Giustizia, l’ultima trattativa. E il premier sente Berlusconi di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 4 aprile 2022 Oggi il vertice per uscire dallo stallo. Draghi chiede di salvaguardare il governo da problemi. L’ultima trattativa sulla giustizia partirà stamattina, con la consapevolezza che il tempo stringe ma le visioni sono ancora troppo distanti. Un vertice di maggioranza è stato convocato per le 10. E, nelle intenzioni del governo, bisognerà sciogliere in giornata tutti i nodi ancora irrisolti, che non sono pochi. Andando avanti “ad oltranza” per arrivare a un testo condiviso. Soprattutto sulla riforma del Consiglio superiore della magistratura. Ma come? Ne ha parlato il presidente del Consiglio, Mario Draghi, sabato, in un colloquio telefonico con Silvio Berlusconi. Chiedendo al leader di Forza Italia di salvaguardare il governo da problemi. In questo momento delicato l’esecutivo non può essere sottoposto a fibrillazioni, gli ha fatto capire il premier, richiamando il senso di responsabilità di ciascuno per raggiungere un accordo. Berlusconi, però, ha riferito ai suoi che su alcuni punti non intende venire meno a “battaglie storiche” di Forza Italia. E tale ritiene una nuova modalità di elezione dei componenti del Csm che preveda una qualche forma di sorteggio. Su questo, come sulla richiesta di estrapolare la revisione degli estimi dalla riforma del catasto, Forza Italia non intende fare passi indietro. Anche perché Berlusconi, come ha spiegato a chi gli è più vicino, si aspetta che Draghi non ponga la fiducia al testo. Quindi è pronto alla sfida: si voti. Convinto di poter raggiungere la maggioranza grazie all’appoggio di Italia Viva e della Lega. Ma se non si uscisse dallo stallo davvero Draghi rinuncerebbe alla fiducia? Proprio per scongiurare lo scenario, la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, dopo l’ennesimo richiamo della settimana scorsa del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a chiudere sulla riforma del Csm da lui definita “non più rinviabile”, ha convocato il vertice senza orario di uscita. Sul tavolo la proposta della Lega: sorteggiare almeno la formazione dei collegi elettorali del Csm. Uno “spunto” per iniziare a discutere. Quantomeno, secondo la Guardasigilli, non anticostituzionale come altre proposte: il sorteggio dei candidati, la responsabilità diretta dei magistrati e il divieto per i parlamentari di essere eletti al Csm. L’unico punto sul quale è stata raggiunta una prima intesa è quello dei magistrati che entrano in politica e poi tornano a indagare o giudicare. Per quelli che assumono incarichi di governo, come ministri e sottosegretari o assessori regionali, le “porte girevoli” dovrebbero fermarsi con un periodo di “fuori ruolo”. Per i candidati non eletti no. Ma non potrebbero rientrare nei distretti in cui si sono candidati. Per i magistrati che assumono incarichi apicali amministrativi, come il capo di Gabinetto o il capo dell’ufficio legislativo, le porte sarebbero ferme per un solo anno, prima di poter tornare a funzioni giurisdizionali. Per tre anni prima di poter assumere ruoli direttivi o semi-direttivi. Csm, rispunta il sorteggio. E Cartabia apre al dibattito di Vincenzo Imperitura Il Dubbio, 4 aprile 2022 Per la Lega: tirare a sorte i collegi elettorali. Ma Zanettin e Costa frenano: “Effetto boomerang, finirebbe per rafforzare le correnti”. Balla sull’ipotesi del sorteggio la riforma del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura. Un sorteggio guardato con sospetto dalla ministra Marta Cartabia e da quella parte della maggioranza di governo (Partito democratico e M5S) che ritiene indispensabile una preventiva riforma costituzionale, e portato avanti invece dal resto dei partiti di maggioranza (Lega, Forza Italia e Italia Viva) e da Fratelli d’Italia, che spingono invece per l’ipotesi di una chiamata a sorte della rappresentanza togata che agisca “a valle”: con il sorteggio cioè dei papabili, che verrebbero poi sopposti al giudizio del voto. Una situazione di stallo che si trascina già da tempo, quando di tempo ormai ne è rimasto poco. Il rinnovo delle cariche del Csm previsto nel giro di pochi mesi impone - il Presidente Mattarella ha già bussato più volte in questa direzione - che si intervenga nelle modifiche al sistema elettorale dell’organo di autogoverno della magistratura al più presto. E in questa direzione sembra muoversi l’emendamento (firmato da 9 parlamentari leghisti) presentato dalla responsabile giustizia del Carroccio Giulia Buongiorno e raccolto dalla stessa ministra Cartabia, che lo ha posto come “spunto di dibattito” per la prevista e decisiva riunione di lunedì. Sul banco, lo scambio del comune denominatore, con l’intervento della sorte, previsto “a monte” dell’intera procedura: a venire sorteggiati non sarebbero i candidati ma i collegi elettorali. L’obiettivo dichiarato resta il medesimo, togliere potere decisionale alle correnti. “Invertiamo un po’ le cose, creiamo un sistema per fare restare l’effetto sorpresa - ha detto Buongiorno - sorteggiamo non i candidati ma i collegi elettorali. In sostanza non è più un sorteggio su chi si candida ma nel momento in cui si inserisce il sorteggio dei collegi dove si eleggono i singoli magistrati noi creiamo lo stesso l’effetto sorpresa”. E se dal vicesegretario di Azione Enrico Costa arriva un secco no alla proposta di mediazione - “Lo spezzatino dei collegi elettorali sorteggiati per le elezioni del Csm sarebbe un gigantesco boomerang. Rafforzerebbe le correnti e quei magistrati che, grazie a inchieste mediatiche, hanno popolarità su scala nazionale” - resta perplesso anche il capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia alla Camera, Pierantonio Zanettin: “Non mi sembra una proposta risolutiva se l’obiettivo è combattere il correntismo. Sorteggiare i collegi e dunque spostare i candidati dai propri territori potrebbe avere come unico risultato quello di farli appoggiare ancora una volta alle correnti amiche relative al collegio”. Martedì inizierà dunque il testo di riforma, dopo la consegna dei pareri del governo su 11 proposte emendative presentate dai gruppi al testo approvato in Consiglio dei ministri. Restano da affrontare i nodi maggiori, tra cui il sistema di voto, ma i pareri confermano l’impianto dell’emendamento governativo, aprendo solo ad alcune richieste, tra cui la possibilità di ridurre il numero massimo di magistrati ordinari collocati fuori ruolo. “Lunedì mattina vedremo di nuovo la ministra Cartabia - ha dichiarato il presidente della Commissione, il grillino Mario Perantoni - è evidente che occorre ancora un supplemento di impegno da parte di tutti per risolvere le criticità aperte e per chiudere rapidamente il lavoro in commissione: l’approdo in aula è previsto per il 19 e non sono pensabili ulteriori rinvii”. “L’emergenza Covid è finita, adesso si torni al processo penale vero” di Valentina Stella Il Dubbio, 4 aprile 2022 Eriberto Rosso, segretario dell’Ucpi: “Norme eccezionali giustificate con la pandemia sono state prorogate in nome dell’efficienza: assurdo”. Con il decreto Milleproroghe del 2022 il governo ha inteso protrarre le disposizioni emergenziali per il funzionamento della macchina giudiziaria fino alla data del 31 dicembre 2022. “Ciò che ha dell’incredibile - ci dice Eriberto Rosso, segretario dell’Unione Camere penali - è che mentre le disposizioni prorogate facevano riferimento alla necessità di contenere il rischio pandemico anche nel mondo giudiziario, dunque processi celebrati in camera di consiglio, contraddittorio cartolare come regola nei processi di appello e cassazione, partecipazione a distanza dei detenuti, riduzione delle cause in trattazione secondo le linee guida dei capi degli uffici giudiziari, riduzione dell’orario di apertura delle cancellerie e quant’altro, la decisione di prolungare questi meccanismi è stata invece motivata sul piano dell’efficienza. Come dire: già che ci siamo, limitiamo prerogative e garanzie della difesa così il sistema è più efficiente!”. Uno dei problemi maggiori è che così si continuerà a celebrare anche meno processi: “La proroga delle norme emergenziali comporta che i capi degli uffici giudiziari, in base ad una valutazione discrezionale, che però era vincolata alla situazione sanitaria, potranno continuare a stabilire un numero minore dei ruoli di udienza. Quindi sì, il rischio è che si continuino a celebrare un numero limitato di processi. Noi invece chiediamo che si ritorni a regime con fissazioni di cause in numero ragionevole, ovviamente compatibile con l’espletamento ordinato di tutte le attività dibattimentali”. Comunque la denuncia dell’Ucpi “ha trovato riconoscimento in Parlamento, tant’è che con la legge di conversione del decreto Milleproroghe si è previsto che dal 1° aprile le persone detenute partecipino in presenza ai processi che li riguardano ma, sul resto, si è fatto orecchio da mercante. Ecco perché l’avvocatura continua la propria mobilitazione per ripristinare tutte le garanzie che debbono caratterizzare il processo e non consentire che regole giustificate dalla emergenza sanitaria diventino ordinarie”. Il Parlamento un primo impegno lo ha preso, con un ordine del giorno di Enrico Costa (Azione) votato non solo dalle forze della maggioranza per verificare le condizioni per revocare, dopo il 31 marzo 2022, anche le norme che consentono le camere di consiglio “da remoto”, cioè senza la contemporanea presenza fisica dei giudici nel medesimo luogo. “Per noi questo è un passaggio assolutamente decisivo - prosegue Rosso -. È inaccettabile che la camera di consiglio non si svolga in presenza, unica condizione per garantire la collegialità. Quanto alla partecipazione “a richiesta” alle udienze nelle cause di appello e in Cassazione, questa ha rappresentato un passo avanti rispetto alle posizioni dei tanti che volevano limitare tutti i giudizi di impugnazione alla sola forma scritta e ha consentito di difendere oralità e immediatezza, componenti essenziali del contraddittorio”. È pur vero che un certo numero di difensori non chiede la trattazione orale nei procedimenti. Come ha detto lo stesso Presidente Caiazza in un recente evento, “noi scegliamo la soluzione cartolare sette volte su dieci”. Del resto, prosegue Rosso, “anche prima delle norme emergenziali erano invalse prassi per le quali vi erano difensori che, magari su sollecitazione del presidente del Collegio, dichiaravano preliminarmente di riportarsi ai motivi dell’atto di impugnazione, così rinunciando a discutere la causa. È invece necessario che il difensore partecipi ogniqualvolta ritenga utile il contributo della sua discussione”. Peraltro, “come recentemente ribadito in un importante dibattito in seno al Consiglio delle Camere penali, è necessario prevedere la trattazione orale a richiesta anche per i ricorsi aventi ad oggetto le misure di prevenzione. Nella stessa Commissione Lattanzi, del resto, erano state prospettate ulteriori situazioni meritevoli della richiesta di trattazione orale, anche se il testo definitivo non ha ritenuto di accogliere quelle indicazioni. Vedremo quali spazi si apriranno con la decretazione di attuazione. Noi insisteremo con le nostre proposte che mirano all’effettività delle regole dell’accusatorio, effettività che non è certo incompatibile con un processo celebrato in tempi ragionevoli”. Ma i problemi non finiscono qui perché, come ha ricordato la presidente del Cnf Maria Masi, occorre “soprattutto garantire il libero accesso alle cancellerie”. Si tratta di un problema molto sentito anche dall’Unione Camere penali. Proprio il presidente dei penalisti romani, Vincenzo Comi, ci racconta che “ha sollecitato al presidente del Tribunale di Roma la riapertura delle cancellerie, senza che venga però pregiudicata la possibilità del sistema degli appuntamenti, che si è dimostrata utile in questo periodo”. Il nocciolo della questione, spiega l’avvocato Comi, è che “bisogna assicurare i diritti delle persone che sono accusate. In tale scenario l’organizzazione del processo rappresenta altresì una modalità di esercizio del diritto della difesa. Perciò deve essere assicurato che l’avvocato possa andare in tribunale e accedere liberamente alle cancellerie”. Dunque, grazie a una ferma opposizione della Camera penale di Roma allo status quo, il presidente del Tribunale di Roma ha emanato pochi giorni fa una nota secondo la quale la cancelleria tornerà a funzionare come avveniva prima del Covid. In particolare: si potrà accedere senza prenotazione dalle 10 alle 12 dal lunedì al venerdì e con prenotazione dalle 9 alle 10 e dalle 12 alle 13. “Si tratta di un primo risultato - conclude Comi - fermo restando che tra due mesi andremo a fare una valutazione di come stanno andando le cose”. I pm demagoghi contro la presunzione d’innocenza di Otello Lupacchini* Il Riformista, 4 aprile 2022 Aristotele, nei Topici [VIII 164b], raccomanda di non discutere con chiunque, perché, in realtà, quando si discute con certe persone, le argomentazioni divengono necessariamente scadenti: quando ci si trova di fronte a un interlocutore, che cerca con ogni mezzo di uscire indenne dalla discussione, lo sforzarsi di concludere la dimostrazione sarà certo giusto, ma non risulterà comunque elegante. Per questa ragione, dunque, eviterò di confrontarmi con faciloneria coi primi venuti, poiché non intendo giungere a discussioni velenose e voglio evitare confronti agonistici. In fondo, che senso avrebbe, per esempio, opporre a chi polemizza a proposito del d.l.gs 188/2021 sulla presunzione di innocenza, arrivando ad affermare, con buona pace della necessità incontrovertibile di tutelare gli imputati, che non possono definirsi colpevoli fino alla sentenza definitiva, che la nuova legge “A me non (…) chiude la bocca. Sono una persona che non ha timore di niente e di nessuno, dico sempre quello che penso e se non posso dire la verità è perché non posso dimostrarla. Continueremo a parlare e a spiegare all’opinione pubblica, che ne ha diritto. Ancora in Italia non è stato negato il diritto di informazione della stampa”, che uniche danneggiate dalla legge stessa sarebbero “certe Procure, che fino ad oggi hanno campato sul marketing giudiziario, che è quanto ci possa essere di più pericoloso, incivile, illiberale e arbitrario per far conoscere ed apprezzare un prodotto parziale, non verificato, non definitivo: l’accusa”? Nessuno, se non magari quello di radicalizzare le posizioni senza costrutto. Il primo ribadirebbe, infatti: “non ho alcun dubbio sugli effetti negativi della legge sulla presunzione di innocenza (…), che vieta a pm e polizia giudiziaria di “indicare come colpevole” l’indagato o l’imputato fino a sentenza definitiva, e impone ai procuratori di parlare con la stampa solo tramite comunicati ufficiali”. Il vero problema, aggiungerebbe, è che la rilevanza sociale del diritto all’informazione e del diritto alla verità delle vittime di gravi reati rischia di essere offuscata da un sistema che impedisce di spiegare ai cittadini l’importanza dell’azione giudiziaria nei territori controllati dalle mafie, rendendo molto più difficile creare quel clima di fiducia che consente alle vittime di rompere il velo dell’omertà. Ed esternerebbe, finalmente, il timore che “non parlandone, la ‘ndrangheta e Cosa Nostra non esistano”; la paura che “di questo “silenzio stampa” le mafie ne approfitteranno, perché le mafie da sempre proliferano nel silenzio”; non senza aggiungere: “Se la ‘ndrangheta oggi è la mafia più potente è perché per anni non se ne è parlato. Molte notizie, anche su politici e funzionari pubblici, verranno così nascoste”. A questo punto, occorrerebbe involgersi in faticose spiegazioni di teoria generale del processo, peraltro con poco profitto per l’interlocutore, che, ne sono convinto, s’annoierebbe moltissimo. Il problema, piuttosto, è un altro. Non vi è giorno, infatti, in cui non sia dato di constatare l’organizzazione scientifica della ciarlataneria. Le ragioni che inducono a una così cupa constatazione sono le più svariate, non ultima, se non addirittura la prima fra tutte, che l’uomo non sa più tacere: se il silenzio è d’oro, parrebbe proprio che questo prezioso metallo sia scomparso dalla circolazione spirituale come da quella monetaria. Nel Vangelo si rinviene l’ammonimento che, “nel giorno del giudizio, gli uomini renderanno conto di ogni parola oziosa che avranno detta” (Mt., 12, 36). E anche Martin Heidegger, uno dei più forti pensatori dell’esistenzialismo tedesco, si richiama alla parola, allorché distingue fra la vita autentica, quella cioè di chi vive nella contemplazione della morte, e la vita non autentica, che è quella di chi volge gli occhi da un’altra parte, non osando pensare alla sua fine: nel descrivere questo secondo tipo di vita, non degna d’essere vissuta, il filosofo ricorre a una parola francese, di non facile traduzione nella nostra lingua, il “bavardage”. In sostanza, “bavarder” vuol dire ciarlare, ma l’idea precisamente è quella che si legge nel Vangelo: parlare ozioso. Per pensare si deve essere in due e le parole servono a far pensare; oziose, dunque, sono le parole che non riescono a far pensare, a produrre delle idee, le quali, per essere tali, devono consentire di scoprire qualcosa di nuovo nel mondo. Quelle provocate dal bavardage sono, pertanto, pseudo-idee: esse non fanno procedere d’un passo la conoscenza; dopo un’ora di ciarle, infatti, le persone si lasciano più vuote di prima. Le parole oziose, pur non facendo pensare, non impediscono di pensare. Occorre chiedersi, però, se ci siano parole che impediscono di pensare; se l’abuso della parola possa arrivare al punto di cavarne il risultato contrario a quello per cui è stata creata; se, insomma, la parola strumento di libertà possa stravolgersi in parola strumento di servitù. Che la parola sia strumento di libertà, muovendo dalla libertà di chi parla e sollecitando la libertà di chi ascolta, è espresso dal verbo latino “suadere”, che in italiano si rafforza e diventa persuadere, parole che evocano la “suavitas”. Non è, dunque, un caso che al fine d’ottenere l’effetto persuasivo occorra soavità: la scelta e il tono delle parole, là dove si voglia sollecitare e non sopprimere la libertà dell’altro, giovano più di quanto non si creda. Il mezzo del persuadere è suggerire; offrire cioè un’idea, che l’altro possa far propria se gli piace o respingere se non gli piace; ma quest’idea dev’essere offerta in modo così discreto che neppure s’adombri un’offesa alla libertà dell’altro, il quale la possa far sua come s’egli stesso l’avesse pensata. L’uomo non pensa che il pensiero proprio; se il proprio coincide con l’altrui, ciò non può avvenire se non in quanto l’altrui sia liberamente accettato. Se non pensare, l’uomo può agire in virtù del pensiero altrui. Così avviene quando il costringere prende il posto del persuadere. Il problema è, allora, se si possa costringere con le parole. L’esperienza della nostra realtà contemporanea è lì a dimostrare che si può abusare delle parole; e questo è uno dei suoi aspetti più sconcertanti e pericolosi. Nulla è più lontano dal persuadere che il discorso di uno dei quei venditori sulle piazze, ai quali si dà il nome di ciarlatani. La differenza fra il discorso del ciarlatano e un discorso persuasivo è la stessa che corre fra il rumore e l’accordo. Arthur Schopenhauer, per sostenere che “la vista è un senso attivo e l’udito un senso passivo”, ha scritto che “i suoni agiscono disturbando e agitando il nostro spirito (…) distraggono tutti i pensieri, sconvolgono momentaneamente la forza del nostro pensiero”. L’osservazione, evidentemente sbagliata per il suono, è giusta comunque per il rumore, che quando raggiunge la misura del fracasso impedisce di pensare. La ciarlataneria, rispetto al passato, ha oggi assunto nuove forme: i Dulcamara non s’incontrano più neppure sui mercati di campagna e quella che un tempo si chiamava “réclame” si è via via meglio truccata sotto il nome di “propaganda”, la cui tecnica è oggi fondata sulla ripetizione. L’essenza del ciarlatano, infatti, non è più il rumore, ma il ronzio, che di quello è di gran lunga peggiore: qui non si tratta più di suggerimento, ma di suggestione. La propaganda, portando un attentato alla libertà dell’uomo è pur sempre un male. Piccolo, magari, se riguarda la scelta di una merce, ma intollerabile quando riguarda la scelta delle forme e delle norme della struttura sociale, essenziali alla nostra vita, perché, come diceva Heidegger, il nostro “Sein” è “Mit-sein”, il nostro essere è essere insieme. E questo esige una regola, un regime o meglio sarebbe dire un reggimento, che risulti dall’accordo di tutti quanti costituiscono l’insieme. L’accordo di tutti presuppone la libertà di ciascuno. E questo vuol dire democrazia, la quale esigendo che ognuno pensi con la propria testa, favorisce sì l’eloquenza e la persuasione, ma rifiuta la propaganda, poiché essa offende la libertà. In linea d’abuso della parola, il bavardage, la ciarla, il pettegolezzo non costituiscono il danno più grave: il ciarliero è meno nocivo del ciarlatano, poiché il primo, che si limita a non pensare, rovina sé stesso, mentre il secondo rovina gli altri, ai quali impedisce di pensare. E fino a quando non si sentirà l’esigenza di liberarsi degli imbonitori da fiera, lasciando finalmente spazio soltanto a indicazioni sobrie e decorose, rispettose della dignità dei contendenti e della libertà dei cittadini, la democrazia non potrà essere che un’illusione. *Giusfilosofo e magistrato in pensione Referendum, la primavera della giustizia: “Vi spiego perché è necessario andare a votare” di Viviana Lanza Il Riformista, 4 aprile 2022 “La notizia dell’election day per i referendum è sicuramente una notizia positiva. Garantire l’afflusso degli elettori per un appuntamento così importante è cosa buona e giusta. Già alla presentazione del libro di Luca Palamara con gli amici radicali e di Nessuno Tocchi Caino ribadimmo con forza questa necessità per una riforma della giustizia e della magistratura in senso ampio”, commenta Marcello Lala, avvocato e segretario di Riformismoggi. “Questi - aggiunge Lala - saranno referendum non contro la magistratura, sia ben chiaro, ma per la magistratura, al fine di rendere finalmente equi i rapporti tra i poteri dello Stato che dal ‘93 hanno visto un totale sbilanciamento a favore del potere giudiziario e a scapito di tutti gli altri, tanto da far rivoltare Montesquieu e i padri della patria”. “Noi come Riformismoggi ci gettiamo da subito ventre a terra per una campagna referendaria al fine di ottenere cinque sì, con un’ampia e convinta maggioranza”, conclude ricordando che l’associazione ha sostenuto l’istituto referendario partecipando alla raccolta di firme. Anche il Riformista è stato in prima linea nella raccolta di firme a sostegno del referendum per una giustizia giusta promosso dai Radicali. Il prossimo 12 giugno, quindi, potrebbe inaugurare una nuova primavera della giustizia. Sarà infatti l’election day, il giorno in cui gli italiani voteranno non solo per le amministrative ma anche, dicevamo, per i referendum sulla giustizia. Si voterà sulla riforma del Consiglio superiore della magistratura (Csm), sull’abolizione della legge Severino, sui limiti agli abusi della custodia cautelare, sulla separazione delle carriere dei magistrati e sulla loro equa valutazione. “Questo referendum è a favore di quei magistrati che non sono politicizzati, che fanno il proprio lavoro e che sono alle prese quotidianamente con le difficoltà che il mondo della giustizia in Italia ha”, aveva già sottolineato Lala intervenendo al convegno “Dal potere all’ordine giudiziario, riforme e referendum per una primavera della giustizia” che si è svolto due settimane fa a Città della Scienza e che ha avuto tra i relatori l’ex magistrato Luca Palamara, che anche nel suo secondo libro, scritto con Alessandro Sallusti, “Lobby & Logge”, ha svelato retroscena, scandali e segreti della magistratura. Di quella magistratura che oggi vive una profonda crisi di fiducia ma non mostra voglia e coraggio di cambiare veramente le cose, restando per questo ancora aggrappata a posizioni e privilegi e imbrigliata nella rete di correnti e logiche che è “il sistema”. “Quella a cui stiamo assistendo in queste ore non è una riforma - aveva detto Palamara nel corso del convegno a Città della Scienza. Non si cambiano le cose cambiando il collegio unico nazionale. Il vero coraggio è creare una nuova classe dirigente all’interno della magistratura svincolata da questi meccanismi. A di là delle colpe dei singoli, è il sistema ad essere così strutturato”. E per cambiarlo, questo sistema, si guarda ora a riforme e referendum. Perché dopo ogni inverno ci dev’essere una primavera. Nordio: “Errore il referendum in una sola giornata. Un fronte garantista per una nuova giustizia” di Anna Maria Greco Il Giornale, 4 aprile 2022 L’ex toga: “Il risparmio dell’election day è relativo, la lentezza dei processi costa il 2% del Pil e le intercettazioni bruciano milioni”. Carlo Nordio indossa la toga anche ora che formalmente l’ha tolta, dopo 40 anni in magistratura. E la giustizia vuole riformarla, anche a colpi di referendum. L’election day è fissato il 12 giugno perle amministrative e i referendum sulla giustizia, ma ci sono molte polemiche sulla scelta di far votare un giorno solo, soprattutto per il rischio che sui quesiti referendari non si raggiunga il quorum. Lei come la pensa? “Credo che l’importanza della consultazione sia tale per cui si debba dare ai cittadini la massima facilitazione per andare alle urne. È vero che la limitazione alla domenica costituirebbe un risparmio. È ancor più vero che un cambiamento radicale della giustizia, sostenuto da una vittoria del referendum, farebbe risparmiare allo Stato cifre cento volte maggiori. Basti pensare che la lentezza dei processi incide sul 2 per cento del Pil, e che il solo costo delle intercettazioni, gran parte delle quali inutili e dannose, costano decine di milioni di euro”. Silvio Berlusconi, con Lega e Radicali che hanno promosso i referendum, chiedono a Draghi un decreto appunto per mantenere le urne aperte il lunedì, sostenendo che altrimenti si ostacola la piena partecipazione alla consultazione popolare. È d’accordo? “Certo. E spero che l’iniziativa venga assecondata anche da altri partiti”. Lei appoggia i referendum sulla giustizia, perché? “Li appoggio, e sono stato uno dei primi firmatari, per una ragione essenzialmente strategica. Indipendentemente dai singoli quesiti, su alcuni dei quali si possono anche nutrire perplessità, conta il messaggio che può derivare da una vittoria referendaria: la volontà di un cambiamento radicale del nostro sistema penale, contrassegnato dalla lentezza dei processi, dall’abuso della custodia cautelare, dal protagonismo di alcuni magistrati, dalla baratteria di cariche correntizie del Csm emersa dallo scandalo Palamara, dall’estromissione di politici e amministratori per via giudiziaria, e potremmo continuare. All’opposto, se la maggioranza dei cittadini non andasse a votare, significherebbe che le cose stanno bene così”. I referendum sono sempre apparsi soprattutto come stimolo al Parlamento, che da anni non riesce a “produrre” la necessaria riforma della giustizia, ma ora il governo rischia di farne un boomerang: la ministra Cartabia sostiene che non è opportuno intervenire ad esempio sulla legge che disciplina i passaggi di funzioni tra giudici e pm perché altrimenti decadrebbe il quesito referendario che riguarda il problema. E così si potrebbe lasciare tutto immutato, se il referendum non avesse successo... “Tecnicamente la ministra ha ragione. Se cambi anche di poco la normativa, è possibile che su quel punto il quesito referendario sia superato, e la consultazione si riduca a un paio di questioni, contenendo ancor di più la probabilità di afflusso alle urne. Aggiungo che Cartabia è secondo me un ottimo ministro ma le riforme non le fa lei, ma il Parlamento. E Cartabia sa benissimo che con questo Parlamento le possibilità di riforma sono estremamente limitate”. L’altro punto nevralgico è il sistema elettorale del Csm, con la ministra che vuole un maggioritario con quota proporzionale e il centrodestra che insiste sul sorteggio temperato. L’ultima proposta di mediazione della Guardasigilli, su input della Lega, è il sorteggio dei collegi invece dei candidati. Le sembra una soluzione per limitare il peso delle correnti? “Questo è l’aspetto più delicato. Vi sono effettivamente vincoli di ordine costituzionale. Io sostengo il sistema del sorteggio del Csm da 25 anni, ma questo postula una revisione della Carta, che sul punto è assai chiara. E in effetti, se vogliamo che il processo penale diventi realmente garantista, occorre una rivoluzione copernicana della giustizia, incompatibile con i tempi e i limiti di questa legislatura. Ma se il messaggio dell’elettorato fosse chiaro, il prossimo parlamento sarebbe vincolato politicamente e moralmente a rivedere tutto il sistema”. In conclusione? “In conclusione è necessario che tutte le forze garantiste, indipendentemente dalle simpatie per quello o quell’altro partito, uniscano le energie per questa battaglia di civiltà giuridica. Con la consapevolezza che se il referendum fallisse sarebbe inutile ogni ulteriore lamentela sull’inefficienza e l’iniquità del nostro sistema penale”. Luigi Manconi: “Con i nomi di chi subisce gli abusi di Stato, da 20 anni” di Errico Novi Il Dubbio, 4 aprile 2022 “A Buon diritto sfida il vizio italiano dell’indifferenza, si occupa da vent’anni di giustizia, di garanzie, di uguaglianza, di verità”. È l’associazione di Luigi Manconi, raro esempio di lobby politica per fini non lucrativi. Anche nel senso che lui, Manconi appunto, l’inventore dell’associazione, non ha certo costruito una carriera da leader della sinistra libertaria e radicale, come tranquillamente avrebbe potuto. D’altronde avrebbe dovuto smettere di praticare un mucchio di altre passioni, “compresa quella, non trascurabile, di professore di Sociologia dei fenomeni politici. Non mi dispiace ricordarlo. Sarebbe pur sempre il mio lavoro”. Ma intanto A buon diritto ha compiuto vent’anni, giusto due settimane fa. Se l’avesse considerata un hobby, non ci sarebbe arrivata... No, d’accordo, ma non saremmo riusciti a raggiungere un traguardo del genere se non avessi avuto la fortuna di incontrare lungo la mia strada persone come Valentina Calderone, che di A buon diritto è il direttore, e che ha saputo trasferire nel nostro impegno un metodo di cui non sarei stato capace. Avete celebrato i vostri primi vent’anni con un evento al Maxxi di Roma in cui lei ha ricordato di aver infranto un tabù insuperabile per gran parte della sinistra: tenere insieme i diritti collettivi con i diritti individuali. In pratica lei è un eretico. Be’, potrei smentire una simile affermazione con gli anni Settanta. In che senso? Allora, è vero: la sinistra nasce dalle lotte per i bisogni primari delle grandi masse, il lavoro, l’istruzione, la casa. Non c’erano le condizioni, in quella fase della storia, perché potesse esserci attenzione anche per i diritti individuali. Eppure c’è un momento quasi perfetto in cui il connubio si realizza, gli anni Settanta appunto, a partire dall’istante in cui si arriva allo statuto dei lavoratori e contemporaneamente all’obiezione di coscienza. D’altronde i bisogni delle grandi masse sono l’incontro delle aspirazioni di ciascun individuo... Sì, d’accordo, devono sommarsi fra loro, ma c’è un luogo simbolico che spiega la sintesi meglio di qualunque discorso: la fabbrica. Solo con l’aggregazione, con il trovarsi l’uno fisicamente affianco all’altro si struttura la classe operaia. Stare insieme, unire i bisogni e rendere possibile la lotta. Non a caso la destrutturazione della fabbrica è il vero innesco, nella crisi del movimento operaio. La disseminazione, la polverizzazione che verrà negli anni Ottanta, produce gli effetti che ben conosciamo. Eppure nel decennio precedente i diritti collettivi si erano combinati virtuosamente col perseguimento dei diritti della persona. È un tempo sciaguratamente segnato dal marchio di anni di piombo perché sono stati purtroppo anche anni di lutto e tragedia. Eppure persino nel momento più terribile, dopo l’assassinio di Aldo Moro, non si è persa quell’apertura fra le due prospettive. A cosa si riferisce esattamente? Moro viene ucciso il 9 maggio del 78. Nei 15 giorni successivi, un Parlamento dotato di una dignità e di un’autonomia che oggi ci sogniamo, approva le leggi su manicomi e interruzione volontaria di gravidanza. Nel momento più drammatico trova la forza di non rinunciare a due importantissime riforme. La più alta sintesi fra individuale e collettivo è il diritto alla democrazia: ma allora perché in Italia si fa ancora tanta fatica a condividere pilastri della democrazia come le garanzie nel processo e nell’esecuzione della pena? È un quesito a cui è difficilissimo rispondere. Può sembrare un paradosso, ma in un Paese in cui latita lo spirito civico, il sentimento di appartenenza a una comunità, e prevale il particolare, c’è un sospetto permanente nei confronti dell’individuo. Proprio perché la prospettiva individuale è corrotta dal tratto dell’egoismo, qualsiasi forma di tutela dell’individuo viene ridotta a pulsione egoistica. È la cattiva coscienza dell’italiano privo di senso civico: straordinariamente vero. Da qui proviene l’istintiva subordinazione dell’individuo a un’idea omologante del collettivo. E a partire da qui che, un po’ vanitosamente, ma senza far segreto di tale vanità, noi rivendichiamo un metodo di A buon diritto: il metodo induttivo, praticato nel senso che in tutto ciò che abbiamo fatto, in ogni singola battaglia, siamo partiti da nomi e cognomi. Avete sfidato la ripulsa per l’individuo... Non è solo un metodo efficace: se io ti dico Stefano Cucchi, se te lo indico come esempio del rapporto fra il cittadino e lo Stato svuotato della sua stessa giustificazione, io smonto la tua ossessione respingente per il singolo. Vede, sono quasi 13 anni, e io sono uno incostante, che mi interesso di Stefano Cucchi. E in ogni occasione in cui ne ho parlato in pubblico, ossessivamente, proprio ossessivamente, per non so quante volte ormai, ho ripetuto esattamente la stessa frase: “Dobbiamo salvare la dignità, l’onore e la verità, perché si chiama Stefano Cucchi, fratello di Ilaria, figlio di Rita e Giovanni, perché il suo assassinio ci parla delle relazioni fra il cittadino e lo Stato, l’individuo e il potere. Quasi un commovente rituale magico... Dirompente: mette in discussione la giustificazione morale e giuridica dello Stato, la sua legittimazione. Lo Stato è uno scambio: obbedienza contro protezione. Ma se tu Stato non proteggi, anzi uccidi il cittadino quando è affidato nelle tue mani, non puoi più pretendere che io ubbidisca. Capisce? Capisco che mi ero fatto un’altra idea, sulla difficoltà, anche di A buon diritto, a essere maggioranza nelle battaglie garantiste: pensavo che ce le fossimo vendute in cambio degli insulti alla casta. Sì, ma la rinuncia ai diritti e alle garanzie nella giustizia pur di non doverli riconoscere anche alla casta è solo una ricaduta, una conseguenza di quella ripulsa per l’individuo scaturita dal vizio del particolare. Provo certe volte a dire: Formigoni ha ottenuto, in virtù delle garanzie previste per chi ha più di settant’anni, alcuni benefici nell’esecuzione della pena; ebbene, chiedo, preferite che sia estesa a tutti la possibilità di cui ha usufruito Formigoni o che invece anche Formigoni venga sottoposto al trattamento corredato da minori tutele in cui scontano la pena tantissimi detenuti? Ebbene, temo che prevarrà sempre la seconda opzione. C’è una irresistibile tendenza a lasciar scivolare i diritti verso il basso, a livellarli verso il grado minimo. E c’è quindi un’idea di giustizia alterata dal dato afflittivo, vendicativo, di incrudelimento, mortificazione. Si può rimediare alla ripulsa per i diritti dell’individuo con un ritorno della partecipazione alla politica? Eh, ma qui si deve fare i conti con una drammatica scissione. Tutto ciò che fa A buon diritto, e che hanno fatto e faranno tanti altri militanti dell’associazionismo, tanti gruppi e onlus, ha solo un nome: politica. Eppure, a fronte di tutto questo, la politica intesa come presenza nelle rappresentanze istituzionali considera A buon diritto e tutte le altre associazioni come estranee, come non politica. L’associazionismo è la sola possibilità di suscitare e ravvivare la partecipazione. Ma la politica istituzionale preferisce rubricarlo a filantropia, testimonianza, umanitarismo. Ed è per questo che la battaglia per i diritti resta in minoranza? Finché la politica parlamentare non comprenderà che la rinascita della politica parte dal metodo e dalle concezioni dell’associazionismo, A buon diritto e tutti gli altri continueranno a trovarsi in minoranza nelle battaglie per i diritti. D’altra parte io personalmente, noi, non ci siamo mai sentiti soli. In pochi, in minoranza, ma non soli. Non lo avrei sopportato, non ho la vocazione da anacoreta, testimoniale. Ma come si fa a non capire che la vicenda Regeni non è umanitarismo ma politica? Come si può non vedere che dietro il corpo in stato vegetativo di Eluana c’è un’enorme questione politica, che avvolge tante altre sofferenze e tanti altri corpi in quelle condizioni? Piero Sansonetti disse a noi redattori del Dubbio subito dopo la morte di Marco Pannella: “L’unico leader in grado di succedergli al Partito radicale è Luigi Manconi”. Ci ha mai pensato? Sinceramente no, e per due ordini di motivi. Primo, non si sono mai presentate le condizioni. Secondo, io personalmente ho un grandissimo rispetto per l’esercizio operativo della politica, per le forme dei partiti, le assemblee, i congressi, l’organizzazione materiale, ma non è, lo riconosco, la mia vocazione. Ho rispetto ma anche l’impressione di non essere trapiantabile in quella dimensione. In realtà l’ho anche fatto: dopo essere stato eletto parlamentare come indipendente nelle loro liste prima nel 94 e poi nel 96, sono stato portavoce dei Verdi, inopinatamente e un po’ rocambolescamente. Sono rimasto in quella carica fino al 99. Poi mi sono dimesso, ho capito che non era quello il mio mestiere. Si deve aggiungere la prima questione di cui dicevo: non si sono presentate le occasioni. Io sono sempre stato amico stretto dei radicali, sempre, dagli anni Settanta a tutt’oggi, ma ho avuto le altre strade di cui dicevo, e nessuno mi ha mai chiesto, nessun radicale mi ha mai sottoposto un’ipotesi come quella. Alla luce della consapevolezza acquisita dopo l’esperienza come portavoce dei Verdi, se qualcuno mi avesse prospettato quell’opportunità, me ne sarei scappato intimidito. Va detto, per concludere, che io non mi sono sottratto, appunto, alla lotta politica, ho detto degli anni come portavoce dei Verdi, che voleva dire esserne il segretario, ma nella lotta politica avverto di pagarne le conseguenze. Mi costa, mi costa sapere del prezzo che la durezza a volte inevitabile della lotta politica fa scontare alle singole persone. Difficile essere vocati per le crudezze della politica se si amano cose come quelle di cui lei è appassionato, la musica per esempio... Si tratta di vocazione, di temperamento. Ne avete vinte di battaglie. Ma se oggi, a proposito di una delle principali conquiste ottenute grazie a lei e A buon diritto, il reato di tortura, le chiedessi se pesano di più le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e quelle, appena rivelate, a Modena, oppure se pesa di più il fatto che grazie al reato di tortura oggi non si potrebbe mai arrivare alla macelleria della Diaz al G8 di Genova, be’, lei che risponde? Cosa pesa di più? Guardi, la legge uscita dal Parlamento è men che mediocre: si è scelto di non configurare la tortura come un reato proprio, connesso alle funzioni di pubblico ufficiale, come previsto invece nel mio testo originario. Non a caso non la votai, anche perché non avevo timori che almeno quella versione riduttiva sarebbe stata approvata, altrimenti sarei corso eccome. Eppure la legge ha avuto un esito positivo. Ha già consentito di far emergere abusi e violenze, come quelli nel carcere di San Gimignano, per esempio. E poi davvero oggi la Diaz del G8 non sarebbe possibile... Ma vede, a proposito dei radicali, io lo sono, lo sono eccome. Cerco anch’io di dare una lettura delle questioni fino a ritrovarne le radici, e a esercitare una critica appunto da radicale. Ma dentro questa prospettiva, dietro l’idea di Abolire il carcere, come ho intitolato un libro, credo che anche la più piccola delle riforme sia preziosissima. Non c’è l’abolizione del carcere, ma non trovo affatto riduttivo riuscire a ottenere che nelle carceri femminili ci sia qualche arredo o qualche servizio in più. Che si restituisca, seppur in minima parte, la dignità. Milano. La colletta dei carcerati per i rifugiati ucraini: “Rispondere al male col bene” di Matteo Rigamonti Tempi, 4 aprile 2022 I detenuti di Opera hanno raccolto 1.683 chili di cibo a sostegno di chi scappa dalla guerra. Parlano Boldrin e Romano di Incontro e presenza. I detenuti del carcere di Opera hanno colpito ancora. Dopo la raccolta da oltre 600 chili di cibo donati alle famiglie in difficoltà per l’emergenza Coronavirus del maggio di due anni fa, hanno promosso un’altra speciale colletta alimentare, questa volta per aiutare i profughi dell’Ucraina. Sempre all’interno della casa di reclusione che si trova a Sud di Milano sono stati così raccolti ulteriori 1.683 chili di pasta, riso, tonno, pelati e altri generi alimentari che, grazie al Banco alimentare, finiranno nelle mani delle famiglie ucraine che in Lombardia hanno aperto le porte ai loro familiari e connazionali in fuga dalla guerra. L’aspetto forse più sorprendente di questa gratuita catena di bene innescata da chi in vita ha compiuto del male, a sostegno di chi dal male, quello della guerra, sta scappando - e che grazie ad Avvenire ha raggiunto le pagine della cronaca nazionale -, è che “a muoversi sono stati loro”, i carcerati in prima persona, come spiega a Tempi Guido Boldrin dell’associazione Incontro e presenza che da 36 anni è impegnata con i suoi volontari a incontrare i detenuti delle carceri milanesi in occasione delle visite di cui possono godere nell’ambito di ciò che è loro concesso, all’interno del regime di detenzione e dunque privazione di libertà cui sono soggetti per i reati che hanno compiuto. L’annuale giornata della Colletta alimentare promossa dal Banco ogni ultimo sabato di novembre “è una proposta che ogni anno noi volontari già rivolgiamo ai detenuti delle tre carceri milanesi da almeno una decina d’anni”, racconta Boldrin, “ma questa volta sono stati loro a chiedere alla direzione di poter fare qualcosa”. Del resto, osserva il referente dei volontari di Incontro e presenza per Opera, “le notizie arrivano anche qui dentro”. E come gli ha detto uno dei detenuti, parole che a memoria riferisce: “Chi più di noi può comprendere la sofferenza e la condizione di chi è costretto a fuggire?”. Commenta stupito Boldrin: “Si sono immedesimati con la sofferenza dei profughi ucraini”; a conferma di quella che, per i volontari di Incontro e presenza, è una certezza frutto di decenni di esperienza e rapporto con chi ha rubato, ucciso o messo in atto altre forme di violenza: “Anche nel cuore di ha commesso gli errori più gravi resta intatto il desiderio di felicità e redenzione. Proprio come capita a tutti noi con gli errori di ogni giorno”. La direzione del carcere, con la collaborazione attiva della Polizia penitenziaria, ha valorizzato quest’impeto di bene, processato le relative pratiche burocratiche e così reso possibile un gesto che ha coinvolto due reparti di media sicurezza (chi si trova in regime di 41 bis non può partecipare e un altro era inaccessibile per misure di prevenzione Covid) per un totale di circa cinquecento persone, per metà italiani e metà di altre nazionalità, molti dei quali senza famiglia né sostegno economico. “Ho solo questo, mi spiace”, si è sentito ripetere in più d’una cella da parte di chi, rinunciando a una scatoletta di carne o legumi, ha voluto comunque donare qualcosa ai volontari che sono passati davanti alle sbarre con le ceste. L’ultima occasione per farlo dopo che già altri, prima di loro, avevano compilato un modulo per destinare, all’interno degli ordini di alimenti cosiddetti “sopravvitto”, qualche bene alla colletta straordinaria, pagandoli di tasca propria, quale che fosse la liquidità a disposizione sul conto. “Questi detenuti hanno imparato qualcosa”, osserva Fabio Romano, presidente di Incontro e presenza, mettendo in connessione la raccolta promossa durante il lockdown con quest’ultima: “Accettando per anni di partecipare alla Colletta alimentare hanno fatto proprio un gesto che risponde a un bisogno e imparato un metodo che si tramanda di anno in anno, di persona in persona”. Quale metodo? Rispondere al bisogno dell’altro, aiutandolo in qualcosa di semplice, per riscoprire la natura profonda del proprio bisogno ultimo. In carcere, infatti, prosegue Romano, non è raro che le persone che si incontrano “sentano riemergere quel bisogno di senso che spesso non sono riuscite a vivere adeguatamente al di fuori”, e che si traduce anche nel “bisogno di sentirsi utili, di non essere abbandonati, un bisogno che li rende sensibili e partecipi a chi sperimenta difficoltà nella vita”. Una dinamica umana che, per inciso, forse può aiutare a comprendere meglio anche il valore educativo delle (poche) opportunità di lavoro che si hanno in carcere. Il metodo testimoniato da Boldrin e Romano, e in qualche misura fatto proprio dai carcerati di Opera, è quello che Incontro e presenza ha a sua volta mutuato dalla Chiesa, in particolare dal carisma di don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e liberazione, che conquistò la fondatrice di questa associazione, Mirella Bocchini, che aveva incontrato il sacerdote brianzolo da studentessa del Berchet, con un retroterra culturale laicista e simpatizzante radicale, quando ancora non sapeva che, da consigliere comunale a Milano, si sarebbe poi molto impegnata per i detenuti delle carceri milanesi, partendo da San Vittore, e fino ad arrivare a quella che poi sarebbe divenuta Incontro e presenza, che oggi opera oltre che nelle tre carceri milanesi (la terza è Bollate) anche a Bergamo. “Il metodo della nostra associazione nasce da questa appartenenza alla Chiesa attraverso il Movimento”, conferma Boldrin riflettendo sui frutti generati tra i detenuti da parte di quella che, per i volontari, è una “caritativa”, ossia un “gesto”, spiega, “della tradizione cristiana attraverso il quale ci viene proposto di immedesimarci con Cristo che è carità, compiendo l’opera di misericordia che è visitare i carcerati”. E che da più di trent’anni si ripete ogni sabato mattina quando le porte del carcere si aprono alle visite. “La peculiarità della nostra associazione, rispetto alle tante che quotidianamente collaborano con le carceri, risiede nel fatto che noi andiamo lì soltanto per incontrare i detenuti”, sottolinea Romano: “Non portiamo niente. “Essere presenza per te” è lo spirito con cui ogni volontario si reca a incontrare il singolo detenuto, che è una presenza per lui. E dal carcere nessuno di noi esce come prima, ne esce cambiato”. Forse qualcosa di simile è scattato anche nell’animo del manipolo di galeotti che ha proposto la colletta straordinaria per l’Ucraina. C’è un altro aspetto di tutta questa vicenda che aiuta a comprendere il valore tanto del gesto dei carcerati di Opera, senza rischiare di enfatizzarlo oltremodo, quanto la bontà della presenza di un’associazione di volontari come Incontro e presenza. “Ci siamo sempre domandati se proporre o meno la Colletta alimentare anche in carcere”, confida Romano, perché “qui ci troviamo in un luogo di sofferenza e privazione e dove una certa discrezione è evidentemente richiesta”, ricorda. Tuttavia, “non fare una simile proposta alla libertà di questi detenuti avrebbe significato venir meno alla loro dignità, a quell’esigenza di bene, bello e giusto che pure alberga anche nel cuore di chi ha commesso il male”, al loro “desiderio di essere presi sul serio”. Proprio come sul serio vengono presi dai volontari ogni sabato mattina almeno per il tempo, condiviso, di una visita. “Così come possono, con quello che sono”, conclude Romano. E così come hanno fatto a loro volta i detenuti di Opera con gli sconosciuti e lontani, eppur mai così vicini, fratelli ucraini. Reggio Emilia. “Liberi Art”: dal carcere di un progetto contro il bullismo nextstopreggio.it, 4 aprile 2022 Si è svolta nella mattinata di ieri presso la Biblioteca San Pellegrino Marco Gerra di Reggio Emilia la visita guidata della classe terza dell’Istituto Statale Professionale Galvani - Iodi, della mostra “Liberi Art” dei detenuti reggiani ideata e realizzata dalla delegata Gens Nova Emilia Romagna Anna Protopapa nonché, docente volontaria del carcere di Reggio Emilia. I ragazzi dello Iodi seguiti dalla prof.ssa Borsalino Maria Teresa, hanno visitato la mostra di opere realizzate dai detenuti della casa circondariale di Reggio Emilia guidata dalla Protopapa la quale durante il percorso ha svolto una lezione frontale sul tema del bullismo e del cyberbullismo coinvolgendo l’attenzione dei giovanissimi che hanno partecipato attivamente al dibattito. All’incontro era presente anche il Sig. A.U., ex detenuto in libertà da un giorno, il quale, oltre ad aver aderito al progetto “Liberi Art” durante il periodo della sua detenzione, ha voluto portare la propria testimonianza di riabilitazione ai ragazzi che hanno colto in pieno il valore della “Libertà”. L’evento si è concluso con un’attività di laboratorio contro il bullismo che ha impegnato gli stessi ragazzi nella realizzazione di segnalibri “Stop al bullismo”. Da parte della Delegata Gens Nova Anna Protopapa e dagli Istituti Penali di Reggio Emilia alla Biblioteca San Pellegrino è stato rivolto un caloroso ringraziamento alla Responsabile Sig.ra Monica Gilli per la disponibilità e per aver favorito con entusiasmo al progetto “Liberi Art” con la quale è stato possibile fare rete e diffondere fuori dal carcere l’importanza di questo tipo di progetti. Roma. Teatro-carcere: “Destinazione non umana” al Teatro Tor Bella Monaca romatoday.it, 4 aprile 2022 Giovedì 5 e venerdì 6 maggio ore 21 al Teatro Tor Bella Monaca Fort Apache Cinema Teatro presenta “Destinazione non umana”, una favola senza morale scritta e diretta da Valentina Esposito, con Fabio Albanese, Alessandro Bernardini, Matteo Cateni, Chiara Cavalieri, Christian Cavorso, Viola Centi, Massimiliano De Rossi, Massimo Di Stefano, Michele Fantilli, Emma Grossi, Gabriella Indolfi, Giulio Maroncelli, Piero Piccinin, Giancarlo Porcacchia, Fabio Rizzuto, Edoardo Timmi. Il progetto è stato realizzato con il sostegno di Ministero della cultura, Regione Lazio, Fondi Otto per mille della Chiesa Valdese. Fort Apache Cinema Teatro è un progetto che coinvolge attori ex detenuti o detenuti in misura alternativa (semilibertà, affidamento ai servizi sociali, affidamento in centri di prevenzione alla tossicodipendenza, detenzione domiciliare), che hanno intrapreso un percorso di professionalizzazione e inserimento nel sistema dello spettacolo, oggi professionisti di cinema e palcoscenico. Esperienza unica in Italia, Fort Apache Cinema Teatro è struttura permanente di accoglienza per coloro che escono dal carcere, punto di riferimento nel delicato passaggio dalla reclusione alla libertà (anche in termini di ricaduta e prevenzione della recidiva). “Destinazione non umana” vede in scena sette cavalli da corsa geneticamente difettosi che condividono forzatamente la vecchiaia in attesa della macellazione. Nel gioco scenico e drammaturgico, l’immaginifica vicenda di bestie umane diventa pretesto per una riflessione profonda sul tema tragico della predestinazione, della malattia, della morte, della precarietà e brevità dell’esistenza, della responsabilità individuale rispetto alle scelte maturate nel corso della vita. Destinazione non umana è una favola senza morale, amara e disumana quanto può esserlo una fiaba, costruita sulle solitudini alle quali ci costringe il tempo che viviamo e sul pensiero della morte, sul vuoto lasciato da chi se n’è andato, sul dolore, la rabbia, la paura. Sullo sforzo bestiale di vivere contro e nonostante la certezza della morte. In collaborazione con Ministero della giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale del Lazio, Sapienza Università di Roma, Atcl - Spazio Rossellini Polo Culturale Multidisciplinare della Regione Lazio, Artisti 7607, CAE Città dell’Altra Economia di Roma. Capriole: storie di persone, fallimenti e rinascite di Andrea Antoniazzi ilpolopositivo.com, 4 aprile 2022 “Capriole” è un progetto che informa riguardo a realtà associative che si occupano di tematiche principalmente legate al mondo del carcere ma anche di immigrazione, inclusione sociale e disabilità. Il progetto si articola in due attività. La prima è una web serie su YouTube, articolata in vari episodi della durata di circa 15 minuti. Paolo Cevoli, comico e attore, è il narratore e conduttore della serie. Al centro di ogni puntata i veri protagonisti sono le persone. La loro storia introduce lo spettatore a una realtà associativa che permette ai detenuti di scontare la pena in un modo alternativo al carcere. In queste strutture spesso non vi sono solo loro, ma anche altre persone con storie di vita diverse, uno stimolo riflessivo in più. La serie mostra come nella vita si può sbagliare una o più volte, ma c’è sempre la possibilità di fare una capriola, di comprendere - a prescindere dall’età - l’errore commesso. La serie fa capire come la scelta di ‘fare una capriola’ sia personale, ma è importante essere supportarti nella scelta dalle persone che ci stanno accanto. Non è determinante quanto sia grande il fallimento, ci si può sempre rialzare con la propria volontà e con l’aiuto altrui. Un detenuto costa allo stato 200 euro al giorno e il 70% è recidivo. Le persone che scontano la pena in una realtà alternativa al carcere costano 30 euro al giorno e solo il 15% è recidivo (dati Antigone). Queste strutture si sostentano anche attraverso donazioni di privati, e infatti la seconda attività del progetto Capriole è una raccolta fondi, per supportare le realtà mostrate. Questa la loro mission sul sito web: “Capriole nasce per dare voce a persone con uno o più fallimenti alle spalle, ma che quando hanno toccato il fondo del loro abisso sono riuscite a fare una capriola e a rinascere e per sostenere le persone e le organizzazioni che dedicano la loro vita a prendersi cura di tutti coloro che vivono situazioni di bisogno”. È facile cadere nel pensiero: chiudiamoli in carcere e buttiamo via la chiave. Difficile credere alle tante storie di cambiamento, raccontate da progetti come questo. Spesso, davanti ai cambiamenti positivi che avvengono nei detenuti si sente dire: “è solo uno su mille”. I dati dimostrano il contrario, ma anche se fosse uno solo sarebbe la goccia che unita a tante altre formerebbe un mare. Un mare di cambiamento. Non c’è distanza dal serial killer. Abita la nostra stessa realtà di Corrado De Rosa Il Domani, 4 aprile 2022 Dire che i serial killer sono pazzi è un modo per dire che non siamo come loro. L’evoluzione della figura dell’omicida seriale comprende alcuni aspetti della società in cui viviamo tutti. Per quanto perverso possa essere è consapevole di quello che fa, è in grado di organizzare e differire. Centro clinico di un carcere del sud, pochi anni fa. Aspetto che gli agenti di polizia penitenziaria accompagnino la persona che devo visitare. È un seviziatore di prostitute anziane. È cattivissimo, è violentissimo. Ha un modus operandi da manuale di criminologia. A leggere i giornali, è l’ultimo serial killer arrestato in Italia. Penso due cose: che mi troverò di fronte a una persona dal fascino irresistibile, come Ted Bundy, che dovrò districarmi fra le mille trappole manipolative che potrebbe tendermi un uomo brillante almeno quanto Ed Kemper, uno con un quoziente intellettivo di 148. Ipotizzo di incontrare il mostro, invece di fronte a me si siede uno che assomiglia a Barbapapà, a Poldo, a Gargamella. Tralasciando quanto io possa rivedermi nei suoi movimenti goffi, quella normalità esitante, timida, perfino ottusa, mi inquieta e assume, in tempi molto rapidi, una connotazione perturbante. L’elemento perturbante - Inteso in senso psicanalitico, “perturbante” è il termine che identifica qualcosa in grado di produrre, in noi, un effetto straniante per via del mescolarsi di sensazioni di familiarità e di estraneità legate alla paura. Il perturbante sollecita sia un senso di onnipotenza sia un senso di paranoia, è intimo e familiare ma assume forme estranee, angoscianti. Per questo, ci sconvolge. Una bambola in un film horror. Pennywise, il pagliaccio di It. Il bosco di The Blair witch project. Le gemelle diShining. Nel perturbante, vediamo noi stessi al di fuori di noi. Dentro l’incomprensibilità di un seviziatore di prostitute anziane, dietro il riconoscimento di certi stili di pensiero, di certe modalità operative che travalicano quello che la psichiatria identifica come sintomi e definisce, eventualmente, come malattia, io stesso individuo senza sforzi chiavi di lettura della quotidianità che non sono poi così diverse da quello che il sentire comune definisce: “normalità”, da quello che potrebbe essere il mio modo di pensare. Normali e mostri - Il tema non è l’epifania dell’elemento alieno, patologico, all’interno di noi stessi, il punto non è: siamo tutti potenziali serial killer. La prospettiva, qui, si capovolge. Il tema sono gli aspetti famigliari, gli elementi con cui si ha dimestichezza, quelli riconoscibili nei ragionamenti di chi la società percepisce come il male assoluto. Il punto, quindi, è: quanto hanno in comune il modo di essere di una persona cosiddetta: “normale” e quello di uno che, per definizione, è considerato “mostro”? Quest’ottica invertita è una delle chiavi più interessanti diTutto era cenere. Sull’uccidere seriale, di Simone Sauza (edito da Nottetempo, 2022). Dove l’autore, che utilizza una tecnica di scrittura a metà fra il saggio e un flusso di coscienza, in cui l’uso della prima persona assottiglia proprio la distanza fra “noi” e “loro”, si muove con lucidità dentro un perimetro magmatico, al confine fra filosofia, psicologia e sociologia. Sauza semplifica la complessità senza mai risultare semplicistico. Lo fa attraverso una riflessione che ruota attorno a due cardini: la mancanza di soggettività nella ricerca di soggettività del serial killer e il modo in cui il desiderio del serial killer crea relazioni, si rapporta ai momenti storici, si embrica con la violenza. Quanto, tutto questo, riguarda solo “loro” e non anche “noi”? Nel suo stravolgimento di visuale, Tutto era cenere rilegge la sessualità e usa la “loro”, cioè la sessualità dei serial killer, per esplorare gli aspetti più sinistri della “nostra” sessualità. Gioca con i meccanismi che sottendono fascinazione e repulsione nei confronti dell’orrore al tempo del pulp e del true crime. Scandaglia anfratti dell’immaginario pop. Si muove fra film, libri, cultura di massa, incubi metropolitani. Passa dal mito di Perseo che sconfigge Medusa, ad Armin Meiwes, il cannibale tedesco che, nel 2003, pubblica un annuncio su un sito internet in cui cerca qualcuno disposto a farsi mangiare. Mette le mani dentro la specularità che esiste fra la “loro” de-umanizzazione della vittima, ridotta a pura funzione libidica, e quella “nostra”, quando partecipiamo da osservatori alle esecuzioni capitali in Usa, quando bordeggiamo fra le pagine di Rotten.com, uno di quei siti internet in cui si trovano immagini senza censura di vittime di incidenti, foto di omicidi e altre deformità, quando ci accomodiamo su un divano per guardare uno snuff movie. L’evoluzione - Sauza segue l’evoluzione della figura del serial killer per comprendere alcuni aspetti della società in cui viviamo tutti. Colloca la loro Golden age americana negli anni Ottanta. Gli anni dello sviluppo degli investimenti in infrastrutture urbane che consentono di muoversi di più sulle lunghe distanze, che facilitano le mimetizzazioni criminali, che aprono nuove vie di fuga per i carnefici e nuovi vicoli per le potenziali vittime. Negli anni in cui il reale diventa mediatico, nel tempo in cui la televisione e il sensazionalismo raggiunge l’apice nella tv commerciale, il serial killer si trasforma in una celebrità e viene consacrato, aggiungerei, sull’altare dell’uso ideologico della narrazione reaganiana dei buoni contro i cattivi, del nemico da sconfiggere con i super poteri della Behavioural Science Unit, dei mindhunter. Tutto era cenere ricostruisce carriere criminali di assassini noti e meno noti, solleva questioni ambigue come ambiguo è il tema che maneggia. Accetta l’idea che non tutto si possa spiegare, non cede al tranello che ogni malattia si possa guarire: l’onnipotenza delle cure psichiatriche è un’idea tanto tranquillizzante quanto fallace, i protocolli terapeutici per le patologie che più spesso vengono diagnosticate ai serial killer sono molto lontani dall’essere efficaci. Si interroga su come mai, oggi, la percezione sociale è che il serial killer sia una figura che fa parte del passato. Offre ipotesi, chiarisce, rivolta gli interrogativi, incuriosisce. Quando si esplorano territori violenti, inopinati, abissali come questi, il convitato di pietra è sempre il libero arbitrio. Capacità di scegliere - È responsabile delle sue azioni il serial killer? Si può essere malati e, allo stesso tempo responsabili dei propri comportamenti. Da vicino nessuno è normale, certo. Ma, a meno che non abbiano malattie in grado di fargli perdere il contatto con la realtà, quasi sempre la risposta è: sì. Per quanto perversi possano essere, i serial killer sono consapevoli di quello che fanno, hanno margini di scelta, sono in grado di organizzare e differire i loro progetti, sono capaci di prospettare le conseguenze future dei comportamenti. Tutto era cenere pone questioni che riguardano il sadismo sociale, la paranoia, il bisogno di possesso, l’ossessività, il narcisismo patologico che è la patologia del nostro tempo: il desiderio di ottenere tutto e subito, la ricerca di grandiosità a basso costo. Si interroga sulla pulsione omicida, si domanda che tipo di mondo percepisce un omicida seriale, da quale angolatura del suo spazio umano si definisca il suo abitare la società. Cerca un orizzonte di senso consapevole del fatto che, nel caso del serial killer, si tratta di un’ambizione irraggiungibile perché il serial killer stesso non è in grado di spiegare il suo smarrimento ontologico, tanta è l’alienazione al fondo di sé stesso. Sauza non elude il problema clinico dei serial killer, però lo fa senza generalizzazioni e si tiene al riparo da frettolose etichette diagnostiche che falliscono inesorabilmente di fronte alla complessità di uno stato al limite dell’esperienza umana. Diagnosi consolatoria - Si guarda bene dal tracciare una linea di confine netta fra “noi” e “loro”. Una linea rassicurante perché dire che i serial killer sono pazzi è un modo per dire: io non sono pazzo, io non potrò mai fare quello che hanno fatto loro. La diagnosi psichiatrica, in questi casi, funziona da ansiolitico, è consolatoria. Solo che rabbia, violenza, cattiveria, frustrazione, desiderio di controllo ci appartengono, sono modi di essere profondamente umani e non la rappresentazione esclusiva di una malattia mentale. Il serial killer abita la stessa realtà degli altri, e per altri intendo “noi”. Lo fa, scrive Sauza: “Con uno sguardo che viene da un altrove”. Lo fa percorrendo sentieri che percorrono anche gli altri, nonostante questa convivenza trovi sempre resistenze ad essere accettata. Ecco. Le resistenze. Forse proprio da queste resistenze ad accettare una coabitazione sulla linea di confine fra “noi” e “loro” è originata la mia reazione infastidita, turbata, al primo incontro con quella specie di Barbapapà nel centro clinico di un carcere del sud. Scuola senza cittadinanza. Il dossier della Cgil: metà degli studenti stranieri è nato in Italia di Bernardo Basilici Menini La Stampa, 4 aprile 2022 L’istruzione anticipa lo Ius Soli: in Piemonte sono 95 mila gli iscritti nelle scuole di famiglie non italiane: “Sono italiani per tutti, ma per le istituzioni devono aspettare i 18 anni”. Più della metà degli studenti e delle studentesse di origine straniera che studiano nelle scuole piemontesi sono nati e cresciuti in Italia. Ecco la fotografia di una popolazione scolastica che, anno dopo anno, è sempre più numerosa nelle classi. Persone uguali a quelle che siedono nel banco a fianco, nate nella stessa città, che giocano e studiano insieme da quando hanno memoria. Eppure per la legge sono diverse. I numeri dell’Ufficio Scolastico Regionale raccontano questa storia. In Piemonte, nell’anno scolastico 2021/2022, cioè quello in corso, ci sono 95 mila iscritti di origine straniera. Di questi almeno 56 mila (il 59%) sono nati in Italia, gli altri sono arrivati nel nostro Paese dopo. Percentuale praticamente identica a Torino: nelle aule, 28 mila persone su 47 mila senza cittadinanza sono nate qui. Le cifre peraltro parlano di un trend in crescita. Se, infatti, i giovani italiani (o meglio: i figli di coppie italiane) sono sempre meno, i figli di coppie straniere sono in aumento: nell’anno scolastico precedente erano 90 mila di cui 45 mila a Torino. Che incidenza hanno sul totale della popolazione scolastica? Per capirlo bisogna disaggregare i dati e tenere da una parte l’istruzione per adulti, che segue dinamiche proprie e in Piemonte conta 17 mila iscritti stranieri, e le scuole paritarie, con 4,600 non italiani. In tutti gli altri ordini, gradi e tipologie sono iscritte 497 mila persone. Di queste, 73 mila non hanno la cittadinanza italiana, il 14,7%. Percentuale in crescita rispetto al 14% dell’anno prima, quando gli studenti totali erano di più (503 mila) e quelli stranieri meno, circa 70,600. I gradi nel quali l’incidenza è più alta sono quelli più bassi, cioè materne ed elementari, rispettivamente al 19 e 17 per cento, mentre alle medie e alle superiori sono del 15 e 10 percento. Insomma, a seconda delle scuole, almeno uno studente straniero su dieci è seduto ai banchi, e talvolta si arriva fino a uno studente su cinque. La maggior parte di questi sono italiani di fatto, ma non di diritto. E per ottenere la cittadinanza italiana dovranno aspettare di avere 18 anni, dimostrare poi di risiedere senza interruzione (niente anni di studio all’estero, quindi) in Italia, presentare una apposita dichiarazione allo Stato Civile del proprio Comune e a quel punto - se avranno tutti i documenti e i loro genitori saranno in regola - pagare 250 euro e aspettare almeno altri quattro mesi prima che arrivi la lettera con la quale gli viene riconosciuta la cittadinanza. “Questa è la dimostrazione che lo Ius Soli è già tra di noi e che la politica non recepisce una situazione che esiste di fatto. Facciamo vivere come migranti una fretta di nostri concittadini: italiani per tutti, tranne che per le istituzioni” commenta Giorgio Airaudo, segretario regionale della Cgil, sindacato che pochi giorni fa ha organizzato un convegno sul tema. Ultimo dato: da dove vengono questi ragazzi? Il primo Paese di provenienza è la Romania, con oltre 19 mila persone. Seguono il Marocco con 14 mila, Albania (10 mila), Cina (3 mila), Egitto (2,600) e Nigeria (2,400). Interessante il caso dell’Ucraina, che nel 2020/21 aveva cifre così basse che nei numeri dell’Ufficio scolastico regionale finiva nella dicitura “altro”, e che invece quest’anno è al dodicesimo posto per Stato di origine, con mille 129 studenti sul territorio. Non tutti sono arrivati con l’inizio dell’invasione russa, ma si tratta di una popolazione in crescita. Che si unisce a quella dei loro connazionali nati e vissuti in Italia. Ma che per la legge italiana ancora non sono. La strage silenziosa dei migranti, oltre 90 vittime di Fabio Albanese La Stampa, 4 aprile 2022 Nessuno ha soccorso l’ultima imbarcazione naufragata al largo della Libia. E dall’inizio dell’anno si contano più di quattro morti al giorno sulla rotta del Mediterraneo centrale. Gli ultimi novanta, forse cento, che hanno perso la vita nel Mediterraneo centrale alla fine di marzo e di cui si è saputo solo sabato, non sono stati ancora conteggiati. Ma alla data del 28 marzo, erano già 299 i migranti morti o dispersi da inizio anno nel tentativo di attraversare il Mediterraneo centrale. Erano stati 1.553 in tutto il 2021. La tragica conta la tiene l’Oim, l’organizzazione per le migrazioni delle Nazioni unite, che ha uomini e “antenne” nei Paesi del Nord Africa, a partire da Libia e Tunisia, quelli da cui partono i migranti diretti in Italia e, in piccola parte, anche a Malta. Anzi, dell’ultimo naufragio - avvenuto mercoledì o giovedì della scorsa settimana in un tratto di mare al largo della Libia orientale - forse non si sarebbe saputo nulla se dalla nave Geo Barents di Medici senza frontiere non avessero ascoltato una conversazione radio tra una petroliera e un aereo dell’operazione Irini-Eunavformed. Negli stessi giorni in cui quel gommone, “con un centinaio di persone a bordo” come hanno riferito ai soccorritori gli unici quattro sopravvissuti parlando in francese, partiva presumibilmente da Al-Khoms, altre imbarcazioni di disperati venivano messe in mare in quella stessa area nonostante le condizioni meteo non fossero buone. In quelle ore Alarm Phone, il “centralino dei migranti”, aveva lanciato richieste di soccorso per almeno due barche: una, con 32 persone a bordo, era stata poi raggiunta dal mercantile Karima; i migranti salvati quindi trasferiti su una delle navi Ong in attività nel Mediterraneo centrale, la Sea-Eye4; l’altra, con circa 145 persone a bordo, dopo drammatici appelli era stata raggiunta dalla Guardia costiera libica che aveva riportato indietro i migranti. I libici dicono di aver “salvato” negli ultimi giorni circa 300 persone ma anche di aver recuperato una decina di cadaveri, alcuni di bambini e di donne. Ma del gommone con “circa cento” persone a bordo nessuno sapeva nulla. Non risulta che per questa imbarcazione siano stati lanciati allarmi, nessuno li stava cercando. E c’è solo la pietà di Papa Francesco che ieri da Malta ha pregato per “quanti lottano tra le onde del mare”. Sabato mattina la petroliera con bandiera panamense “Alegria 1” ha risposto a una richiesta di intervento da parte di un aereo da ricognizione di Irini-Eunavformed partito da Sigonella e, a 85 miglia dalla Libia, ha trovato i 4 sopravvissuti mentre era in navigazione proprio verso la Libia. A quanto è dato sapere, solo allora la macchina ufficiale dei soccorsi si è messa davvero in moto, alla ricerca di altri naufraghi vivi o morti e anche dell’imbarcazione. Inutilmente. La “Alegria 1” invece, nonostante gli appelli di Medici senza frontiere dalla Geo Barents che ha a bordo 113 persone salvate il 29 marzo e si è offerta di prendere a bordo i naufraghi, ha proseguito la sua rotta verso il porto libico di As Sidrah, città con uno dei più grandi depositi petroliferi della Libia quasi al confine con l’Egitto. Lì dove ieri mattina ha presumibilmente sbarcato i naufraghi, pur con il rischio di aver violato le norme internazionali sul soccorso in mare. Ciò che accade nel Mediterraneo centrale, continuano a ripetere Ong e osservatori indipendenti, è ormai una sorta di segreto di Stato, anche quando aerei da ricognizione e satelliti “vedono” e documentano. Da mesi, il fenomeno migratorio in quella che si continua a definire “la rotta via mare più pericolosa e mortale” non è più sotto i riflettori. Si sa quando una nave umanitaria effettua un soccorso, si sa il numero delle persone sbarcate. Del resto, invece, nulla. La Guardia costiera libica e la Marina tunisina nei primi tre mesi dell’anno hanno riportato indietro 3.094 migranti, erano stati 32.425 in tutto il 2021. In Italia gli arrivi da gennaio a marzo sono stati 6.701, dei quali, come ha detto la ministra dell’Interno Lamorgese l’altro giorno al Comitato Schengen, 1.595 giunti con navi Ong e 3.378 sbarcati autonomamente. Numeri in calo, ha fatto notare Frontex, rispetto a quelli di tutte le altre rotte migratorie, per mare e per terra. Ma di cui nessuno parla più. Dall’Ucraina nuove prove di crimini di guerra della Russia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 4 aprile 2022 Nelle ultime settimane, nel corso di attacchi contro aree civili densamente popolate dell’Ucraina, le forze russe hanno portato a termine numerosi attacchi indiscriminati, qualificabili come crimini di guerra. La prima ricerca sul campo condotta da Amnesty International, le cui conclusioni sono state rese note ieri, ha verificato attraverso prove materiali, l’uso di bombe a grappolo il cui uso viola il diritto internazionale. Il 28 febbraio, tre attacchi simultanei partiti da lanciarazzi multipli hanno colpito la parte settentrionale della città di Kharkiv uccidendo almeno nove civili, inclusi bambini, e ferendone almeno altri 18. Il ricercatore sulle armi di Amnesty International ha esaminato di persona una serie di prove materiali rinvenendo frammenti di bombe a grappolo del modello 9N210 o 9N235. Anche il quartiere Saltivka di Kharkiv è stato ripetutamente preso di mira durante l’assedio della città. Vi sono stati almeno 22 attacchi, tra il 27 febbraio e il 16 marzo, da cui sono emersi danni ad aree civili, tra cui scuole, aree residenziali, mercati alimentari e un deposito di tram. Le foto degli attacchi mostrano resti di razzi Smerch e di bombe a grappolo in tutta la zona. In precedenza, Amnesty International aveva documentato attacchi contro civili riparati in una scuola materna nella regione di Sumy e un attacco aereo che aveva ucciso dei civili in coda per il cibo a Chernihiv. Ucraina. Bucha, ma non solo: ecco il lungo catalogo degli orrori contro i civili di Alberto Flores D’Arcais La Repubblica, 4 aprile 2022 Il Rapporto di Human Rights Watch. La Ong sta raccogliendo prove di massacri, stupri, giustizia sommaria nel conflitto ucraino: potranno essere usate per portare davanti ai tribunali internazionali mandanti ed esecutori. Tra i crimini circostanziati l’eccidio consumato nella cittadina a 30 chilometri da Kiev Bucha come Srebrenica, come le stragi naziste in Europa. Sui social network le terribili immagini dei civili (anche bimbi) assassinati, delle donne stuprate e bruciate dalla barbarie dei soldati russi, suscitano inevitabili paragoni con i crimini di guerra che l’Europa ha già visto nel secolo scorso. In ogni angolo dell’Ucraina martoriata dai bombardamenti, dalle deportazioni e da saccheggi e ruberie, operatori umanitari e reporter raccolgono con l’aiuto della popolazione locale una documentazione che - quando la guerra sarà finita - diventerà una prova: quella che serve per incriminare al tribunale dell’Aja Putin e chi sul terreno ha violato ogni legge dell’umanità, diventando autore (la responsabilità è individuale) di crimini di guerra. Ancor prima di Bucha (e di quello che purtroppo vedremo nei prossimi giorni nelle aree dove i russi si sono ritirati) Human Rights Watch (Hrw) ha documentato diversi casi in cui le forze militari russe hanno commesso violazioni delle leggi di guerra contro i civili nelle zone occupate (Chernihiv, Kharkiv, la capitale Kyiv). Casi di stupro ripetuti, casi di esecuzione sommaria, violenze illegali e minacce contro i civili avvenuti tra il 27 febbraio e il 14 marzo 2022. Per Hugh Williamson, direttore per Europa e Asia Centrale di Hwr “lo stupro, l’omicidio e altri atti violenti contro persone sotto la custodia delle forze russe dovrebbero essere indagati come crimini di guerra; i casi che abbiamo documentato ammontano a indicibili, deliberate crudeltà e violenze contro i civili ucraini”. Eccone alcuni, provati da testimonianze e precisa documentazione: 27 febbraio - Le forze russe nel villaggio di Staryi Bykiv, nella regione di Chernihiv, hanno radunato almeno sei uomini e successivamente li hanno assassinati. 4 marzo - Le forze russe a Bucha, circa 30 chilometri a nord-ovest di Kiev, hanno radunato cinque uomini e uno di loro è stato giustiziato sommariamente con un colpo alla nuca. 4 marzo - Un uomo di 60 anni e suo figlio sono stati salvati da un soldato russo dopo che un altro soldato di Putin aveva minacciato di ucciderli a Zabuchchya, villaggio a nord-ovest di Kiev. 6 marzo - I soldati russi nel villaggio di Vorzel, circa 50 chilometri a nord-ovest di Kiev, hanno lanciato una granata fumogena in un seminterrato, poi hanno sparato a una donna e a un ragazzo di 14 anni mentre uscivano dal seminterrato dove si erano rifugiati. 13 marzo - Una donna è stata ripetutamente violentata da un soldato russo in una scuola nella regione di Kharkiv dove lei e la sua famiglia si erano rifugiati. I soldati russi sono anche implicati nel saccheggio di proprietà civili (cibo, vestiti, legna da ardere. motoseghe, asce, benzina), abusi che sono considerati crimini in tempo di guerra. Tutte le parti coinvolte nel conflitto armato in Ucraina sono obbligate a rispettare il diritto internazionale umanitario e le leggi di guerra, comprese le Convenzioni di Ginevra del 1949, il primo protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra e il “diritto internazionale consuetudinario”. Leggi che proibiscono “l’uccisione intenzionale, lo stupro e altre violenze sessuali, la tortura e il trattamento disumano dei combattenti catturati e dei civili in custodia, il saccheggio e la razzia”. Chiunque “ordini o commetta deliberatamente tali atti o li aiuti e favorisca, è responsabile di crimini di guerra” e i comandanti delle forze “che sapevano o avevano ragione di sapere di tali crimini, ma non hanno tentato di fermarli o di punire i responsabili, sono penalmente responsabili di crimini di guerra”. Fred Abrahams, che guida il ‘research staff’ di Human Rights Watch invita tutti quelli che possono a preservare prove e documentazioni di eventuali crimini di guerra: “Se le fosse comuni a Bucha o altrove saranno confermate, un punto è cruciale: vanno conservate fino all’organizzazione di un’esumazione professionale. Le famiglie o le autorità che vogliono una rapida sepoltura, per quanto sia comprensibile, distruggeranno le prove. Vanno invece trattate come scene del crimine”. Crimine di guerra è anche l’uso di mine (a Bucha i russi le hanno messe anche nei cadaveri dei civili da loro assassinati). Per Kenneth Roth, Executive Director di Human Right Watch, “il fatto che la Russia non abbia ratificato il trattato che vieta le mine terrestri non giustifica l’uso di queste armi indiscriminate da parte delle sue forze. Le armi indiscriminate sono vietate anche dalle Convenzioni e dai Protocolli di Ginevra che la Russia ha ratificato”. Ecuador. Scontri nel carcere di Turi, almeno venti detenuti morti agenzianova.com, 4 aprile 2022 Un bilancio che potrebbe essere ulteriormente appesantito, ha detto il ministro dell’Interno, Patricio Carillo, pur assicurando che le forze di sicurezza hanno ripreso il controllo del penitenziario della cittadina nella provincia centrale di Azuay. Sono almeno 20 i morti registrati domenica al termine di scontri nel carcere di Turi, in Ecuador. Un bilancio che potrebbe essere ulteriormente appesantito, ha detto il ministro dell’Interno, Patricio Carillo, pur assicurando che le forze di sicurezza hanno ripreso il controllo del penitenziario della cittadina nella provincia centrale di Azuay. Il ministro, che riportando le segnalazioni dei droni ha riferito dell’ingresso nel carcere di fucili a canna lunga, ha ritenuto infondate le ipotesi di un sovraffollamento della struttura, capace di 2.500 posti e con 1.600 reclusi. Gli scontri, iniziati la mattina di domenica, sarebbero conseguenza di una lotta interna scatenata da un gruppo di narcotrafficanti che puntava ad avere il controllo assoluto delle attività interne al carcere. Le autorità hanno riportati anche il ferimento di almeno altri dieci reclusi di cui cinque in condizioni gravi, mentre il ministro ha segnalato che cinque cadaveri sono stati trovati mutilati in più punti. L’Ecuador attraversa da mesi una crisi di sicurezza che ha provocato diversi massacri nelle carceri del Paese. Il 2021 si è chiuso con un totale di 331 detenuti morti, in aumento del 587 per cento sul 2020, quando gli omicidi erano stati 52. Il principale teatro di violenti scontri tra bande rivali è il carcere di Guayaquil, importante città costiera del Paese, sempre più al centro delle rotte del narcotraffico. Qui, a fine settembre 2021, si è registrata la strage peggiore di sempre, 119 morti, seguita da un’altra, il 12 novembre, con il bilancio di 68 decessi. Gli scontri di quest’ultima sono stati testimoniati da una raccapricciante diretta video di due ore effettuata da detenuti che chiedevano l’intervento delle autorità. A febbraio 2021, una serie di attacchi simultanei nelle carceri di Latacunga, Guayaquil e Turi, hanno portato alla morte di 79 detenuti, mentre altri 21 morti violente si sono prodotte a metà luglio, a Guayaquil e Latacunga. Dopo gli incidenti di settembre scorso, il governo del presidente Guillermo Lasso ha disposto uno stato di emergenza, con regole molto severe sulla circolazione e le libertà personali all’interno delle mura. A fine dicembre, decretata la fine dell’emergenza, il governo ha disposto un rafforzamento delle strategie di sicurezza decidendo l’invio, nel rispetto dell’ordinamento, di oltre duemila soldati nel solo carcere di Guayaquil. Il governo ha annunciato che istituirà un sistema di “intelligence” per monitorare la situazione all’interno delle carceri e la contrattazione di 2.600 nuove guardie penitenziarie. Gli ultimi studi riportano infatti la necessità di disporre di almeno 4.000 funzionari nella rete carceraria, contro gli attuali 1.400. Parallelamente l’esecutivo ha istituito una commissione per la Pacificazione delle carceri incaricata di studiare una riforma del sistema. A metà febbraio, per tentare di alleviare la pressione della popolazione carceraria il presidente Lasso aveva firmato un indulto in favore di condannati per rapina, furto e truffa che abbiano compiuto quote comprese tra il 40 e il 60 per cento della pena. Si tratta del terzo decreto di indulto firmato dal capo dello Stato, dopo quello concesso a condannati per reati stradali e quello alle persone con malattie terminali. Il governo ha contestualmente presentato un nuovo piano di politiche pubbliche per promuovere una “vera riabilitazione sociale” delle persone incarcerate. Una strategia che muove dalla fotografia della popolazione carceraria (il 45 per cento dei detenuti ha famiglia e figli e il 43 per cento ha tra i 18 e i 30 anni), redatta grazie anche al sostegno degli Stati Uniti, della Colombia, dell’Unione europea e dell’ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani. L’emergenza è anche tema di preoccupazione di diverse agenzie e osservatori internazionali. In un rapporto pubblicato dopo visite compiute a inizio dicembre 2021, la Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) ha segnalato che il “mancato controllo nei penitenziari facilita l’ingresso di droga e armi nei padiglioni”, contribuendo ad aggravare una situazione di “violenze e corruzione senza precedenti all’interno delle carceri”. Tra i problemi strutturali sono stati evidenziati “l’aumento delle pene e dei reati che prevedono la reclusione, la politica in materia di droga, l’uso eccessivo della detenzione preventiva, gli ostacoli legali e amministrativi alla concessione di benefici e grazie, nonché le deplorevoli condizioni di detenzione”. L’agenzia ha confermato che le condizioni nelle carceri dell’Ecuador “sono lontane dagli standard interamericani”. Nell’ultimo rapporto sulle violazioni dei diritti umani, l’organizzazione non governativa Amnesty International ha denunciato il contesto di sovraffollamento, abbandono e mancato rispetto dei diritti umani della popolazione carceraria”. L’aumento degli omicidi, affermano gli esperti in sicurezza, sarebbe direttamente legato a un mutamento del ruolo dell’Ecuador nel mercato continentale delle droghe. Da semplice Paese di transito, punto di snodo tra Perù e Colombia nonché trampolino marittimo verso Messico e America centrale, l’Ecuador si sarebbe via via trasformato in hub per grandi quantità di merce. In tale contesto si registra un deciso incremento delle operazioni di polizia che portano a smantellare laboratori per la sintesi delle sostanze. Si tratta di dinamiche che incentivano le guerre tra le nuove organizzazioni che si fanno largo in un panorama sbloccato fra l’altro dall’erosione del potere dei grandi cartelli di Messico e Colombia. In tutto il 2021 le autorità hanno denunciato il sequestro di 201 tonnellate di droga, cifra più alta della storia.