la scuola e le attività con i volontari. E anche il costante contatto con l’esterno, importante per loro, perché hanno bisogno di visibilità e per chi sta fuori, perché possa capire che il carcere, seppur con tutte le sue storture, è un luogo positivo, dove si lavora, un luogo a cui dare fiducia”. Bruti Liberati - A fargli eco anche le parole a margine di Edmondo Bruti Liberati: “Queste sono persone che hanno commesso errori o reati, ma sono persone con cui è necessario riprendere un discorso, in vista di un reinserimento nella società. Queste iniziative sono moto importanti perché carcere non resti sempre un corpo estraneo alla città, ma ci si renda conto dei grandi problemi e delle possibilità di un impegno su questi temi che dalla conoscenza può nascere”. Prima di salutarsi, tanti ragazzi della Nave hanno promesso al maestro Lucio Nardi di entrare a far parte della Corale, quando usciranno. “Lei maestro tiene una passione per la musica esagerata” gli ha detto uno di loro. Per quasi tutti era la prima volta in cui sentivano cantare una corale lirica. Il brano più difficile? “Il Va Pensiero che ha tanti alti e bassi. Per fortuna le parole le conoscevamo già, si sente anche in Marocco” raccontano due coristi della Nave. “No, la più difficile era quella di Lucio Dalla” dissente un altro. Qualcuno si commuove. “Venite ancora a sentirci, speriamo ci facciano cantare ancora presto”. “Il governo dei giudici” secondo Sabino Cassese di Francesco D’errico* e Giuseppe Portonera** Il Dubbio, 6 aprile 2022 Il libro sarà presentato, lunedì alle 18, sulle pagine Facebook dell’associazione Extrema Ratio e dell’Istituto Bruno Leoni. Nel Federalista n. 78, Alexander Hamilton descrive il potere giudiziario come il più “debole” tra quelli che lo Stato esercita, giacché non ha a propria disposizione la possibilità né di finanziarsi (come il potere legislativo) né di disporre degli eserciti (come il potere esecutivo). Proprio per tale ragione, Hamilton invitava i propri connazionali a non temere l’istituzionalizzazione dell’ordine giudiziario, visto che quest’ultimo sarebbe stato “the least dangerous branch”. Redigendo il suo saggio, Hamilton riecheggiava osservazioni già messe a punto dal barone di Montesquieu, il quale aveva addirittura definito il potere giudiziario come “nullo” e i giudici come “essere inanimati” che pronunciano le parole della legge. Al giorno d’oggi, nessuno può leggere questi passi e credere che rappresentino fedelmente lo stato dell’arte. Mai come nella nostra epoca, una complessa rete di tribunali nazionali e sovranazionali, nonché l’irrompere delle carte dei diritti tanto nei rapporti “verticali”, quanto in quelli “orizzontali” tra cittadini, hanno contribuito a espandere - ben oltre i limiti temuti dagli americani del XVIII secolo - il peso che l’ordine giudiziario ha nella vita pubblica e democratica. Questo fatto - quando non accolto, con un misto di rassegnazione e indifferenza, semplicemente come “compiuto” - è fonte di accese controversie politico- giuridiche. Negli ultimi anni, dopo un’onda di approvazione per quella che pure è una notevole alterazione del tradizionale equilibrio istituzionale, il campo degli “scettici” ha visto allargare le proprie fila. Alcuni testi critici sono diventati quasi dei classici: si pensi, su tutti, allo studio del politologo canadese Ran Hirschl (Towards Juristocracy. The Origins and Consequences of the New Constitutionalism), cui si deve la popolarizzazione dell’espressione “juristocracy”. Più di recente, vale la pena ricordare il saggio - a tratti iconoclasta - del tedesco Bernd Rüthers (La rivoluzione clandestina. Dallo Stato di diritto allo Stato dei giudici) e le Reith Lectures dell’ex giudice della Corte suprema inglese, Lord Sumption (L’impero del diritto. Una sfida per lo Stato e per la politica). A questo elenco si aggiunge ora Sabino Cassese, già giudice della Corte costituzionale e professore emerito della Scuola Normale, con il suo Il governo dei giudici (Laterza 2022). (Il libro sarà presentato, in diretta alle 18.00 di lunedì 11 aprile, sulle pagine Facebook dell’associazione Extrema Ratio e dell’Istituto Bruno Leoni, con la partecipazione dell’autore, in dialogo con Vittorio Manes, ordinario di Diritto penale, e Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere Penali). Cassese concentra la propria attenzione sul processo di “giudiziarizzazione” della vita pubblica, rilevando criticamente come l’ordine giudiziario sia diventato parte della governance nazionale, “invadendo” il campo della politica e dell’economia, e come addirittura, in qualche occasione, alcuni settori della magistratura abbiano cercato di fare le veci della politica, quale camera di compensazione dei diversi orientamenti socio-culturali, stabilendo rapporti diretti con l’opinione pubblica e con i mezzi di comunicazione. Invero, l’autore evidenzia anche un certo paradosso: se, da un lato, si assiste a una dilatazione del ruolo dei magistrati, dall’altro si a che fare con una crescente inefficacia del sistema giudiziario e disaffezione nei suoi confronti da parte dei cittadini. In questo contesto, allora, è un particolare tipo di magistrato a risultare davvero protagonista della “repubblica giudiziaria”: il rappresentante della pubblica accusa, assurto a figura chiave della vita pubblica italiana, tanto per un’esposizione mediatica senza precedenti, quanto a causa di una politica sempre meno autorevole, incapace di far valere le proprie prerogative costituzionali e incline a delegare la composizione delle questioni e dei conflitti sociali ai tribunali. È agevole far coincidere l’avvio di questo processo con Mani Pulite, che, trent’anni fa, apparve a molti una rivoluzione necessaria per il rinnovamento del Paese, mentre oggi mostra molti dei suoi limiti e dei suoi effetti collaterali. Benché l’operazione di sua “demitizzazione” sia ancora minoritaria nel paese e nell’opinione pubblica, è ormai chiaro a tanti che l’indagine su Tangentopoli ha prodotto uno slittamento senza precedenti nei rapporti tra politica e magistratura, un terremoto che ha condotto a quello “straripamento” del potere giudiziario, il quale si è nutrito anche di una malintesa concezione di autonomia e indipendenza, trasformatesi, chiosa Cassese, in assenza di controllo e di responsabilità. Non è troppo tardi per invertire il corso e non è troppo presto per insistere sul cambio di marcia: d’altronde - per riportare la frase di Justice Stephen Breyer, che Cassese ha posto ad avvio del libro in questione - “se il pubblico vede i giudici come politici con la toga, la sua fiducia nelle corti e nello Stato di diritto può solo diminuire”. *Presidente Extrema Ratio **Forlin Fellow Istituto Bruno Leoni “Donbass. La guerra dimenticata” recensione di Marcello Pesarini Ristretti Orizzonti, 6 aprile 2022 Una storia patriottica e una storia contro la guerra, allo stesso tempo. Le 309 pagine scritte, raccontate, documentate da Sara Reginella per Exorma Edizioni, informano raggiungendo il cuore e la mente degli ignari lettori europei. Quanto avvenne in Ucraina fra il 2014 e il 2015, in quella che venne annotata sul black notes in Europa Occidentale come “episodi di terrorismo” nel Donbass e Lugansk a seguito della “rivoluzione democratica” di Euromaidan, fu l’insorgere di patriottismo e amore per il passato sovietico nelle popolazioni che non volevano sottostare al vento filo occidentale aiutato dalle mai sopite bande naziste? Sara Reginella ce lo narra facendoselo raccontare nei territori devastati di confine. Ha incontrato più volte le milizie composte da uomini e donne che hanno abbandonato le loro occupazioni per difendere le loro terre, entra nelle loro sofferenze tanto da fare propri gli incubi, seguire ad occhi aperti e chiusi i mostri che crescono nella sofferenza, dagli arti mozzati, nelle creature che perdono la parola o la conservano solo sotto forma di grido. Si innamora dei palazzi sovietici, talmente feriti e azzoppati da nascondere famiglie intere, parte in carne ed ossa, parte in fotografie, mostrate con orgoglio misto a dignità. Si innamora anche dei mercatini che sorgono spontaneamente a metà tragitto di una corriera spartana, in piena notte con tanto di rane che vivono nel loro habitat unico. Si pone, da terapeuta e sociologa, la necessità di rendere leggibile il meccanismo attraverso il quale viene scatenato il dissidio in seno a una famiglia e poi in seno a un popolo: disparità di trattamenti, iniezione di dubbi e pulci nell’orecchio, poi costrizione di fatto a combattersi. In queste stanze, estremamente serie, l’autrice svolge un compito alto di declinazione della pace: essa non può essere invocata azzittendo uno dei contendenti quando le cose sono precipitate, va preparata bandendo gli inganni, e per farlo si debbono abolire i sotterfugi rappresentati dal farsi tutelare da un gigante che non può essere buono come nelle favole, ma ci chiederà sempre più fedeltà, chiamata soggezione. Ora Sara ama il patriottismo nato dal desiderio di rispondere al sopruso, ma i miliziani che sono stati rubati al loro lavoro, che sono fuggiti dall’incendio della Casa del sindacato di Odessa, la polizia Berkut che viene beffeggiata, accusata ingiustamente di presunti pestaggi ed infine rispedita, una volta sciolta, ad ingrossare le file dei disoccupati, non vogliono la guerra per la guerra, vogliono la pace. L’amore per la pace e la vita salgono su col fiatone che Sara si ritrova dopo una serie di giorni di campi di battaglia, cani bruciacchiati che la annusano, persone vere e fantasmi che le indicano la via, arriva alla grande città dove si festeggia l’anniversario della fine della Grande Guerra Patriottica, la seconda guerra mondiale, il 9 maggio. Troppo serena, bella, vivace questa Donetsk, per lei che si era ormai abituata a respirare in apnea vicino all’al di là, alle volte dentro. Si concede la paura, la stanchezza, l’affetto per le belle giovani che camminano come modelle mentre portano i fiori e il loro amore alle famiglie veterane della Grande Guerra Patriottica. Analizza con la necessaria freddezza le figure prive di sentimento che si esaltano col sangue, con l’odio, necessarie come i giganti che richiedono soggezione, ma proprio perché sa vedere, di abitante in abitante del Donbass, di volto in volto, la dignità, la pace, l’amore nelle nuove leve che hanno la fidanzata in Ucraina, ci parla di pace. Una sequenza di sceneggiature da comporsi, di reportage, di leggende che vedono San Giorgio assieme alle stelle rosse, di analisi, di personaggi che se non possono fare, fanno fantasticando, e trasmettono vita a chi li ascolta, come il vecchio Maestro: questo e altro, “La guerra fantasma nel cuore dell’Europa”: forse ancora una speranza viva nell’umanità, non nei loro governanti, letto oggi, un anno dopo l’uscita? Italia e guerra: c’è una politica non all’altezza di Marcello Sorgi La Stampa, 6 aprile 2022 Lo scontro interno alla maggioranza - l’ennesimo, in questi giorni difficili per il governo - con la Lega che attaccava il ministro degli Esteri per l’espulsione di 30 diplomatici dell’ambasciata russa, sospettati di fare attività spionistica, ha fatto venir fuori un elemento finora intuibile, ma mai espressamente scoperto, del complicato quadro politico italiano: Salvini è il capo del partito putiniano, filorusso, anti-occidentale. Con una dichiarata linea di difesa degli interessi di Mosca, anche nel momento in cui la Russia e il suo autocrate, a causa dell’invasione dell’Ucraina, scontano un isolamento quasi completo in Europa e larghissimo nel mondo. Finora infatti il leader del Carroccio, forse in conseguenza dell’esito tragicomico della sua missione del 9 marzo in Polonia, in cui era stato apertamente contestato come “amico di Putin” mentre cercava di recarsi al confine con l’Ucraina si era tenuto su posizioni di generico pacifismo. Posizioni che sottendono un atteggiamento giustificazionista per la Russia. Ieri invece di fronte alla decisione del governo, comunicata in mattinata dalla Farnesina all’ambasciatore Razov, non si è più tenuto e ha preso le distanze in modo così radicale da determinare una risposta altrettanto dura del ministro Di Maio, che ha confermato che si trattava di un provvedimento a salvaguardia della sicurezza nazionale e in linea con quanto avvenuto in altri Paesi europei. Dalla Francia alla Germania, dalla Spagna ai Paesi Bassi e oltre, in Polonia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Irlanda e Belgio, un totale di 150 diplomatici e con un placet del responsabile della politica estera della Commissione Borrell. Se dunque Salvini ha deciso egualmente di muoversi in dissenso, pur di fronte a un così largo schieramento di partners europei, nel giorno in cui in Italia cominciava il processo al capitano di fregata della Marina Biot, arrestato con l’accusa di aver venduto per 5000 euro segreti militari a due funzionari russi, anche loro espulsi, e a ridosso per le polemiche sulle presunte attività spionistiche di parte dei membri della delegazione sanitaria russa venuta in epoca Covid, è chiaro che i suoi legami con Mosca non gli consentivano più di tacere. Le espressioni di giubilo, a cui si era unita Meloni, usate lunedì per festeggiare la vittoria e la riconferma di Orban alla guida dell’Ungheria, sono nulla al confronto della netta rottura con il governo sul terreno della sicurezza e della politica estera. Va detto che proprio queste due materie da sempre non consentono divisioni e anzi sono tradizionalmente occasione di unità tra maggioranza e opposizione. Si pensi, tanto per fare esempi recenti, al terrorismo interno e internazionale, alle missioni di pace che vedono impegnati i nostri militari nei teatri di guerra più delicati del mondo. Tal che, sebbene l’espulsione dei diplomatici russi non sia certo paragonabile ad eventi come quelli, il sol fatto che sia avvenuta all’indomani dell’autrice strage di Bucha avrebbe richiesto, da parte del leader della Lega, un di più di responsabilità. E dato che si parla di scarsezza di questo sentimento patriottico, proprio da parte di Salvini che ne fa spesso uso retorico a vanvera, forse bisognerebbe aggiungere che il leader leghista non è il solo, in questi giorni, a mostrarsi al di sotto della serietà che la situazione richiede. Non c’è nessun Paese in Europa - tranne appunto l’Ungheria di Orban - in cui sia successo quel che sta capitando in Italia. Dove il partito trasversale genericamente pacifista, giustificazionista, equidistante tra l’aggressore russo e l’aggredito ucraino si sia manifestato con tale forza e costanza, senza alcun pudore e senza alcuna attenzione per il rilievo dei fatti. Così ieri è stato Salvini ad assumere la leadership dei putiniani, ma non va dimenticato che il giorno prima era stato Conte a raccomandare di non farsi prendere la mano dagli americani. E ancora il vertice dell’Anpi, fortunatamente contraddetto da partigiani che avevano preso parte alla Resistenza italiana. E pezzi di sinistra radicale che non digeriscono di trovarsi schierati con l’Occidente. E gli intellettuali della commissione DuPre. Nessuno che si renda conto della gravità del momento, che mostri almeno un briciolo di senso del ridicolo. I captivi: che prevalgano le regole del diritto anche sui prigionieri militari di Enrico Sbriglia L’Opinione, 6 aprile 2022 Sebbene sgomenti quanto di orribile e disumano stia accadendo in Ucraina, la comunità degli Stati non deve rinunciare, attraverso i propri governi, ad ammonire i contendenti, benché di fronte l’evidenza di uno Stato aggressore e di un altro aggredito, affinché entrambi rispettino le regole internazionali in tema di trattamento dei prigionieri di guerra, talché non si aggiungano ulteriori orrori a quelli già causati. Quello del trattamento dei prigionieri, infatti, in particolare se militari, hanno non poche volte rappresentato un’ulteriore narrazione delle guerre, rappresentando quella parte delle storie spesso nascoste, non raccontante, capaci di minare nel profondo l’autorevolezza e la stessa credibilità degli Stati chiamati in causa. Un tanto nonostante che già una delle parti, l’aggressore, abbia mostrato di disconoscere il ruolo e la competenza delle giurisdizioni internazionali, mentre l’aggredito, invece, e tale circostanza non è priva di significato, ne ha chiesto l’intervento, riconoscendone il ruolo. Emblematica, a tal proposito, è apparsa la reazione della Federazione Russa verso la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, subito preoccupatasi per il rischio di gravi violazioni dei diritti della popolazione civile, citando il diritto alla vita, la proibizione della tortura e di trattamenti inumani o degradanti e il diritto al rispetto della vita privata e familiare e ordinando di astenersi dall’attaccare civili, scuole e ospedali, sia verso la Corte Internazionale di Giustizia che aveva ordinato di “sospendere immediatamente le operazioni militari iniziate il 24 febbraio nel territorio dell’Ucraina”. Si dirà che mentre i cannoni tuonano, solo il fragore delle armi possa trovare ascolto, ma si commetterebbe un gravissimo errore, perché, comunque andranno le cose, il ricordo delle malefatte permarrà; la storia ci insegna che degli atti eroici ci si possa perfino dimenticare, ma mai delle infamie e delle barbarie: il loro ricordo, e ciò che ne deriva nell’ambito delle relazioni umane, attraversa e perfora le pareti del tempo, trovando ospitalità e perfino conforto nelle generazioni che verranno, dando progressivamente vita ad una semina e ad un raccolto di odio dagli effetti devastanti, come le bombe a scoppio ritardato, e così condizionando per anni la coesione e la pacifica convivenza delle comunità. Pur provando a comprendere come ci si possa sentire di fronte al proprio villaggio distrutto, alla propria città rasa al suolo, alle violenze perpetrate verso innocenti, vecchi, donne e bambini, verso i simboli della propria cultura, storia e patria vandalizzati, verso i saccheggi e gli stupri, occorre, pure in tali terribili contingenze, essere davvero forti e giusti, non smarrendo il senso di umanità e lo spirito di legalità. L’imporre a se stessi, infatti, il rigore della legalità, risulterà, a ben guardare, la dimostrazione di una prova agita dell’effettiva volontà di adesione al consesso degli Stati per davvero democratici; insomma, sarà una chiara testimonianza di civiltà, consentendo di agevolare anche la ripresa di qualunque negoziato di pace. Non sappiamo in quale misura le notizie diffuse dagli organi di stampa e dalle agenzie siano davvero genuine e non invece frutto dell’antica pratica della propaganda, ma se corrispondesse a verità che la Federazione Russa abbia lanciato contro l’Ucraina una moltitudine di “ragazzetti” in uniforme, che semmai, qualche ora prima della partenza, con i loro dispositivi cellulari, all’interno delle loro caserme o nelle proprie case, ascoltavano i Måneskin o tifavano per il Chelsea di Roman Abramovi?, tale circostanza ci offre l’idea della tragedia in corso. Si dice che molti dei militari russi si siano arresi, o comunque siano caduti in mano alle forze armate ucraine; ebbene sarebbe davvero significativo, dirimente, fortemente europeo che i “captivi”, i prigionieri, pur nelle evidenti difficoltà e complessità che un’aggressione bellica in atto comporti, ricevano un trattamento coerente con la Convenzione III di Ginevra, relativa al trattamento dei prigionieri di guerra (1949). Sicuramente ciò rafforzerebbe e conforterebbe l’auspicio dell’ingresso dell’Ucraina alla grande famiglia dell’Unione europea, facendola apparire ancora più meritevole di fiducia e ascolto. Un tanto anche perché quanto accaduto avrà certamente conseguenze, servendoci a tratteggiare i volti dei responsabili con tutto ciò che ne verrà. Torture e privazioni nelle carceri illegali dei separatisti filorussi del Donbass di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 aprile 2022 Ai funzionari Onu sono state negate le visite e nel documento redatto nel 2021 hanno riportato solo le testimonianze delle vittime delle violenze. Percosse, scosse elettriche, asfissia, violenza sessuale, rimozione di parti del corpo (unghie e denti), privazione di acqua, cibo, sonno o accesso a servizi igienici. Sono alcuni metodi di tortura che avvengono nelle carceri illegali create dalle autoproclamate repubbliche popolari filorusse di Donetsk e Luhansk, nella regione ucraina del Donbass. Nelle carceri del Donbass modalità simili al sistema penitenziario russo - Non parliamo della propaganda della Nato o degli Usa, ma è un documento ufficiale dell’Onu redatto nel 2021. Le modalità sono del tutto simili al sistema penitenziario della federazione Russa. Una violazione sistematica dei diritti umani compiuta sotto la supervisione occulta di Mosca, che fornisce anche denaro e armi attraverso gruppi privati russi come il Wagner, il vero braccio armato del ministero della Difesa russo. In Ucraina hanno consentito ai funzionari Onu di visitare le carceri - Premettiamo che l’Onu ha potuto monitorare anche le carceri controllate dal governo ucraino e ha potuto riscontrare alcuni maltrattamenti e abusi, tanto che - ad esempio - l’ufficio del procuratore regionale di Kharkiv ha avviato le indagini. Ma, ed è questo il punto cruciale, a differenza delle autoproclamate repubbliche popolari, il governo ucraino ha permesso ai funzionari dell’Onu di visitare le carceri così come avviene in tutti i Paesi democratici, compreso il nostro dove non di rado vengono riscontrate delle violazioni. Nel Donbass le torture verificate attraverso l’ascolto delle vittime - L’Onu ha potuto verificare le torture avvenute nelle carceri del territorio separatista esclusivamente attraverso l’ascolto delle vittime, visto che gli è stato negato l’accesso alle strutture. Le persone sentite erano state arrestate da uomini armati in passamontagna e senza nessun segno distintivo. Nella maggior parte dei casi, non è stato detto loro il motivo della detenzione. All’arresto o durante il trasporto al loro primo luogo di detenzione, molti sono stati bendati. Tenuti in isolamento senza avere la possibilità di avere un colloquio con un avvocato - Alcuni, nel momento dell’arresto, sono stati picchiati o minacciati di violenza. Il primo luogo di detenzione erano solitamente i locali del “ministero della Sicurezza dello Stato” (a Donetsk o Luhansk) o la struttura di detenzione “Izolyatsia” (a Donetsk). Sempre dal documento dell’Onu si apprende che la maggior parte di loro sono stati inizialmente detenuti in “arresto amministrativo” (nella “Repubblica popolare di Donetsk”) o “arresto preventivo” (nella “Repubblica popolare di Luhansk”) e tenuti in isolamento senza avere la possibilità di avere un colloquio con un avvocato. Alcuni non sono stati informati dei motivi della detenzione o delle “accuse” a loro carico per un periodo prolungato. Ai parenti non è stata fornita alcuna informazione, oltre alla conferma, in alcuni casi, che la persona fosse effettivamente detenuta. Nella maggior parte dei casi, le “azioni investigative” sono iniziate immediatamente dopo l’arresto, con poche eccezioni quando i detenuti hanno trascorso giorni o settimane in custodia prima che venisse intrapresa qualsiasi azione. Secondo alcuni testimoni i servizi segreti russi hanno preso parte agli interrogatori - Le “azioni investigative” comprendevano principalmente interrogatori presso il “ministero della sicurezza dello Stato” o nel centro di detenzione “Izolyatsia” oppure presso il “ministero della sicurezza dello Stato” (a Luhansk) da parte di individui che nella maggior parte dei casi nemmeno si sono identificati. Diversi detenuti testimoniano che i servizi segreti russi hanno preso parte agli interrogatori dando la percezione che fossero in una posizione di autorità. L’Onu ha riscontrato che la tortura e i maltrattamenti dei detenuti erano sistematici durante la fase iniziale della detenzione (che poteva durare fino a un anno), per poi diminuirli dopo la “confessione” e soprattutto dopo il completamento delle “indagini preliminari”. Gli interrogatori iniziati con violenze e stupri - Nella maggior parte dei casi documentati, gli interrogatori sono iniziati con violenze o stupri e minacciando anche le loro famiglie se si fossero rifiutati di confessare o di collaborare con le “indagini”. La maggior parte delle persone sentite dai funzionari dell’Onu hanno riferito di essere state sottoposte a tortura o maltrattamenti, a volte anche a violenza sessuale, per lo più durante gli interrogatori, al fine di estorcere confessioni o informazioni, nella maggior parte dei casi, sul lavoro riguardante il servizio di sicurezza ucraino (Sbu). Le torture continuavano fino a quando un detenuto non accettava di confessare - La frequenza, l’intensità e la durata delle torture e dei maltrattamenti variavano considerevolmente, tuttavia di solito continuavano fino a quando un detenuto non accettava di confessare (oralmente, per iscritto o in video) o di fornire informazioni. I metodi di tortura e maltrattamenti - come detto - includevano percosse, scosse elettriche, asfissia (bagnata e secca), violenza sessuale, tortura posizionale, rimozione di parti del corpo (unghie e denti), privazione di acqua, cibo, sonno o accesso a servizi igienici. Non solo. Le torture eseguite dai separatisti filorussi includevano anche simulazioni di esecuzioni, minacce di violenza o di morte e di danni alla famiglia. Una delle famigerate prigioni dei separatisti filorussi è quella di Izolyatsia - Per l’Onu, le testimonianze dei detenuti rilasciati indicano che torture e maltrattamenti sono stati effettuati non solo per fini punitivi, ma anche per umiliare e intimidire. Una delle famigerate prigioni dei separatisti filorussi è quello di Izolyatsia, nella autoproclamata repubblica popolare di Donetsk. Prima della rivolta del Donbass finanziata da Putin, quel carcere era una ex fabbrica diventata un centro artistico. L’associazione che si occupava del centro si è spostata a Kiev. Izolyatsia, dal 2014 è stata trasformata in una prigione, tra le più dure della regione. Il giornalista Stanislav Asseyev in prigione per avere scritto “Repubblica popolare di Donetsk” tra virgolette - Stanislav Asseyev è un giornalista ucraino che fu imprigionato in quel carcere, reo di aver scritto in un articolo “Repubblica popolare di Donetsk” tra virgolette. Come ha riportato Il Foglio nel 2021, grazie alla penna di Micol Flammini, il giornalista ucraino ha testimoniato con il suo libro “Donbass”, che durante la detenzione riusciva oramai a distinguere il tipo della tortura dalle urla dei detenuti: quando si trattava di percosse, si sentiva una successione di urla, ma quando venivano torturate con l’elettricità, era un grido costante. Durante le torture era sempre presente un medico, perché dovevano fermarsi prima dell’irreparabile. Il giornalista racconta di Izolyatsia trasformata in un luogo di tortura e anche in manicomio - Asseyev descrive anche il capo della prigione, detto Palych: un alcolizzato, un sadico che costringeva i detenuti a cantare a squarciagola canzoni sovietiche per non sentire le urla di chi veniva torturato e a violentarsi a vicenda. Il giornalista racconta di Izolyatsia trasformata in un luogo di tortura e anche in manicomio. Dopo la sua scarcerazione - avvenuta grazie a uno scambio di prigionieri -, Asseyev ha iniziato a raccontare di Izolyatsia. Dopo di lui sono state interrogate altre vittime, identificati alcuni responsabili e arrestato Palych mentre era a Kiev. Già nel 2021 per l’Onu rileva queste violazioni sono sistematiche e possono costituire crimini di guerra - Ritornando al documento dell’Onu, si evince che le carceri dei separatisti filorussi rispecchiano fedelmente le modalità dei penitenziari della federazione russa. Il carcere, si sa, è un indicatore fedele del grado di civiltà di un Paese. Oltre a ciò, l’Onu ha potuto verificare l’inesistenza di garanzie per un giusto processo. Sia il sistema penale che giudiziario è completamente privo di qualsiasi garanzie basilare nel territorio controllato dalle autoproclamate “repubbliche”. L’Onu rileva che queste violazioni, assieme a quelle registrate dal conflitto, sono sistematiche e possono costituire crimini di guerra. Ma parliamo del 2021. A tutto ciò, oggi, si aggiunge come aggravante anche la guerra scaturita dall’invasione russa. Le atrocità, quindi, si sommano a quelle già preesistenti. A Bucha il più grave crimine di guerra, finora. La Corte indaga: il miglior strumento che abbiamo di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 6 aprile 2022 Se qualcuno pensava, illudendosi, che per qualche motivo una guerra in Europa sarebbe stata meno sporca o più civile di uno dei tanti conflitti ignorati in Medio Oriente o in Africa, le immagini di Bucha stanno lì a smentirlo. A Bucha è stato commesso il più grave, finora, crimine di guerra. Un’indagine indipendente dovrà accertare le circostanze in cui sono morte le decine di civili di cui sono stati rinvenuti i cadaveri e, naturalmente, i responsabili. Tutto porta a ritenere che questi siano le forze russe. Scrivo “il più grave crimine di guerra” perché ve ne sono stati tanti altri nei 40 giorni precedenti la scoperta del massacro di Bucha e tutti, per la tipologia di armi usate e per altri elementi come la presenza delle forze russe nelle zone interessate, chiamano in causa queste ultime: attacchi con bombe a grappolo contro un asilo adibito a rifugio nell’oblast di Sumy, un giorno dopo l’invasione; bombe a caduta libera su centri abitati; la strage di 47 persone in fila per il pane nella città di Chernihiv; l’assedio contro la popolazione di Mariupol; altri attacchi con bombe a grappolo nella città di Kharkiv, soprattutto nel quartiere di Saltivka. Scopriremo tanto altro, temo. Questi atti devono essere chiamati col loro nome, crimini di guerra, e non in altro modo. Li specificano così le Convenzioni di Ginevra, architravi del diritto internazionale umanitario, che contengono le norme che regolano la condotta di guerra e che separano ciò che è legale e ciò che è illegale. Sono crimini di guerra gli attacchi deliberati e indiscriminati contro i civili, gli obiettivi civili e le infrastrutture civili; sono crimini di guerra gli attacchi sproporzionati, ossia quelli che pur intendendo colpire un obiettivo militare fanno danni ai civili superiori al vantaggio militare conseguito. Sono crimini di guerra gli stupri così come la tortura, le uccisioni e i rapimenti di civili e i trasferimenti forzati di persone da territori occupati. Sono crimini di guerra anche i trattamenti disumani dei prigionieri di guerra, in questo caso da parte delle forze ucraine nei confronti dei soldati russi catturati. Su tutto quanto accaduto finora, e su quanto presumibilmente accadrà, dovrà esserci un accertamento della giustizia internazionale, che chiami in causa i presunti autori dei crimini di guerra, ne verifichi le responsabilità ed emetta le condanne. L’indagine del Tribunale penale internazionale è già in corso così come la raccolta delle prove dei crimini di guerra: l’obiettivo dell’indagine sarà risalire lungo la catena di comando, dagli ufficiali sul terreno ai ministri competenti fino a chi, ai vertici, come minimo non avrebbe potuto non sapere. Il Tribunale penale internazionale ha mille limiti, il primo del quale è che le principali potenze non hanno aderito allo Statuto istitutivo o se ne sono ritirate. Ma è improprio considerarlo la corte dei vincitori. Ogni volta che ha provato ad allontanarsi dal terreno d’indagine consentito dai grandi interessi politici, ogni volta che non ha indagato solo sulle guerre africane ma ha voluto aprire indagini sull’Afghanistan o su Israele, sono partiti i tentativi di fermarlo. Se è singolare che a chiedere un’indagine internazionale siano proprio gli Usa, che vogliono starne al riparo per quanto riguarda l’Afghanistan, nondimeno il Tribunale è il migliore strumento della giustizia internazionale a disposizione del mondo per combattere l’impunità, che da sempre contraddistingue i dopo-guerra. Oltre ad aver promesso armi alla popolazione ucraina, sarebbe il caso di cominciare a promettere giustizia. *Portavoce di Amnesty International Italia