Enza Bruno Bossio: “Non ho partecipato a questo scempio sull’ergastolo ostativo” di Valentina Stella Il Dubbio, 2 aprile 2022 “Spero nella Consulta che dovrà verificare ex post la conformità delle nuove norme alla Costituzione”. Giovedì durante il voto alla Camera sulla normativa sulla revisione dell’ergastolo ostativo, c’era da registrare la presenza di pochi parlamentari: meno di 400. Per l’esattezza 333 hanno votato sulla norma. Tanti erano in missione, qualcuno fermato dal Covid. Però, come ci dice la deputata del Partito Democratico, Enza Bruno Bossio, che quella norma non l’ha votata, “È da mesi che si discute di questo tema. Un tema molto importante, che riguarda l’esecuzione penale su cui siamo stati chiamati a legiferare su richiesta della Corte Costituzionale. Eppure ho registrato, anche tra i miei colleghi di partito, da subito un certo disinteresse. Qualcuno mi ha detto che del tema non gli importava nulla, che avrebbe seguito semplicemente la linea del Partito, senza porsi troppe domande”. Le ragioni per la Bruno Bossio sono essenzialmente due: “Certamente la materia è ostica, ma qualcuno ha anche pensato, erroneamente, che difendere la linea dettata della Consulta avrebbe significato agli occhi degli elettori porsi contro la lotta alla mafia. Su questa questione molti pensano di accreditarsi verso un certo sentimento populista astrattamente antimafia, ritenuto ancora più importante in vista delle prossime elezioni. Ma proprio qui c’è il grosso equivoco che i cittadini dovrebbero capire e noi avremmo il dovere di spiegare”. Discutendo di questa legge, ci dice infatti la Bruno Bossio, “non stavamo dibattendo di lotta alla mafia ma di come far rientrare nei ranghi costituzionali un automatismo che preclude l’accesso ai benefici per alcuni tipi di detenuti, che, ricordiamo, solo in piccola parte sono in carcere per delitti di mafia”. Persino il presidente della Camera Roberto Fico, secondo la Bruno Bossio, avrebbe lanciato un messaggio erroneo: “Lui ha detto che la norma approvata è importante e necessaria per la lotta alla mafia’. Lo stesso pensiero espresso dalle pagine del Fatto Quotidiano dalla responsabile giustizia del Movimento Cinque Stelle, onorevole Giulia Sarti, in un articolo dal titolo ‘ Ergastolo ostativo, niente sconti: i mafiosi non usciranno’. Tale espressione è perfettamente in linea con lo slogan utilizzato proprio dal M5S: “il nuovo ergastolo ostativo”. Ma lo stesso grillino Ferraresi, ci ricorda Bruno Bossio, “ha indicato le decisioni della Corte costituzionale come un “colpo mortale all’ergastolo ostativo”: un “colpo mortale” al quale la sua proposta di legge ha posto rimedio. Mentre la mia, presentata prima dell’ordinanza della Consulta, e in linea con essa per come ribadito anche dal presidente dell’Anm Santalucia non è stata proprio presa in considerazione”. Per non parlare del fatto che “nelle audizioni abbiamo potuto ascoltare quei pm ai quali si ispirano questi principi incostituzionali, i quali hanno chiesto al Parlamento di non arretrare di un centimetro rispetto al rigore della norma vigente, se non si vuole offrire alla mafia “un trampolino di lancio”. Affermando, nemmeno troppo velatamente, che è la stessa Corte costituzionale che vuole offrire il trampolino di lancio alla mafia”. Dato questo clima e il risultato ottenuto, l’onorevole Bruno Bossio non ha partecipato al voto. Durante quel momento era fuori dall’Aula come i suoi colleghi Fausto Raciti e Matteo Orfini che come lei non hanno condiviso invece la linea del Partito democratico: “Il collega Raciti e la collega Pini hanno sottoscritto il mio emendamento poi bocciato e anche il collega Orfini condivide la linea che abbiamo tenuto”. Una minoranza quindi: “Sì, ma in particolare io ho deciso di non partecipare a questo scempio costituzionale che il legislatore ha deciso di compiere non partecipando con nessun voto alla seduta di giovedì”. E poi, sottolinea, “l’altro fatto grave è che si è usato il lavoro parallelo della Commissione antimafia, quella stessa commissione il cui presidente è stato teoricamente sfiduciato dai partiti che hanno votato questo testo di legge”. Comunque la partita non è chiusa. Ci aspetta la questione al Senato. Ma Bruno Bossio non nutre molte speranze: “Lì è ancora più forte la convinzione che questa norma riguardi la lotta alla mafia e non invece un problema di illegittimità costituzionale”. Certo, basti pensare che a Palazzo Madama ci sono i senatori Pietro Grasso e Nicola Morra che presidieranno il risultato ottenuto alla Camera. “Forse c’è più speranza per l’emendamento Magi relativo alla “Spazzacorrotti’“, conclude Bruno Bossio. E l’altra speranza è quella verso la Corte Costituzionale che sarà chiamata a vagliare la norma definitiva. Infatti come si legge al termine dell’ordinanza 97/ 2021 se è vero che ‘ spetta in primo luogo al legislatore, infatti, ricercare il punto di equilibrio tra i diversi argomenti in campo, anche alla luce delle ragioni di incompatibilità con la Costituzione attualmente esibite dalla normativa censurata’ invece ‘ compito di questa Corte sarà quello di verificare ex post la conformità a Costituzione delle decisioni effettivamente assunte’. Ergastolo ostativo. La chiamano riforma ma è una condanna a morte di Tiziana Maiolo Il Riformista, 2 aprile 2022 Alla Camera una maggioranza fatta per metà di reazionari forcaioli e per l’altra metà di tremebondi pusillanimi ha fatto solo finta di seguire le indicazioni della Corte Costituzionale contro il carcere come tomba. Pena di morte. Qualcuno avrebbe dovuto gridarlo, alto e forte, nell’aula di Montecitorio, dove è andata in scena la grande ipocrisia di una maggioranza fatta per metà di reazionari forcaioli e l’altra di tremebondi pusillanimi, che ha votato (con poche eccezioni) sull’ergastolo ostativo un testo che ha preso a sberle la Consulta, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e la stessa Costituzione. L’Alta Corte aveva detto al Parlamento che il carcere non può avere il ruolo del becchino e seppellire i suoi morti. Aveva detto: fate una legge perché chiunque, proprio chiunque, dopo un certo, lunghissimo periodo di tempo, deve poter ritrovare la propria libertà. E l’unica condizione, insieme al trascorrere del tempo, deve essere una relazione che abbia accertato, da parte della squadra di giudici, psicologi, educatori e tutti coloro che si occupano del percorso di rieducazione del condannato, il cambiamento della persona. Aveva aggiunto, la Corte Costituzionale: cambiate quella legge che subordina al “pentimento”, alla collaborazione del detenuto con la magistratura, la possibilità di ottenere i benefici previsti dalla legge che nel 1975 riformò l’ordinamento penitenziario e la liberazione condizionale. principio. Cambiatela perché è incostituzionale. Il Parlamento dunque era costretto a legiferare, entro il 10 maggio 2022. Suo malgrado, dobbiamo purtroppo dire, perché tutta la discussione di questi mesi, prima di tutto nella commissione giustizia della Camera e con le audizioni di selezionati magistrati, cioè quelli del partito dei pm, ha preso da subito una direzione precisa: boicottare. Far finta di riformare, dare un contentino, ma proprio il minimo, a questi rompiscatole dei giudici della Corte Costituzionale, ma introdurre nella nuova norma una serie di condizioni tali da rendere impossibile a chiunque sia condannato per reati “ostativi” poter godere dei benefici previsti dall’Ordinamento penitenziario. Anzi, devono aver pensato alcuni deputati, cogliamo l’occasione per peggiorare la norma esistente, per esempio portando da 26 a 30 il numero di anni di carcere già scontati, dopo i quali si potrà chiedere la liberazione condizionata. Diciamolo chiaro: chi vuole il carcere eterno, quello con porte e finestre chiuse per sempre, sotto sotto chiede la pena di morte. Non solo la morte sociale, ma proprio quella fisica e violenta che toglie la vita e l’ultimo respiro. Proprio quello del bellissimo film di Jean-Luc Godard del 1960 con Jean-Paul Belmondo. Difficile trovare qualcuno che si dica esplicitamente per la pena capitale, così come nessuno potrebbe mai affermare di essere favorevole alla tratta degli schiavi. Ma bisogna anche essere consapevoli del fatto che dire “ergastolo ostativo”, termini che ai più non significano niente, vuol dire solo pena di morte. E condizionare la possibilità di vedere un finale diverso, al “pentimento” (che è umiliazione e tradimento), come dice la legge esistente, è un prezzo molto alto, se non sei un mercenario dentro di te. Vediamo allora, su questo punto, che cosa dice il testo licenziato dalla Camera. Nei fatti, accoglie in pieno la mentalità liquidatoria dei vari Caselli, Di Matteo, Scarpinato, cioè i nomi più prestigiosi dell’antimafia militante, i quali ritengono che il mafioso lo sarà per sempre. Essendo magistrati, o ex, “democratici”, sarebbero indignati se qualcuno desse loro dei razzisti. Pure, loro ritengono che una certa tipologia di persona non possa mai cambiare, a meno che non si inginocchi e non avvii una Trattativa, un mercanteggiamento interessato con lo Stato. Altrettanto scandalizzati sarebbero se si imputasse loro una simpatia per la pena capitale. Provino a parlarne con qualche analista, se non riescono a scrutarsi dentro da soli. La commissione giustizia della Camera, guidata dal grillino Mario Perantoni, ha dato molto ascolto alle sirene in toga. Del resto ieri la responsabile giustizia del partito di Grillo, Giulia Sarti, ha detto esplicitamente “è una legge che non avremmo voluto fare” e “non condividiamo le decisioni della Corte Costituzionale e della Cedu”. Ma siamo alle non-notizie. Loro sono così. Le notizie vengono dagli altri partiti di governo, come il Pd e Forza Italia, che hanno partecipato a un vero banchetto di lacci e lacciuoli che rendono impossibile per chicchesia sia in carcere da trent’anni riuscire ad accedere ai benefici penitenziari. Prima di tutto bisogna dimostrare di non avere più rapporti con la criminalità organizzata. Qualcuno può spiegarci come si fa? Si chiede una dichiarazione certificata a Matteo Messina Denaro? Poi - e questo sfiora la follia - occorre dare la certezza di non correre il rischio di intrattenere in futuro relazioni pericolose. Qui potrebbero essere chiamati a testimoniare streghe e maghi forniti di sfere di cristallo. Ma l’assurda tortura non finisce qui. Perché conviene avere anche disponibilità economiche e aver risarcito le vittime, stando poi ben attenti, se si dichiara di non averne la possibilità perché ci saranno accertamenti patrimoniali sul detenuto e su tutti il suo nucleo familiare. Ma non ci sono solo le regole-capestro a rendere impossibile la speranza per il detenuto “ostativo”. C’è anche un altro soggetto che, insieme alla Cedu e alla Corte Costituzionale esce mortificato dalla legge licenziata dalla Camera. È il giudice di sorveglianza, negli ultimi tempi sempre più sospettato, specie da parte del partito dei pm, di intelligenza con il nemico. La competenza per la concessione dei benefici è spostata dal giudice monocratico a quello collegiale, cioè al tribunale. È chiaro che questa decisione dimostra la sfiducia nei confronti di coloro che sono in grado più di altri di conoscere e giudicare il percorso riabilitativo di ogni singolo detenuto. E per fortuna che un sospetto di incostituzionalità, per palese violazione del principio del giudice naturale, ha impedito al Parlamento di aderire alle proposte di alcuni procuratori, che avrebbero voluto centralizzare a Roma un unico tribunale. Che avrebbe dovuto decidere sul detenuto di Caltanissetta come su quello di Aosta. Mai visti, ovviamente. Ma tanto, che cosa importa, visto che il mafioso non cambia mai e che il verdetto negativo è scontato? E che con queste regole gli ergastolani ostativi sono condannati a morte? La subalternità dei parlamentari al partito dei pm trova la massima espressione in un altro punto della riforma. Qualcosa di simile aleggiava già nei giorni in cui il ministro Bonafede, in tempo di pandemia, aveva frettolosamente condizionato ogni provvedimento di sospensione della pena o di detenzione domiciliare al parere dei pm “antimafia”. La procedura di questa finta riforma prevede infatti che per la concessione dei benefici venga acquisito il parere di quel pm che trent’anni prima - magari nel frattempo pensionato o deceduto aveva svolto le indagini sul detenuto. E, in casi gravi, sarà consultato anche il procuratore nazionale antimafia. Siamo al ridicolo, sentiamo anche il papa, che sicuramente è più saggio di tutti questi signori. Ma dove erano, quelli che si dichiarano garantisti (e onore a Riccardo Magi, Enrico Costa, Lucia Annibali e tutto il gruppo di Italia Viva e a Enza Bruno Bossio e i pochi del Pd che hanno mostrato dignità), quelli di Forza Italia per esempio, mentre si scrivevano queste ridicolaggini? Cui è stato aggiunto l’ultimo sberleffo, con la votazione di un emendamento che taglia fuori comunque dal provvedimento tutti coloro che sono reclusi al 41 bis. Complimenti. Qui Montecitorio, il regno dei grillini. Violenze nel carcere di Modena, ecco tutti i punti irrisolti sulla morte di Piscitelli di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 aprile 2022 Nell’opposizione alla richiesta di archiviazione, l’avvocata di Antigone Simona Filippi evidenzia le testimonianze di alcuni detenuti sulle condizioni critiche dell’uomo già prima del trasferimento e alcuni punti non chiariti dalla procura. La morte di Salvatore Piscitelli, uno dei nove detenuti deceduti durante (e dopo) le rivolte dell’8 marzo 2020 avvenute al carcere di Modena, non può finire archiviata. Non solo per l’oggettivo ritardo nel soccorrerlo, ma anche per il contesto dove emergerebbe una indicibile violenza e torture dove sarebbe rimasto coinvolto anche Piscitelli stesso. Per questo motivo, e non solo, l’avvocata Simona Filippi, nella qualità di difensore di fiducia dell’Associazione Antigone onlus rappresentata legalmente dal presidente Patrizio Gonnella, “persona offesa” nel procedimento penale, ha depositato l’opposizione alla richiesta di archiviazione presentata dalla procura di Ascoli Piceno. Per la procura non sono ravvisabili profili di responsabilità degli indagati - Come già riportato da Il Dubbio, secondo il Pubblico ministero, il procedimento deve essere archiviato in quanto non sono ravvisabili profili di responsabilità in capo agli indagati per la morte di Piscitelli poiché la eventuale anticipazione dei soccorsi anche di due ore avrebbe garantito delle “possibilità” di sopravvivenza “ma non concrete ed effettive probabilità di sopravvivenza, essendo la situazione del detenuto compromessa”. In sintesi, per la procura ascolana è accertato che c’è stato un oggettivo ritardo nel soccorrerlo, ma non è possibile effettuare un giudizio prognostico in termini di concrete probabilità di sopravvivenza se i soccorsi si fossero attivati con maggiore tempestività. Non può essere liquidata così la questione. Nella richiesta di opposizione, l’avvocata Filippi di Antigone sottolinea che bisogna innanzitutto soffermarsi sull’analisi di questi aspetti: “La gravità delle condizioni di salute in cui versava Piscitelli già al carcere di Modena al momento del trasferimento e dell’arrivo presso la Casa circondariale di Ascoli Piceno, le lesioni riscontrate in sede di esame autoptico e la ricostruzione degli orari in cui si sono sviluppati i fatti”. Il racconto del compagno di cella a Modena - Infatti, come già riportato in esclusiva su Il Dubbio, sono stati ascoltati diversi detenuti che hanno tutti confermato la gravità delle condizioni fisiche di Piscitelli già dal momento della partenza dal carcere Sant’Anna di Modena. In particolare c’è la dichiarazione di un detenuto che condivideva la cella con Piscitelli presso Modena e che con lui starà nel corso della rivolta e che, infine, con lui condividerà la cella anche presso il carcere di Ascoli Piceno. Cosa racconta? Parte dal famigerato stanzone della caserma attigua al carcere di Modena dove sarebbero stati ammassati una ottantina di detenuti e dove sarebbero, appunto, avvenute violenze e abusi da parte di alcuni agenti provenienti anche da altri penitenziari come quelli di Bologna e Reggio Emilia. Secondo la ricostruzione offerta da questo detenuto, quando lo stesso si trovava presso la caserma del carcere di Modena a seguito della rivolta, trascorsa circa una mezz’ora giungeva anche Piscitelli che “tremava” e che gli aveva detto “mi hanno picchiato”. Durante il tragitto per il carcere marchigiano, ha condiviso con Piscitelli la cella all’interno del furgone e ha evidenziato che le condizioni di salute del compagno erano già compromesse in maniera evidente: “Durante il viaggio, Piscitelli non c’era più, era con la testa per terra, non rispondeva e faceva solo un piccolo verso; ho chiamato l’assistente e gli ho detto che non stava bene e lui ha detto testuali parole “quando arriviamo lo sistemiamo”“. Ad Ascoli il Capo posto gli avrebbe risposto “lasciatelo morire” - Una volta giunti a destinazione, il detenuto sentito dalle pm di Modena, racconta che è stato prima messo in una cella differente per poi essere spostato, dietro sua richiesta, ed essere portato nella cella n.52 dove appunto si trovava Piscitelli. Quando è entrato nella cella, testimonia di aver trovato il compagno con delle “chiazze” in testa, lo chiamava ma lui non rispondeva. Specifica poi che, tra le 8.30 e le 10.30, ha più volte chiesto aiuto sia all’assistente che al lavorante e il Capo posto gli avrebbe risposto “lasciatelo morire”. Alle 10.30, sempre secondo la ricostruzione offerta, Piscitelli era diventato “pallido e freddo e si sentiva puzza di cacca e pipì”. C’è anche un altro detenuto, sempre sentito dalle pm, che era presente durante la visita medica effettuata a Piscitelli al momento dell’ingresso in carcere e ha riferito che lo stesso “camminava come una persona ubriaca”, “barcollava” e “biascicava”. Sempre lui è il detenuto al quale un agente ha chiesto di rifare il letto a Piscitelli in quanto il detenuto non era in grado di provvedere. Conferma che, nel corso della notte, l’altro detenuto si era lamentato e aveva chiesto aiuto. Un altro recluso ancora, anche lui trasferito da Modena ad Ascoli Piceno, ricorda di aver visto Piscitelli che non riusciva a camminare “tanto era fatto di farmaci e metadone”. Parliamo sempre dello stesso detenuto che ha raccontato di aver visto picchiare Piscitelli nel famigerato stanzone della caserma attigua al carcere di Modena. L’opposizione: non si è tenuto conto di circostanze e spunti investigativi - Nell’opposizione alla richiesta di archiviazione, viene evidenziato che dalla consulenza disposta dalla Procura per accertare la causa della morte di Piscitelli sono emersi dei segni di lesioni. Di fatto, la Procura non ha tenuto conto di alcune circostanze emerse dagli atti di indagine e di alcuni spunti investigativi che necessitano di approfondimento. “A partire - si legge nell’opposizione all’archiviazione - dall’accertamento delle condizioni di salute di Piscitelli al momento del suo arrivo e dell’intera permanenza presso il carcere di Ascoli Piceno sino ad una più attenta valutazione del comportamento tenuto dal medico al momento della visita effettuata nel corso della mattinata del 9 marzo 2020”. Non solo. Emerge un’errata valutazione delle condizioni di salute di Piscitelli al momento del suo arrivo al carcere di Ascoli Piceno. Dagli atti delle indagini - come già riportato da Il Dubbio - emerge che, già dal momento dell’ingresso nel carcere marchigiano, le condizioni di salute di Piscitelli erano compromesse e che, pertanto, la visita medica cosiddetta di “primo ingresso” appare effettuata in maniera approssimativa e superficiale. Non solo. Emerge che le sue condizioni fisiche erano compromesse non soltanto per l’avvenuta assunzione di metadone ma anche per le presunte violenze subite nel carcere modenese come rappresentato dai detenuti ascoltati e come emerso anche in sede di esame autoptico. Resta la speranza di un intervento della Corte Europea dei Diritti Umani - Ci sono molti punti da chiarire ancora. Tutti messi nero su bianco dall’opposizione all’archiviazione: “Accertare, con integrazione di consulenza, se la terapia (“Narcan”) praticata a Salvatore Piscitelli nel primo intervento in cella da parte del medico poteva essere effettuata con modalità differenti; accertare, con integrazione di consulenza, se, sulla base di tutti gli elementi di indagine raccolti, Piscitelli doveva essere ricoverato presso il nosocomio già al momento della visita di primo ingresso; accertare quali erano le condizioni di salute di Piscitelli al momento della partenza dalla Casa circondariale di Modena; sentire il detenuto “Nadar” il quale, nel corso della mattinata del 9 marzo 2020, avrebbe visto il Piscitelli emettere gemiti e, per questo, avrebbe chiesto all’appuntato di chiamare un medico e quest’ultimo gli avrebbe riferito di “lasciarlo morire”“. La morte di Piscitelli, “Sasà” per gli amici compagni di cella, grida ancora vendetta. Così come le altre morti, che però sono state definitivamente archiviate. Rimane, in questo caso, aperta la speranza di un intervento da parte della Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo. Csm, rispunta il sorteggio. E Cartabia apre al dibattito di Vincenzo Imperitura Il Dubbio, 2 aprile 2022 Per la Lega: tirare a sorte i collegi elettorali. Ma Zanettin e Costa frenano: “Effetto boomerang, finirebbe per rafforzare le correnti”. Balla sull’ipotesi del sorteggio la riforma del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura. Un sorteggio guardato con sospetto dalla ministra Marta Cartabia e da quella parte della maggioranza di governo (Partito democratico e M5S) che ritiene indispensabile una preventiva riforma costituzionale, e portato avanti invece dal resto dei partiti di maggioranza (Lega, Forza Italia e Italia Viva) e da Fratelli d’Italia, che spingono invece per l’ipotesi di una chiamata a sorte della rappresentanza togata che agisca “a valle”: con il sorteggio cioè dei papabili, che verrebbero poi sopposti al giudizio del voto. Una situazione di stallo che si trascina già da tempo, quando di tempo ormai ne è rimasto poco. Il rinnovo delle cariche del Csm previsto nel giro di pochi mesi impone - il Presidente Mattarella ha già bussato più volte in questa direzione - che si intervenga nelle modifiche al sistema elettorale dell’organo di autogoverno della magistratura al più presto. E in questa direzione sembra muoversi l’emendamento (firmato da 9 parlamentari leghisti) presentato dalla responsabile giustizia del Carroccio Giulia Buongiorno e raccolto dalla stessa ministra Cartabia, che lo ha posto come “spunto di dibattito” per la prevista e decisiva riunione di lunedì. Sul banco, lo scambio del comune denominatore, con l’intervento della sorte, previsto “a monte” dell’intera procedura: a venire sorteggiati non sarebbero i candidati ma i collegi elettorali. L’obiettivo dichiarato resta il medesimo, togliere potere decisionale alle correnti. “Invertiamo un po’ le cose, creiamo un sistema per fare restare l’effetto sorpresa - ha detto Buongiorno - sorteggiamo non i candidati ma i collegi elettorali. In sostanza non è più un sorteggio su chi si candida ma nel momento in cui si inserisce il sorteggio dei collegi dove si eleggono i singoli magistrati noi creiamo lo stesso l’effetto sorpresa”. E se dal vicesegretario di Azione Enrico Costa arriva un secco no alla proposta di mediazione - “Lo spezzatino dei collegi elettorali sorteggiati per le elezioni del Csm sarebbe un gigantesco boomerang. Rafforzerebbe le correnti e quei magistrati che, grazie a inchieste mediatiche, hanno popolarità su scala nazionale” -, resta perplesso anche il capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia alla Camera, Pierantonio Zanettin: “Non mi sembra una proposta risolutiva se l’obiettivo è combattere il correntismo. Sorteggiare i collegi e dunque spostare i candidati dai propri territori potrebbe avere come unico risultato quello di farli appoggiare ancora una volta alle correnti amiche relative al collegio”. Martedì inizierà dunque il testo di riforma, dopo la consegna dei pareri del governo su 11 proposte emendative presentate dai gruppi al testo approvato in Consiglio dei ministri. Restano da affrontare i nodi maggiori, tra cui il sistema di voto, ma i pareri confermano l’impianto dell’emendamento governativo, aprendo solo ad alcune richieste, tra cui la possibilità di ridurre il numero massimo di magistrati ordinari collocati fuori ruolo. “Lunedì mattina vedremo di nuovo la ministra Cartabia - ha dichiarato il presidente della Commissione, il grillino Mario Perantoni - è evidente che occorre ancora un supplemento di impegno da parte di tutti per risolvere le criticità aperte e per chiudere rapidamente il lavoro in commissione: l’approdo in aula è previsto per il 19 e non sono pensabili ulteriori rinvii”. Csm, una riforma al bivio di Luciano Violante La Repubblica, 2 aprile 2022 La politica ha l’occasione di esercitare la propria sovranità e porre le basi di una magistratura rinnovata. La guerra in Ucraina assorbe, come è giusto, quasi tutte le nostre attenzioni. Tuttavia non azzera i problemi, ai quali comunque bisogna provvedere. La Camera è alle prese con gli oltre 250 emendamenti presentati alle proposte del governo sul Csm e sull’ordinamento giudiziario. Il Csm ha approvato un parere molto critico sulle proposte del governo. Né il ponderoso fascicolo degli emendamenti, né l’altrettanto ponderoso parere del Csm (oltre 140 pagine) si preoccupano di costruire una magistratura adeguata alle attuali necessità. Il modello risale alla prima metà del secolo scorso, quando l’economia era agricola, i partiti avevano milioni di iscritti, i corpi intermedi erano attivi, Chiesa e famiglia esercitavano un formidabile controllo sociale, la società era compatta, le leggi erano poche, generali e astratte, la magistratura, infine, gravitava alla periferia del sistema politico. Nel mondo di oggi la società si è disintegrata, i partiti hanno perso l’antica autorevolezza, la magistratura fa parte del sistema di governo, i mestieri dei giudici, come ha recentemente osservato Vladimiro Zagrebelsky, sono radicalmente diversificati. Servirebbe chiedersi: che tipo di magistrato, che tipo di governance delle magistrature, che tipo di professionalità, quale equilibrio tra indipendenza e responsabilità? Servirebbe sanare la contraddizione tra un diritto nel quale la giurisprudenza pesa più della legge, come nell’esperienza anglosassone, e una pratica giudiziaria da diritto libero, che scavalca la legge e ignora il valore del precedente. Ma nel Palazzo dei Marescialli si pensa soprattutto alle vicine elezioni del nuovo Csm. I consiglieri non si avvedono della questione morale che squassa l’intera magistratura e discutono con l’orecchio attento al consenso dei magistrati elettori. A Montecitorio la maggior parte delle proposte ha carattere punitivo, come se una parte del mondo politico intendesse consumare una vendetta nei confronti della magistratura. Al centro dello scontro, resta la proposta del sorteggio dei magistrati candidati alle elezioni del Csm, che è incostituzionale. Se la proposta venisse approvata, è prevedibile che verrebbe richiesto alla Corte Costituzionale di pronunciarsi ancor prima dell’applicazione della legge, come fu fatto per la riforma elettorale del governo Renzi. È altrettanto prevedibile che la Corte accolga l’eccezione. L’effetto sarebbe di eleggere il prossimo Csm con le attuali norme, che sono contestate da tutti; oppure approvare una nuova legge elettorale, senza il sorteggio. Significherebbe rinviare a domani o dopodomani quello che si deve fare oggi. Tra i sostenitori di questo emendamento ci sono alcuni parlamentari di riconosciuta competenza che non possono ignorare l’incostituzionalità della norma. Inalberare pregiudiziali di questo tipo appare irragionevole, a meno che non si intenda impedire la riforma prima dei referendum o mettere comunque in difficoltà il governo o, ancora, produrre ulteriore confusione nella magistratura. Non rasserena sapere che alle trattative ha partecipato un magistrato-deputato, che prima di entrare in Parlamento ha rivestito i panni, a volte apparsi non del tutto dismessi, di potente capocorrente, oggi sotto procedimento disciplinare davanti al Csm perché tra i protagonisti dell’affaire Palamara. Magistratura e politica sono entrambe deboli; ma la politica ha l’occasione di esercitare la propria sovranità e porre le basi di una magistratura rinnovata. Non deve lasciarla sfuggire, perché potremmo precipitare verso soluzioni avventate, che aggraverebbero le condizioni della magistratura e si rovescerebbero sulla credibilità del Parlamento. Cosa prevedono i 5 referendum sulla giustizia di Giulia Merlo Il Domani, 2 aprile 2022 Il governo ha deciso che i referendum si svolgeranno il 12 giugno, in concomitanza con il primo turno delle elezioni amministrative. I cinque quesiti riguardano il sistema elettorale del Csm, la valutazione delle toghe, abrogazione della legge Severino, modifica delle misure cautelari, separazione delle funzioni in magistratura. Il governo ha stabilito la data in cui si svolgeranno i cinque referendum sulla giustizia, promossi dalla Lega e dal partito radicale. Si voterà il 12 giugno, in concomitanza con le elezioni amministrative per il rinnovo di 981 comuni, di cui 26 capoluoghi di provincia e regione. La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili tre quesiti: fine vita, cannabis e responsabilità diretta dei magistrati. Ne ha ammessi invece cinque, che intervengono su aspetti dell’ordinamento penale e giudiziario. 1. Liste - Per candidarsi a venire eletto al Consiglio superiore della magistratura, un magistrato deve raccogliere dalle 25 alle 50 firme. Il quesito chiede di abrogare il vincolo del numero di firme. La ragione è che, secondo i proponenti, la raccolta di firme obbliga necessariamente il candidato a venire a patto con i gruppi associativi. Eliminandole, invece, ogni magistrato potrà liberamente candidarsi senza alcun condizionamento. 2. Misure cautelari - Attualmente il pubblico ministero può disporre la custodia cautelare in carcere nella fase delle indagini preliminari, nel caso in cui esistano gravi indizi di colpevolezza sommati a pericolo di fuga, pericolo di reiterazione del reato e pericolo di inquinare le prove. La misura deve essere convalidata dal giudice delle indagini preliminari e deve essere disposta solo nel caso in cui le misure meno afflittive (come gli arresti domiciliari o l’obbligo di firma) non siano sufficienti a prevenire il pericolo. Il quesito referendario punta a limitare la possibilità di ricorrere alla carcerazione preventiva prima della sentenza definitiva. 3. Separazione delle funzioni - Attualmente i magistrati requirenti (i pubblici ministeri) e i giudicanti seguono lo stesso percorso per entrare in magistratura e, nel corso della carriera, possono passare da un ruolo all’altro per un massimo di quattro volte. Secondo i proponenti, questo crea contiguità tra figure e rischia di generare un corporativismo incompatibile con il principio della terzietà del giudice e della decisione nel contraddittorio tra le parti, in situazione di parità tra accusa e difesa. Per questo il quesito punta a stabilire che il magistrato, una volta scelta la funzione, non possa più passare all’altra. 4. Incandidabilità - La legge Severino prevede che, in caso di condanna anche solo di primo grado per alcune specifiche ipotesi di reato - in particolare quelle contro la pubblica amministrazione - scatti immediatamente anche la sanzione accessoria dell’incandidabilità alla carica di parlamentare, consigliere e governatore regionale, sindaco e amministratore locale. Il quesito punta ad abolire la norma, lasciando quindi al giudice la decisione di comminare, in aggiunta alla sanzione penale, anche la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. 5. Valutazione dei magistrati - Attualmente il voto di valutazione della professionalità dei magistrati viene dato dal consiglio giudiziario, a cui però il voto spetta solo ai componenti togati. Il referendum prevede di riconoscere il diritto di voto anche ai componenti laici, ovvero gli avvocati. La questione è molto delicata perchè dibattuta anche nella valutazione degli emendamenti al ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario, con la ferma contrarietà della magistratura associata e del Csm. Il dato politico - La coincidenza del voto referendario con le elezioni amministrative favorisce i proponenti. In questo modo, infatti, raggiungere il quorum - insperato vista la tecnicità dei quesiti - diventa se non possibile quantomeno un risultato più avvicinabile. Restano i dubbi sulla scelta, nella misura in cui in questo modo il referendum sarà fortemente condizionato dal forte afflusso di votanti nei luoghi in cui si svolgono le elezioni amministrative. Sul fronte politico, infine, va sottolineato come almeno due dei quesiti ricalcano il contenuto della riforma dell’ordinamento giudiziario, oggi in discussione in commissione Giustizia alla Camera e che, nelle intenzioni del ministero della Giustizia, dovrebbe essere approvata entro fine maggio. C’è la possibilità, quindi, che il quesito sulla raccolta delle firme e quello sul voto degli avvocati nei consigli giudiziari non siano più attuali per modifica della normativa. Consulta, Amato: “La Costituzione dei diritti contro l’uso della forza e il martirio della guerra” di Liana Milella La Repubblica, 2 aprile 2022 Pubblicato l’Annuario 2021 della Corte. I numeri: aumentano le cause trattate e anche i moniti al Parlamento. Il presidente: “Primi frutti della collaborazione con le Camere”. La pandemia ha aumentato i ritmi di lavoro. L’elogio della Costituzione. “Un esempio di comunicazione chiara, semplice e accessibile. La stragrande maggioranza delle parole che usa sono di senso comune, che tutti capiscono, nel contesto di frasi brevi e semplici”. Una Costituzione contro l’uso della forza a prescindere dalla ragione. “L’idea centrale, e centrale per la civiltà che la nostra Costituzione, insieme ad altre, ha contribuito a costruire in Europa sulla base della forza del diritto, della fiducia nella soluzione che si trova non con la forza, ma nel confronto delle ragioni, degli argomenti, dei valori”. L’Europa, nonostante le Costituzioni univoche, travolta dalle immagini della guerra in Ucraina. “Una civiltà che oggi torna a essere messa in discussione. Il fatto stesso che un Paese, distante da Trieste poco più di quanto Trieste lo sia dalla Sicilia, sia martoriato da una guerra, dimostra che quella civiltà ha bisogno di essere riaffermata, vivificata e difesa”. Sono le parole che arrivano dalla Corte costituzionale, nell’intervista del suo presidente Giuliano Amato, che apre l’Annuario del 2021, curato dalla portavoce della Consulta Donatella Stasio. Un mix di foto, quelle dei quindici giudici della Corte ritratti collettivamente dentro e fuori dal palazzo. Un palazzo che, sin dalla copertina dell’Annuario, attesta fisicamente la sua vicinanza a quello del Quirinale. E proprio nella piazza tra i due storici edifici si terrà a luglio il concerto del Maestro Nicola Piovani dal titolo “Il sangue e la parola”. Nell’annunciarlo, Amato ne parla così: “Davanti a una guerra, lo so, non è un concerto che può bastare.Ma intanto è cruciale il tema che quel concerto affronterà, perché si tratterà non solo di musica, ma di una cantata su un testo che collega la nostra Costituzione a quella che per gli ateniesi fu la nascita del diritto 2.500 anni fa”. Due garanti, Quirinale e Consulta, per una sola Costituzione. Che anche l’anno scorso - l’annuario è alla sua seconda uscita - ha macinato sentenze e ordinanze, passando per la prima volta nella sua storia dalla carta alla piattaforma e-cost, tutto online, dall’invio di carte, alla richiesta di atti. Almeno da questo punto di vista il Covid ha rappresentato una scossa verso la mutazione tecnologica. Merita di essere letto questo Annuario 2021 della Consulta perché dimostra - se si può usare quest’espressione familiare - l’amore di un’istituzione verso se stessa, non solo nella voglia di fare e di migliorare, ma anche di comunicare all’esterno le sue decisioni. Nello sforzo, ogni volta, di renderle intellegibili non solo per il “palazzo” ma anche per la gente comune. Perché proprio i cittadini - vedi le decisioni sulla famiglia e sui minori - sono i primi destinatari della Costituzione, la carta dei diritti di tutti, “chiara, semplice, accessibile” come dice Amato. Sarà proprio Amato, il prossimo 7 aprile, a raccontare in una conferenza stampa i risultati della Corte sua e dei suoi colleghi. Tra cui ben tre vice presidenti, Silvana Sciarra, Daria de Pretis, Nicolò Zanon, che tra qualche mese si giocheranno la futura presidenza quando scadranno i nove anni di permanenza alla Corte del “dottor Sottile”. Ma da qui a quel momento - se ne parla a settembre - saranno ancora tante le decisioni da prendere, a cominciare da quella sull’ergastolo ostativo, qualora il Senato non dovesse convertire in tempo, entro il 10 maggio, la legge che la Camera ha appena licenziato. I numeri della Consulta - come racconta l’Annuario - sono testimoni di un’attività intensa per evitare sacche di arretrato. Aumentano le cause trattate - da 370 nel 2021 alle 326 del 2020 -. Crescono le incostituzionalità, 50 rispetto a 48. La durata media del giudizio in via incidentale passa da 261 a 285 giorni - cioè da 8 a 9 mesi -, quella del giudizio in via principale da 226 a 245 giorni. I conflitti tra Stato e Regioni calano da 105 a 65, ed è soprattutto il governo a rivolgersi alla Corte. Crescono ovviamente, da 8 a 22, le contestazioni che riguardano il Covid. Alla fine dell’anno scorso risultano pendenti 302 cause, nel rapporto tra 315 sopravvenute e 317 definite. La domanda di giustizia costituzionale registra una diminuzione in termini assoluti, le ordinanze di rimessione aumentano da 207 a 227, ci sono meno ricorsi in via incidentale (da 195 a 68), di cui ben 65 dalla presidenza consiglio dei ministri. Aumentano i moniti della Consulta rivolti al Parlamento, 10 nel 2018, 20 nel 2019, 25 nel 2020, 29 nel 2021. Ma non è solo la Corte dei “numeri” quella che racconta Amato. Bensì una Corte che cerca al massimo di dialogare con il Paese - anche attraverso le nuove forme di comunicazione come i podcast - e di portare ovunque la Costituzione. Ma anche di trasformare il processo costituzionale in un vero dialogo. Tant’è che Amato dice: “Quel che mi piacerebbe vedere nel giudizio costituzionale è un vero dialogo durante le udienze, che troppo spesso sono un susseguirsi di monologhi, del relatore e degli avvocati delle diverse parti, anziché essere, come accade in altre Corti, un confronto vivo, fatto anche di domande e di risposte. C’è ogni tanto qualche cenno, ma se penso alla Corte suprema americana o anche alle nostre Corti europee, mi sento molto più indietro”. Ed è sul dialogo, anche con il mondo della cultura, che la Corte investe ormai da alcuni anni. Grazie a presidenti che hanno aperto il palazzo, e i giudici stessi, al mondo esterno, e a una comunicazione istituzionale che ha compreso come “raccontare” le sentenze, spiegandone l’importanza, sia un servizio per le istituzioni e per i cittadini. Ecco allora Amato parlare delle decisioni sul Covid, a partire “dall’uso dei Dpcm che non comportava deleghe legislative inammissibili”, alla “competenza esclusiva dello Stato in rapporto alla profilassi internazionale”, anche se “l’autonomia regionale resta un tratto irrinunciabile del nostro sistema di governo”. E poi di quelle sui rapporti tra figli e famiglia che hanno investito e continuano a investire la Corte: “Il legislatore ha scritto che i figli hanno diritto, tutti, allo stesso trattamento e ha abolito la distinzione tra figli legittimi e naturali, ma la varietà dei rapporti affettivi tra gli esseri umani, le famiglie e le unioni civili ci hanno messo davanti a situazioni nuove che hanno spinto i giudici ordinari a sottoporci casi concreti in cui le tutele dei bambini erano inadeguate o irragionevolmente differenziate”. Ed eccoci al rapporto con le Camere e ai “moniti” che la Corte ha inviato. E qui Amato dice che “è fisiologico un rapporto collaborativo tra noi e il Parlamento che quest’anno ha cominciato a dare frutti e speriamo possa svilupparsi meglio in futuro”. Un percorso che porta ai rinvii di leggi importanti - dal caso Cappato, al carcere per i giornalisti, all’ergastolo ostativo - di cui la Corte dichiara l’incostituzionalità, ma lasciando al Parlamento la nuova stesura delle norme. Un ultimatum, come sostiene qualcuno oppure una scelta giusta? Risponde Amato: “Lo abbiamo fatto per rispetto dello stesso Parlamento e anche di coloro che ci hanno posto il problema, nella convinzione che la soluzione possibile per noi, in quei casi, può essere solo parziale, priva del respiro che soltanto la riforma parlamentare può avere”. Anche se il ricorso è inammissibile la pena è rivista d’ufficio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2022 Cassazione. Per le Sezioni unite pesa il divieto di sanzioni senza motivazione Anche se il ricorso è inammissibile, spetta alla Cassazione il potere di rilevare l’illegalità della pena determinata dalla applicazione di una sanzione contraria all’assetto normativo. Lo chiariscono le Sezioni unite penali con una pronuncia anticipata per ora da informazione provvisoria. Di certo la materia era assai controversa, visto che il richiamo all’articolo 609, comma 2, del Codice di procedura penale con il riferimento alle questioni rilevabili d’ufficio era considerato largamente insufficiente per la difficoltà di inquadrarne con precisione il perimetro in un procedimento nel quale la questione specifica neppure era stata oggetto di un motivo di ricorso. Inoltre, altro elemento di criticità era costituito dalla difficoltà di assimilare una pluralità di cause di illegalità della pena, equiparandole per la rilevabilità d’ufficio, sottovalutando la diversità tra istituti come l’abolitio criminis, il sopraggiungere di una legge più mite, la dichiarazione di incostituzionalità. A confrontarsi erano due orientamenti. Uno ostile all’intervento autonomo della Corte nella rideterminazione della pena se non investita sul punto. A venire valorizzata da questa linea era la sentenza delle Sezioni unite n. 47766 del 2015 dove, in un passaggio delle argomentazioni, si ancorava il potere di rilevare d’ufficio l’illegalità della pena alla possibilità di correggere l’errore anche nella fase dell’esecuzione. Quanto invece è l’intero modello sanzionatorio a dovere essere rielaborato con scelte che riguardano direttamente le competenze del giudice di merito, allora l’intervento di correzione deve essere escluso. Infatti, una rimodulazione della pena in questo contesto non costituirebbe un semplice intervento di nuova determinazione o sostituzione matematicamente scontata, ma avrebbe la fisionomia di un complessivo nuovo giudizio “del tutto eccentrico rispetto al pur accresciuto ambito entro il quale può trovare spazio l’intervento del giudice dell’esecuzione”. L’altro orientamento invece provava a ritagliare spazi di intervento d’ufficio da parte della Cassazione, distinguendo, per esempio, il ricorso tardivo, che nessun margine poteva lasciare, da quello inammissibile per motivi non consentiti, che sarebbe invece assimilabile alle impugnazioni in grado di instaurare un valido rapporto processuale, permettendo alla Cassazione di intervenire sulla pena originariamente illegale. L’informazione provvisoria inserisce la conclusione, favorevole a quest’ultima linea interpretativa, in un sistema di riferimenti costituzionali. In particolare agli articoli 3, sull’uguaglianza davanti alla legge, 13, sull’inviolabilità della libertà personale con il divieto di detenzione non motivata, 25, con l’esclusione di misure di sicurezza non previste dalla legge, e 27, sulla natura della responsabilità penale e sul principio di non colpevolezza. Il condannato paga per le spese di custodia del bene sequestrato anche prima della confisca di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2022 Il rimborso allo Stato di tali poste non ha natura afflittiva per cui non è sospesa l’esecuzione del pagamento se è sospesa la pena. Gravano sul condannato le spese di custodia del bene sequestrato ancorché non ancora confiscato. Nel caso si trattava dei compensi dell’amministratore giudiziario per la gestione dell’azienda oggetto di confisca. Ma proprio il principio espresso dalla Cassazione - con la precedente sentenza di rinvio nella stessa vicenda - ha affermato che il generico riferimento alle spese di giustizia al cui pagamento è tenuto il condannato, ricomprende anche quelle di custodia del bene sequestrato a fini di confisca. Il ricorso per cassazione, ora rigettato dalla sentenza n. 12214/2022, sosteneva in primis che tali spese dovessero gravare sulla società responsabile amministrativamente e non sui ricorrenti condannati per i reati ascritti. E che era illegittimo privarli dei frutti dell’azienda e imporgli il pagamento delle spese per la sua custodia giudiziaria. Ciò avrebbe determinato secondo i ricorrenti un illegittimo trattamento deteriore rispetto a chi è colpito da misure interdittive come quelle antimafia. La Cassazione ribadisce che l’accollo agli autori del reato commesso in favore della società discende dal principio espresso dalla stessa sentenza di legittimità rescindente che aveva indicato al giudice del rinvio di attenersi al principio espresso e che era affermativo dell’onere a carico dei condannati. I ricorrenti ritenevano poi che le spese per la custodia del bene dovessero seguire e cioè venir meno per il riconoscimento della sospensione condizionale della pena. La Cassazione coglie l’occasione per chiarire che tali spese non hanno affatto natura assimilabile alla pena. Competendo il giudizio sull’an delle spese al giudice penale e quello sul quantum al giudice civile ne discende l’inconciliabilità tra tale determinazione e la pretesa natura “assimilabile a quella della pena” delle spese in questione. Parma. Il carcere incontra il Terzo settore La Repubblica, 2 aprile 2022 Una chiamata alla città per conoscere la situazione delle 700 persone ristrette e attivarsi per la loro inclusione. Far conoscere la situazione del penitenziario e delle persone ristrette era l’obiettivo dell’incontro che si è svolto lo scorso martedì 29 marzo all’Istituto di Saveriani, organizzato da CSV Emilia e dal Consorzio di Solidarietà Sociale, con il sostegno di Fondazione Cariparma. Un appuntamento che è parte di un programma più ampio, dedicato alla formazione degli enti del terzo settore e dei cittadini interessati a conoscere l’ambito penale e della giustizia di comunità. La responsabile dell’Area Pedagogica del Penitenziario di Parma, Maria Clotilde Faro con le funzionarie Annunziata Lupo e Alessandra Porfirio, e Roberto Cavalieri, Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale della Regione Emilia-Romagna, si sono confrontati con chi opera a vario titolo in ambito penale: associazioni di volontariato e di promozione sociale, enti di formazione professionale, cooperative sociali, studenti e tirocinanti dell’Università di Parma. Un’occasione importante per portare all’attenzione della comunità uno spaccato di vita significativo: il carcere visto dall’interno. Il carcere è come una lente di ingrandimento, un luogo dove si evidenziano e si concentrano i problemi sociali che ritroviamo all’esterno, con l’aggravante della condizione di reclusione. Fra le circa 700 persone ristrette, ci sono sempre più situazioni di povertà e solitudine dovute alla rottura dei legami famigliari o alle scelte di migrazione; inoltre, nel circuito dell’alta sicurezza, molti detenuti sono anziani con seri problemi di salute e disabilità (esiste nel nostro penitenziario una sezione per persone tetraplegiche). L’impellenza dei bisogni e delle necessità di queste persone assume i contorni di un’emergenza fra le nuove emergenze che la nostra comunità si trova ad affrontare in questo tempo. È un’emergenza nascosta, spesso dimenticata, rimossa. È necessario agire tempestivamente perché l’emergenza non si faccia cronica, ma il personale al lavoro, fra agenti penitenziari e funzionari pedagogici, è insufficiente. I numeri parlano chiaro: a oggi ci sono 4 funzionari pedagogici per circa 700 detenuti. Anche se il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sta predisponendo un piano per l’assunzione di nuovi funzionari pedagogici, si teme che i numeri rimangano comunque insufficienti per garantire un lavoro di qualità. Da qui l’appello del carcere a sostenere le persone detenute, includendo il più possibile questa piccola città reclusa nella nostra città, conoscendola di più, tenendola nei nostri pensieri e sperimentando risposte a più livelli. Insomma, un appello perché si facciano avanti nuovi volontari disponibili a spendersi in questo ambito e perché da diverse parti si intraprendano nuove azioni che creino inclusione sociale. Una strada da perseguire anche per preparare il terreno a percorsi di reinserimento lavorativo e sociale per chi, prima o poi, con mille difficoltà, uscirà dal carcere. Gela (Cl). “Garantire la speranza tra i detenuti” di Giuseppe D’Onchia ilgazzettinodigela.it, 2 aprile 2022 L’ho conosciuto anni addietro durante un reportage sulle condizioni del carcere di contrada Balate a Gela. Mi ha colpito la sua ampia disponibilità nell’accoglienza e l’alta professionalità nel rispondere alle mie domande. Senza tentennamento alcuno, rispettando i ruoli. Col tempo, ne ho apprezzato doti umane e professionali. Così come hanno fatto gli altri. Francesco Salemi, 47 anni, laureato in giurisprudenza, regolarmente iscritto all’Albo degli avvocati e abilitato alla professione, nella vita ha scelto di… indossare la divisa della Polizia Penitenziaria. È stato comandante di reparto presso il nuovo complesso penitenziario “Solliciano” di Firenze e dopo l’esperienza in Toscana, è tornato nella sua Sicilia (è originario di Acate), guidando gli agenti nella casa circondariale di Gela (dal 2012 al 2018), e successivamente quelli in servizio a Caltanissetta e a Caltagirone. Da quattro anni a questa parte, è comandante di reparto presso la casa circondariale di Piazza Lanza, a Catania. Nel 2021, ha avuto l’incarico di supporto nel carcere di Barcellona Pozzo di Gotto per poi riprendere il suo originario servizio nella città etnea. Comandante, carceri sovraffollate ovunque. Quale potrebbe essere il rimedio per evitare tutto ciò? “Le soluzioni sono ampiamente note a tutti i soggetti istituzionali e rientrano nell’ambito delle scelte di politica penale. Personalmente ritengo che ancora oggi ci sia una concezione della restrizione della libertà personale, quindi del carcere, come l’unica “pena vera” a fronte dei comportamenti penalmente rilevanti. Mi auguro che questa concezione possa essere superata e che nel tempo maturi la convinzione che il ricorso alle pene alternative al carcere non è solo una necessità per decongestionare gli istituti di pena, ma una scelta di modernità”. Le carceri riescono a redimere? “Le carceri non redimono. Il concetto di redenzione non si può utilizzare, a mio avviso, per descrivere le finalità rieducativa dell’istituzione penitenziaria. Il carcere può e deve offrire degli strumenti di “inclusione sociale”, ossia opportunità di lavoro, formazione e riflessione tali da consentire, al detenuto che ha la voglia di coglierle, una ricostruzione personale su basi diverse rispetto a quelle che lo hanno portato a delinquere. Lo sforzo della polizia penitenziaria e di tutti gli operatori del carcere è quello di promuovere un processo di revisione critica del comportamento che, tuttavia, deve essere maturato dalla persona. Un processo condizionato da fattori esterni su cui l’istituzione carceraria non può incidere. Mi riferisco alle condizioni familiari, ai legami con gli ambienti criminali di provenienza, al contesto sociale di riferimento del soggetto. Il concetto di recupero della persona deviante va oltre il fine e gli strumenti dell’istituzione carceraria: impatta sulla cultura, sulla maturità e sulla ricchezza della società”. Quante delle persone che hanno trascorso i loro giorni in galera, subito dopo la loro scarcerazione sono ritornate purtroppo a delinquere? “Il tasso di recidiva è alto, troppo alto rispetto agli sforzi e alle risorse che tutti gli operatori del carcere mettono in campo quotidianamente. Sulle cause della recidiva vi è una letteratura sconfinata che non è il caso di richiamare. La mia personale convinzione è che laddove la società si dimostra pronta a riaccogliere quel soggetto che è stato in carcere, evitando la “ghettizzazione” ed offrendo occasioni di lavoro e di libertà, la recidiva diminuisce. L’andamento della recidiva segue la diversità sociale, culturale e, soprattutto, la ricchezza economica delle varie regioni d’Italia”. Qual è il rimedio per fare in modo che ciò non accada? “La cultura, la conoscenza e il lavoro che costituiscono le basi della dignità della persona”. Quando interagisce con i carcerati, cosa le dicono in particolare? “Un Comandante della Polizia Penitenziaria operativo nelle carceri “deve” interloquire con i detenuti, deve cercare di intercettarne i bisogni e deve agire con fermezza per prevenire comportamenti illeciti e potenzialmente dannosi per l’ordine e la sicurezza interna e l’ordine pubblico. Il Comandante deve conoscere personalmente e attraverso il lavoro dei suoi ispettori, sovrintendenti e, soprattutto agenti, la personalità del detenuto. Durante la mia carriera ho sempre rispettato questo principio ed interloquito con la popolazione detenuta ascoltando le storie dei singoli, spesso brutali, ma altrettanto spesso dense di una umanità negata. Eccezion fatta per quei soggetti, quelli di maggiore spessore criminale che oserei definire irriducibili, i detenuti comuni chiedono chiarimenti rispetto ai diritti previsti dall’Ordinamento Penitenziario, o a tematiche di convivenza, o attinenti alla vita quotidiana penitenziaria e, soprattutto, chiedono di poter svolgere un lavoro all’interno al carcere che consenta loro di sostenersi e sostenere le famiglie. Lavoro che, purtroppo, non c’è per tutti”. Sbagliamo quando indichiamo la quotidianità dei carcerati, una vera e propria “libertà sospesa”? “Non si sbaglia. Condivido. I detenuti, in quanto tali, non sono liberi e dipendono in tutto e per tutto dai loro custodi. Ma tale sospensione prima o poi, anche per i condannati a “fine pena mai” a determinate condizioni, può concludersi. Rientra nella facoltà del singolo gestire al meglio, entro le regole penitenziarie, questo periodo di libertà sospesa”. Come passano le giornate i detenuti? “Le giornate sono scandite da tempi, modalità e disposizioni previste nel Regolamento Interno vigente in ciascun istituto penitenziario della Repubblica e secondo prescrizioni di legge. In generale, negli istituti di pena, vengono attivati degli strumenti di formazione, scuola, lavoro, sostegno, che possono accompagnare il detenuto in questo periodo, da lei correttamente definito come di sospensione della libertà”. Perché ha deciso di indossare la divisa della Penitenziaria? “Da giovane studente di liceo ho urlato di rabbia alla notizia delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Ho percepito quella cappa di violenza e prevaricazione che portò a quelle decine di morti ammazzati nei primi anni 90 a Gela. Ho maturato in quel momento la convinzione di intraprendere gli studi di giurisprudenza e di provare a servire lo Stato. Ho esercitato per un breve periodo la professione forese e sono entrato nella Polizia Penitenziaria perché volevo far parte di una Forza di Polizia. Oggi, dopo anni di carriera, posso di dire di avere fatto la scelta giusta perché faccio parte di un Corpo chiamato a contrastare l’illegalità e la prepotenza criminale nelle carceri e nel territorio. Un Corpo che mi onora e che io onoro con tutto me stesso”. Ha mai avuto paura del lavoro che svolge? “Non sono mancati, nel corso della mia carriera, momenti di forte contrasto nei confronti di quei detenuti che intendevano affermare la propria posizione di supremazia con l’intimidazione e la sopraffazione a discapito dei più deboli, ma ho sempre svolto il mio servizio applicando la legge. Credo nei valori dello Stato ed ho sempre sentito forte la tutela della mia Istituzione. No. Non posso dire di avere avuto paura. Piuttosto ho il rammarico di non aver sempre compreso fino in fondo la vera personalità di alcuni soggetti che sono stato chiamato a custodire”. Che ricordo ha dell’esperienza di Gela? “Un ricordo meraviglioso. Di una struttura modello, con un personale di polizia penitenziaria dalla grande esperienza e professionalità. Struttura non a caso onorata della presenza del Provveditore della Sicilia, fra tutti i penitenziari della regione in occasione della festa del Corpo del 2018. Porto dentro di me i frutti di quella esperienza: la grande sinergia tra la Polizia Penitenziaria, le Istituzioni locali, le altre Forze dell’ordine, Magistratura, un Direttore capace di valorizzare la struttura ed il territorio”. Ci sono delle differenze tra il carcere di Gela e quello di Piazza Lanza in cui attualmente presta servizio? “La differenza è data dalla struttura, dalle dimensioni, dai numeri e dalla complessità territoriale. La Casa Circondariale di Catania Piazza Lanza riceve il 25% circa degli arrestati della Sicilia, insiste in pieno centro cittadino, è una struttura storica, del 1910, ma esempio di virtuosa ristrutturazione. Ma al pari del carcere di Gela ho trovato un reparto di Polizia Penitenziaria eccezionale, operatori dalla grandissima professionalità e conoscenza, un terzo settore estremamente attivo ed un Direttore di grandissimo spessore ed illuminazione. Posso dire, con non poco orgoglio, di avere avuto la fortuna, nel corso della mia carriera, passando dalla Toscana alla Sicilia e svolgendo disparati incarichi per l’Amministrazione Penitenziaria, di lavorare con delle eccellenze”. Abbiamo visto e letto ultimamente di fatti di cronaca che hanno interessato il corpo della Polizia Penitenziaria. Il riferimento è alla violenza perpetrata da agenti - secondo quanto sostiene la magistratura - ai danni dei detenuti a Santa Maria Capua Vetere. Qualcuno l’ha definita una vera mattanza. Qual è il suo pensiero? “Non posso esprimermi su fatti per i quali vi è ancora un processo in corso. Osservo solamente che il motto del Corpo è: “despondere spem munus nostrum” ossia “garantire la speranza è il nostro dovere”, ed altresì che nel nostro Paese, patria del diritto, esiste un sistema di garanzie costituzionali a tutela di tutti i cittadini, anche detenuti. La Polizia Penitenziaria è un Corpo sano, bisogna avere fiducia nelle Istituzioni e nella loro capacità di resilienza”. Come avete gestito (e fate ancora) l’emergenza Covid tra i detenuti? “Vi sono dei protocolli firmati tra le Direzioni degli istituti e le Asp di riferimento (la medicina penitenziaria, infatti, dipende dall’Azienda Sanitaria del territorio) che disciplinano le modalità di ricezione degli arrestati e, in generale, dei nuovi giunti nelle strutture nonché le procedure di “quarantena” dei casi positivi e dei loro contatti. I nuovi per alcuni giorni, a seconda dello stato di salute nonché vaccinale, vengono messi in stanza singola in domiciliazione fiduciaria e, solo dopo tampone negativo, molecolare o rapido, acquisito il nulla osta sanitario, vengono avviati a vita in comune nelle sezioni ordinarie. Gli eventuali casi positivi gestibili in istituto - asintomatici o paucisintomatici- vengono associati in una sezione a ciò dedicata all’interno della quale, tutto il personale, di polizia penitenziaria e operatori sanitari, presta servizio con i dispositivi di protezione individuale integrale. Ciò fino alla loro negativizzazione allorquando, acquisito il nulla osta sanitario, vengono riportati a vita in comune. Nel tempo, inoltre, sono stati acquistati ed installati dei sanificatori degli ambienti e le singole stanze detentive sono oggetto di sanificazione periodica ed alla bisogna. Di certo non sono mancati i momenti di criticità e di tensione, specie nel primo periodo dell’emergenza quando abbiamo dovuto adottare una serie di misure rigidissime per limitare l’ingresso del virus in carcere - la sospensione dei colloqui in presenza ne rappresenta quella più eclatante - struttura chiusa per eccellenza, tuttavia, il mio reparto ha saputo arginare e gestire al meglio gli eventi in sinergia con i sanitari dell’Asp di Catania. Il reparto ha dimostrato con senso di responsabilità, professionalità ed umanità attraverso una costante opera di informazione e persuasione nei confronti della popolazione detenuta che ha sempre avuto contezza delle motivazioni delle misure”. D’accordo con l’ergastolo ostativo? “Si. L’articolo 4bis e l’articolo 41bis sono i capisaldi del contrasto alla criminalità organizzata sul versante penitenziario e, come già hanno detto uomini dello Stato ben più autorevoli di me, non vi è dubbio che ancora oggi siamo chiamati a gestire soggetti strutturati per i quali solo la collaborazione con la giustizia può essere considerata la prova della cesura dei legami con l’organizzazione d’appartenenza. Sono sicuro che il legislatore, come già avvenuto in passato, riuscirà a trovare il giusto equilibrio per garantire l’efficacia dell’impianto normativo oggi esistente e le indicazioni della Corte Costituzionale”. Sono altissimi i suicidi e i tentativi nelle carceri italiane, così come è alto il numero di atti di autolesionismo. Come fronteggiare quest’allarmante sequela? “Potrei risponderle con la creazione del carcere che vorremmo! Quello in cui funziona tutto: manutenzione della struttura rapida ed efficace, condutture e rifornimenti d’acqua efficienti, cucine moderne, riscaldamenti, tempi di risposta rapidi alle esigenze personali dei detenuti, più lavoro, più formazione, più poliziotti in numero e qualifiche adeguate, più educatori, più psicologi, più mediatori culturali, più operatori del terzo settore! In realtà non sempre è così. Il carcere resta un luogo di sofferenza. Un luogo pieno di difficoltà che amplificano il disagio dei soggetti più fragili. Ed allora la risposta è: con gli strumenti che abbiamo. Parlo di professionalità, conoscenza e senso di umanità. Con la reale presa in carico dei soggetti fragili da parte di tutti gli operatori del carcere tra i quali un ruolo preponderante è quello della Polizia Penitenziaria che osserva 24 ore su 24 i detenuti e grazie alla quale possiamo parlare, nella maggior parte dei casi, di “tentativi” e non di tragici fatti consumati”. Parlavamo di suicidi e di atti di autolesionismo da parte dei detenuti. Non mancano - purtroppo - anche aggressioni agli agenti. Più volte il sindacato ha fatto la voce grossa, chiedendo interventi immediati e risolutivi al Dap sulle disfunzioni e sugli inconvenienti che si riflettono sulla sicurezza e sulla operatività delle carceri siciliane e del personale di polizia penitenziaria che vi lavora con professionalità, abnegazione e umanità nonostante una significativa carenza di organico… “Purtroppo il fenomeno delle aggressioni è presente e, a mio avviso, è ampliato, da un lato, dalle grandi difficoltà gestionali collegate alla pandemia, dall’altro, dalla elevata presenza di soggetti con problematiche psichiatriche, che limitano gli interventi di sicurezza e le scelte dell’organizzazione. I sindacati fanno la loro parte in quanto elementi fondamentali, per stimolo e critica, a volte anche aspra, dell’amministrazione e ci aiutano, ad intercettare un certo malessere del personale. Per questo li ringrazio. In linea generale il personale di polizia penitenziaria conosce le regole d’ingaggio ed è ben addestrato ma, purtroppo, la carenza di organico e l’esiguo numero di professionisti del trattamento, cui l’amministrazione sta cercando di far fronte con nuove assunzioni, allo stato attuale, rappresentano una grossa criticità. Di certo esistono alcuni aspetti di sistema che si possono affrontare in via amministrativa: penso ad esempio alla rimodulazione dei rapporti dei detenuti con le loro famiglie in un’ottica di premialità o, relativamente al personale di polizia penitenziaria, all’attivazione di alcune specializzazioni e ad una formazione specifica per i soggetti psichiatrici. Ciascuno di noi, ai vari livelli dell’amministrazione, è in campo su questo fronte”. Non soltanto fatti di cronaca ma - ce lo auguriamo - anche aneddoti. Ce ne può raccontare qualcuno? “Le racconto due aneddoti che, a mio avviso, possono far riflettere su cosa fa il carcere e su cosa fanno la società e le relazioni umane. Il primo è quello di un giovane finito in carcere per reati legati a sostanze stupefacenti ma con una storia dietro di famiglia emarginata, servizi sociali, abbandono scolastico, carcere minorile. Quando lo conobbi, poco più che ventenne, era ancora analfabeta ed in perenne conflitto con tutti gli operatori, specie i poliziotti. Abbiamo capito che l’unico trattamento per lui era quello di mandarlo a frequentare la scuola elementare interna al carcere, cosa che abbiamo fatto con non poche difficoltà. Praticamente all’epoca l’abbiamo quasi adottato! Dopo qualche mese, questo giovane incominciò a leggere e a scrivere e dopo un anno partecipò addirittura, grazie a dei volontari, ad un corso di scrittura creativo componendo una poesia per la mamma che venne pubblicata in un libretto poi dato alle stampe. In seguito, è uscito dal carcere e mi auguro che oggi sia stato capace di rompere con il passato. Il secondo riguarda un altro giovane entrato per reati contro la persona, collaterale ad una delle organizzazioni criminali che ammorbano il nostro territorio. Qualche tempo dopo il suo ingresso seppe dai suoi familiari che la sua fidanzata, di una famiglia dignitosa, era in gravidanza. Da quel momento assistemmo ad un cambiamento di questo detenuto evidente. Smise i suoi comportamenti oppositivi, accettò tutte le offerte che il carcere poteva dargli (formazione, scuola e una borsa lavoro), cambiò anche fisicamente rilassando lo sguardo ed imparando a relazionarsi correttamente. Uscì dopo un anno circa ma non gli andò bene. Fu coinvolto in un fatto di sangue e rientrò in carcere. Quando lo rividi, di nuovo con quello sguardo cattivo, intimidatorio, negazionista ed oppositivo, gli chiesi: “come sta la sua compagna e suo figlio?” Mi rispose: “non lo so. Comandante, quando sono uscito dal carcere dovevo trovare la pace ed invece non ho trovato nulla. La mia compagna e mio figlio mi hanno lasciato”. Queste storie sono comuni alla maggior parte dei detenuti. Poi ci sono gli irriducibili. Quelli dell’ergastolo ostativo”. Cosa c’è dietro le sbarre? “Un mondo parallelo, in cui metà della popolazione dipende in tutto e per tutto dall’altra metà. Un mondo in cui si osservano tutte le caratteristiche dell’animo umano: da quelli peggiori, mi riferisco a quei soggetti strutturati, incapaci di proiettarsi al di fuori dell’ambiente criminale da cui provengono, al soggetto psichiatrico, che ad un certo punto la società si stanca di gestire e manda in carcere. Un mondo in cui coesistono fermezza, rigidità e controllo, ma anche opportunità e responsabilizzazione”. Voltaire diceva che “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”: è proprio così? “È così se intendiamo che il carcere rispecchia la società. In realtà la civiltà di un popolo si misura dalla sua capacità di garantire opportunità di lavoro e di cultura, dalla capacità di creare e distribuire ricchezza al maggior numero di persone, dalla capacità di non lasciare nessuno indietro, anche i detenuti. Purtroppo, c’è ancora tanta strada da fare”. Parma. “Le infinite riforme. Il carcere e la città”: giovedì il seminario interdisciplinare Gazzetta di Parma, 2 aprile 2022 Prosegue la seconda edizione della rassegna “Tra diritto e società. La questione penitenziaria”, un ciclo di seminari interdisciplinari promossi dal dipartimento di Giurisprudenza, Studi politici e internazionali dell’Università di Parma. Gli incontri sono ideati e organizzati da Fabio Cassibba e Chiara Scivoletto, docenti, rispettivamente, di Diritto penitenziario e di Criminologia in Ateneo. Il secondo seminario, in programma giovedì alle 15 e intitolato “Le infinite riforme. Il carcere e la città”, vedrà la partecipazione di Stefano Anastasia, della Conferenza dei Garanti per le persone private della libertà personale, Giuseppe Mosconi dell’Università di Padova e Giacinto Siciliano, direttore della Casa circondariale di San Vittore di Milano. Si proseguirà mercoledì 13 aprile alle 15 per trattare di “Carcere duro” e diritti fondamentali del detenuto. Dialogheranno sul tema Pasquale Bronzo, di Sapienza Università di Roma, Veronica Manca, avvocata del coordinamento di “Diritto di difesa” e Gabriele Terranova, presidente della Camera penale di Prato. Martedì 26 aprile alle 15, “La sicurezza e l’uso legittimo della forza”. Il tavolo dei relatori sarà composto da Pietro Buffa, provveditore del dipartimento della Amministrazione penitenziaria della Lombardia, Cosima Buccoliero, direttrice dell’Istituto penale minorile Beccaria di Milano, Alessandro Maculan, dell’Università di Padova e Angelo Napolitano, dirigente di Polizia penitenziaria nella Casa circondariale di Pavia. Mercoledì 4 maggio alle 15 Sex offenders e “infami”: i bisognosi di protezione dentro e fuori dal carcere. Ne tratteranno Laura Cesaris, Università di Pavia e Garante dei detenuti della Provincia di Pavia, Monica Dotti e Paolo De Pascalis, del Centro Ldv dell’Ausl di Modena, Fabio Gianfilippi, del Tribunale di Sorveglianza di Spoleto e Silvia Merli, presidente del Clpm Emilia di Piacenza. Giovedì 12 maggio alle 13 “Il diritto allo studio in carcere. Pensare il futuro”. Quest’ultimo seminario si svolgerà in presenza nel teatro degli Istituti penitenziari di via Burla e vedrà la partecipazione di Franco Prina, presidente della Conferenza nazionale universitaria dei Poli penitenziari (l’organismo della Conferenza dei rettori delle università italiane dedicato allo studio in carcere), che dialogherà con Vincenza Pellegrino, delegata del rettore ai rapporti con gli Istituti penitenziari di Parma e con Francesca Vianello ed Elton Kalika, dell’Università di Padova. Tutti gli appuntamenti (in modalità webinar, su piattaforma Teams) sono aperti alla partecipazione libera dei professionisti, degli operatori, degli studenti degli istituti scolastici superiori e della cittadinanza. Napoli. Martedì il convegno “Mediazione penale e mediazione minorile” Il Mattino, 2 aprile 2022 “Mediazione penale e mediazione minorile”: è questo il titolo del convegno promosso dal Garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, organizzato per il 4 aprile, dalle ore 9, nella Sala auditorium dell’Isola C3 del Centro direzionale di Napoli. Due tavole rotonde che affronteranno il tema della giustizia riparativa da diverse angolazioni, lanciando uno sguardo al futuro della mediazione penale nel processo giudiziario. Ad aprire i lavori sarà Ciambriello, che presiederà la prima sessione di interventi. Dopo i saluti di Bruna Fiola, presidente della VI Commissione (Istruzione, Ricerca scientifica e Politiche sociali) del Consiglio regionale della Campania, si confronteranno sul tema, nella prima parte, Manuela Siniscalco, docente di diritto di famiglia e minorile dell’Università Suor Orsola Benincasa, Giuseppe Centomani, dirigente Centro di giustizia minorile della Campania, Maria Cristina Ciambrone, presidente dell’associazione italiana mediatori penali e Demetrio Calveri, avvocato della Camera di mediazione nazionale. Un taglio più pratico, con anche testimonianze dirette di chi giornalmente veste i panni di mediatore, sarà quello dei relatori della seconda tavola rotonda, presieduta dal presidente dell’Ordine degli assistenti sociali della Campania, Gilda Panico. A questa prenderanno parte Carmela Grimaldi, assistente sociale, mediatore penale e referente Airac Campania, Patrizia Sannino, criminologa e referente Ai.Me.Pe Campania, Maria Guidone, avvocata e referente Associazione Tarita Aps. Nel corso dell’incontro verranno presentati due corsi di formazione per mediatori penali e mediatori penali minorili. Questi, patrocinati dal Garante dei detenuti della Campania, saranno erogati dall’Associazione Italiana Mediatori penali e dall’Associazione Italiana Risoluzione Alternativa Conflitti. “Oggi - afferma il Garante campano - non si può non tenere conto di un modello di giustizia diverso da quello punitivo. La giustizia riparativa potrebbe essere un buon rimedio ad inadeguatezze e limiti della giustizia tradizionale. La mediazione penale, e accanto ad essa altre forme di giustizia riparativa, può costituire uno strumento non per negare il conflitto, se pur impegnativo e doloroso, ma per affrontarlo in prima persona con coloro che sono coinvolti” Sanremo (Im). Nessuno Tocchi Caino e Radicali in visita al Carcere di Valle Armea sanremonews.it, 2 aprile 2022 “La Liguria non ha ancora un garante per i luoghi di detenzione”. Oggi la visita al carcere di Sanremo Valle Armea da parte dei militanti di Nessuno Tocchi Caino. Il Gruppo Radicale Adele Faccio è intervenuto insieme all’Unione sindacale italiana-Usi. “Oltre a consegnare la solita valigia di fumetti alla biblioteca dei detenuti, abbiamo portato in loco un’esponente della Cooperativa Senape, Mirella Ruo di Casale Monferrato, che la scorsa estate è andata a trovare un carcerato di origini africane, già seguito in Piemonte, poi ammalatosi di tubercolosi, trasferito, isolato al freddo e morto ustionato dopo aver dato fuoco alla cella per l’esasperazione. La stessa Coop Senape partecipò alla manifestazione del segretario del Graf, Gian Piero Buscaglia, che sempre insieme all’Usi-Usicons, all’indomani del Festival di Sanremo girò per la città vestito da carcerato: uomo-sandwich col cartello ‘Chi sono gli Ultimi? Migranti, detenuti o migranti-detenuti?’. I problemi restano: immigrazione e carceri” - spiegano gli organizzatori. Oggi Buscaglia ha indossato di nuovo il costume a strisce bianche e nere. “Nell’occasione, auspichiamo che il Consiglio regionale ligure, avvicinandosi le elezioni genovesi, mantenga finalmente il vecchio impegno di nominare il Garante delle Carceri, poiché la Liguria è l’unica Regione italiana ad esserne priva. Dopo il macchinoso cammino della legge regionale, sarebbe ora che la stessa fosse finalmente applicata. - hanno detto i rappresentanti delle organizzazioni fuori dal carcere di Valle Armea - La Giunta Toti e i consiglieri regionali, come han revocato in tutta fretta il loro stesso atto del 2016 con cui approvarono l’annessione della Crimea da parte della Russia di Putin, invocando il ritiro delle sanzioni internazionali [è notizia di ieri: lo han fatto a fine seduta, per semplice alzata di mano], ora potrebbero provare analogo imbarazzo per non aver ancora istituito il Garante delle Carceri in Liguria, atteso da anni”. Sulla lotta alle disuguaglianze la sinistra si gioca il suo futuro di Gianni Cuperlo Il Domani, 2 aprile 2022 Dedicare un intero anno a scavare nelle pieghe delle vecchie e nuove disuguaglianze, pregevole programma della direzione di questo giornale, non trova giustificazione solo nella cronaca del mondo, ma in una letteratura che lungo gli anni non ha smesso di interrogarsi sulle ricadute di quegli squilibri, spesso indecenti, a volte immorali, sulla vita di qualche miliardo di persone. Tra quanti hanno seminato meglio e alimentato la spinta a non contentarsi del pensiero diffuso e (solo) apparentemente condiviso, Anthony Atkinson occupa un posto sul podio. Per la coerenza della teoria affinata nel tempo e, non ultimo, per avere ispirato decine di altre e altri studiosi, Piketty il nome più illustre, in grado nella popolarità di superare il maestro eppure debitori nei suoi confronti di parte importante della loro elaborazione. Ma quali sono stati i pilastri del pensiero di quel grande economista britannico? In primo luogo l’affermazione destinata a reggere l’apparato teorico e ideale della sua ricerca: “La disuguaglianza è una violazione della dignità umana. Non è solo legata alle dimensioni del proprio portafoglio. È un ordinamento sociale e culturale che riduce le capacità, il rispetto e il senso di sé”. Secondo pilastro, al primo connesso: la disuguaglianza è il risultato di precise scelte della politica, dunque non va intesa come accidente frutto degli eventi in una concatenazione più o meno casuale, ma come espressione di una lettura della società, delle sue gerarchie, interessi, bisogni, rapporti di forza e potere. In verità basterebbero queste due premesse a sgombrare il campo da buona parte del bagaglio ideologico sui mercati capaci di autoregolarsi allocando le risorse nella forma più efficace ed efficiente. Ma Atkinson si spinge oltre, fin lì dove la politica anche a sinistra (o soprattutto a sinistra) stenta ad arrivare. E dice questo: non ci si può preoccupare solamente della disuguaglianza delle opportunità, con eguale volontà bisogna occuparsi della disuguaglianza degli esiti sapendo quanto quest’ultima dipenda dall’intreccio tra “fattori demografici, funzionamento del mercato del lavoro, efficacia della contrattazione collettiva, distribuzione del reddito da capitale, modi di formazione delle famiglie (in particolare dei modelli di genere), funzionamento del welfare”. Posta così, ma è il solo modo serio di porla, anche la statistica spessissimo evocata (tra il 1978 e il 2012 le retribuzioni degli amministratori delegati sono aumentate dell’876 per cento a fronte di un aumento del cinque per cento delle remunerazioni orarie del lavoratore mediano, facendo schizzare il rapporto tra le due tipologie dal 20 per cento del 1965 al 273 per cento del 2012), dicevo, posta come la pone Atkinson anche quelle cifre assumono un rilievo diverso nel senso di svelare quale impatto enorme abbia avuto la rimozione di fattori strutturali, e di lungo periodo, destinati ad alterare fisionomia e fisiologia delle nostre strutture sociali (compresa la mobilità ascendente, le coperture assistenziali, l’accesso pieno alla cittadinanza). Il pudore e la tassazione - Conseguenza di tutto ciò è stata anche una correzione della graduatoria sociale, se parliamo di redditi, con i classici rentiers sorpassati nella scala da grandi finanzieri, amministratori delegati, calciatori, star dello spettacolo e, soprattutto in Italia, funzionari pubblici di alto grado. Ora, risulta piuttosto ardito dimostrare che retribuzioni altissime - diciamo pure, fuori logica - riflettano una premialità del merito, mentre avrebbe un serio fondamento prevedere su quegli alti redditi una tassazione finalizzata al sostegno di investimenti mirati a risollevare i redditi più mortificati. Nulla di particolarmente originale, si chiamava e si chiama “redistribuzione”. La stranezza, volendo cercarla, sta nel pudore a evocarla come antidoto a una società progressivamente diseguale e incattivita nelle sue sfere più offese e penalizzate. Ma può bastare innestare la retromarcia e tornare al modello redistributivo dei famosi trent’anni “gloriosi” del secondo dopoguerra? Per capirci, quelli dove la triangolazione tra crescita economica, espansione della democrazia e coesione sociale aveva consentito un allargamento graduale della classe media protetta da un welfare amico e salari adeguati ai nuovi standard di benessere? La risposta è no, tornare a quel mondo e modello semplicemente non si può. E il motivo sta nelle cose, nei processi in atto: una tecnologia che ha già impattato e sempre di più impatterà il sistema occupazionale, una dinamica globale dei processi politici che ha modificato i rapporti di potere e “scompigliato” i confini. E ancora, se concentriamo lo sguardo su di noi, sull’occidente, l’invecchiamento della popolazione e la decisiva battaglia di emancipazione e autonomia delle donne con una conseguente rottura di modelli e bisogni sociali e culturali scardinati dopo decenni o secoli. Anche per tutto questo incamminarsi sul sentiero del welfare tradizionale non basta più. E allora? Allora, seguendo ancora la riflessione di Atkinson, la strada non passa solamente da un aumento (necessario e provvidenziale si capisce) della spesa sociale con la revisione coraggiosa dei sistemi fiscali. “La strada è ripensare il modo in cui funzionano il mercato e i redditi che da questo provengono”, ma dirlo equivale a uscire dal conflitto tra politiche di investimento sociale, cosiddette attive, che sarebbero quelle di welfare moderno, e politiche di protezione sociale, cosiddette passive, che sarebbero quelle del welfare tradizionale. Spiega Atkinson come “protezione e investimento stanno assieme se si è capaci di intervenire in primo luogo sui meccanismi che determinano i redditi da mercato del lavoro e da capitale per mettere gli individui in grado di esercitare un controllo diretto sulla propria vita”. Reddito di partecipazione - Un esempio, e ci avviciniamo così alla cronaca del dibattito in corso nei parlamenti di ogni democrazia: quella combinazione di protezione e attivazione la si coglie nella proposta di un salario minimo fissato al livello “di ciò che è ritenuto necessario per vivere”. Proposta integrata, volendolo, da uno sconto fiscale sul reddito da lavoro e un reddito minimo universale, un “reddito di partecipazione”, non subordinato a requisiti di guadagno, ma solo a requisiti di attività (nel mercato, nelle cure familiari, nel volontariato, nello studio). Soluzione diversa tanto dal reddito di cittadinanza che dal reddito minimo per i poveri. Un “reddito di partecipazione” consentirebbe di incrociare meglio le condizioni del mercato del lavoro con i suoi confini a oggi piuttosto incerti e volubili tra occupazione e disoccupazione. Questa forma di reddito sostituirebbe gli sgravi fiscali che oggi nei fatti favoriscono più i ricchi rispetto ai troppi consegnati a un reddito modesto. Un passo in questa direzione potrebbe essere un assegno per i figli definito a livello europeo, quindi vincolante per tutti con l’obiettivo di ridurre la povertà dei bambini riequilibrando il bilancio delle famiglie “spesso in tensione tra reddito disponibile e numero dei consumatori”. Qui da noi il Forum sulle disuguaglianze e diversità da tempo riflette su questi temi che, per altro, non si distanziano troppo dall’ipotesi di istituire una “dote sociale” (una eredità minima sociale) da trasferire a ogni cittadino al raggiungimento della maggiore età e che “costituirebbe una misura di pari opportunità tra bambini e di investimento sociale delle generazioni più giovani”. Suggestioni? Utopie? Forse no. Forse giunti al punto di tensione sociale con la stessa democrazia per come l’abbiamo ereditata esposta a più di qualche rischio, il confronto sulla disuguaglianza ha l’obbligo di uscire dall’alveo di una riflessione teorica o meramente tecnica, per recuperare interamente la sua matrice politica restituendo alla sinistra, sulle due sponde atlantiche, quella capacità di attrazione che, piaccia o meno, passa da un ponticello stretto: convincere milioni di persone che da questa parte c’è non il sogno, ma la possibilità concreta di una vita migliore. A qualcuno sembrerà poco. Di questi tempi a me pare tutto. Il pacifismo ha bisogno di un restyling di Federica Cacciola Il Domani, 2 aprile 2022 Anno Domini 2022. Non viviamo in tempi di pace. Possiamo decisamente dirlo ad alta voce visto che attraversiamo un conflitto alle porte di casa nostra, ma la sensazione che la guerra sia tornata di moda è ormai nell’aria, non più come dimensione fattuale ma anche come dimensione dell’anima. In poche parole: le persone hanno iniziato a pensare che, tutto sommato, menarsi l’un l’altro non sia così male. A me sembra strano perché io sono cresciuta in un periodo in cui a scuola ti faceva fare i temini sulla pace e ti torturavano per interi pomeriggi con le prove di We are the world che veniva cantata male a ogni recita scolastica. Da piccola se mio cugino maggiore mi menava e io rispondevo per difendermi mia madre rimproverava me perché in questo modo scendevo al suo livello e passavo io dalla parte del torto. E con questo non voglio dire che mia madre avesse ragione, anche perché lei a sua volta si è macchiata di crimini ben peggiori come, ad esempio, sequestrarmi le Barbie per un’intera settimana. Dalla parte del torto - Il punto è che gli sganascioni, sia figurati sia letterali, sono concettualmente di moda. Una prova evidente è stata la notte degli Oscar: un comico che, come spesso accade, fa una battuta riuscita male e offensiva, e uno degli ospiti della serata che si alza e gli molla una sberla in faccia. Se fossimo in tempi di pace questo evento sarebbe stato universalmente accolto in un unico modo: condanna del gesto violento. Senza “se”, senza “ma”, senza “però l’alopecia”. Invece una quantità impressionante di persone si è schierata dalla parte di quello che mena le mani facendo cadere così il cardine di generazioni di bambini cresciuti con il monito “la violenza non è mai giustificabile”. Ora scopriamo che la violenza non è mai giustificabile, a meno che qualcuno non dica o faccia una cosa che ti offende, in quel caso puoi menare. Che è esattamente quello che fanno sempre i violenti. C’è sempre - a loro dire - qualcosa che li provoca, e loro, semplicemente “reagiscono”. Faccio notare che, fra l’altro, questa è la stessa tesi di Putin. Lui è stato solo provocato, che poi abbia reagito menando, con bombe e missili, è un dettaglio. Un problema di marketing - Sembra la definitiva sconfitta dei pacifisti, di quelli che fanno le manifestazioni in piazza con le ciabatte, quelli con le bandiere, i concerti di musica balcanica e il sorriso ebete stampato in faccia. La definitiva morte di una generazione che credeva nei girotondi e nelle collette alimentari. Ma perché il pacifismo ha perso così miseramente? A mio avviso è perché i pacifisti hanno una pessima strategia di marketing. È molto più sexy un Will Smith ricoperto di muscoli che si alza, mena e urla rispetto ad un Maurizio Landini che manifesta con le Birkenstock. Cosa fare - Ecco quindi qualche consiglio di marketing per i pacifisti: - Trovare esponenti cool. Nulla al giorno d’oggi si può più affermare senza dei testimonial di eccellenza. Il pacifismo, se davvero vuole tornare in voga, deve come minimo ingaggiare Denzel Washington che interrompa la finale del campionato di Wrestling gettandosi sul ring gridando “Fate la pace non fate le botte”. - Sembrare fighi. Il pensiero comune, oggi, sembra sostenere la tesi per la quale se a qualcuno che ti provoca tu reagisci con violenza sei un figo per cui quello che ti ha provocato verrà umiliato, deriso, sottomesso, e tu ne uscirai vincente. Ecco in questo caso potrebbe essere utile ai pacifisti utilizzare la tecnica di Chris Rock. È stato aggredito fisicamente ma non ha risposto con violenza, eppure, con una capacità che ho visto solo nei cartoni animati di Tom e Jerry, è rimasto impassibile, non ha fatto una piega ed ha fatto ciò che ogni pacifista dovrebbe fare: proseguire e andare avanti, nonostante le sberle. - Assumere un social media manager. Sarebbe importante umanizzare la pace, renderla nostra amica, avere un suo profilo social da spulciare ogni giorno per sapere cosa fa, come se la passa, capire cosa mangia e leggere cose del tipo: “Oggi sono soddisfatta: ho salvato 50 bambini”. - Dare dei vantaggi. Diciamocelo: la violenza offre un sacco di vantaggi, per questo ha successo. Ti garantisce forza, soldi, spesso anche celebrità. È necessario che la pace possa fornire gli stessi benefit. Buoni sconto nei negozi per chi non ha mai dato un pugno, agevolazioni fiscali per quelli che non hanno mai fatto a botte, debito con le banche internazionali scontato per quei paesi che non sono mai entrati in guerra. Una carta oro senza limiti di credito per tutti gli imprenditori che decidono di non produrre armi. Insomma, visto che l’etica non è sufficiente proviamo a far diventare le persone pacifiste con i soldi. Di solito quelli funzionano per tutto. La falsa razionalità che anima il dibattito pubblico sulla guerra di Gianfranco Pellegrino Il Domani, 2 aprile 2022 La discussione pubblica iper razionalistica e polarizzata di questi giorni è in realtà un gigantesco rito apotropaico, un’irruzione di pensiero magico, pre politico e pre razionale. Gran parte della nostra opinione pubblica è in preda a una sorta di “realismo politico intuitivo”: la guerra in Ucraina è effetto di interessi, squilibri mentali, errori strategici. Gli esseri umani hanno bisogno di sicurezze, e si accontentano di essere sicuri anche di quel che si rivelerà falso. Ma è una reazione errata perché, nonostante le apparenze, è contraria al metodo scientifico, sia nelle scienze naturali sia in quelle sociali. La discussione pubblica iper razionalistica e polarizzata di questi giorni è in realtà un gigantesco rito apotropaico, un’irruzione di pensiero magico, pre politico e pre razionale, simile a quelli che nel sud del nostro paese lenivano o rappresentavano l’angoscia e l’emarginazione sociale dei ceti più poveri, almeno secondo Ernesto De Martino. Come la pandemia, la guerra a pochi chilometri da casa ci spaventa e cerchiamo sicurezze, che non riusciamo più a trovarle nelle vecchie narrazioni. Da tempo la religione non serve più a dare senso alla nostra vita privata e sociale, o almeno non per la maggior parte di noi: non ci sono più partiti esplicitamente cattolici, se non quando si discutono questioni bioetiche o diritti civili, e i pronunciamenti del papa sulla guerra non hanno l’eco di quelli dei partecipanti ai talk show. Lo stesso vale per le ideologie tradizionali: le opinioni dei partigiani dell’Anpi vengono sconfessate da gran parte del loro mondo di riferimento. La sicurezza ansiosa che ancora riusciamo a garantirci proviene in gran parte da discipline fattuali - durante la pandemia dalla virologia, prima e dopo le crisi finanziarie, dall’economia. Adesso dovrebbe venire dalle relazioni internazionali, e nella fattispecie dalle teorie realiste delle relazioni internazionali. Presunta neutralità - Si tratta di una reazione comprensibile, ma pericolosa: ci fa perdere lucidità morale e non ci fa guadagnare conoscenza fattuale, sposta tutto sul piano di presunti fatti, silenziando la discussione politica genuina e permettendo a chi sostiene idee morali ovviamente sbagliate di introdurle surrettiziamente, senza contraddittorio, ammantandosi di presunta neutralità e trincerandosi dietro uno sguardo che si vorrebbe “scientifico” e disincantato. Si parla di “leggi ferree”, che chiarirebbero il comportamento di Putin e renderebbero inevitabile la resa dell’Ucraina, si stabiliscono presunte catene causali che portano direttamente dagli eventuali errori della Nato all’invasione. Gran parte della nostra opinione pubblica è in preda a una sorta di “realismo politico intuitivo”: la guerra in Ucraina è effetto di interessi, squilibri mentali, errori strategici. Qualsiasi influenza di idee morali e politica è esclusa. Putin è pazzo, non semplicemente animato da una visione morale e politica sbagliata, da contestare con parole e azioni. Si guarda alle scienze sociali con un atteggiamento rozzamente baconiano: vogliamo leggi che valgono sempre, regolarità assolute, alternative nette, e le vogliamo per dominare una realtà che ci sembra minacciosa e riottosa. Come durante la pandemia volevamo la sicurezza e rifuggivamo dalle percentuali, dalle probabilità. È il gesto tipico del negazionista: nega i pronunciamenti della scienza ufficiale - sui vaccini, sulle radici umane del cambiamento climatico - ma lo fa diventando più scientista dello scienziato, cioè appellandosi ai margini di dubbio, al fatto che le previsioni non sono mai al 100 per cento, ma ci sono scenari alternativi (anche se molto poco probabili), e pretendendo solo risultati necessari, veri in ogni mondo possibile. Dunque, ritornando alle relazioni internazionali: era sicuro che Putin avrebbe invaso l’Ucraina, e l’avrebbe fatto proprio quel giorno. L’avevo previsto. Proprio come Nostradamus, un Nostradamus che non invoca gli astri, ma le leggi ferree della sua visione del mondo. Pacifismo e autodeterminazione - Ci sono due minoranze dell’opinione pubblica che contrappongono a tutto questo visioni etiche: un pacifismo simbolico e una visione del valore morale dell’autodeterminazione e del diritto all’autodifesa dei popoli sovrani democratici. Ma, paradossalmente, pure molti di loro presto scivolano sul terreno dei (presunti) fatti, delle catene causali, delle regolarità e delle leggi - diventano dei pacifisti realisti, per così dire: fornire armi porterebbe a una pericolosa escalation, e se continuiamo così, Putin userà la bomba atomica, oppure: ci sono comportamenti della Nato, degli Usa, dell’Europa … (sostituite l’entità politica che preferite) paragonabili a quelli di Putin, o ci sono aggrediti (gli yemeniti, gli afgani, i curdi) a cui non abbiamo dato armi. Come ha scritto Donatella Di Cesare, “chi si accontenta di ripetere il refrain “c’è un aggressore e un aggredito”, ciò che tutti riconosciamo, non si interroga sulle cause e non guarda agli effetti di questa guerra”. E se invece che alle cause guardassimo alle ragioni? E se invece che semplicemente menzionare eventuali effetti, dicessimo chiaramente quali effetti probabili (magari più probabili: preoccuparsi degli effetti degli insulti su Putin, come fa Luigi Ferrajoli, forse non è necessario) hanno valore per noi o no? C’è una specie di ossessione per le cause e i fatti: bisogna trovare la causa di tutto, della presunta pazzia di Putin, come del carisma istrionico di Zelensky. La teoria del complotto ormai si traveste da pensiero scientifico, da considerazione razionale e disincantata dei fatti. E da determinismo rozzo: Putin non poteva non fare quel che ha fatto, se noi rispondiamo aiutando gli ucraini non potrà che alzare la posta. Un determinismo a cui si dovrebbe rispondere: se Putin non poteva non fare quel che ha fatto, se non poteva fare altrimenti, neppure noi lo possiamo. Quindi, perché ci consigli di fare altrimenti? È inevitabile. Ci sarà la terza guerra mondiale. Smettiamo di parlare. Cerchiamoci un bunker. Bisogno di sicurezze - Questa reazione è comprensibile: gli esseri umani hanno bisogno di sicurezze, e si accontentano di essere sicuri anche di quel che si rivelerà falso. Ma è una reazione errata perché, nonostante le apparenze, è contraria al metodo scientifico, sia nelle scienze naturali sia in quelle sociali. Da almeno un paio di secoli gli scienziati sanno e ci dicono che i loro sforzi non producono leggi ferree o fatti inoppugnabili, ma generalizzazioni probabili e tendenze, e che ci possono essere eccezioni. E ci dicono pure che i risultati della scienza sono il punto di partenza, non l’unica base necessaria delle decisioni politiche. Lo scienziato (naturale e sociale) può dire che cosa è più probabile. Ma è il politico democratico, e i suoi elettori, che debbono scegliere quali rischi correre. Un altro errore è pensare che qualsiasi decisione etico-politica non possa che essere arbitraria, sentimentale, non discutibile. E quest’idea che le deliberazioni etiche o politiche siano in fondo solo espressione di umori irrazionali o prese di posizioni arbitrarie è anche la molla che porta a rincorrere descrizioni suppostamente scientifiche ed eticamente neutrali. Interpellare l’esperto, in sé, non è sbagliato, quando si sia di fronte a questioni specialistiche (come il cambiamento climatico o l’efficacia dei vaccini), questioni che richiedono conoscenze che vanno al di là di quelle del comune cittadino. E si può anche sostenere che fidarsi del giudizio degli esperti, senza interrogarsi ulteriormente, sia giustificato e legittimo in certi casi: uno degli errori della pandemia era cercare di sostituire il nostro giudizio a quello dei medici. Ed è ovvio che mettere sullo stesso piano uno studioso di storia ucraina o di relazioni internazionali, un sociologo del terrorismo e un fisico teorico quando si parla del conflitto è un’operazione metodologicamente impropria. Ma bisognerebbe anche evitare che ogni scelta politica ed etica diventi un’interrogazione dei vati (con un inconscio rimpianto delle omelie dei preti e del segretario che dava la linea) e assumersi invece le responsabilità proprie della cittadinanza. Per decidere se crediamo che l’autodeterminazione dei popoli sia un valore da tutelare e se riteniamo che il nostro Paese dovrebbe difendere questo valore non dobbiamo consultare esperti. Dobbiamo riflettere e pensare, discutendo da pari a pari con i nostri concittadini e con i nostri rappresentanti. Dovremmo evitare, insomma, due atteggiamenti opposti ed egualmente errati: pendere dalle labbra dell’esperto o perdere tempo a indagare la credibilità di chiunque si autoproclami tale. In entrambi i casi, stiamo abdicando ai nostri doveri di cittadini democratici. La guerra Putin contro la giustizia internazionale di Antonio Stango* La Repubblica, 2 aprile 2022 Sarebbe un grave errore credere che la guerra condotta dal regime di Putin (intendendo non solo l’individuo Putin, ma il rigido apparato che ha costruito in 25 anni) sia ‘soltanto’ contro l’Ucraina - e in prospettiva, se ne avesse la capacità, contro altri Stati della regione. Se l’invasione su larga scala, dopo le sottrazioni di territorio iniziate nel marzo 2014, è già in sé un colpo mortale al quadro di sicurezza europeo di cui la stessa Federazione Russa è parte come membro dell’Osce, nelle ultime settimane il regime ha mostrato di essere in guerra con altri mezzi contro l’intero sistema delle organizzazioni internazionali incardinate sui princìpi fondamentali delle Nazioni Unite, e in particolare contro gli organismi giurisdizionali. La prima corte internazionale ad avere preso una decisione urgente ‘provvisoria’ sulla guerra è stata la Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo, che fin dal 29 febbraio ha evidenziato il “rischio di gravi violazioni dei diritti della popolazione civile”, citando il diritto alla vita, la proibizione della tortura e di trattamenti inumani o degradanti e il diritto al rispetto della vita privata e familiare e ordinando di astenersi dall’attaccare civili, scuole e ospedali. A queste disposizioni e alle dure critiche del Consiglio dei Ministri del Consiglio d’Europa, del quale la Corte è un organo, la Federazione Russa ha reagito annunciando l’uscita dall’organizzazione - parallelamente alla sua espulsione votata all’unanimità (con tre astensioni) dall’Assemblea Parlamentare del Consiglio. La Federazione Russa cesserà anche di essere parte della Convenzione europea dei diritti umani e delle libertà fondamentali dal 16 settembre; e la Corte potrà ancora esaminare dei ricorsi individuali contro lo Stato russo solo se presentati entro quella data. Quando poi, il 16 marzo, la Corte Internazionale di Giustizia (istituita dalla stessa Carta delle Nazioni Unite nel 1945) ha ordinato alla Federazione Russa di “sospendere immediatamente le operazioni militari iniziate il 24 febbraio nel territorio dell’Ucraina”, lo ha fatto considerando che non c’è alcuna evidenza che l’Ucraina stesse - come preteso dalla propaganda del Cremlino - commettendo un ‘genocidio’ contro persone di lingua russa nell’Est del Paese: cosa che per il diritto internazionale sarebbe potuta essere l’unica motivazione eventualmente accettabile dell’invasione (ma, anche in quel caso, con un dubbio espresso dalla presidente della Corte). Il fatto che la decisione sia stata votata da 13 giudici su 15, con i soli voti contrari dei giudici russo e cinese, evidenzia anche un altro aspetto: sebbene i giudici (eletti per nove anni con il voto concorde dell’Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza dell’ONU) debbano essere assolutamente imparziali e non rappresentare in alcun modo gli Stati dei quali sono cittadini, in realtà quando si tratta di regimi totalitari questo elementare criterio di giustizia può di fatto cadere. L’altro organismo chiamato a pronunciarsi sulla guerra in corso è la Corte Penale Internazionale, competente a giudicare individui per crimini di aggressione, di guerra, contro l’umanità e di genocidio. A differenza che delle altre corti citate, di questa la Federazione Russa non è parte, non avendo ratificato lo Statuto di Roma che la istituì nel 1998. Il fatto che l’Ucraina (pur non essendone parte) abbia però richiesto fin dal 2014 alla Corte di indagare su crimini di guerra e contro l’umanità commessi sul proprio territorio e che l’indagine sia stata avviata dal procuratore e richiesta anche da 41 Stati membri rende però possibile l’imputazione e l’eventuale giudizio di qualsiasi responsabile di tali crimini, dal semplice soldato fino a chi dia l’ordine di commetterli e in ultima analisi allo stesso Putin. Se è molto difficile per la Corte riuscire a processare dei capi di Stato (dato che, per massima garanzia degli imputati, i suoi processi non possono svolgersi in contumacia), un’incriminazione di Putin e il relativo mandato di cattura internazionale avrebbero un peso politico enorme; e anche i processi ad alcuni altri responsabili dei crimini, prevedibili pur se dopo lunghe e complesse indagini, avranno una considerevole rilevanza. L’abuso sistematico dell’Interpol da parte delle autorità russe al fine di perseguitare oppositori politici all’estero ha intanto portato diversi Stati democratici a chiedere la sospensione della Federazione Russa anche da questa organizzazione. Il 10 marzo il Comitato Esecutivo dell’Interpol, in cui siede attualmente una maggioranza di rappresentanti di regimi autoritari, ha votato no alla sospensione, ma non ha potuto evitare di stabilire che le richieste di arresto russe ad altri Stati dovranno ora avvenire non più direttamente, ma attraverso gli organi dell’Interpol “per maggiore supervisione e monitoraggio”. Di fronte a tutto questo, oltre che con l’intensificarsi della propria campagna globale di disinformazione sia verso l’esterno che con la cappa dottrinaria e penale calata sui propri cittadini, il regime di Putin si prepara a rispondere con una nuova ‘dichiarazione di guerra’ al diritto internazionale. A Mosca infatti diversi uffici governativi e la Procura Generale (che in Russia, non essendo indipendente la magistratura, è anch’essa parte del potere esecutivo) avrebbero ricevuto l’ordine di predisporre l’istituzione di un ‘tribunale internazionale alternativo’, composto da giudici russi e di ‘Paesi amici’. Un’ulteriore separazione dal mondo, ideologicamente considerato come nemico, in cui si segue una civiltà giuridica codificata a partire dal 1945 dalla Carta delle Nazioni Unite, dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e dalle successive convenzioni in materia. *Presidente della Federazione Italiana Diritti Umani e docente di International organisations and human rights L’Afghanistan dei talebani non è un Paese per donne: parola di McCurry di Sergio Troisi La Repubblica, 2 aprile 2022 Ora che la catastrofe si è compiuta, lo scorso 15 agosto con il rientro dei Talebani a Kabul, rivedere in una mostra tematica alcune delle foto che Steve McCurry ha scattato durante i suoi viaggi in Afganistan in un lungo arco temporale, dal 1980 al 2016, restituisce il senso della narrazione, i volti, i sorrisi, le speranze, i luoghi del paese dove il nuovo disordine mondiale ha avuto inizio nel 1979 con l’invasione sovietica, l’evento incubatrice della disgregazione dell’Urss e delle deriva islamista. “For Freedom”, si intitola l’esposizione concepita dalla Fondazione Federico II insieme al fotografo (sino al 17 luglio a Palazzo reale, venerdì, sabato e lunedì 8.30-17-30, domenica 8.30-13-30, martedì-giovedì chiusa se c’è attività parlamentare), dedicata alle donne afghane, bambine, ragazze, anziane, colte nelle aule scolastiche, al lavoro nei campi d’oppio, per strada, nei mercati, allestita negli appartamenti reali con una grande struttura metallica a graticcio che intende rievocare la condizione di oppressione che ha nuovamente rinserrato l’intero universo femminile: è cronaca di questi giorni, con la chiusura dei licei dedicati alle ragazze. All’esterno del palazzo, risuoneranno per tutta la durata della mostra i versi dell’attivista Meena Keshwar Kamal, assassinata nel 1987 per avere difeso i diritti delle donne, e la voce della rapper Sonita Alizadeh: “Brides on sale”, canta, spose in vendita. Alla mostra si accede accolti e seguiti dagli sguardi della sequenza dei ritratti femminili, in cui McCurry adotta posture e inquadrature classiche, le figure al centro dell’immagine disposte frontalmente o appena di tre quarti; come sempre magistralmente orchestrate nell’orchestrazione del colore, nell’azzurro o nel bianco di alcuni hijab, nelle pareti che fungono da fondale, nella semplicità delle vesti, queste fotografie sono memori della grande tradizione del ritratto occidentale. Così che, per esempio, una giovane studentessa con le mani incrociate alla vita a reggere i libri, siamo a Herat nel 1992, nella modulazione dei grigi, dei bianchi e dei neri può addirittura ricordare la grande pittura olandese del Seicento, in particolare Franz Hals. Come in quel modello costruito con una strategia messa a punto lungo secoli, anche qui tutto si gioca attraverso gli occhi intorno a cui si organizza il fulcro mobile dell’immagine: tutto, cioè il senso di testimonianza e di verità che ci chiama in causa e che ci interroga come testimoni di una storia che, ci piaccia o meno, è anche la nostra. Questo cortocircuito tra l’eleganza, la bellezza e la dignità profonda dell’Oriente e i canoni occidentali è del resto un elemento ricorrente, in tanta opera di McCurry e in questa mostra. In una foto d’interno, Kabul 2016, pavimento, parete e finestre costruiscono un ordito di geometrie coloratissime - rosa, verdi, azzurri - un telaio spaziale aperto al centro da una porta su un’altra stanza in cui una bambina gioca in equilibrio su una palla, come avviene negli ambienti di un altro pittore del secolo d’oro olandese, Pieter de Hooch; sempre a Kabul, nel 2002, una donna avvolta in burqa color del cielo osserva i manifesti dinanzi a una edicola, popstar, attrici, il comandante Massoud, una squadra di calcio e persino l’olografia celebre di una Madonna col Bambino. Per noi, e certamente anche per McCurry, a Maria col Figlio rimanda una ragazzina che tiene in braccio un bambino (Kamdesh, 1992), forse il fratello, lei indossa un velo bianco che potrebbe esser stato pensato da un pittore del Quattrocento e una veste fiorata: sul fondo qualcuno ha impresso le impronte bianche di una mano. Quanto alla fotografia più celebre, quella dell’adolescente in un campo profughi in Pakistan, opportunamente non è presente in mostra, se non indirettamente - quasi una mise en abîme - nel dipinto che la riproduce affisso in un’aula scolastica: chiude però il percorso espositivo l’immagine della stessa ragazzina, ormai donna, rintracciata nel 2002 a distanza di sedici anni da quello scatto; cosa sia passato in questo lasso di tempo si capisce dal modo con cui ci fissa. Aldilà della loro innegabile e suadente eleganza, le fotografie di McCurry intendono infatti essere documento: ci sono allora mendicanti, bambine che lavorano nei mercati o nelle piantagioni, bambini ricoverati in ospedale feriti da mine antiuomo, tanti profughi, emersi o ragazze giocoliere, a viso scoperto, si esibiscono dinanzi ai loro coetanei in jeans: è appena il 2016 e già una scena come questa è diventata impensabile nella Kabul di oggi. Ci sono soprattutto scuole, e quindi libri, quaderni, lavagne, visi assorti nella lettura e nell’apprendimento, sorridenti e sereni così come quelli delle insegnanti; sono presenti anche tante donne celate dai burqa in tinta pastello, due traversano di fretta la strada col passo sincrono nella Kabul del 2003, un’altra (Mazar - i - Sharif, 1991) emerge a mezzo busto dallo stuolo di colombe bianche a cui sta dando da mangiare, indossa una veste gialla e una colomba le si è posata sul capo. Tutte sono sole. Per quanto paradossale possa sembrarci, persino queste immagini di un universo di negazione sono diventate archeologia da quando alle donne non è concesso di uscire se non accompagnate dal padre, dal marito o da un fratello. Una bellezza doppiamente raggelata. Sri Lanka. Manifestazioni contro crisi e corruzione: il presidente dichiara lo stato d’emergenza Corriere della Sera, 2 aprile 2022 Il Paese sta affrontando una grave carenza di beni essenziali, forti aumenti dei prezzi e frequenti tagli di corrente in quella che è considerata ormai la più profonda recessione dopo l’indipendenza del Paese dalla Gran Bretagna nel 1948. Il presidente dello Sri Lanka Gotabaya Rajapaksa ha dichiarato lo stato di emergenza conferendo alle forze di sicurezza ampi poteri dopo che giovedì 31 marzo centinaia di persone hanno tentato di assaltare la sua residenza. La decisione arriva in un momento in cui il Paese sta affrontando una crisi economica senza precedenti, con i manifestanti che incolpano la “cattiva gestione” del governo. Rajapaksa ha affermato di ritenere che ci sia una “emergenza pubblica in Sri Lanka”, che rende necessaria la decisione di applicare leggi dure. I manifestanti venerdì 1° aprile hanno bloccato le principali strade del Paese. La nazione dell’Asia meridionale sta affrontando una grave carenza di beni essenziali, forti aumenti dei prezzi e frequenti tagli di corrente in quella che è considerata ormai la più profonda recessione dopo l’indipendenza del Paese dalla Gran Bretagna nel 1948. Tutte le città hanno affrontato una nuova ondata di proteste, secondo quanto hanno riferito la polizia e i funzionari locali. Nella capitale Colombo, decine di attivisti per i diritti umani hanno esposto cartelli scritti a mano mentre manifestavano a un incrocio trafficato: “È ora di lasciare, Rajapaksa”, “Basta con la corruzione, vai a casa Gota”. Nella città dell’altopiano di Nuwara Eliya, gli attivisti hanno bloccato l’apertura di una mostra di fiori della moglie del premier Mahinda Rajapaksa (fratello del presidente, ndr), ha detto la polizia. Anche nelle città meridionali di Galle, Matara e Moratuwa si sono svolte proteste antigovernative e manifestazioni simili sono state segnalate nelle regioni settentrionali e centrali.