Prigioni incivili: Paesi incivili di Giulio Cavalli Left, 30 aprile 2022 Come tutti gli anni il XVIII Rapporto annuale dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia dipinge un quadro desolante. In Italia il tasso ufficiale di affollamento delle carceri risulta del 107,4% ma il dato reale racconta di una Puglia al 134,5%, la Lombardia al 129,9%, il carcere di Canton Mombello al 185%, Varese al 164%, e Bergamo e Busto Arsizio al 165%. I detenuti con condanne in via definitiva erano il 69,6% dei presenti al 31 dicembre 2021, mentre 10 anni prima erano il 56,9%. Una crescita di 10 punti percentuali in 10 anni. Da tempo infatti si registra una costante tendenza alla riduzione del ricorso alla custodia cautelare e dunque in proporzione alla crescita tra i presenti di persone con una condanna definitiva. Ancora pero? i numeri sono altissimi. Sono 1.810 gli ergastolani, di cui 119 stranieri. Nel 2012 erano 1.581, nel 2002 erano 990, nel 1992 erano 408. Sono cresciuti di 1.402 unita? in trent’anni. Dei detenuti in carcere alla fine del 2021, il 3% stava scontando una pena inflitta fino ad un anno, il 19% fino a 3 anni, il 18% da 10 a 20 anni, il 7% oltre 20 anni, il 5% l’ergastolo. Quanto alla pena residua, il 18% aveva un residuo pena fino ad un anno, il 52% fino a 3 anni, il 6% da 10 a 20 anni, l’1% oltre 20 anni (cui si aggiunge il 5% che scontava l’ergastolo). Un numero enorme di detenuti dunque, per la precisione 19.478, deve scontare una pena residua pari o inferiore a 3 anni. Una gran parte di loro potrebbe usufruire di misure alternative. Per quanto riguarda i servizi sanitari e igienici, dei 24 istituti con donne detenute visitati da Antigone nel 2021 il 62,5% disponeva di un servizio di ginecologia e il 21,7% di un servizio di ostetricia. Solo nel 58,3% degli istituti visitati le celle erano dotate di bidet, come richiesto dal regolamento di esecuzione da piu? di vent’anni. Al 31 marzo 2022, erano 19 i bambini di eta? inferiore ai tre anni che vivevano insieme alle loro 16 madri all’interno di un istituto penitenziario. Di questi, il gruppo piu? consistente e? composto da 8 bambini ospitati nell’Istituto a custodia attenuata per madri detenute di Lauro, unico Icam autonomo e non dipendente da un istituto penitenziario. A questo segue un gruppo di 4 bambini all’interno della sezione nido della Casa Circondariale di Rebibbia Femminile. Ospitano poi due bambini ognuno gli Icam interni alla Casa Circondariale di Milano San Vittore e di Torino e la Casa Circondariale di Benevento. Un solo bambino si trova invece all’interno dell’Icam della Casa di Reclusione Femminile di Venezia. A fine 2021 i bambini in carcere erano 18, il numero piu? basso registrato negli ultimi decenni. Dopo i picchi raggiunti nei primi anni 2000, quando si sono arrivati a contare anche piu? di 70 bambini in carcere, negli ultimi dieci anni i numeri sono complessivamente diminuiti seppur con un andamento piuttosto altalenante. Gli stranieri, nonostante la narrazione, non sono i “più pericolosi delinquenti”: la pena residua dei detenuti stranieri (dati al 31 dicembre 2021) e? generalmente piu? bassa rispetto alla media: il 24,3% degli stranieri sconta infatti un residuo di pena tra 0 e 1 anno, a fronte di una percentuale generale del 18%. Il 42,2% degli stranieri sconta tra 0 e 5 anni di residuo pena, a fronte del 37,6% del totale della popolazione detenuta che sconta lo stesso residuo. Solo il 2,6% dei detenuti stranieri ha una pena inflitta a piu? di 20 anni di carcere, a fronte del 6,6% della popolazione totale detenuta. l’1% dei detenuti stranieri sconta la pena dell’ergastolo, a fronte del 4,8% del totale della popolazione detenuta. Nel 2020 il tasso di suicidi era pari a 11.4, ben superiore alla media europea annuale attestatasi a 7.2 casi ogni 10.000 persone detenute. Il Paese con il tasso piu? alto e? la Francia (27,9), seguita da Lettonia (19,7), Portogallo (18,4) e Lussemburgo (18). Importante notare inoltre come l’Italia sia tra i Paesi europei con il piu? alto tasso di suicidi. “A proposito del regolamento di esecuzione del 2000, di cui sarebbe urgente un aggiornamento, questo prescriveva che le “camere detentive” fossero dotate di doccia, riscaldamento adeguato ed acqua calda. In molti degli istituti da noi visitati - si legge nel rapporto di Antigone - ci sono ancora celle che non rispettano queste condizioni. Nel 5% degli istituti visitati ci sono ancora celle in cui il wc non e? in un ambiente separato, isolato da una porta, ma in un angolo della cella. A Carinola ad esempio, nel reparto destinato ai protetti, manca qualsivoglia divisorio tra il water, il lavabo ed il letto. A San Severo in Puglia il bagno e? separato dal resto della stanza esclusivamente tramite un pannello dell’altezza di circa 3 metri”. Sono quasi 17.000 i detenuti che lavorano per l’amministrazione penitenziaria in attività domestiche. Molti lavorano per poche ore al giorno o pochi giorni al mese. Il budget non consente la piena occupazione e si cerca di distribuire il benefit. I detenuti lavoranti non alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria, al 31 dicembre 2022 erano 2.305, rappresentando il 4,3% sul totale dei detenuti. Tra questi i semiliberi erano 799 e le persone in articolo 21 erano 551. Lavoravano in istituto per imprese 242 detenuti e 713 detenuti lavoravano per cooperative. Scrive Antigone: “Secondo la nostra rilevazione, in media nei 96 istituti visitati il 33% dei detenuti presenti era impiegato alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria; di questi buona parte e? impiegato sempre in mansioni di tipo domestico. Solo il 2,2% dei presenti era invece in media impiegato alle dipendenze di altri soggetti. Il dato e? peraltro molto disomogeneo. In Emilia-Romagna questa percentuale era del 4%, in Campania dello 0,3%. In 37 istituti visitati, piu? di un terzo del totale, non abbiamo trovato alcun detenuto impiegato per un datore di lavoro diverso dal carcere stesso. In un istituto importante come Poggioreale lavorano solo 280 detenuti sui 2.190 presenti, meno del 13%”. Questi sono solo alcuni dei punti critici del rapporto. “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”, recita la frase attribuita a Voltaire. A voi il giudizio. Calano i reati ma crescono ergastolani e recidivi di Federica Brioschi Il Riformista, 30 aprile 2022 Oltre 2.000 in 24 anni. Un monitoraggio costante che ha permesso ad Antigone di fotografare lo stato del sistema penitenziario nella sua complessità, analizzandolo con spirito critico ma anche costruttivo. Da questa attività parte la realizzazione del rapporto annuale dell’associazione sulle condizioni di detenzione. Ieri, a Roma, è stato presentato il diciottesimo, frutto delle circa 100 visite effettuate nel 2021, dal Nord al Sud del paese, dalle carceri più grandi agli istituti più piccoli. Il monitoraggio degli osservatori restituisce un’immagine delle carceri italiane non molto lusinghiera. Nel 17% di quelle visitate da Antigone c’erano sezioni prive di ogni ambiente comune, che sono invece fondamentali per organizzare attività volte al reinserimento dei detenuti nella società. In oltre il 30% degli istituti le persone non avevano accesso regolare alla palestra, un modo per mantenersi in salute in un ambiente sedentario. Nel 35% degli istituti visitati mancava l’area verde per i colloqui all’aperto con i familiari prevista dal regolamento, mentre nell’85% non c’erano spazi di culto per i detenuti non cattolici. In varie carceri si trova ancora il water a vista accanto al letto e al fornelletto per cucinare. Infine nel 74% degli istituti visitati le persone non avevano alcuna forma di accesso a Internet. A fine marzo sono 54.609 le persone private della libertà nel sistema penale italiano, mentre un anno fa erano circa un migliaio in meno. Ufficialmente il tasso di affollamento medio è del 107,4%, tuttavia, se si considerano i posti realmente disponibili, a fronte di reparti e sezioni chiuse o celle inagibili, il tasso supera il 115%. Un dato su cui pesano sempre meno gli stranieri che al 31 marzo 2022 sono il 31,3% sul totale della popolazione detenuta, con un calo del 5,8% rispetto al 2011. Il loro tasso di detenzione (calcolato nel rapporto tra popolazione straniera residente in Italia e stranieri presenti nelle carceri) ha visto una decisiva diminuzione, passando dallo 0,71% del 2008 allo 0,33% del 2021. Stabile la percentuale di donne, che rappresentano il 4,2% della popolazione detenuta, così come i detenuti in custodia cautelare, il 31,1% del totale, un dato sempre superiore alla media europea e su cui non si riesce ad intervenire in maniera ampia. Se lo scopo principale della pena dovrebbe essere il reinserimento sociale ed evitare che le persone condannate tornino a delinquere, il carcere non sembra riuscire ad adempiere al dettame costituzionale. Infatti al 31 dicembre 2021 solo il 38% dei detenuti presenti nelle carceri italiane era alla prima carcerazione. Il restante 62% in carcere c’era già stato almeno un’altra volta. Il 18% c’era già stato in precedenza 5 o più volte. Aumenta anche il numero di reati medio commesso da ogni detenuto. In media vi si tratta di 2,37 reati per detenuto mentre nel 2008 il numero di reati per detenuto era dell’1,97. Dunque diminuiscono i reati in generale, diminuiscono i detenuti in termini assoluti ma aumenta il numero medio di reati per persona. Ciò è indice dell’aumento del tasso di recidiva. Dati centralizzati sulla recidiva non vengono raccolti e invece sarebbe utile lo si faccia. Per capire quali sono i percorsi che realmente consentono a chi ha scontato una pena a non commettere altri reati una volta fuori. Certamente, da questo punto di vista, aiutano le misure alternative, che consentono al detenuto di riprendere i legami con il mondo esterno prima della fine della pena. Come ha ricordato durante la conferenza di presentazione del rapporto il Garante dei detenuti della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, non esiste alcuna ragione - che guardi ad un orizzonte risocializzante - per tenere una persona in cella fino all’ultimo giorno della sua pena. Nonostante il calo dei reati che si registra ormai da anni (-12,6% rispetto al 2019), le persone detenute si trovano a scontare pene sempre più lunghe. Al dicembre 2021 fra i detenuti definitivi, il 50% stava scontando una condanna definitiva uguale o superiore a 5 anni e il 29% aveva subito una condanna a 10 o più anni. Dieci anni fa queste percentuali erano rispettivamente il 40% e il 21%. Aumentano anche gli ergastolani: erano 408 nel 1992, 990 nel 2002, 1.581 nel 2012 e oggi sono 1.810. Un aumento impressionante considerando il calo degli omicidi in Italia. Infine, venendo proprio alle misure alternative, ben 19.478 detenuti dovevano scontare una pena residua pari o inferiore a 3 anni. Una gran parte di loro potrebbe usufruire di alternative alla detenzione ma, alla difficoltà di ottenerli in alcuni casi, spesso si aggiungono anche problemi di carattere esterno, come ad esempio l’assenza di un domicilio che consenta di accedere alla detenzione domiciliare. Di fronte a questi numeri appare evidente la necessità di riformare il sistema e su questo insiste con forza l’associazione Antigone. “I tassi di recidiva ci raccontano di un modello che non funziona e ha bisogno di importanti interventi, aprendosi al mondo esterno, puntando sulle attività lavorative, scolastiche, ricreative e abbandonando la sua impronta securitaria” ha commentato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “A dicembre 2021 - ha ricordato Gonnella - la Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario nominata dalla Ministra Cartabia e presieduta dal prof. Marco Ruotolo, ha elaborato e consegnato un documento con tutta una serie di riforme che si potrebbero fare in maniera piuttosto rapida. Inoltre la recente nomina di Carlo Renoldi alla guida del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria apre una prospettiva importante da questo punto di vista. Ci auguriamo che si sappia cogliere quest’occasione e si portino avanti tutte le riforme di cui il carcere italiano ha urgente bisogno”. Un ultimo passaggio è stato dedicato al diritto di voto delle persone recluse. In Francia, al primo turno delle politiche, ha votato circa il 15% dei detenuti grazie ad una nuova modalità via posta che ha incentivato la partecipazione (prima votava solo il 2%). “Anche in Italia - è stato l’appello di Gonnella - si trovino degli strumenti per incentivare la partecipazione dei detenuti al voto in vista delle prossime elezioni politiche e i prossimi referendum”. Garantire il diritto al voto significa garantire la partecipazione dei detenuti alla vita sociale, fondamentale in un’ottica risocializzante. La maledizione delle recidive: un incubo da cui non si esce più di Luigi Manconi e Marica Fantauzzi La Stampa, 30 aprile 2022 Tra non molto saranno passati due secoli da quando Victor Hugo scrisse: “Se tutto, attorno a me, è monotono e incolore, dentro di me non c’è forse una tempesta, una lotta, una tragedia? La morte rende cattivi”. (L’ultimo giorno di un condannato a morte, 1829). Cosa ci dice il rapporto presentato ieri dall’associazione Antigone, Le carceri viste da dentro, rispetto a quel processo di “incattivimento” determinato dalla vita coatta in un ambiente “monotono e incolore”, dominato dalla tragedia? I dati presentati dal XVIII rapporto di Antigone, che da un quarto di secolo visita le carceri italiane, ci raccontano che, certo, il nostro sistema penitenziario è molto mutato da quello francese dei primi dell’800: ma che, oggi come allora, qui come là, a dominare è la presenza della morte. Si considerino statistiche e numeri relativi ai decessi, agli atti di autolesionismo e ai suicidi, alle patologie (comprese le più acute), alla diffusione delle epidemie, al fenomeno suicidario tra i poliziotti penitenziari, all’altissimo tasso di tossicomanie e di overdose, alla frequente presenza di pazienti psichici. E si consideri quella “tragedia” rappresentata dalla circolazione di una pulsione di violenza, che si manifesta, fatalmente, nell’aggressività latente, nell’ostilità sorda, nei rapporti di autorità che precipitano in prevaricazione e prepotenza, nei numerosissimi casi di trattamenti inumani e degradanti (attualmente sono una ventina quelli sottoposti a indagine giudiziaria o a processo) attribuiti a membri della Polizia penitenziaria. Il rapporto di Antigone parla di tutto questo e ha, in primo luogo, la funzione liberatoria di contestare alla radice alcuni stereotipi dominanti. Il più diffuso tra questi si esprime così: ma in Italia nessuno finisce mai in carcere. E, invece, le cifre dicono che mentre in Francia e in Inghilterra si entra in carcere a seguito di una condanna, rispettivamente, nel 30 e nel 36% dei casi, in Italia siamo al 55%. E chi non ha accesso alle alternative alla detenzione, chi ha conosciuto solo il carcere, finisce per tornarci. E non solo una, ma anche cinque volte (al 31 dicembre 2021, dei detenuti presenti in Italia, solo il 38% era alla prima reclusione. Il 62% c’era già stato almeno un’altra volta. Il 18% ben 5 o più volte). Altro stereotipo che il rapporto ribalta è quello che considera le nostre città sempre meno sicure e sempre più “ostaggio della criminalità” (specialmente di quella “di strada”). Ma quello che emerge è una realtà in cui, da trent’anni a questa parte, tutti i reati, compresi quelli più suscettibili di produrre allarme sociale perché più prossimi ai cittadini, sono in drastica diminuzione. Quindi, osserva Antigone, “diminuiscono i reati in generale, diminuiscono i detenuti in termini assoluti ma aumenta il numero medio di reati per persona. Ciò è indice dell’incremento di quello stesso tasso di recidiva”, vera maledizione del sistema della giustizia italiana. E, ancora, un ulteriore stereotipo che fatica a scomparire: in Italia, in realtà, nessuno sconta davvero l’ergastolo. Anche su questo, Antigone ci dice tutt’altro. Il numero delle persone condannate al “fine pena mai” è in forte aumento: a oggi sono 1.810, di cui 119 stranieri. Nel 2012 erano 1.581, nel 2002 erano 990, nel 1992 erano 408. Degli ergastolani attuali, la maggior parte è destinata a morire in carcere, in quanto sottoposta al cosiddetto “ergastolo ostativo” che non consente di usufruire di alcun beneficio e della liberazione condizionale. D’altra parte, se la morte non è più, da decenni, una condanna possibile nei nostri sistemi democratici (con l’eccezione di molti stati Usa e del Giappone), allora viene da chiedersi perché la sua sinistra presenza risulti così immanente e pressante all’interno dei penitenziari italiani. C’è un approfondimento nel rapporto chiamato “Eventi critici”, ovvero “tutti quegli avvenimenti che mettono a repentaglio la sicurezza delle persone detenute, del personale o la sicurezza dell’istituto”. A cominciare dai suicidi, che nel 2021 sono stati 57. “Importante notare - osserva Antigone - come l’Italia sia tra i Paesi europei quello con il più alto tasso di suicidi nella popolazione detenuta, mentre è tra i Paesi con i tassi di suicidio più bassi nella popolazione libera”. Un ultimo dato: al 31 marzo 2022, erano 19 i bambini di età inferiore ai tre anni che vivevano insieme alle loro 16 madri all’interno di un istituto penitenziario. Viene in mente che allo stesso grande scrittore francese è attribuita una frase diventata proverbiale: “La storia di una società è scritta sui muri delle prigioni”. L’origine è controversa ed è futile tentare di ricostruirne la filologia. Ciò che è certo è che se sulle pareti di una cella, oltre alle tracce di un odio o di una passione, dovremo ancora trovare disegni di mani infantili, è indubbio che quella delle prigioni continuerà a essere una storia di persistente barbarie. Ergastolo ostativo, finalmente Carmelo Musumeci è libero: “Ora la revisione del processo” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 aprile 2022 Il suo caso è una eccezione che conferma la regola: dopo un lungo percorso ha ottenuto prima la libertà condizionale, infine l’estinzione della pena grazie all’ordinanza del tribunale di sorveglianza di Perugia. Carmelo Musumeci è finalmente libero. Parliamo di uno dei rarissimi casi di ergastolano ostativo che ha ricevuto la piena libertà dopo un lungo percorso, tortuoso, che l’ha portato a ottenere prima la libertà condizionale, infine l’estinzione della pena grazie all’ordinanza del tribunale di Sorveglianza di Perugia. Ma come ci spiegherà, è una eccezione che conferma la regola. Non solo. Ora è pronto a chiedere la revisione del processo. Ha commesso diversi crimini che mai ha nascosto, ma è stato condannato per un omicidio avvenuto nel 1991 nella località di Massa Carrara che lui dice di non aver commesso. Dietro c’è una vicenda che è da ricercare nel connubio tra l’allora boss mafioso Antonino Buscemi e la società calcestruzzi Ferruzzi Gardini che operava nelle cave di Carrara. Una vicenda che si ricollega alle indagini degli ex Ros di Palermo coordinate da Giovanni Falcone. Indagini che dettero vita allo scottante dossier mafia-appalti, poi attenzionato anche da Paolo Borsellino. Ma questa è una storia che prossimamente si dovrà affrontare Musumeci, lei è stato uno dei primi a definire l’ergastolo ostativo, una “pena senza fine”. Ma tre anni fa è riuscito a ottenere la liberazione condizionale e ora la libertà... Per trent’anni sono stato un condannato alla “pena di morte viva”: così gli uomini ombra chiamano la pena dell’ergastolo ostativo. Per più di un quarto di secolo la mia vita è stata una non-vita perché gli ergastolani ostativi non vivono, ma sopravvivono ed è terribile non essere né vivi né morti. L’ergastolo ostativo è una pena senza fine, senza nessuna possibilità di liberazione, a meno che al tuo posto in cella non ci metti qualcun altro. In altre parole, se parli e confessi puoi uscire, altrimenti stai dentro fino all’ultimo dei tuoi giorni, come nel Medioevo. La nostra pena assomiglia a una morte al rallentatore, bevuta a gocce perché moriamo un po’ tutti i giorni e tutti le notti. Se a me non è capitato è perché sono l’eccezione che conferma la regola e con l’estinzione della mia pena da parte del Tribunale di Sorveglianza di Perugia continuo ad esserlo ancora. Ha sempre detto che fin da giovanissimo è sempre stato in guerra contro il mondo. Perché? Potrei giustificarmi affermando che sono diventato un criminale perché mentre molte persone perbene sono nate fra pasticcini e biscotti, io sono nato in una casa dove non c’erano libri (probabilmente perché non erano buoni da mangiare). Potrei giustificarmi dicendo che sono stato quello che sono potuto essere e non quello che avrei voluto essere. Potrei dare la colpa delle mie scelte criminali alla mia infanzia infelice o alle botte che ho preso prima in collegio dalle suore e dai preti e subito dopo nelle carceri minorili (a soli quindici anni sono stato legato al letto di contenzione per sette giorni). Io, però, preferisco non darmi nessuna attenuante perché, come dico spesso: “sono nato colpevole poi io ci ho messo del mio per diventarlo”. In “Zanna Blu. Le nuove avventure”, uno dei suoi primi libri, scrive che “più che amare Dio, bisogna amare i lupi, anche quelli più cattivi, perché se tu credi che un lupo non sia mai perduto per sempre, lo stai già aiutando a essere migliore”. Parla di quello che è accaduto anche a lei durante la carcerazione? È il libro che amo più di tutti perché sono i racconti che non ho mai potuto raccontare ai miei figli prima e dopo ai miei nipoti. Se mi limitassi a guardare solo carcere, posso dire che non solo mi ha peggiorato, ma mi ha anche fatto tanto male. Ciò che mi ha migliorato e cambiato non è stato certo il carcere, ma l’amore della mia compagna, dei miei due figli, le relazioni sociali e umane che in tutti questi anni mi sono creato, insieme alla lettura di migliaia di libri di cui mi sono sempre circondato, anche nei momenti di privazione assoluta. Lei è nato in Sicilia, ma è vissuto altrove. Faceva parte di una banda, ma che nulla aveva a che fare con Cosa nostra. Forse l’ha aiutata il fatto che era un ribelle? Quanto questa sua indole si è scontrata con l’istituzione carceraria e, soprattutto, con i boss mafiosi reclusi? Mi sono sempre considerato un “Senza Dio”. E mi sono spesso definito un ribelle sociale. Ho sempre detto di no a tutti. A volte anche a me stesso. Sia fuori che dentro ho sempre detto di no alla mafia e alla loro cultura. Spesso mi sono anche scontrato con loro in carcere perché storcevano il naso che lottavo e scrivevo per l’applicazione dei miei diritti e di quelli dei miei compagni. Dentro mi sono sempre trovato tra questi due fuochi: lo Stato e la mafia, tutti e due volevano domarmi, non credo che ci siano riusciti. I periodi migliori in carcere li ho passati coi brigatisti: avevano cultura e umanità. Loro il carcere dell’Asinara l’avevano distrutto, nel 1978, perché sapevano unirsi e lottare. Molti mafiosi, invece, non vogliono o non lo sanno fare. Alla fine è riuscito a diventare portavoce della disperazione. Oserei dire “Spes contra Spem”. Da avere speranza, lei è riuscito a essere la speranza. Ne è consapevole? Non lo so. L’ergastolano se vuole vivere più serenamente deve sperare di morire prima del tempo io invece ho scelto di vivere e lottare. Facciamo un passo indietro. Lei nel 1991 è stato condannato all’ergastolo ostativo. Dopo le stragi di mafia, sono state riaperte le carceri speciali ed è stato trasferito all’Asinara. Ha subito torture anche lei? E chi è che non le ha subite? Dopo i primi giorni avvenne il primo pestaggio: quando si usciva all’aria gli sgherri erano tutti allineati con i manganelli tra le mani. Un compagno anziano, lento nei movimenti, rimasto indietro, venne preso a calci, pugni e manganellate. Sentivamo urla strazianti. Al ritorno vedemmo tutto il sangue sparso nel corridoio, ma noi eravamo troppo impauriti per potergli dare la nostra solidarietà. E quella nostra debolezza fu l’inizio della fine, perché fatti del genere in seguito si ripeterono sovente. In quel periodo imparai a conoscermi, a crescere dentro, scoprii che lo Stato era peggiore di quel che credevo: mi faceva conoscere privazioni, torture e patimenti, nell’assenza totale di legalità, giustizia e umanità. In quella maledetta isola persino i gabbiani erano infelici per quello che vedevano. Forse per questo da quel lager in un anno uscirono 42 collaboratori di giustizia. Ha sempre detto di essere stato “cattivo” e ha commesso gravi sbagli nella vita. Ha scontato l’ergastolo ostativo, un lungo periodo di 41 bis e torture nelle carceri speciali. Ha commesso davvero il crimine per il quale lei è stato condannato? C’è grande differenza fra la verità vera e quella processuale. Specialmente nei processi di mafia sovente vieni condannato per sentito dire o a causa di collaboratori che usano la giustizia per uscire dal carcere. Spesso vieni condannato perché sei culturalmente mafioso e non perché sei colpevole del reato di cui sei accusato. Nel mio caso sono stato assolto per dei reati che ho fatto e condannato all’ergastolo per un omicidio che non ho commesso. Non lo dico io ma un famoso pentito di mafia (Angelo Siino, scomparso recentemente e definito “ministro dei lavori pubblici di Totò Riina”, ndr), con delle dichiarazioni fatte alla Procura di Palermo: mi scagiona per questo omicidio, ma purtroppo queste dichiarazioni prima sono state segretate e poi sono sparite. Adesso che sono un uomo libero, per amore di verità, chiederò la revisione. Mi sono laureato in carcere in Giurisprudenza per questo. Permesso premio dopo oltre 20 anni di ergastolo ostativo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 aprile 2022 Concesse 12 ore di permesso premio a un ergastolano ostativo recluso nel carcere milanese di Opera, difeso dall’avvocata Simona Giannetti del foro di Milano. Parliamo di uno dei pochi casi di ergastolani che, a seguito della sentenza della Corte costituzionale, è riuscito a ottenere il beneficio penitenziario che gli è sempre stato negato visto che non ha mai collaborato con la giustizia. Il tribunale di Sorveglianza che ha concesso il beneficio, in sostanza ha sottolineato come l’assenza della collaborazione è un elemento neutro se c’è la prova dell’avventura partecipazione alla rieducazione, con le notizie di assenza di collegamenti. Il punto è che la difesa sostenuta dall’avvocata Simona Giannetti, ha provato che a fronte di una lunga carcerazione, il detenuto ha aderito a un percorso che nei fatti manifesta una presa di distanza e lo ha fatto anche con una esposizione personale nei dialoghi con gli esperti, durante i quali ha preso coscienza dei reati commessi, nonostante fossero gravi. S.V., classe 1960, è detenuto fin dal lontano 1996 e diventato definitivo a seguito delle condanne per omicidio e associazione a delinquere finalizzato allo spaccio di stupefacenti. L’istanza per il beneficio, a differenza delle volte scorse, è stata ritenuta ammissibile alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 253/ 2019 per effetto della quale è venuta meno la presunzione assoluta di pericolosità che impediva l’accesso ai benefici penitenziari per i condannati non collaboranti, e in particolare al permesso premio. Tramite la difesa, infatti, ha ripresentato l’istanza l’ 8 ottobre del 2021. Sotto il profilo dell’articolo 4bis comma 1 dell’ordinamento penitenziario, secondo cui i benefici penitenziari e le misure in esso contemplate possono essere concessi solo a condizione che il detenuto collabori con la giustizia, questa volta la norma è stata letta nel quadro della sentenza della Corte costituzionale n 253 del 2019 (intervenuta nel solco della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la sentenza Viola) che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del 4 bis nella parte in cui non prevede che, a una certa tipologia di reati, non solo quelli mafiosi, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. Per effetto di tale pronuncia viene dunque meno la presunzione assoluta di pericolosità che impedisce l’accesso ai benefici penitenziari per il condannato non collaborante, e in particolare al permesso premio, venendo così a cadere il requisito di ammissibilità dell’istanza. Il tribunale di sorveglianza, ritenendo pertanto l’ammissibilità dell’istanza stessa, ha quindi verificato se sussistano i presupposti di merito per il suo accoglimento. Detto, fatto. Tutte le autorità interpellate non hanno evidenziato elementi concreti indicativi che indichino l’attualità della persistenza di collegamenti del detenuto con la criminalità organizzata o della concreta possibilità di un loro ripristino. Le autorità interpellate, si sono soltanto limitate a motivare l’attualità della pericolosità dell’ergastolano S. V. sulla sola base della gravità dei reati commessi negli anni 90. Come però sottolinea il tribunale di Sorveglianza di Milano, sul punto, il rischio che il detenuto possa tornare a delinquere non può essere desunto solo dalla natura dei delitti commessi e dalla sua precedente appartenenza al sodalizio mafioso, ma richiede il riscontro di elementi attuali e concreti. Come indica anche la Corte costituzionale nella sentenza già più volte citata nell’ordinanza, un fattore importante - scrive il tribunale di Sorveglianza - “è costituito anche dal trascorrere del tempo, unitamente all’osservazione di come esso abbia influito sull’evolversi della personalità del detenuto e sul contesto sociale e familiare dello stesso: profili, questi, che devono essere appunto oggetto “di specifica e individualizzante valutazione da parte della magistratura di sorveglianza’“. Interessante la parte dell’istanza che viene recepita dal tribunale di Sorveglianza. In particolare, si osserva che il detenuto, nei colloqui con gli esperti, ha ammesso la sua responsabilità in ordine ai fatti a lui contestati. Ha sottolineato di essersi allontanato da qualunque contesto criminale, di aver aderito alle attività trattamentali a lui offerte, di prestare attività lavorativa presso il Laboratorio delle Ostie. Ha allegato documentazione attestante la partecipazione al percorso di giustizia riparativa, il titolo di studio conseguito, l’attestato di competenza in educazione artistica, la lettera di referenza inviata il 15 dicembre del 2021 della presidente Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti. In tale missiva la presidente ha riferito dell’impegno di S. V. nel laboratorio al punto da essere divenuto così rilevante da assumere il ruolo di insegnante della competenza di realizzare ostie in tutto il mondo. Ha inoltre allegato la disponibilità del figlio a ospitarlo presso la sua abitazione in caso di concessione di permessi premio. Il tribunale, sottolinea che l’assenza di condotta collaborativa “non acquista rilevanza quale fattore impeditivo di una ricostruzione degli avvenimenti criminali ai quali il condannato aveva preso parte. La mancata collaborazione non assume, nel caso di specie, la valenza di elemento negativo rispetto alla prova della intervenuta dissociazione del reo dal contesto criminoso d’origine”. Per questo, a oggi, il dato appare “assumere una valenza neutra, e consente di valutare - a contrario - gli elementi positivi che hanno caratterizzato il percorso carcerario del detenuto”. Infatti, ci tiene a sottolineare sempre il tribunale di Sorveglianza, il lavoro in carcere e la partecipazione ai progetti rieducativi “sono elementi che denotano un concreto ravvedimento, nel senso della propositiva manifestazione di capacita del graduale reinserimento nella società, ma anche un mutamento della personalità lontana dalla cultura criminale”. Si aggiunge anche il fatto che S. V., a seguito del provvedimento di declassificazione occorso nel 2014, si trova oggi sottoposto al regime dei detenuti comuni. Ciò significa che si sia già ritenuta scemata, dal Dap stesso, la sua pericolosità sociale. Il tribunale, alla luce di tutti questi elementi, concede il permesso premio di 12 ore affinché “possa rivestire una valenza trattamentale, consentendo al detenuto di coltivare affetti e interessi, di condividere valori positivi e ricevere ulteriori stimoli nel percorso riabilitativo, di cambiamento e riparativo”. Ricordiamolo. Dopo oltre vent’anni, l’ergastolano potrà usufruire mezza giornata di libertà. A pensare, che per una manciata di ore, ci furono numerose indignazioni a seguito della sentenza della Corte costituzionale. Dall’ergastolo al “liberi tutti”. Una riforma ostativa di Roberto Scarpinato Il Fatto Quotidiano, 30 aprile 2022 La riforma dell’ergastolo ostativo, dopo 2 decisioni della Consulta, mette sullo stesso piano i pentiti tipo Spatuzza e i mafiosi stragisti che non collaborano: potranno uscire dopo soli 19 anni e mezzo. La Cassazione ha annullato il provvedimento con cui il Tribunale di Sorveglianza di Roma aveva rigettato l’istanza di liberazione condizionale del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, ritenendo non pienamente concluso il suo “percorso di rieducazione” malgrado l’oggettiva rilevanza della sua collaborazione. Tale vicenda offre spunti di riflessione sull’intera tematica della riforma delle norme sull’ergastolo ostativo che il Parlamento si accinge a varare. Come è noto, la normativa vigente, approvata dopo le stragi del 1992, stabilisce un doppio binario nel trattamento penitenziario dei condannati all’ergastolo per delitti di mafia e per altri gravi reati ostativi. Solo chi collabora con la giustizia è ammesso alle misure alternative alla pena, quali permessi premio, semilibertà e liberazione condizionale. L’esperienza sul campo attesta infatti che solo la collaborazione determina la sicura rescissione del legame tra condannato e associazione mafiosa. Tale assetto normativo è stato dissestato da due decisioni della Corte costituzionale: la sentenza n. 253 del 2019 sui permessi premio e l’ordinanza n. 97 dell’11 maggio 2021 sulla liberazione condizionale. In sintesi, con l’ordinanza del 2021 la Corte ha ritenuto irragionevole il carattere assoluto - insuscettibile cioè di prova contraria - della presunzione di legge in base a cui solo la collaborazione con la giustizia è idonea a provare la rescissione del legame del condannato all’ergastolo per mafia con l’associazione criminale, non potendosi escludere che, pur senza collaborare, il condannato abbia reciso tale legame, cessando così di essere socialmente pericoloso e divenendo meritevole di essere scrutinato per l’ammissione a misure alternative alla detenzione. La Corte ha quindi sospeso il giudizio e dato termine al Parlamento sino al 10 maggio 2022 per ricalibrare la normativa. Dopo mesi di elaborazione, la commissione Giustizia della Camera ha depositato il testo definitivo della riforma che sarà sottoposto a breve all’approvazione del Parlamento. Il dibattito pubblico si è focalizzato esclusivamente sulle misure da adottare per evitare il pericolo di aprire le porte del carcere a ergastolani non collaboranti socialmente pericolosi, e al tal fine, nel testo varato in commissione, si prevede che l’accesso dei non collaboranti alle misure alternative sia subordinato a prove che escludano attuali collegamenti con la criminalità organizzata e terroristica, nonché il pericolo di ripristino di tali legami. Senonché la vicenda Spatuzza, e ancor prima quella simile del collaboratore Giovanni Brusca, hanno illuminato un altro aspetto fondamentale della riforma rimasto in ombra. Perché un condannato all’ergastolo possa ottenere la liberazione condizionale, non è sufficiente la cessazione della pericolosità sociale. L’art. 176 del Codice penale statuisce infatti che il condannato può essere ammesso alla liberazione condizionale solo se esistono prove che fanno ritenere sicuro il suo ravvedimento. È evidente che la cessazione di pericolosità e l’avvenuto ravvedimento sono concetti e istituti giudici non sovrapponibili. Un condannato può cessare di essere socialmente pericoloso, nonostante non sia per nulla cambiato nel tempo della sua carcerazione. Si consideri a esempio il caso di un ex terrorista condannato all’ergastolo per stragi e vari omicidi, che, pur non ripudiando il suo passato, decide di deporre definitivamente le armi cessando così di essere pericoloso, perché non sussistono più le condizioni sociopolitiche necessarie per proseguire la strategia terroristica, o perché il risultato che si intendeva perseguire è stato comunque conseguito per altre vie non cruente. O ancora il caso del mafioso che analogamente decida di recidere i rapporti l’associazione mafiosa non perché ne rinneghi i codici culturali, tra cui quello fondamentale dell’omertà, ma solo perché stanco della lunga detenzione sofferta e desideroso di riacquistare la libertà, senza rischiare una nuova cattura in caso di ripresa dell’attività criminosa. La vicenda di Spatuzza ha evidenziato la grande differenza tra cessazione di pericolosità e rieducazione. Egli ha iniziato a collaborare nel 2008 dopo l’ergastolo definitivo per le bombe del 1993 e l’omicidio Puglisi. Ha reso dichiarazioni di estrema rilevanza autoaccusandosi di tanti altri omicidi e della partecipazione alle stragi di Capaci e via D’Amelio, ha consentito la condanna di altri corresponsabili di tali stragi rimasti ignoti, il ritorno in libertà di 7 innocenti condannati all’ergastolo su prove falsificate e la cattura di altri pericolosi mafiosi, impedendo che continuassero a mafiare, uccidere e praticare violenza contro tante vittime. Tale sintetico inventario dei benefici resi alla società dalla collaborazione di Spatuzza e di tanti altri fa riflettere sulle gravi e negative conseguenze che l’imminente riforma dell’ergastolo ostativo determinerà nella risposta statale alla criminalità mafiosa. Con la riforma, infatti, il trattamento di collaboratori come Spatuzza sarà sostanzialmente parificato a quello riservato agli “irriducibili”, cioè ai condannati all’ergastolo per delitti di mafia che, pur avendo informazioni preziose per ottenere risultati analoghi a quelli propiziati da Spatuzza, si sono sempre rifiutati di collaborare. Malgrado l’abissale diversità di comportamenti, sia gli uni sia gli altri potranno usufruire della liberazione condizionale dopo 26 anni di carcere, che in realtà si riducono a 19 anni e 6 mesi (per il cumulo con lo sconto di 3 mesi ogni 12 mesi di detenzione che, per l’art. 54 dell’Ordinamento penitenziario, si applica a tutti i condannati che hanno tenuto buona condotta in carcere): 19 anni e 6 mesi che non decorrono dalla condanna, ma dall’inizio della custodia cautelare. Tale regime riguarderà tutti i soggetti condannati all’ergastolo prima dell’entrata in vigore della riforma. Solo per gli omicidi di mafia commessi dopo l’entrata in vigore della riforma, i condannati potranno accedere alla liberazione dopo 30 anni nominali, riducibili a 22 anni e 6 mesi effettivi. Grazie al medesimo meccanismo cumulativo di sconti di pena, tutti gli irriducibili condannati all’ergastolo potranno inoltre ottenere permessi premio sino a 45 giorni per ogni anno di detenzione, dopo appena 7 anni e 6 mesi dall’arresto. Tenuto conto che i tre gradi di giudizio hanno una durata media complessiva di 6-7 anni, dopo pochi mesi dalla sentenza definitiva, perduta la partita in sede giudiziaria, l’irriducibile potrà valutare conveniente scegliere la resa definitiva, iniziando a riprendere gradualmente una vita normale. È evidente come la sostanziale parificazione di trattamento tra collaboranti e irriducibili sortirà l’effetto di disincentivare la collaborazione di tutti coloro che hanno già riportato una condanna definitiva all’ergastolo. Perché accollarsi tutti i pesanti prezzi conseguenti alla collaborazione - l’autoaccusa di ulteriori delitti con conseguenti nuove condanne, l’esposizione al rischio di rappresaglie, l’obbligo di dichiarare tutto il patrimonio illecito accumulato, inclusi i cespiti occultati e sfuggiti alla confisca - quando lo Stato dal maggio ‘22 farà uscire dal carcere tutti gli attuali ergastolani a costo zero, solo a condizione di una definitiva e certa deposizione delle armi? Poiché il destino vuole che la riforma dell’ergastolo ostativo venga approvata in prossimità del trentennale di Capaci e via D’Amelio, va ricordato che tra i suoi potenziali beneficiari vi sono una quindicina di esponenti di rango delle mafie che sono a conoscenza di fatti e informazioni in grado di far luce su tanti grandi buchi neri delle indagini sulle bombe del 1992-’93. Per ragione di sintesi, mi limito a pochi esempi. 1) Chi erano gli importanti personaggi che indussero Salvatore Riina a mutare il piano di uccidere Giovani Falcone a Roma con un commando capitanato dal Matteo Messina Denaro, per eseguire invece una strage eclatante a Palermo in prossimità delle elezioni del nuovo presidente della Repubblica? Soggetti talmente autorevoli e affidabili da indurre i fedelissimi di Riina ad assicurare gli altri uomini d’onore che Cosa Nostra aveva le spalle ben coperte. 2) Chi era il supervisore che partecipò ad alcuni sopralluoghi per la strage di Capaci la cui identità era nota solo a un ristretto numero di fedelissimi di Riina, e veniva invece celata anche ad alcuni degli altri uomini d’onore presenti, ai quali era interdetto di avvicinarsi a tale personaggio? Se la libertà diventa una condanna di Gabriele D’Angelo L’Essenziale, 30 aprile 2022 Scontata la condanna, per gli ex detenuti il reinserimento nella società può diventare molto difficile. Si ritrovano abbandonati dallo stato, senza alternative e per di più in un mondo molto diverso da quello che avevano lasciato. Storie di persone per le quali la libertà può diventare una seconda pena. Poco prima di salutarlo, i compagni di cella lo avevano avvisato: “Tu non hai idea. Fuori troverai un muro, la non libertà”. “Non ci volevo credere, ma avevano ragione”. La “seconda pena”, come la chiama lui, Santo la sta scontando a Castelvetrano, in provincia di Trapani, dove è nato e cresciuto. È tornato a casa nell’ottobre del 2019, dopo sette anni in cella tra il carcere di Palermo e quello di massima sicurezza di Badu e Carros in Sardegna. Una volta fuori lo stato lo ha lasciato solo. “Il reinserimento sociale non c’è. Ho chiesto e cercato ogni tipo di lavoro, anche il più umile”, dice all’Essenziale. Ma per un ex detenuto di 60 anni è molto difficile farsi assumere, specie in Sicilia, dove il lavoro è poco per chiunque. Solo qualche settimana fa, con l’aiuto dell’associazione Yairaiha Onlus, Santo ha trovato un impiego a Trapani: “Per fortuna avevo mia madre, mia moglie, due figlie e una casa ad aspettarmi, altrimenti in questi tre armi non avrei avuto di che vivere. Ma chi non è fortunato come me, come fa?”. Fa come Nicola Lovaglio, 46 anni, più della metà trascorsi tra carceri minorili, prigioni e istituti psichiatrici di tutta Italia. Un’infanzia difficile e quasi trent’anni di detenzione hanno segnato il corpo pieno di tatuaggi, ma le cicatrici più profonde sono nella sua testa. Dal carcere è uscito con diverse patologie psichiatriche (disturbo borderline e bipolare, schizofrenia, comportamenti aggressivi), che riesce a tenere a bada solo assumendo ogni giorno dei farmaci. È entrato e uscito di prigione 22 volte, l’ultima dalla casa circondariale di San Gimignano (Siena), a inizio 2021. Oggi vive da solo in un appartamento in affitto e le sue giornate si ripetono identiche da più di un armo, come se fosse ancora dentro. “Mi alzo, vado al centro d’igiene mentale o al servizio per le tossicodipendenze (Sert) a ritirare la terapia, mangio, mi alleno e torno a casa. Non ho un soldo, non conosco nessuno, vivo chiuso in casa. Sono di nuovo un detenuto”, racconta. Oltre alla pensione d’invalidità civile, che gli è stata assegnata per via dei suoi problemi psichici, dallo stato non è arrivato alcun aiuto: “Ma quale reinserimento! Mi hanno abbandonato in mezzo alla strada in un mondo completamente diverso da quello che avevo lasciato. Certo, ho fatto tanti errori nella mia vita, ma ho anche pagato quel che dovevo pagare. Perché non possiamo rimettere la palla al centro e ricominciare da zero?”. Santo e Nicola sono solo alcuni dei tanti ex detenuti che una volta fuori faticano a reinserirsi nella società. Lo stato dovrebbe prepararli alla libertà, ma molto spesso questo percorso manca. Lo sa bene anche Gianfranco De Gesu, a capo della direzione generale dei detenuti e del trattamento del dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap), che il 18 marzo ha inviato ai direttori di tutte le carceri italiane una circolare che aveva come oggetto proprio il “trattamento dei dimittendi”, le persone prossime alla liberazione. Dopo aver ricordato come “la cura delle dimissioni sia un tassello fondamentale per il percorso di inclusione sociale del detenuto”, De Gesu elenca una serie di provvedimenti ed enti pubblici che dovrebbero occuparsene. Tra questi vengono menzionati anche i consigli di aiuto sociale, a cui si raccomanda di comunicare la data d’uscita del detenuto “con almeno tre mesi di anticipo”. “Peccato che questi organi, di fatto, non esistano più”, fa notare all’Essenziale Monica Gallo, garante dei detenuti di Torino. Introdotti dalla legge sull’ordinamento penitenziario del 1975, i Consigli di aiuto sociale dovevano essere una cerniera tra carcere e mondo esterno. Tra i loro compiti c’era quello di favorire l’aumento delle visite negli ultimi mesi di carcere, aiutare i detenuti a riallacciare i rapporti con le loro famiglie, offrire corsi di avviamento professionale, trovare ai detenuti lavori dignitosi e utili al reinserimento nella società. Ma la legge è rimasta inapplicata, e quasi mezzo secolo dopo l’unico consiglio sociale ancora in funzione in Italia è quello di Palermo, che solo pochi mesi fa ha ripreso le sue attività sotto la guida del magistrato Antonio Balsamo. “Il consiglio non si riuniva da almeno vent’anni. Nemmeno io sapevo che esistesse”, racconta all’Essenziale. Oltre ai Consigli di aiuto sociale, ad accompagnare i detenuti verso il reinserimento dovrebbe essere anche la Cassa delle ammende. Istituita durante il ventennio fascista, è finanziata da due fondi: il fondo patrimonio, che raccoglie le somme derivanti dalle sanzioni pecuniarie disposte dal giudice, dalla vendita dei manufatti realizzati dai detenuti e dei corpi di reato non reclamati; e il fondo deposito, che conta sui soldi delle cauzioni ordinate dai magistrati e gli averi che non sono stati chiesti indietro da chi esce dal carcere. Le risorse raccolte servono a finanziare progetti di reinserimento sociale e lavorativo di detenuti, internati o persone sottoposte a misure alternative alla detenzione. Ma i reclusi che vengono davvero coinvolti in questi percorsi sono una minoranza. Secondo l’ultimo monitoraggio effettuato dalla stessa cassa delle ammende, al 15 gennaio solo 3.000 dei 9.000 destinatari individuati erano stati inseriti nel Programma nazionale per l’inclusione sociale delle persone in esecuzione penale, che offre percorsi di formazione e reinserimento lavorativo peri detenuti ed è il più importante dei quattro programmi nazionali finanziati dalla cassa e dalle regioni. Gli altri tre riguardano le misure alternative alla detenzione, il lavoro penitenziario professionalizzante e l’assistenza alle vittime di reato. Ma in totale coinvolgono appena altri 900 detenuti. “Il problema c’è, è innegabile”, ammette Sonia Specchia, segretaria generale della Cassa delle ammende. Per risolverlo, spiega, andrebbe migliorata la comunicazione tra i diversi soggetti pubblici che hanno il compito di dare concretezza ai progetti di reinserimento, che sono gli enti locali (regioni, comuni e aziende sanitarie), gli uffici interdistrettuali di esecuzione penale esterna (Uepe), i provveditorati regionali dell’amministrazione penitenziaria (Prap) e i centri per la giustizia minorile. Una selva di uffici e burocrazia di cui detenuti ed ex detenuti sanno poco o niente, e in cui molti progetti per il loro reinserimento finiscono per perdersi. “Quello che possiamo fare noi”, dice Specchia, “è comunicare che la persona sta uscendo e ha seguito un percorso, ma poi la presa in carico la fa il territorio. E qui spesso manca l’organizzazione. Dobbiamo migliorarla per aumentare l’efficacia e l’efficienza dei nostri programmi. Perché un maggior reinserimento sociale dei detenuti significa anche maggior sicurezza, per tutti”. Tra i vari programmi della cassa delle ammende ce n’è uno che punta a favorire l’accesso alle misure alternative al carcere, cioè la liberazione anticipata, la semilibertà (la possibilità per il detenuto di trascorrere parte della sua giornata fuori dal carcere), la detenzione domiciliare e l’affidamento in prova ai servizi sociali o a un datore di lavoro privato. Secondo il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, il ricorso alle misure alternative è fondamentale per favorire un reinserimento graduale nella società. Ma alcuni dati del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria mostrano che questi strumenti vengono utilizzati ancora molto poco. “Il 22 aprile”, spiega Palma, “nelle carceri italiane c’erano 1.252 persone condannate a una pena inferiore a un anno, 2.398 da uno a due anni, 3.837 da tre a quattro anni. Che ci fanno ancora lì? Dove sono le misure alternative di cui ci riempiamo tanto la bocca?”. Spesso vengono autorizzate solo grazie all’intervento dei garanti regionali e comunali dei detenuti o delle associazioni di volontariato. E in alcuni casi non bastano ad assicurare il reinserimento. Giovanni, che per ragioni di sicurezza chiede di tenere riservato il cognome, ha passato quasi undici dei suoi 38 anni nelle carceri di Poggioreale, Secondigliano, Larino di Campobasso, Benevento, Sulmona, Monza e Alessandria. Poi ha deciso di collaborare con la giustizia e ora sta scontando gli ultimi sei anni di pena ai domiciliari. Ad aprile del 2018 lo stato lo ha inserito nel programma protezione testimoni e lo ha aiutato a trovare la casa dove vive con la moglie e le due figlie di 16 e 14 anni. Poi, più nulla. “Mi sono ritrovato a non poter neanche pagare il condominio”, racconta. “Ero disoccupato, percepivamo solo un sussidio di 500 euro al mese per la disabilità grave di una delle mie bambine. Non sapevamo come andare avanti”. Nel 2020 Giovanni è uscito dal programma di protezione e si è messo in cerca di un lavoro con cui mantenere la famiglia. Lo ha trovato pochi mesi dopo, ma solo grazie alla Caritas: “Mi hanno segnalato un tirocinio al banco alimentare, dove poi sono stato assunto e lavoro ancora oggi. Se non mi avessero aiutato loro probabilmente sarei ancora disoccupato, perché una volta fuori lo stato ti abbandona. Se non sei forte e non hai nessuno che possa aiutarti sei con le spalle al muro, puoi solo tornare a commettere reati”. Anche Antonio Falcone la pensa allo stesso modo. Ha 28 anni ed è originario di Pollena Trocchia, piccolo comune a pochi chilometri da Napoli. Ha trascorso tredici mesi dietro le sbarre a Poggioreale e Aversa, per alcuni reati minori. Poi ha conosciuto Pietro Ioia, il garante dei detenuti di Napoli, che lo ha aiutato a trovare un lavoro e ha ottenuto l’affidamento in prova ai servizi sociali. Ora ripara motociclette in una piccola officina. “Sono uscito il 4 febbraio”, racconta, “e il 5 ero già al lavoro. Ma se non ci fosse stato zio Pietro (come lo chiama lui, nda) avrei dovuto farmi altri 32 mesi di carcere. Sono molto fortunato, tanti ragazzi come me non hanno questa possibilità”. Falcone ricorda bene il giorno in cui è uscito di prigione: “È una sensazione che non sì può spiegare, bisogna viverla. Per un ex detenuto l’impatto con la libertà è molto forte, fa male. Il lavoro è l’unico modo per gestirlo e riuscire a farcela. Se quando esci resti solo e disoccupato, è molto probabile che tornerai a delinquere”. I dati sulla recidiva sono forse gli unici utili a valutare l’operato dello stato per il reinserimento dei detenuti, e sono tutt’altro che positivi. Secondo le statistiche fornite dal dipartimento di amministrazione penitenziaria, oltre 25mila persone detenute al 31 dicembre erano già state in carcere almeno una volta,18.341 fino a quattro volte, 5.649 da cinque a nove, 1.560 oltre dieci. Spesso, insomma, il percorso di reinserimento non c’è stato o non ha funzionato, e il detenuto alla fine è tornato dietro le sbarre. Secondo Mauro Palma questi dati possono essere interpretati anche in un altro modo: “Quando si parla di recidiva lo si fa sempre per mostrare quanto sia stata inutile l’azione fatta all’interno del carcere. Ma va anche detto quanto è respingente la non azione al di fuori del carcere. La verità è che finché stanno dentro c’è ancora una qualche attenzione per i detenuti. Ma poi, una volta dimessi, per lo stato non esistono più”. Come Giuseppe, 55 anni, 22 trascorsi in una cella del carcere Opera di Milano. Quando è uscito, nel dicembre 2019, non aveva una casa, un lavoro e persino un documento. La carta d’identità l’ha avuta solo nel maggio 2021, quasi un anno e mezzo dopo, con la residenza fittizia all’indirizzo messo a disposizione dal comune di Milano, visto che viveva ancora per strada, come tanti altri ex detenuti in tutta Italia. La sua storia l’ha raccontata nella puntata del 23 settembre della trasmissione Radio Carcere, in onda su Radio Radicale: “Dormiamo nei sacchi a pelo sotto ai porticati, mangiamo alla mensa dei poveri, ci laviamo nelle docce comunali. Questa è la vita che facciamo. Veniamo abbandonati a noi stessi, sbattuti in libertà in un mondo completamente diverso da quello in cui vivevamo prima di entrare in carcere. E io ho ancora paura della libertà. Cammino per strada e ho paura, vado in metropolitana e ho paura, entro in un baro in un negozio e ho paura. Ora capisco quelli che si buttano sotto a un treno o tornano a delinquere per passare l’inverno al caldo in cella. Se fuori è così, tanto vale starsene dentro”. Il tormentato superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari di Alessandro Monti* Il Manifesto, 30 aprile 2022 La guerra in Ucraina ha oscurato la recente condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) al Governo italiano per trattamenti inumani e degradanti. La sentenza impone di risarcire i danni morali a Giacomo Seydou Sy (classe 1994). Il quale, affetto da gravi patologie psichiche, non è stato messo in condizione di curarsi in una struttura sanitaria esterna al carcere di Rebibbia, dove invece è restato detenuto per due anni senza poter ricorrere. Un caso emblematico delle distorsioni del nuovo sistema di esecuzione delle misure di sicurezza nei confronti di malati di mente autori di reato, ritenuti socialmente pericolosi. Il sistema si basa sulle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems) da aprire in tutte le regioni al posto degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg) che a metà degli anni Settanta hanno sostituito i vecchi “manicomi criminali” creati durante il fascismo in 5 regioni (Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Campania, Sicilia) dove venivano reclusi, senza limiti di tempo, i “rei folli”. Gli Opg sono restati a lungo operanti malgrado reiterati casi di malati detenuti in condizioni fatiscenti, privi di adeguate cure e di rispetto delle norme igienico-sanitarie. La loro chiusura è stata disposta solo con le leggi 9/2012 e 81/2014 che hanno cambiato finalità e modalità delle misure di sicurezza: da detentive a terapeutico riabilitative. Il giudice le deve adottare provvisoriamente, come ultima ratio, in assenza di alternative meno restrittive. Il nuovo assetto delle Rems regionali - che debbono ospitare non più di 20 malati e rispondere ad appositi requisitisi fonda su centralità di cure riabilitative personalizzate, territorialità ed esclusività della gestione sanitaria. Il Servizio di Salute Mentale delle Asl ricovera il malato nell’area di residenza per evitargli un eccessivo sradicamento e favorire il turn-over. L’intento è tutelare insieme due diritti fondamentali della persona garantiti dalla Costituzione: il diritto del malato a ricevere le cure necessarie e il diritto delle potenziali vittime di aggressione a essere protette mediante la sorveglianza del malato pericoloso. una riforma ineccepibile sulla carta, sottovalutata però nella complessità di realizzazione. Resistenze delle realtà locali e del personale proveniente dagli Opg; inadeguato coordinamento dei soggetti coinvolti a livello centrale e periferico; eccesso di disposizioni amministrative (a volte sovrapposte) in materia riservata alla legge; errori di valutazione del fabbisogno strutturale e finanziario, hanno concorso a rallentarne la piena operatività e il corretto funzionamento. I numeri mostrano lo stato di inattuazione della riforma. Se gli Opg, con una capienza di 1322 posti, al 30 giugno 2010 ospitavano 1547 detenuti, le nuove Rems, distribuite su tutto il territorio nazionale (tranne in Umbria, Molise e Val d’Aosta), alla data del 31 luglio 2021 erano 36 con appena 652 posti (a regime, 740). Del tutto insufficienti, dunque, ad accogliere i già internati negli Opg e le nuove assegnazioni. Inevitabili le lunghe attese dei malati in carcere (in media 304 giorni) che in complesso oscillavano tra 750 (secondo il Dipartimento Affari Penitenziari) e 578 (per la Conferenza delle Regioni), la maggior parte (78%) concentrata in Campania, Lazio, Puglia, Calabria e in Sicilia che da sola ne aveva ben 172. Né si dispone di soluzioni alternative che il magistrato possa adottare ove si attenui la pericolosità dell’infermo: le liste d’attesa sono formate non per gravità ma in ordine cronologico e scarseggiano appropriati luoghi di cura esterni alle Rems. Al riguardo pesa il modesto livello di risorse destinate ai servizi di salute mentale: appena il 2,9% degli stanziamenti per tutto il Ssn. Rischia così di protrarsi in modo incontrollato la detenzione di infermi di mente, fonte di soprusi e illegalità più volte segnalati dal Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Trattandosi di casi analoghi a quello del giovane Giacomo Seydou Sy, se denunciati alla Cedu, i periodi in carcere saranno qualificati inumani e degradanti, vietati dall’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. E sono già pendenti presso la Corte vari ricorsi che non potranno che essere accolti con ulteriori condanne dell’Italia e della sua immagine nel mondo. Per fronteggiare questa deriva servirebbero almeno 60 Rems, con 1800 posti letto (3 ogni 100 mila abitanti). E per averle non basta che il governo eserciti i poteri sostitutivi nei confronti delle regioni inadempienti e stanzi nuovi fondi. Occorre rimuovere le richiamate criticità adottando i provvedimenti indicati dalla Corte Costituzionale nella recente sentenza 22/2022 che ha confermato la costituzionalità della riforma. A partire da un più ampio coinvolgimento del Ministero della Giustizia nella programmazione del fabbisogno strutturale e finanziario e nel coordinamento e monitoraggio del funzionamento delle Rems, in linea con l’artico- 10110 della Costituzione che riserva al Guardasigilli la competenza in materia di “organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”. Per scongiurare altre censure della Cedu, resta cruciale una più chiara definizione dei poteri della magistratura nel trattamento degli internati ai quali riconoscere maggiori strumenti di tutela giurisdizionale. La riforma, però, potrà dirsi compiuta solo quando saranno superati i pregiudizi scientifici e culturali su curabilità delle persone affette da patologie psichiche, possibilità di guarire e reinserirsi nella società civile. *Professore Ordinario di Teoria e politica dello sviluppo, già Facoltà di Giurisprudenza, Università di Camerino Convegno nazionale dei Cappellani carcerari: “Un ponte tra detenzione e libertà” ansa.it, 30 aprile 2022 Si prendono cura degli uomini che hanno bisogno di un “soffio di attenzione”. Si definiscono il “ponte tra mondo esterno e quotidianità chiusa tra quattro mura”. Sono i cappellani carcerari. Una figura chiave in tutti i 190 istituti penitenziari italiani. Da lunedì, fino al 4 maggio, avranno modo di riunirsi nel IV convegno nazionale dei cappellani e degli operatori per la Pastorale Penitenziaria, in programma ad Assisi presso la Domus Pacis (Santa Maria degli Angeli). Il tema dell’incontro è “Cercatori instancabili di ciò che è perduto”. Un titolo quanto mai calzante. “Siamo quelli che vanno a cercare l’uomo che ha bisogno di essere rialzato e aiutato”, sottolinea don Raffaele Grimaldi, ispettore generale cappellani carceri italiane, durante la presentazione del programma del convegno al Regina Coeli di Roma. “Siamo tutti sulla stessa barca - continua - ma talvolta qualcuno cade e ha bisogno di essere aiutato”. Anche la scelta di Assisi non è casuale. “Qui San Francesco - spiega Grimaldi - si è convertito dopo aver baciato il lebbroso e noi nelle carceri è come se noi baciassimo i lebbrosi ogni giorno”. La pandemia, poi, “ha avuto un forte impatto sulle carceri italiane”, spiega Claudia Clementi, direttrice del carcere di Regina Coeli. Ha complicato ancora di più la vita sia per i detenuti che per gli operatori. Nonostante questo, “i cappellani ci sono sempre stati”, come racconta padre Vittorio Trani, cappellano del carcere di Regina Coeli. “La domenica non si può più fare la messa tutti insieme ma abbiamo sempre trovato il modo di far arrivare la preghiera in tutti i settori del carcere”, ribadisce padre Vittorio. Una figura, quella dei cappellani, che sta provando ad evolversi insieme alla popolazione carceraria. Secondo l’ultimo rapporto Antigone sono 17.344 i detenuti stranieri, cioè il 32,5%. “Abbiamo a che fare con diverse fedi, nonostante questo, nessuno viene escluso, il cappellano accoglie tutti”, sottolinea padre Grimaldi. E anche quando la detenzione sta per finire, il cappellano si dimostra il collante tra dentro e fuori. “Sono preziosissimi perché riescono a offrire un vero e proprio supporto materiale, ma anche a costruire percorsi di reinserimento con prospettive future”, racconta la direttrice del carcere. Lo stesso vale per molti detenuti stranieri che sul territorio spesso non hanno riferimenti abitativi o familiari. “Col cappellano si individuano risorse che vado a supplire anche a queste carenze”, conclude la direttrice del carcere. Riforma della giustizia, la corsa a ostacoli dei magistrati di Giuseppe Pignatone La Repubblica, 30 aprile 2022 È come se tre atleti dovessero gareggiare correndo sulla pista, ma due di loro (il francese e il tedesco, nel nostro caso) avessero sulle spalle uno zaino di 10 chili, mentre il terzo (l’italiano) dovesse portarne uno di 80 chili. Nel suo recente libro “Il governo dei giudici” (Laterza) il professor Sabino Cassese indica nell’eccessiva durata dei processi una delle ragioni principali, se non la fondamentale, della critica a tutto campo da lui rivolta alla magistratura, individuata come la prima responsabile della crisi della giustizia nel nostro Paese. A sostegno delle sue affermazioni, Cassese riporta le statistiche comparate con quelle di Francia e Germania: numeri ricorrenti nel dibattito sulle riforme già approvate dal Parlamento e richiamate anche a sostegno delle modifiche dell’ordinamento giudiziario attualmente all’esame delle Camere. Come ho avuto modo di dire nel corso di un dibattito con l’autore, sul sito di questo giornale, si tratta di statistiche che, relativamente al settore penale, conducono a conclusioni sbagliate perché non tengono conto di alcuni elementi fondamentali. Il primo, decisivo, elemento è il fatto che mediamente in un anno, un Pubblico ministero italiano prende in carico un numero di procedimenti otto volte superiore a quello assegnato, in media, ai suoi colleghi europei. È come se tre atleti dovessero gareggiare correndo sulla pista di uno stadio, ma due di loro (il francese e il tedesco, nel nostro caso) avessero sulle spalle uno zaino di 10 chili, mentre il terzo (l’italiano) dovesse portare uno zaino di 80 chili. E le differenze non finiscono qui, perché solo in Italia sono previsti per ogni procedimento tre gradi di giudizio: ciò significa, tornando al nostro esempio, che per completare la gara l’atleta italiano deve fare tre giri di pista con i suoi 80 chili addosso, mentre gli altri due tagliano il traguardo dopo un solo giro, o al massimo due, dato che Francia e Germania prevedono filtri severi che ostacolano il ricorso in Appello e, ancor di più, in Cassazione. Tanto è vero che le Corti di Cassazione di quei Paesi emettono ogni anno meno di un decimo delle sentenze (oltre 55.000) pronunciate dalla nostra Corte Suprema. In queste condizioni non c’è da meravigliarsi se l’atleta italiano non sempre arriva al traguardo o lo raggiunge con grande fatica e con enorme distacco dai colleghi degli altri Paesi. Al di là della “sceneggiatura” dialettica, questi dati sono noti a tutti coloro che discutono di giustizia da riformare, eppure sono ignorati sia nel dibattito politico, sia in quello culturale. Naturalmente siamo tutti consapevoli che un ipotetico intervento di modifica trova limiti invalicabili in alcune norme della Costituzione. Come l’articolo 112 (obbligatorietà dell’azione penale) che impone al Pm di sottoporre al vaglio di un giudice la definizione di qualsiasi procedimento, anche in caso di archiviazione; o come l’articolo 111, in forza del quale è sempre ammesso il ricorso in Cassazione per violazione di legge contro tutte le sentenze e contro ogni provvedimento sulla libertà personale. Per incidere veramente sulla durata dei processi - riducendo, come giustamente chiede il professor Cassese, lo squilibrio attuale tra “domanda e offerta” di giustizia - si dovrebbe intervenire con urgenza sul versante della “domanda” operando una vasta depenalizzazione. Una revisione severa, non limitata alle sole questioni bagatellari di cui è costretta a occuparsi perfino la Cassazione, ma che abbia per oggetto anche le tantissime denunce presentate in sede penale, per esempio configurando reati di truffa o di appropriazione indebita o di abuso d’ufficio, per questioni sostanzialmente di natura civilistica o amministrativa. È chiaro che per fare ciò occorrerebbe superare l’opposizione di interessi ben rappresentati in Parlamento e nel Paese e, soprattutto, invertire quella tendenza consolidata, non solo in Italia, per cui a fronte di nuovi problemi e alla richiesta dei cittadini di far valere sempre nuovi diritti, il legislatore si limita a creare nuove figure di reato, così alimentando nell’opinione pubblica - come riconosce lo stesso Cassese - l’illusione dell’efficacia quasi taumaturgica della giustizia penale. Ma così non è, né può essere. Inoltre, andrebbe presa in esame con la dovuta serietà una profonda revisione del sistema delle impugnazioni, e in particolare dell’appello, anche rinunziando ad alcune delle garanzie oggi esistenti. Una revisione che, contrariamente a quanto spesso si dice, non metterebbe in pericolo alcun basilare principio di civiltà giuridica, a meno che qualcuno voglia dubitare della civiltà di sistemi come quello francese o tedesco. Se invece, con una scelta del tutto legittima, di natura squisitamente politica, non si ritengono accettabili queste opzioni, non è serio addossare alla sola magistratura, che pure ha le sue colpe, la responsabilità dei tempi lunghi dei processi. Riforma della giustizia, occasione mancata di Rosaria Manconi La Nuova Sardegna, 30 aprile 2022 A un anno esatto dalla adozione del testo base la Camera ha approvato il tanto atteso e controverso disegno di legge - con delega al governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario. Disegno di legge che introduce nuove norme, immediatamente precettive, che investono il Consiglio superiore della magistratura, l’organo di autogoverno dei giudici. Il provvedimento passa ora all’esame del Senato dove il dibattito potrebbe essere meno scontato rispetto al primo passaggio per i mal di pancia della Lega, di Forza Italia e di Italia Viva, molto critici sulla riforma. Ciò che potrebbe rendere necessario il ricorso al voto di fiducia. Intanto, accolto l’emendamento della commissione giustizia che ha eliminato il sorteggio dei collegi elettorali, è stato superato il primo punto critico, quello relativo al sistema elettorale, sul quale le toghe avevano alzato gli scudi. Sarà il Guardasigilli a determinarli con decreto da emanare almeno quattro giorni prima -sentito il Consiglio superiore della Magistratura- sulla base del principio di contiguità territoriale ed un mix tra maggioritario e proporzionale. Approvato senza opposizioni anche il divieto per i magistrati di esercitare funzioni giurisdizionali e ricoprire, in contemporanea, cariche elettive - locali o nazionali - e governative. Niente più “porte girevoli” dunque che consentivano il ricollocamento, anche con funzioni direttive, dopo il passaggio in politica. Previsto, inoltre, un solo cambiamento di funzione tra requirente e giudicante nel penale e la riduzione del numero dei magistrati fuori ruolo, ora 200, da determinarsi con i decreti attuativi. L’accesso alla magistratura sarà in futuro consentito sempre tramite concorso pubblico ma direttamente dopo aver conseguito la laurea in Giurisprudenza, senza quindi l’attuale obbligo di frequenza delle scuole di specializzazione. Stop anche alle cosiddette “nomine a pacchetto”, ovvero l’assegnazione degli incarichi direttivi e semidirettivi ora si deciderà in base all’ordine cronologico dei posti scoperti. Istituito, inoltre, il fascicolo personale che, nel contesto delle valutazioni di professionalità, comprenderà tutta l’attività svolta dal magistrato, con particolare attenzione per la tenuta dei vari provvedimenti assunti anche nei successivi gradi di giudizio. Ecco quindi, in sintesi, quella che non può propriamente definirsi una “rivoluzione copernicana”, né una risposta adeguata allo smarrimento che ha investito la magistratura dopo le rivelazioni di Palamara. Si tratta di poche modifiche di mero buon senso ma di piccolo cabotaggio. Una ulteriore occasione mancata che mantiene inalterati i problemi della magistratura e quelli della giustizia. Niente che sia in grado di superare il problema della immensa caduta etica della magistratura. Prevedibilmente poco o nulla potrà questa riforma su quel dilagante malcostume esploso dopo i fatti dell’Hotel Champagne che hanno provocato effetti devastanti sulla fiducia dei cittadini nelle istituzioni giudiziarie. Nel frattempo l’Associazione nazionale magistrati, contesta la riforma all’esame del parlamento e minaccia lo sciopero in quanto le norme introdotte accentuerebbero la strutturazione gerarchica, i poteri ai capi degli uffici ed utilizzerebbe la leva del disciplinare per controllare i magistrati. Premesso che i risultati delle valutazioni periodiche fanno dormire sonni beati ai magistrati dato che meno del 2% di queste verifiche ha avuto un esito negativo, resta il fatto che il sindacato delle toghe per un verso si è rivelato incapace di una seria autocritica e dall’altra di proporre idee capaci di dimostrare un’assunzione di responsabilità rispetto alla crisi che l’ha travolta. Troppo impegnata a difendere le proprie posizioni di privilegio non si è scorto nel dibattito interno alla magistratura la volontà di abbandonare l’arroccamento nella sua “cittadella corporativa”, al quale, al contrario, sembra non voler affatto rinunciare. Vedremo cosa succederà domani quando il Comitato direttivo Centrale di Anm deciderà se scendere o meno in piazza. I cittadini intanto continueranno a non capire ed a subire l’eterna lentezza e le tante distorsioni del sistema giudiziario. La riforma della giustizia e le vuote carte della Cartabia di Massimo Carugno Il Riformista, 30 aprile 2022 Quando se n’è sentito parlare per la prima volta siamo sobbalzati sulla sedia scossi da un sussulto di felicità. Finalmente, abbiamo pensato, si metterà mano a uno dei servizi più importanti del paese, illusi che per riforma della giustizia si intendesse l’ammodernamento del vasto mare delle funzioni con le quali lo Stato dispensa ai cittadini la risoluzione delle controversie, mediante quel mistico dattiloscritto chiamato sentenza. Poi abbiamo letto la proposta Cartabia, ci siamo stropicciati gli occhi e siamo stati richiamati alla realtà dalla brutalità del risveglio. Mai come in questo caso il nome del Ministro si mostra onomatopeico rispetto al suo progetto: una montagna di “carta” vuoto di ogni contenuto innovativo. Perché in effetti non si tratta di una riforma della giustizia ma di una riforma della magistratura, anzi, una riforma del Consiglio Superiore della Magistratura, anzi, (e qui sprofondiamo nell’abisso) una riforma del sistema di scelta dei componenti dell’organo di autogoverno dei giudici. La cosa non dovrebbe sorprendere perché non è da oggi che le toghe con l’ermellino quando si parla di “giustizia” intendono solo quella parte del sistema che riguarda loro, la loro attività e i loro interessi. Non è una novità che nelle teste ornate del tocco non c’è grande cura di chi sta dall’altra parte della barricata. E fa niente che c’è una utenza che attende un sevizio e un altro ordine professionale (quello degli avvocati) che pensa, o si illude, di poter collaborare per rendere dei buoni risultati al paese. Ma questa riforma proveniva dalla politica e da essa era stata ispirata e incoraggiata ed allora non era innaturale che ci si aspettasse qualcosa di diverso, capace di risolvere i problemi della “giustizia” che sono ben diversi dai problemi dei giudici. Eppure girando un po’ a naso qualcosa da fare non è difficile da individuare. Per il settore penale ci sarebbe, per esempio, da dare una sfrondata all’interminabile catalogo dei reati sparsi tra il codice e le legislazioni speciali. Molti sono inutili perché sanzionano comportamenti che sarebbero più efficacemente repressi in sede amministrativa. Per esempio quelli chiamati “formali”, derivanti cioè dalla semplice condotta e senza che vi sia un evento lesivo a danno di una persona o della collettività (per l’inosservanza di norme di sicurezza o amministrative). Uno sfoltimento dei reati porterebbe ad una riduzione dei fascicoli e quindi a uno snellimento dei processi e dei tempi. E poi magari si potrebbe pure pensare di tornare indietro e cancellare quell’obbrobrio delle recenti modifiche della prescrizione fatte, in nome della celerità dei processi, in ossequio ai principi più giacobini del giustizialismo populista grillino. Quanto al processo una limata vigorosa ai casi di custodia cautelare, per ricordarci che una persona è colpevole solo dopo una sentenza definitiva e che le condanne dell’opinione pubblica nei processi mediatici (che in questo paese siamo soliti fare molto prima) sono forche dalle quali non si esce mai vivo, non sarebbe sbagliata. E poi c’è il rapporto pubblico ministero - difesa. Non si tratta di separazione di funzioni o di carriere. Non basteranno a far vedere al giudice, i p.m. e le difese, con gli stessi occhi. I primi saranno sempre colleghi e le seconde un probabile intralcio al procedere della giustizia. Magari si potrebbe pensare alla figura della “Pubblica Accusa” all’americana. Avvocati, estranei all’ordinamento dei magistrati, che periodicamente, perché o eletti o nominati dalle istituzioni, vanno a svolgere il ruolo degli inquirenti. Magari, ma quando mai. E anche il settore della giustizia civile attende le sue riforme. Intasato di carte, ricorsi, citazioni, memorie, comparse, istanze e quant’altro se svoltasse verso una sostanziale ed assorbente oralità oltre ad una sostanziale semplificazione dei riti il processo civile andrebbe certamente incontro ad una riduzione dei tempi. Ricetta che non troverebbe una appagante degustazione senza il condimento della salsa della riduzione dei riti speciali o specialistici unificati in un’unica carta processuale. Tanto se quello ordinario si riesce a renderlo rapido quelli speciali e specialistici non avrebbero ragion di esistere. Ma con desolata rassegnazione sappiamo che tali linee di riforma non si faranno mai. Non perché non sono funzionali all’interesse della collettività ma perché non interessano ai giudici e a quei loro colleghi che affollano il Ministero e che ne costituiscono un agguerrito corpo tecnico la cui volontà spesso si sostituisce, o annulla quella politica. E allora vanno avanti le riforme che non servono a niente, le inutili riscritture del codice, il continuo calcolo e ricalcolo dei termini processuali, illudendo di voler abbreviare i tempi dei processi nell’interesse dei cittadini ma perseguendo il sottile, e neanche tanto nascosto, unico scopo di facilitare e semplificare il lavoro dei giudici, facendone tanti specialisti che con il gioco del “copia/incolla” possono sfornare sentenze a palate, come la catena di montaggio. È per questo che si sopprimono i Tribunali piccoli, chiudendo tutti e due gli occhi sul fatto che quelli chiusi, o in corso di chiusura, sono molto più efficienti, sotto tutti i punti di vista, dei grandi santuari metropolitani dove i giudici sono così tanti che ognuno si può specializzare in una branchetta del diritto e fare solo quello per tutta la vita. Mentre di quei cambiamenti che sarebbero necessari non si parla minimamente. Ma oramai non aspetta solo il cittadino, che nella giustizia ha sempre meno fiducia. C’è anche l’Europa alla finestra, in attesa di sapere se la montagna di euro da inviarci (anche per la giustizia), è meritata o meno. E sarà davvero da ridere quando gli racconteremo che la grande riforma della giustizia saranno le vuote carte della Cartabia. Alla giustizia italiana serve un Concilio Vaticano II di Alberto Cisterna Il Riformista, 30 aprile 2022 Una rivoluzione che guardi ai cittadini, ai loro bisogni. È di questo guardare negli occhi i reali bisogni di giustizia della società, di questo mettere da parte qualche decennio di pulsioni mitologiche e autocelebrative che il dibattito, dentro e fuori la magistratura, ha necessità. Tra le pieghe delle riforme approntate dal ministro Cartabia e tra gli obiettivi del Pnrr sta lentamente erodendo spazi una profonda ristrutturazione della giustizia nel nostro paese. Persino l’emergenza pandemica sta spingendo in modo sostanziale perché il servizio giustizia assuma una collocazione, come dire, meno tolemaica e più periferica nel complesso sistema delle istituzioni democratiche. L’introduzione dell’improcedibilità in appello e in cassazione; la prevista, massiccia erosione delle pendenze entro tempi rapidi; l’iniezione di un numero senza precedenti di collaboratori dei giudici per smaltire pratiche; due anni di trasformazione dei tribunali e delle corti in “sentenzifici” vuoti dalle aule deserte; e, ora, le pagelle di valutazione stanno inesorabilmente sospingendo gli apparati di giustizia verso l’angolo chiaroscurale di una posizione meno austera e appagante. Qualcuno lamenta, addirittura, che si vogliano privare i giudici di quarti di nobiltà istituzionale assimilandoli a una qualunque pubblica amministrazione. Senza neanche considerare che un processo è per ciascun cittadino né più né meno che una pratica di cui attende il disbrigo al pari di una licenza o di una concessione. Le riforme, e lo spirito laicizzante che le sospinge per la prima volta a ranghi serrati tra la politica, sembrano condannare le toghe a scendere dai piani alti della Repubblica e a dover far di conto con le drammatiche urgenze della nazione; urgenze che, sinora, erano state nei fatti sempre postergate rispetto alla primaria necessità di conservare integre le guarentigie della giurisdizione. Mancano migliaia di giudici rispetto alla domanda di giustizia, ma la geografia dei tribunali è intangibile e sperpera risorse; l’obbligatorietà dell’azione penale produce milioni di processi spesso inutili e bagatellari; le sentenze devono essere cesellate e, quindi, sono rade; i carichi di lavoro non possono compromettere i riti e le movenze di liturgie processuali spesso barocche. Tutto questo prevale e precede ogni altra istanza o necessità, perché ciò che conta è piuttosto l’immutabilità e l’intangibilità dell’apparato ideologico che sorregge e giustifica la magistratura in Italia. La giustizia avrebbe bisogno di un suo Concilio Vaticano II, di una rivoluzione che guardi ai “fedeli” e parli con essi per comprenderne le necessità e i bisogni. La Chiesa decise che l’officiante non avrebbe dato più le spalle ai credenti durante la celebrazione e che tutti gli altari sarebbero stati visibili e rivolti verso il popolo, costitutivo dell’Ecclesia e protagonista del mistero eucaristico. Un simbolo, ovvio, ma al pari la manifestazione tangibile di un cambiamento profondo. È di questo guardare negli occhi i reali bisogni di giustizia della società, di questo mettere da parte qualche decennio di pulsioni mitologiche e autocelebrative che il dibattito, entro e fuori la magistratura, ha una necessità estrema. Le discussioni sulla giustizia sono avvelenate da tre decenni dalla schizofrenia che tiene separate la declamazione astratta di principi che hanno al centro le istanze dei cittadini e la concreta conservazione iper-corporativa dello status quo. Al profilarsi di ogni progetto di riforma si alza la cortina fumogena dell’attacco all’indipendenza, della necessità di preservare l’autonomia; il tutto come un riflesso condizionato in risposta a una politica infida e complottista. Per la giustizia è la conseguenza peso di anni di politiche miopi, predatorie, antagoniste per interessi personali ad aver inquinato i pozzi e a spingere anche il più tranquillo e pacato dei giudici a metter mano alla pistola se sente parlare di separazione delle carriere o di controllo sull’azione penale dei quali, in fondo, non gli importa granché, ma che considera costitutivi del proprio dna costituzionale. Occorrerebbe un Concilio. Un luogo di consiglio per la conciliazione. Per tornare a riflettere sul semplice fatto che quasi tutti, praticamente tutti, i processi civili e penali che si celebrano ogni giorno nelle aule di giustizia riguardano casi minuti, vicende importanti per i cittadini, talvolta vitali per loro, ma pressoché tutte saldamente al riparo da condizionamenti e pressioni di sorta. Ed esposte, invece, all’inefficienza o alla onerosità dei carichi. Si è costruito un modello ideologico e culturale che rappresenta la cittadella giudiziaria come assediata ogni giorno da poteri forti, da politici intrallazzatori, da pervicaci depistatori. Che pur ci sono, come l’affaire Palamara e altro dimostrano, ma quei processi costituiscono un infinitesimo degli affari di giustizia e né questa autonomia né questa indipendenza hanno impedito nefandezze, anzi, Invece importa ai cittadini sempre, quasi sempre, una giustizia minuta che dovrebbe essere rapida, efficiente, sobria, mite, capace di risolvere i mille affanni della vita o di valutare con serenità devianze e errori. È facile obiettare che, in tanto questo “servizio” può essere reso, in quanto esista un corpus giudiziario autonomo, qualificato, indipendente. In realtà non accade quasi da nessuna parte in Occidente, ma è innegabile che questo assetto giovi a meglio garantire gli utenti. Tuttavia, ha un costo enorme che rischia di diventare insopportabile. La qualità della giustizia negli Stati uniti, nel Regno unito, in Francia o in Germania è pessima se rapportata a quella italiana, ma nessuno in quei paesi si sogna di dire che pone un freno allo sviluppo economico e sociale di quelle nazioni o crea gabbie giustizialiste. Già solo l’aver imposto la questione giustizia tra gli obiettivi del Pnrr dovrebbe far comprendere che la rinascita del paese non può avvenire in queste condizioni e, soprattutto, dovrebbe indurre a mettere da parte la solita litania corporativa, visto anche lo schiaffo assestato dall’Europa. Occorre, quindi, accettare gli aggiustamenti che l’efficienza complessiva del servizio impone e di cui ancora si parla pochissimo, presi come si è dalla fretta di approvare la nuova legge per l’elezione del Csm. Nel mare di questo vasto programma di riforme, le pagelle di professionalità dei giudici sono un affluente del tutto secondario. Ammesso che mai funzioneranno, può anche darsi che saranno scritte sulla pelle di qualche magistrato colpito da un rating basso per i suoi insuccessi, ma il loro inchiostro rosso viene distillato dalla vita delle persone che subiscono ingiustizie, che vedono i loro diritti negati o finanche la loro libertà compromessa da qualche sprovveduto e superficiale. A quanti dicono che la pagella “frenerebbe” i pubblici ministeri o i giudici occorre ricordare che quei freni sono posti a tutela dei cittadini e che la carriera disturbata di qualche magistrato vale certo un’ingiustizia in meno. Giovanni Salvi: “Lo sciopero dei magistrati è legittimo. Ma la riforma non è una schedatura” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 30 aprile 2022 Il procuratore generale della Cassazione: “Il nostro lavoro perde fascino ma non dev’essere una missione. Bisogna collaborare subito con l’Ucraina e la Corte internazionale nelle indagini sui crimini di guerra”. Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione, la Fnsi, sindacato dei giornalisti, l’ha incontrata dopo la pubblicazione delle linee guida sulla presunzione d’innocenza. Condivide l’allarme sull’informazione? “La preoccupazione è in effetti diffusa. La legge ha presupposti giusti, ma pone problemi non da poco. Ad esempio, regolamenta solo pm e polizia giudiziaria ma non le parti private, che non hanno vincoli di correttezza, e nemmeno come operino i giornalisti. Il documento della Procura generale, che si può leggere sul nostro sito, cerca di “governare” questi problemi”. Alcuni hanno parlato di legge bavaglio, liberticida… “Non credo che siano questi i termini in cui si può discuterne. Certo, nella sua applicazione occorre uno sguardo attento ai molti interessi in giuoco, primo tra tutti l’informazione, che deve essere piena e completa. Comunicare non è un diritto del magistrato, ma un dovere dell’ufficio da esercitare nel rispetto della dignità delle persone, soprattutto degli imputati. Il processo mediatico invece è inaccettabile e inquina quello giudiziario”. I magistrati si chiuderanno nel silenzio per timore di sanzioni disciplinari? “Si teme, in verità non solo dai magistrati, che il rischio disciplinare possa ingessare la comunicazione. Capisco, e infatti la procura generale aveva proposto una norma più precisa, tarata sulla lesione oggettiva della dignità dell’imputato, sul principio costituzionale di necessaria offensività della condotta punita. Bisognerà evitare sanzioni per violazioni meramente formali. Ne riparleremo quando la legge di riforma sarà approvata. Anche le linee guida rinviano a tale momento”. In generale, sta aumentando il controllo politico sulla magistratura? “Vi è preoccupazione per gli accertamenti sulla “produttività” e sul grado di conferma delle decisioni. Su questo si dovrà essere molto attenti anche nella fase dell’attuazione, perché non credo che la riforma punti a un controllo dei provvedimenti, magari su base quantitativa. Sarebbe un grave errore. È evidente che occorre rassicurare chi compie scelte difficili dalla preoccupazione di un controllo troppo occhiuto e che addirittura finisce nel merito della decisione. Vi sarebbe davvero il rischio della lesione dell’autonomia del magistrato, che non è un suo privilegio, ma una garanzia per tutti. Del tutto diversa è la conoscenza degli aspetti organizzativi del lavoro giudiziario. Trovo positivo che finalmente si affacci anche nell’organizzazione della giustizia l’idea che è necessario conoscere per decidere. Però ciò deve avvenire innanzitutto sulla base di dati attendibili. Su questo la legge di riforma fa un passo avanti importante. La giustizia italiana è molto indietro nella conoscenza dei dati. Questo è un problema, perché non mette il decisore, sia esso il legislatore o il magistrato quando opera sull’organizzazione dell’ufficio, nelle condizioni di valutare l’impatto delle scelte effettuate. L’organizzazione di un ufficio comporta molte valutazioni e avere una corretta conoscenza dell’ufficio e dei flussi dei procedimenti è di grande importanza”. Qual è un esempio di questa arretratezza? “Le statistiche sulle assoluzioni, che consideravano tali anche istituti come l’oblazione, la remissione di querela, la messa alla prova dell’imputato, che assoluzioni non sono e quindi non possono essere considerati casi di cattivo esercizio dell’azione penale, come invece si è fatto. Il ministero ha riesaminato il dato e ha corretto quello originariamente fornito e di questo abbiamo dato atto nelle relazioni del 2021 e di quest’anno. Anche l’Eurispes è giunto alle stesse conclusioni, nella ricerca condotta per conto delle Camere Penali”. Come mai la magistratura è in subbuglio per una riforma invocata da tempo e che ha un largo consenso parlamentare? “La preoccupazione della magistratura dipende da due fattori. La discussione pubblica è stata caratterizzata da forti polemiche contro la magistratura, quasi che la riforma potesse essere occasione per regolare conti. Inoltre il susseguirsi di proposte di emendamenti, anche di segno opposto e nella stessa maggioranza, ha reso difficile cogliere quale fosse la direzione reale verso cui si andava. Alla fine, credo, non vi è stato molto tempo per valutare l’impatto di alcune modifiche. Ciò genera preoccupazione, anche perché il diavolo si nasconde nei dettagli”. Per esempio nel fascicolo del magistrato, che taluni definiscono schedatura? “Non credo che questa definizione sia corretta. Premetto che la valutazione dei magistrati è già molto migliorata rispetto al passato. Quando sono entrato in magistratura, le valutazioni erano stereotipate, con formule ridicole tipo “si distingue per il tratto signorile”. Ora i pareri sono costruiti su criteri oggettivi dell’attività svolta. Inoltre essi vengono utilizzati in molte occasioni, non solo per le valutazioni di professionalità, come nei concorsi interni o per gli incarichi direttivi”. Ma solo pochi vengono valutati negativamente… “L’obiettivo comune è fare meglio, ma il rischio è basare la valutazione del magistrato non su come svolge il suo lavoro, ma sul risultato in sé. Criterio non solo difficile da accertare in concreto, ma con effetti paradossali”. In che senso? “Il giudice non ricostruisce i fatti del processo in vitro, nemmeno l’intelligenza artificiale ci riesce. Il processo non è un esperimento in laboratorio, che conferma l’ipotesi, oppure la smentisce. Il diritto è evoluzione, talvolta le decisioni più coraggiose sono inizialmente sconfessate dalle corti superiori. Tanto basta per dire che non sei un buon magistrato? Con questo parametro, solo i magistrati delle corti superiori sarebbero infallibili. Il percorso per la valutazione, disegnato dalla riforma in corso di approvazione, è molto complesso e prevede il concorso di molti attori. Non credo che essa possa portare a una sorta di giudizio statistico, tanto meno basato solo sulle difformità, sugli esiti. Vedremo il testo definitivo e se vi saranno spazi per interpretazioni che non facciano sentire ancora più solo il magistrato nella responsabilità delle gravi decisioni che deve prendere ogni giorno”. Si discute di sciopero: che ne pensa? “Non entro nel merito, è una decisione che spetta all’Anm”. Qualcuno - politici, giuristi - mette in discussione la legittimità dello sciopero per chi si proclama potere dello Stato… “Credo che la questione vada posta sul piano dell’opportunità, non della legittimità. È invece comunque molto importante che i magistrati facciano sentire la loro voce, rendano chiare le loro preoccupazioni. La magistratura deve essere una componente centrale del dibattito pubblico sulla giustizia”. C’è chi dice che è una riforma contro le correnti, chi a favore. Lei è stato molto impegnato nell’associazionismo giudiziario, che ne pensa? “L’obbiettivo della riforma è certamente quello di ridurre il peso delle correnti all’interno del CSM. Lo fa con molte misure, che nascono dall’esperienza di questi anni. Bisogna vedere se saranno efficaci. Ricordo che anche la modifica della legge elettorale agli inizi degli anni 2000 aveva questo obiettivo. In realtà ha finito per rafforzare il peso delle segreterie delle correnti. L’attuale riforma propone un meccanismo misto, che prevede anche un recupero di una quota proporzionale. È certamente una soluzione di equilibrio. Le cose sono complesse. Il dibattito nella magistratura è legato al rapporto con la società. Le correnti, anche in passato, hanno avuto un doppio volto: elemento di crescita culturale e di rappresentanza dei diversi orientamenti ideali, presenti tra i magistrati come per tutti i cittadini, ma anche strumento di governo con connotati corporativi. Bisogna riuscire a mantenere il primo, che è fattore importante di indipendenza”. Cosa è cambiato, allora, per arrivare alla crisi attuale? “Certamente si pagano errori del passato. Gli straordinari successi contro terrorismo e mafia, senza stracciare le garanzie fondamentali, hanno fatto crescere generazioni di magistrati appassionati. Il supporto dell’opinione pubblica è stato grande ma esso può essere pericoloso: i magistrati devono avere la fiducia dei cittadini ma non cercarne il consenso, anzi a volte essi devono prendere decisioni sgradite alla maggioranza; essi tutelano gli individui anche contro l’opinione della maggioranza. Il clima di forte conflitto da parte di settori della politica, soprattutto nei processi sulla pubblica amministrazione, ha condizionato anche lo sguardo critico al nostro interno. E la scelta del criterio del merito nell’evoluzione della carriera ha scatenato una competizione mai vista”. Bisogna tornare indietro, alla prevalenza dell’anzianità? “Un dirigente non si improvvisa, ma la spinta a costruire carriere altera i rapporti interni alla magistratura, disegnati dalla Costituzione. È un equilibrio difficile, che la riforma prova a ridefinire. Non vorrei che si perdesse ciò che si è guadagnato: gli uffici sono più efficienti e organizzati di un tempo, non c’è paragone. Vedremo se la riforma riuscirà a bilanciare queste due diverse esigenze”. Come mai nei concorsi di magistratura gli idonei sono così pochi? “La magistratura ha perso appeal. Forse ciò che noi offriamo ai giovani non è competitivo con altre professioni, i migliori si rivolgono altrove. Si entra ormai molto tardi, nel frattempo i giovani hanno trovato strade diverse, e poi ciò che era appetibile a 24 anni non lo è più a 34. Su questo la riforma opera con determinazione, prevedendo nuovamente il concorso subito dopo la laurea. Credo sia una scelta molto positiva, anche per ridurre il peso del censo nelle possibilità di accesso”. Manca la passione? “In altri tempi c’era una spinta emotiva data dai grandi processi. Non dobbiamo averne rimpianto, perché quella emergenza continua fu devastante per il Paese. La magistratura in quel periodo esercitava forte attrazione. Si facevano le cose per passione, non per accumulare medagliette. Non è detto che sia solo un male: caricare questo lavoro di un’idea messianica può far dimenticare i limiti”. Quali? “Siamo giudici, non legislatori supplenti; applichiamo il diritto e non l’etica”. Anche la percezione della magistratura è cambiata? “Il nostro osservatorio disciplinare fa capire come cambia il rapporto tra magistratura e società. La Procura generale è sommersa di esposti e denunce di cittadini contro magistrati, soprattutto nel settore civile per questioni attinenti famiglia e minori, fallimenti, esecuzioni immobiliari. La punizione del giudice viene vista come un quarto grado di giudizio”. Non sarà anche colpa dell’incertezza delle decisioni giudiziarie? Ne ha parlato anche il presidente Mattarella. “Non c’è dubbio, ma non è solo patologia. Il giudice decide non sulla lettera della legge, ma con interpretazioni orientate da molte fonti, anche sovranazionali. Non a caso la certezza oggi viene declinata come prevedibilità: il cittadino deve sapere come regolarsi, come prendere decisioni. E ciò non solo nel settore penale. È molto importante la professionalità del magistrato. Per evitare esondazioni, serve consapevolezza del limite da parte di chi incide sulla vita delle persone. La decisione può anche essere in contrasto con i precedenti, ma la motivazione deve essere molto attenta e dare conto delle ragioni del mutamento di indirizzo. Torniamo così al tema di cui abbiamo prima discusso: è utile comprendere se gli orientamenti cambino e come i magistrati giudichino, ma occorre che ciò resti nell’alveo dell’assoluto rispetto della decisione del singolo giudice o pubblico ministero”. Che si può fare? “Bisogna operare per la prevedibilità delle decisioni. In Cassazione, attraverso il precedente, certo. Ma è fondamentale che la prevedibilità sia un valore perseguito sin dall’esercizio dell’azione. La Procura generale opera in diverse materie - responsabilità medica sul Covid, crisi aziendali, delitti ambientali - per garantire l’uniforme esercizio dell’azione penale. Non direttive gerarchiche, ma linee guida: i procuratori generali non sono superiori gerarchici e non hanno potere di interferire con le decisioni dei procuratori. Possono però svolgere un importante ruolo di orientamento, basato sulla condivisione. In questo momento si sta operando per avere un approccio omogeneo per contrastare le enormi opportunità di profitti illeciti derivanti dalla predazione delle risorse del Pnrr, imparando da quanto accaduto sul superbonus e sul mercato dei crediti di imposta”. Quale lezione? “Che si tratta dei settori di elezione per una mafia camaleontica che ricerca potere e profitti, dopo aver abbandonato la stagione degli attentati non per raffinata strategia, ma perché ha subìto dallo Stato colpi pesantissimi”. La magistratura italiana può fare qualcosa sui crimini di guerra in Ucraina? “L’Italia non riconosce la propria giurisdizione come universale per i crimini contro l’umanità. Però non solo può, ma deve collaborare con le autorità ucraine e con la Corte Penale Internazionale”. Come? “Innanzitutto dobbiamo essere pronti a rispondere alle richieste di assistenza che potrebbero venire dalla Corte Penale Internazionale, che è già all’opera. Nel nostro Paese vi sono molti profughi, che potrebbero avere informazioni utili. Vi sono poi magistrati che hanno una notevole esperienza nel settore, per avere fatto parte a vario titolo di Corti internazionali. E un’esperienza preziosa, anche a livello di formazione. Lei crede che sarà un’attività che produrrà processi giusti ed efficaci, visto che gran parte delle prove provengono da una parte in guerra, che si difende da un’aggressione? “È un problema comune agli accertamenti che riguardano i grandi crimini commessi in contesto di conflitti armati o di crimini collettivi. Proprio per questo è importante che, per quanto possibile, le prove vengano raccolte al più presto e in forme utili al processo, cioè con garanzia di imparzialità. Sono processi difficili, ma che restano all’interno della rule of law. Nemmeno all’oppresso è consentito di violare i diritti fondamentali. Anche questi dovranno essere processi giusti”. Ne parlerete nella prossima conferenza dei procuratori a Palermo? “La conferenza è voluta dalla presidenza italiana del Consiglio d’Europa e riunisce i vertici del pm dei Paesi del Consiglio, senza la Russia, che ne è stata espulsa. Verranno 46 paesi, tra paesi membri e osservatori. Era stata organizzata prima della guerra, ma il tema è quantomai legato: capire qual è la base comune minima nel ruolo del pubblico ministero in ordinamenti molto diversi, per consentire la collaborazione nella difesa dei diritti fondamentali della persona, al riparo da interferenze politiche. Una questione che si rivelerà decisiva anche sui crimini di guerra. Si deve smentire l’antico detto che quando le armi parlano, il diritto tace”. Giustizia: “Torniamo al testo Cartabia” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 30 aprile 2022 Eugenio Albamonte, segretario di Area, alla vigilia dell’assemblea: “Via gli emendamenti dei partiti che ci vogliono normalizzare”. Quattro temi per riaprire il dialogo sulla riforma della giustizia, evitando “una svolta che rappresenterebbe un punto di non ritorno”, spiega Eugenio Albamonte, segretario di Area, la corrente progressista della magistratura, alla vigilia della grande assemblea dell’Anm chiamata a decidere sulle forme di protesta, sciopero compreso. Qual è l’obiettivo dell’assemblea? “Dobbiamo focalizzare nel modo più chiaro i temi della riforma che riteniamo disfunzionali e punitivi, se non vendicativi. E sono i principali emendamenti approvati dalle forze politiche alla Camera sul testo licenziato dal consiglio dei ministri”. Quali sono i punti più controversi? “In primis la separazione radicale delle funzioni, che non è obiettivo di efficienza né legato al Pnrr, ma serve a chiudere nel modo peggiore, con un tratto di penna e aggirando sia la Costituzione che il referendum, una lunga vertenza aperta da centrodestra e Camere penali”. E il fascicolo del magistrato? “Nel mondo ideale, potrebbe anche essere utile. Ma arriva in fondo a una campagna che “denuncia” presunti flop di iniziative investigative e processuali, connettendo l’esito dei processi alla censura dei magistrati che li hanno promossi e istruiti, oltre che giudicati nei gradi inferiori. L’effetto è duplice: vendicativo e intimidatorio”. Molti protestano anche per la stretta disciplinare. “Vengono introdotte due fattispecie di responsabilità disciplinari: per le conferenze stampa e per la mancata trasmissione degli atti dal pm al giudice. Si attribuisce al giudice disciplinare una valutazione nel merito dell’attività giudiziaria, con una sovrapposizione impropria”. È un caso che questi quattro punti siano tutti di origine parlamentare? “Li accomuna una definita matrice culturale, perché sono cavalli di battaglia dell’Unione Camere Penali tradotti in emendamenti scritti da forze politiche che dal governo Berlusconi in poi cercano di indebolire il controllo di legalità sui poteri politici ed economici”. Con quale effetto? “Ottenere la normalizzazione della magistratura, mancata per trent’anni”. Dunque proponete di tornare al testo Cartabia, che pure contestavate? “Certamente, pur presentando criticità, non era animato da intenti punitivi e intimidatori. A volte meglio a volte peggio, metteva a fuoco i problemi e trovava soluzioni, talvolta calibrate talvolta discutibili. Ma era scevro dagli intenti peggiori”. Per questo all’assemblea avete invitato gli esponenti di partiti e anche la ministra? “Credo che sia stata una scelta giusta, oltre inedita. Siamo pronti a ogni soluzione per protestare, anche allo sciopero se necessario, ma non chiusi all’interlocuzione istituzionale”. Cosa vi aspettate? “Che si apra un dialogo. Che sia riconosciuto il senso delle nostre critiche, finora bollate di corporativismo senza discussione nel merito. Che in particolare su questi quattro punti, ci sia una disponibilità”. Referendum oscurati: Salvini si è arreso, la tv li ignora di Valentina Stella Il Dubbio, 30 aprile 2022 Dal leader leghista neppure una frase sui social per lanciare il voto sui quesiti. Il senatore Urraro assicura: “Pronte le iniziative sui territori”. Ma intanto il Partito radicale denuncia il sostanziale boicottaggio da parte dei tg. Manca meno di un mese e mezzo all’election day del 12 giugno, quando circa 9 milioni di italiani saranno chiamati alle urne per il voto amministrativo e l’intero corpo elettorale sarà coinvolto nell’appuntamento con i referendum per la ‘giustizia giusta’, promosso da Lega e Partito radicale. In particolare saranno 980 i Comuni coinvolti (143 superiori a 15mila abitanti, di cui 26 capoluoghi, e 837 sotto i 15mila). Si tratterà di un doppio banco di prova per il Carroccio ma soprattutto per Matteo Salvini: il suo partito è in calo nei sondaggi, sotto di 6 punti rispetto a Pd e Fratelli d’Italia che si contendono il primo posto, ma lo stesso leader deve riprendersi dalla figuraccia in Polonia, tentare di recidere il vecchio legame strategico con Vladimir Putin, riacquisire potere e piena autorevolezza all’interno del partito. Come si riverbera tutto questo sulla partita referendaria? Due settimane fa sembrava che Salvini avesse gettato la spugna, consapevole che la strada è molto più che in salita: “I primi 5 titoli dei tg sono sulla guerra - aveva detto in un’intervista al Corriere della Sera - il sesto sul covid, il settimo sulle bollette. Parlare di separazione delle carriere dei magistrati è difficile: per questo preferisco parlare di casa, di risparmi e magari flat tax. Ma io spero di arrivare a maggio con il covid archiviato e la guerra ferma”. Il covid c’è ancora anche se in forma un po’ meno aggressiva, ma le nuove regole di comportamento dopo il 30 aprile riempiono la cronaca, e lo scenario bellico si complica ogni giorno di più. Inoltre, come sappiamo, la Corte Costituzionale, bocciando i quesiti cosiddetti ‘portagente’ - ossia quelli su eutanasia, cannabis e responsabilità diretta dei magistrati - ha di fatto frenato molto la spinta popolare verso le urne. Dall’altro lato si ci avvicina ai referendum nella totale assenza di informazione e dibattiti non solo nei tg, ma anche negli spazi di approfondimento. Dunque Salvini si arrende? In apparenza sembrerebbe di sì: basti notare che da Pasqua non ha fatto neanche un post facebook o lanciato un tweet sui referendum. Diversa sarebbe la situazione sui territori, come ci spiega il senatore leghista della commissione Giustizia Francesco Urraro, componente del Comitato ‘Io dico sì’: “Per noi la strada maestra per la riforma della giustizia sono i referendum e stiamo organizzando iniziative da nord a sud affinché il tema diventi sempre di più un patrimonio nella disponibilità del Paese”. Il parlamentare è comunque consapevole delle difficoltà oggettive: “Noi avevamo chiesto di poter andare alle urne a fine maggio o aggiungere la data del lunedì 13, ma questo non ferma il nostro impegno, anzi”. Lo stesso concetto ribadito dalla responsabile Giustizia del Carroccio, la senatrice Giulia Bongiorno, sempre più volto ufficiale della campagna: “La strada del vero cambiamento passa dai referendum”. Ma siccome è quasi certo che il quorum non si raggiungerà, come deve muoversi la Lega? Il pensiero più comune tra gli analisti è quello secondo cui proverà a dare almeno l’impressione di battersi fino all’ultimo per poi addossare le responsabilità della sconfitta al ministero dell’Interno che ha scelto, anche se di concerto con i partiti, la data balneare del 12 giugno. Ma intanto deve far il possibile almeno per salvare la faccia, e convincere innanzitutto Giorgia Meloni a sostenere non solo i referendum sulla riforma del Csm e separazione delle funzioni ma anche quelli su legge Severino e voto degli avvocati sulle carriere dei giudici. Sarà di sicuro impossibile trascinarla su quello relativo alla custodia cautelare, impopolare tra gli stessi leghisti. E in tutto questo, come si colloca il Partito radicale? Chissà che non si stia pentendo dell’alleato leghista, che fin da subito gli ha giocato un brutto scherzo, con il mancato deposito delle firme in Cassazione, che di fatto ha privato il partito di Pannella di un accesso ufficiale a fondi e spazi televisivi. Ma è proprio sulla comunicazione che si gioca la partita storica dei radicali. Come ci dice la tesoriera Irene Testa “negare ai cittadini italiani il diritto di conoscere che si terranno il 12 giugno dei referendum epocali sulla giustizia, non consentire che su questo nasca un dibattito e trovi accoglienza in sede pubblica non rappresenta nient’altro che il perpetuarsi del regime antidemocratico che dagli albori della Repubblica sovverte subdolamente e intimamente il dettato costituzionale. Con il segretario del Partito radicale, Maurizio Turco, abbiamo fatto appello alle società di sondaggi di inserire nelle loro ricerche un semplice quesito: “Sai che a giugno si voteranno i referendum per la giustizia?”“. Testa non ha torto, se guardiamo i dati pubblicati dall’Agcom e relativi al periodo 7-23 aprile: solo per fare qualche esempio, Tg1, Tg2, Tg3, Rainews24 hanno dedicato in totale ai quesiti poco più di 8 minuti, mentre al di fuori dei Tg, la televisione pubblica ha concesso alla campagna 7 minuti. I Tg Mediaset salgono di poco attestandosi in totale su 31 minuti, mentre extratg fanno registrare solo 2 minuti e mezzo. Va molto peggio con Cairo, che si ferma sotto i 2 minuti. Ma a dire di Marco Beltrandi, membro della segreteria del Partito radicale, già deputato della Vigilanza Rai, la situazione è ancora più grave: “Siamo dinanzi a una beffa e a un sistematico boicottaggio dei referendum sul sito dell’Agcom: sono state pubblicate tabelle intitolate alla ‘Campagna referendaria’. Spiace constatare che abbiano incluso tra l’informazione della campagna referendaria gli interventi, in voce o meno, in cui si parla di giustizia, Csm, riforma Cartabia, ma neppure si fa cenno alle proposte referendarie. Cioè, tutti interventi in cui mai, dico mai, si è menzionato i referendum, la loro tenuta, il contenuto dei quesiti, ma quelli in cui solo alcuni temi sono paralleli a quelli referendari. Ma che nulla hanno a che vedere, ovviamente, con la campagna referendaria che sta a zero”. Assolti, spese legali rimborsate di Dario Ferrara Italia Oggi, 30 aprile 2022 Entra nel vivo il rimborso delle spese legali agli innocenti. Devono essere presentate online entro il 30 giugno le domande relative alle sole sentenze di assoluzione divenute irrevocabili nel corso del 2021, dopo che il decreto interministeriale Giustizia-Economia ha indicato i criteri per l’erogazione dei rimborsi introdotti dalla legge di bilancio 2021. Ora il ministero della Giustizia offre il manuale utente per l’imputato assolto che deve presentare l’istanza online con l’applicativo ad hoc: è possibile monitorare tutto il ciclo di vita della domanda, dalla presa in carico dell’amministrazione fino al pagamento o a un eventuale rifiuto. Per accedere servono le credenziali Spid di secondo livello: necessario allegare una serie di documenti per dimostrare il pagamento dell’onorario oltre che il passaggio in giudicato della decisione. Tre tranche. Può ottenere che sia lo Stato a pagare le spese di giudizio chi ha ottenuto l’assoluzione definitiva perché: “il fatto non sussiste”; “non ha commesso il fatto”; “il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato”, a meno che la pronuncia liberatoria non sia dovuta alla depenalizzazione del fatto. La rifusione delle somme pagate al difensore arriva a 10.500 euro: avverrà in tre quote annuali di pari importo dall’anno successivo a quello in cui l’assoluzione è divenuta irrevocabile; ammonta a 8 milioni di euro l’anno il fondo costituito sul bilancio di Via Arenula. Nessun rimborso per chi: è stato assolto per alcuni capi di imputazione ma condannato per altri; ha beneficiato di prescrizione o amnistia; ha ottenuto nel procedimento il patrocinio a spese dello Stato o la condanna del querelante alla rifusione delle spese; ha diritto alla copertura da parte dell’ente da cui dipende. Tempi e modi. È l’imputato che deve registrarsi alla piattaforma telematica: per minorenni o incapaci l’istanza è presentata dal titolare della responsabilità genitoriale o da chi ha la rappresentanza legale; in caso di decesso, può provvedere uno degli eredi. Più il processo è stato lungo, maggiori sono le possibilità di liquidazione: la priorità va a chi risulta scagionato dalla Cassazione o dal giudice del rinvio in un processo durato oltre otto anni e poi, a seguire, in appello con durata fra cinque e otto anni e dal giudice di primo grado con un giudizio durato un lustro. Bisogna allegare: atto di esercizio dell’azione penale; sentenza; certificato di passaggio in giudicato. Nella scheda “spese” vanno caricati: atto di nomina del difensore; fattura del legale; bonifico di pagamento; quietanza dell’avvocato; parere di congruità del Consiglio dell’Ordine. L’upload comprende denuncia dei redditi o autodichiarazione che il modello non è stato presentato. È necessario indicare le coordinate del conto corrente bancario o postale dove si vuole ottenere il bonifico e l’indirizzo di posta elettronica, certificata o semplice, ove ricevere le comunicazioni sull’esito dell’istanza. Dall’anno prossimo domande fra il primo gennaio e il 31 marzo. Come evitare altri casi Cucchi di Roberto Cornelli* Il Fatto Quotidiano, 30 aprile 2022 La vicenda giudiziaria sul caso Cucchi indica una cosa molto semplice: quando capita qualcosa che non dovrebbe accadere, in strada come in una caserma, in una stazione di polizia, in un carcere o in un centro per stranieri, le forze dell’ordine italiane non hanno procedure interne efficaci che assicurino trasparenza e consentano di dare conto di ciò che è accaduto. Tutto è rimesso alla magistratura e, quando ci sono, ai familiari della vittima, che devono fare i salti mortali per ricostruire la verità. C’è stato un pestaggio, che è all’origine della morte di Stefano Cucchi, un giovane uomo di 31 anni: è Cassazione. Ci sono condanne, di primo grado, relative a depistaggi che coinvolgono anche un generale dell’Arma dei carabinieri. Ma ora che la vicenda giudiziaria è parzialmente conclusa, bisogna provare ad andare oltre. Se di fronte a un corpo malmenato, si fosse attivato un intervento immediato di accertamento amministrativo - una indagine interna obbligatoria con la presenza di rappresentanti indipendenti - forse non solo la verità si sarebbe conosciuta prima, ma quel giovane avrebbe potuto ricevere le cure adeguate per salvarsi, al di fuori del circuito istituzionale che lo ha continuato a vedere, per 6 giorni, come un criminale. Di sicuro la spinta auto-conservativa che ha portato a depistaggi e falsità, e che ancora resiste in chi ha una visione autoritaria e autoreferenziale delle polizie, avrebbe faticato a emergere. L’uso della forza da parte delle polizie (carabinieri compresi) a volte è necessario, ma in ogni democrazia rimane problematico per il rischio che si ecceda: non dimentichiamoci che la libertà ha origine dalla limitazione del potere delle istituzioni di polizia di disporre del corpo delle persone arrestate senza doverne rendere conto. Il riferimento è certamente all’Habeas corpus, ma anche all’articolo 13 della Costituzione sull’inviolabilità della libertà personale. Non a caso il primo elemento che osserviamo per definire un regime come autoritario o democratico è il modo di agire (e in particolare i limiti d’azione) delle polizie: in Russia come in Cina, in Birmania e in molti altri luoghi del mondo, sono le polizie a segnare in concreto cosa significhi vivere in un Paese non democratico. Considerare in modo appropriato il rischio che si eccedano i limiti di legittimità nell’azione di polizia richiede dunque uno sforzo che non può essere lasciato nelle mani dei soli agenti che gestiscono situazioni più o meno critiche, contando esclusivamente sul loro equilibrio, sul loro senso etico, sul loro autocontrollo. La questione è culturale, organizzativa e politica e richiede che si attuino delle riforme perché quel rischio sia contenuto al massimo. Ne 1981, in pieno terrorismo, il Parlamento approvò una legge importante di riordino del comparto della Pubblica sicurezza, che prevedeva tra l’altro la smilitarizzazione della Polizia di Stato. Vent’anni dopo, nel 2001, Il comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha approvato il “Codice europeo di etica per la polizia”: una raccomandazione che costituisce il primo strumento sovranazionale in materia di sicurezza. In questi ultimi decenni non sembra esserci stato un grande impegno nel prendere la strada delle riforme in un ambito così importante e cruciale per la democrazia. Spesso ci si concentra sull’adozione di nuovi equipaggiamenti come se si fosse di fronte a interventi epocali. La posta in gioco è invece molto più alta. Spesso sono le conquiste sociali e civili a segnare i progressi di un Paese; ma i progressi sono segnati anche da come le istituzioni accompagnano i cambiamenti sociali e civili, dalla loro capacità di organizzarsi in modo coerente e, qualche volta, di renderli possibili. Le polizie non fanno eccezione. *Professore di Criminologia e Politica Criminale all’Università di Milano-Bicocca Vasto (Ch). Detenuto morto in cella, oggi l’autopsia di Paola Calvano ilnuovoonline.it, 30 aprile 2022 È in programma oggi nell’obitorio dell’ospedale Santissima Annunziata di Chieti l’autopsia sul corpo di Doriano Mancinelli, il 46enne detenuto trovato morto dai compagni di cella mercoledì mattina. La perizia è stata affidata al medico legale Pietro Falco. Ora la famiglia di Mancinelli invoca la verità sulla morte di Doriano e si è affidata agli avvocati Gennaro Lettieri di Teramo e Antonello Cerella di Vasto. L’autopsia stabilirà l’ora esatta del decesso e dovrà accertare anche se il detenuto avesse avuto in passato o più di recente delle patologie. A quanto è dato sapere nessuno dei compagni di cella si è accorto che il 46enne stava male. Alle 7 pare che fosse ancora vivo. L’allarme è stato lanciato alle 8. Al termine dell’autopsia il corpo del 46enne sarà riportato ad Atri e restituito alla famiglia per i funerali. Bologna. Tensioni al Pratello: i Garanti in visita al carcere minorile cronacabianca.eu, 30 aprile 2022 “No all’aumento della capienza del carcere, verifiche rispetto alla possibilità di trasferire in comunità quei giovani con esito negativo del percorso di recupero e poi servono più figure educative”: la garante regionale dei minori Claudia Giudici e il garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri sono stati ieri pomeriggio in visita al Pratello, con loro anche il garante bolognese dei detenuti Antonio Ianniello. La garante regionale per i minori Claudia Giudici e il garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri, accompagnanti dal garante bolognese dei detenuti Antonio Ianniello, hanno incontrato nel pomeriggio di ieri una rappresentanza dell’istituto minorile composta dal direttore della struttura, dal comandante della Polizia penitenziaria, dalla responsabile dell’area educativa e da una componente del servizio sanitario dell’Ausl di Bologna (la coordinatrice assistenziale), dal responsabile dell’Unità organizzativa psichiatria e psicologia dell’età evolutiva dell’Ausl di Bologna e dal responsabile della medicina penitenziaria del carcere della Dozza e dell’istituto penitenziario minorile. “L’istituto penitenziario minorile di Bologna - spiegano i garanti Giudici e Cavalieri - conosce una fase molto critica conseguente alla decisione dell’amministrazione della giustizia minorile di aumentare il numero di giovani reclusi spingendo la capienza della struttura sino a 44 persone, attualmente sono presenti 33 persone di cui 8 minorenni. Abbiamo però rilevato che, in proporzione, non sono state incrementate le dotazioni di personale educativo e che la struttura, ricavata da uno storico edificio religioso, non permette una qualunque flessibilità nell’adattamento degli spazi destinati sia agli ambienti educativi e formativi che della socialità”. “Apprezziamo gli sforzi dei vertici del penitenziario - continuano i due garanti regionali - ma non possiamo non sottolineare la marcata matrice detentiva nell’organizzazione della giornata di questi minorenni, che si interfacciano con la comunità esterna, nelle forme di docenti, formatori e volontari, solo per sei ore al giorno. Inoltre, è risultato insufficiente l’utilizzo di mediatori linguistico culturali, attivo per lo più solo grazie a un progetto del Comune di Bologna. Sulla frazione dei minorenni si concentrano infatti le maggiori criticità, nell’ultimo mese due ragazzi hanno tentato il suicidio”. “I rappresentanti della sanità - concludono i garanti Giudici e Cavalieri - hanno evidenziato la complessità dei percorsi di vita dei ragazzi presenti e che la presenza dei minorenni è incrementata nell’ultimo periodo in parte per il fenomeno delle baby gang al quale le Procure rispondono spesso con il passaggio alla detenzione”. Al termine della visita i Garanti dell’Emilia-Romagna Claudia Giudici e Roberto Cavalieri hanno condiviso l’impegno di: - condurre una verifica circa le comunità per minori che ospitano ragazzi provenienti dai circuiti detentivi per i quali si verifica un elevato indice di fallimento di questi percorsi; - verificare presso l’amministrazione centrale della Giustizia minorile le politiche di distribuzione delle persone inviate alle strutture detentive minorili nell’ambito nazionale al fine di verificare le motivazioni del potenziamento, che appare inopportuno, della capienza della struttura del Pratello; - sensibilizzare l’amministrazione regionale alla promozione della presenza di operatori educativi in grado di accompagnare i minori nella quotidianità della detenzione e sostenerli nel percorso di accettazione delle regole detentive, su questo punto verrà realizzato un confronto con la sanità penitenziaria e i referenti delle politiche sociali regionali. Trani (Bat). Piarulli: “Perseguire sempre il reinserimento dei detenuti” coratoviva.it, 30 aprile 2022 La senatrice è intervenuta nel corso della presentazione dei progetti di riabilitazione psichiatrica nel carcere di Trani. “Il carcere deve dare ai detenuti anche delle opportunità lavorative in modo che, al termine della pena, non riprendano a commettere fatti illeciti ma si inseriscano nel tessuto sociale”. Queste le parole con cui la senatrice coratina Angela Anna Bruna Piarulli è intervenuta nel corso della presentazione dei progetti di riabilitazione psichiatrica previsti nel carcere di Trani, che l’esponente del Movimento 5 Stelle ha diretto fino al 2018, quando ha deciso di candidarsi alle elezioni politiche. I progetti sono stati promossi dall’Asl Bt d’intesa con il Dap, dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Prevista anche l’istituzione di un tavolo tecnico, il cui obiettivo è sviluppare programmi di recupero reinserimento sociale dei pazienti psichiatrici in esecuzione di pena, anche attraverso la creazione di opportunità lavorative. “Per l’occasione ho avuto di modo di ribadire quella che deve essere la concezione del carcere alla stregua del dettato costituzionale, ovvero perseguire l’obiettivo finale del reinserimento sociale del reo e, quindi, dare anche delle opportunità lavorative in modo che al termine della pena possa non continuare a commettere fatti illeciti, ma inserirsi nel tessuto sociale” ha aggiunto la senatrice. Quanto ai soggetti psichiatrici, per i quali la cura è prevalente rispetto alla rieducazione, Piarulli ha sottolineato: “Sono necessarie strutture con specialisti che approntino queste cure necessarie in modo da restituire alla società persone che abbiano acquisito una propria autonomia. Ma l’efficacia delle cure deve andare di pari passo con l’aumento del numero delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Le Rems sono ancora troppo poche e questo porta anche ad ingolfare inutilmente le carceri senza che vi siano i profili professionali adeguati per curare i detenuti psichiatrici”. Palermo. Rap contro la mafia realizzato dagli studenti detenuti di Bicocca Quotidiano di Sicilia, 30 aprile 2022 Si intitola “Questo è il nostro viaggio” il brano rap degli studenti di Bicocca che ha ricevuto una menzione speciale nel progetto “Nel nome di Pio La Torre, 40 anni dopo, rinnovato impegno”. Menzione speciale all’interno del progetto educativo antimafia. “Nel nome di Pio La Torre, 40 anni dopo, rinnovato impegno” al gruppo di studenti detenuti dell’istituto penale minorile Bicocca di Catania. “Ci vuole cultura, ci vuole coraggio/non ci adeguiamo, questo è il nostro viaggio”. È questo il messaggio che i giovani studenti detenuti hanno lanciato con il loro rap realizzato per partecipare al bando promosso dal Centro studi Pio La Torre e rivolto a tutti i ragazzi delle scuole coinvolte, da Nord a Sud Italia. I giovani delle scuole premiati domani all’Ars - I giovani di tre scuole del Nord, del Centro e del Sud che simbolicamente raccoglieranno il testimone generazionale dell’antimafia contro le nuove mafie, saranno premiati per i loro elaborati nel corso della cerimonia di ricordo di Pio La Torre e Rosario Di Salvo prevista per domani, all’Ars. Gli studenti detenuti di Catania, coordinati dalle docenti referenti Marianna Vita e Daniela Cristaldi, hanno realizzato un video preceduto da un’intervista-dialogo e poi hanno scritto un brano intitolato ‘Questo è il nostro viaggio’. La sete di riscatto emerge nel brano rap realizzato, come spiegano gli stessi studenti: “La parte finale del testo contiene uno slogan pieno di fiducia e speranza - dicono - il cambiamento non avviene se parliamo solamente, invece di agire. Noi giovani possiamo farlo, modificando il nostro modo di pensare con l’aiuto responsabile di tutti”. Fossombrone (Pu). “Sguardi verso il cielo”: scritture di riscatto dal carcere di Francesca de Carolis ultimavoce.it, 30 aprile 2022 “Sono da tempo affascinato dalle icone, che silenziosamente mostrano, per mezzo della rappresentazione, ciò che le sacre scritture ci comunicano attraverso la parola e l’udito”. Così mi scriveva anni fa Giovanni Lentini, dal carcere di Fossombrone. Tanto affascinato che infine disegnatore di icone è diventato. Anzi, “scrittore di icone”, mi correggerebbe. Perché le icone si “scrivono” e non si dipingono, mi ha insegnato, perché espressione della parola della rivelazione, che con attenta fedeltà viene scritta, come preghiera silenziosa per entrare in comunicazione col divino… Tanto affascinato che l’iconografia in carcere è stato il tema della sua tesi di laurea, alla facoltà Teologica ortodossa “San Gregorio Magno”, e il 30 aprile è fra i relatori all’inaugurazione, presso la fondazione Monte di Pietà di Fossombrone, di “Sguardi verso il cielo”, mostra di icone sacre realizzate dal laboratorio “Luce dentro” della casa di reclusione del centro marchigiano. E merita di essere ascoltato, Giovanni Lentini, con la storia del suo lungo percorso di studio, e di ricerca di sé, iniziato, dal buio della sua lunga pena, più di quindici anni fa nel carcere di Bologna, dove per la prima volta aveva avuto l’opportunità di frequentare un laboratorio di icone e avviare uno studio mai più abbandonato. “Nella ripetitività stordente delle mie giornate carcerarie, in cui cerco di scappare e di ridipingere nuovi orizzonti di tipo esistenziali, sono riuscito a ritagliarmi, nel laboratorio Luce dentro, spazi di libertà. A volte mi chiedo se si tratta di quella libertà spirituale di cui parla l’apostolo Paolo nella seconda lettera ai Corinzi: “il Signore è lo spirito e dove c’è lo spirito del Signore c’è libertà”. La ripetitività stordente delle giornate carcerarie… Una ripetitività che tutto ottunde. Il rischio di esserne sopraffatti, di perdersi, di diventare quella “cosa” che il sistema vuole (indipendentemente dalla buona volontà di tanti che vi lavorano) è enorme. Continuo a non capire, e ad ammirare moltissimo chi vi riesce, come si possa migliorare circondati dalla bruttezza che il carcere sempre e ovunque è. Così, nei colori, nella purezza delle linee, nel garbo dei gesti, di sguardi verso l’alto delle icone sacre… Giovanni Lentini racconta di essere riuscito a trasformarsi. E’ riuscito, soprattutto spiega, a recuperare due cose che la vita carceraria annulla: la libertà e la bellezza. Quella bellezza che, ricorda, Dostoevskij scrisse “salverà il mondo”. E mi sembra che questo pensiero, che è desiderio, sia già tutto lì, nella raffigurazione di “San Giorgio”. Nella serenità soffusa del volto, nel gesto del braccio, gentile e forte, accompagnato dall’eleganza e dalla purezza del bellissimo cavallo bianco che trafigge, sconfiggendolo, il drago. E con lui, tutta la bruttezza del mondo. Non sarà un caso che sia stato uno dei suoi primi lavori a segnare la direzione del cammino. Molto deve Giovanni Lentini, e sempre le ringrazia, alle persone che in questo cammino lo hanno aiutato e accompagnato. Pensando, fra tanti, al suo primo maestro, Antonio Calandriello che da Bologna ha continuato a seguirlo nonostante la lunga distanza che separa Bologna (città in cui vive) da Fossombrone, “per farmi visita, per darmi nozioni artistiche, seguirmi e fornirmi del materiale necessario per realizzare i miei lavori”. Adesso Gianni (mi permetto dopo tanto tempo di scambio epistolare il suo più familiare nome) sa essere anche lui “maestro”. “L’iconografia mi ha fatto riscoprire che non sono l’uomo ancorato al mio passato deviante, o soltanto il detenuto abituato sempre e solo a ricevere dagli altri, ma un uomo capace di mettere a disposizione degli altri il mio sapere”. E lo fa, condividendo il suo sapere e la sua esperienza artistica con altri detenuti, e non solo. In attesa, e sperando, in un ribaltamento del sistema, che passi da una pena retributiva, che restituisce al male altro male, “ad una concezione riparativa nella quale chi ha commesso reato diventi soggetto attivo del cambiamento”. Pensando alle prime lettere che ci siamo scambiati, prima ancora di ottenere di essere trasferito a Fossombrone, più vicino alla sua famiglia, prima che il suo percorso lo portasse ad ottenere i primi permessi… in quei momenti difficili Gianni mi raccontava di quanto gli mancasse il mare, lui che amava fare immersioni da sub. Mare che lo scorso anno, durante uno dei permessi, ha potuto rivedere. E penso che immergersi, come ha saputo fare, nell’impegno d’arte e di fede che tanta forza gli ha donato deve essere stato anche anticipo della libertà immensa infine ritrovata riabbracciando il mare. Per un tuffo nella bellezza della preghiera silenziosa delle icone, per provare a percepire i percorsi di vita che sono dietro ogni tratto, ogni colore, ogni volto… e magari trovare percorsi di pace, che di questi tempi non sarebbe male… ‘Sguardi verso il cielo’, dunque. Per chi si trovasse nei paraggi, dal 30 aprile al 21 maggio, nell’atrio della Fondazione Monte di Pietà di Fossombrone. Cosima Buccoliero: “Il mio incubo da direttrice? Finire in cella da carcerata” di Simona Mosca La Repubblica, 30 aprile 2022 Dopo trent’anni di lavoro in prigione, è certa che il sistema si possa (e si debba) rifondare. Come? Cosima Buccoliero lo racconta in un libro-manifesto. Cosima Buccoliero è nata nel 1968 a Sava, frammento dell’entroterra salentino da cui una volta si partiva solo per l’Ilva di Taranto. Lei no, niente acciaieria, e però da studentessa universitaria fuorisede finì con l’interessarsi alle gabbie delle carceri patrie. A Bologna, Giurisprudenza, quando, certo molto più appassionata in materia di diritti rispetto ai coetanei cosiddetti impegnati, evitava manifestazioni e collettivi schivando in generale distrazioni che potessero farle perdere il treno. Si è laureata in Diritto penitenziario nel 1992 scalando poi quasi subito, al volo, le gerarchie carcerarie. Condirettrice, vice direttrice, direttrice a Milano del carcere modello di Bollate, direttrice di Opera, poi del minorile Beccaria, e oggi reggente del circondariale Lorusso e Cotugno a Torino. “Tanto impegno per migliorare, riuscendoci. Eppure, è vero, sono stata perseguitata a lungo la notte dall’incubo di entrare in galera da carcerata. Ci si deve fare pace, alla reclusione non ci si abitua mai, e forse va bene così”. Cosima Buccoliero, con l’aiuto di Serena Uccello, si racconta in “Senza sbarre. Storia di un carcere aperto” (Einaudi), memoir di quasi trent’anni di vita, carriera, emozioni. E anche un manifesto, la convinzione che partendo dall’esistente, dal meglio, cioè soprattutto dalla mosca bianca del carcere di Bollate, si può arrivare a una riforma radicale dell’attuale sistema detentivo. Che, punte avanzate a parte, è appunto un incubo... “Eccellenze o no, è il carcere in generale, che è la mia vita da anni, ad avere in quanto tale un odore persistente, che ti porti a casa. È un sentore di sofferenza che ti impregna. Si dice che ci si abitua a tutto ma non è vero. La domanda, il dubbio più che l’incubo che ti perseguita la notte allora è: cosa farei io al posto loro? Chi sarei io dentro se mi togliessero i figli, se sapessi di aver perso in cella amore, parentele, amicizie? Cosa proverei nel consegnarmi mani e piedi allo Stato senza poter più disporre pienamente di me? Immaginarsi dall’altra parte, al di là delle colpe, è un peso e un dovere”. Il momento più delicato da gestire, scrive, è l’ingresso. La cella che si chiude la prima volta... “Per quasi tutti. E però molti non si rendono conto subito di cosa stanno perdendo, di cosa accadrà loro. L’ho visto soprattutto al Beccaria, negli occhi degli adolescenti che non colgono pienamente la portata di quell’istante. Dopo, nulla sarà più come prima”. Può diventare una missione, ma dirigere un carcere è anche una vocazione? “Non avrei mai immaginato di farlo. Anch’io anzi ero vittima del pregiudizio per cui chi ci lavora è per forza un po’ “cattivo”. Ma avvicinandosi si scopre che le persone, e mi riferisco soprattutto ai detenuti, non sono il delitto che hanno commesso, così come gli operatori non possono essere giudicati per un momento di debolezza”. Il carcere visto da fuori è spesso la sua rappresentazione, fiction... “Se parliamo di Il Re, la serie appena uscita con Luca Zingaretti, non l’ho vista e non intendo vederla. Un titolo del genere mi urta a prescindere. Mi sono ritrovata invece in molte delle suggestioni di Ariaferma, film che ha colto perfettamente la tensione sotterranea, la sottile paura della violenza celata negli istanti troppo tranquilli della vita in galera. Un mondo dove è fondamentale tenere le cose in movimento, dare dinamismo. Le anime devono scuotersi di continuo, anche perché altrimenti è impossibile assolvere al dovere di rieducare. Grandi film per me, aggiungo, sono anche Fuga da Alcatraz e Papillon. Non scherzo, sul serio. Penso che il desiderio di scappare, di liberarsi, sia sano, naturale, profondamente umano”. Scrive che le piace Cormac McCarthy, scrittore che danza spesso col male assoluto. Violenze come quelle viste nel carcere di Santa Maria Capua Vetere che male sono? “Il nostro sistema è molto fragile e lo si vede proprio in casi come questo, da non considerare certo isolati. E seppure lo fossero, sarebbero già troppi. Ma più che di un male, si tratta di una malattia. Nel senso che in condizioni al limite, a stretto contatto con la sofferenza, è più facile perdere l’equilibrio, contagiarsi, smarrirsi. Il punto fondamentale credo sia anzitutto fare in modo che il carcere, da misterioso luogo stagno, si mostri all’esterno, aprendosi e facendosi contaminare. Deve essere dentro la comunità, trasparente”. Il carcere trasparente di Bollate funziona? “Funziona e lo dicono i dati. La recidiva di chi esce da Bollate è del 20 per cento contro l’80 per cento della media nazionale. Per adottare il modello servirebbero ovviamente investimenti importanti, ma consideriamo i risparmi. I circa 60 mila detenuti attuali costano più o meno 150 euro al giorno ciascuno”. Bollate: il ristorante gestito dai detenuti, il vivaio aperto, il laboratorio di design. Ha la fortuna di avere il benessere di Milano accanto? “Non tutto sarebbe replicabile ma la dignità sì; i tre metri di spazio garantiti a detenuti e detenute, sì. Se qualche cosa ho imparato, è che è possibile fare con poco molto più di quanto si crede”. I maligni a volte hanno sostenuto si trattasse di un carcere per privilegiati... “Sbagliando, perché i criteri di selezione sono perfettamente orizzontali. Conta capire chi, tra quanti fanno domanda, è davvero disposto a impegnarsi, a dare qualcosa. Non è scontato, in carcere è difficile trovare la voglia di essere generosi proprio con lo Stato che ti ha messo lì”. Ricchi e poveri, uomini e donne, italiani e stranieri. Tutti uguali anche dentro? “Le carceri sono lo specchio di quel che siamo fuori. In questo sono già trasparenti e forse dovremmo aver paura di quel che siamo. Però, ecco: le donne sono appena il 4 per cento della popolazione carceraria”. “Lo Ius scholae va approvato. E avanti con il ddl Zan. Il Parlamento non può attendere la Consulta” di Giovanna Casadio La Repubblica, 30 aprile 2022 La deputata di Forza Italia Renata Polverini, ex sindacalista dell’Ugl, condivide la battaglia per la cittadinanza ai nuovi italiani. I saluti romani al funerale di Assunta Almirante? “Sbagliati. Lei non li avrebbe apprezzati”. “Questa volta dobbiamo farcela ad approvare lo “ius scholae”: la società è cambiata, la politica non può farsi dettare le norme dalla Consulta, come è accaduto sul doppio cognome e il fine vita, e non riuscire ugualmente a offrire soluzioni”. Renata Polverini, deputata di Forza Italia, ex sindacalista dell’Ugl, una storia politica a destra, condivide la battaglia per la cittadinanza ai nuovi italiani. Ma la legge procede lenta, con l’ostruzionismo di Lega e Fratelli d’Italia. Attesa da decenni, rischia di naufragare di nuovo. Polverini, tanti no sui diritti civili da parte del centrodestra, ma lei al contrario è a favore della cittadinanza ai bambini figli di immigrati, allo ius scholae. Che, forse, sarà in aula a giugno tra una sospensione e l’altra per le amministrative. Una battaglia già persa? “Io ho iniziato questa battaglia già nella scorsa legislatura e il testo elaborato dal presidente della commissione Affari costituzionali, Giuseppe Brescia, è molto simile alla mia proposta. Siamo partiti tardi in Parlamento, in questo ultimo anno prima delle elezioni. È un buon alibi per chi non vuole la legge sapere che c’è poco tempo per approvarla. Dopo l’ok della Camera, se ci si riesce, passerà al Senato. Il tempo, ripeto, non è molto, ma facciamo in modo di farcela”. Come pensa di riuscire a incassare il sì di Forza Italia, mentre la Lega fa addirittura ostruzionismo? “È complicato, certo. Però il capogruppo forzista alla Camera, Paolo Barelli ha dato il via libera e in commissione Carlo Sarro sta facendo di tutto affinché Lega e Fratelli d’Italia quantomeno non si mettano di traverso”. Sui diritti civili, la distanza tra la “sua” Forza Italia e gli alleati di centrodestra è netta. Niente fusione con Salvini? “Forza Italia ha dato libertà di coscienza in più occasioni, ad esempio, sul fine vita, che ho votato. Mi auguro che sullo ius scholae, Fi sia compattamente d’accordo. Fusioni politiche non ne vedo. L’operazione siciliana per il candidato sindaco è circoscritta alla Sicilia. Sulla nuova cittadinanza, attesa da circa 800 mila ragazzini italiani di fatto, abbiamo votato pochissimi emendamenti: è più faticoso di quanto non mi aspettassi per la contrarietà di leghisti e Fratelli d’Italia che fanno ostruzionismo”. Anche sul fine vita, che è ora a Palazzo Madama, si rischia di arrancare... “Il fine vita è un tema etico e quindi ciascuno non può che ragionare con la propria coscienza, è una questione che ci riguarda tutti direttamente, non penso ci possano essere ordini di scuderia”. Il centrodestra farà a braccio di ferro anche sul ddl Zan contro l’omofobia, che sta per essere ripresentato dopo la bocciatura? “Con altri colleghi di Forza Italia lo abbiamo votato a Montecitorio. Auguriamoci ci siano le condizioni per portarlo avanti e perché lo scontro non si inasprisca ancora. ll Parlamento deve prendere atto che il mondo è cambiato, non può attendere la Consulta, come sul doppio cognome o sul fine vita, per provare a legiferare. La politica dovrebbe anticipare e invece ci fermiamo senza offrire soluzioni”. Lei che ha una storia politica di destra, è andata ai funerali di Assunta Almirante? E cosa pensa dei saluti fascisti? “Ero fuori Roma. Sono atteggiamenti anacronistici e sbagliati, e credo inoltre che donna Assunta non avrebbe apprezzato”. Diritti civili e diritti sociali procedono insieme? “Portiamo a casa i diritti civili e non arretriamo sui diritti sociali: deve essere l’impegno alla vigilia di questo Primo maggio”. Migranti. Il direttore di Frontex si dimette. “Ha coperto respingimenti illegali” di Giovanni Maria Del Re Avvenire, 30 aprile 2022 Diverse inchieste giornalistiche lo accusano, così come una del Parlamento europeo. Ma decisivo è stato un rapporto dell’Olaf, l’agenzia antifrode dell’Ue, che lo definisce pure “sleale”. Sotto pressione da oltre un anno, ieri Fabrice Leggeri, il direttore di Frontex, l’agenzia Ue delle Frontiere esterne, ha presentato le sue dimissioni, accolte dal board dell’agenzia. Una vicenda imbarazzante anche per la Commissione Europea, che nei mesi passati aveva difeso Leggeri. “La Commissione - si legge in una nota - prende nota delle dimissioni”, annunciando che nuovo direttore ad interim sarà la vice, la lettone Aija Kalnaja, e che a breve sarà nominato il nuovo titolare. “È una priorità della Commissione - prosegue la nota - avere in atto una Guardia di frontiera e costiera europea (questo il nome completo di Frontex dal 2019, ndr) forte, efficace e ben funzionante”. Una vicenda molto negativa per l’agenzia, considerata cruciale per la gestione dei flussi migratori, e che, in base alla riforma del 2019, disporrà di 10.000 guardie di frontiera e costiera entro il 2027, con poteri molto ampliati e un bilancio cresciuto a quasi un miliardo di euro. Bilancio che peraltro, il 31 marzo scorso, il Parlamento Europeo ha rifiutato di approvare per le accuse di irregolarità. A costringere Leggeri alle dimissioni è stato anzitutto un rapporto dell’Olaf, l’agenzia antifrode dell’Ue, presentato al board di Frontex, ma anche una inchiesta giornalistica delle testate Lighthouse Reports, Der Spiegel, Le Monde, Srf Rundschau e Republik. Al centro i respingimenti nell’Egeo (vietati dalle norme Ue e dal diritto internazionale) da parte della Guardia costiera greca, di cui sono documentati vari casi in cui migranti già approdati sulle isole elleniche vengono riportati in mare a ridosso della costa turca. Frontex, presente nell’area nel quadro della missione Poseidon con funzioni di supporto e sorveglianza marittima, è accusata di essere stata di fatto complice in numerosi casi. L’inchiesta di Olaf, frutto di un anno di indagini, è riservata, ma vari dettagli sono emersi da eurodeputati cui il direttore dell’Antifrode Ue, il finlandese Ville Itälä, ha presentato a voce una sintesi. Secondo le indiscrezioni, Itälä ha parlato di 20 testimonianze coerenti sul coinvolgimento di Frontex, “abbiamo molte prove” ha detto. Olaf accuserebbe inoltre Leggeri di essersi mostrato “sleale verso l’Ue” e responsabile di una “cattiva gestione del personale”. Durissima anche l’inchiesta giornalistica. Per le cinque testate, in almeno 22 incidenti, per un totale di 957 migranti, si sarebbe verificato un respingimento alla presenza di funzionari di Frontex, alcuni dei quali avrebbero anzi consegnato alla Guardia costiera greca le imbarcazioni dei migranti, poi ritrascinate in mare aperto. Un caso esemplare viene raccontato da Der Spiegel. È la mattina del 19 aprile 2020, un aereo di Frontex osserva dall’alto e riprende - come di consueto in collegamento streaming con la centrale dell’agenzia a Varsavia - una motovedetta greca che ferma un’imbarcazione di migranti vicino a Lesbo, li fa salire a bordo, poi li mette su una zattera senza motore e li traina verso la costa turca. L’ultima foto dall’aereo riprende la zattera alla deriva, solo ore dopo i migranti saranno salvati dalla Guardia costiera turca. Secondo Der Spiegel, Leggeri ha assunto su di sé l’indagine sull’accaduto, dichiarando poi che non vi erano state violazioni di diritti umani. Accuse di complicità sono contenute anche in un’inchiesta del Parlamento Europeo, il quale accusa inoltre Leggeri di non aver provveduto all’assunzione dei 40 osservatori sui diritti umani previsti dal regolamento Frontex, nonostante pressanti richieste in questo senso della commissaria agli Affari interni Ylva Johansson. Crimini in Ucraina: una nuova “Norimberga”? Si può e si deve fare meglio di Antonio Marchesi* Il Manifesto, 30 aprile 2022 Le notizie sull’attività di investigatori, antropologi forensi, periti balistici, Ong umanitarie come Human RightWatch, impegnati nella documentazione dei crimini commessi in Ucraina hanno ormai la stessa cadenza degli aggiornamenti sull’andamento del conflitto. La Procuratrice Venediktova informa regolarmente sul numero degli episodi sui quali sta indagando, con il contributo di personale prestato da diversi Stati (fra cui gli Stati Uniti). Altri paesi (Germania, Polonia, Svezia...) hanno avviato inchieste in proprio, in applicazione del principio della giurisdizione universale (che permette di svincolare la giurisdizione da criteri di territorialità odi nazionalità delle persone coinvolte). Altri ancora, fra cui l’Italia, hanno scelto di collaborare con il Procuratore presso la Corte penale internazionale. Ciascuna di queste modalità sottintende uno sviluppo processuale diverso. E la questione dell’utilizzo delle pro ve raccolte - in giudizio, al di là dell’importanza che potranno avere a futura memoria storica - non è affatto secondaria. La prima ipotesi, quella di un processo in Ucraina, non sarebbe, nonostante la forza dell’argomento della territorialità, la soluzione migliore. Se si esclude un procedimento in contumacia che, ammesso che fosse consentito, avrebbe valore poco più che simbolico, un processo in Ucraina (quantomeno nei confronti di imputati russi) presuppone che quest’ultima nel frattempo abbia vinto la guerra. Anche se così fosse - e al momento non possiamo prevederlo - diventerebbe un processo dei vincitori nei confronti dei vinti... con tutti i limiti del caso. L’ipotesi di un processo in un altro paese - l’opzione “Pinochet” - risponde a un’idea condivisibile: che i crimini internazionali, tali in quanto lesivi di valori universali, meritano una risposta altrettanto internazionale. Alla luce della limitatissima istituzionalizzazione della comunità internazionale, sarebbe però “decentrata”: affidata, cioè, a ciascuno stato, ognuno avendo un interesse proprio a non lasciare impunite condotte aberranti. Anche questa ipotesi presenta limiti evidenti: non sono moltissimi gli ordinamenti statali che la prevedono e questi la condizionano in genere alla presenza dell’accusato sul territorio. L’effetto concreto finisce per consistere unicamente in una limitazione delle vie di fuga di chi nel frattempo ha perso il potere. La terza ipotesi, la risposta affidata a un’istituzione a tal fine creata, è più convincente. L’istituzione in questione può essere, però, di due tipi... e la differenza è marcata. Può essere un tribunale ad hoc, come quelli per la ex Iugoslavia e per il Ruanda (di cui è stata proposta la creazione, ricorrendo inevitabilmente a una modalità istitutiva diversa da una risoluzione del Consiglio di sicurezza). Si tratterebbe, però, di un tribunale speciale, creato a posteriori, in contraddizione con un principio essenziale della giustizia penale. L’alternativa è la Corte penale internazionale - non riconosciuta però tra gli altri da Usa, Russia e Cina - un organo creato proprio per non dover ricorrere a tribunali speciali, che applica il principio di irretroattività e che avrebbe giurisdizione a seguito dell’atto di accettazione depositato dall’Ucraina nel 2014. Il limite principale: non potrebbe, in base alle proprie regole statutarie, includere tra i capi di imputazione quello di aggressione, ma “solo” quelli di crimini di guerra, di crimini contro l’umanità e - è improbabile ma non si può escludere in par - tenza-genocidio. Mettendo i diversi elementi sul piatto della bilancia, ci sembra che sia questa la soluzione di gran lunga preferibile. Ovviamente, anche in questo caso stiamo parlando di uno scenario futuro e incerto dal momento che neppure la Corte penale internazionale celebra processi in contumacia. Dunque, anche se, nell’invocare davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite una “Norimberga” per l’Ucraina, Zelenski ha probabilmente inteso semplicemente dire che i crimini commessi dai Russi non devono essere lasciati impuniti, il richiamo di quel precedente storico una precisazione la merita. È condivisibile a condizione che per “Norimberga” s’intenda di quello storico processo il lascito ideale, e cioè l’idea che certi crimini sono internazionali e meritano una risposta internazionale; non lo è affatto se si considera che, sia pure in nome della comunità internazionale, a Norimberga i vincitori, davanti a un tribunale speciale, hanno processato i vinti. A 77 anni di distanza si può e si deve fare meglio. *Docente di Diritto internazionale nell’Università di Teramo Camerun. Continua l’incubo per i nostri colleghi detenuti nel paese medicisenzafrontiere.it, 30 aprile 2022 Quattro mesi fa, Marguerite, una nostra infermiera e Ashu, un autista di ambulanza, sono precipitati in un incubo senza fine mentre stavano svolgendo il proprio lavoro nella regione sud-occidentale del Camerun, colpita dalle violenze tra gruppi armati separatisti e forze armate governative iniziate quasi cinque anni fa. La mattina del 26 dicembre 2021, Marguerite e Ashu si trovavano a bordo di una nostra ambulanza nella zona di Tinto per prelevare un uomo con una ferita da arma da fuoco. Abbiamo comunicato, come concordato con le autorità, questo movimento: il punto di partenza dell’ambulanza, la sua destinazione, il tipo di paziente che stava trasportando, se il paziente aveva o meno un documento di identità e se fosse accompagnato o meno da qualcuno. Si tratta di una procedura di vitale importanza in contesti come questo per evitare che le ambulanze rimangano bloccate ai posti di blocco per troppo tempo. Né Marguerite né Ashu sapevano chi fosse il paziente o quale fosse il suo ruolo all’interno del gruppo separatista. Sapevano solo che era un uomo ferito che aveva bisogno di assistenza medica di emergenza. Durante il tragitto sono stati fermati al posto di blocco di Nguti. Nonostante le spiegazioni fornite, è stato loro negato il passaggio e ordinato di tornare indietro, scortati, fino a Mamfe. I nostri due colleghi sono stati successivamente arrestati e detenuti nella prigione di Buea, dove si trovano ancora oggi. Arrestati per aver portato soccorso umanitario - Marguerite e Ashu sono stati accusati pubblicamente di essere coinvolti in un’operazione di esfiltrazione di un terrorista, di aver falsificato i documenti di trasferimento e di aver dato al paziente una falsa identità. Sono stati accusati di collaborare con i ribelli separatisti della zona. Nessuna delle spiegazioni che abbiamo fornito, attraverso l’assistenza legale a Marguerite e Ashu e la versione degli stessi interessati su quanto accaduto, hanno portato al loro rilascio. Curare e trasferire i feriti e i pazienti è la base di ciò che le organizzazioni umanitarie fanno in situazioni di conflitto e violenza, senza considerare a quale fazione il ferito appartenga. Abbiamo anche specificato che, come organizzazione medica neutrale e imparziale, abbiamo aiutato i pazienti feriti di entrambe le parti, compresi quelli delle forze armate governative. Su richiesta del Ministero della Difesa, il Mandela International Center, un’organizzazione indipendente camerunese, ha pubblicato un rapporto che scagiona Marguerite e Ashu da ogni illecito, così come MSF stessa. Il rapporto chiedeva l’immediato rilascio dei due colleghi. Anche noi chiediamo il loro immediato rilascio. Settimane dopo l’arresto di Marguerite e Ashu, anche altri due nostri colleghi sono stati arrestati per un caso diverso e accusati di collaborazione con il movimento secessionista. Come per Marguerite e Ashu, siamo convinti della legalità dei compiti che hanno svolto per MSF. In entrambi i casi, stiamo seguendo il processo legislativo camerunese. Sospese le attività - Abbiamo preso la difficile decisione di sospendere le attività nel Camerun sud-occidentale il 29 marzo per concentrarci sull’ottenimento del rilascio sicuro dei nostri colleghi. Ci troviamo in una posizione insostenibile: da un lato le nostre attività mediche sono necessarie, dall’altro coloro che forniscono supporto medico corrono il rischio di essere perseguitati per aver fatto il proprio lavoro. Abbiamo un dovere nei confronti delle persone che assistiamo ma abbiamo bisogno che ci siano i presupposti di base che ci permettano di svolgere le attività mediche in un ambiente sicuro e protetto. Queste condizioni oggi non ci sono più: l’azione medica non solo non è protetta, ma è presa di mira. Non possiamo mettere a rischio il nostro personale.