Attenzione: così ritornano i manicomi criminali di Stefano Anastasìa* Il Riformista, 5 aprile 2022 Internamenti non necessari o troppo lunghi. La misura di sicurezza detentiva dovrebbe essere applicata come extrema ratio, ma ciò non accade. In più, una volta entrati in una Rems, uscirne è difficile. Da qui l’ingolfamento. Va potenziata la rete dei servizi territoriali. Vive vita difficile la rivoluzione gentile che ha chiuso gli Ospedali psichiatrici giudiziari. Non certo per il lavoro e l’impegno degli operatori delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, che possono certamente rendicontare un’efficacia di trattamenti incommensurabile con lo stato di dimenticanza cui erano in gran parte destinati negli ex-manicomi criminali gli autori di reato non imputabili per incapacità di intendere e di volere al momento del fatto. No, la vita difficile della legge che fu frutto della inchiesta svolta dalla Commissione del Senato sul servizio sanitario presieduta da Ignazio Marino e della indignazione che ne seguì, prima tra tutte quella del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, è dovuta al limite di una riforma applicata in un solo segmento della complessa filiera che vede incrociarsi psichiatria e giustizia penale. È così che le Rems sono assediate da un eccesso di input e da difficoltà di output, producendo la lista di attesa di cui tanto si discute, fino alla Corte costituzionale e alla Corte europea dei diritti umani. Nonostante le indicazioni della legge, del Consiglio superiore della magistratura e di numerosi protocolli sottoscritti dalle Regioni con i capi degli Uffici giudiziari, la misura di sicurezza detentiva in Rems non è applicata secondo il principio di extrema ratio, soverchiato dall’alleanza tra le consulenze difensive dei periti (che raramente interpellano i servizi territoriali, come previsto dai protocolli d’intesa tra Regioni e Uffici giudiziari) e la giurisprudenza difensiva che, per sicurezza, associa de plano la malattia mentale alla pericolosità sociale. Da qui l’ingolfamento in ingresso nelle Rems e una parte della lista d’attesa: una capienza nazionale stimata sulla base del principio di extrema ratio deve far fronte a una domanda di internamento del tutto simile, nelle proporzioni a quella di quando gli Opg erano al massimo della loro capienza. L’altra parte della lista d’attesa è generata invece dalla difficoltà in uscita dalle Rems. Niente a che vedere con lo stato di abbandono in cui versavano gli ospiti degli Opg: le equipe Rems sono generalmente in condizione di definire il Programma terapeutico riabilitativo individuale (PTRI) entro i termini previsti di 45 giorni e nel tempo medio di 12-18 mesi sono in condizione di accompagnare il rientro dei pazienti a domicilio o in strutture non contenitive. Ma anche sull’output si riversano problemi che non sono delle Rems. Ancora una volta problemi culturali della giurisdizione, che in molti casi pretende di valutare secondo i tradizionali parametri rieducativi del penitenziario l’efficacia di trattamenti che sono esclusivamente socio-sanitari. Ma a essi si aggiungono i problemi della rete di assistenza territoriale. In qualche caso i servizi territoriali, carenti in risorse umane e finanziarie, non collaborano con le equipe Rems nella definizione del PTRI, frequentemente la rete dei servizi territoriali non è in condizione di individuare strutture di accoglienza per chi avesse bisogno di una soluzione residenziale per l’esecuzione della libertà vigilata seguente all’internamento in Rems. Questi sono i problemi delle Rems e delle liste d’attesa, aggravati dalla preponderanza di misure di sicurezza provvisorie, quando non è ancora decisa la non imputabilità dell’accusato, con il rischio di avviare un programma terapeutico che non potrà essere portato a termine, e dalla destinazione in Rems di persone che - avendo commesso il reato sotto abuso di sostanze stupefacenti - erano sì incapaci di intendere e di volere al momento del fatto, ma non erano e non sono pazienti psichiatrici, e dunque non possono avere alcun beneficio dal soggiorno in Rems. Questi, in soldoni, i problemi delle Rems, che poi non sono delle Rems, ma di tutto quello che gli gira intorno. Per affrontarli bisognerebbe circoscrivere i casi di possibile internamento, sollecitando la magistratura a una applicazione strettamente necessaria della misura dell’internamento in Rems, e potenziare la rete dei servizi territoriali, in modo da garantire sia l’assistenza in libertà vigilata in alternativa o al termine dell’internamento, sia la collaborazione con l’equipe Rems per la definizione dei piani terapeutici riabilitativi dei ricoverati. La vulgata e il senso comune pensa invece di affrontare tutto ciò aumentando i posti in Rems, acconciandosi sul loro uso non strettamente necessario e rischiando di trasformarli in nuovi piccoli Opg verso cui indirizzare tutte le persone a diverso titolo giudicate incapaci di intendere e di volere al momento del fatto o addirittura destinandovi anche le persone - perfettamente consapevoli del fatto commesso - che manifestino successivamente un disturbo psichiatrico, per i quali, invece, la Corte costituzionale sin dal 2019 ha indicato la strada delle alternative al carcere per motivi di salute. Accade così che alcune Regioni, come il Lazio, abbiano già aumentato la capienza della rete Rems, non chiudendo una Rems provvisoria al momento dell’apertura di quella definitiva che avrebbe dovuto sostituirla. E accade che il Governo decida (nel decreto energia, e cioè in evidente violazione del principio di omogeneità di materia) di assegnare nuove risorse alla Regione Liguria per aprire una nuova Rems, non già in luogo di quella provvisoria che avrebbe dovuto essere chiusa, ma accanto a essa. Peraltro: alla Regione Liguria che non ha lista d’attesa, sul presupposto che vi possano essere assegnate persone provenienti da altre regioni, in violazione del principio di territorialità del trattamento socio-riabilitativo. Ovviamente, non si discute di una scelta di investimento finanziario, che se fosse sulla rete dei servizi di salute mentale dedicati (anche) al sostegno dei malati di mente autori di reato sarebbe il benvenuto, ma la sua destinazione esclusivamente all’attivazione di una seconda Rems in un territorio che non ne ha necessità, per di più con la curiosa definizione di “Rems sperimentale”, cui non corrisponde alcuna altra previsione normativa. Se si è trattato di una svista, speriamo che il Governo voglia rimediare subito, evitando di introdurre nell’ordinamento una legittimazione di strutture di incerta qualificazione in un campo (quello della privazione della libertà) in cui nulla si può fare che non sia previsto e organicamente disciplinato per legge. Se, invece, c’è dietro una ipotesi di riforma della legislazione in materia, la si stralci e la si rimetta alla corretta competenza delle commissioni giustizia e affari sociali, nell’ambito di un provvedimento autonomo, secondo le procedure legislative ordinarie. *Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio Riforma dell’ergastolo ostativo: ecco le modifiche più importanti di Annamaria Villafrate studiocataldi.it, 5 aprile 2022 Approvato dalla Camera il testo unificato delle proposte di modifica avanzate in materia di ergastolo ostativo che estende i benefici anche a chi non collabora con la giustizia e prevede novità in materia di liberazione condizionale. La Camera dei deputati, giovedì 31 marzo ha approvato il testo unificato delle proposte di legge n. 1951, 3106, 3184 e 3315 relativo alla disciplina dell’ergastolo ostativo, materia che è oggetto di riforma da quando la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario che lo prevede e da quando la Corte di Giustizia UE ha dichiarato il contrasto della disciplina dell’istituto con l’art. 3 della Cedu. Sia la Consulta che la Corte UE hanno infatti sollecitato una riforma in materia. Vediamo quindi, in base all’analisi del testo unificato, quali sono le modifiche più importanti apportate alla disciplina dell’ergastolo ostativo attraverso la modifica dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, dell’art. 2 del dl n. 152/1991 convertito nella legge 203/1991 e dell’art. 25 della legge n. 646/1982. Benefici anche a chi non collabora con la giustizia - Le modifiche più rilevanti all’istituto dell’ergastolo ostativo iniziano dalla modifica dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario contenuto nella legge n. 354 del 1975. Il comma 1 bis viene sostituito interamente disponendo che i benefici contemplati dal comma 1 della norma, ossia l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione (così come la concessione delle attenuanti di cui all’art. 323 bis c.p.) potranno essere concesse anche ai detenuti e agli internati che non collaborino con la giustizia a condizione che: - tengano una condotta carceraria regolare; - partecipino al percorso rieducativo; - dimostrino di avere adempiuto alle obbligazioni civili e alle riparazioni di tipo pecuniario conseguenti al reato (o l’impossibilità di provvedervi); - sia dimostrata la dissociazione rispetto all’organizzazione criminale di appartenenza tale da escludere la persistenza di collegamenti con l’attività criminale, eversiva o terroristica di provenienza così come con il contesto in cui il reato è stato commesso o il pericolo di riprendere collegamenti anche indiretti e con terzi, in considerazione delle condizioni personali e ambientali del detenuto. Il giudice di sorveglianza nel valutare la concessione dei benefici accerta anche la sussistenza di iniziative del detenuto in favore delle vittime sia nella modalità risarcitoria che riparativa. Benefici premiali per delitti diversi - I benefici premiali (assegnazione al lavoro all’esterno, permessi premio e misure alternative alla detenzione) previsti dal primo periodo del comma 1 dell’art. 4 bis, precisa il nuovo periodo aggiunto al comma 1, si applicano a chi collabora con la giustizia “in caso di esecuzione di pene concorrenti inflitte anche per delitti diversi da quelli ivi indicati, in relazione ai quali il giudice della cognizione ha accertato che sono stati commessi per eseguire od occultare uno dei reati di cui al primo periodo, ovvero per conseguire o assicurare al condannato o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero l’impunità di detti reati.” I reati contemplati dal comma 1 primo periodo sono in particolare “i delitti per finalità di terrorismo, anche internazionale, di eversione dell’ordine democratico con il compimento di atti di violenza, delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis, 416-bis e 416-ter del codice penale, delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo o al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, delitti di cui agli articoli 600, 600-bis, primo comma, 600-ter, primo e secondo comma, 601, 602, 609-octies e 630 c.p., art. 12, commi 1 e 3 TU dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al dlgs n. 286/1998, art. 291-quater TU in materia doganale di cui al DPR n. 43/1973, art. 74 TU disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione degli stati di tossicodipendenza di cui al DPR n. 309/1990.” Concessione dei benefici e pareri del PM - Al comma 2 dell’art. 4 bis vengono aggiunte nuove disposizioni in cui si specifica che il giudice, prima di decidere sull’istanza per la concessione dei benefici, deve chiedere il parere: - del PM presso il giudice che ha emesso la sentenza di primo grado; - in caso di condanna per i reati di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p. del PM presso il tribunale del capoluogo del distretto in cui è stata pronunciata la sentenza di primo grado e del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Il giudice acquisisce inoltre informazioni da parte dalla direzione dell’istituto in cui l’istante è detenuto o internato e dispone, nei suoi confronti, nei confronti degli appartenenti al suo nucleo familiare e delle persone ad esso collegate, accertamenti sulle condizioni reddituali e patrimoniali, sul tenore di vita, sulle attività economiche eventualmente svolte e sulla pendenza o definitività di misure di prevenzione personali o patrimoniali. Pareri, informazioni ed esiti degli accertamenti sono resi entro 30 giorni dalla richiesta. Il termine può essere però prorogato di ulteriori trenta giorni in ragione della complessità degli accertamenti. Decorso il termine, il giudice decide anche in assenza dei pareri e delle informazioni richiesti. Nell’ipotesi in cui, dai suddetti accertamenti emergano però collegamenti del soggetto con la criminalità organizzata, terroristica ed eversiva o con il contesto nel quale il reato è stato commesso, o sussiste il pericolo del ripristino di tali collegamenti, il condannato è onerato dal fornire prove contrarie al riguardo. Liberazione condizionale e art. 4 bis legge 354/1975 - I condannati per i delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1quater dell’art. 4-bis della legge n. 354/1975, possono essere ammessi alla liberazione condizionale solo se ricorrono i relativi presupposti previsti dallo stesso art. 4-bis commi 2, 2 bis e ter. Fermi restando poi i requisiti e i limiti di pena di cui all’art. 176 c.p. ai fini della concessione della liberazione condizionale e fatto salvo quanto previsto dall’art. 8 della legge n. 304/1982 (che prevede il riconoscimento della liberazione condizionale al detenuto che durante l’esecuzione della pena tenga un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento), i soggetti condannati al 4 bis “non possono comunque essere ammessi alla liberazione condizionale se non hanno scontato almeno due terzi della pena temporanea o almeno trenta anni di pena, quando vi è stata condanna all’ergastolo per taluno dei delitti indicati nel comma 1 dell’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354.” Clamoroso alla Camera: oggi si inizia a votare sulla riforma del Csm di Valentina Stella Il Dubbio, 5 aprile 2022 Si parte finalmente con l’esame degli emendamenti. Sì di Cartabia alla stretta di Costa sui “pm temerari”. Incredibile ma vero: stamattina finalmente la commissione Giustizia della Camera sarà in grado di iniziare a votare il testo di riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm. “Abbiamo i pareri del governo su 11 proposte emendative presentate dai gruppi al testo approvato in Consiglio dei ministri”, ha detto il presidente della commissione Mario Perantoni, deputato del M5S. Intanto ieri si è tenuto un nuovo incontro tra la ministra Marta Cartabia e i capigruppo Giustizia di maggioranza, inclusi alcuni senatori. Non si è andati “ad oltranza” come aveva prospettato la guardasigilli: rompete le righe nel primo pomeriggio, con i nodi principali ancora irrisolti, a partire dal “sorteggio temperato”, sostenuto da FI, Lega e Iv. Sul tavolo c’è un altro tipo di sorteggio, quello sulla formazione dei collegi elettorali, proposto da alcuni deputati leghisti. Potrebbe essere il punto di partenza per oggi: ci si riunirà nuovamente alle 9, quindi dovrebbe esserci il voto. Bisogna correre, la riforma è stretta da tre scadenze: il 19 aprile è calendarizzato l’esame in Aula (dopo che sono saltate le precedenti date del 28 marzo e dell’11 aprile), il 12 giugno c’è il voto sui referendum ma, soprattutto, agli inizi di luglio si dovrebbero tenere le elezioni del Csm. A premere sull’acceleratore è stato per l’ennesima volta il Capo dello Stato Sergio Mattarella, che, qualche giorno fa, a proposito del Csm ha ribadito: “È necessario, e di grande urgenza, approvare nuove regole per il suo funzionamento, affinché la sua attività possa pienamente mirare a valorizzare le indiscusse professionalità di cui la magistratura è ampiamente fornita”. E in vista dell’obiettivo, ha detto ieri Perantoni, “è evidente che occorre ancora un supplemento d’impegno da parte di tutti, per risolvere le criticità aperte e chiudere rapidamente il lavoro in commissione: l’approdo in aula è previsto per il 19 e non sono pensabili ulteriori rinvii”. La maggioranza intanto ha condiviso, col parere favorevole di Cartabia, due emendamenti del deputato e vicesegretario di Azione Enrico Costa. Il primo riguarda una nuova sanzione per il pm che induce l’emissione di un provvedimento restrittivo della libertà personale fuori dei casi previsti dalla legge, omettendo di trasmettere al giudice, per negligenza grave ed inescusabile, elementi rilevanti ai fini della decisione. L’altro prevede l’istituzione del fascicolo informatico di performance del magistrato, fortemente auspicato anche dall’Unione Camere penali, che contiene, tra l’altro, per i pm, l’indicazione dei procedimenti loro assegnati, i tempi di definizione, l’esito con particolare riferimento alla percentuale di assoluzioni, la percentuale di accoglimento delle richieste di rinvio a giudizio e di quelle di misure cautelari, il numero delle assoluzioni impugnate e confermate nel grado successivo, il numero di ingiuste detenzioni su misure cautelari richieste. Il vicesegretario di Azione ha dichiarato: “Nella riunione di maggioranza il clima è stato costruttivo: c’è la consapevolezza comune che non si può approdare a una riforma timida. Da parte nostra abbiamo evidenziato lo spirito degli emendamenti presentati da Azione, finalizzati a colpire i vizi capitali del sistema: il correntismo, i passaggi dalle funzioni di pm a giudice, disciplinare che fa acqua, magistrati tutti promossi, responsabilità civile senza responsabili, porte girevoli con la politica, una miriade di fuori ruolo”. Anche per il 5S Eugenio Saitta “il clima è stato costruttivo”. Ma a rompere la serenità del post incontro con la guardasigilli ha provveduto il deputato di Italia Viva Cosimo Ferri, da qualche giorno finito nel mirino di AreaDg: “Iv non è soddisfatta dell’incontro”, ha detto il magistrato in aspettativa, “non ci sono per ora grandi aperture, non sono stati risolti i nodi cruciali della riforma, come sorteggio temperato e fuori ruolo. Sulle porte girevoli si vogliono tutelare solo alcune posizioni amministrative che hanno in realtà ruoli politici significativi. Sui fuori ruolo si vogliono limitare solo i magistrati ordinari e non quelli amministrativi. Dalla ministra ci sono state poche aperture”, ha aggiunto Ferri, “molte di forma e poche di sostanza. Domani (oggi, ndr) si affronterà il tema del sorteggio temperato. Ci diranno che è incostituzionale, quando la stessa Anm ha indetto un referendum votato da quasi duemila magistrati. Italia Viva ritiene che per una riforma così importante non si possa andare avanti con la fiducia. Fin dall’inizio, con chiarezza, Iv ha chiesto di garantire la lettura al Senato”. Riforma del Csm, il fascicolo sul rendimento deciderà la carriera di ogni magistrato di Liana Milella e Conchita Sannino La Repubblica, 5 aprile 2022 La ministra Cartabia accoglie la proposta di Azione sulla valutazione delle toghe. Critici Anm e Pd: “Una schedatura irragionevole”. Un “fascicolo” per ogni magistrato. Che conterrà la sua vita professionale. Se è un pm anche gli arresti che ha chiesto. Nonché il tempo che ha impiegato per adottare un provvedimento. E il destino che hanno avuto le sue decisioni, per esempio se ha perso i processi nei vari gradi di giudizio. “È una norma meritocratica che premia i più bravi” dice il vice segretario di Azione, Enrico Costa, che l’ha proposta, e che ieri ha ottenuto il via libera della Guardasigilli Marta Cartabia. Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, non ci vuol credere: “È irragionevole. Porterà a un magistrato che per prima cosa pensa alla sua carriera e non alla giustizia. Non serve a combattere il carrierismo, ma peggiora la situazione”. Durante il vertice di maggioranza sulla riforma del Csm - che prosegue anche oggi - il Dem Walter Verini e Cosimo Maria Ferri di Italia (sì, c’era anche lui) usano le stesse parole per definirla”una schedatura”. E dunque la nuova legge sul Csm riserverà pure questa sorpresa. Un emendamento che nasce con Costa e viene riscritto dall’ufficio legislativo di via Arenula: “Prevedere l’istituzione del fascicolo per la valutazione del magistrato, contenente per ogni anno di attività i dati statistici e la documentazione necessaria per valutare il complesso dell’attività svolta sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo, la tempestività nell’adozione dei provvedimenti, la sussistenza di caratteri di significativa anomalia in relazione all’esito degli affari nelle successive fasi o nei gradi del procedimento o del giudizio”. A questo si aggiungerà l’esito delle misure cautelari emesse. Insomma, per citare Costa, “se un pm vede cadere un arresto pazienza, ma se ne cadono venti allora ciò deve incidere sulla sua carriera”. Santalucia è del tutto basito. “È una follia. L’Anm ha criticato le pagelle, con discreto, buono, ottimo. Così si stimola un’ansia di carriera che andrebbe spenta e sopita, mentre il legislatore va proprio nella direzione opposta”. Ma tant’è, la proposta Costa passa. Lui ha contestato “quel 99% di valutazioni positive che mette tutti sullo stesso piano, bravi e non bravi, per cui poi sono le correnti a decidere le carriere”. Cartabia ha proposto una verifica “a campione”. Il M5S ha detto di no. Ora ci sarà il “fascicolo” e pure una sanzione disciplinare per chi ha emesso un ordine di carcerazione “al di là dei presupposti di legge, omettendo di trasmettere al giudice, per negligenza grave e inescusabile, gli elementi rilevanti ai fini della decisione”. Resta pure l’illecito disciplinare se la toga parla e viola la legge sulla presunzione d’innocenza. Oggi la lunga no-stop di Cartabia affronta il sorteggio come legge elettorale (lo vogliono Iv e Fi), o in alternativa il sorteggio dei collegi (lo chiede la Lega). Ieri c’era di nuovo Cosimo Maria Ferri, deputato di Iv, ma tuttora toga sotto processo disciplinare al Csm per i fatti dell’hotel Champagne. Per le toghe di Area “un conflitto d’interessi”. Ferri boccia Cartabia “su sorteggio e fuori ruolo”. E proprio sui fuori ruolo - varrà per tutti, magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari - palazzo Chigi, con il vice capo degli Affari legislativi Angelo Venturini, boccia la stretta su toghe che svolgono anche altri ruoli. Cartabia però conta di chiudere come ha fatto sui criteri rigidi per gli incarichi direttivi. Nonché sul passaggio da pm a giudice e viceversa. Contro la Lega che vuole tutelare il referendum del 12 giugno, la ministra dimostra con le sentenze della Cassazione che si piò decidere ora quante volta si può cambiare casacca. Due, forse una. “Porte girevoli”, l’alt di Palazzo Chigi. Ma sulla giustizia si continua a trattare di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 5 aprile 2022 Cosimo Ferri, giudice-deputato coinvolto con Luca Palamara nelle trame dell’Hotel Champagne per pilotare la nomina del procuratore di Roma del 2019, che come se niente fosse partecipa per conto del partito di Matteo Renzi alle trattative per la riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario - esprime l’insoddisfazione di Italia viva perché non vede “grandi aperture” su temi che ritiene cruciali. E all’improvviso, a frapporre un nuovo ostacolo su una strada già in salita, arriva un rappresentante del Dipartimento affari giuridici di Palazzo Chigi, opponendosi al trattamento paritario tra magistrati ordinari e amministrativi sulle cosiddette “porte girevoli” tra toghe e politica. Poi ci sono le posizioni dei partiti che restano distanti su altri punti, ma nonostante tutto il dialogo prosegue, e nella riunione di ieri tra la ministra della Giustizia Marta Cartabia e le forze della maggioranza sono stati fatti passi avanti. Sui primi articoli della riforma è stato raggiunto un sostanziale accordo, in modo che la commissione della Camera possa cominciare a votare, in vista della discussione in Aula fissata per il g aprile. Per stamane è fissato un nuovo incontro, dove si dovrebbe affrontare il nodo più importante e divisivo: il sistema elettorale del Csm. Nel vertice di ieri è stato il rappresentante della presidenza del Consiglio a sostenere che il periodo di “decantazione” prima di riprendere le funzioni giurisdizionali per chi partecipa al governo con funzioni apicali (capo o vicecapo di gabinetto dei ministeri, o direttore di qualche ufficio) non può valere allo stesso modo per i magistrati ordinari e quelli amministrativi o contabili. Ma su questo i partiti compatti la pensano diversamente, il trattamento dev’essere uguale per le toghe di ogni categoria; non a caso le remore non sono venute da Cartabia, che sta cercando un difficile accordo con tutte le sue forze, bensì da palazzo Chigi. Dove attualmente lavorano diversi giudici del Tar o del Consiglio di Stato, a cominciare dal sottosegretario Roberto Garofoli. Le riserve non sono legate a questioni personali ma di diritto, tuttavia i partiti non sembrano intenzionati a raccoglierle. Un fascicolo per le toghe “Si vogliono tutelare solo alcune posizioni amministrative che hanno in realtà ruoli politici significativi”, protesta Ferri, che su questo punto è d’accordo con i rappresentanti degli altri partiti. Su altri invece no. Enrico Costa, di Azione, ha ottenuto che nel “fascicolo del magistrato” vengano inseriti gli atti di tutte le sue attività, in modo che si possano dedurne i tempi di trattamento dei processi, gli esiti dei procedimenti e altri elementi utili alla valutazione. Ferri era contrario. Altra novità sollecitata da Costa: prevedere una possibile sanzione disciplinare se un pm richiede una misura cautelare omettendo di valutare “per dolo o colpa grave” elementi rilevanti a discolpa dell’indagato. Csm e funzioni - Sul sistema elettorale il centrodestra spalleggiato da Italia viva insiste per ottenere il “sorteggio” dei candidati da sottoporre al voto per scegliere i componenti togati, ma di fronte all’intransigenza della ministra che lo considera incostituzionale va trovata una mediazione. Quella dell’estrazione dei collegi elettorali (proposta da un sub- emendamento leghista) sembra per il momento accantonata, ma nella riunione di ieri è sembrato che il muro eretto finora soprattutto da Forza Italia possa incrinarsi. La decisione deve arrivare dai vertici del partito (Berlusconi, Tafani e l’esperto del settore Niccolò Ghedini) ma il sottosegretario alla Giustizia forzista Paolo Sisto ha parlato ieri di “ragionevole ottimismo e clima di collaborazione”. Un possibile “scambio” per sbloccare la trattativa potrebbe arrivare se sulla separazione delle funzioni tra giudici e pubblici ministeri venisse fatto un altro passo avanti nella direzione chiesta dal partito azzurro. La legge in vigore prevede la possibilità di quattro passaggi durante un’intera carriera (in distretti diversi), la riforma Cartabia li riduce a due, Forza Italia ne vuole solo uno. Il Pd, contrario a una distinzione che realizzerebbe di fatto una separazione delle carriere, potrebbe accettare se però non venisse conteggiata la scelta iniziale legata alla prima sede. Se ne parlerà ancora, anche perché ieri la ministra ha chiarito - dopo ulteriori verifiche sulle pronunce della Cassazione - che una modifica di questo tipo non invaliderebbe il referendum fissato per il 12 giugno che invece chiede di abolire del tutto il passaggio da una funzione all’altra. Maratona giustizia di Ermes Antonucci Il Foglio, 5 aprile 2022 Vertici a oltranza tra Cartabia e maggioranza sul Csm. Problema Forza Italia Roma. Si allungano ancora i tempi del confronto interno alle forze di maggioranza sulla riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario. Nella riunione tenutasi ieri mattina tra la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, e i capigruppo di maggioranza in commissione Giustizia della Camera non sono stati discussi i temi più divisivi, in particolare quelli relativi al metodo elettorale del Csm e la responsabilità civile dei magistrati. La riunione riprenderà questa mattina, ma fonti parlamentari non escludono che l’esame dei nodi più complessi possa slittare ancora una volta. A dividere governo e maggioranza è soprattutto il sistema elettorale da adottare per il Csm, il cui rinnovo è previsto per luglio. Rappresentanti di Forza Italia, Lega e Italia Viva hanno confermato che non intendono rinunciare alla proposta del sorteggio temperato, che però viene ritenuta incostituzionale dalla Guardasigilli. Solo l’inserimento di un elemento di imprevedibilità nell’elezione dei componenti togati del Csm, si sostiene, potrebbe attenuare il pericolo di influenza da parte delle correnti nelle procedure elettorali. Il sistema ideato da Cartabia, maggioritario con correttivo proporzionale, viene ritenuto insoddisfacente. A insistere è soprattutto Fi, mentre Lega e Iv appaiono più disponibili al compromesso. Nel fine settimana si è avuta conferma che è Silvio Berlusconi a guidare in modo attivo la partita di Fi, facendo diramare un comunicato stampa molto chiaro: “Forza Italia considera irrinunciabili la separazione delle funzioni e la riforma del sistema elettorale del Csm. Il governo eviti lo scontro ricorrendo al voto di fiducia”. “Sosteniamo il governo e saremo leali con Draghi. Ma dobbiamo esserlo anche con i nostri elettori”, ha ribadito il vicepresidente di Fi, Antonio Tajani, in un’intervista al Corriere della Sera, chiedendo al governo di non mettere la fiducia sulle riforme della giustizia e del catasto. Subito dopo, però, Tajani ha rilanciato la proposta del “metodo del sorteggio temperato” per “abolire il sistema delle correnti”, proprio il sistema ritenuto incostituzionale - e dunque irricevibile - da Cartabia. Insomma, sulla riforma del Csm Forza Italia non intende fare passi indietro, muovendosi in una logica da campagna elettorale, anche se ciò dovesse significare far saltare il tavolo dei negoziati. Un inatteso tentativo di mediazione è invece giunto da un gruppo interno alla Lega, capitanato da Giulia Buongiorno, responsabile giustizia del Carroccio. Il gruppo leghista ha presentato un emendamento che prevede di sorteggiare non i candidati ma i collegi elettorali. L’idea non sembra al momento convincere né gli alleati di coalizione (Fi in testa) né quelli di governo (Iv e Azione), ma offre una nuova (paradossale) immagine della Lega, almeno sul terreno della giustizia, più aperta alla mediazione e al senso di responsabilità rispetto persino al partito di Berlusconi. Partito democratico e Movimento 5 Stelle intendono invece sostenere fedelmente la proposta Cartabia, non solo sul metodo di elezione del Csm (i grillini sembrano ormai aver abbandonato la proposta originaria del sorteggio), ma anche su altri aspetti cruciali, come il limite massimo di passaggi tra le funzioni di giudice e pm (dimezzato da quattro a due dal progetto Cartabia, ma che le forze di centrodestra vorrebbero ridurre ulteriormente) e il no a qualsiasi intervento sulla responsabilità civile dei magistrati (su cui invece insiste Azione). L’esame della riforma è stato calendarizzato per l’aula della Camera il 19 aprile. Alla fine, la soluzione potrebbe consistere in una modifica del meccanismo elettorale proposto dalla Cartabia che intervenga sulla parte del recupero proporzionale dei seggi. Una volta raggiunto l’accordo, però, non saranno ammessi ulteriori ritardi. Tradotto: approvato alla Camera, il testo sarà blindato al Senato con un voto di fiducia. Ferri: “Da Area un’interferenza violenta: forse qualcuno teme che passi il sorteggio” di Simona Musco Il Dubbio, 5 aprile 2022 Il deputato di Italia Viva replica alle accuse delle toghe di Area: “Svolgo il mio ruolo di parlamentare per cui sono stato eletto e sono componente della Commissione giustizia: ho titolo per occuparmi di queste riforme”. “Un’invadenza gravissima”. Replica così il deputato di Italia Viva Cosimo Ferri ai magistrati di AreaDg, che nei giorni scorsi hanno contestato la sua presenza al tavolo della riforma del Csm. Per le toghe di sinistra, si tratterebbe infatti di un conflitto di interessi, dato il procedimento disciplinare in corso davanti al Csm e che vede protagonista proprio Ferri, magistrato in aspettativa e tra i presenti alla cena all’Hotel Champagne, genesi dell’affaire Palamara. “Chiederò al presidente della Camera Roberto Fico di tutelare le prerogative parlamentari - racconta al Dubbio -. Sono a quel tavolo perché legittimato a farlo, in quanto parlamentare eletto dal popolo e componente della Commissione giustizia. Forse a qualcuno fa paura che si possa arrivare a introdurre il sorteggio temperato: quello davvero romperebbe tanti equilibri e schemi…”. Sia le toghe di AreaDg, sia il dottor Violante, pure senza fare il suo nome, hanno stigmatizzato la sua presenza al tavolo della trattativa sulla riforma del Csm, contestando un conflitto di interesse. Per quale motivo ritiene che tale posizione sia infondata? Per quanto riguarda il Presidente Violante, è stato un autorevole magistrato e legittimamente è stato eletto in Parlamento, ricoprendo anche il ruolo di presidente della Camera, conosce certamente meglio del sottoscritto le garanzie costituzionali e le prerogative parlamentari e non mi permetto di ricordargliele. Ha vissuto stagioni molto più delicate di quelle attuali nei rapporti tra magistratura e politica. Per quanto riguarda il comunicato di Area, trovo sconcertante che il segretario, il dottor Albamonte, si sia preoccupato della mia presenza in una riunione politica di maggioranza e si sia sentito legittimato a sindacare il mio ruolo di parlamentare eletto dal popolo. È singolare, inoltre, che sia a conoscenza della data d’udienza fissata dalla Corte costituzionale relativa al conflitto di attribuzione sollevato dal Csm nei confronti della Camera dei Deputati, data che il sottoscritto, seppur indirettamente interessato, non conosceva e che ha appreso proprio da lui. Non so come l’abbia saputo e perché sia informato. A indignare Area il fatto che lei fosse tra le persone presenti alla cena all’Hotel Champagne, che viene indicata come l’inizio della crisi alla quale ora la riforma dovrebbe porre rimedio. Non crede possa porsi un problema di opportunità? Assolutamente no! Svolgo il mio ruolo di parlamentare per cui sono stato eletto e sono componente della Commissione giustizia dall’inizio della legislatura e ho titolo per occuparmi di queste riforme. Una delle richieste principali è quella di introdurre nel nuovo sistema elettorale il sorteggio temperato, di cui si parla da anni e lo chiede una buona parte della magistratura. Sul punto è stato indetto dall’Anm un referendum e hanno votato a favore circa 2mila magistrati. Chi conosce le dinamiche interne alla magistratura si è fatto un’idea chiara e ha compreso la verità sul correntismo e sulle sue dinamiche. Sulle chat di Palamara si è voluto guardare solo da una parte. Hanno coinvolto anche persone che oggi ricoprono incarichi di prestigio e che sono rimaste ai loro posti e addirittura alcuni sono stati promossi. Forse per questo c’è il timore che venga introdotto il sorteggio temperato, perché solo con un vero cambiamento si romperebbero tanti equilibri e schemi. La riforma in discussione può effettivamente influire sul procedimento disciplinare a suo carico? Assolutamente no, la riforma Cartabia non c’entra nulla con il merito del mio disciplinare. Tra le contestazioni mosse dalla stampa nei giorni scorsi il fatto che al tavolo non ci fossero i responsabili giustizia del suo partito: cosa ha motivato questa scelta? Ci sono state obiezioni da parte degli altri partiti?A me non risulta, chi lo pensa può dirlo apertamente, io non mi sono mai permesso di sindacare le delegazioni degli altri partiti. Per quanto riguarda Italia Viva alla Camera, come componenti della Commissione giustizia ci confrontiamo e stiamo lavorando con serietà e nell’interesse dei cittadini. Vogliamo migliorare la risposta di giustizia. Abbiamo chiesto anche alla ministra di licenziare i decreti delegati della riforma della giustizia penale e civile già approvate dal Parlamento. Sosteniamo con convinzione il Governo e condividiamo la sensibilità del presidente Draghi di non mettere la fiducia sulla riforma Cartabia. Seguendo questa indicazione, abbiamo chiesto alla ministra della Giustizia e al ministro D’Incà di garantire la lettura in Senato. Non vogliamo scorciatoie e il Senato deve giustamente lavorare autonomamente. Lei ha contestato ad AreaDg di aver invaso il campo della politica: come inquadra questo atteggiamento? E come risponde a chi dice che la politica vuole rivalersi sulla magistratura? Un’invadenza di una corrente della magistratura sull’attività politica che ritengo gravissima, anche perché il sottoscritto è pienamente legittimato a stare a quel tavolo e a svolgere il ruolo di legislatore che riconosce la Carta costituzionale. Si tratta di garantire il giusto equilibrio tra poteri dello Stato, non mi permetterei, come parlamentare, di sindacare le riunioni a cui partecipi un magistrato di Area all’interno del suo ufficio. Per completezza, aggiungo che a queste riunioni di maggioranza partecipano anche magistrati fuori ruolo che accompagnano la ministra e nelle riunioni si discute anche di modifiche alla disciplina dei fuori ruolo, ma non per questo ho mai messo in dubbio la correttezza e l’onestà intellettuale del loro operato, pur appartenendo alcuni a ben precise correnti della magistratura. Ritengo peraltro che gli apporti tecnici che i magistrati danno all’esecutivo sono contributi rispettabili al pari di quelli in sede legislativa. Guardiamo avanti e cerchiamo tutti di contribuire con il nostro patrimonio ad arricchire il dibattito. Ha annunciato di voler scrivere al presidente Fico: cosa gli chiederà e cosa si aspetta da lui? Chiederò al Presidente di tutelare le prerogative parlamentari, di difendere il nostro ruolo perché non è ammissibile una interferenza così violenta in un ruolo strettamente politico. Quali sono le novità al tavolo della riforma? La riforma non riguarda solo il sistema elettorale del Csm ma anche altri punti: il voto degli avvocati nei Consigli giudiziari per la valutazione dei magistrati, i passaggi di funzioni, gli incarichi dei magistrati fuori ruolo, la loro durata, le cosiddette porte girevoli tra incarichi politici e ruolo del magistrato. Io penso però che, in linea con quanto richiesto dall’Europa, occorra andare spediti con la riforma della giustizia penale e civile, che ritengo una priorità per il Paese e per consentire di rispettare i tempi di realizzazione del Pnrr. Non mi sembra che la riforma del Csm possa risolvere i problemi della giustizia e dei cittadini. Ben venga una riforma ma che sia davvero innovativa e coraggiosa e non scritta dalle correnti. Senza l’introduzione del sorteggio temperato non cambierà niente. Ne sono certo. E sarà l’ennesima occasione persa per la politica. Comunicare la civiltà del diritto: la sfida più ardua della Consulta di Errico Novi Il Dubbio, 5 aprile 2022 Abbiamo un deficit di cultura costituzionale. Non da ora, non solo nella politica: è una patologia civile poco conosciuta in altri Paesi del mondo progredito. Da decenni la Corte costituzionale si impegna per colmare il vuoto. Impresa non facile. Certo è che il giudice delle leggi agisce con uno stile diverso rispetto ad altri protagonisti, anche di ispirazione garantista, del dibattito pubblico. A voler semplificare, si può dire che la Corte non si intromette nella contesa coi giustizialisti. Ricorre a un tono persuasivo ma persino dolce, comprensivo della distanza fra i cittadini e la Carta. Può funzionare, in un contesto ancora esasperato dal conflitto sulla giustizia, e in generale sui valori della convivenza civile (le diffidenze coltivate durante la pandemia nei confronti delle istituzioni sono l’esempio più lampante)? Di sicuro è una traccia che resta, e che il dibattito non può ignorare. E la Consulta accresce i propri sforzi per veicolare il messaggio. Giovedì prossimo il presidente Giuliano Amato terrà la consueta relazione sull’attività della Corte, dinanzi al Capo dello Stato e ai giornalisti, alle cui domande risponderà nella successiva conferenza stampa, il tutto in diretta Rai. Già da venerdì scorso è disponibile in varie forme, anche on line, l’Annuario 2021 della Consulta. Iniziativa alla seconda edizione: contiene un bilancio illustrato, con infografiche e rimandi multimediali, sull’attività svolta, e un’ampia intervista ad Amato, disponibile in formato testo, video e podcast. Ennesima prova della determinazione di Palazzo della Consulta nel rivolgersi verso una platea il più ampia e trasversale possibile, a cominciare dai giovani: tra l’altro l’annuario riferisce anche degli incontri fra i giudici costituzionali e la scuola, oltre che dell’attività divulgativa realizzata attraverso i podcast. Amato ricorda che “sulla fiducia nel dialogo, nel confronto degli argomenti e dei valori si fonda la civiltà che la nostra Costituzione, insieme ad altre, ha contribuito a costruire in Europa sulla base della forza del diritto”. Le decisioni assunte dalla Corte per assicurare coerenza fra leggi e principi sono appunto un architrave di questa civiltà. Resta quell’interrogativo: promuovere questa decisiva funzione può favorire il recupero di una cultura dei diritti? Si può dire che, con i propri messaggi, la Consulta offre un riferimento di valori al dibattito pubblico. Poi però è la politica che deve scuotersi dalle scorciatoie demagogiche. Se e quando decidesse davvero di farlo, troverà una sponda anche nell’attività di promozione dei diritti che la Consulta svolge in forme sempre più “aperte”. Proprio ieri, tra l’altro, l’ufficio Comunicazione della Corte costituzionale ha inaugurato sul proprio sito una pagina “Per i media” su cui ci sono informazioni e materiali utili ai giornalisti. Ma la Corte è fatta dagli uomini, cioè dai suoi giudici. E Amato è un presidente diverso da altri. Si è esposto nel difendere scelte recenti e delicate, come lo stop al referendum sulla responsabilità dei giudici, e quindi anche a numerose critiche. Ma la sua abitudine ad occupare il centro della scena gli assicura un’immediatezza forse unica. Nell’intervista che introduce l’Annuario 2021, Amato così spiega la concessione al Parlamento di un “extended time” per regolare con nuove leggi questioni sottoposte al vaglio della Corte: “L’aumento dei nostri moniti è legato proprio alla crescente complessità delle situazioni che ci vengono sottoposte: le disfunzioni legate alla legislazione esistente ovvero il cambiamento sociale rispetto alla legislazione esistente portano i giudici a leggere in questa tratti contrari ai principi o ai diritti garantiti dalla Costituzione. E i giudici rimettono a noi la questione. È evidente che quando la decisione della Corte non può, da sola, risolvere il problema, i casi che arrivano davanti a noi diventano segnali destinati ad essere raccolti dal Parlamento”. Ecco l’abilità di spiegare con chiarezza una scelta tecnica non facilmente leggibile dai profani. Quando c’è la sostanza, anche le forme di comunicazione innovative sono più agevoli. Processo Cucchi, la Cassazione: 12 anni ai due carabinieri di Francesco De Felice Il Dubbio, 5 aprile 2022 Ridotta di un anno la pena inflitta in appello ad Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. “Fu omicidio preterintenzionale”. Ilaria Cucchi: “Giustizia è stata fatta”. Appello bis per Mandolini e Tedesco, accusati di falso. Dodici anni di reclusione per omicidio preterintenzionale ai carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro in relazione al pestaggio subito da Stefano Cucchi la sera del 15 ottobre 2009 nella caserma della compagnia Casilina. Lo ha deciso la quinta sezione penale della Cassazione dopo 5 ore di camera di consiglio, riducendo quindi di un anno la pena inflitta loro in appello. Riduzione dovuta alla decisione della Suprema Corte di annullare senza rinvio la sentenza d’appello (con la quale erano stati inflitti loro 13 anni) limitatamente al punto in cui aveva escluso le attenuanti generiche. Nuovo processo invece per Roberto Mandolini e Francesco Tedesco, i due carabinieri accusati di falso. Quattro anni erano stati inflitti in appello al maresciallo Roberto Mandolini, per aver coperto quanto accaduto, e due anni e mezzo a Francesco Tedesco che, inizialmente imputato per il pestaggio, durante il processo di primo grado aveva denunciato i suoi colleghi diventando un teste chiave dall’accusa. I reati andranno prescritti a maggio. Ora, dopo il deposito delle motivazioni della Cassazione, che stasera ha annullato con rinvio la sentenza d’appello nei loro confronti, gli atti relativi alle loro posizioni saranno trasmessi di nuovo alla Corte d’assise d’appello della Capitale che, in diversa composizione, dovrà riesaminarli. “A questo punto possiamo mettere la parola fine su questa prima parte del processo sull’omicidio di Stefano. Possiamo dire che è stato ucciso di botte, che giustizia è stata fatta nei confronti di coloro che ce l’hanno portato via. Devo ringraziare tante persone, il mio pensiero in questo momento va ai miei genitori che di tutto questo si sono ammalati e non possono essere con noi, va ai miei avvocati Fabio Anselmo e Stefano Maccioni e un grande grazie al dottor Giovanni Musarò che ci ha portato fin qui”, ha commentato la sorella Ilaria Cucchi. “Finalmente è arrivata giustizia dopo tanti anni almeno nei confronti di chi ha picchiato Stefano causandone la morte”, le parole di Rita Calore, madre di Stefano Cucchi, riportate dal suo legale Stefano Maccioni. Nelle motivazioni della sentenza dello scorso 7 maggio - con cui sono stati condannati a 13 anni per omicidio preterintenzionale i due carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro - i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Roma hanno parlato di un’aggressione “ingiustificata e sproporzionata”. “La vittima è colpita con reiterate azioni ingiustificate e sproporzionate - hanno scritto i giudici -, rispetto al tentativo dell’arrestato di colpire il pubblico ufficiale con un gesto solo figurativo inserito in un contesto di insulti reciproci inizialmente intercorsi dal carabiniere Di Bernardo e l’arrestato, che, nel dato contesto esprime il semplice rifiuto di sottoporsi al fotosegnalamento”. Per i giudici di Appello “può ritenersi accertata la sproporzione tra l’alterco insorto tra Di Bernardo e Cucchi rispetto alla portata dell’aggressione da quest’ultimo patita alla quale partecipò D’Alessandro”. “Le violente modalità con cui è stato consumato il pestaggio ai danni dell’arrestato, gracile nella struttura fisica, esprimono una modalità dell’azione che ha trasnodato la semplice intenzione di reagire alla mera resistenza opposta dall’arrestato alla esecuzione del fotosegnalamento”, si legge nella sentenza. In secondo grado è stato condannato inoltre a quattro anni per falso il carabiniere Roberto Mandolini ed è stata confermata la condanna per lo stesso reato a due anni e mezzo per Francesco Tedesco, il militare che con le sue dichiarazioni ha fatto luce sul pestaggio avvenuto nella caserma Casilina la notte dell’arresto. In primo grado, il 14 novembre 2019 la prima Corte d’Assise di Roma aveva condannato a 12 anni di carcere i due carabinieri accusati del pestaggio, Di Bernardo e D’Alessandro riconoscendo che fu omicidio preterintenzionale, come sostenuto dal pm Giovanni Musarò. Era stato assolto invece “per non aver commesso il fatto” per questa accusa Francesco Tedesco. Per lui era rimasta la condanna a due anni e mezzo per falso. Per la stessa accusa era stato condannato a tre anni e otto mesi il maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti comandante della stazione Appia. Il processo sui depistaggi - In settimana, giovedì, è attesa anche la sentenza del processo sui presunti depistaggi sul caso, che vede imputati altri otto carabinieri accusati, a vario titolo, di reati che vanno dal falso, all’omessa denuncia, la calunnia e il favoreggiamento: si tratta del generale Alessandro Casarsa, che nel 2009 era alla guida del gruppo Roma, il colonnello Lorenzo Sabatino, ex capo del Reparto operativo della capitale, Massimiliano Labriola Colombo, ex comandante della stazione di Tor Sapienza, dove Cucchi venne portato dopo il pestaggio, Francesco Di Sano, che a Tor Sapienza era in servizio quando arrivò il geometra, Francesco Cavallo all’epoca dei fatti capufficio del comando del Gruppo carabinieri Roma, il maggiore Luciano Soligo, ex comandante della compagnia Talenti Montesacro, Tiziano Testarmata, ex comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, e il carabiniere Luca De Ciani. I fatti - Stefano Cucchi venne arrestato 15 ottobre del 2009 in via Lemonia, a ridosso del parco degli Acquedotti, perché sorpreso con 28 grammi di hashish e qualche grammo di cocaina. La mattina successiva, nell’udienza del processo per direttissima, il 31enne aveva difficoltà a camminare e parlare e mostrava evidenti ematomi agli occhi e al volto che non erano presenti la sera prima. Venne rinchiuso nel carcere di Regina Coeli, ma le sue condizioni di salute peggiorarono rapidamente e, il 17, venne trasportato all’ospedale Fatebenefratelli per essere visitato. Chiaro il referto: lesioni ed ecchimosi alle gambe e al viso, frattura della mascella, emorragia alla vescica, lesioni al torace e due fratture alla colonna vertebrale. I medici ne chiesero il ricovero che lui rifiutò, tanto da essere rimandato in carcere per poi essere ricoverato di nuovo, presso l’ospedale Sandro Pertini, dove morì il 22 ottobre. Le mie lacrime sono per Stefano di Ilaria Cucchi La Stampa, 5 aprile 2022 Sono le 20 e trenta. Chiamano il procuratore generale perché il collegio è pronto. Sbircio tra le grandi porte chiuse e vedo il presidente firmare dei fogli. Sono 5 ore che aspettiamo. Anzi, sono esattamente 12 anni e mezzo. Tante sconfitte. Quante umiliazioni. Stefano Cucchi era un morto che camminava. Un tossicodipendente in fase avanzata. Anoressico. Sieropositivo. Morto di droga. Anzi no: di epilessia. Morto per colpa della sua famiglia che lo aveva abbandonato. Illustri medici legali che lavoravano per lo Stato hanno sostenuto nei processi inverosimili cadute accidentali con lesioni multiple ma tutte rigorosamente lievi. Lievissime. Il tutto con tanto di disegnini illustrativi. Ho passato una vita nelle aule di udienza. Oramai mi riconoscono tutti, sia a Rebibbia che a Piazzale Clodio. Sono tanto stanca e neppure Fabio ce la fa più. La nostra scorsa ho accarezzato Fabio mentre dormiva. Lo avevo preso a calci nel sonno. Stavo sognando Stefano che ne aveva combinata una delle sue. Il sogno era terribilmente reale: ero tanto arrabbiata con lui. Mi ero svegliata per questo. Stefano non può più farmi arrabbiare. Stefano è morto. È stato ucciso. Oggi forse potrò finalmente dirlo a dispetto di tutti coloro che ci hanno ostacolato nella mia battaglia per ottenere verità e giustizia per lui. Mancano pochi minuti. Gli avvocati stanno di nuovo indossando le toghe per entrare in aula. Sono sospesa tra la fiducia ed il timore che prevalga ancora una volta la logica di potere del più forte a dispetto del fatto che la legge dovrebbe essere uguale per tutti. Ascolto la sentenza e capisco soltanto che gli assassini sono stati condannati. Definitivamente. Rimango ancora sospesa, incredula dopo tanti anni di verità urlata con tutte le mie forze ma negata con intollerabile arroganza. È finita. Andranno finalmente in galera coloro che hanno colpito più e più volte mio fratello infliggendogli sofferenze che poi lo porteranno a morte in totale ed obbligata solitudine. Come mi sento? Me lo chiedono tutti. Non lo so come mi sento. So solo che ho voglia di piangere liberamente. Mi sento disorientata. Persa in un immane dolore per quanto inflitto alla mia famiglia durante tutti questi anni. Domani vedrò. Ora sono tanto grata al pm Musarò e a Fabio L’autorizzazione scritta per espellere Shalabayeva? Un “atto eccezionale” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 5 aprile 2022 A Perugia va in scena l’Appello per l’estradizione della moglie di Mukhtar Ablyazov Tra i testimoni Pignatone e Albamonte, che nel 2013 diedero l’ok all’espulsione. È il giorno dei testimoni eccellenti alla Corte d’Appello di Perugia, dove è in corso il processo di secondo grado sul caso Shalabayeva. A mettersi a disposizione delle parti sono l’ex procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, il sostituto Eugenio Albamonte e l’ex aggiunto Nello Rossi. Sono i tre grandi assenti del processo di primo grado - celebrato inspiegabilmente senza il loro contributo - che ha portato alla condanna a 5 anni per sequestro di persona e reati di falso di Renato Cortese, ex capo della squadra mobile di Roma ed ex questore di Palermo, e l’ex capo dell’ufficio immigrazione della questura capitolina Maurizio Improta, per il “prelievo” e la consegna alle autorità kazake di una donna e della sua bambina nel 2013. Perché, per i giudici di primo grado, l’espulsione di Alma Shalabayeva (moglie del dissidente kazako Mukthar Ablyazov, ricercato dalle autorità di Astana) e della figlia di sei anni Alua fu un vero e proprio “rapimento di Stato”, organizzato dalle forze di polizia traendo “in inganno” la procura Roma, che diede il nullaosta all’espulsione. E sono proprio i protagonisti con la toga di tutta questa vicenda ad essere ascoltati adesso a Perugia nelle prime battute del processo d’Appello. Il primo a testimoniare è Eugenio Albamonte, che all’epoca dei fatti seguì il fascicolo da pm, incaricato dall’aggiunto Nello Rossi. Fu Albamonte, insieme al capo della Procura Pignatone, a firmare l’autorizzazione all’espatrio della donna, presente ieri in aula, sotto la costante pressione di Improta, secondo il racconto del pm. Un nullaosta prima concesso a voce a Cortese, poi revocato telefonicamente per rapidissimi accertamenti e infine autorizzato in forma scritta, dando il via a un espatrio consumato in fretta e furia a bordo di un aereo messo a disposizione delle autorità kazake (anche se gli inquirenti, assicurano, non sapevano di che tipo di volo si trattasse). Ma è proprio questa la prima anomalia che i testimoni sono chiamati a chiarire: perché, data la convinzione che si trattasse di una normale “clandestina”, il nullaosta arriva in forma scritta e addirittura controfirmato dal capo degli uffici capitolini? “Non credo di aver mai prodotto nullaosta scritti”, prima di quel momento, ammette Albamonte, rispondendo alla domanda della Procura generale sull’eccezionalità di un atto di quel genere, controfirmato dal procuratore capo. Un episodio più unico che raro, spiega il pm capitolino, senza fornire ulteriori chiarimenti. Di certo, il magistrato romano racconta di essere stato contattato almeno tre volte in quelle ore da Improta, che per ricevere l’ok all’espulsione produce in pochi minuti documenti che accerterebbero la non autenticità del passaporto diplomatico centrafricano in possesso da Alma Ayan, nome di copertura di Alma Shalabayeva, per sfuggire al regime kazako. “La terza telefonata di Improta non fu particolarmente serena, perché arrivava 15- 20 minuti dopo l’invio del materiale”, racconta Albamonte. “Mi disse che erano all’aeroporto che c’era un volo che poteva riportare in Kazakistan la signora e aveva urgenza di sapere. Io dissi che ci saremmo presi il tempo che serviva. Questa conversazioni mi sembrò inopportuna. E andai dal procuratore a chiedere di guardarci quelle carte perché mi stavano compulsando”. E proprio insieme a Pignatone, il pm decise di non prendere in considerazione gli “avvertimenti” dell’avvocato Olivo, difensore della donna, che li metteva al corrente dei rapporti di parentela tra Shalabayeva e l’oppositore kazako, e di ritenere inadeguate le documentazioni prodotte dal legale sull’autenticità del passaporto, ritenuto invece falso dalla polizia. Albamonte parla per più di un’ora, rintuzzato dai legali e dagli inquirenti, e alla fine della sua deposizione è necessaria una pausa di cinque minuti. Giusto il tempo di prendere una boccata d’aria. Ed è proprio fuori dal Palazzo che il pm romano incrocia il suo vecchio capo Pignatone, che da lì a pochi minuti entrerà a testimoniare. I due si salutano e fanno due passi insieme, nonostante la conversazione tra testimoni non sia consentita nel corso di un’udienza dall’articolo 149 delle Disposizioni di attuazione del codice di procedura penale. Ma sarà stato solo uno scambio di cortesie tra ex colleghi. Al rientro, l’ex capo della Procura di Roma racconta la sua versione dei fatti. “La prima notizia (dell’operazione che due giorni dopo avrebbe dovuto portare alla cattura di Ablyazov, ndr) me la dà Cortese dicendomi che il suo ufficio doveva andare a fare una perquisizione su mandato dell’Interpol alla ricerca di un latitante kazako per reati finanziari e con un possibile pericolo di terrorismo. Non è una comunicazione formale, me lo dice perché in quelle ore stavamo chiudendo la vicenda del clan Fasciani di Ostia e il senso era “non faccia molto affidamento sui miei uomini in quei giorni”. Perché la cattura di Ablyazov non è una questione che interessa la Procura di Roma, tanto che “io dico (a Cortese, ndr), ma non lo può fare la Digos? Lui mi dice che doveva farlo lui. Successivamente mi riferisce di non averlo trovato e per me lì finisce”. Almeno fino al 31 maggio, quando Pignatone riceve una telefonata dell’aggiunto Nello Rossi e “mi dice che c’era un problema su una persona da espellere”. E quella persona è proprio Alma Shalabayeva, moglie del “latitante”, non ricercata dalle autorità kazake, eppure successivamente consegnata agli uomini di Astana. In Procura, però, nessuno sa delle interlocuzioni in corso tra i kazaki e le forze di polizia. Né il capo degli uffici giudiziari è sottoposto alle stesse pressioni “denunciate” dal suo sostituto: “Non ho avuto nessuna pressione da Renato Cortese. E Maurizio Improta quel giorno non l’ho proprio sentito”, racconta Pignatone, rispondendo alle domande del procuratore generale Sergio Sottani. La ricostruzione coincide sostanzialmente con quella di Albamonte. Compresa la parte riguardante il passaporto diplomatico rilasciato dalla repubblica Centrafricana alla donna. “Dopo nove anni mi chiedo ancora come sia possibile affermare il contrario con un passaporto che riporta un nome diverso”, dice l’ex procuratore di Roma. “Resto convinto della falsità del documento. E non ho mai capito perché quel giorno gli avvocati non abbiano chiesto l’asilo politico”. A differire, tra i due testimoni, sono solo piccoli dettagli, come quelli sulla stesura fattuale del nullaosta, dettati probabilmente dalla lontananza temporale dei fatti. Ciò che resta invariata è la domanda portante di questo processo: perché una donna e una bimba di sei anni, ricercate da nessuno, vennero consegnate al regime kazako? Sicilia. “Il 40% dei detenuti ha perso diritto a pensione d’invalidità” meridionews.it, 5 aprile 2022 La denuncia dei familiari e la richiesta d’intervento del Garante. A segnalare questa grave violazione sono gli attivisti dell’associazione Yairaiha che hanno raccolto le testimonianze dei parenti dei carcerati. “Il giudice non autorizza gli spostamenti e la commissione dell’Inps non segue l’iter per entrare negli istituti”. “Detenuti invalidi abbandonati a se stessi. In troppi casi è impossibile accedere ai diritti”. È la denuncia che arrivata dall’associazione per la difesa dei detenuti Yairaiha onlus, che da poco ha aperto sportelli territoriali in diverse città siciliane (Palermo, Catania e Lentini) e che riguarderebbe una grave violazione dei diritti delle persone carcerate in relazione alla possibilità concreta di esperire gli iter per accedere alla pensione di invalidità. Sono stati i familiari dei detenuti a segnalare ai volontari dell’associazione questo problema “che investe tanto l’Inps quanto gli istituti di pena”. La prima segnalazione è arrivata dalla Casa circondariale Vittorio Madia di Barcellona Pozzo di Gotto (nel Messinese) che ospita una grande articolazione per la tutela della salute mentale, eredità degli ormai ex Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) e Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza). “Secondo quanto ci è stato segnalato dalle famiglie - dichiarano dall’associazione - circa il 40 per cento degli aventi diritto alla pensione di invalidità ha perso o rischia di perdere il sussidio a causa di una disfunzione sistematica nella gestione delle visite di revisione”. Secondo quanto ricostruito dagli attivisti, l’impasse burocratico nascerebbe dal fatto che “il giudice competente non autorizza lo spostamento fuori dall’istituto dei detenuti per potere affrontare la visita di revisione, imprescindibile per il rinnovo dell’invalidità, mentre - aggiungono - d’altro canto la commissione invalidi dell’Inps non segue l’iter per effettuare le visite di revisione all’interno della struttura carceraria”. E ci sarebbero già addirittura dei casi in cui l’impossibilità per i detenuti di essere presenti alle visite di revisione “ha comportato oltre al venire meno del diritto alla pensione anche la richiesta di restituzione delle indennità pensionistiche percepite”, spiegano da Yairaiha. “Insomma, una situazione fortemente lesiva dei diritti di soggetti che già vivono in condizione di restrizione della libertà personale, aggravata dalla condizione di fragilità di molti di loro che, trattati come ultimi tra gli ultimi - denunciano dall’associazione - si vedono negare anche un sussidio che rappresenta un essenziale aiuto, per una irrazionale e cieca gestione burocratica”. Dopo numerose sollecitazioni documentate che negli anni sono state presentate all’Inps, gli attivisti credono che la gravità della situazione renda necessario un intervento tempestivo del garante dei detenuti per le dovute verifiche. Frosinone. Il giallo della morte di Salvatore Lupo: il Gip vuole vederci chiaro di Valentina Stella Il Dubbio, 5 aprile 2022 Com’è morto Salvatore Lupo, siciliano di solo 31 anni, ritrovato senza vita nella sua cella del carcere di Frosinone il 16 dicembre del 2019? Ci eravamo posti questa domanda a gennaio dell’anno scorso ma ancora oggi non abbiamo una risposta. Ci sono però degli sviluppi come ci racconta l’avvocato Barbara Billeci che insieme a Carmelo Carrara assiste la moglie e la figlia minore della vittima. Il medico legale incaricato dalla Procura oltre un anno fa aveva concluso per un decesso determinato da cause naturali e precisamente per insufficienza cardiocircolatoria. Alla luce di questo esito, il pm del Tribunale di Frosinone aveva chiesto l’archiviazione del fascicolo. I legali della moglie e della figlia minore del ragazzo si erano opposti all’archiviazione, convinti che la verità sulla vicenda stesse altrove. Nonostante a gennaio 2021 il Gip del Tribunale di Frosinone avesse accolto l’opposizione, disponendo l’approfondimento delle indagini medico legali, “queste - ci racconta il legale Billeci - vennero eseguite esclusivamente sui documenti, senza che ancora una volta fosse eseguito, come chiesto dal Gip, esame tossicologico (mai fatto) sui tessuti prelevati dal Lupo nel corso dell’autopsia. Emerse, invero, che detti campioni fossero stati smarriti. Nonostante ciò i medici legali incaricati dalla Procura conclusero nuovamente che si trattava di morte naturale e il Ctu che l’esame tossicologico sarebbe stato, comunque, superfluo”. Anche questa volta la Procura chiedeva l’archiviazione della vicenda a cui con maggior forza si sono opposti i legali della famiglia, chiedendo la riesumazione del cadavere per il prelievo di nuovi campioni su cui eseguire esame tossicologico e istologico. Hanno chiesto altresì che venissero sentiti i compagni di cella e di sezione del ragazzo, anche per far luce su un blister di farmaci presente nella cella la mattina del ritrovamento del cadavere e di cui nulla era stato chiarito. Anche questa volta il Gip del Tribunale di Frosinone ha dato ragione alla difesa dei familiari del Lupo, disponendo la riesumazione della salma di Salvatore e l’esecuzione di nuova consulenza cardiologica e tossicologica con nuovi consulenti oltre all’esecuzione di tutti gli accertamenti ritenuti necessari. Nella motivazione del provvedimento emesso il 23 marzo dal Gip, si legge altresì che secondo i compagni di cella del Lupo, il ragazzo la sera precedente si era sottoposto a visita medica e aveva riferito che il sanitario che lo ebbe in cura quel giorno, qualificandosi come dermatologo, gli aveva dichiarato che la terapia precedentemente somministratagli era sbagliata, gli aveva praticato altra terapia e gli aveva consegnato tre pillole in un blister che il ragazzo assumeva la sera stessa. La mattina dopo, quando già il Lupo era stato trovato cadavere, riferisce il compagno di cella, il direttore sanitario sottrasse dalla pattumiera della cella del ragazzo, frattanto collocata in corridoio, il blister di pillole tentando di allontanarsi. Il compagno di cella e i compagni di sezione, di fronte a questo gesto, reagivano bloccando il medico e invocando l’immediato intervento dell’ispettrice responsabile del reparto, che secondo le dichiarazioni del compagno di cella, intimò al direttore sanitario di consegnarle il blister, rientrandovi in possesso. “Il giallo intorno alla morte di Salvatore Lupo, di soli 31 anni e di corporatura robusta, abituato agli sforzi fisici, non può essere archiviata come morte improvvisa e dovuta a cause naturali, soprattutto alla luce di quanto emerso dalle indagini e soprattutto del carente operato dei medici legali della Procura finora incaricati. Anche il gesto del direttore sanitario rafforza il dubbio che la morte del ragazzo possa essere conseguenza di un errore sanitario, se non di altro. La famiglia di Salvatore ha diritto a conoscere la verità e a vedere assicurati alla giustizia eventuali responsabili. Questa vicenda ha lasciato senza padre una bimba di soli 4 anni e nel dolore un’intera famiglia”, conclude Billeci. Fermo. Svolta nelle indagini sulla morte di Lorenzo Rosati: indagato un altro detenuto di Fabio Castori Il Resto del Carlino, 5 aprile 2022 C’è un indagato per omicidio su caso Lorenzo Rosati, il detenuto fermano di 50 anni originario del viterbese deceduto in circostanze misteriose al pronto soccorso, dopo che si era sentito male nella Casa di reclusione di Fermo. Colpo di scena nelle indagini sulla tragedia che si era consumata nel maggio scorso e che, in un primo momento, era stata ritenuta un incidente. L’opposizione all’archiviazione fatta dai legali della famiglia della vittima, gli avvocati Marco Murru e Marco Melappioni, e il supplemento d’indagine disposto dal gip di Fermo, Maria Grazia Leopardi, hanno dato i loro frutti ed ora le carte in tavola sono completamente cambiate. Gli inquirenti della polizia giudiziaria dei carabinieri, infatti, hanno identificato un 23enne di San Severino Marche di origini albanesi, all’epoca dei fatti compagno di cella di Rosati, quale responsabile del pestaggio fatale. Ci sarebbe anche un supertestimone nella svolta delle indagini, che è stato trasferito in un’altra casa di reclusione per evitare eventuali ritorsioni. La tragedia si consuma il 28 maggio 2021 quando, all’ora di pranzo, Rosati, detenuto nel carcere di Fermo, si sente male e i suoi compagni di cella lanciano subito l’allarme. Il detenuto viene visitato dal medico della struttura che, viste le gravi condizioni del 50enne, decide di allertare il 118. Gli operatori sanitari, giunti sul posto, trasportano l’uomo in ambulanza al vicino Pronto soccorso del Murri. Rosati ha praticamente la milza spappolata e un’emorragia ormai irreversibile. Nonostante i tentativi di rianimarlo, il 50enne esala l’ultimo respiro lo stesso pomeriggio intorno alle 17. Scattano immediatamente i primi interrogativi: come si è procurato quelle lesioni il detenuto? È stato aggredito o si è trattato di un incidente? Il referto viene trasmesso alla Procura di Fermo, che apre un fascicolo a carico di ignoti per morte conseguente ad altro reato, disponendo poi l’autopsia sulla salma del 50enne. L’incarico viene affidato al medico legale di Teramo Giuseppe Sciarra e i risultati dell’esame autoptico appaiono abbastanza chiari. Nel referto si parla di decesso da attribuire ad un “traumatismo contusivo toracoaddominale sul fianco sinistro, emoperitoneo da lacerazione della milza e conseguente shock ipovolemico”. La perizia afferma, inoltre, che la zona del corpo esaminata “è stata interessata da un evento traumatico prodotto da un mezzo contundente non dotato di spigoli vivi, ma con superfice arrotondata ed ha agito con una piccola angolatura dall’alto in basso”. Nonostante ciò, il pubblico ministero presenta al gip la richiesta di archiviazione del caso, ipotizzando una caduta. Tesi, questa, supportata da una ferita occipitale rinvenuta sul capo della vittima, che il medico legale non esclude essere attribuibile al contatto con il pavimento. I legali di Rosati, però, non ci stanno e presentano un’istanza di opposizione, accolta dal giudice. Tutto ricomincia daccapo e questa volta, scavando a fondo, si arriva a una svolta. Con un indagato per la morte del detenuto. Bari. Giudici, pm e avvocati: quel detenuto non è curato adeguatamente di Antonio Alizzi Il Riformista, 5 aprile 2022 Il caso di Antonio Presta, imputato a Cosenza, resta sospeso in attesa di chiarimenti del Dap. Ma i legali insistono perché sia posto ai domiciliari. Su un punto convengono tutti. Nel carcere di Bari, il detenuto Antonio Presta, calabrese di nascita, non sarebbe curato adeguatamente. Il caso nasce da un’istanza di modifica della custodia cautelare, avanzata di recente dagli avvocati Lucio Esbardo e Franco Locco del foro di Cosenza, secondo cui il loro assistito, originario di Roggiano Gravina, non riceverebbe le giuste terapie rispetto alle patologie presenti. Una questione affrontata nell’ultima udienza svoltasi dinanzi al tribunale collegiale di Cosenza, nell’ambito del processo contro una presunta associazione a delinquere dedita al narcotraffico, operante nella zona della Valle dell’Esaro, in provincia di Cosenza. Secondo la Dda di Catanzaro, Antonio Presta, insieme al fratello Roberto, divenuto a distanza di mesi da blitz collaboratore di giustizia, sarebbe il promotore e l’organizzatore. Ma ora il punto non è questo. La vicenda, secondo il pm Alessandro Riello, dovrebbe essere discussa e verificata con il Dipartimento Amministrativo Penitenziario. Gli avvocati, tuttavia, ritengono che ciò non basti a risolvere il problema, visto che questa situazione andrebbe avanti ormai da mesi. Ed è per questo motivo che avevano chiesto gli arresti domiciliari. Una richiesta non accolta dal presidente del collegio giudicante Carmen Ciarcia, il quale, però, ha evidenziato la mancanza di chiarezza da parte dell’istituto penitenziario di Bari, sollecitandolo a stilare una relazione accurata. “La vicenda in esame trae origine, per la parte di interesse, in una richiesta di relazione sulle condizioni di salute dell’imputato, con prescrizione di assegnazione al cosiddetto SAI (servizio di assistenza intensiva) formulata dal tribunale del Riesame di Catanzaro nel corso di un procedimento de libertate davanti a quel giudice celebrato”, si legge nel provvedimento. “Relativamente all’attuazione della misura, non veniva dato, malgrado sollecitazione ripetuta dal Collegio, alcun riscontro da parte della struttura penitenziaria-sanitaria, pure espressamente invitata a predisporre relazione sulle condizioni di salute del detenuto e sulle terapie dallo stesso seguite”. “In tale contesto - afferma il tribunale collegiale di Cosenza - si inserisce la richiesta della difesa che, sulla base di una relazione del consulente di parte, deducendo la grave situazione di decadimento delle condizioni di salute dell’imputato, richiede la sostituzione della misura sul presupposto della mancanza di cura e terapia da parte dell’autorità carceraria”. L’istanza non è stata accolta “in quanto non si fonda sull’incompatibilità del regime carcerario con le suddette condizioni di salute, ma sulla concreta mancata sottoposizione a terapie e cure del giudicabile”. E ancora: “Per altro verso - scrivono i giudici cosentini - viene in rilievo la segnalazione che riguarda il bene primario della salute, tutelato dall’art. 32 della Costituzione, asseritamente pregiudicato dalle inadempienze della struttura carceraria. Conseguentemente, deve essere ulteriormente sollecitata la direzione della Casa Circondariale a riferire sulle condizioni di salute di Presta e sulle terapie alle quali il detenuto è stato ed è sottoposto”. Infine, evidenzia il tribunale di Cosenza, “risulta necessario, altresì, coinvolgere il provveditorato Regionale agli Affari penitenziari della Puglia, affinché assegni, senza indugio, il detenuto Antonio Presta a struttura idonea a seguire le indicazioni terapeutiche e di cure necessarie alla tutela della sua salute, e solleciti la Direzione della Casa circondariale d Bari a predisporre la relazione già più volte richiesta”. Insomma, giudici, pm e avvocati chiedono l’intervento del Dap. Foggia. Negata la proroga delle licenze per i detenuti semiliberi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 aprile 2022 Interrogazione parlamentare di Roberto Giachetti sul provvedimento. La magistratura di sorveglianza non proroga le licenze per i detenuti semiliberi del carcere di Foggia, costringendo così i detenuti a rientrare in carcere a partire dalla sera del 31 marzo. A seguito della segnalazione di questa problematica da parte dell’attivista per i diritti umani Monica Bizaj, il deputato Roberto Giachetti di Italia Viva ha presentato una interrogazione parlamentare rivolta alla ministra della Giustizia Marta Cartabia. Ricordiamo che il decreto Milleproroghe 2022 ha prorogato al 31 dicembre 2022 il termine per la concessione delle licenze premio straordinarie ai semiliberi, quale misura di contenimento della diffusione della pandemia da Covid- 19. Nell’interrogazione parlamentare del deputato Giachetti, si fa presente che l’attivista Monica Bizaj, nella mail indirizzata a Rita Bernardini del Partito Radicale, segnala che alla data del 30 marzo 2022, la magistratura di sorveglianza di Foggia non aveva ancora provveduto a concedere le licenze costringendo così i detenuti a rientrare in carcere a partire dalla sera del 31 marzo. Non solo. Viene evidenziato che già nell’occasione di precedenti proroghe, la magistratura di sorveglianza di Foggia è stata restia ad applicare la misura prevista dal legislatore per contenere la diffusione del Covid-19 nelle carceri. In particolare, il 28 maggio 2021, la sorveglianza di Foggia rigettava in blocco tutte le licenze straordinarie dei semiliberi proprio mentre era in corso un grave focolaio all’interno dell’istituto, come riportato dal sito Foggia Today il 3 giugno 2021 con 37 detenuti e 1 agente infettati. Il deputato Giachetti, sempre nell’interrogazione, sottolinea che il carcere di Foggia è uno degli istituti più sovraffollati d’Italia con 562 detenuti in 345 posti regolamentari disponibili e la diffusione della pandemia da coronavirus può mettere gravemente a repentaglio la salute e la stessa vita sia dei detenuti che del personale. Inoltre, segnala che il Garante Nazionale dei detenuti, Mauro Palma, così ha commentato il 23 febbraio 2022 la proroga delle licenze straordinarie per i semiliberi: “I detenuti in semilibertà non dovranno tornare a dormire in carcere. Ieri la Camera ha approvato la proroga al 31 dicembre di una norma disposta durante la pandemia che permetteva loro di dormire presso il proprio domicilio. Potrà così proseguire il loro reinserimento nella società”. Il deputato di Italia Viva chiede alla ministra “se sia a conoscenza dei fatti riportati in premessa e quali iniziative intenda assumere, per quanto di competenza, per ridurre i rischi della diffusione del Covid-19 da parte dei semiliberi di Foggia costretti a rientrare in carcere la sera; quanti siano ad oggi i semiliberi in Italia, quanti di loro abbiano usufruito delle previste licenze straordinarie, se si siano verificati episodi di inottemperanza alle prescrizioni della magistratura di sorveglianza da parte dei detenuti semiliberi che hanno beneficiato delle suddette licenze; se quanto avviene a Foggia, con la mancata proroga in blocco di tutte le licenze straordinarie per i semiliberi, si sia verificato, anche rispetto ad altri istituti penitenziari”. Nel frattempo il Dap aggiorna i dati del sovraffollamento al 31 marzo. Risultano 54.609 detenuti per una capienza di 50.853 posti disponibili. Ricordiamo che però non vengono sottratti i posti inagibili. Il sovraffollamento rimane uno delle piaghe del nostro sistema penitenziario. Oristano. Nel carcere di Massama un numero di detenuti superiore al limite consentito linkoristano.it, 5 aprile 2022 “Ancora una volta due Istituti Penitenziari della Sardegna, entrambi destinati all’Alta Sicurezza, Massama e Tempio, registrano un numero di detenuti oltre il limite regolamentare. Una conferma della costante crescita della presenza nelle carceri dell’isola di persone private della libertà appartenenti alla criminalità organizzata”. Lo sostiene Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, prendendo in esame i dati diffusi dall’Ufficio Statistica del Ministero della Giustizia che fotografano la realtà detentiva isolana al 31 marzo 2022 e coinvolgono anche il carcere di Massama. “A soffrire maggiormente”, osserva, “è la Casa di Reclusione Paolo Pittalis di Tempio Pausania, per 170 posti sono rinchiusi 177 detenuti Alta Sicurezza, pari al 104%. Sette sono stranieri. Analoga condizione nel carcere Salvatore Soro di Massama, dove a fronte di 259 posti disponibili sono presenti 268 detenuti, pari al 103,4%. Qui gli stranieri sono 20. La situazione non è molto migliore a Nuoro dove nonostante i posti siano 375, un’intera sezione di circa 100 posti non è ancora disponibile. Ciò significa che i 255 detenuti presenti, tra i quali 8 stranieri, vivono al limite dello spazio regolamentare”. “È noto che gli spazi limitati”, ricorda l’esponente di Sdr, “incidono negativamente sulle possibilità di accedere alle attività trattamentali anche perché si tratta di carenze che si aggiungono a quelle degli agenti della polizia penitenziaria e dei funzionari giuridico-pedagogici. Una situazione di disagio purtroppo condivisa da quasi tutti gli istituti penitenziari isolani, resa ancora più grave dalla carenza di direttori. La responsabile di Badu e Carros, dove sono ristretti anche alcuni in 41bis, deve curare la Casa Circondariale di Sassari-Bancali, con 391 detenuti, 92 in regime di 41bis e la Colonia Penale di Mamone, con 130 detenuti, con 87 stranieri: in pratica 700 detenuti. Il direttore di Cagliari-Uta, con 533 detenuti (17 donne - 91 stranieri) ha la responsabilità anche di Isili e Lanusei (97 detenuti). Il carcere di Alghero, con 105 ristretti - di cui 30 stranieri - per 156 posti è assegnato a Elisa Milanesi. Luisa Pesante, oltre a Rebibbia, ricopre l’incarico di direttrice a Oristano e Is Arenas, mentre Orazio Sorrentini, responsabile a Busto Arsizio, cura anche Tempio Pausania. La Sardegna si caratterizza inoltre per un Provveditorato Regionale in regime di prorogatio. Dal 13 gennaio scorso infatti la sede è vacante ma nessun dirigente generale ha risposto ai tre interpelli del Ministero”. “Sempre semi vuote invece”, conclude Caligaris, “le Case di Reclusione all’aperto. Le nostre tre Colonie Penali, dove sono disponibili 583 posti, ospitano 262 detenuti. Numeri scandalosi per chi considera il lavoro uno dei principali mezzi di recupero sociale e un’occasione di crescita e riscatto per chi ha sbagliato”. Venezia. “Malefatte” in carcere, oltre l’orto del riscatto di Alice D’Este Corriere della Sera, 5 aprile 2022 “Stare in carcere è l’inferno. Ma io sono cambiata. Qui coltiviamo l’orto e poi con le piante officinali facciamo una linea di cosmetici buonissimi, come mi piacerebbe farveli provare”. Ha cominciato con una piccola frase, Katia, per raccontare alle sue figlie che stava diventando una donna diversa. “Mi alzo presto ogni giorno, abbiamo turni di lavoro precisi. lo li rispetto sempre, mi dicono che sono brava”. Giulia e Chiara non le parlavano più, da quando era diventata una detenuta. Ma settimana dopo settimana grazie alla fiducia riacquistata nel futuro le sue figlie hanno ricominciato a risponderle. “Il momento più bello? Quando ci ha detto che sarebbero tornate a trovarla” dice Liri Longo, della Cooperativa sociale Rio Terà dei Pensieri che si occupa del laboratorio di cosmetici al carcere femminile della Giudecca. Tutto è cominciato con il progetto di un orto, che ha restituito vita a un pezzo di terra incolto che si trovava all’interno del carcere. La Cooperativa ha pensato di coltivarlo con prodotti “bio” e l’idea ha funzionato. Poi è nato il laboratorio di cosmetici. Dalle piante officinali sotto la guida e i consigli di operatori specializzati le detenute hanno iniziato a produrre shampoo, balsamo, gel doccia. Negli anni la tecnica si è affinata e ora i prodotti sono in vendita online e richiesti come fornitura delle linee di cortesia di alcuni alberghi veneziani di lusso (tra i quali l’Aman Hotel). “Ogni giovedì mattina ormai da 25 anni - spiega Longo - c’è un banchetto alla Giudecca delle ragazze che lavorano in orto e cosmetica escono per tre ore e vendono i prodotti insieme agli operatori”. “Non ti dico la sensazione che ho provato - racconta una detenuta nella testimonianza lasciata alla Cooperativa dopo essere uscita - quando ho messo piede fuori dal carcere. All’inizio vedevo tutto annebbiato, mi girava la testa. Mi sono detta: “Io rientro. Non ne voglio sapere, io rientro”. Poi piano piano ti abitui. Sai che però la sera devi tornare e questa è la parte peggiore”. La Cooperativa Rio Terà dei Pensieri è attiva anche al carcere maschile di Santa Maria Maggiore di Venezia. Lì è nato nel 200g un laboratorio di Pvc riciclato che ha sostituito il vecchio laboratorio di pelletteria. Nella stanza in cui possono stare al massimo 5 detenuti e 4 operatori, sotto i movimenti delle mani di Eric il banner che era esposto nel cartellone cittadino prende nuova forma. Ciò che era destinato a essere buttato via ricomincia a vivere. E intanto Eric, assieme alle borse, ritrova la sua dignità di persona. “Venire qua - dice lui sorridendo mentre taglia il Pvc per farne uno zaino super cool da vendere online - è come andare all’estero. Io che pensavo di essere l’ultimo degli ultimi, di essere un fallito totale, sto riconquistando un’identità. Ricomincio a vedermi in una prospettiva futura possibile”. Il laboratorio si chiama “Malefatte”, non a caso. Lì i cartelloni pubblicitari vengono tagliati e trasformati in borse, astucci, zaini fatti a mano (www.malefattevenezia.it). Nel 2013 per dare continuità all’inserimento lavorativo dei detenuti è nato anche un laboratorio di riciclo esterno al carcere dove trova opportunità soprattutto chi può accedere alle misure alternative. E le “Malefatte” sono belle: il brand sta avendo successo. Nel 2017 Mark Bradford, l’artista che rappresentava gli Stati Uniti d’America alla Biennale di Venezia, ha iniziato una collaborazione di sei anni, tuttora in corso, intitolata “Process Collettivo”, con lo scopo di far conoscere al mondo sia il sistema penale sia il successo del modello di cooperazione sociale. Grazie a questa collaborazione nel 2017 è stato aperto un negozio nel cuore di Venezia, vicino alla Basilica dei Prari, totalmente “Made in Malefatte”. E altri progetti sono pronti a partire. Caserta. Lavoro di pubblica utilità: i risultati del progetto presentati a delegazione Onu casertanews.it, 5 aprile 2022 Nell’ambito della visita di due giorni della delegazione delle Nazioni Unite. Inizia dall’area industriale della provincia di Caserta il percorso dei detenuti verso una nuova opportunità. Un percorso che li conduce dal carcere all’esterno per svolgere lavori di pubblica utilità, perché nell’impiego al servizio della comunità possano trovare il senso del loro riscatto. È questo il percorso che sarà presentato alla delegazione delle Nazioni Unite nella visita di due giorni a Caserta organizzata nell’ambito dell’accordo di collaborazione internazionale tra Ministero della Giustizia, Unodc e Governo Federale del Messico per approfondire anche il modello adottato dal Consorzio ASI Caserta nell’ambito dei programmi di pubblica utilità. La presidente del Consorzio Asi Caserta, Raffaela Pignetti, illustrerà i risultati del progetto “Mi riscatto per il futuro” a Martha Orozco, responsabile del progetto “De Vuelta a la Comunidad” degli Stati Uniti del Messico per conto delle Nazioni Unite nella Cooperazione tra i due Paesi, e al direttore dell’Ufficio centrale del lavoro dei detenuti del Dap Vincenzo Lo Cascio. Prima tappa domani, 5 aprile, nell’area industriale di Marcianise, dove sono in corso i lavori di manutenzione del verde ad opera dei detenuti coinvolti nel programma. La visita proseguirà presso alcune aziende e negli istituti penitenziari di Santa Maria Capua Vetere, Sant’Angelo dei Lombardi e Salerno. Mercoledì 6, le risultanze della visita e l’analisi del progetto fin qui realizzato verranno presentati presso la sala convegni del Centro Orafo “Il Tarì”, alle 11,30. Introdurrà i lavori la presidente del Consorzio Asi Caserta Raffaela Pignetti. Seguiranno gli interventi di Gianfranco De Gesu, Direttore generale Detenuti e Trattamento del DAP-Ministero della Giustizia, Lucia Castellano, Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Campania, Marco Puglia, Magistrato di Sorveglianza, Assunta Borzacchiello, Direttore Ufficio detenuti e trattamento del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria per la Campania. In chiusura gli interventi di Martha Orozco e Francesco Paolo Sisto, Sottosegretario di Stato alla Giustizia Prato. Si mobilitano i detenuti: i loro soldi per i profughi di Francesco Tartoni La Nazione, 5 aprile 2022 Dalla Casa circondariale l’idea di una raccolta fondi per gli ucraini in fuga. Una lettera aperta per provare a coinvolgere anche altri istituti penitenziari. Casa Circondariale La Dogaia, Prato. È partita da qui una raccolta fondi destinata all’Ucraina. Iniziativa che ha coinvolto finora una settantina di detenuti ed è riuscita a mettere insieme circa 600 euro. Tutto è nato dall’idea di un detenuto, Roberto Sacco, che ha voluto coinvolgere il cappellano don Enzo Pacini, da poco diventato direttore della Caritas di Prato. E don Enzo non si ètirato indietro. “Roberto è stato uno dei primi a dirmi di voler fare qualcosa per aiutare i profughi ucraini”, dice il cappellano. I detenuti non hanno accesso diretto ai soldi, ma ognuno ha un proprio conto interno, che viene aperto al loro ingresso in carcere. Tramite questi conti don Enzo ha raccolto le varie donazioni, che vanno dai 5 ai 10 euro a testa e che non sono pochi, considerando che chi ha un lavoro all’interno del carcere riesce a guadagnare poco più di 100 euro al mese. I soldi sono stati poi devoluti alla Caritas, che ora li sta usando per comprare medicinali e materiale da mandare alle associazioni impegnate nell’accoglienza dei profughi, soprattutto quelle che si trovano in Polonia, al confine con l’Ucraina. L’obiettivo di Roberto è quello di mettere a conoscenza della raccolta il maggior numero possibile di detenuti, sia del carcere di Prato che di altri istituti penitenziari, e per questo ha scritto a La Nazione con la preghiera di diffondere l’iniziativa. Perché il problema non è la generosità, ma riuscire a far arrivare a tutti questa notizia. Sono tanti coloro che vogliono contribuire, nei modi e con le risorse che hanno a disposizione, per aiutare chi, in questo momento, sta probabilmente peggio di loro. Nelle emergenze passate le raccolte solidali non sono state mai così coinvolgenti. E il Covid è stato un evento ancora più particolare, dato che gli stessi detenuti ne hanno subito le conseguenze, sia dirette che indirette, sulla propria pelle. Non potendo avere rapporti con l’esterno, è stato molto difficile per loro accettare il fatto che non potessero ricevere le visite dei propri familiari. E questo ha influito certamente sulla loro visione dell’emergenza. Questa guerra invece ha avuto un maggiore impatto, probabilmente per la sua elevata mediatizzazione, ma anche per la sensibilità stessa dei detenuti che, come sottolinea lo stesso cappellano, sono molto vicini alle sofferenze dei bambini, avendo molti di loro dei figli a casa. “Due detenuti stranieri si sono offerti di donare dei vestiti al posto dei soldi, perché di soldi non ne avevano. Di vestiario però ne abbiamo già abbastanza, quindi non abbiamo potuto accogliere la loro offerta”. Ma se è il pensiero quello che conta, questo pensiero allora conta un po’ di più. Perugia. Lo sport entra anche in carcere, danza e calcio per rieducare La Nazione, 5 aprile 2022 Lo sport arriva anche in carcere. È uno dei progetti del Coni in collaborazione con l’assessorato allo sport e la direzione della casa circondariale di Perugia. L’iniziativa è stata presentata ieri in Regione, da Domenico Ignozza, presidente del Coni Umbria e dall’assessore regionale Paola Agabiti. “Le attività culturali, ricreative e sportive - è stato ricordato - sono inserite dalla legge 3541974 sull’ordinamento penitenziario tra i principali elementi del trattamento assieme ad istruzione, lavoro, religione, contatti con il mondo esterno e con i familiari. Il progetto - sottolinea Ignozza - è diretto al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione carceraria attraverso l’attività motoria. I programmi sono differenziati: per le donne sono previsti corsi di danza sportiva, mentre i maschi potranno praticare calcio, calcio a 5 e tennis tavolo. I reclusi di Capanne potranno praticare la disciplina sportiva due volte a settimana con allenamenti di due ore a seduta. Lo sport in carcere serve a combattere depressione, tensione e aggressività e a recuperare valori come la legalità e la lealtà”. Torino. Beato Girotti, Via Crucis nella sua cella di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 5 aprile 2022 Venerdì 1° aprile 2022, coincide con il 77° anniversario della morte del beato Giuseppe Girotti. Nato ad Alba nel 1905, domenicano (ha vissuto nella comunità di via San Domenico a Torino), spese la sua vita per predicare Parola di Dio, servire i poveri, proteggere in particolare gli ebrei ed altri perseguitati per giustizia. Per questo nell’agosto 1944 fu Incarcerato nel famigerato Braccio tedesco del carcere “Le Nuove” di Torino e deportato a Dachau, dove morì venerdì 1° aprile 1945. Beatificato nel 2014 da Papa Francesco, viene ricordato da migliaia di da studenti, cittadini italiani e stranieri che ogni anno visitano il Museo Carceri “Le Nuove” allestito e curato dall’Associazione “Nessun’uomo è un’Isola”. Per onorare la memoria del beato Girotti, “esempio di ecumenismo ecclesiale e fondatore dell’Europa dei popoli” in un momento così cruciale per la pace in messa in pericolo dalla guerra in Ucraina, venerdì 1°aprile alle 20.30 l’Associazione promuove la “Via Crucis” su testi di Felice Tagliente, fondatore del Museo, lungo i luoghi più dolorosi della sua carcerazione “fino al dono della vita per la convivenza pacifica tra i popoli”. Il ritrovo è in corso Vittorio Emanuele II, 127 per proseguire all’interno del Museo. “Da anni si svolge questo percorso spirituale all’interno della prigione ‘Le Nuove’” spiega il professor Tagliente “il silenzio serale delle celle (nella foto in alto), il buio della notte, le ombre che appaiono sulle pareti, il rumore delle scarpe degli agenti, i lamenti dei sofferenti, la solitudine del letto, sono sensazioni tristi ed incontrollabili. Chi piange, chi si colpevolizza, chi si angoscia, chi si dispera: padre Girotti ha sofferto nel carcere giudiziario torinese tutti questi dolori, come Cristo nel Getsemani. Era una agonia senza fine”. Padre Girotti, prosegue Tagliente trasse il coraggio di affrontare la Via Crucis di una carcerazione ingiusta innanzitutto dalla sua famiglia, gente povera ma di grande fede, dai Predicatori (i Domenicani) ordine cui apparteneva, religiosi inviati per diffondere la Parola di Dio e dai suoi studi della Scrittura a Gerusalemme: formazione biblica e impegno per il bene del prossimo. “Se ci soffermiamo sui suoi scritti biblici, colpisce l’interiorità umana del beato: una spiritualità religiosa scritta e testimoniata in silenzio a favore dei bisognosi. Pertanto è fondamentale comprendere i suoi scritti, in particolare i suoi studi sui libri dei profeti. Scrive Girotti: ‘Il profeta biblico è la espressione più forte della personalità religiosa, ma è pur insieme la manifestazione più luminosa della Personalità di Dio, che non ha abbandonato l’uomo e nella storia attua il suo programma di speciale provvidenza per l’uomo”. Così è stata la sua vita: “egli è il deportato domenicano per la sua coscienza religiosa per questo è stato dichiarato dalla Chiesa ‘martire per carità’. L’attualità del beato Girotti, un profeta biblico, conclude Felice Tagliente, è fondamentale in questo contesto storico autoreferenziale, in questo tempo in cui la guerra incombe ancora nel nostro continente. “Si tratta di perseverare nella cooperazione per il bene, la giustizia, la sacralità della vita, la dignità umana. Non si tratta di inventare nuove forme organizzative della società, ma di dare senso autentico al vivere quotidiano. Come diceva il francescano padre Ruggero Cipolla, amato cappellano delle carceri torinesi: chi opera bene costruisce la pace fra gli individui, i popoli e il mondo intero”. Quanto male sono disposto a fare per la pace? di Luigi Manconi La Repubblica, 5 aprile 2022 La guerra in Ucraina, così come la pandemia di Covid e altre crisi estreme, pone domande radicali. Si tratta di dilemmi etici che mettono in gioco scelte morali destinate, in ogni caso, a produrre effetti di diseguaglianza. E ai quali dobbiamo provare a rispondere. Ma quanto male è giusto fare per ridurre il male? E a cosa siamo disposti a rinunciare, della nostra stessa integrità morale, pur di combattere l’ingiustizia? Come tutte le situazioni di crisi estrema, la guerra pone domande radicali, raramente consentite dal corso ordinario della vita quotidiana. Interrogativi già emersi durante la pandemia, e che possiamo chiamare “ultimi”, in quanto hanno a che fare con la nostra stessa costituzione psicologica e con la nostra stessa identità individuale: e afferiscono a coppie di concetti come violenza/non violenza, vita/morte, bene/male. La loro potenza risiede nel fatto che mettono in gioco scelte morali destinate, in ogni caso, a produrre effetti di diseguaglianza. Per capirci: in presenza di due pazienti e di un solo ventilatore polmonare, con quali criteri verrà scelto colui che potrà usufruirne e colui che, invece, ne sarà escluso? L’una o l’altra scelta dà luogo a un trattamento dispari, produce sofferenza e può cagionare morte. E si tratta di decisioni che sono l’esito di valutazioni discrezionali e di giudizi fallibili, che variano a seconda delle congiunture sociali e delle circostanze storiche. Ma ciò che più conta è che, comunque, si determinano condizioni di ingiustizia che possono essere attenuate e compensate, ma non evitate. Tuttavia sono proprio queste situazioni di crisi estrema che consentono agli individui e alle comunità di acquisire coscienza di sé e dei propri limiti e delle proprie responsabilità. È lo stesso banco di prova al quale ci chiama la guerra. Consideriamo un primo dilemma. Che cosa sono disposto a fare di male per approssimare la pace? La domanda riguarda allo stesso modo l’individuo pacifista e l’individuo pacifico. Davanti all’aggressore che brandisce la spada per colpire l’inerme, posso decidere di fare mio il disvalore della violenza e tacitare gli scrupoli morali, per salvaguardare l’incolumità della vittima e, dunque, il bene supremo della vita? Sono disposto, cioè, a farmi malvagio, a rinunciare alla mia mitezza e a ricorrere alla mia aggressività per tutelare l’aggredito? Accetto, quindi, di “non essere buono” e di abbandonare la superbia del mio stato morale per affondare le mani nel male, opponendo forza a forza, arma ad arma e violenza a violenza? È, in realtà, la questione più drammatica, perché non si fonda su una presunzione di superiorità etica (il pacifismo rispetto alla resistenza, la nonviolenza rispetto all’uso della forza), bensì sulla disponibilità a rinunciarvi per un fine più grande di quello rappresentato dalla mia personale innocenza. Nella consapevolezza, oltretutto, che le decisioni che assumeremo saranno prevedibilmente non eque (a esempio, potrebbero causare ulteriori lutti), in quanto esito inevitabile, come ha scritto Jürgen Habermas, di “scelte immorali”, perché non libere: imposte, cioè, da limiti esterni come il prevalere della violenza, la scarsità delle opzioni, l’esiguità del tempo e, ancora, la povertà di risorse (molti pazienti e pochi presidi sanitari...). Secondo dilemma: a cosa siamo disposti a rinunciare per approssimare la pace? Il governo di Volodymyr Zelensky ha assunto provvedimenti limitativi della libertà di espressione: come l’accorpamento di tutti i canali tv al fine di realizzare “un’unica piattaforma informativa”; poi, la sospensione delle attività di 11 partiti di opposizione allo scopo di “tutelare la sicurezza nazionale”. Una simile compressione delle garanzie costituzionali e dei diritti individuali, in una situazione eccezionale, richiama in qualche modo quanto accaduto in Italia durante la pandemia. A esempio, l’imposizione di particolari prescrizioni sanitarie e la sospensione del diritto al lavoro nel caso di inosservanza di determinati obblighi. Questioni assai delicate che il cittadino di un Paese democratico deve poter discutere e criticare, commisurando la legittimità di quelle misure alle esigenze dell’emergenza. E alla consapevolezza che, in tale circostanza, nel conflitto tra libertà individuale e salute pubblica può accadere che quest’ultima debba prevalere. Tanto più, verrebbe da dire, in uno stato di guerra. Chi vive direttamente in una condizione bellica, come i cittadini ucraini, può accettare che le libertà democratiche vengano ridotte per salvaguardare l’unità e la compattezza della resistenza popolare? E chi, come noi, ne è solo spettatore, può accettare che il governo Zelensky limiti autoritativamente la libertà di espressione senza che, per ciò, si neghi a quello stesso governo il nostro sostegno? Ecco, se non saremo capaci di porci queste domande e di provare a rispondervi, temo che - come accade nelle crisi psichiche individuali - alla condizione di angoscia determinata dalla guerra possa seguire, inesorabilmente, un processo di rimozione. Spezzare il nesso tra religione e guerra di Mauro Magatti Corriere della Sera, 5 aprile 2022 Il legame tra guerra e religione è vecchio come il mondo: da Bin laden a Putin, le peggiori atrocità sono legittimate da un’aura di sacralità. Durante la roboante manifestazione tenuta allo stadio di Mosca, Putin ha giustificato l’invasione dell’Ucraina come un’azione in difesa di “compatrioti perseguitati”, arrivando a citare le parole del Vangelo: “non c’è amore più grande di chi dà la vita per i propri amici”. Nella prospettiva del leader russo, il richiamo religioso è strategico: per sostenere la sua narrazione sulla grande Russia e alimentare le nostalgie imperiali, Putin ha bisogno di riferimenti storici, culturali e religiosi. Le parole di Putin erano state peraltro anticipate dal discusso discorso del primate della Chiesa ortodossa russa, che nei primi giorni di guerra era addirittura arrivato ad affermare che il conflitto in corso “non ha natura fisica ma metafisica”. Secondo Kirill, l’azione di Putin è legittima perché mira ad opporsi all’avanzata di un Occidente completamente laicizzato, come dimostrano i gay pride - la cui prima edizione si è tenuta a Kiev nel 2019 - visti come veri e propri riti di iniziazione. Il legame tra guerra e religione è vecchio come il mondo. Quando si va a uccidere - e a farsi uccidere - le ragioni terrene non bastano. Bisogna ricorrere a riferimenti superiori in grado dì giustificare l’omicidio e il sacrificio della vita. Solo così si può trovare il coraggio di attraversare la soglia dell’ordinario per entrare nello straordinario. Ma una tale strumentalizzazione della religione è inaccettabile. Sia per la comunità politica - come si può usare un argomento di questo tipo per giustificare un’invasione? - che per quella religiosa, che si vede tradita proprio nei suoi elementi fondamentali. Non è per caso che, nella Bibbia, subito dopo la rivelazione del Dio vivente - Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno - segue immediatamente il divieto di ogni strumentalizzazione. “Non nominare il nome di Dio invano” significa esattamente questo: non è lecito all’uomo tirare in ballo Dio per giustificare i propri disegni terreni. Qualunque essi siano. Anche se tante volte dimenticato, si tratta di un principio fondamentale per lo sviluppo della civiltà. La citazione di Putin è dunque blasfema e pretende di farci tornare a epoche premoderne. E tuttavia, l’Occidente farebbe bene a non sottovalutare la questione religiosa. Sarebbe un grave errore non accorgersi della proliferazione del fondamentalismo in tante regioni del pianeta. Un fenomeno che attraversa tutte le grandi religioni. Ci sono fondamentalisti islamici, induisti, ortodossi, protestanti evangelici, cattolici. Ciò che accomuna tutti questi gruppi è proprio l’accusa a cui fa riferimento Kirill: il modello occidentale liberale viene visto come una minaccia mortale per le tradizioni religiose. In mano ad autocrati e populisti, abilissimi nella strumentalizzazione, questo discorso arriva alla conclusione che l’Occidente è il “nemico”. È questa la principale risorsa identitaria su cui si innesta gran parte della violenza dei nostri tempi: da Bin laden a Putin, le peggiori atrocità sono legittimate da un’aura di sacralità. Il tema è cruciale. Non si dovrebbe dimenticare che l’Europa (gli Stati Uniti sono un po’ diversi da questo punto di vista) è l’unico continente in cui la rilevanza della religione nella sfera pubblica è ridotta a un lumicino. A differenza di quanto accade da noi, nel resto del mondo la stragrande maggioranza della popolazione continua ad avere un orientamento religioso. Un dato tra i tanti: in Svezia la percentuale di persone che dichiarano un’affiliazione religiosa non arriva al 20%. Nei Paesi del Nord Africa (Marocco, Tunisia etc.) siamo attorno al 90%. Un divario molto ampio che segnala differenze profonde nella interpretazione della realtà. Comunque la si pensi, liquidare le fedi religiose come qualcosa di anacronistico è un grave errore. Essere realisti significa considerare la rilevanza di questo aspetto così da evitare di consegnare nelle mani di chi ci minaccia una carta importante per giustificare le azioni più violente. Il principio di laicità che l’Occidente ha interiorizzato per la vita politica dei singoli Stati nazionali è ben lontano da essere applicabile alla scala globale. La questione interpella altresì le Chiese di ogni credo. È chiaro, infatti, che in un mondo divenuto piccolo, in cui dobbiamo imparare a convivere e in cui il peso della religione rimane importante, le grandi Chiese devono assumersi una responsabilità nuova: spezzare in modo più netto il nesso tra religione e guerra. È urgente lavorare per arrivare a una dichiarazione solenne per affermare il rifiuto di qualsiasi giustificazione religiosa dei conflitti armati. Dichiarazione che, per poter sussistere, deve andare di pari passo con l’altro grande tema della libertà religiosa. Un primo passo in questa direzione era stato compiuto da papa Wojtyla nel 1986 con l’incontro di Assisi. Un tentativo che va ripreso e rafforzato. Papa Bergoglio si muove su questa linea. Nelle ultime settimane il Papa è stato chiaro: la guerra è sempre odiosa e ingiusta; provoca inutili sofferenze, è disumana; non è accettabile che la religione sia strumentalizzata per scopi politici e tanto meno affermare la fede attraverso la violenza. E l’ipotesi di una visita a Kiev vuole andare proprio in questa direzione. Sottrarre a Putin - e a tutti gli autocrati e i populisti che si aggirano per il mondo - la legittimazione religiosa contribuirebbe a sgonfiarne le pretese espansionistiche. Questo è il contributo che le Chiese possono oggi portare alla pace. Ucraina. “A Bucha crimini contro l’umanità: la Corte penale farà indagini e processi” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 5 aprile 2022 Secondo il professor Marco Pedrazzi, “quanto è accaduto rappresenta una svolta nella brutalità della guerra”. Il colore della morte è nelle immagini di Bucha. Cielo plumbeo. Alberi brulli. Corpi di persone uccise disseminati qua e là lungo le strade della cittadina dell’oblast di Kiev. C’è pure il corpo esanime di una persona crivellata di colpi mentre si spostava in bicicletta, vicino ad alcuni villini che potrebbero essere quelli di una qualunque cittadina italiana. Ma il simbolo di questo massacro è il corpo di una donna che cercava di sfuggire alle violenze dei soldati dell’Armata russa in ritirata, resisi conto di non riuscire a sfondare nei dintorni della capitale ucraina. Indossava un piumino blu. La sua mano è stata immortalata dalla fotografa Zohra Bensemra della Reuters. La sua femminilità e delicatezza non vengono del tutto cancellate dalla brutalità. Le dita smaltate di rosso spiccano sul terreno ricoperto da alcuni detriti. Una fotografia che ferma un ultimo attimo di esistenza sulla martoriata terra d’Ucraina, che fa i conti con i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità. Il team di inquirenti avrà bisogno di tempo per ricostruire ogni aspetto della strage consumatasi domenica. Ne è convinto Marco Pedrazzi, ordinario di Diritto internazionale nell’Università di Milano “Statale”. “Le scene che abbiamo visto - commenta - suscitano orrore. Per identificare i crimini e ancor più per individuare gli autori e i responsabili occorreranno indagini approfondite. Se verrà dimostrato che questi fatti sono ciò che appaiono a prima vista e quali sono riportati nelle cronache, siamo in presenza di condotte che si qualificano sia quali crimini di guerra, in quanto omicidi ed altri atti di violenza commessi contro civili inermi, sia quali crimini contro l’umanità, trattandosi di un attacco contro la popolazione civile, che pare presentare i caratteri della sistematicità e del compimento su vasta scala, integrando l’ipotesi dello sterminio. Ma qualunque conclusione non può che essere rinviata ai processi che, sperabilmente, seguiranno”. A questo punto tutti confidano nella giustizia internazionale e negli strumenti legali che potrà presto mettere in campo. “È chiaro - evidenzia l’accademico - che la Corte penale internazionale, nelle indagini che sta svolgendo sugli avvenimenti in Ucraina, non potrà che prestare particolare attenzione ai gravissimi fatti di Bucha. Tra le situazioni verificatesi finora, quanto verificatosi in questa città sembra costituire un fatto chiave, un punto di svolta nella brutalità del conflitto. Non dobbiamo peraltro dimenticare che le giurisdizioni ucraine stanno indagando su questi fatti, che l’Ucraina ha giurisdizione e che la Corte penale internazionale non può intervenire in casi che siano oggetto di indagini o processo davanti a giudici interni, a meno che lo Stato in questione dimostri di non avere la volontà o la capacità di condurre le indagini o il processo in modo genuino”. La situazione in Ucraina è comunque in continua evoluzione. “È anche possibile - aggiunge Pedrazzi - che nel prossimo futuro si assista ad una sorta di divisione dei compiti fra giudici interni, non solo ucraini, visto che indagini sono avviate anche in altri Paesi, e giudici internazionali, nel senso che i primi si concentrino su funzionari di rango minore mentre i funzionari di grado più elevato siano lasciati nelle mani della giustizia penale internazionale. Tutto dipenderà, comunque, in primo luogo, dalle azioni che saranno poste in essere dai magistrati interni”. Silvana Arbia, magistrato apprezzato in tutto il mondo e negli anni scorsi Prosecutor del Tribunale penale internazionale per il Ruanda, invita prima di ogni cosa a non farsi travolgere dall’onda emotiva. “Con le atrocità che ho visto in tanti conflitti in varie parti del mondo - afferma - il mio pensiero e la mia riflessione sono costanti tutti i giorni e tutti i minuti sull’Ucraina, sull’intero popolo ucraino inclusi i fuoriusciti. Non penso però sia giusto né utile alle vittime, strumentalizzare, a fini di impatto mediatico, immagini e scene infernali per scatenare reazioni emotive volatili ed effimere su comuni spettatori per indurli a favorire l’escalation della guerra. Ho già ripetutamente espresso la mia opinione sui crimini internazionali ipotizzabili nel conflitto in atto tra le forze russe e quelle ucraine, e i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra da identificare in relazione al conflitto armato internazionale, per quanto concerne gli eventi dal 24 febbraio 2022, mentre per quelli precedenti si può far riferimento anche al conflitto armato a carattere non internazionale. Il genocidio finora non mi pare ipotizzabile. Sulla base delle informazioni che riceviamo, da vagliare attraverso la raccolta di materiali ed elementi di prova che l’Ufficio del Procuratore presso la Cpi sta conducendo in anticipazione della formale apertura delle indagini se autorizzata dalla Pre- trial Chamber assegnataria della situazione Ucraina, non emergono elementi sulla possibile esistenza di crimini commessi con l’intenzione di distruggere in tutto o in parte un gruppo etnico o un gruppo razziale o un gruppo nazionale o un gruppo religioso in quanto tale”. Arbia si sofferma sul metodo di lavoro che gli inquirenti adotteranno. “Le immagini di Bucha - rileva - dovrebbero indurre a porre in essere senza ritardo le operazioni atte a dare nomi alle vittime, ai potenziali testimoni, a conservare l’autenticità degli elementi di prova e quant’altro utile per perseguire e punire i responsabili di crimini gravissimi. La responsabilità di tali crimini è non solo di chi li commette, ma anche delle persone in posizione di autorità militare e o civile, rispetto agli esecutori. Ampia giurisprudenza elaborata dai Tribunali penali internazionali ad hoc ci consente di imputare a tali persone la responsabilità di non aver impedito e o di non aver punito gli esecutori. Oltre alla responsabilità delle forze occupanti di proteggere i civili. Sul piano politico e diplomatico Stati Unite e Ue devono impegnarsi a usare tutti i buoni uffici per avvicinare le parti e prevenire, con la cessazione dei combattimenti, ulteriori atrocità. Ma senza ritardo”. Ucraina. Guerra e crimini: ecco perché fare giustizia sarà molto difficile di Andrea Lavazza Avvenire, 5 aprile 2022 La Russia nega le stragi a Bucha e parla di falsi. Una strategia che mira a fare dubitare delle atrocità compiute. La Corte penale dell’Aja non è riconosciuta da Mosca, che all’Onu ha potere di veto. Il presidente americano Joe Biden ha chiesto un processo al presidente russo Vladimir Putin per crimini di guerra. Sembra una situazione paradossale e incredibile, se pensiamo a quaranta giorni fa. Si era alla vigilia dell’invasione dell’Ucraina e gli Stati Uniti, con una previsione azzeccata, annunciavano l’imminente offensiva tra lo scetticismo generale. Poi sono partiti i missili, sono decollati gli aerei e i carri armati hanno superato la frontiera. Nel Nord del Paese la battaglia ha subito infuriato. Molti villaggi e cittadine sono stati conquistati, mentre la capitale, anche grazie alle informazioni di intelligence Usa, resisteva. Proprio in quei villaggi e in quelle cittadine sono stati commessi efferati delitti sui civili: torture, stupri, esecuzioni sommarie, spari su gente in fuga. Le vittime sono centinaia. Migliaia quelle a Mariupol nel Sud. In tutti i casi, vi sono fotografie e testimonianze convergenti. Il presidente Zelensky, mettendo a rischio la propria incolumità, si è recato personalmente a Bucha, diventata il luogo simbolo delle atrocità commesse dalle truppe russe. Mosca, di fronte a tutto ciò, nega risolutamente la propria responsabilità, parla di situazioni e immagini costruite ad arte, di massacri di cittadini filorussi da parte ucraina e, persino, di falsi in piena regola. Naturale che non vi sia alcuna ammissione. La macchina della propaganda, con un meccanismo astuto, cerca di sfruttare i dubbi che spesso accompagnano l’attribuzione delle stragi in guerra. Si dice spesso “la verità sta nel mezzo”. Quindi, se dal Cremlino si costruisce una contro-narrazione esagerata da opporre alla denuncia di Kiev, il risultato può essere una mezza verità in cui l’Armata d’invasione ha sì commesso alcuni crimini, ma gli ucraini cinicamente inscenano eccidi che non sono mai esistiti. Qualcosa di simile si è già sentito anche in Italia da parte degli scettici a oltranza sulle nefandezze dell’esercito di Putin. C’è persino chi ha evocato una “fiction”. L’altra strategia è quella di chiamare in causa le responsabilità altrui per altre vicende: “L’America pensi prima all’Iraq”. Come se le malefatte di altri in passato rendessero meno gravi quelle di cui si sta discutendo. Ecco allora che la domanda “Quanto c’è di vero?” rimbalza fuori luogo e chiederebbe una risposta chiara e univoca, capace di spazzare e tacitare i dubbi strumentali. In primo luogo, come in tante altre occasioni (l’11 settembre, per fare un esempio) è difficile pensare che si possa organizzare un complotto e una messinscena che comportano la partecipazione attiva di migliaia di persone senza che nulla trapeli. Certo, ora siamo solo a un paio di giorni dalle rivelazioni (ed è comprensibile l’enfasi da parte ucraina), ma sul posto vi sono molti reporter internazionali di vari Paesi, non tutti necessariamente schierati al fianco dell’Ucraina al punto da mentire ed essere complici di una macchinazione per incolpare il Cremlino. L’Unione Europea ha poi annunciato la costituzione di una commissione d’indagine. Soprattutto, vi sono i tribunali sovranazionali. Qui, tuttavia, sorge il problema verso la verità e la giustizia. Nel caso dell’ex Jugoslavia, per esempio, si è potuta costituire una corte ad hoc indipendente che ha raggiunto importanti risultati. Per Bucha, i candidati principali sono le Nazioni Unite e la Corte penale internazionale dell’Aja, costituita proprio per sanzionare i crimini di guerra. A quest’ultima la Russia non ha ratificato l’adesione, rimanendo quindi fuori dalla sua giurisdizione. I procuratori possono indagare, come hanno già cominciato a fare sulla base di un’ampia documentazione, ma non possono contare sulla collaborazione di Mosca, che quindi non consegnerebbe gli eventuali responsabili delle stragi. Per quanto riguarda l’Onu, emergono di fronte al conflitto scatenato dal Cremlino i limiti e le rigidità dell’Organizzazione nata per cristallizzare gli equilibri emersi dalla Seconda guerra mondiale. Il Consiglio di Sicurezza è composto da 5 membri che hanno il potere di veto a qualunque iniziativa, compresa la riforma dell’Onu stessa. In questo modo, Usa, Urss prima e ora Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna si garantiscono anche la potenziale immunità da inchieste scomode. Le democrazie non si sottraggono alle proprie responsabilità (anche se gli Stati Uniti non partecipano alla Corte penale internazionale), ma le autocrazie di solito lo fanno. Pertanto, è molto bassa la probabilità che Putin acconsenta a un processo, non a se stesso ovviamente, ma nemmeno ad alcuni suoi militari indiziati (e presunti colpevoli) di gravi delitti. In questo modo, il Cremlino potrà continuare a negare gli orrori di Bucha, di Mariupol e delle prossime città martiri dell’Ucraina. Una risposta di chi non si rassegna all’inerzia davanti all’orrore è quella di aumentare le sanzioni e l’isolamento di Mosca affinché si convinca Putin a un vero negoziato che contempli anche, nelle condizioni della tregua, l’istituzione di un organismo super partes incaricato di fare chiarezza definitiva su quelle che già oggi appaiono insopportabili e incontrovertibili atrocità. Sarebbe un notevole successo, sapendo che vedere il presidente russo alla sbarra è per ora totalmente irrealistico e anche solo evocare l’eventualità non fa che rendere più difficili le trattative. Migranti detenuti in Ucraina, sotto le bombe di Giulio Cavalli Left, 5 aprile 2022 Vicino alla città ucraina di Lutsk c’è un centro di detenzione per migranti finanziato anche dall’Unione Europea che sembra continui a trattenere un numero non precisato di migranti nonostante la guerra. Situato in una pineta nel nord-ovest dell’Ucraina, vicino al confine con la Bielorussia, il Zhuravychi Migrant Accommodation Center della regione di Volyn è un’ex caserma dell’esercito costruita nel 1961 che è stata trasformata in un centro di detenzione per migranti nel 2007 con fondi dell’Ue. La moglie di un detenuto che è stato rilasciato la scorsa settimana ha detto che non c’erano rifugi antiaerei per i detenuti e che le guardie sono corsi giù per la strada quando è suonata la sirena. Un membro del personale di una Ong ha affermato di essere stata in contatto con diversi detenuti nelle ultime settimane. Al Jazeera ha visto i loro documenti d’identità e, in alcuni casi, i visti utilizzati per entrare in Ucraina. I detenuti provengono da Sudan, Pakistan e Bangladesh. Alcuni dei detenuti erano stati arrestati nei mesi precedenti all’invasione russa mentre cercavano di entrare nel territorio dell’Ue e sono stati riconsegnati alle autorità ucraine. Niamh Ní Bhriain, coordinatrice del programma di guerra e pacificazione presso il Transnational Institute ha raccontato a Al Jazeera che il centro rientra nel programma di esternalizzazione delle frontiere dell’Unione europea. L’Ucraina ha ricevuto 1,7 milioni di euro per attrezzarne il sistema di sicurezza perimetrale e per le sbarre per porte e finestre. Negli ultimi anni vi sono state trattenute circa 150 persone. Fino alle ultime settimane vi erano detenute circa 45 persone. I casi della storia rapidamente trasformano i popoli che concorrevano nel respingere i disperati in disperati che chiedono di essere accolti. Questa è l’ennesima lezione, solo che noi non impariamo mai. I militari italiani in Libia, missione fallita: “I libici bloccano anche i viveri” di Youssef Hassan Holgado e Giovanni Tizian Il Domani, 5 aprile 2022 Soldati esasperati, visti ritardati, viveri bloccati nel porto dai libici e presunte trattative per farli passare. La storia del contingente italiano della missione Miasit con base a Misurata è diventato un caso diplomatico tenuto sotto traccia per non alimentare polemiche su un’operazione in un territorio strategico ma conteso dalle potenze mondiali. Ci sono i turchi in espansione che stanno realizzando una base navale; mentre, certamente fino a un paio di anni fa, nel raggio di un chilometro dal campo italiano si trovavano i centri della Sas (le forze speciali inglesi) e del dipartimento di stato americano. Qui c’è, appunto, anche la struttura militare italiana. Fino al 5 marzo duecentocinquanta soldati italiani sono rimasti bloccati in Libia oltre il tempo massimo della missione (180 giorni), in attesa dell’arrivo del nuovo contingente, che però ha posticipato la partenza a causa dei ritardi dell’ambasciata libica a Roma nel rilascio dei visti per i loro passaporti. Non è la prima volta, avviene di continuo, e il ritardo ha un costo. L’ambasciata libica fa sapere che per ogni giorno di permanenza in più sul territorio con il visto scaduto sicuramente ci sono delle penali da pagare. Si è ripetuto un canovaccio già sentito la scorsa estate, quando Domani aveva rivelato che la nuova squadra di soldati che avrebbe dovuto dare il cambio ai colleghi era arrivata con circa tre mesi di ritardo sempre per lo stesso motivo: l’ambasciata libica ritardava il rilascio dei documenti per il contingente in partenza. “Sono stati sette mesi da incubo”, dice a Domani uno dei militari rientrati dalla missione. “È la prima volta che sono stato in Libia e sono rimasto veramente scioccato. Abbiamo avuto un trattamento da parte dei libici che non mi sarei mai aspettato”. La storia di Miasit - La missione bilaterale di supporto e assistenza (Miasit) nasce nel 2018, tuttavia negli anni il suo scopo è diventato marginale. È stata istituita in risposta alle sollecitazioni di Fayez al Sarraj, allora presidente del governo di accordo nazionale libico, che aveva inviato due lettere al nostro governo: la prima il 30 maggio del 2017, la seconda il 23 luglio, in cui chiedeva addestramento in Italia e in Libia per i suoi uomini con l’obiettivo di contrastare l’immigrazione illegale e ricevere supporto sanitario garantito dall’ospedale da campo italiano Role due di Misurata. Oggi quell’esecutivo non c’è più, al suo posto ci sono due centri di potere diversi. Nel febbraio del 2021 a capo del governo di unità nazionale è stato eletto dai delegati del Forum di dialogo politico libico, sotto l’egida delle Nazioni unite, Abdel Hamid Dbeibah. A un anno di distanza dall’elezione di Dbeibah, la Libia vive uno stato di profonda crisi politica dopo il rinvio del voto previsto per il 24 dicembre 2021. La nuova data non è ancora stata fissata, nel frattempo il parlamento di Tobruk ha scelto Fathi Bashagha come nuovo premier non riconoscendo più l’autorità di Dbeibah, il quale lo scorso 10 febbraio è scampato a un attentato mirato contro il convoglio sul quale viaggiava diretto alla sua residenza. Il rischio è il ritorno a una situazione di profonda instabilità del paese, lacerato con due governi, uno a est e l’altro a ovest. Dbeibah, di certo, non ha intenzione di concludere il suo mandato prima di nuove elezioni. In questo clima di incertezza gli obiettivi iniziali previsti dal decreto della missione italiana includevano una serie di attività, tra cui l’addestramento per lo sminamento dell’area, al momento rimaste solo su carta e mai eseguite dal contingente italiano a Misurata. “Qui non siamo ben visti, “quando vieni te ne accorgerai”, mi disse il mio cambio”, dice uno dei soldati in missione. “A livello logistico siamo stati soppiantati dai turchi, l’unico motivo per stare lì è l’ospedale, però quando entrano due-tre visite al giorno non ha neanche senso rimanere là in una situazione del genere”, racconta un secondo militare. Tra i membri del contingente la sfiducia è diffusa. Sorge il dubbio sulla necessità di questa missione, che tra l’altro ha dei costi non indifferenti. Nel 2020 la stima di spesa è stata di oltre 47 milioni di euro, soldi che vanno a coprire i costi del personale impiegato, circa 400 unità, e quello dei mezzi sia terrestri che aerei utilizzati. Il ricatto sui container bloccati al porto - “Dalla base militare non uscivamo mai, quando non lavoravamo passavamo la giornata in palestra, a mensa e stesi sui lettini. Era diventata pura routine, quella cosa che ti ammazza durante la missione”, dice un altro soldato. La struttura, che si trova a pochi metri dall’aeroporto, in un’area semi desertica come si vede dalle immagini satellitari, lavora a regimi ridotti con pochi medici e infermieri che si prendono cura di una decina di pazienti ogni mese. A confermarlo sono i militari: “C’erano giorni in cui non entrava nessuno e altri in cui magari c’erano solo due o tre visite da fare”. Numeri esigui rispetto agli anni più cruenti della guerra civile libica, in cui serviva effettivamente un aiuto umanitario e militare per il governo riconosciuto dalle Nazioni unite. Alla situazione di stallo di oggi si sommano anche l’ostruzionismo e i dispetti della controparte libica, che non nasconde il disprezzo per la presenza italiana. Il caso che crea più tensioni interne, spiegano fonti interne alla missione, riguarda i container con i viveri per il contingente trasportati dall’Italia fino al porto di Misurata. Giunti nello scalo portuale libico vengono spesso bloccati. Così il cibo nella base inizia a scarseggiare, resta il riso, ma le riserve d’acqua potabile si riducono drasticamente. “C’erano settimane in cui non arrivava nulla, gli addetti alla dogana locale sono quelli che bloccavano i container, ma sicuramente l’ordine veniva dall’alto”, dice uno dei militari. Dopo diverse trattative il personale riusciva a ottenere i viveri, ma a quale prezzo? “Ufficiali, addetti alla logistica, uscivano con i soldi, ma non ho mai visto scambi di denaro”, dice una delle fonti in missione a Misurata. Le tre fonti riferiscono delle trattative sui container ma precisano di non aver mai visto direttamente consegne di denaro alla controparte libica. Tuttavia riferiscono di negoziati per liberare i container in ostaggio, “era l’unico modo per sbloccare i container che rimanevano al porto a marcire, del resto la Libia non è il primo posto al mondo dove succedono cose del genere: è una regola non scritta”, dice uno di loro. La Difesa precisa: “Siamo a conoscenza che il rilascio dei visti e le pratiche di sdoganamento delle merci possono subire ritardi a causa delle procedure burocratiche, ma in merito a quanto segnalato, le uniche incombenze di cui si ha conoscenza riguardo l’arrivo delle merci giunte via mare sono di carattere doganale”. I vertici militari, dunque, escludono trattative e imputano i ritardi dello sdoganamento solo a lentezze burocratiche. Di certo, però, il porto di Misurata è al centro di recenti scandali di corruzione. Il giornale online Lybia Herald, il 10 gennaio 2022 (nei giorni in cui abbiamo raccolto le testimonianze delle nostre fonti interne) riportava la notizia dell’arresto di nove agenti doganali per un’appropriazione indebita da 25 milioni di euro in combutta con società con affari nello scalo portuale libico. Uno studio del 2022 del Bti trasformation index, un gruppo di lavoro composto da 300 esperti di geopolitica, rivela l’esistenza solo a Misurata di oltre 200 milizie diverse, tra le più spietate, accusate di crimini gravissimi, molte delle quali collegate al governo del generale Haftar. Alcuni di questi gruppi gravitano proprio attorno agli interessi del porto, il più importante in Libia e sempre più sotto il controllo turco: alla fine del 2021 Berat Albayrak, ex ministro dell’Economia nonché genero di Recep Tayyp Erdogan, il presidente della Turchia, aveva presentato un’offerta per avere in concessione per 25 anni l’area più contesa del porto di Misurata. Secondo fonti dei servizi segreti citate dalla testata specializzata Africa intelligence, “l’offerta prevede lo sviluppo delle infrastrutture della regione, con il dieci per cento dei ricavi da destinare all’assistenza finanziaria alle imprese che intendono stabilire la propria presenza nella zona franca, condizione che potrebbe essere utilizzata per assistere le imprese industriali turche”. La crescente influenza di Erdogan nell’area è confermata anche dai soldati tornati dalla missione di Misurata: “A settembre alcuni funzionari libici sono entrati con uomini dell’intelligence turca dentro la base. Sono stati lasciati entrare bypassando tutti i controlli possibili e immaginabili. Hanno fatto foto ovunque: nel deposito munizioni, nell’armeria, ai mezzi, alle targhe, ai lince con la torretta motorizzata. La fortuna ha voluto che non sono entrati nell’area riservata, dove hanno accesso pochissime persone dato che ci sono materiali riservati e mi hanno detto anche segreti”, racconta uno dei soldati del contingente. I libici, insieme a presunti membri dei servizi segreti turchi, si muovevano come se fossero a casa loro. “Potevamo fare ben poco, non gli puoi dire niente. Chiunque poteva entrare nella base, bastava superare i controlli dei check point libici”. L’ostilità libica ha ripercussioni anche sull’incolumità dei soldati. Tanto che quando i membri del contingente escono dalla base devono farlo in abiti civili e disarmati, così vogliono i libici. “Noi non eravamo autorizzati a portare le armi in giro. Addirittura nascondevamo le armi nella nostra base”, dice uno dei soldati. La stessa situazione è stata evidenziata da un’interrogazione parlamentare di Fratelli d’Italia a cui né il ministero della Difesa né il governo ha risposto. Anche le autorità italiane sono consapevoli dei rischi della missione, nessun funzionario militare di alto rango ha fatto visita alla missione negli ultimi mesi, neanche durante le festività natalizie per i consueti auguri. Verso gennaio, invece, c’è stato un incontro online tra i vertici del Miasit e il generale Francesco Paolo Figliuolo, già commissario straordinario all’emergenza Covid, che da inizio 2022 ha assunto anche la direzione del Covi (Comando operativo vertice interforze). Ufficialmente è stato un incontro di presentazione e di inaugurazione delle nuove funzioni di Figliuolo, tuttavia durante il collegamento si è fatto cenno alla possibilità di trasferire la missione da Misurata a Tripoli. Per ora sono ancora ipotesi. “A volte ci sono delle difficoltà di comprensione dovute sia alla lingua che ad atteggiamenti differenti che sono complessi. Ci vuole tanta pazienza per lavorare sia da una parte che dall’altra in questo tipo di contesti ed è proprio quella la chiave del successo: la pazienza nel portare avanti il discorso con calma e tranquillità”, è la replica del Covi diretto da Figliuolo. Dal comando escludono attriti con la Libia. La causa dei problemi? “Loro hanno la loro burocrazia, ne siamo al corrente e se ne occupa lo stato maggiore della Difesa”, dice il Covi, che precisa: “Il vertice interforze si occupa dell’avvicendamento e del controllo del personale anche del Miasit, in questo caso il Covi si avvale dei colleghi dell’ambasciata libica a Roma dove hanno un ufficio militare e dove hanno loro procedure che sono probabilmente un po’ lunghe”. Lo scenario di guerra - Il teatro di guerra in cui si muove il contingente non è rassicurante, nel 2019 un attacco aereo attribuito all’Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar ha colpito alcuni bunker nei pressi dell’aeroporto di Misurata usati dai turchi arrivati in supporto del governo di Tripoli. Obiettivi vicini all’area dell’ospedale e della base del contingente italiano, che non hanno subito danni, come confermato dall’ambasciata. Sempre nella stessa area, a luglio 2020, un incidente ha causato una forte esplosione ha distrutto due bunker che custodivano munizioni. Inoltre a meno di due anni di distanza il paese sta affrontando una crisi politica ed economica che potrebbe avere ripercussioni sul processo di transizione democratica avviato dalle Nazioni unite. Il paese è ancora insicuro e in alcune aree continuano gli scontri tra le milizie e i gruppi armati che si stanno riorganizzando in questo nuovo assetto del potere che vede protagoniste in prima linea anche forti potenze come la Russia e la Turchia. Nell’estate del 2020 un incontro tra il governo di accordo nazionale e membri della difesa turca e del Qatar hanno raggiunto un accordo per creare una base militare a Misurata. In questo scenario la presenza italiana è vista come un’intrusione, fastidiosa, nel controllo completo nell’area. Qualche anno prima, nel giugno del 2018, erano state le tribù del Fezzan (regione che copre il centro sud della Libia) a esprimere, attraverso un comunicato, la loro contrarietà alla presenza italiana, considerata come straniera e occupante del territorio libico. Nel comunicato si chiede anche alle tribù locali di combattere contro l’esercito italiano. “Tecnicamente a Misurata ci saremmo noi, ma in realtà ci sono i turchi che hanno un ruolo privilegiato. Però è anche vero che in quell’area comandano i misuratini, sono loro che decidono cosa fare e con chi interagire, hanno l’ultima parola su tutto”, dice Giuseppe Dentice, responsabile desk medio oriente per il Centro studi internazionali, che spiega: “I nostri soldati ma anche altri hanno problemi simili. Questa situazione è figlia della spartizione della nuova Libia”. “In nome dei valori libici e islamici”: a Tripoli giro di vite contro la libertà d’espressione di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 5 aprile 2022 Negli ultimi quattro mesi l’Agenzia per la sicurezza interna, i servizi di sicurezza libici basati a Tripoli, ha avviato una vasta campagna repressiva col dichiarato scopo di proteggere “i valori libici e islamici”. Ne hanno fatto le spese molti giovani, costretti a “confessare” in video di aver propagato il “disprezzo per l’Islam” e aver avuto contatti con organizzazioni internazionali, tra cui Amnesty International. Le persone arrestate sono state inizialmente trattenute nel quartier generale dell’Agenzia per la sicurezza interna e poi trasferite nelle prigioni di al-Jadida e di Mitiga, quest’ultima diretta dalla milizia denominata “Apparato di deterrenza per combattere il crimine organizzato e il terrorismo”, nota per compiere omicidi, sparizioni e torture nella più completa impunità. Le prime “confessioni” in video hanno iniziato a circolare a dicembre: sette degli arrestati hanno dichiarato, in evidente stato di coercizione e senza che fossero presenti avvocati, di essere in contatto con atei, agnostici, laici, femministe, lesbiche e gay. L’Agenzia per la sicurezza interna ha corredato le “confessioni” con comunicati stampa in cui si congratulava con se stessa poiché stava combattendo contro comportamenti “immorali” e opposti ai “valori libici e islamici” che hanno l’obiettivo di diffondere l’ateismo, invogliare i giovani a viaggiare all’estero e promuovere pratiche sessuali “non ortodosse” in nome della libertà. Molte delle persone citate nelle “confessioni” - tra cui attivisti della diaspora e giornalisti che vivono in Libia - e delle quali l’Agenzia per la sicurezza interna ha reso noti nomi, cognomi e volti, sono state costrette a nascondersi dopo aver ricevuto minacce di morte o essere state accusate, tramite i social media, di “danneggiare la moralità della Libia”. In altri comunicati stampa, l’Agenzia per la sicurezza interna ha messo in guardia dall’influenza “immorale” esercitata dalle organizzazioni internazionali, accusate di voler sfruttare la gioventù libica attraverso la diffusione di “falsi ideali”. Il 13 marzo, a seguito delle minacce ricevute dall’Agenzia per la sicurezza interna, l’associazione Tanweer, che si batte per i diritti delle donne e delle persone Lgbti, ha annunciato la sua chiusura. *Portavoce di Amnesty International Italia Ruanda. Confermati 25 anni di carcere allo “Schindler africano” ansa.it, 5 aprile 2022 Paul Rusesabagina, protagonista del film “Hotel Rwanda”, ha evitato l’ergastolo. Non era presente in aula al momento della sentenza. L’accusa è di aver supportato attacchi mortali nel Paese nel 2019 Quando la radio Hutu incitava “a tagliare gli alberi alti”, Paul Rusesabagina non ebbe indecisioni. Li salvò dal machete. Lui era il direttore dell’Hòtel des Mille Collines di Kigali e qui dentro nascose 1.200 tutsi e hutu moderati. In quel genocidio, che da aprile a luglio del 1994 costò la vita a 800mila persone, Paul si conquistò la fama di “Schindler africano”. Alle donne e ai bambini che si nascondevano terrorizzati in quelle stanze d’albergo il protagonista del film “Hotel Rwanda” ripeteva una sola cosa: che le forze di liberazione tutsi di Paul Kagame erano vicine. E davvero non poteva immaginare che a distanza di anni si sarebbe preso 25 anni di carcere con l’accusa di terrorismo per aver sostenuto gli eredi dei genocidari hutu, proprio nel nuovo Ruanda di Kagame. Ma la storia, dice qualcuno, “ha molto più fantasia della fantasia stessa”, e oggi la Corte d’appello di Kigali ha confermato la condanna all’eroe di Hotel Rwanda. Per i giudici Rusesabagina “ha fondato un’organizzazione terroristica, finanziato attacchi armati nel 2019 e inventato un codice per nascondere queste attività”. Il direttore dell’Hòtel des Mille Collines è riuscito a scampare l’ergastolo, ma tanti sono i nodi irrisolti. I suoi sostenitori affermano che le accuse sul suo passato hanno una motivazione politica. E criticano il processo che ha portato alla condanna. Diritti di difesa calpestati, prove fabbricate e giudizi preconfezionati hanno portato alla condanna, dicono. E anche il Dipartimento di Stato americano concorda che il processo non è stato giusto. Ma i fatti, si sa, sono muti quando opinabili. Alcuni sopravvissuti nascosti all’interno dell’Hotel des Mille Collines hanno visto un altro film, descrivendo Rusesabagine come “individuo corrotto e in affari con gli estremisti Hutu”. Il mistero avvolge la vita di un uomo che ha boicottato tutte le fasi del processo e oggi non era neanche presente in aula per la sentenza d’appello. Rusesabagina non riconosce la legittimità di quel Tribunale. Non solo. Migliaia di suoi sostenitori gridano al tradimento contro Kagame, accusato di essere ormai un autocrate. Il rischio è che nuove divisioni possano esplodere in un Paese che aveva riconosciuto Rusesabagina come un hutu che aveva saputo scegliere la parte giusta della storia. Molti tutsi non dimenticano quei tre mesi di stupri e massacri. Mentre la Radio Television Libres des Mille Collines, ribattezzata ‘Radio machete’, esortava gli hutu al genocidio dei tutsi, le nazioni europee si giravano dall’altra parte. Paul non scelse né la ferocia né l’indifferenza. Aiutò i tutsi malgrado fosse hutu. “Quando il mondo chiuse gli occhi, egli aprì le sue braccia”, si legge nella tag-line del film.