Nessun bambino in carcere. Case famiglia per le madri di Paolo Siani L’Espresso, 3 aprile 2022 “Apri” e non “mamma”: questa è la prima parola che dicono i bambini che vivono in carcere con le loro mamme detenute. “Apri”, infatti, è la parola che sentono più spesso pronunciare. Così mi hanno raccontato le donne dell’Istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icam) di Lauro in provincia di Avellino, durante una visita effettuata con la Commissione parlamentare infanzia e adolescenza nel 2018. Una delle prime attività che ho svolto da deputato è stata proprio quella di visitare le carceri e in particolare quelle che ospitano minori, per vedere da vicino la situazione dei nostri istituti penitenziari. “Nessun bambino deve varcare la soglia di un carcere”: queste le parole pronunciate dalla ministra della Giustizia Cartabia poche settimane fa in audizione in Commissione infanzia a cui è urgente e necessario dare seguito e concretezza. Invece in Italia in questo momento ci sono 16 bambini innocenti che vivono i primi anni della loro vita in un carcere, perché I’Icam è comunque un carcere. Non si dica che sono piccoli numeri. Sono bambine e bambini in carne e ossa. E hanno tutto il diritto di vivere una vita normale. Anche perché, come dimostrano accurate evidenze scientifiche, i primissimi anni di vita dei bambini, al pari della fase di gestazione, sono fondamentali per il loro sviluppo cognitivo. Nei primi mille giorni di vita l’ambiente in cui il bambino vive, svolge un ruolo decisivo per lo sviluppo del suo cervello. Prima pensavamo che lo sviluppo di un bambino dipendesse esclusivamente dai geni che ereditava dai suoi genitori, oggi sappiamo che i nostri geni sono controllati anche dall’ambiente in cui viviamo nei primi anni. Per esempio la lettura ad alta voce in un ambiente accogliente da parte dei genitori nei primi mesi di vita determina un aumento del numero di parole conosciute dai bambini all’età di 3 anni. L’Italia ha una legge, la numero 62 del 2011, che consente a una donna in gravidanza o con un bambino di età inferiore a 6 anni di scontare la sua pena in un Icaro o in case famiglia protette. Ma la legge non prevede alcun finanziamento per queste ultime. Non a caso, nel nostro Paese, ce ne sono soltanto due. Nella legge di bilancio del 2020 è stato istituito, grazie a un mio emendamento, un fondo con una dotazione di 1,5 milioni di euro per ciascuno degli anni 2021, 2022 e 2023, destinato a contribuire all’accoglienza di genitori detenuti con bambini al seguito in case famiglia protette e in case alloggio per l’accoglienza residenziale dei nuclei mamma-bambino. Ma ad oggi nessuna Regione ha provveduto a utilizzare questo finanziamento. L’11 dicembre 2019 ho presentato una proposta di legge basata sull’idea di fondo che nessun bambino innocente debba varcare la soglia di un carcere, anche se attenuato. Perché è comunque un carcere. E non si può condannare a una vita da recluso, in un momento decisivo per la sua crescita, nessun bambino, perché l’ambiente in cui vive nei primi anni influenza anche la sua vita da adulto. L’atmosfera che invece ho percepito durante la mia visita nel 2019 nella Casa di Leda a Roma, in una bella villa confiscata a un boss mafioso, è certamente quella più adatta per un bambino. È una casa famiglia protetta per donne detenute con figli minori, gestita dall’associazione di volontariato “A Roma insieme”, che non ha nulla a che vedere con un istituto penitenziario. È una villa di 600 metri quadri con un giardino dove ci sono giochi per bambini. Non ci sono gli agenti di custodia, non ci sono le sbarre, le chiusure e le aperture, la vita scorre secondo i normali tempi di vita familiare. Sono quindi fermamente convinto che l’accoglienza delle detenute madri (come di quelle in stato di gravidanza) e dei loro figli in case famiglia protette è, tra le modalità di detenzione alternativa dei genitori con bambini al seguito, quella in grado di assicurare la miglior qualità di vita dei minori. Non possiamo infatti provare a recuperare una donna che ha sbagliato e condannare il suo bambino a trascorrere i primi anni della sua vita in un carcere. Si tratta adesso di trovare un accordo tra le varie sensibilità politiche e fare in modo che nessun bambino sia costretto a varcare il cancello di un carcere per stare con la sua mamma. È una questione di civiltà ma anche di diritti costituzionali negati. L’articolo 31 della nostra Costituzione recita: “La Repubblica protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”. Applichiamolo. *Vicepresidente Commissione parlamentare infanzia e adolescenza Misure alternative al carcere: “Il Terzo Settore avvii formazione” laricerca.net, 3 aprile 2022 Tra la Ministra della Giustizia Marta Cartabia e la Portavoce del Forum del Terzo Settore Vanessa Pallucchi, accompagnata da una delegazione del tavolo di lavoro sulle persone private della libertà, si è svolto un incontro sul tema della giustizia riparativa e della diffusione di una “cultura riparativa”, dove la sicurezza è il risultato di relazioni fondate sul rispetto della dignità umana. L’incontro è stato giudicato “molto positivo” da Vanessa Pallucchi. “Il Terzo settore, per sua natura e per le competenze maturate negli anni - ha detto - è il soggetto in grado di attuare, insieme alle istituzioni, quei percorsi di solidarietà, prevenzione, benessere, attenzione ai bisogni che la riforma della giustizia prevede, sia per quel che riguarda i processi di prevenzione che per la reintegrazione di quei soggetti coinvolti in percorsi di devianza. Ci sono molte organizzazioni sociali già impegnate direttamente nell’inserimento e nel reinserimento di persone private della libertà, o anche indirettamente, attraverso l’ospitalità, all’interno delle proprie attività, di persone coinvolte da procedimenti penali”. “Da parte della Ministra - ha proseguito - abbiamo riscontrato una grande attenzione e il riconoscimento, anche nel processo di rinnovamento del sistema giudiziario, del fondamentale e concreto ruolo che il Terzo Settore svolge in questo ambito. Si tratta di un approccio fortemente innovativo per il nostro Paese e di un cambiamento di prospettiva davvero importante.” Durante l’incontro si è discusso anche del Protocollo di Intesa che Ministero e Forum stanno per firmare per l’applicazione della legge 67 del 2014, in particolare per i lavori di pubblica utilità. Tutte le organizzazioni del Terzo Settore potranno interagire con i Tribunali e con gli Uffici interdistrettuali di esecuzione penale esterna (Uiepe) per favorire, soprattutto, il recupero delle persone in attesa di giudizio - considerate di bassa pericolosità sociale - consentendo loro percorsi alternativi al carcere attraverso l’inserimento in lavori socialmente utili, che tengano conto anche delle loro competenze ed esperienze. “In questo senso crediamo sia fondamentale far crescere il livello della formazione fra gli educatori - ha concluso la Portavoce - e anche su questo abbiamo trovato grande disponibilità da parte della Ministra per fare in modo che questa facilitazione funzioni al meglio.” Csm, le toghe di Area contro Ferri: “Non può stare al tavolo delle trattative sulla riforma” di Liana Milella La Repubblica, 3 aprile 2022 Il segretario della corrente di sinistra dei giudici, Albamonte, parla di “una situazione assurda”. E mette in evidenza una contraddizione: “Il prossimo Consiglio affronterà il processo disciplinare contro Ferri e lui adesso decide come riformare proprio quel Csm”. Un “plateale conflitto di interessi”, nell’indifferenza della politica. Lo dice Area, la corrente di sinistra delle toghe. E il segretario, e pm a Roma, Eugenio Albamonte parla con Repubblica “di una situazione assurda che dimostra come la politica abbia rimosso i fatti dell’hotel Champagne che la vedevano protagonista”. Sotto accusa c’è Cosimo Maria Ferri, toga di Magistratura indipendente (Mi), dal 2013 “prestata” alla politica, sottosegretario alla Giustizia di ben tre governi (Letta, Renzi, Gentiloni), presente alla cena dell’hotel Champagne con Luca Palamara e Luca Lotti in cui nel maggio 2019 si decideva chi dovesse essere il procuratore di Roma sponsorizzando il Pg di Firenze Marcello Viola, anche lui di Mi. Che ha sempre detto di non essere al corrente, né di aver sollecitato quella sponsorizzazione, e mercoledì prossimo potrebbe essere scelto come nuovo procuratore di Milano dopo aver perso la battaglia per Roma. Parliamo dunque dello stesso Ferri, sotto processo disciplinare al Csm per quei fatti, e che adesso siede al tavolo delle trattative sulla riforma del Csm. Dice Albamonte: “È evidente che siamo di fronte a una contraddizione e a un sostanziale conflitto interessi. La politica sta rimuovendo un problema che la riguarda strettamente. In un momento di riforme in cui si ritiene necessario un recupero etico per la magistratura, bisogna farlo anche per la politica, soprattutto se la politica, come in questo caso, era protagonista proprio di quei fatti”. E invece, aggiunge Albamonte, “Ferri si pronuncia sulla legge elettorale che ipoteca non solo il futuro Csm, ma anche la futura sezione disciplinare che deciderà la sorte del suo processo. Che non si potrà concludere con l’attuale Consiglio, visto che la Corte costituzionale si esprimerà sul conflitto di attribuzione per le intercettazioni solo il 14 settembre”. Questione ovviamente sollevata dallo stesso Ferri, su cui la Camera ha deciso a suo favore sostenendo che le intercettazioni della procura di Perugia non possono essere utilizzate visto che lui è un parlamentare. Il Csm la pensa all’opposto e si è rivolto alla Consulta. Un conflitto evidente dunque. Ma che la politica sembra non “vedere” o non vuole vedere. Tant’è che Italia viva manda alle riunioni con Cartabia proprio Ferri, e non la capogruppo in commissione Giustizia Lucia Annibali. Nessuno dei partecipanti al tavolo della maggioranza si alza per riservare l’anomala presenza. E parliamo di partiti tutti estremamente critici sui rapporti tra le toghe e la politica, con punte di durezza estrema come quelle della Lega, di Forza Italia, di Azione, al punto da mettere il definitivo stop alla possibilità del rientro in toga per chi si scende in politica. A una settimana dalla prima uscita di Ferri contro Cartabia proprio sul sorteggio, che lui sponsorizza come unica legge possibile - “Se lei non è d’accordo ministra, noi ce ne faremo una ragione” le ha detto - ecco il documento di Area e le dichiarazioni di Albamonte. Che dice così: “Siamo di fronte a una situazione davvero assurda, e mi chiedo come sia possibile che sia passata inosservata finché la stampa non l’ha svelata nei retroscena. Stiamo parlando di una riforma delicata per le sorti della magistratura e del Csm. La maggioranza tarda ad assumere una posizione sui temi centrali e alcune forze politiche cercano un’occasione di rivalsa sui giudici, tentando di ridimensionare il ruolo complessivo del Csm”. Se questa è la realtà di una trattativa difficile, e che sta andando avanti ormai da un anno, con la presenza di Ferri si materializza proprio uno dei protagonisti di quei fatti per cui il presidente della Repubblica Sergio Mattarella da due anni chiede una riforma per rinnovare profondamente la magistratura stessa. Può Ferri, protagonista di quei fatti, svolgere anche il ruolo di innovatore? Risponde Albamonte: “Proprio la partecipazione di uno dei protagonisti di un momento buio nella vita del Csm, che al Consiglio ha già portato a sei punizioni disciplinari (Luca Palamara rimosso dalla magistratura, e cinque componenti dell’attuale Csm, ndr.), rischia di consegnare all’assoluto insuccesso questo passaggio delicato delle riforme”. Il documento di Area non fa sconti alla politica e parla di “forte preoccupazione per il plateale conflitto di interessi e ancor più per il fatto che l’ambiente politico non ne abbia tratto le doverose conseguenze. Non solo da parte del partito in cui milita Ferri, ma anche degli altri partiti di maggioranza che siedono al tavolo senza rilevare la grave inopportunità”. Area si dice “assolutamente convinta che una netta separazione dalla politica e dai partiti sia indispensabile per consentire alla magistratura di recuperare credibilità e non ricadere in prassi esecrabili”. Ma stavolta, aggiunge, “vi è ben di più di un’impropria sovrapposizione di ruolo nella stessa persona”. Perché “in questo caso si tratta di evitare che lo statuto e la composizione del Consiglio che dovrà giudicare l’onorevole Ferri siano decise con il contributo di chi ne verrà giudicato”. È necessario ricostruire un rapporto non più malato fra giustizia e politica di Gaetano Pedullà La Notizia, 3 aprile 2022 Giustizialista, manettaro, senza cultura giuridica. Ormai ci ho fatto il callo a beccarmi queste e altre accuse ogni volta che mi trovo a discutere di legalità nei convegni o nelle trasmissioni tv. Con La Notizia abbiamo fatto battaglie durissime per difendere la riforma Bonafede sulla prescrizione, l’ergastolo ostativo, il sorteggio dei componenti togati del Csm e il conseguente disfacimento delle correnti nella magistratura. Perciò è molto difficile iscriverci tra le fila dei sedicenti garantisti, in molti casi al soldo di editori imputati, per non parlare dei politici che campano beatamente in partiti zeppi di condannati. Il garantismo, quello vero, è una cosa troppo seria per essere affidato a certi trombettieri, che in nome dei diritti rimetterebbero in libertà i boss mafiosi, e mentre ci siamo darebbero pure un premio ai colletti bianchi che rubano, grazie ai quali l’Italia è stabilmente in cima alla classifica dei Paesi più corrotti del pianeta. Il caso di Simone Uggetti - Detto questo su La Notizia intervistiamo l’ex sindaco di Lodi, Simone Uggetti, personaggio emblematico dell’abisso in cui è confinato il rapporto tra politica e magistratura. Il suo arresto nel 2016 fu acclamato dai cittadini indignati per lo schifo che c’è nella pubblica amministrazione, ma la successiva parziale assoluzione spinse anche il Cinque Stelle Di Maio a riconoscere l’errore di una sentenza mediatica dettata ancor prima del processo. Quel gesto provava a chiudere la stagione del muro contro muro sostanzialmente aperta da Tangentopoli e continuata da Berlusconi con una serie di vergognose aggressioni all’indipendenza di Procure e Tribunali. Ora l’assoluzione di Uggetti è stata annullata (a parecchi giudici piace fare così: un passo avanti e due indietro), e chi campa impedendo di ricostruire un rapporto non più malato tra Giustizia e Politica ha ricominciato a cavalcare il caso, approfittandone per colpire anche chi si è esposto nel tentativo di andare avanti, oltre gli scogli del passato. Un tentativo tanto generoso quanto necessario e urgente, perché con i chiari di luna che abbiamo una prossima legislatura con la possibile maggioranza delle destre potrebbe decidere il liberi tutti, depenalizzando ogni cosa e magari assegnando il premio dell’anno a chi ruba di più. “Pericolosi, forse letali”: tutti i dubbi sui taser in uso agli agenti di 18 città di Rita Rapisardi L’Espresso, 3 aprile 2022 Un appalto accidentato, la fornitura assegnata alla Axon con procedura urgente, nonostante i rilievi sui rischi. Il no delle associazioni per i diritti umani e le perplessità di una parte del sindacato di polizia. Le pistole elettriche volute da Alfano e Minniti, osannate da Salvini, sono arrivate con Lamorgese. Quasi nessuno avrà sentito parlare del “Thomas A. Swift’s Electric Rifle” (il fucile elettrico di Thomas A. Swift), qualcuno in più, del suo vero nome, pochissimi invece che è entrato in funzione nelle forze dell’ordine italiane, che ora ne dispongono 4.482 esemplari. Si parla del taser, un’arma classificata come non letale, ma di dissuasione, in grado di immobilizzare un soggetto attraverso una scarica elettrica intensa, ma di breve durata. In pratica, il taser irrigidisce chi viene colpito. In diciotto città italiane, dal 14 marzo, Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza hanno la pistola elettrica in dotazione, insieme alla restante attrezzatura. La storia dei taser in Italia parte da lontano, dal 2014. Voluti prima dal ministro dell’Interno Angelino Alfano e poi dall’omologo Marco Minniti, l’introduzione dei taser si concretizza grazie proprio a colui che in queste settimane di guerra, si dice disgustato al solo al sentir nominare le armi. Nel luglio 2018 Matteo Salvini da ministro dell’Interno firma un decreto, che poi diventerà legge, che dà il via a alla sperimentazione in dodici città italiane per nove mesi: un primo passo per inserire i taser definitivamente nel kit delle forze dell’ordine. Ma le vicissitudini che porteranno a individuare l’azienda fornitrice delle armi elettriche sono molte. Si parte a dicembre 2018, con una “manifestazione di interesse” per stabilire chi fornirà i taser per la sperimentazione. Seguono poi due gare, una nel 2019 e una nel 2021. Dicembre 2019: si presentano tre multinazionali del settore la Axon, la prima ad aver depositato il marchio nel 1911, la Trade Company e la Tar Ideal Concepts Ltd. Saranno tutte e tre escluse. Il bando vale complessivamente in 8,5 milioni di euro, senza Iva. L’esclusione di Axon, che già aveva fornito gratuitamente i 32 dispositivi per la prima sperimentazione, avviene per problemi tecnici. Si riscontrano infatti alcuni seri problemi di utilizzo durante le prove balistiche al centro di tiro della polizia di Nettuno, il luogo in cui di solito si fanno i collaudi per i dispositivi in dotazione alle forze dell’ordine e in cui lo stesso Salvini nel 2019 si era prestato a una esercitazione in prima persona del taser, insieme all’allora capo della polizia Franco Gabrielli: “Vogliamo averli anche sui treni, sulle volanti, nelle città”, aveva dichiarato. I problemi riscontrati erano sostanzialmente due: non piena precisione dei dardi e incidenti in cui i dardi si staccavano, diventando potenzialmente pericolosi per i cittadini e per gli stessi agenti. Fornitura sospesa con decisione immediata. All’epoca, dalla Axon protestano, vogliono ripetere le prove balistiche (con il contraddittorio), dicono che i dispositivi sono conformi e non si spiegano il risultato. Ma i documenti parlano chiaro, nella comunicazione della esclusione, 8 luglio 2020, si legge: “Si è rilevata la non conformità delle stesse ai requisiti ed ai parametri prestazionali previsti”. Nuovo bando, nuova esclusione per Axon, questa volta è il 23 febbraio 2021, il decreto di esclusione recita: “Vengono accertate alcune non conformità della campionatura di gara”, rispetto ad alcune indicazioni, tra queste, banalmente, le pistole non avevano le istruzioni in lingua italiana e fondina e case porta taser non corrispondevano alle richieste. A queste imperfezioni si aggiungono quelle ben più rilevanti rilasciate dal Banco nazionale di prova per le armi da fuoco portatili, e che ricalcano i dubbi espressi nel 2020: prove di precisione e test di sparo (distacco dei dardi) falliscono in più occasioni, anche la memorizzazione dei dati non avviene correttamente. Questa esclusione però non fa notizia come quella del 2020, nessuno ne parla. Il giorno dopo l’esclusione di Axon, il 24 febbraio, il ministero dell’Interno pubblica un nuovo documento, questa volta una procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara, invitando a partecipare le tre aziende escluse nell’ultimo bando. In pratica dopo le precedenti non aggiudicazioni, il ministero valuta come “estrema urgenza” il risolvere la questione. Questa soluzione prevede però una vincita “all’offerta economicamente più vantaggiosa”, senza prove tecniche, e una presa in carico pubblica degli eventuali rischi che i taser potrebbero avere durante l’uso. Vince Axon. Una delle contendenti la Condor S/A Industria Quimica, non ci sta, porta il ministero davanti al Tar del Lazio, ma poi abbandona. All’acquisto delle armi esce ufficialmente la notizia: “Siamo onorati di essere stati selezionati per fornire alle Forze dell’Ordine italiane i dispositivi - dichiara a luglio Loris Angeloni, attuale director channel di Axon Italia - La missione di Axon è quella di proteggere la vita”. Sul sito di Axon non si trova nessuna documentazione sulla conformità del modello Axon Taser X2, quello dato alle forze dell’ordine italiane, mentre nella scheda tecnica, scaricabile ma solo dopo aver fornito i propri dati, Axon descrive il taser come “la nostra arma più efficace” con “maggiore possibilità di evitare l’insorgere di conflitti”. Axon Italia, sentita da L’Espresso, spiega di come i requisiti del bando italiano fossero unici rispetto a quelli di altri Paesi in cui opera, in Italia si sono fatte prove balistiche al pari delle armi da sparo: “Ma le nostre non lo sono - commenta Angeloni -, facciamo test di precisione, ma questo non va a modificare lo sviluppo dell’arma”. L’altra richiesta, che non è stata superata nei primi due bandi, era quella che i dardi non si staccassero mai nel caso di sparo a vuoto: “Abbiamo deciso di creare una nuova cartuccia per il mercato italiano, che che riduce drasticamente le occorrenze di distacco del dardo”. I test sono stati ripetuti una terza volta ad aprile 2021, con risultati, valutati migliori dal Ministero. Dal punto di vista di Axon, però, queste non sono migliorie, perché non mitigano il rischio, ma un adattamento alle richieste del cliente. Sulla pericolosità di questi dispositivi si sono espresse associazioni, attivisti e medici. Nel 2007 il comitato contro la tortura delle Nazioni Unite si era preoccupato che l’uso delle armi TaserX26, provocando un dolore estremo, costituisse una forma di tortura e che in alcuni casi potesse anche causare la morte, come dimostrato da diversi studi attendibili e da alcuni casi accaduti dopo l’uso pratico. Amnesty International in un report del 2003 metteva già allerta sull’uso eccessivo della forza con i taser, definiti “pistole stordenti ad alta tensione associabile all’elettroshock”, che aprono la strada ad abusi e torture (che l’associazione ha riscontrato in diverse carceri degli Stati Uniti). Nella documentazione si analizzano diverse morti “sospette”, spesso registrate con diciture diverse, ma associabili all’uso dei taser, una di queste racconta di una studentessa di 15 anni, Chiquita Hammonds, spruzzata di pepe e colpita con un taser dalla polizia a Miramar, in Florida, a seguito di un lieve disturbo su uno scuolabus, “un trattamento crudele, disumano o degradante”“, si legge. “Il rischio zero non esiste in particolare con un’ arma che ha già causato la morte in altri Paesi. La preoccupazione è che vengano usate come arma di routine, per far rispettare la legge in assenza di una minaccia di lesioni gravi o di morte, dunque in modo non conforme agli standard internazionali sui diritti umani”, spiega Laura Renzi, Campaign manager Amnesty International Italia. Eppure uno dei motti di Axon è proprio quello di salvare vite: sul sito un contatore dice che oltre 246mila vite sono state salvate grazie a questi dispositivi. E più di 800 studi affermano che la “tecnologia taser è tra le opzioni più sicure ed efficaci di risposta alla resistenza”. Di fianco all’abuso ci sono anche i problemi di salute, come la possibile interferenza con i dispositivi pacemaker, sostenuta da numerose associazioni mediche, questo perché influenza la funzione cardiaca e celebrale e può portare ad arresto cardiaco o a una frequenza pericolosamente elevata.. A tal proposito la stessa Axon, a fronte degli studi, ha cambiato nel 2009 le proprie linee guida, consigliando l’utilizzo dei taser nella parte inferiore del corpo, evitando il torace. Anche il giornalismo si è occupato della questione. Reuters ha contato dal 2000 a oggi, 1000 morti da taser, in 153 casi è stata l’unica causa di morte. Nel 2015 Guardian aveva classificato 47 decessi su 957 come collegati all’uso dei taser. In Italia il taser è considerata un’arma propria, non da fuoco, ed è regolata dall’uso legittimo delle armi, articolo del codice penale, per cui gli agenti non sono punibili per l’uso in alcune situazioni di armi, anche potenzialmente letali, solo in caso di legittimità, urgenza e legittimo ricorso alla forza. In alcune città le regole sono molto rigide, ad esempio a Torino, l’unità taser (fornita a tre volanti) deve intervenire su indicazione della centrale operativa, che è obbligata ad allertare il 118. Potenzialmente può essere usato anche durante un Tso. “La pistola elettrica può essere utile in alcune circostanze in quanto mezzo di “coazione” meno impattante delle armi da fuoco - spiega a L’Espresso Daniele Tissone del sindacato di polizia Silp -, ma trattasi di un’arma a tutti gli effetti, che può, in taluni casi, essere letale al pari di un’arma da fuoco, oltre che produrre gravi lesioni”. Il sindacato durante la sperimentazione aveva chiesto un tavolo di confronto tra i ministri della Salute, della Giustizia e dell’Interno, per accertare modalità di impiego e criticità per le forze dell’ordine, che non possiedono copertura assicurativa per rischi da risarcimento civile, e per i cittadini. Nulla di tutto questo è avvenuto. Legittima difesa, stato di necessità, eccesso colposo, aspetti penali che il taser mette in discussione, ma che sono stati ignorati. Anche l’Autorità Garante delle persone private della libertà ha espresso perplessità: necessario evitare l’utilizzo improprio e l’uso in luoghi come carceri e caserme. Ma a parte Silp gli altri sindacati festeggiano. “Come testimonia la cronaca ormai quotidiana - spiega Pietro di Lorenzo di Siap, sindacato che da tempo porta avanti una campagna pro-taser - sono innumerevoli gli episodi che vedono protagonisti soggetti violenti nei confronti dei colleghi”. Dello stesso parere anche il sindacato di polizia autonomo (Sap) che ha definito la situazione “un importantissimo risultato” e il taser “un’arma non violenta”. La Axon negli anni ha iniziato diverse sperimentazioni in Italia: a Ravenna, insieme alla Polizia Municipale, ha introdotto la body cam, mentre a Latisana, in provincia di Udine, le videocamere sui veicoli. Ora con il via libera nazionale, si pensa ai taser. Non si è perso tempo a Roma dove il 24 marzo il Consiglio ha approvato una mozione di Fratelli d’Italia e Lista Calenda, passata grazie ai voti del Partito Democratico che apre l’uso delle pistole elettriche anche alla polizia municipale. E mentre la destra si spreca nei festeggiamenti, Partito Democratico e Movimento Cinque Stelle tacciono, con rare eccezioni: “Non c’è mai molto da esultare quando si approvano armi che possono essere usate su chi non può difendersi”, dichiara Chiara Gribaudo, deputata Pd. Intanto ha fatto già discutere un caso a Torino dove il taser è stato usato contro un senzatetto che alloggia in un’ex fabbrica abbandonata: è bastata la minaccia del taser a far sgomberare l’uomo. Nella stessa città, a gennaio, quaranta studenti inermi erano finiti in ospedale per le forti manganellate della polizia, alla richiesta dell’introduzione dei codici identificativi sui caschi delle forze dell’ordine, la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, aveva subito chiuso. Mentre ora applaude i taser. Catania. Detenuto muore in carcere: arrestato nel blitz Consolazione di Laura Distefano livesicilia.it, 3 aprile 2022 È deceduto in carcere. Infarto fulminante. Angelo Magni, arrestato nel blitz Consolazione della Squadra Mobile scattata lo scorso gennaio, è morto. Avrebbe compiuto 58 anni a settembre. I funerali - come ha approfondito LiveSicilia - si sono svolti qualche giorno fa a Catania senza particolari ‘servizi di controllo’ da parte delle forze dell’ordine. Il detenuto ha dietro di sé un lungo curriculum criminale. Il pentito Salvatore Messina ‘manicomio’, vecchio soldato dei Pillera, ha fatto una breve bio dell’uomo: “Angelo Magni è un appartenente al clan Pillera il quale per un periodo era transitato con i Carcagnusi con Mario La Mari e Filippo Termini, negli anni dal 1996-2006 circa e poi è ritornato nel clan Piliera insieme a Filippo Termini. Ho incontrato il Magni sino al 2015 ma è a tutt’oggi un appartenente”. Caserta. Delegati Onu in visita per progetto su reinserimento sociale dei detenuti Il Mattino, 3 aprile 2022 Una delegazione di rappresentanti delle Nazioni Unite e del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria-ministero della Giustizia sarà a Caserta il 5 e il 6 aprile per visionare lo stato di avanzamento del progetto “Mi riscatto per il futuro”, finalizzato al reinserimento sociale dei detenuti attraverso i lavori di pubblica utilità. In particolare il 5 aprile, la presidente del Consorzio Asi, Raffaela Pignetti, accompagnerà le delegazioni Unodc e Dap in visita all’area industriale della provincia di Caserta, dove sono già in corso di esecuzione i lavori del programma di pubblica utilità che coinvolge i detenuti. Il 6 aprile, nella sala convegni del Centro orafo Il Tarì (11,30), il ministero della Giustizia e il Consorzio Asi presenteranno nel dettaglio i progetti avviati nell’alveo della cooperazione interistituzionale e il percorso seguito in questi anni per l’attuazione del protocollo d’intesa sottoscritto il 6 dicembre 2019. “Questa visita - ha detto la presidente Pignetti - ci consente di illustrare sul campo alla delegazione internazionale il percorso di inserimento nel mondo del lavoro dei soggetti che si trovano detenuti presso le case circondariali della provincia di Caserta”. Firenze. Dal carcere al tirocinio, per un futuro vero di Beppe Matulli* La Nazione, 3 aprile 2022 Il percorso, molto lungo, che porta in questi giorni sette carcerati a iniziare altrettanti tirocini in sette diverse fabbriche di pelletteria di Scandicci inizia nel lontano 2020 e segna la ricerca e la realizzazione della più ampia solidarietà nell’intera società fiorentina. Immediatamente si costituisce il gruppo operativo a supporto di Pantagruel, con Simona Innocenti l’imprenditrice titolare della fabbrica “Bis Bag”, che opera nell’economia circolare e gestisce un’associazione di imprese Aspri (Associazione Pelle Recuperata Italiana) e con Valentina Giannelli dell’Agenzia Formativa Toscana Formazione (per la gestione del corso). Il 29 maggio 2020 il carcere formula la domanda al bando regionale con un progetto di formazione per pellettieri “Salvare la Pelle”. Il progetto è ultimo (settimo) fra i vincitori del bando e, l’importo ridotto, consentirà la frequenza soltanto di dodici detenuti. Il corso termina il 30 luglio 2021, dei dodici detenuti che lo frequentano, nessuno (circostanza non consueta) ha abbandonato. E il 21 ottobre in un incontro in carcere con Simona Innocenti, Valentina Giannelli, la Cgil, l’Ente Cr di Firenze, la Regione, i Comuni di Firenze e Scandicci, l’”Associazione Pelle Recuperata Italiana” e Confindustria Firenze vengono messi a punto i tirocini presso le aziende di pelletteria di Scandicci. La spesa per finanziare i 6 tirocini è stimata in 17 mila €. Ma la strada è tutta in salita. Contemporaneamente si apre una partita complessa fra il carcere e il Centro per l’Impiego di Firenze, per superare gli ostacoli burocratici. A febbraio l’associazione Aspri ha individuato le sette aziende interessate ma ci sono ancora altri problemi. Tutto è bene quel che finisce bene? Oppure occorre una maggiore capacità di affrontare i problemi strutturali che si sono evidenziati in questo lungo e travagliato percorso? Problemi che derivano da normative troppo complesse che spesso ostacolano anche la disponibilità e la volontà dei soggetti che sono intervenuti. *Presidente associazione Pantagruel Milano. Presentazione del film “Ariaferma” organizzata dal Forum di Casa Comune Ristretti Orizzonti, 3 aprile 2022 Intervento del Sen. Franco Mirabelli (Capogruppo PD in Commissione Giustizia al Senato). “È la seconda volta che vedo il film “Ariaferma” e credo che sia molto bello. Siamo in un Paese in cui, fino a pochi mesi fa, qualunque problema sociale veniva risolto dicendo che bisognava mettere le persone in galera e buttare via le chiavi. Questo indica, innanzitutto, che il carcere non è un luogo di cambiamento o di reinserimento ma è luogo di disperazione, dove si deve espiare la pena e basta e che i problemi sociali si risolvono in questo modo. Secondariamente, così facendo, si dice che il carcere è l’unica risposta di fronte ai reati. Oggi, anche con la Ministra Cartabia, mi pare che stiamo provando ad affermare un’altra idea. La riforma del processo penale che abbiamo approvato è stata molto discussa ma, almeno su un punto, devo dire che è positiva, in quanto c’è definitivamente la presa d’atto del fatto che il carcere non è l’unica soluzione, per cui quando una persona compie un reato ci sono anche le pene alternative o la messa alla prova, la giustizia riparativa e molte altre cose che si possono fare. Il carcere, quindi, deve essere l’estrema ratio. Io penso che questo percorso vada aiutato, anche culturalmente e un film come “Ariaferma” aiuta. A me questo film è piaciuto molto perché racconta che il carcere può essere luogo di violenza, di riproduzione di violenza, che produce recidività, oppure può essere una grande occasione di cambiamento, perché lì dentro c’è un’umanità straordinaria. Il punto è come si riesce a costruire il processo virtuoso e a impedire il processo negativo o anche il rapporto difficile, che spesso una certa politica tende ad amplificare. Sul nuovo capo del DAP, ad esempio, abbiamo assistito per giorni ad una discussione assurda in cui c’era chi sosteneva che alcuni stavano con gli agenti della polizia penitenziaria e altri stavano con i detenuti, come se ci fosse un conflitto permanente e non ci fosse, invece, la necessità di costruire un carcere migliore, sia per chi ci lavora sia per chi ci sta dentro. Un’ultima questione che a mio avviso è prioritaria, la si evidenzia nel film nel momento prima che Silvio Orlando inizi a cucinare e, discutendo con le guardie, dice quello che è stata anche la storia di questi due anni di pandemia: i detenuti sono rimasti senza lavoro, senza possibilità formative, senza visite delle famiglie. Questi sono stati due anni molto duri e molto difficili per chi è stato in carcere. Quello che abbiamo fatto per bilanciare questa situazione è insufficiente. Credo, quindi, che a quei detenuti vada riconosciuto il sacrificio che hanno fatto e, dunque, l’idea di anticipare il fine pena, aumentando gli sconti per la buona condotta per questi anni, è una cosa per cui ci stiamo battendo e alla fine penso che riusciremo a farla perché è anche giusto dare un risarcimento ai detenuti”. Catania. “La lezione di Giovanni Falcone, un cantiere aperto sul futuro” al liceo Spedalieri newsicilia.it, 3 aprile 2022 Sabato 2 aprile l’Auditorium Cuccia ha ospitato l’incontro dal titolo “La lezione di Giovanni Falcone, un cantiere aperto sul futuro”, tenuto dal dott. Sebastiano Ardita, Consigliere togato del Csm, già Direttore dell’Ufficio Centrale Detenuti e Trattamento del Dap, magistrato in prima linea nel contrasto al fenomeno mafioso. Nel trentennale delle stragi del ‘92 si è cercato di mettere a fuoco il senso profondo dell’eredità ideale e professionale di quella stagione particolarissima, allo stesso tempo cupa e terribile ma anche intensa e trascinante. Con semplicità e competenza siamo stati guidati all’interno di una storia di misteri inquietanti e appassionanti, sollecitati dalla curiosità e da un’alluvione di domande degli studenti. Il dott. Ardita fissa alcuni punti fermi, bocciando la riforma Cartabia, sollecitando una svolta nella gestione dei beni confiscati alle mafie, rivelando di avere scelto di non prendere parte alle manifestazioni ufficiali in ricordo di Falcone e Borsellino perché preferisce il linguaggio dei fatti alla retorica roboante dell’antimafia delle parole. Si sofferma, in particolare, sullo spirito del ‘92, una miscela irripetibile di orgoglio, rabbia e devozione per i martiri della legalità. L’antimafia è passione, lotta contro l’arroganza e le collusioni ma anche desiderio di offrire opportunità di riscatto per gli ultimi. Fino a quando il welfare mafioso apparirà più credibile dell’intervento sociale dello Stato, l’unica carta da giocare per uscire dalla miseria del quartiere sarà la legge della strada. Le conclusioni sono affidate alla preside Vincenza Biagia Ciraldo, la quale afferma che il principio di legalità costituisce il DNA del liceo Spedalieri, un istituto che da sempre punta ad offrire strumenti adeguati per leggere la complessità del reale e a formare una classe dirigente più attenta a recuperare gli emarginati dei quartieri a rischio che a ballare il valzer con i potenti. Milano. Il rilancio del progetto carcere. Quasi 30 ore di sport negli istituti penitenziari csi.milano.it, 3 aprile 2022 “Non avevo la fortuna di stare in un carcere con un campo da calcio, ma come facevamo spesso da ragazzini ci preparavamo una palla di calze, tutti donavano una calza per migliorare la forma e la rotondità del malloppo e giocavamo nello stretto corridoio dove trascorrevamo l’ora d’aria”. Le parole qui riportate sono quelle che Patrick Zacky ha scritto in un articolo per 7, il magazine de “Il Corriere Della Sera”. Il giovane attivista egiziano per i diritti umani fu detenuto nelle carceri del Cairo quasi due anni, in un caso clamoroso di rigida e ingiustificata detenzione a tratti privata di diritti minimi. Eppure, anche nel suo caso lo sport pare aver segnato un tassello determinante per poter guardare oltre, continuare a sperare, portare il corpo e la mente in una dimensione dove potersi riconnettersi alle cose più pure della vita, come il movimento, la condivisione con gli altri, un’umanità ritrovata, lo sport appunto. Questa storia ci ha ricordato come il Progetto Carcere che da ormai decenni portiamo avanti come Comitato di Milano, sia davvero una delle azioni costanti e silenziose che non ci rendiamo nemmeno conto di quanto bene fa ai “destinatari” finali. Lucia Teormino da settembre ha preso in mano il Progetto “Liberi di Giocare” e l’ha rinvigorito con una serie di progettualità che a causa del lockdown si erano arenate e spente. A fronte del fatto che non è stato possibile organizzare nuovamente dei campionati regolari di calcio, come era stato nel periodo pre-Covid, si è deciso di rinforzare tutto ciò che potesse essere attività ordinaria all’interno delle strutture penitenziarie coinvolte, il carcere di San Vittore e il minorile Beccaria a Milano, il carcere San Quirico di Monza e la Comunità Exodus di Don Mazzi al Parco Lambro. In totale al momento contiamo circa 30 ore di sport garantite su tutte le strutture, divise tra allenamenti e partite di calcio, basket, pallavolo e attività individuali che vanno dalla ginnastica dolce al crossfit a cui si aggiunge la partecipazione della squadra dei ragazzi di Exodus inserita nel torneo mensile di calcio Play More. “La cosa davvero bella è il clima che si sta instaurando tra i nostri trainer e i ragazzi detenuti, davvero un bel coinvolgimento che no può che dar senso al percorso ed essere positivo sia per i detenuti che finalmente possono tornare a fare sport, sia per i nostri educatori e trainer sportivi che ne hanno un ritorno professionale di sicuro, ma soprattutto una crescita umana importante” ha commentato Lucia Teormino, che ha poi proseguito: “A San Vittore siamo presenti con 14 ore di sport mentre a Monza solo il mercoledì non siamo attivi, gli altri giorni siamo sempre in struttura. Exodus invece gioca nel torneo Play More e queste uscite per loro sono fondamentali in termini di motivazione”. Il progetto al carcere minorile Beccaria, sino ad ora gestito da Giulia Stefanelli e ora passato a Lucia Teormino, fa storia a sé con gli allenamenti del venerdì costanti e alcune partite amichevoli organizzate nell’istituto insieme a società sportive del CSI o a realtà particolari; ne è esempio il match in programma contro la squadra di calcetto di non vedenti, esperienza che di sicuro andrà oltre lo sport per tutti gli atleti e i giovani coinvolti. Tra i 26 trainer coinvolti, ragazze e ragazzi, spunta anche il nome di Alessandro Raimondi, Consigliere Provinciale del CSI Milano non più ventenne, che porta la sua esperienza di una vita nell’ambito della pallavolo nel carcere di San Vittore. Con il suo coinvolgimento si afferma l’importanza di un progetto che vuole essere rete a maglie strette tra più componenti del comitato di Milano, per sostenere in sinergia i percorsi rieducativi dei detenuti, giovani, minori, e adulti. Forlì. La voglia di libertà dopo il carcere in scena con “La Soglia” di Buffadini e Fantini Il Resto del Carlino, 3 aprile 2022 Al Teatro Testori sarà in scena oggi alle 18 lo spettacolo ‘La Soglia’ presentato dalla compagnia Grandi Manovre ed interpretato dalle attrici Beatrice Buffadini e Francesca Fantini con elaborazione e regia di Loretta Giovannetti. Musiche originali di Renato Billi. Il testo è stato scritto dal drammaturgo francese Michel Azama e tradotto appositamente per Grandi Manovre, dall’Università Traduttori e Interpreti del Campus di Forlì ed è ambientato “in un luogo senza tempo - spiega la regista - perché il carcere smembra le giornate e le anime. È uno strano viaggio tra più mondi, con risvegli sudati e rabbiosi, dolore malcelato, inaspettate e graffianti tenerezze, ribellioni incoscienti come un urlo senza voce”. Lo spettacolo racconta la storia vera di una Donna (la Liberante) che sta per uscire dopo 16 anni di prigione e cerca di riprendere in mano la sua vita, i suoi ricordi, gli incontri, ma, soprattutto, sente fortemente il bisogno di contatto umano per sopravvivere a tutte le vicende e alle persone incontrate nel suo viaggio rinchiuso tra quattro mura. È una grande e desiderata ricerca di libertà in una vertigine straordinaria, violenta e dolorosa. Il testo è stato trasformato da un lungo monologo in un dialogo a due per la potenza del tema in cui tutto parla, dai colori alle luci, dai pochi oggetti scenici della cella ai movimenti. Il percorso dello spettacolo è particolarmente caro alla regista forlivese Loretta Giovanetti che ha lavorato tanti anni in carcere. Lo spettacolo ha partecipato ai Festival teatrali Nazionali Sele d’Oro di Oliveto Citra, Caro Teatro di Civitanova Marche e Xs di Salerno. Biglietti: Intero 12 euro, ridotto 10 euro. Info e prenotazioni al 348.9326539. Rosanna Ricci I rimedi necessari per la crisi della magistratura recensione di Sabino Cassese Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2022 “Senza vendette. Ricostruire la fiducia tra magistrati, politici e cittadini”, di Luciano Violante e Stefano Folli (il Mulino, pagg. 158, € 13). I cronisti giudiziari di una cittadina meridionale hanno organizzato una protesta quando si sono resi conto che le norme sulla presunzione di innocenza avrebbero impedito la diffusione di notizie riservate relative alle inchieste giudiziarie. Questa è un’ulteriore prova del circuito mediatico-giudiziario che si è prodotto in Italia e che ha contribuito al discredito della magistratura. Un tema sul quale sono stati scritti molti libri recenti (ricordo soltanto quelli recentissimi di Bruti Liberati, Pignatone e Gargani). A questi se ne aggiunge ora un altro. L’hanno scritto Luciano Violante, che unisce allo sguardo acuto dello studioso l’esperienza concreta del protagonista, e Stefano Folli, osservatore, analista e commentatore attento del nostro sistema politico. Questo volume tratteggia la storia della magistratura nel dopoguerra, ma principalmente contiene una ricostruzione degli anni detti di tangentopoli e dell’aureola di eroismo che circondava allora la magistratura. Segnala l’invasione di nuovi spazi da parte dell’ordine giudiziario e indica i modi per recuperare l’architettura istituzionale del Paese. Il libro lamenta il degrado progressivo di magistratura e politica, la diffusione dell’idea di sé stessa della magistratura come un corpo separato, guardiano dei costumi e dei valori; la sua illusione di una palingenesi morale per via giudiziaria; la diffusione della cappa del sospetto permanente di illecito; la ricerca del consenso popolare diretto da parte dei magistrati. Conclude dicendo che la magistratura attraversa la più grave crisi di credibilità della sua storia. Violante e Folli segnalano che, dopo il 1992, si sono svolte parallelamente due vicende, la crisi dei partiti e l’egemonia assunta dall’ordinamento giudiziario, con un progressivo indebolimento della politica. Mentre nel passato la minaccia all’indipendenza veniva dall’esterno, oggi viene dall’interno, a causa del peso delle correnti e dei capi corrente nel Consiglio superiore della magistratura. La prova è nel fatto che due Pm hanno fondato due partiti. Gli autori sottolineano l’ipocrisia dell’obbligatorietà dell’azione penale, segnalano l’abuso del potere inquirente, criticano l’uso di strumenti di investigazione illimitati, l’abuso delle intercettazioni, la loro pubblicità per soddisfare la curiosità morbosa del pubblico e screditare moralmente le persone. Così le informazioni di garanzia servono a stabilire un intreccio tra procura e mezzi di comunicazione. Si crea un rapporto viziato tra media e procure. Gli autori non escludono che a tutto questo concorrano altri elementi, come norme penali indeterminate che delegano ai giudici il compito di decidere, la presenza di magistrati in tutti gli altri poteri dello Stato, la degenerazione correntizia utilizzata per controllare le carriere, la coreografia del potere con cui ama auto-rappresentarsi la magistratura. In alcune pagine, allargano il giudizio alla storia italiana recente, lamentando che i doveri prevalgono sui diritti, le maggioranze parlamentari sono instabili, la politica è in una permanente campagna elettorale, il berlusconismo ha coltivato l’antipolitica. Al termine, gli autori osservano che occorrono interventi profondi, anche di carattere costituzionale. Il Parlamento deve essere capace non solo di rappresentare ma anche di decidere, e occorre che vi sia un’area di decisioni politiche insindacabile dai giudici. Il Csm non deve essere un organo di autogoverno, non deve fare le leggi e amministrare. Le riforme in corso del governo Draghi meritano un giudizio positivo ma occorre invitare la magistratura a modificare i propri comportamenti. Un libro, in conclusione, acuto e coraggioso, che non si limita a segnalare storture e aberrazioni, ma propone anche rimedi e correzioni. L’ingiustizia oltre la gratuità. Perché la disuguaglianza ci fa male di Vittorio Pelligra Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2022 Le società con maggiori disparità nella distribuzione dei redditi tendono ad avere un’aspettativa di vita inferiore e più elevati tassi di mortalità infantile. “È uno straordinario paradosso il fatto che, all’apice dei successi materiali e tecnici della nostra specie, ci troviamo ansiosi, inclini alla depressione, preoccupati per come gli altri ci vedono, insicuri delle nostre amicizie, spinti a consumare troppo e privati dell’indispensabile vita comunitaria. In mancanza del necessario contatto sociale e della soddisfazione emotiva che ne deriva e di cui tutti abbiamo bisogno, cerchiamo conforto nell’eccesso di cibo, negli acquisti e nelle spese ossessive, o diventiamo preda di alcol, sostanze psicoattive e altre droghe”. Le disuguaglianze fanno male Inizia così “La misura dell’anima” (Feltrinelli, 2009) il libro che gli epidemiologi inglesi Richard Wilkinson e Kate Pickett hanno dedicato all’esplorazione degli effetti sociali e sanitari della disuguaglianza. Dalla loro accurata indagine emerge in modo chiaro che le società caratterizzate da maggiori disparità nella distribuzione dei redditi tendono ad avere un’aspettativa di vita inferiore e più elevati tassi di mortalità infantile, maggiore incidenza delle malattie mentali, di abuso di droghe e di obesità. Ma gli effetti della diseguaglianza si fanno sentire oltre che sul piano sanitario anche su quello sociale. Le società meno eque, infatti, sono anche più violente, c’è meno fiducia interpersonale e i legami comunitari sono più deboli. Queste società sono, inoltre, caratterizzate da livelli inferiori di benessere infantile, di successo scolastico e di mobilità sociale. Wilkinson e Pickett spendono molta parte del loro lavoro per dimostrare, assieme a molti altri ricercatori, che non si tratta di pure e semplici correlazioni, ma che il rapporto che lega la disuguaglianza a tutti questi problemi sanitari e sociali è un vero e proprio rapporto di causa-effetto. Uno dei dati più sorprendenti e contro-intuitivo che emerge dall’indagine dei due epidemiologi inglesi è il fatto che gli effetti nefasti della disuguaglianza riguardano la stragrande maggioranza della popolazione, non solo la minoranza più povera che si situa nella coda della distribuzione del reddito. Questi, naturalmente, subiscono le conseguenze più pesanti, ma anche tutti gli altri ne patiscono gli effetti negativi. “Se una persona istruita con un buon lavoro e un discreto stipendio - ci dicono Wilkinson e Pickett - fosse vissuta, con il medesimo lavoro e stipendio, in una società più equa, sarebbe vissuta probabilmente un po’ più a lungo e con meno rischi di essere vittima di violenze; i suoi figli sarebbero andati un po’ meglio a scuola e ci sarebbero state meno possibilità che diventassero genitori ancora minorenni o individui con seri problemi di droga”. Dato l’impatto su una larga fetta della popolazione, si comprende l’ampiezza degli effetti negativi: le malattie mentali e la mortalità infantile, per esempio, mostrano un’incidenza doppia o perfino tripla nei paesi più disuguali rispetto a quelle osservate nelle società più egualitarie. Le nascite da madri adolescenti, la percentuale della popolazione carceraria e il numero di omicidi raggiungono valori anche dieci volte maggiori. Gli effetti psicologici e sociali “La misura dell’Anima” uscì in Inghilterra nel 2008 proprio nell’anno dello “schianto” per usare l’espressione che lo storico Adam Tooze usa per definire la prima grande grande crisi finanziaria dell’era globale. Una crisi che ha colpito violentemente ogni parte del mondo, dalle borse del Regno Unito e dell’Europa fino alle fabbriche dell’Asia, del Medio Oriente e dell’America latina” (“Lo schianto”, Mondadori, 2018). Una crisi che certamente non ha ridotto il livello di disuguaglianza nella distribuzione dei redditi tra le nazioni e all’interno delle stesse. Dieci anni dopo la pubblicazione del primo libro Wilkinson e Pickett pubblicano “L’equilibrio dell’anima. Perché l’uguaglianza ci farebbe vivere meglio” (Feltrinelli, 2018). Le scorie tossiche della diseguaglianza non sono state smaltite, anzi, sono aumentate e i loro effetti si sono gravemente acuiti. Ora l’indagine dei due epidemiologi si concentra in particolare sugli effetti psicologici e sociali. Il quadro che ne emerge è, ancora una volta, sconcertante. Vengono considerate, per esempio, le reazioni psicologiche alla crescente ansia da valutazione sociale causata dalla crescente verticalizzazione delle classi sociali. “Se la gente deve lottare con la scarsa fiducia nei propri mezzi e la bassa autostima - concludono - aumentano la depressione e le nevrosi”, accompagnate da tassi più elevati di schizofrenia e di sintomi psicotici. Questo determina comportamenti che oramai sono sotto gli occhi di tutti, soprattutto di chi frequenta i social: una tendenza generalizzata a reagire all’ansia da valutazione attraverso un’esagerazione dei propri meriti e successi; una tendenza a sopravvalutarsi, a considerarsi migliori, più furbi, esperti, informati e scaltri degli altri. Una forma di narcisismo al limite del patologico che deriva, in realtà, da un accresciuto senso di insicurezza. Quasi un’epidemia dell’effetto Dunning-Kruger. Correlato a questa ansia da valutazione e alla conseguente insicurezza è l’aumento del cosiddetto “consumo vistoso”. L’utilizzo, cioè, dei beni osservabili in funzione ostentativa. Per mostrare attraverso la “roba”, direbbe Verga, ciò che vorremmo essere agli occhi degli altri. Per mostrare il nostro valore che sentiamo non venire riconosciuto. Per questo nelle società più diseguali la gente lavora di più, si indebita di più e ha maggiori probabilità di andare in bancarotta. Gli economisti sperimentali da tempo si interessano al fenomeno della disuguaglianza, delle risposte comportamentali, delle componenti psicologiche e dei correlati neuronali legati all’esperienza dell’ingiustizia e dell’iniquità. Un paradigma sperimentale ha avuto a riguardo un ruolo centrale, si tratta del cosiddetto ultimatum game. Questo semplice gioco è stato inventato e testato per la prima volta nel 1982 dall’economista tedesco Werner Güth assieme ai colleghi Rolf Schmittberger e Bernd Schwarze (“An Experimental Analysis of Ultimatum Bargaining”. Journal of Economic Behavior and Organization, 3, pp. 367-388). L’ultimatum game è equivalente ad un dictator game, che abbiamo già incontrato nelle settimane scorse, con la differenza che in questo caso il secondo giocatore assume un ruolo attivo. Il proposer ha una certa dotazione monetaria, per esempio 10 euro, che può dividere in qualunque modo tra lui e il receiver, un secondo giocatore. L’offerta può andare da zero fino a dieci. Fin qui come nel dictator game. Ora, però, il receiver può decidere se accettare o rifiutare l’offerta ricevuta. Se questa viene accettata, allora la divisione proposta dal proposer viene implementata, altrimenti, se l’offerta viene rifiutata, entrambi i giocatori ottengono zero. La scelta che massimizza il guadagno del proposer sarà quella che prevederà la minima offerta accettabile dal receiver. Se questi rifiuta ottiene zero, quindi, ogni offerta che preveda una somma positiva, per quanto piccola verrà accettata. Il proposer dovrebbe quindi offrire il minimo possibile, cioè un euro. Questa è la previsione teorica che deriva dalle classiche assunzioni di razionalità e di autointeresse. Il comportamento reale osservato nell’ultimatum game viola sistematicamente tale previsione. Per cercare di capire il perché, qualche anno dopo la pubblicazione dello studio di Güth, un altro gruppo di economisti decise di confrontare il comportamento dei soggetti nell’ultimatum game e nel dictator game (Forsythe, R., Horowitz, J., Savin, N., Sefton, M., “Fairness in simple bargaining experiments”. Games and Economic Behavior 6 (1994), pp. 347-369). Se il comportamento dei giocatori è legato esclusivamente a motivazioni di natura altruistica, nei due giochi dovremmo osservare scelte simili. Il proposer dovrebbe offrire in media quanto il dictator. Ma i dati mostrano, invece, che le offerte del proposer nell’Ultimatum game, sono molto più generose di quelle del dictator nel dictator game. Oltre l’altruismo c’è di più. Cosa fa aumentare la generosità dei proposer? I dati di Güth e degli esperimenti successivi mettono in dubbio la validità di quello che in quegli anni rappresentava un presupposto incontestato dell’analisi del comportamento economico; il presupposto, cioè, che gli individui scelgono esclusivamente sulla base del loro interesse materiale. Un’ipotesi che, almeno nella letteratura economica, nessuno si era mai preso la briga di verificare empiricamente. I proposer offrono più dei dictator perché hanno paura che i receiver rifiutino offerte troppo poco generose. E la teoria prevede che accetteranno qualunque offerta positiva. Ma la realtà, evidentemente, non conosce questa teoria. Tutte le offerte inferiori al 30-40% della dotazione iniziale vengono, infatti, sistematicamente rifiutate. I proposer agiscono in modo molto razionale quando offrono più del minimo. Ciò che è più difficile da spiegare è il perché i receiver rifutino. Perché, cioè, preferiscono niente a un guadagno che ritengono troppo basso, ingiusto. La questione ha a che fare con il ruolo della diseguaglianza. Con l’effetto che questa esercita sul nostro benessere, con la nostra reazione psicologica e con ciò che avviene nel nostro cervello quando ci troviamo a sperimentarla. L’ultimatum game ha fatto scaturire in questi ultimi quarant’anni un’enorme quantità di ricerche che ci hanno aiutato a comprendere meglio le dinamiche sociali legate al tema della diseguaglianza. L’unione degli studi epidemiologici come quelli di Wilkinson e Pickett e di quelli comportamentali ispirati da Werner Güth e dai suoi colleghi, potrebbe davvero aiutarci da un lato a capire meglio i costi sociali di organizzazioni e società diseguali e dall’altro a progettare regole e politiche di contrasto all’aggravarsi delle disuguaglianze che, in varie dimensioni, oggi sperimentiamo. La libertà è sempre lotta per la libertà di Giancristiano Desiderio Corriere della Sera, 3 aprile 2022 L’Europa è uscita dal sonno della ragione che si era auto-imposta e, ancora una volta, ha scoperto che la libertà non è né un frutto della natura, né un dono che cade dal cielo. A volte un aneddoto è più illuminante di mille discorsi. Il compianto Giulio Giorello, così caro ai lettori di queste colonne, non aveva in gran simpatia la “religione della libertà” di Croce: la riteneva troppo stoica. Una volta, però, dopo aver letto quella pagina della Storia d’Europa in cui il filosofo dice che la libertà è sempre lotta per la libertà, Giorello dovette ammettere a sé e ai lettori che Croce aveva ragione perché “lotta per la libertà è già esser liberi”. L’Europa alla fine dell’inverno della pandemia e all’inizio della primavera di bombe russe e resistenza ucraina è uscita dal sonno della ragione che si era auto-imposta e, ancora una volta, ha scoperto che la libertà non è né un frutto della natura, come le more e le bacche, né un dono che cade dal cielo, come la manna biblica, ma una continua conquista del lavoro umano che non può mai permettersi di disarmare sé stesso nello spirito e nella forza. Così se Simone Weil amava dire che al mondo non c’è altra forza che la forza, la cultura occidentale - da Washington a Londra, da Parigi a Berlino, da Milano a Napoli - può dire che al mondo tutto è lotta e la stessa libertà è lottante: come si conquista così si può perdere. Altro non si può fare, dunque, che difenderla vita natural durante. La libertà, infatti, non è uno dei nostri valori ma la condizione senza la quale i valori occidentali non ci sarebbero: non c’è pace senza libertà, non c’è giustizia senza libertà, non c’è uguaglianza senza libertà, non c’è sicurezza senza libertà. La libertà è la civiltà dell’Occidente. Non dobbiamo aver paura di essere all’altezza di questa storia. Persino la verità se la passa male senza libertà. Perché anche se il Vangelo afferma che la verità vi farà liberi, è ancor più vero che la libertà ci fa veri. La libertà è la dignità dell’umanità che per vivere civilmente deve lavorare sé stessa. La libertà liberatrice, cara a Adolfo Omodeo, è nel fondo del cuore della resistenza dell’Ucraina. Ius Scholae, i paletti della Lega per diventare italiani di Giovanna Casadio La Repubblica, 3 aprile 2022 Conoscere sagre, santi e tradizioni. Ma avere anche voti altissimi. Valanga di emendamenti per smantellare il tentativo di dare la cittadinanza agli 850 mila figli di immigrati nati o cresciuti in Italia. Le prove da superare secondo il partito di Salvini: i giovani devono essere preparati sugli usi e costumi della cultura locale e prendere almeno 90 su 100 alla maturità. Per essere cittadini italiani a tutti gli effetti, occorre conoscere le sagre, almeno le principali. Basta forse essere andati almeno una volta alla sagra del pesce di Camogli, a quella del carciofo di Ladispoli o della piadina di Bellaria. Bisogna inoltre padroneggiare, in un test attitudinale per la cittadinanza, gli usi e costumi degli italiani dagli antichi romani a oggi. Cesare, Nerone, i Gracchi ma anche Matteo Salvini e Giorgia Meloni, passando certo per Garibaldi. E poi gli 850 mila ragazzi figli di immigrati, ma nati o cresciuti in Italia - a cui lo “ius scholae” consentirebbe di diventare finalmente cittadini italiani - devono essere ferrati sulle festività delle diverse regioni. Si immagina da Santa Rosalia a San Gennaro e Sant’Ambrogio. Ovviamente devono avere una conoscenza delle principali feste del calendario, rispondere a domande sul presepe, essere in grado di fare un riassunto di un brano di musica italiano, padroneggiare gli usi e costumi eno-gastronomici degli italiani buongustai, e in ultimo ma non meno importante, non perdersi nel labirinto delle tradizioni popolari dalla Valle d’Aosta alla Sicilia. Sono le prove da superare secondo la Lega per ottenere lo “ius scholae”, che Matteo Salvini, così come Giorgia Meloni, non vogliono affatto, tanto da avere presentato 651 emendamenti (484 della Lega e 167 di Fratelli d’Italia) sotto i cui colpi smantellare l’ennesimo tentativo, atteso da decenni, di dare la cittadinanza ai ragazzi figli di immigrati, italiani di fatto ma non di diritto. Tanto per rendere il percorso della legge ancora più accidentato, tra le richieste leghiste c’è anche quella del merito: solo se si è conseguito il diploma con il massimo dei voti, oppure con una media del nove o ancora con 90/100, è possibile presentare domanda per la cittadinanza italiana. Acrobazie ostruzionistiche. Neppure Salvini, che alla maturità si è diplomato con un dignitoso 48/60, rientrerebbe nella platea, per paradosso, se non fosse che è italiano per “ius sanguinis”. La legge sullo “ius scholae”, erede minimalista dello “ius soli”, è stata scritta dal presidente grillino della commissione Affari costituzionali della Camera, Giuseppe Brescia, tentando di togliere dalle secche dei veti contrapposti una norma che, semplicemente, ampia diritti e ammoderna il Paese. Il Pd con il segretario Enrico Letta ne ha fatto una priorità. La proposta prevede che i bambini figli di immigrati nati o giunti in Italia entro i 12 anni, dopo avere compiuto 5 anni di scuola, possano ottenere la cittadinanza. Domani in commissione gli emendamenti saranno passati al setaccio, cioè ne sarà valutata l’ammissibilità. Ed è appunto difficile la vita per gli ostruzionisti, soprattutto se gli articoli della legge da picconare sono solo due. Ecco quindi attingere agli strumenti più fantasiosi. Così la Lega immagina che il ragazzo in procinto di diventare cittadino italiano debba essere edotto in tradizioni del Trentino Alto Adige (emendamento 1.192, prima firmataria la deputata leghista trentina Vanessa Cattoi). Superare una prova scritta in lingua italiana sulle tradizioni della Basilicata (1.193), sulle tradizioni marchigiane (1.194 sottoscritto dal maceratese Tullio Patassini), sulle tradizioni valdostane (1.195 qui firma il lombardo Cristian Invernizzi), sulle tradizioni piemontesi (1.196 di Gualtiero Caffaratto da Pinerolo), su quelle abruzzesi (1.197 primo firmatario il leghista abruzzese Giuseppe Bellachioma), sulle tradizioni calabresi (1.198 di Domenico Furgiuele da Lamezia Terme), su quelle romagnole (1.199 di Iacopo Morrone da Forlì) e così via per tutte le regioni italiane, presentati dal parlamentare territoriale. La battaglia per i diritti non è nelle corde della destra. La Lega aveva fatto ostruzionismo anche contro l’istituzione della Commissione nazionale per i Diritti umani. Organismo previsto dalla risoluzione dell’Onu del 1993, su cui l’Italia ha ribadito giovedì scorso in commissione Affari costituzionali il suo impegno con il sottosegretario Benedetto Della Vedova. Anche su questo, nei mesi scorsi i leghisti hanno depositato 784 emendamenti. La bomba atomica è tornata al centro delle nostre paure di Michele Serra L’Espresso, 3 aprile 2022 Rimosso da decenni, l’arsenale nucleare in grado di distruggere l’umanità viene riportato da Putin all’attenzione mondiale. Sono 15mila gli ordigni nel mondo: per questo torna l’urgenza del disarmo. In un recente incontro pubblico a Sesto San Giovanni (si presentava il libro-testamento di Gino Strada, “Una persona alla volta”), uno degli amici storici di Gino, Ennio Rigamonti, ha chiesto ai presenti chi di loro sapesse che cos’è l’Orologio dell’apocalisse. Nessuno al di sotto dei sessant’anni sembrava averne idea, se non azzardando una risposta in chiave climatica. “Mio padre - ha aggiunto Rigamonti - era un operaio con la terza elementare, ma sapeva benissimo che cosa fosse. Tutti, in quegli anni, sapevamo che cos’era”. “Quegli anni” sono i Cinquanta e i Sessanta del secolo scorso, il lungo dopoguerra, la ricostruzione e il suo energico sbocco nel boom economico, il bipolarismo Usa-Urss come baricentro della storia del mondo, la Guerra Fredda, la crisi di Cuba. Nel 1962 (crisi di Cuba) avevo solo otto anni, ma ho ancora forte memoria dell’angoscia degli adulti, davanti all’unico telegiornale dell’epoca, attanagliati dalla paura di una nuova guerra che ricominciasse esattamente da dove aveva finito - soltanto diciassette anni prima - quella precedente: il fungo atomico che si leva sopra città vetrificate dal calore. E gli abitanti vaporizzati, l’aria la terra e l’acqua avvelenate, e tutta la vita organica cancellata dalla vampa infernale. L’Orologio dell’apocalisse (Doomsday Clock) era un conto alla rovescia simbolico inventato nel 1947 - dunque un attimo dopo Hiroshima e Nagasaki - su iniziativa di alcuni scienziati americani, preoccupati dall’escalation nucleare. Lo scopo era misurare la distanza ipotetica dalla fine del mondo. La causa unica e indiscussa dell’apocalisse sarebbe stata la guerra atomica. Solo a partire dal 2007 esiste una sorta di aggiornamento, di “re-editing” di quel minaccioso orologio, con l’inserimento dei mutamenti climatici come ulteriore attore della potenziale catastrofe autodistruttiva. E solamente adesso, nel 2022, con l’invasione russa dell’Ucraina e l’esplicito richiamo di Putin al suo micidiale arsenale nucleare, la bomba atomica, come sessant’anni fa, è tornata a essere il motore visibile di quelle lancette, di quel presagio di estinzione. Posso dare supporto alle parole di Ennio Rigamonti. Nella mia infanzia, e ancora di più nella maturità dei miei genitori, la minaccia atomica era al centro del dibattito politico, della vita culturale e artistica, nonché di quello che si sarebbe presto chiamato immaginario collettivo. Per preparare un mio breve monologo televisivo ho navigato per un pomeriggio alla ricerca di “notizie atomiche”, e mi ha impressionato notare che si tratta di un argomento datato. Decisamente datato, e molto concentrato nel tempo. Quasi tutti i materiali rilevanti, politici, culturali, artistici, sono degli anni Cinquanta, Sessanta e (meno) Settanta. Il “Juke-box all’idrogeno” di Allen Ginsberg, la “Bomba” di Gregory Corso e tutta la lacerante poetica della beat-generation. I carteggi e gli appelli di Albert Einstein e Bertrand Russel, con folta partecipazione di premi Nobel di ogni dove. La solenne sortita di Togliatti - era il 1954 - sulla minaccia atomica come salto di qualità mai visto prima (“l’umanità dinanzi al problema della propria salvezza”) con le conseguenti accuse di “pacifismo strumentale” e le roventi polemiche; ma anche, proprio attorno a quel tema, l’apertura del dialogo tra comunisti e cattolici (La Pira tra i primi). La crisi di coscienza di Oppenheimer, uno dei padri della bomba all’idrogeno, e l’accanito dibattito sulla non-neutralità della scienza, l’ombra etica che oscura il trionfalismo tecnocratico, vedi anche “La scomparsa di Majorana” di Leonardo Sciascia (1975), che rilesse la misteriosa fine del giovane fisico di via Panisperna, avvenuta subito prima della guerra, anche alla luce del rovello morale attorno alla creazione dell’atomica. La nascita dei primi movimenti pacifisti e per il disarmo e la loro evoluzione fino al “make love not war” dei beatnik e degli hippies. “Eve of destruction” di Barry McGuire è del ‘65, “Noi non ci saremo” dei Nomadi del ‘66, “Masters of War” di Dylan del ‘63. Ho fatto un elenco frettoloso e incompleto: ma era per dare l’idea di quanto centrale sia stato, dopo la Seconda guerra e per un paio di decenni, il fungo atomico che incombeva all’orizzonte. Poi, è come se l’argomento atomico svanisse, o diventasse carsico. Avesse perduto la sua visibilità, la sua evidenza, la sua drammaticità. Salvo rispuntare, inevitabilmente, dopo Chernobyl (1986), però in versione civile e ambientale, non più bellica: e non è davvero la stessa cosa, perché mentre le centrali nucleari, almeno sul piano teorico, sono progetti a fin di bene che deragliano per errori di calcolo e imprevidenza, gli ordigni nucleari sono armi di distruzione di massa progettate per incenerire. Al massimo se ne può invocare, come prova a discarico, lo scopo di deterrenza. Non certo il fine progettuale: che è distruggere quanta più porzione di Terra sia possibile, completa di abitanti. Ovviamente molto è accaduto, anche sul fronte politico, dagli Ottanta ai giorni nostri, e soprattutto dopo la caduta del Muro. Impossibile riassumere il lungo e complicato iter “tecnico” dei vari accordi bilaterali Start (Strategic Arms Reduction Treaty) tra americani e russi, le solenni promesse e le effettive riduzioni delle testate, gli amichevoli incontri (il più recente tra Obama e Medvedev a Praga nel 2010) e le radicate diffidenze. Quello che conta è che, al netto di molte chiacchiere e qualche firma svolazzante in calce a questo o quel trattato, oggi si calcola che nel mondo ci siano quindicimila ordigni nucleari di vario calibro, in larghissima parte in mani americane e russe, poi il gruzzolo (circa 300 a testa) di testate cinesi e francesi, infine Pakistan, Israele, India e Corea del Nord a completare, con i loro spiccioli comunque mortali, il cosiddetto club nucleare. Considerando che basterebbero una cinquantina di atomiche a cancellare l’umanità (non la Terra: l’umanità, differenza sulla quale abbiamo finalmente imparato a meditare. Fine del mondo e fine dell’umanità non sono concetti equivalenti), diventa obbligatorio far notare che le altre 14mila 950 testate nucleari sono, come dire, un paradossale eccesso, non essendoci centinaia di generi umani da estinguere, ma uno solamente. Se ne deducono soprattutto due cose. La prima è che l’attuale arsenale atomico non ha, come dire, un autentico, riconoscibile valore d’uso. È come se producessimo diecimila ore di televisione per un palinsesto di 24 ore; o comperassimo mille lavatrici per una sola famiglia. Dunque da un lato la force de frappe atomica (la definizione è di De Gaulle, altro tuffo negli anni Cinquanta) ha funzione simbolica, non strategica. Non è una quantità, ma una qualità terrifica, diciamo un travestimento, come quando un uccellino alza la cresta e arrota la coda per apparire più grosso e temibile. Da un altro lato, come si direbbe al bar: qualcuno ci deve pure avere guadagnato qualcosa, da questa mostruosa superfetazione di ordigni; e dunque domandarsi come funziona l’industria bellica, quali tasche riempie, quali rendite di posizione rafforza e quali nuove speculazioni fa nascere, non solo è legittimo, ma aiuterebbe molto a capire come è possibile che il fabbisogno di megatoni dell’umanità sia stato “gonfiato” al punto da accumulare una quantità di atomiche trecento volte eccedente il loro scopo “tecnico”, che è incenerire il genere umano. La seconda cosa, meno scontata, è che siamo arrivati (finalmente, viene da dire) alla fine di un impressionante processo di rimozione globale. Siamo sempre rimasti seduti sopra una montagna di bombe atomiche, ben più alta e distruttiva di quella che generò l’esplicita paura dell’apocalisse nucleare al tempo dei nostri padri e nonni; ma abbiamo fatto finta di niente per quarant’anni, fino a che un despota brutale ha avuto la schiettezza di ricordarci che siamo sotto tiro. Certo, comitati per il disarmo hanno continuato a esistere, operatori di pace a mobilitarsi, ma la Bomba non ha più avuto, per decenni, alcuna centralità nel dibattito pubblico. Sicuramente l’emergenza climatica e ambientale hanno avuto il loro ruolo, in questa distrazione. Ma la Bomba fu, ed è, la madre di tutte le emergenze ambientali e climatiche, è colei che per prima ha messo in luce l’azione dell’uomo come motore della distruzione. Se c’è un buon motivo per tornare in piazza, oggi, è per reclamare il disarmo nucleare come precondizione per tornare a parlare del futuro. Niente è no-future come la Bomba. E nessun argomento come il disarmo nucleare potrebbe ristabilire un apprezzabile legame culturale, politico, emotivo, tra noi vecchi baby boomers, che la paura della Bomba ce l’abbiamo nel sangue, ci siamo nati dentro, e i ragazzi di adesso, che sono costretti a chiedere ai genitori che cos’è la bomba atomica, perché se ne parla così tanto, e perché se ne è parlato così poco per tanti, troppi anni. Bentornata, Bomba: almeno sappiamo di quale pasta è fatto, homo sapiens. Spese militari, ecco i veri numeri: 30,4 miliardi di euro in un anno (ma non tutti per armi e soldati) di Carlo Tecce L’Espresso, 3 aprile 2022 Oggi i costi sono superiori rispetto ai dati di cui discutono partiti e programmi tv. Perché si ignorano gli investimenti e si generalizza (nel computo ci sono anche i Forestali). Milione per milione, quanto spende l’Italia e quanto denaro ha impegnato già nei prossimi anni. “Non bastano 25 miliardi di euro in spese militari”. “Va raggiunto il 2 per cento del pil”. “Ce lo chiede l’alleanza atlantica Nato”. “Sorpresa: ci sono altri 60 miliardi per il futuro”. “Il nostro obiettivo sono 35 miliardi”. Al banco italiano delle armi c’è molta confusione. La guerra russa in Ucraina ha rinvigorito le baionette. I generali in divisa e in licenza sfogliano i cataloghi di vendita e quelli che generali non sono, né in divisa né in licenza, scrutano le cartine geografiche. Così la propaganda sui numeri degli uffici stampa non incontra resistenza. Per capire dove andare bisogna capire dove siamo. La spesa militare autorizzata per il 2022, si legge nel documento di metà febbraio del centro studi della Camera, è di 30,421 miliardi di euro. Questo dato riassume il cosiddetto “bilancio integrato” che contempla i fondi in capo al ministero della Difesa (25,956 miliardi), al ministero dello Sviluppo economico (3,067) e al ministero del Tesoro (1,397). Già siamo ben oltre i 24 miliardi protagonisti innocenti del dibattito politico. I 30,421 miliardi di euro rappresentano l’1,7 per cento del prodotto interno lordo registrato nel 2021 e il 3,75 per cento del bilancio dello Stato. Su quest’ultimo parametro, alcuni confronti fra i ministeri: la giustizia impegna l’1,2 per cento, l’interno il 3,8; l’istruzione il 6,2. Allora perché ci si agita. L’Italia è una florida potenza da guerra. Falso. Mica ogni euro dei 30,421 miliardi finisce in cannoni, missili, blindati. I miliardi vanno scomposti. Il ministero della Difesa ne dispone 25,956 distribuiti su tre missioni: la principale è per la “sicurezza”, 24,201 miliardi; “tutela di ambiente e territorio” (Corpo forestale), 475,6 milioni; “servizi istituzionali delle amministrazioni pubbliche”, 1,279 miliardi. Un terzo circa dei 24,201 miliardi della missione “sicurezza”, cioè 6,8 miliardi, è destinato ai Carabinieri, 5,5 miliardi all’Esercito, 2,8 all’Aeronautica, 2,2 alla Marina. Il consistente “resto” viene utilizzato per pianificazioni e acquisti (5,95 miliardi) e per la gestione interforze (774 milioni). Licenziata la parsimonia dopo la cura breve e dura dei tecnici di Mario Monti, il ministero della Difesa ha ricevuto maggiori risorse dai governi di centrosinistra di Matteo Renzi e di Paolo Gentiloni. Al dicastero c’era Roberta Pinotti. Nel 2016 le spese finali erano di 19,981 miliardi, quest’anno sfiorano i 26 miliardi nonostante gli effetti ancora tangibili della pandemia sulla società e sulle finanze pubbliche. La crescita non s’è mai fermata. Però con l’avvento di Lorenzo Guerini (Pd) al ministero nel settembre del 2019 al posto di Elisabetta Trenta (5S) è cambiato il modo di utilizzare il denaro. Le spese del ministero della Difesa si dividono in “correnti”, che riguardano il personale (stipendi, esercitazioni, logistica), e in “conto capitale”, che assorbono gli investimenti nei programmi di armamento. La ministra Trenta (governo Conte I), anche in ossequio alle indicazioni di partito, ridusse a 2,030 miliardi le spese in conto capitale e sostenne con un miliardo in più il personale. Invece il ministro Guerini (governo Conte II) ha rovesciato gli equilibri della Difesa e si è concentrato sugli investimenti che quest’anno arrivano a 5,787 miliardi. Li ha quasi triplicati in un biennio. Gli amici americani e la loro industria bellica hanno apprezzato. Guerini ha sfruttato i quattro fondi per la tecnologia militare, avviati dal governo di Matteo Renzi e sempre irrorati di denaro, che garantiscono un sostegno complessivo di 31 miliardi di euro fino al 2033. Il ministero dello Sviluppo partecipa con 3,067 miliardi, lo scorso anno erano 3,334, ai progetti a lungo termine della Difesa e al supporto delle imprese nazionali. I capitoli più rilevanti sono per il settore marittimo (656,6 milioni), le navi classe Fremm (522,6), l’aeronautica (1,162 miliardi). Altre decine di milioni di euro sono schierate per la sicurezza cibernetica. Il Tesoro ha un ruolo di semplice liquidatore delle missioni militari internazionali. Con il 2022, secondo le analisi della Difesa, si sono toccati i picchi di spesa. Tra l’altro rimpinguata con altri 162,2 milioni di euro elargiti dal governo di Mario Draghi. Un tripudio di miliardi per irrobustire gli strumenti bellici e ammodernare navi e aerei e finanche il parco auto a disposizione mentre si è continuato a risparmiare sul capitale umano. Sui militari. I soldati si pagano mese per mese, le macchine si proiettano sui decenni. Per il programma Tempest, i caccia di sesta generazione in consegna nel 2035 da fabbricare con inglesi e svedesi, la Difesa ha stanziato 2 miliardi di euro per la ricerca, presto saranno 6 e poi decine. Questa strategia dà benefici immediati a chi governa e impone vincoli a chi verrà. Nessun governo potrà ritirarsi dal programma Tempest dopo 6 miliardi di euro versati. Ricorda vicende passate. Ricorda i caccia F35. Il documento programmatico pluriennale, 258 pagine approvate in autunno in Parlamento che assorbono intenzioni e dissertazioni del ministero della Difesa e dei vertici delle forze armate, fissava al 2023 l’inizio di una nuova, ennesima stagione di austerità. La guerra in Ucraina ha smentito le previsioni. Anzi non erano proprio concepite nel testo della Difesa. La Russia di Vladimir Putin era descritta come assorta “nelle sue direttrici strategiche in Iran, Siria e golfo Persico, Libia, Egitto e Nord Africa, Turchia e Balcani” e nel capoverso dedicato all’arco orientale si citava “la recrudescenza della crisi ucraina”. Non hanno torto i generali che lamentano una impreparazione dell’Italia agli “attuali scenari geopolitici” (formulazione perfetta e riempitiva per qualsiasi trasmissione televisiva). Oggi ci si sorprende che 6.000 militari (erano 7.050 lo scorso giugno) siano ancora davanti alle ambasciate e ai monumenti per l’operazione “strade sicure” per un costo di 160 milioni di euro annui per il ministero e incalcolabile per la loro evoluzione professionale. Per più di un decennio l’Italia ha trascurato i suoi militari, oggi definiti “pochi e non addestrati”, “non pronti al combattimento”. Ci si lamenta dell’esercito non pratico ai “teatri di guerra” dimenticandosi che la Costituzione la ripudia, la guerra e il teatro annesso. Comunque, è contrordine. Un doppio ordine. Più militari, più carri, navi, aerei, droni. È una buona notizia per le italiane Fincantieri e Leonardo, ma l’urgenza di ampliare e aggiornare subito le dotazioni è una buonissima notizia soprattutto per gli americani che hanno la migliore produzione. La feroce invasione di Mosca, le bombe su città dai tratti europei, l’indomabile dignità degli ucraini ha disarmato gran parte del pudore degli italiani: si accettano altri copiosi investimenti in materiale e personale bellico. Se ne avverte la necessità. Per cosa non è chiaro. I numeri sono distribuiti e ripetuti in pieno ozio intellettuale. Armati fino ai denti. Non importa se cariati. “Quello che serve davvero è un aumento delle spese per diffondere la democrazia” di Nicola Coniglio Gazzetta del Mezzogiorno, 3 aprile 2022 Spendere in missili oppure in ospedali più efficienti? Il dibattito sull’aumento delle spese militari divide il Parlamento e l’opinione pubblica. Tutti (tranne chi le armi le vende, e a caro prezzo) preferirebbero destinare le risorse scarse dei nostri bilanci pubblici a spese più produttive e meno distruttive. Poiché le risorse pubbliche non piovono come manna dal cielo, un euro speso per la difesa è un euro in meno per sanità, istruzione, welfare, infrastrutture, ecc. Per fare un esempio, i “Javelin” - missili anti-carro simboli della resistenza Ucraina contro l’invasione Russa - costano oltre 220 mila euro ciascuno. Quanto basta per assumere 7-8 insegnanti per un anno in una scuola italiana. Ogni giorno nella guerra in corso i soldati Ucraini ne usano circa mille. Ogni giorno che la guerra si protrae, milioni di euro che potrebbero essere destinati a usi migliori non solo vanno in fumo ma distruggono vite umane e miliardi di euro in infrastrutture (che bisognerà poi ricostruire). Il punto fondamentale del dibattito in Italia e nei paesi occidentali è questo: è davvero necessario alla luce del conflitto in corso aumentare le spese militari? I Trattati impegnano i paesi NATO (di cui facciamo parte) ad una spesa militare non inferiore al 2% del PIL. Ma, ricordiamoci, questo impegno è stato disatteso (e non solo dall’Italia) per lungo tempo. La spesa militare media nell’Unione Europea è in costante discesa dal dopoguerra ad oggi. Negli anni sessanta era pari a circa il 4% del PIL; oggi siamo all’1,5% del PIL. I numeri relativi espressi in proporzione al PIL (al reddito di un paese) sono fuorvianti. È vero che nel mondo la spesa militare è più alta in termini relativi rispetto alla nostra (2,36% del PIL contro l’1,6% dell’Italia) ma in valori assoluti - ovvero in euro o dollari effettivamente spesi in armi o soldati - la spesa dei paesi Occidentali è già enorme. Basta farsi due calcoli. Nel 2020, nel mondo le spese militari sono state pari a 1929 miliardi di dollari (pensate a cosa si potrebbe fare con questa cifra colossale!!). Gli USA hanno speso 778 miliardi di dollari (il 40% del totale) seguiti dalla Cina con 252 miliardi di dollari (il 13% del totale). Segue poi l’UE con 233 miliardi di dollari (12%). La Russia è il quarto paese per spesa militare (61.7 miliardi di dollari); meno di un decimo della spesa USA e poco più di un quinto della spesa congiunta di UE e Regno Unito. A cosa serve la spesa militare? A contenere e contrastare le minacce di conflitti e soprusi da parte di paesi con regimi autoritari. Anche se preferiremmo non spendere neanche un euro in armi ed eserciti - ma neanche in carceri e forze di polizia - la difesa (nazionale ed internazionale) è un bene collettivo prezioso. È dunque importante che le democrazie occidentali posseggano un credibile deterrente ed una superiorità militare rispetto ai paesi con regimi totalitari. Ma, attenzione, una cosa è interrogarsi sulla rilevanza della spesa militare mentre altra cosa è spingere per un cospicuo aumento della stessa come si fa in queste ore approfittando della minaccia Russa. Quest’ultima è, a mio parere del tutto non giustificata dagli eventi in corso. La Russia sta dimostrando di avere una pessima capacità militare convenzionale. Le forze armate dell’Ucraina - che ha una spesa militare nel 2020 pari a poco meno di 6 miliardi di dollari - stanno mettendo in seria difficoltà il paese che oggi consideriamo una delle principali minacce da un punto di vista militare. La capacità futura della Russia di sostenere un aumento della sua spesa militare sarà inevitabilmente più bassa in virtù delle conseguenze economiche devastanti che il paese subirà a causa di sanzioni e della ricerca di nuove fonti energetiche in Europa. Rimane la minaccia di armi non convenzionali - in particolare del nucleare - ma rispetto a queste poco cambia in termini di rischi e strategie di contenimento. Anche rispetto alla Cina non sembra evidente la necessità di un’impennata delle risorse da destinare alle spese militari. Oggi la Cina spende l’1,75% del proprio PIL; meno della metà degli USA (3,7%). Oggi le democrazie occidentali già posseggono un’evidente superiorità militare; frutto di una spesa in armamenti che è già enorme. Perché privarci di nuovi ospedali o scuole per contenere ancora di più le minacce esterne? Ma vi è un’altra ragione fondamentale per non aumentare la spesa. La minaccia attuale e futura non viene dalle armi degli altri paesi. Se così fosse saremmo noi stessi (USA ed Europa) le maggiori minacce per il mondo. Se così fosse non dovremmo - noi democrazie occidentali - vendere ad altri quelle armi che poi dobbiamo sforzarci di “contenere” spendendo ancor di più in armamenti. La minaccia di oggi e di domani viene dall’esistenza di regimi autoritari - come quello di Putin e dei tanti paesi guidati da dittature e oligarchie nei vari angoli del mondo - che usano queste armi per soffocare la pace e la democrazia. Quello che oggi servirebbe davvero è un aumento delle spese per diffondere la democrazia in ogni angolo del mondo. Un Piano Marshall per supportare lo sviluppo e i germogli del cambiamento democratico in paesi come la Russia, la Bielorussia o nei tanti paesi schiacciati da regimi totalitari in Africa e in Asia. Oggi i paesi ricchi spendono circa lo 0,3% del PIL per gli aiuti allo sviluppo. Se vogliamo pace e prosperità nel mondo è su questi ‘semi di costruzione’ che potremmo aumentare i nostri sforzi. Espandere il nostro arsenale militare - e poi, in modo del tutto incoerente, spargere questi “semi di distruzione” vendendo queste nuove armi a paesi non democratici - ci porterebbe nella direzione opposta. Barca si ribalta a largo della Libia “Sono morti almeno 90 migranti” di Fabio Postiglione Corriere della Sera, 3 aprile 2022 Una barca con più di cento di migranti a largo della Libia e diretta in Italia si è ribaltata a causa delle cattive condizioni meteo. La ong Sea Watch: “Ci sono almeno 90 morti”. Un’altra tragedia della disperazione, ancora una volta una barca piena di migranti in fuga da guerre e miseria si è ribaltata in mane nel tentativo di raggiungere la costa italiana. E dalle prime informazioni raccolte sarebbero più di 90 le persone sono morte nel naufragio. La tragedia è avvenuta a largo della Libia dove già da qualche giorni si segnalavano partenze e barche in difficoltà a causa delle condizioni meteo marine pessime. “Più di 90 persone hanno perso la vita in acque internazionali dopo aver lasciato la Libia su una barca sovraffollata molti giorni fa. La petroliera commerciale Alegria 1 ha soccorso gli unici quattro sopravvissuti nelle prime ore del mattino”, ha scritto su Twitter, la Ong tedesca Sea Watch in missione nella zona di ricerca e soccorso libica in condizioni meteo proibitive. “Sappiamo dal nostro contatto iniziale con l’Alegria 1 che i sopravvissuti hanno riferito di essere stati in mare per almeno quattro giorni su una nave con quasi 100 persone a bordo”, ha spiegato l’Ong, che ha una nave di assistenza umanitaria (Geo Barents) nel Mediterraneo. Molto slancio, tanti dubbi: i buchi nella rete di accoglienza dei profughi ucraini di Luana de Francisco L’Espresso, 3 aprile 2022 Basta registrarsi in questura per ottenere la protezione temporanea di un anno estesa a tutti. Ma preoccupano i numeri degli arrivi. In Italia sono 60mila e manca un piano per l’ospitalità. Le misure urgenti prevedono solo 3000 posti in più. E poi l’emergenza degli altri rifugiati. Sulla carta, le frontiere dell’Italia e degli altri Paesi d’Europa sono porte aperte agli ucraini in fuga dalla guerra. È nella pratica che il sistema dell’accoglienza difetta. Perché se è vero che a scappare sono in prevalenza donne e bambini, costretti a separarsi da mariti, padri e fratelli chiamati dalla Patria a difendere la libertà del proprio popolo dall’invasione russa, la portata dei flussi non ha tardato a rivelare l’insufficienza della capacità di assorbimento italiana. Come dire, secondo il Consorzio italiano di solidarietà, che l’esperienza non ha insegnato ancora niente, o quasi, a un Paese geograficamente e storicamente più esposto di altri alle ondate migratorie. Con tutte le conseguenze che un simile fenomeno comporta. “La vecchia Europa sembra sempre più chiusa in se stessa e pochi sono gli spiragli di speranza sia che si guardi ai singoli Stati, sia che si considerino le politiche dell’Unione”, scrive Mariacristina Molfetta, referente della sezione protezione internazionale e diritto d’asilo della Fondazione Migrantes e dell’Osservatorio permanente sui rifugiati, nelle conclusioni de “Il diritto d’asilo. Report 2021”, che insieme alla sociologa Chiara Marchetti ha curato per Migrantes. Uno dei contributi della quinta edizione, 350 pagine di analisi e numeri, arriva proprio dal presidente dell’Ics, Gianfranco Schiavone, che si sofferma sulle “pericolose ambiguità che il Patto europeo su migrazione e asilo sta giocando, specie rispetto ai due concetti di solidarietà e di equa distribuzione delle responsabilità tra gli Stati”. Un tema quanto mai attuale, ora che la spinta di migranti dall’Ucraina apre un nuovo fronte di emergenza umanitaria. Tanto più, considerati i numeri con cui la Polonia, in particolare, si sta misurando: oltre 2 milioni di rifugiati, di cui la metà minorenni, assorbiti in meno di un mese, dei 3,5 milioni che hanno complessivamente già lasciato il Paese per entrare in Europa. “Dal punto di vista giuridico, la procedura in vigore è positiva - spiega Schiavone -. I profughi ucraini usufruiscono di una misura di protezione temporanea, che esclude la necessità di presentare una domanda di asilo individuale. Domanda - aggiunge - che risulterebbe inutile, trattandosi di richieste motivate tutte allo stesso modo, e che produrrebbe l’effetto di lasciare i richiedenti per anni in attesa di una risposta per forza di cose positiva”. Fu la direttiva europea n. 55 del 2001 a introdurla: una sorta di protezione collettiva in caso di afflusso massiccio di sfollati da zone di guerra. “Valida in tutti i Paesi europei e della durata minima di un anno - continua - dà diritto a lavorare e a ricevere accoglienza, senza bisogno di tanta burocrazia, ma con la sola registrazione della presenza nelle questure”. La nota dolente, osserva Schiavone, è rappresentata dalla mancata obbligatorietà di una ripartizione delle quote di profughi tra uno Stato e l’altro. Che peraltro, sempre in base alla direttiva, beneficerebbero di fondi erogati dall’Ue. “Avendo libertà di circolazione, gli ucraini possono scegliersi il Paese in cui chiedere lo status giuridico della protezione temporanea - spiega -. Vige il principio dell’autodistribuzione. In Italia, finora, sono arrivate più di 60 mila persone. Ma se il conflitto non dovesse avviarsi verso un rapido rientro, è evidente che bisognerà modificare qualcosa. Ci sono Paesi, come la Polonia e la Romania, che hanno bisogno di alleggerire il peso degli arrivi. D’altra parte, però, il sistema di accoglienza italiano non sarebbe in grado di sopportarne altri e se la Commissione europea ci chiedesse di ospitare ulteriori 50 mila ucraini, non sapremmo dove metterli”. Al momento, il 98 per cento di quelli presenti in Italia è assorbito dalle reti parentali. “Non abbiamo posti liberi a disposizione delle emergenze - continua il presidente dell’Ics - e questo sottodimensionamento è il risultato di una mancata programmazione di cui è responsabile la politica, in particolare quella gialloverde, che ha mortificato e progressivamente ridotto il sistema di accoglienza, generando le lacune di cui oggi paghiamo lo scotto”. Da qui, la difficoltà di una qualsiasi previsione. Come quella contenuta nel decreto legge n.16 del 28 febbraio scorso sulle “ulteriori misure urgenti per la crisi in Ucraina”. “All’articolo 3, il governo ha autorizzato l’attivazione di 3 mila posti nel Sistema di accoglienza e integrazione. Si tratta - osserva Schiavone - di posti di cui non disponiamo e in fase di reperimento, ma comunque inferiori, quantomeno di uno zero, rispetto al numero di persone entrate in Italia nelle prime tre settimane di guerra”. Numeri destinati a fare i conti con un problema di gestione anche quotidiana degli sfollati, visto che a cercare rifugio sono soprattutto donne e bambini, con o senza madri. E che c’è quindi bisogno di figure professionali specifiche, dai mediatori e gli interpreti, agli psicologi. “Finora, la capillarità del sistema scolastico è riuscita ad assorbire le richieste - afferma -, ma se le necessità dovessero aumentare, anche questo fronte entrerebbe in crisi”. Atteso alla fine della settimana scorsa, intanto, il decreto legge sulle “misure urgenti per contrastare gli effetti economici e umanitari della crisi ucraina”, approvato venerdì scorso dal consiglio dei ministri, se da un lato ha esteso il piano per l’accoglienza dei profughi ucraini fino a 91.500 posti, dall’altro non ha ancora fornito le risposte che chiariranno a enti e associazioni il perimetro di applicazione della protezione temporanea. Saranno le ordinanze attuative della Protezione civile, cui è stata affidata la competenza della macchina organizzativa, a regolare il rapporto con Regioni, Comuni e Terzo settore. Sullo sfondo, intanto, al netto dell’attacco russo all’Ucraina che rischia di muovere sullo scacchiere europeo i quasi dieci milioni di sfollati calcolati dall’Unhcr (sei milioni e mezzo non hanno ancora abbandonato il Paese), resta un quadro mondiale tutt’altro che incoraggiante. È il report di Migrantes a tratteggiarlo, evidenziando, tra gli altri, il passo indietro rispetto alla conquista delle frontiere aperte introdotte con l’accordo di Schengen che alcuni Paesi (Germania Francia, Austria, Norvegia, Svezia e Danimarca) hanno compiuto reintroducendo in modo permanente i controlli alle rispettive frontiere interne all’Ue. E bocciando anche le sperimentazioni italiane di corridoi umanitari e per studenti rifugiati “che, se diffuse su ampia scala, permetterebbero un accesso sicuro dei rifugiati all’Europa”. Infine, i numeri. L’Unhcr stima che, a metà 2021, la popolazione in situazione di sradicamento forzato nel mondo abbia superato gli 84 milioni di persone. “Almeno 1,6 milioni in più - si legge - rispetto al già triste “record” di 82,4 milioni calcolati a fine 2020”. Secondo l’agenzia dell’Onu, si tratta di 26,6 milioni di rifugiati, 4,4 milioni di richiedenti asilo, 3,9 milioni di venezuelani dispersi all’estero senza status e tra i 48 milioni e i 50,9 milioni di sfollati interni. Il 2022, con la catastrofe in atto in Ucraina, potrebbe sfiorare il tetto dei 100 milioni. Il grande imbroglio di Salvini sui profughi delle guerre “finte” di Marika Ikonomu Il Domani, 3 aprile 2022 Il leader della Lega dice che accogliere gli ucraini in fuga è un “dovere morale” Ma anche siriani, afghani e sudanesi che respingeva scappavano da guerre vere. Improvvisamente accogliente verso chi fugge dalla guerra in Ucraina, Salvini ha etichettato come “finte” le guerre che negli ultimi anni hanno portato milioni di persone a fuggire, anche verso l’Italia. Profughi veri, profughi finti. I primi scapperebbero da una guerra vera, i secondi da guerre finte: “L’Italia ha il dovere di spalancare le porte a chi scappa dalla guerra vera. Ai profughi veri. Spesso si parla di profughi finti e di guerre finte”. Queste le parole di Matteo Salvini, dopo l’informativa del premier Mario Draghi sulla crisi ucraina in Senato. Il leader della Lega da anni porta avanti una battaglia contro i migranti che arrivano dal Mediterraneo e dalla rotta balcanica, persone che - a suo dire - “sbarcano per la sesta volta con il telefonino ultimo modello” e poi vanno alla “stazione Termini a spacciare”. Per Salvini, non scappano da “niente”, “non sono rifugiati”, “in Italia i profughi veri arrivano in aereo”, “non abbiamo l’esigenza di avere nuovi schiavi” e sarebbe “un chiaro tentativo di sostituzione etnica di popoli”. Ora invece, dall’inizio della guerra in Ucraina, Salvini e la Lega si stanno occupando dei profughi, e “accogliere le migliaia di persone che sono in fuga è un atto d’amore, un dovere morale”. L’ex ministro è anche andato in Polonia per incontrare le diverse realtà solidali e aiutare a portare in Italia gli ucraini. Ma quali sono per Salvini le guerre finte? Da cosa scappa chi arriva in Italia, tenendo conto che la Convenzione di Ginevra del 1951 garantisce lo status di rifugiato a chi teme di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un gruppo sociale o per le opinioni politiche? Le guerre “finte” - I principali punti di ingresso dei migranti in Italia sono la via del Mediterraneo centrale e la rotta balcanica. In base al rapporto del 2020 “Diritto d’asilo” della fondazione Migrantes e ai dati di Frontex, dalla rotta balcanica nel 2019 sono passate 15.152 persone provenienti principalmente dall’Afghanistan (5.338) e dalla Siria (4.643). Il conflitto in Siria è iniziato nel 2011, con la dura repressione delle manifestazioni pacifiche da parte del regime di Bashar al Assad. La guerra si è intensificata e, dal 2015, la Russia è intervenuta con aiuti militari a sostegno delle forze governative. L’Onu ha stimato, in un report del 2021, che le persone uccise nel conflitto sono oltre 350mila, una “sottostima”. Di questi, 26.727 erano donne e 27.126 bambini. 5,5 milioni i profughi che hanno lasciato il paese e oltre 6 milioni gli sfollati interni. Si sospetta poi che il regime siriano abbia usato armi chimiche contro la popolazione civile almeno in tre attacchi. La maggior parte dei migranti entrati dalla rotta balcanica nel 2019 erano afghani, e con la crisi dell’agosto 2021, il ritiro delle truppe occidentali e il ritorno al potere dei Talebani, il numero è aumentato. Solo 4.890 cittadini afghani, secondo la fondazione Migrantes, sono stati trasferiti con il ponte aereo di evacuazione umanitaria. Il conflitto in Afghanistan è iniziato il 7 ottobre del 2001 con la dichiarazione di guerra da parte degli Stati Uniti in risposta all’attentato dell’11 settembre. Ma il paese è in guerra da oltre 40 anni e, secondo Emergency, si contano un milione e mezzo di morti, centinaia di migliaia di feriti e mutilati e oltre 4 milioni di profughi. Salvini aveva detto che l’Italia non poteva permettersi di accogliere migliaia di persone. Salvo poi - isolato dalla maggioranza ma anche da sindaci del suo partito - ripensarci ed essere disposto ad aprire i confini a donne e bambini: “Corridoi umanitari per donne e bambini in pericolo certamente sì. Porte aperte per migliaia di uomini, fra cui potenziali terroristi, assolutamente no”. Dal Mediterraneo centrale invece, secondo i dati del ministero dell’Interno mentre Salvini era ministro, il secondo paese di provenienza dopo la Tunisia è l’Eritrea, il terzo il Sudan. Molti i migranti dalla Nigeria e dal Mali. Ad agosto 2018, nel periodo in cui l’ex ministro ritardava lo sbarco dei migranti sulla nave Diciotti, su questa rotta si contavano almeno 9.132 persone in fuga da conflitti, 3.729 invece quelle in arrivo dalla Tunisia, paese non in guerra. Il Sudan non ha mai vissuto lunghi periodi di pace: dalla metà del secolo scorso alla presa del potere del dittatore Omar al Bashir nel 1989, i sudanesi hanno vissuto giunte e colpi di stato. Il conflitto tra il nord e il sud del paese - tra il 1983 e il 2003 la fase più sanguinosa - ha portato alla secessione del Sud Sudan nel 2011. Al Bashir è stato deposto con un golpe militare ad aprile 2019, ma i conflitti interni all’Esercito di liberazione del Sudan, nel 2020, hanno portato a scontri armati e vittime nello stato del Darfur centrale, del Nilo Azzurro e nel Sud Kordofan, e migrazioni di civili. Il dittatore eritreo Iasias Aferweki è invece al potere dal 1991 e governa con il pugno di ferro, obbligando gli uomini alla leva militare senza limiti di tempo, violando sistematicamente i diritti umani. Chi si oppone subisce la tortura o il carcere. Dopo due colpi di stato in meno di un anno, in Mali governa una giunta militare. Prima le regioni del nord e poi anche il centro del paese sono gradualmente passate sotto il controllo dei jihadisti, con attentati, sequestri, rappresaglie nelle zone rurali. E dopo il ritiro della Francia e degli Stati Uniti dal Sahel, la Russia ha iniziato a inviare armi e istruttori militari, ma secondo Parigi si tratta di mercenari del gruppo Wagner. Minori e rifugiati - “I bimbi sono vita, vanno difesi protetti e accolti, sempre e comunque a prescindere da dove partano e da dove arrivino”, ha detto Salvini riferendosi ai minori ucraini. Anche tra le persone che hanno attraversato il Mediterraneo si registra un numero sempre più alto di minori non accompagnati. Nel 2019, in base ai dati Unhcr, sono stati 1.680, 25.846 nel 2016. “I numeri del ministero dell’Interno dicono che di tutte le domande di protezione internazionale presentate l’anno scorso la maggioranza sono state respinte”, ha poi aggiunto Salvini. “C’è altra gente che scappa da altre zone dicendo che scappa dalla guerra a cui il governo italiano tramite le commissioni prefettizie dice no”. Ma l’Italia ha registrato numeri al di sotto della media europea, come sottolinea il rapporto della Fondazione Migrantes, sia nel numero di domande d’asilo e sia sugli esiti positivi delle richieste. Nel 2019, in Europa più del 60 per cento delle richieste sono state accolte, mentre in Italia solo il 34 per cento. Nel periodo della cosiddetta “invasione”, durante la crisi dei migranti, dal luglio 2015 al marzo 2016, erano 0,9 milioni le persone arrivate in Europa. Oggi sono invece 2,3 milioni le persone fuggite dall’Ucraina verso i paesi europei in 15 giorni, come fa notare uno studio dell’Ispi. Ma al leader della Lega non importa, i migranti attraversano il Mediterraneo per scappare da guerre finte e non devono essere accolti. “Carceri ucraine strategiche nei piani di occupazione russa” di Eleonora Martini Il Manifesto, 3 aprile 2022 Intervista all’avvocato Dmytro Yagunov, per Kiev nel Comitato europeo per la prevenzione della tortura: “Situazione difficile”. Non si è mosso da Kiev da quando è cominciata la guerra, l’avvocato Dmytro Yagunov, docente alla Vasyl’ Stus Donetsk National University del dipartimento di Scienze politiche e Pubblica amministrazione, rappresentante ucraino del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt). “Le azioni militari russe contro gli ucraini hanno interessato i dintorni di casa mia, le bombe sono arrivate fino a 300 metri da qui, e ho perfino potuto fotografare tali luminosi eventi della mia vita”. Risponde via mail o whatsapp, Yagunov, a volte perfino con messaggi effimeri. Ma l’ironia si percepisce anche così. Lo abbiamo intervistato per parlare dei circa 48 mila detenuti nelle 182 carceri ucraine (“di cui 39 chiuse per mancanza di detenuti, ma che presumibilmente saranno utilizzate per i prigionieri di guerra russi”, spiega). Istituti ancora sotto il controllo governativo o finiti nelle mani della Russia (29 si trovano negli Oblast di Donetsk e Luhansk, e 5 in Crimea). E per parlare del loro coinvolgimento nella guerra. Difficile in questo contesto mantenere distanza e terzietà rispetto alla comunicazione governativa ucraina, ma la biografia dell’avvocato Yagunov lo promette. “Poiché in queste condizioni la comunicazione istituzionale non è funzionante, ho raccolto le informazioni che le sto dando in modo informale, anche parlando con diversi ufficiali regionali della polizia penitenziaria”, premette. Quali precauzioni sono state prese per salvare la vita ai detenuti nelle carceri ucraine? In questo momento non c’è alcun luogo sicuro in Ucraina, che sia sulla linea del fronte o meno. Anche i territori a ovest sono stati bombardati. Perfino la sede del governo regionale di Mykolaiv è stata distrutta da un missile puntato direttamente sull’edificio. In generale ci sono 33 prigioni nella zona di combattimento; da quando è iniziata l’invasione 5 istituti sono stati presi dai russi nell’est e nel sud dell’Ucraina. Ci sono state vittime sia tra i detenuti che tra gli agenti penitenziari. Morti e feriti sono stati registrati nella regione di Kharkiv già tre volte in un mese, ed è stato colpito anche un carcere nella regione di Mykolaiv, con alcuni feriti. A Vinnytsya una prigione è stata colpita dai bombardamenti e i detenuti sono fuggiti. Questa guerra è arrivata inaspettata per noi e ovviamente il sistema penitenziario non era pronto. La situazione perciò è davvero difficile, a volte totalmente fuori controllo, perciò non abbiamo informazioni certe su quanti detenuti e agenti siano stati uccisi. Né sappiamo esattamente quanti detenuti siano fuggiti. Il nostro ministero di Giustizia e il nostro Dipartimento penitenziario stanno cercando di raccogliere informazioni dalla società ucraina e dai partner internazionali perché sono ovviamente urgenti e necessarie per un’ulteriore analisi sia dei detenuti in regime di “messa alla prova che per salvaguardare la vita dei reclusi e dei lavoratori penitenziari. Come si affronta una situazione simile? L’8 marzo abbiamo ricevuto aiuti umanitari dal servizio carcerario della Polonia. Purtroppo la fotografia generale mostra che nessun istituto penitenziario ucraino è al sicuro. La situazione non è semplice: per esempio il 6 marzo 322 detenuti sono stati evacuati dalla colonia penitenziaria di Orikhiv nell’oblast di Zaporizhzhia che era sotto attacco, alla colonia correttiva di Kropyvnytskyi. Durante l’evacuazione sono scoppiati disordini tra i detenuti e alcune associazioni per la tutela dei diritti hanno denunciato violenze anche sui prigionieri. L’ordine è stato poi ristabilito quando la polizia ha sequestrato più di 80 telefonini e altrettanti coltelli nascosti dai detenuti. Un evento che è arrivato anche all’attenzione dei mass media. In generale dunque la situazione necessita di molta attenzione. Non c’è stata nessuna forma di amnistia? Una parte dei detenuti non è stata arruolata per la guerra? Questa aggressione ci ha costretto ad alcune modifiche nella nostra legislazione. La prima riguarda i carcerati in attesa di giudizio. Il 13 marzo il parlamento ha adottato una legge speciale che permette di rilasciare i carcerati in attesa di giudizio che vogliono partecipare alle operazioni contro l’invasione russa. In base a questa legge, il pubblico ministero può rivolgersi ad un giudice locale per chiedere di rilasciare il sospettato o il detenuto in attesa di giudizio definitivo che voglia partecipare alle azioni militari. Questa legge non può essere applicata ad ogni tipo di detenuto e ne sono esclusi certi reati. Quali? Una lunga lista: si va dall’omicidio, al rapimento e allo stupro, dai reati di droga a quelli contro gli interessi nazionali, fino ai più gravi quali terrorismo, associazione criminale, tratta di esseri umani, crimini militari e di guerra, ecc. I detenuti in attesa di giudizio definitivo che non siano accusati di questo tipo di reati hanno il diritto di rivolgersi al pubblico ministero per chiedere l’annullamento della custodia cautelare durante la guerra. La legge firmata dal presidente Zelensky il 21 marzo prevede, in caso di imposizione della legge marziale in Ucraina o in sue località separate, misure per garantire la sicurezza e la difesa nazionale e respingere l’aggressione armata della Federazione Russa ego di altri Stati contro l’Ucraina. Quanti detenuti sono stati già arruolati? Difficile dirlo perché sono passati pochi giorni dall’applicazione di questa legge. Il presidente ha poi graziato anche 363 condannati che avevano scontato la maggior parte della pena nei centri correzionali che sono istituzioni aperte, con il più basso livello di isolamento dalla società, dove si scontano condanne brevi. Molti di loro avevano avuto esperienze di combattimento e oggi perciò possono partecipare alla resistenza. Cosa accade ai detenuti ucraini nelle prigioni che sono state occupate dalle forze militari russe, sia in questa guerra che in quella del 2014? Le autorità ucraine non hanno molte informazioni di come vengono trattati i detenuti ucraini nelle mani dei russi. Ad est e a sud dell’Ucraina, secondo le informazioni che ci arrivano, lo scenario si presenta sempre allo stesso modo: prima di tutto vengono interrotti i sistemi di videosorveglianza che ci sono in tutte le carceri ucraine. Poi vengono sequestrati i telefoni e interrotte le comunicazioni con l’esterno. Il terzo step è l’incontro diretto coni prigionieri e gli agenti penitenziari per tentare di portarli dalla parte dei russi. In questo modo la Russia tenta di includere il sistema penitenziario ucraino nell’amministrazione dell’occupazione. Nel sud Ucraina per esempio sono stati segnalati alcuni agenti speciali del governo russo che si stavano informando sul sistema penitenziario ucraino per capire come trasformare tali istituti in futuro. Secondo me è ovvio che stiano pianificando prigioni adatte a contenere non solo i criminali ma anche i cittadini che si ribelleranno all’annessione. Perciò la questione penitenziaria è molto importante per la pianificazione dell’occupazione russa. Per quanto riguardai territori sotto l’occupazione russa dal 2014, le carceri della Crimea sono state direttamente e formalmente integrate nel Servizio carcerario federale russo. Le carceri di Lugansk e Donetsk sono formalmente subordinate ai servizi carcerari istituiti nel 2014 dalle cosiddette Repubbliche popolari come parti strutturali dei ministeri degli Affari interni di quelle repubbliche. Come ricevete informazioni da quei territori occupati? Prima dell’attuale aggressione russa, alcune organizzazioni avevano potuto raggiungere le prigioni ucraine e trasmettevano informazioni al ministero di Giustizia. Ma questa connessione è stata interrotta e al momento non si riesce ad avere notizie dalle istituzioni che sono nel territorio occupato o quelle che sono sulla linea del fronte. Dal 24 febbraio ad oggi ci sono stati scambi di prigionieri tra l’Ucraina e la Russia? I detenuti condannati dai Tribunali penali non sono stati scambiati. Per quanto riguarda i prigionieri di guerra, il 24 marzo stesso sono stati riconsegnati alle forze russe 10 militari occupanti in cambio di altrettanti nostri connazionali. Inoltre, l’Ucraina ha restituito 11 marinai civili russi salvati da una nave affondata vicino a Odessa. Come risultato di questo scambio, sono tornati a casa 19 marinai civili ucraini della nave di salvataggio Sapphire che è stata catturata dagli occupanti mentre tentava di trasferire le nostre truppe dall’isola dei Serpenti. L’1 aprile, a seguito di un decreto presidenziale, c’è stato un altro scambio di prigionieri di guerra: 86 militari ucraini sono stati liberati, 15 di loro sono donne. Lei potrebbe dire che nelle carceri ucraine vengono rispettati i diritti umani? Se parliamo di prigionieri russi detenuti nelle carceri ucraine, non sono sicuro che si possa fare una differenza con i cittadini ucraini come fossero due gruppi distinti. Ho chiesto ad alcuni agenti penitenziari in pensione e che sono civili al momento, e loro non mi hanno confermato se i detenuti russi condannati prima della guerra siano trattati diversamente da quelli ucraini. Parlando in generale, questo non sembra essere un problema attualmente. Nessuna fonte né formalmente né informalmente al momento denuncia forme di trattamento illegale o inumano nei loro confronti. Una vita spesa a difendere i diritti umani e civili. E adesso? La guerra se li sta portando via tutti... Ci tengo a sottolineare una cosa molto importante: generalmente il popolo ucraino continua a supportare i diritti umani perfino in tali circostanze. Le autorità ucraine - le istituzioni ma anche i militari - vogliono dimostrare le buone pratiche adottate nei confronti dei prigionieri di guerra e la nostra convinzione che i diritti umani sono molto importanti soprattutto in tempi come questi. In questo frangente è molto difficile ottenere informazioni su cosa stia accadendo nelle prigioni ucraine ma sappiamo che il ministero di Giustizia sta raccogliendo informazioni e sta documentando fotograficamente l’intero sistema carcerario per poterlo presentare agli attivisti dei diritti umani e ai partner internazionali. Sono convinto che i diritti umani non moriranno in Ucraina. Questa guerra ha mostrato una profonda differenza tra noi e il Cremlino nel modo di intendere e proteggere i diritti fondamentali oggi. I diritti umani in Russia sembrano essere morti, sia per le azioni crudeli e disumane delle forze militari russe in Ucraina ma anche a causa dell’esclusione della Russia dal Consiglio d’Europa. Ma questa è un’altra storia. La lotta di Ramy e Céline per i detenuti in Egitto di Veronique Viriglio agi.it, 3 aprile 2022 La coppia ha vissuto un calvario durato più di 900 giorni dopo che lui, militante palestinese-egiziano, è stato vittima di una detenzione arbitraria in un carcere. “Siamo la prova vivente che le lotte portano i loro frutti e che se uniamo le forze, come società civile, alla fine i 60 mila detenuti di opinione nelle carceri dell’Egitto avranno voce e la speranza di tornare liberi anche loro”. Chiare e decise le parole pronunciate da Cèline Lebrun Shaath, insegnante di storia, che col sostegno di Amnesty International, ha portato avanti una lunga battaglia per far tornare libero il marito, Ramy Shaath, militante palestinese-egiziano, vittima di una detenzione arbitraria in un carcere egiziano durata due anni e mezzo. Nel raccontare il loro calvario durato più di 900 giorni, il tono di voce della studiosa francese trasmette tutta la sua determinazione nell’aver portato avanti la campagna internazionale ‘Free Ramy Shaath’, e a tempo stesso la gioia, il sollievo per aver finalmente accanto il suo compagno di vita. Uniti nell’amore come nelle lotte in difesa dei diritti civili e umani del popolo egiziano e di quello palestinese, il primo nella morsa della dittatura del generale Abdel Fatah al-Sissi, il secondo di Israele e della sua politica di occupazione illegale. A Roma, nella sala Stampa Estera, dove hanno preso parte alla presentazione del rapporto annuo di Amnesty sulla situazione dei diritti umani nel mondo, il primo a ripercorrere a ritroso la sua travagliata vicenda è Ramy Shaath, 51 anni, tra le figure di spicco della rivoluzione egiziana del 2011 e dell’opposizione alla dittatura, nonchè co-fondatore della campagna ‘Boicottaggio Disinvestimento e Sanzionì (BDS) contro Israele. Ramy, di nazionalità palestinese ed egiziana - anche se è stato costretto a rinunciare a quest’ultima per ottenere la liberazione - ha svolto un ruolo determinante nella co-fondazione di diversi movimenti politici laici in Egitto, tra cui il Partito della Costituzione (Al Dostour Party), creato nel 2012 da Mohammad El Baradei. Ramy - nato a Beirut da un padre ex ministro di Yasser Arafat e una madre egiziana, si è trasferito al Cairo con la famiglia nel 1977, in fuga dalla guerra civile libanese - ha alle spalle una lunga storia di attivismo, motivo per cui da 10 anni le autorità egiziane lo stanno perseguitando, rifiutando di rinnovargli il passaporto, con una causa tutt’ora in corso. Ma l’apice di quello che a tutti gli effetti si può definire un accanimento è stato raggiunto la sera del 5 luglio 2019 quando, nel cuore della notte, più di dieci agenti di polizia pesantemente armati hanno fatto irruzione nell’abitazione della famiglia, nel quartiere chic di Garden City, al Cairo, senza identificarsi nè presentare un mandato di cattura. “E’ questo il modus operandi delle forze egiziane per terrorizzare attivisti ma anche semplici cittadini. Hanno perquisito il nostro appartamento, sequestrato computer, dischi rigidi, telefoni cellulari. Mi hanno arrestato e mia moglie è stata espulsa illegalmente in Francia lo stesso giorno” ha riferito Ramy. Quella notte per lui è cominciata una vera discesa agli inferi fatta di incognite, abusi, torture e violazioni dei propri diritti. L’uomo è stato portato in un luogo sconosciuto, la cui ubicazione è stata nascosta alla famiglia per 36 ore, successivamente informata da un avvocato che era comparso davanti a un pubblico ministero presso la Procura suprema per la sicurezza dello Stato, con l’accusa di “aiutare un gruppo terroristico a raggiungere i suoi obiettivi”. L’attivista non ha potuto chiamare la sua famiglia nè un legale e durante l’interrogatorio è stato rappresentato da un avvocato che si trovava per caso in tribunale in quel momento. “Dopo essere stato ammanettato, bendato e legato al muro per 10 giorni, mi hanno portato davanti ad un giudice, dicendomi tu sei quello senza numero. Centinaia di altri prigionieri erano detenuti illegalmente nelle mie stesse condizioni, ai quali solitamente viene assegnato un numero” ha ancora raccontato Ramy. Questi detenuti vengono sottoposti a torture, chi per mesi chi per anni, durante le “ore del divertimento, dalle 21 alle 5, con botte, scosse elettriche, costretti a spogliarsi, perdendo tutta la dignità, con la scusa di ottenere nomi di chi collabora con te, di chi conosci” ha proseguito l’attivista. Per tutti i 915 giorni in cui Rami è stato privato della libertà, ha avuto un solo interrogatorio di 45 minuti da parte di un giudice che gli ha chiesto per chi avesse votato dopo la rivoluzione del 2011, la natura delle sue attività politiche, ma senza fornire alcuna prova contro di lui. In realtà il pubblico ministero ha basato la sua accusa su un fascicolo segreto raccolto dall’Agenzia per la sicurezza nazionale (Nsa) - che i suoi legali non hanno mai potuto esaminare - nonostante una decisione del 2015 della Corte di Cassazione avesse stabilito che le indagini della Nsa non costituiscono prove di per sè. In soldoni Ramy veniva accusato di aver diffuso voci e bugie contro lo Stato sia personalmente che sui social, anche se non ha mai avuto un account Facebook. Il suo caso rientrava in quello classificato col numero 903 riguardante persone di tutto lo spettro politico, non collegate tra di loro, ma presumibilmente coinvolte in un “complotto di attivisti civili in collaborazione con i Fratelli Musulmani per minare lo Stato”. Ramy è stato poi trasferito nel famigerato mega centro penitenziario di Tora, alla periferia del Cairo, dove ha subito condizioni detentive disumane. “Eravamo in 15-20 in un cella di 23 mq, con un solo bagno di un metro per 75 cm, un buco nel suolo. Dormivo per terra, quando riuscivo a sdraiarmi, con pezzi di intonaco che ci cadevano in testa e insetti ovunque. Nessuna assistenza sanitaria e se osavi parlare di Covid, minacce e botte - ha proseguito Ramy -. La punizione era per una o due settimane la cella in solitario, di un metro per un metro e mezzo, senza luce, un secchio come gabinetto e una bottiglietta d’acqua. Così è morto un mio amico che non ha resistito”. L’isolamento dei prigionieri di opinione è pressochè totale con nessuna possibilità di ricevere telefonate nè cibo dalle famiglie e una sola visita al mese, a volte con un’attesa di ore per soli pochi minuti di colloquio, quando queste visite non vengono bloccate arbitrariamente. “In questi due anni e mezzo di detenzione ho incontrato centinaia di persone finite in prigione con accuse vaghe e infondate, terrorizzate assieme ai loro familiari. Tra loro non c’erano soltanto esponenti del movimento islamico e attivisti della società civile ma normali cittadini” ha sottolineato Ramy. In Egitto puoi finire in manette per un banale post scherzoso su Facebook o perchè, come nel caso di un suo amico medico, perchè a scuola il figlio ha cantato una canzone tradizionale sui datteri che viene intonata per deridere il potere, pertanto il suo insegnante ha avvertito i servizi di sicurezza. “Uno dei casi più eclatanti è quello di Patrick Zaky, finalmente rilasciato ma ancora ostaggio in Egitto e in attesa della prossima udienza. Del resto gli arresti arbitrari per strada con qualunque pretesto sono all’ordine del giorno, sulla base di una serie infinita di storie grottesche, o meglio di un cocktail di accuse generiche, senza diritto a nessun avvocato e con un falso processo” ha ancora denunciato Ramy. Il modus operandi è proprio quello di terrorizzare i cittadini per dissuaderli dal parlare, dall’opporsi al potere. “Io da cittadina Ue ho vissuto, fortunatamente, solo una violazione limitata dei miei diritti, ma ho pensato spesso a Giulio Regeni, ricercatore in Egitto come me negli stessi anni” ha raccontato a sua volta Cèline, trentenne, con un percorso di studio in scienze politiche alla Sorbona e a Roma Tre, che ha incontrato Ramy nel 2014 in un convoglio umanitario partito dal Cairo a destinazione di Gaza, allora bersagliata da una campagna militare israeliana. “In quei minuti concitati della notte del 5 luglio 2019 ho appena fatto in tempo ad andare in bagno col mio telefono per cercare di allertare la famiglia e un avvocato, ma non sono riuscita a contattare la mia ambasciata” si ricorda la giovane donna, che era ufficialmente residente in Egitto dal 2012, prima per imparare l’arabo, successivamente per insegnare in una scuola francese e lavorare al Centro studi e documentazione economici, giuridici e sociali. “Allora mi sono venuti in mente i tanti amici scomparsi in carcere negli ultimi anni, chiedendomi quale scenario ci aspettava. Mi hanno dato 10 minuti per fare la mia valigia. Ho salutato velocemente Rami senza realizzare che non lo avrei rivisto per tanto tempo. Per 7 ore sono rimasta bloccata in una stanza in aeroporto e costretta a comprarmi da sola un biglietto per tornare in Francia” ha continuato Cèline. “Arrivata a destinazione ho subito avvisato la famiglia di mio marito che non sapeva nulla del suo arresto quindi ancor meno dove si trovava. Non c’era tempo da perdere, quindi da subito mi sono attivata per far partire una campagna globale di sensibilizzazione e mobilitazione per tirare Ramy fuori dal carcere” ha riferito la moglie. La campagna internazionale, sostenuta da Amnesty International, ha ottenuto l’adesione di altre Ong, di deputati francesi e più di 100 mila cittadini l’hanno appoggiata. Per oltre due anni, instancabilmente Cèline si è adoperata per mobilitare la diplomazia francese, fino ad ottenere l’intervento del presidente Emmanuel Macron, che durante la visita ufficiale in Francia di al-Sissi, nel dicembre 2020, ha chiesto espressamente la liberazione di Ramy Shaath. “Dopo l’immensa gioia per la liberazione di mio marito, lo scorso 5 gennaio, la nostra campagna prosegue con l’obiettivo ‘Free Them All’, in quanto non possiamo liberare i 60 mila prigionieri politici uno ad uno, ma dobbiamo interrompere un ciclo” ha insistito l’attivista. La battaglia continua anche perchè se Rami ha finalmente ritrovato la libertà e sua moglie, senza alcuna udienza nè processo è stato inserito nella lista dei “terroristi” - in tutto sarebbero in 400 - che comporta per 5 anni divieti di viaggio, congelamento dei beni, sequestro del passaporto egiziano e divieto di attività politiche. “Questo è il momento dell’Ucraina, ma non dimentichiamoci dell’Egitto, il cui governo è molto suscettibile all’esposizione delle sue manchevolezze. Abbiamo bisogno dell’attenzione dei media e dei governi per dare un messaggio di speranza e sostenere le famiglie dei detenuti, fino ad ottenere la loro scarcerazione e un’inversione di rotta da parte del potere egiziano” ha auspicato Cèline. La tenace insegnate francese richiama i governi della Francia e dell’Italia alla loro responsabilità, che è quella di continuare a vendere armi all’Egitto a nome della lotta al terrorismo, “un commercio che deve cessare anche perché questa lotta è un pretesto utilizzato dal potere egiziano per reprimere i suoi cittadini”. Tra le occasioni di protesta formale nei confronti del presidente al-Sissi, in carica dal 2014, e del suo governo c’è il prossimo Forum sul contrasto al terrorismo, che l’Unione europea co-presiederà con l’Egitto, e la Cop-27 sul clima in agenda in autunno.