Carceri. Presentato il XVIII Rapporto sulle condizioni di detenzione di Antigone Ristretti Orizzonti, 29 aprile 2022 “È il momento delle riforme”. Lo ha detto Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, in apertura della conferenza stampa di presentazione del XVIII rapporto dell’associazione sulle condizioni di detenzione. Sono oltre 2.000 le visite tenute dall’osservatorio di Antigone nelle carceri italiane dal 1998 ad oggi. Un monitoraggio costante che ha permesso all’associazione di fotografare lo stato del sistema penitenziario nella sua complessità, analizzandolo, come ha ricordato Gonnella, con spirito critico ma anche costruttivo. “La pandemia ci ha mostrato tutti i limiti di un mondo penitenziario bloccato e in ritardo su tante questioni” ha sottolineato il presidente di Antigone. “I tassi di recidiva ci raccontano di un modello che non funziona e ha bisogno di importanti interventi, aprendosi al mondo esterno, puntando sulle attività lavorative, scolastiche, ricreative e abbandonando la sua impronta securitaria”. Nel rapporto dell’associazione si evidenzia come in media vi sia una percentuale pari a 2,37 reati per detenuto. Al 31 dicembre 2008 il numero di reati per detenuto era più basso di 1,97. Dunque diminuiscono i reati in generale, diminuiscono i detenuti in termini assoluti ma aumenta il numero medio di reati per persona. Al 31 dicembre 2021, dei detenuti presenti nelle carceri italiane, solo il 38% era alla prima carcerazione. Il restante 62% in carcere c’era già stato almeno un’altra volta. Il 18% c’era già stato in precedenza 5 o più volte. Tassi di recidiva dunque alti, su cui sarebbe utile che il ministero raccogliesse dati certi. “E’ anche fondamentale che il carcere diventi realmente l’extrema ratio a cui ricorrere solo in casi dove ce ne sia la reale necessità” ha ricordato il Patrizio Gonnella, citando la Ministra della Giustizia Cartabia. Al 31 dicembre 2021 ben 19.478 detenuti (poco meno del 40% del totale dei reclusi), dovevano scontare una pena residua pari o inferiore a 3 anni. Una gran parte di loro potrebbe usufruire di misure alternative. Un aumento di queste ultime permetterebbe di porre rimedio anche al cronico sovraffollamento delle carceri italiane. Il tasso di affollamento è attualmente del 107%, contando i posti ufficiali conteggiati dal ministero. Tuttavia, se si considerano i posti realmente disponibili, a fronte di reparti e sezioni chiuse o celle inagibili, il tasso supera il 115%. Un dato su cui pesano sempre meno gli stranieri che al 31 marzo 2022 sono il 31,3% sul totale della popolazione detenuta, con un calo del 5,8% rispetto al 2011. Il loro tasso di detenzione (calcolato nel rapporto tra popolazione straniera residente in Italia e stranieri presenti nelle carceri) ha visto una decisiva diminuzione, passando dallo 0,71% del 2008allo 0,33% del 2021. “A dicembre 2021 - ha ricordato il presidente di Antigone - la Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario nominata dalla Ministra Cartabia e presieduta dal prof. Marco Ruotolo, ha elaborato e consegnato un documento con tutta una serie di riforme che si potrebbero fare in maniera piuttosto rapida. Inoltre la recente nomina di Carlo Renoldi alla guida del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria apre una prospettiva importante da questo punto di vista. Ci auguriamo che si sappia cogliere quest’occasione e si portino avanti tutte le riforme di cui il carcere italiano ha urgente bisogno”. Vedi il Rapporto di Antigone: https://www.rapportoantigone.it/diciottesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/ Il gap da azzerare tra pena reale e pena costituzionale di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 29 aprile 2022 Da anni diminuiscono gli indici di delittuosità in Italia, ma aumenta la popolazione reclusa anche a causa di una maggiore severità del sistema della giustizia penale. I detenuti restano anonimi e nessuno intercetta la loro disperazione. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. È in queste parole, presenti all’articolo 27 della nostra Costituzione, la missione del nostro sistema penitenziario. Alcuni numeri ci dicono in modo impietoso che questa missione stenta a essere assolta: il 62% dei detenuti ha più di una carcerazione sulle spalle, ossia è tecnicamente un recidivo. Il 18% dei detenuti ha addirittura più di cinque esperienze di galera. Ciò significa che chi ha vissuto in carcere non ha avuto serie possibilità di aderire a percorsi sociali e culturali di emancipazione dalla criminalità. Il carcere è una pena fortemente selettiva sulla base delle condizioni economiche di provenienza, dello stato di salute psichica, della nazionalità, della situazione di esclusione sociale pregressa. Il carcere tende a far crescere quelle disuguaglianze sociali presenti al momento del primo ingresso e non offre una progettualità legale di vita che sia percepita come una vera alternativa alla dimensione criminale. Questo accade anche perché troppi sono i detenuti e troppo pochi gli operatori penitenziari i quali non riescono a trasformare i numeri in persone. Da anni diminuiscono gli indici di delittuosità in Italia, ma aumenta la popolazione reclusa anche a causa di una maggiore severità del sistema della giustizia penale. I detenuti restano anonimi e nessuno intercetta la loro disperazione. Anche così si spiegano i 21 suicidi dall’inizio dell’anno. Ognuno dei detenuti che si è ammazzato la ha fatto perché era disperato, tragicamente solo. In ogni caso di suicidio anziché andare alla ricerca di capri espiatori bisognerebbe guardare alle responsabilità di sistema. Un sistema che va riformato anche in nome della sicurezza collettiva che si costruisce abbattendo i tassi di recidiva. La vita dentro le galere, così come raccontata da Antigone, va cambiata, modernizzata, umanizzata. Va riempita di attività dotate di senso, di scuola, di lavoro, di teatro, di relazioni affettive. Solo quando la pena sarà una pena utile e ragionevole, allora vedremo gli effetti positivi sulla reintegrazione sociale delle persone che sono entrate in galera almeno una volta. Per contrastare la recidiva bisogna usare il tempo del carcere per offrire ai detenuti occasioni formative, educative, culturali, sociali e sanitarie che rompano con l’idea di prigione quale muro segregativo. Speriamo che il nuovo capo dell’amministrazione penitenziaria, il giudice Carlo Renoldi, con la sua storia e i suoi ideali, sia messo nelle condizioni per far sì che si riduca il gap tra pena costituzionale e pena nella realtà di tutti i giorni. Noi daremo il nostro contributo in termini di proposte affinché questo obiettivo si realizzi. Sono trascorsi pochi giorni dal 25 aprile. La liberazione dal nazi-fascismo è stata conquistata da grandi donne e grandi uomini che hanno vissuto l’esperienza della galera a causa delle loro opinioni. Ci hanno lasciato la Costituzione in eredità. Insieme, tutti, trasformiamola da pezzo di carta in materia viva. *Presidente Associazione Antigone L’ultimo rapporto Antigone parla chiaro: il carcere non reinserisce e va ripensato di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 29 aprile 2022 Abbiamo presentato ieri mattina in conferenza stampa il XVIII Rapporto annuale dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia, alla presenza di Carlo Renoldi, Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Gemma Tuccillo, Capo Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, Marco Ruotolo, costituzionalista e Presidente della Commissione per l’innovazione penitenziaria, Stefano Anastasia, Coordinatore dei Garanti regionali dei diritti dei detenuti. Moltissimi i temi trattati dal Rapporto, molti i numeri, le analisi e le elaborazioni, le storie raccontate, le proposte avanzate. Mi soffermo qui solamente su due punti. Il primo è quello degli spazi, intesi sia nella loro quantità che nella loro qualità. Il tasso ufficiale di affollamento delle carceri italiane è pari al 107,4%. Ma quello reale è - come da anni denunciamo - assai più alto, a causa delle tante sezioni inutilizzate in ristrutturazione che vengono comunque conteggiate come disponibili. La Puglia ha un tasso di affollamento medio pari al 134,5%, la Lombardia pari al 129,9%. Nel carcere di Brescia Canton Mombello il tasso è addirittura del 185%, a Varese del 164%, a Bergamo e a Busto Arsizio del 165%. Proprio pochi giorni fa il Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa ha raccomandato agli Stati membri di fissare una soglia massima di capienza per ogni struttura penitenziaria, che non possa assolutamente venir superata (e naturalmente a questo fine non propone di costruire più carceri, ma di usare meglio le alternative alla detenzione). Gli standard dettati dal Comitato sugli spazi minimi di vita sono inferiori rispetto a quelli ufficiali dell’Italia. Ma, nella concretezza, il nostro sistema carcerario non si basa né su quelli né su questi, tenendo realmente sotto controllo solamente la soglia minima di 3mq a persona al di sotto della quale la Corte di Strasburgo fissa un pregiudizio di trattamento inumano o degradante. Non dunque lo spazio auspicabile per far vivere le persone in un ambiente adeguato, bensì quello indispensabile affinché non vivano in un ambiente indecente. Si è surrettiziamente reintrodotta quella distinzione tra capienza regolamentare e capienza tollerabile che alcuni anni fa compariva sul sito del Ministero della Giustizia e contro la quale Antigone si è lungamente battuta. Anche la qualità degli spazi la dice lunga sulla vita interna. Nel 17% delle carceri visitate da Antigone ci sono sezioni prive di ogni ambiente comune. Celle e solo celle. I pochi detenuti inseriti in qualche attività escono dalla sezione alcune ore a settimana, gli altri al massimo passeggiano avanti e indietro lungo il corridoio. In oltre il 30% degli istituti le persone non hanno accesso regolare alla palestra. Inutile dire quanto sia importante l’attività fisica in un carcere. Nel 35% degli istituti visitati manca l’area verde per i colloqui all’aperto con i familiari prevista dal regolamento, mentre nell’85% non esistono spazi di culto per i detenuti non cattolici. In varie carceri abbiamo trovato il water a vista accanto al letto e al fornelletto per cucinare, nonostante la legge avesse imposto che dal settembre 2005 ciò non dovesse più accadere. Il carcere sembra appartenere a un tempo remoto, dove nel 74% degli istituti da noi visitati le persone non hanno alcuna forma di accesso a Internet. Può funzionare un percorso di reintegrazione sociale che non preveda la connessione con lo strumento che oggi più pervade la vita del mondo libero? In quale società verrà reinserita una persona che per mesi, anni, decenni non ha aperto un sito web di informazione? Il secondo punto che volevo qui menzionare è infatti proprio questo: il carcere non reinserisce. Come emerge dal Rapporto di Antigone, solo il 38% delle persone detenute è alla sua prima carcerazione. Il restante 62% è già stato in carcere almeno un’altra volta. Ben il 18% addirittura cinque o più volte. Il carcere non funziona. Il carcere non aiuta e non promuove percorsi di reintegrazione in società. In carcere vi è poca scuola, poco lavoro, quasi nessuna formazione professionale. Tutti dati che si leggono nel Rapporto. Come qualsiasi altro strumento che si dimostri malfunzionante, il carcere va ripensato. Si tratta, tra le altre cose, di un investimento in termini di sicurezza. Oggi c’è la possibilità di un intervento riformatore in questo senso. La Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario voluta dalla ministra Marta Cartabia sotto la guida del professor Marco Ruotolo ha presentato un articolato sistema di proposte, del tutto in linea con quelle avanzate da Antigone nel suo progetto di riscrittura del regolamento carcerario. Ciò potrebbe contribuire a recuperare una visione costituzionale comune della pena che sappiamo essere cara al nuovo Capo del Dap, il giudice Carlo Renoldi. *Coordinatrice Associazione Antigone Rapporto Antigone: le carceri italiane ancora troppo affollate e poco efficaci di Massimo Razzi La Repubblica, 29 aprile 2022 Il quadro che emerge dal XVIII rapporto sulle condizioni della detenzione è ancora negativo con i reati in diminuzione ma l’aumento della durata delle pene. Scende il numero degli ingressi in prigione ma la recidiva è spaventosa. Diminuiscono i reati, aumenta la durata delle pene, calano gli ingressi in prigione ma la recidiva è spaventosa: le carceri italiane continuano a essere molto affollate e poco efficaci. In molte celle continuano a esserci i water a vista, pochi detenuti hanno accesso al lavoro e la funzione riabilitativa della pena resta un miraggio almeno sui grandi numeri. È il quadro (non sconfortante ma ancora negativo) che emerge dal “XVIII rapporto sulle condizioni della detenzione” redatto da Antigone (l’associazione che da trent’anni si batte per “i diritti e le garanzie nel sistema penale”) e presentato ieri mattina a Roma. “Quello che non va - dice la coordinatrice nazionale di Antigone, Susanna Marietti - è che il rapporto del 2022, frutto di un centinaio di visite in altrettanti istituti di pena, risulta troppo uguale a quelli degli anni passati: un numero cresce e un numero cala, ma la sensazione rimane quella di un sistema che riproduce se stesso e i suoi difetti. La pandemia è stata un’occasione che non deve assolutamente andare perduta: internet e le nuove tecnologie sono ancora inaccessibili per il 74% dei detenuti, lavoro e formazione non decollano e, per contro, troviamo ancora situazioni al limite del disumano come il reparto “Sestante” per detenuti con problemi psichici del carcere di Torino sul quale la Procura ha aperto un’inchiesta, mentre sono aperti diversi procedimenti in diversi istituti per casi di violenze e torture come quello ormai famoso di Santa Maria Capua Vetere”. Per Antigone, dunque, il carcere continua a “pescare” nella marginalità sociale da cui viene la maggior parte delle persone che popolano le nostre prigioni. Pochi sono i veri criminali, moltissimi gli autori di piccoli reati che, partendo da situazioni di marginalità e disagio, entrano in carcere, escono per tornare da dove sono venuti, ricominciano a delinquere e vengono immediatamente riassorbiti dal sistema penale di cui rappresentano (si passi il termine brutale) la “materia prima” di cui il sistema stesso ha “bisogno” per perpetuarsi. Contro questo stato di cose combatte Antigone ma combattono anche associazioni, volontari, personale illuminato del Dap, delle direzioni carcerarie, del Corpo degli agenti di Polizia penitenziaria, della scuola, dell’università e della Chiesa. Non è una battaglia impari, ma è difficilissima. Adesso, forse, c’è qualche speranza in più: la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha detto e ripetuto di essere decisa a intervenire e ha affidato a una Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, guidata dal costituzionalista Marco Ruotolo, il compito di fornire una serie di linee guida e progetti per il cambiamento. In quattro mesi (da settembre a dicembre 2021) la Commissione ha lavorato su sei focus (gestione dell’ordine e della sicurezza, impiego delle tecnologie, salute, lavoro e formazione professionale, tutela dei diritti e formazione del personale) sfornando una serie di proposte comprese diverse indicazioni per importanti modifiche dell’ordinamento penitenziario, dei codici penale e di procedura penale e, soprattutto, del regolamento penitenziario. “Un regolamento - chiosa Marietti - che risale al 2000, era molto buono quando venne stilato ma che, oggi, ha bisogno di una sostanziosa rivisitazione”. Un lavoro importante che spetterà al governo, al Parlamento (spesso sfuggente perché pressato dalla pressione giustizialista e dal desiderio di sicurezza che viene dagli elettori un po’ di tutte le parti politiche) e al Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) dove si è da poco insediato il nuovo direttore Carlo Renoldi sulle cui posizioni aperte e progressiste si fondano molte speranze. I reati (buona notizia) sono in calo: crollati durante il lockdown, sono ripresi ma, rispetto al 2019 segnano un 12,8% in meno (1,8 milioni contro 2,1). Gli omicidi sono stati 289 (la metà in ambito affettivo con 100 femminicidi). In Italia, trent’anni fa (1990) si verificavano 3.012 omicidi in un anno. Ma la recidiva continua a segnare pesantemente il quadro: oggi, ogni detenuto, ha compiuto 2,37 infrazioni della legge: reati contro il patrimonio, contro la persona e sulla droga sono i più frequenti. Solo il 38% degli oltre 54mila detenuti è alla prima carcerazione, il 18% è al quinto ritorno dietro le sbarre. Un dato in forte calo (quindi positivo) è quello degli ingressi: nel 2008 entrarono in carcere 92.800 persone, nel 2021 solo 36.539. Il fenomeno è dovuto a un uso sempre maggiore delle norme messe in campo per evitare il fenomeno delle “porte girevoli” per cui si entra e si esce dal carcere per periodi brevissimi (pochi mesi) con effetti devastanti sulla persona e nessun vantaggio né in termini di riabilitazione né in termini di sicurezza. Ma, si diceva, il carcere italiano resta un luogo sovraffollato. Alla fine dello scorso marzo i carcerati presenti erano 54.609 (superavano quota sessantamila prima del lockdown, ma il numero ha ripreso a crescere dopo essere sceso a quota 53mila nel 2020) con un tasso ufficiale di affollamento del 107,4% (con poco meno di 51 mila posti disponibili). In realtà, però, i posti reali sono molti di meno (intorno ai 47 mila) a causa delle ristrutturazioni, chiusure di sezioni inagibili. Puglia (134,5%) e Lombardia (129,9%) le regioni con i tassi di affollamento più elevati. Ci sono istituti come Brescia che toccano il 185% mentre Varese, Bergamo e Busto Arsizio si attestano intorno al 165%. La contraddizione tra calo degli ingressi e sovraffollamento si spiega solo in un modo: è aumentata la durata delle pene. Il 50% dei detenuti sconta pene superiori ai 5 anni, il 29% ai 10 anni. Nel 2011 le due percentuali erano ferme al 40 e 21 per cento. Cresciuto in maniera abnorme il numero degli ergastolani: erano 408 nel 1992. In trent’anni, i tribunali italiani hanno avuto la mano abbastanza pesante portando gli ergastolani all’attuale quota di 1.810 persone che non sanno se potranno mai uscire. Nello stesso tempo, nonostante l’uso accresciuto delle misure alternative, quasi ventimila detenuti scontano pene residue fino a tre anni. Tipica situazione, in cui il carcere serve decisamente a poco in cui si potrebbero garantire molti più accessi a percorsi esterni. Donne e minori - Le donne in carcere continuano a essere una quota molto piccola. Da anni, la presenza femminile negli istituti di pena italiani è ferma intorno al quattro per cento. Oggi sono 2.276 (4,2% un punto sotto la media europea), un terzo sono straniere e circa un quarto sono ospitate nelle quattro strutture esclusivamente femminili (Rebibbia, Venezia, Pozzuoli e Trani). Tre su quattro (Venezia esclusa) hanno tassi di affollamento piuttosto elevati. Altre 13,642 donne fruiscono di misure alternative. In carcere ci sono 19 bambini sotto i tre anni che vivono con le loro 16 madri detenute. Otto sono ospitati in un istituto a custodia attenuata per madri detenute, gli altri vivono in sezioni carcerarie o Icam acclusi alle carceri. Il dato delle donne fotografa una situazione che non sembra utopico pensare (in futuro) anche per gli uomini. Solo per una quota piccola delle persone che delinquono il carcere può avere un senso. La prevalenza schiacciante delle misure alternative dimostra che il problema può essere trattato altrimenti. Stesso discorso per i minori: nei diciassette istituti per minorenni ci sono 353 ragazzi o giovani adulti (13 le femmine) che rappresentano una piccolissima quota (2,6%) del totale di 13.669 ragazzi in carico al sistema minorile. Sono invece 63 le persone trans (tutte donne) oggi in carcere per lo più assegnate a sezioni protette apposite o, in qualche caso, a sezioni femminili. L’82% sono straniere. Il disagio psichico - Il carcere è un forte generatore di disagio psichico. La risposta dell’istituzione è articolata ma quasi sempre piuttosto carente. Le sezioni Atsm (Articolazioni di salute mentale) sono 34 su quasi 200 istituti e ospitano circa trecento persone. In alcuni casi, come nel caso di Torino siamo a livelli disumani. In genere sono poco più di parcheggi per persone che hanno manifestato problemi psichiatrici in carcere e che, quindi, non sono stati destinati alla Rems in sede giudiziale. In sostanza, l’istituzione non sa cosa fare e li mette in attesa più o meno confortevole: in alcuni casi devastante. Nelle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) sono “ricoverati” 572 detenuti giudicati incapaci di intendere e di volere che prima sarebbero finiti negli Opg (Ospedali psichiatrici giudiziari). Secondo Antigone, è proprio il sistema delle Rems e delle Atsm che non va. Salvo pochi casi la maggior parte di queste situazioni dovrebbero essere affrontate dal sistema sanitario. Il sistema penitenziario non è adatto a chi sta male di testa. Altri detenuti con problemi psichici (280) internati per abitualità del reato sono ospitati nelle case di lavoro o colonie agricole che in realtà sono piene di persone con patologie psichiatriche. Ma anche qui, le cose funzionano poco o male. A Vasto (casa di lavoro) ci sono 108 internati. Quasi tutti, ormai, sono stati dichiarati inabili al lavoro. Chiuse le serre e ferma la sartoria. Nella casa di lavoro abruzzese, quasi nessuno lavora. Suicidi - Suicidi, tentati suicidi e forma di autolesionismo sono un altro grave problema del sistema penitenziario. Ogni anno, in carcere, riescono a togliersi la vita una sessantina di persone (60 nel 2020, 57 nel 2021) pari a 10,6 suicidi ogni diecimila detenuti. “Fuori” i suicidi sono 0,6 ogni diecimila cittadini. È chiaro che si tratta di una situazione gravissima. Al Dap dicono che i tentati suicidi e gli atti di autolesionismo sono molti di più: 11.315 episodi di autolesionismo nel 202: 20 ogni cento detenuti. In alcune situazioni si è arrivati quasi al cento per cento di casi di autolesionismo. Spazi e condizioni di detenzione - Il quaranta per cento degli istituti di pena è stato costruito prima del 1950, un quarto prima del 1900. E quelli più moderni (anni 70-80) corrispondono a un’idea della pena molto arretrata: parallelepipedi di cemento e acciaio buttati in campagne desolate nelle immediate periferie delle città: lontani dagli occhi e dal contesto sociale. Il contrario di quello che sarebbe necessario. E dentro, non sono molto meglio: nel 5% degli istituti ci sono ancora i water nelle celle a vista. Il regolamento del 2000 ne prevedeva la fine entro il 2005. Diciassette anni dopo, sono ancora lì. Come è ancora attuale la questione dei tre metri quadrati di spazio per detenuto al di sotto dei quali, la sentenza Torreggiani (2013) disse che c’era l’invivibilità. Un quarto dei nostri istituti sono ancora “invivibili”. Ma non solo, mancano spazi comuni perché molte carceri seguono ancora la logica (superata nel 2014 dalle regole sulla “sorveglianza dinamica”) della cella come unica unità abitativa del detenuto. Oggi, invece, chi sta in carcere dovrebbe vivere in comune e svolgere attività in spazi comuni per tutto il giorno e chiudersi in cella (“camera di pernottamento”, si chiama) solo per la notte. E mancano gli spazi per lo sport e per culti che non siano quello cattolico. In una situazione così, la tecnologia sembra un sogno. La pandemia ha portato nelle carceri italiane l’uso dell’iPad (messo a disposizione dalle direzioni) per telefonate a casa, ma i telefonini (anche “limitati”) rimangono off limits salvo circolare illegalmente in gran numero e gli accessi a Internet, anch’essi limitati, sono rari (26% del totale) e poco utilizzati per scuola e lavoro. Ne consegue che, durante la pandemia l’unica scuola in cui la “Dad” non ha funzionato è quella delle carceri (che pure è organizzata di concerto e con personale del Ministero dell’Istruzione) e che i detenuti studenti hanno perso un anno abbondante. Cosa grave pensando che per molti di loro la scuola non è un passatempo ma, spesso, l’unica possibilità reale di riabilitazione. Lavoro e formazione - Il lavoro dei detenuti è, insieme all’istruzione il veicolo più importante nell’ottica di un reinserimento virtuoso una volta scontata la pena. Eppure meno di un terzo dei detenuti lavora: quasi diciassettemila sono alle dipendenze della stessa amministrazione carceraria (cucina, lavanderia, pulizie, manutenzione, biblioteca e poco altro) e devono turnare per dare una possibilità a molti. Ne consegue che chi lavora lo fa per non più di 80/90 giorni all’anno con paghe medie di 620 euro lordi mensili. Appena 2.306 (4,3%) sono i fortunati che prestano la loro opera presso datori di lavoro privati (imprese o cooperative). Motivo? Pregiudizi, difficoltò tecniche, scarse garanzie di continuità. Ma anche il fatto che lo Stato non fa abbastanza (in termini di sgravi, sostegno ecc.) per le imprese che decidono di investire nel lavoro dei carcerati. Manca anche una regia complessiva a livello regionale (proposta adesso dalla commissione Ruotolo) e tutto è lasciato alla buona volontà dei singoli direttori che provano a trovare disponibilità nel territorio circostante. Quanto ai corsi di formazione professionale (che pure interessano molto i detenuti), nel secondo semestre 2021 ne sono stati attivati 222 (188 portati a termine) per 2.279 detenuti (4,8%). In 35 istituti visitati da Antigone (più di un terzo del totale) non era attivo nemmeno un corso. Violenza e torture - Antigone affronta nel suo rapporto anche la questione della violenza e delle torture. Pesano ancora drammaticamente sul sistema penitenziario i tredici morti delle rivolte del marzo 2020 e l’orrore dei pestaggi di Santa Maria Capua Vetere. Se nel primo caso, una parte delle vittime è stata causata dalle overdose di droghe trovate nelle infermerie dai rivoltosi (ma in diversi casi sono ancora aperte questioni legate alla reazione violenta degli agenti di polizia penitenziaria, nel caso del carcere campano, i video raccontano una storia di pura e ingiustificata violenza da parte del personale chiamato a vigilare sui detenuti in una situazione in cui i carcerati avevano fatto davvero poco o nulla per giustificare reazioni tanto gratuitamente violente. Il ministro Cartabia pose il problema della formazione degli agenti (e nel caso di SMCV anche dei loro dirigenti, diversi dei quali incriminati) e questo è purtroppo un tema che non dovrebbe emergere solo davanti a situazioni di questo genere. Va posta con fermezza la questione del ruolo e cultura di chi lavora nel carcere. Gli agenti sono lì a rappresentare la “pancia” dl cittadino incazzato che chiede vendetta contro chi ha sbagliato? O rappresentano lo Stato e la Costituzione che chiede si lavori al recupero e al reinserimento? Una dozzina di altre vicende giudiziarie ancora aperte (Siracusa, Pordenone, Roma Regina Coeli, Viterbo, Monza, San Gimignano, Torino, Milano Opera, Melfi, Pavia, Ascoli Piceno) ci dicono che il problema è ancora tutto lì. Le proposte di Antigone - Dalla salute mentale, alla custodia attenuata; dalla telemedicina al rischio suicidario, dalle telefonate all’attuazione della sorveglianza dinamica, Antigone formula una serie di proposte che discendono quasi automaticamente dai temi appena descritti. Si tratta, in sostanza, di modificare abbastanza profondamente il regolamento del 2000, di intervenire su una serie di meccanismi della vita del carcere purtroppo profondamente radicati. Ma si tratta anche di porsi la domanda ormai impellente sulla reale necessità (e in che quota) del carcere nella nostra società e sulla cultura giustizialista e punitiva che passa nella società e (in parte) nel corpo degli agenti di polizia penitenziaria. Perché solo così si potrà provare a costruire un sistema delle pene più corrispondente al nostro sogno di civiltà. Solo il 38% dei detenuti è alla prima esperienza in carcere di Andrea Carli Il Sole 24 Ore, 29 aprile 2022 Il totale dei presenti, drasticamente sceso durante il primo anno della pandemia, è tornato a crescere. Si è passati dalle 53.364 presenze della fine del 2020 alle 54.134 della fine del 2021. A fine marzo 2022 i detenuti nelle carceri italiane erano 54.609. In carcere, purtroppo, ci si ritorna. A mettere in evidenza questo aspetto è un passaggio del 18esimo rapporto Antigone, presentato oggi, giovedì 28 aprile. Al 31 dicembre 2021, dei detenuti presenti nelle carceri italiane, solo il 38% era alla prima carcerazione. Il restante 62% in carcere c’era già stato almeno un’altra volta. Il 18% c’era già stato in precedenza 5 o più volte. La percentuale di chi ci è stato più volte cala per gli stranieri, ma sale per gli italiani, per i quali si immaginerebbe invece che i percorsi di reinserimento sociale siano più facili. Aumenta il tasso di recidiva: in media 2,37 reati per detenuto - In media vi è una percentuale pari a 2,37 reati per detenuto. Al 31 dicembre 2008 il numero di reati per detenuto era più basso di 1,97. Dunque diminuiscono i reati in generale, diminuiscono i detenuti in termini assoluti ma aumenta il numero medio di reati per persona. Ciò è indice dell’aumento del tasso di recidiva. I reati più presenti sono quelli contro il patrimonio (31 mila), quelli contro la persona (23 mila) e le violazioni della normativa sulla droga (19 mila). Seguono a una distanza significativa le violazioni della normativa sulle armi (9.249), reati contro la pubblica amministrazione (8.685), di stampo mafioso ex 416bis (7.274) e contro l’amministrazione della giustizia (6.471). Oltre 32mila persone in misura alternativa alla detenzione - Al 15 marzo 2022 erano 32.460 le persone in misura alternativa alla detenzione. Di queste, 20.347 (il 62,7%) si trovavano in affidamento in prova al servizio sociale, 11.241 (il 34,6%) in detenzione domiciliare, 872 (il 2,7%) in semilibertà. Il 9,3% delle persone in misura alternativa (ovvero 3.017) era composto da donne. Una percentuale maggiore rispetto a quella delle donne in carcere, dovuta alle pene brevi generalmente comminate alle donne e alla scarsa pericolosità sociale. La misura della messa alla prova riguardava inoltre 24.402 persone. Si conferma molto limitata l’area delle sanzioni sostitutive (semidetenzione e libertà controllata) - che riguardava solo 129 persone - che la legge delega sulla riforma del processo penale vuole infatti rafforzare. Sono 8.860 le persone sottoposte a lavori di pubblica utilità, quasi esclusivamente (93,1%) per violazioni del codice della strada. La misura di sicurezza della libertà vigilata interessa infine 4.617 persone. Dopo il calo sotto la pandemia, torna a crescere la presenza di detenuti - Il totale dei presenti, drasticamente sceso durante il primo anno della pandemia, è tornato a crescere. Si è passati dalle 53.364 presenze della fine del 2020 alle 54.134 della fine del 2021. A fine marzo 2022 i detenuti nelle carceri italiane erano 54.609. Il tasso di affollamento ufficiale medio era del 107,4%. Ufficiale, perché nei fatti - sottolinea l’indagine - a causa di piccoli o grandi lavori di manutenzione, la capienza reale degli istituti è spesso inferiore a quella ufficiale. In alcune regioni il tasso di affollamento medio è più alto della media nazionale del 107,4%: in Puglia è pari al 134,5%, in Lombardia al 129,9 per cento. A fine marzo l’affollamento a Varese era del 164%, a Bergamo e a Busto Arsizio del 165% e a Brescia “Canton Mombello” addirittura del 185%. Poche le donne: il 4,2% del totale - Al 31 marzo 2022 erano 2.276 le donne presenti negli istituti penitenziari italiani, pari al 4,2% della popolazione detenuta totale. Osservando l’andamento del dato percentuale negli ultimi trent’anni, emerge come variazioni significative siano avvenute nel corso degli anni ‘90, arrivando a superare il 5% tra il 1991 e il 1993 e scendendo al 3,8% nel 1998. Negli ultimi due decenni, la percentuale di donne detenute si è invece sempre attestata intorno al 4%, subendo alcune oscillazioni ma restando costantemente all’interno del punto percentuale. Delle 2.276 donne detenute al 31 marzo 2022, 727 sono di origine straniera ossia il 31,9%. La percentuale è leggermente superiore a quella degli uomini detenuti stranieri, pari al 31,3%. Per le donne straniere, i primi due paesi di provenienza sono la Romania (24,9%) e la Nigeria (16,5%), seguite a distanza dal Marocco (5,8%), dalla Bosnia Erzegovina (5,1%) e dalla Bulgaria (4%). Carcere, il fallimento della pena: due detenuti su tre tornano a delinquere di Luca Liverani Avvenire, 29 aprile 2022 Recidiva: il 62% ha almeno due condanne, il 18% cinque. Dal XVIII Rapporto qualche segnale positivo, ma troppe criticità. Omicidi in calo: 289 nel 2021, erano 3.012 nel 1990. Qualche segnale positivo - reati in calo, meno detenuti stranieri - a fronte di molti, troppi dati negativi: alto tasso di recidiva, sovraffollamento, suicidi. “Abbiamo bisogno di ridare alla pena il senso che è andato smarrendosi - dice il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella - perché se il 62% dei detenuti è già stato in carcere un’altra volta, e il 18% cinque o più, il sistema non funziona. È il momento di rivedere le norme e le pratiche. Il carcere non può essere l’ultima frontiera di un welfare in crisi che non intercetta in tempo utile il disagio”. Nel momento in cui l’attenzione politica e legislativa sul pianeta carcere è alta, il XVIII Rapporto dell’associazione Antigone accende i fari sulle aree problematiche del mondo detentivo. Dopo un calo di presenze del 10% - contrazione nel 2020 dovuta al lockdown - i detenuti crescono: da 53.364 presenze a fine 2020, a 54.609 di fine marzo. Ancora una volta più detenuti che posti, il 107% secondo i dati ufficiali. Ma Antigone sottolinea come in realtà molti reparti e sezioni, conteggiati nella disponibilità di posti, siano in realtà chiusi per lavori o inagibili: in Puglia il sovraffollamento è al 134%, in Lombardia al 130%. E alcuni istituti hanno tassi pari a quelli che costarono all’Italia la condanna della Cedu, la Corte europea dei diritti dell’uomo: Varese 164%, Bergamo e Busto Arsizio 165%, Brescia 185%. Poi ci sono le persone con misure alternative alla detenzione: al 15 marzo 2022 erano 34.460: 20.347 (62,7%) in affidamento in prova ai servizi sociali, 11.241 (34,6%) ai domiciliari, 872 (2,7%) in semilibertà. In leggera ripresa il numero dei reati nel 2021, dopo il calo da lockdown. Comunque una diminuzione del 12,6% rispetto al 2019. Prosegue la discesa degli omicidi: 289 nel 2021, 4 più del 2020 ma 25 in meno del 2019. Impressionante il raffronto col 1990, quando erano 3.012, più di 8 al giorno, 10 volte più di oggi. Preoccupante invece che la metà non siano commessi dalla criminalità: infatti il 40%, 116 persone, sono state donne (erano il 35% nel 2019). Quasi tutte, 100, uccise in ambito familiare/affettivo. In 68 casi da un partner o ex. Preoccupa la recidiva, che dimostra la crescente inefficacia della pena. La media è di 2,37 reati a detenuto: nel 2008 erano 1,97. Calano i reati, calano i detenuti, ma aumenta il numero medio di reati per persona. Solo il 38% dei detenuti è alla prima condanna, mentre il 62% almeno un’altra volta, il 18% almeno 5 volte. Insufficiente il numero di educatori in carcere: uno ogni 83 detenuti. Su un organico di 896 unità, ci sono 733 presenze. A Treviso c’è un educatore ogni 188 detenuti, a Busto Arsizio uno ogni 360, a Firenze uno ogni 164. Difficile, con questi numeri, immaginare percorsi di rieducazione. Dati che stridono con la presenza - sicuramente necessaria - degli agenti penitenziari: uno ogni 1,6 detenuti. Nell’Unione Europea solo l’Irlanda ha più guardie carcerarie che l’Italia. Al 31 dicembre 2021 ben 19.478 i detenuti (poco meno del 40% del totale) che dovevano scontare una pena residua pari o inferiore a 3 anni, quindi gran parte di loro potrebbe usufruire di misure alternative. Migliora il dato dei detenuti con condanne in via definitiva, il 70%, 10 anni prima erano il 57%. Allarmano i suicidi, già 21 dall’inizio dell’anno, 13 volte più che “fuori”. Cala il numero dei detenuti stranieri, dato che smentisce certe narrazioni allarmistiche: se nel 2008 erano lo 0,71 della popolazione straniera residente, nel 2021 sono stati lo 0,33%. Cala anche la percentuale tra i detenuti: dal 36,1% del 2011 al 31,3% a marzo 2022. Sempre poche le donne in carcere: 2.276, pari al 4,2% della popolazione detenuta totale, percentuale stabile da due decenni, sotto la media Ue. del 5,3%. Ancora più bassi i numeri del ricorso al carcere per i minori. A oggi 350 ragazzi e 9 ragazze. Carcere: sovraffollamento e recidive in aumento. I dati di Antigone di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 aprile 2022 Presentato il nuovo rapporto di Antigone dal titolo “Le carceri viste da dentro”. Gonnella: “I tassi di recidiva raccontano di un modello che non funziona e ha bisogno di importanti interventi, aprendosi al mondo esterno”. Cresce il sovraffollamento in carcere e l’età media dei detenuti, il tasso della recidiva è in aumento, mentre calano i reati soprattutto quelli relativi all’omicidio. Questo e altro ancora emerge dalla presentazione del nuovo rapporto di Antigone dal titolo “Le carceri viste da dentro”. Presentati anche i risultati del progetto Europeo “Arisa 2” finanziato dalla DG Justice sul rapporto tra comunicazione in materia di giustizia criminale e diritti delle persone indagate, sospettate o arrestate. “La pandemia - ha sottolineato Patrizio Gonnella, il presidente di Antigone - ci ha mostrato tutti i limiti di un mondo penitenziario bloccato e in ritardo su tante questioni. I tassi di recidiva ci raccontano di un modello che non funziona e ha bisogno di importanti interventi, aprendosi al mondo esterno, puntando sulle attività lavorative, scolastiche, ricreative e abbandonando la sua impronta securitaria”. Dai dati che emergono, necessita l’urgenza di una riforma dell’intero sistema penitenziario. “A dicembre 2021 - ha ricordato il presidente di Antigone - la Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario nominata dalla Ministra Cartabia e presieduta dal prof. Marco Ruotolo, ha elaborato e consegnato un documento con tutta una serie di riforme che si potrebbero fare in maniera piuttosto rapida. Inoltre la recente nomina di Carlo Renoldi alla guida del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria apre una prospettiva importante da questo punto di vista. Ci auguriamo che si sappia cogliere quest’occasione e si portino avanti tutte le riforme di cui il carcere italiano ha urgente bisogno”. Reati in ripresa dopo il calo del lockdown - Dal rapporto, emerge che dopo il calo ponderoso dei reati nel 2020 dovuto al lockdown, il 2021 ha visto invece una leggera ripresa. I dati mostrano una diminuzione rispetto al 2019: 1,8 milioni di reati contro i 2,1 milioni del 2019. Rispetto al 2019 i reati sono in calo del 12,6 per cento. Sono stati 289 gli omicidi nel 2021, ovvero 4 in più rispetto al 2020 ma 25 in meno rispetto al 2019. Nel 1990 erano 3.012, 10 volte in più rispetto a oggi. La metà (144) sono stati commessi in ambito affettivo. Il 40 per cento circa delle persone uccise (ovvero 116) sono state donne (erano il 35 per cento nel 2019), di cui la quasi totalità (100) uccise in ambito familiare/affettivo. In 68 casi a commettere il reato è stato un partner o ex partner. Aumentano sovraffollamento e recidiva - Ma aumenta sia il sovraffollamento, che il tasso di recidiva. Dopo il drastico calo della popolazione penitenziaria nei primi mesi della pandemia, a fine marzo negli istituti ci sono 54.609 detenuti, contro i 53.364 di fine 2020. Il tasso di affollamento ufficiale è del 107,4 per cento, ma nella realtà potrebbe essere più alto a causa di piccoli o grandi lavori di manutenzione: la capienza reale degli istituti è spesso inferiore a quella ufficiale. Il dato più preoccupante, però, è quello del sovraffollamento in alcune regioni italiane, come la Puglia, dove è pari al 134,5 per cento, e la Lombardia dove si attesta al 129,9 per cento. Tuttavia, in alcuni istituti di pena si raggiungono percentuali ben più alte, come Brescia, dove si è raggiunto un sovraffollamento del 185 per cento. Nello stesso tempo aumenta anche l’età media dei detenuti. Quelli con meno di 40 anni di età, che sono stati a lungo maggioranza tra la popolazione detenuta, dal 2015 sono minoranza. La loro percentuale al 31 dicembre 2021 si fermava al 45 per cento. Gli over 40 erano dunque il 55 per cento, gli over 60 il 9,5 per cento, mentre 10 anni prima non arrivavano nemmeno al 5 per cento. Condanne sempre più lunghe - Altro dato emerso dal rapporto sono le condanne a pene sempre più lunghe. Il 50 per cento dei detenuti ha pene uguali o superiori ai 5 anni. Dato positivo è una costante tendenza alla riduzione del ricorso alla custodia cautelare, ma ancora però i numeri sono altissimi visto che rappresentano il 31,1 per cento della popolazione carceraria. Già 21 suicidi nel 2022 e cresce il numero di detenuti. Antigone: “Così non funziona” di Chiara Baldi La Stampa, 29 aprile 2022 Un agente ogni 1,6 detenuti. Il tasso di recidiva cresce per gli italiani e cala per gli stranieri. 19 bimbi sotto i tre sono incarcerati con 16 madri. Sono già 21 i suicidi di detenuti dall’inizio dell’anno. È quanto emerge dal XVIII Rapporto di Antigone sulle carceri presentato oggi. In tutto il 2021, i suicidi erano stati 57. Secondo l’Oms, il tasso di suicidio in Italia nel 2019 era pari a 0,67 casi ogni 10 mila persone. Nello stesso anno, il tasso di suicidi in carcere era pari a 8,7 ogni 10 mila detenuti: questo significa che i casi sono 13 volte in più rispetto alla popolazione libera. Il nostro è “tra i Paesi europei con il più alto tasso di suicidi nella popolazione detenuta, mentre è tra i Paesi con il tasso di suicidio più basso nella popolazione libera”. Il numero di detenuti - Dopo essere drasticamente sceso durante il primo anno della pandemia, il numero di persone private della propria libertà è tornato a crescere: si è passati dalle 53.364 presenze della fine del 2020 alle 54.134 di dicembre 2021, ai 54.609 di fine marzo di quest’anno. Il tasso di affollamento ufficiale è del 107,4 per cento, ma quello “reale” certamente più alto. In alcune regioni il tasso di affollamento è più alto della media: in Puglia è al 134,5 per cento, in Lombardia al 129,9 per cento. Alcuni istituti presentano tassi analoghi a quelli che si registravano al tempo della condanna dell’Italia da parte della Cedu, nel 2013. A fine marzo l’affollamento a Varese era del 164 per cento, a Bergamo e a Busto Arsizio del 165% e a Brescia “Canton Mombello” del 185%. Quanti reati commette un detenuto in media? In media ogni detenuto commette 2,37 reati. Al 31 dicembre 2008, quando dopo l’indulto del 2006 tornava a crescere la popolazione carceraria, il numero di reati per detenuto era più basso, 1,97. In questo intervallo di tempo, sono diminuiti i reati in generale e anche i detenuti in termini assoluti, ma è aumentato il numero medio di reati per persona: “Ciò è indice - rileva Antigone - dell’aumento del tasso di recidiva”. Al 31 dicembre 2021, dei detenuti presenti nelle carceri italiane, solo il 38 per cento era alla prima carcerazione. Il restante 62% in carcere c’era già stato almeno un’altra volta. Il 18 per cento c’era già stato in precedenza 5 o più volte. La percentuale di chi ci è stato più volte cala per gli stranieri, ma sale per gli italiani. Sempre rispetto al 2008 vi è un netto calo degli ingressi: dai 92.800 ai 35.280 del 2020, per poi risalire per la prima volta in molti anni e fermarsi a 36.539 nel 2021: “Il calo - ricorda Antigone - è certamente frutto delle misure adottate dal 2012 in poi per il contrasto del cosiddetto fenomeno delle “porte girevoli”, l’ingresso in carcere di persone per periodi brevi o brevissimi”. Il costo per ogni detenuto - “Anche la spesa giornaliera per detenuto è aumentata nel corso degli anni, passando da 128,28 euro per detenuto nel 2017 a 164,33 euro nel 2022. Chiaramente a influire su questo conto è il numero dei detenuti, che si attesta a 54.609 persone a fine marzo e quindi in diminuzione rispetto al 2017, e l’aumento del bilancio del Dap degli ultimi anni”. Non solo adulti - Al 31 marzo 2022, erano 19 i bambini di età inferiore ai tre anni che vivevano insieme alle loro 16 madri all’interno di un istituto penitenziario. A fine 2021 i bambini in carcere erano 18, il numero più basso registrato negli ultimi decenni. Dopo i picchi raggiunti nei primi anni 2000, quando si sono arrivati a contare anche più di 70 bambini in carcere, negli ultimi dieci anni i numeri sono complessivamente diminuiti seppur con un andamento piuttosto altalenante. Per quanto riguarda i ragazzi under18, Antigone segnala che “dopo il calo dovuto alle misure per far fronte all’emergenza pandemica, i numeri della detenzione minorile si stanno riassestando sulle vecchie cifre. Se all’inizio del 2020 i 17 istituti penali per minorenni italiani ospitavano 375 persone e due mesi dopo erano scese a 280, al 15 marzo 2022 trovavamo in carcere 353 minorenni o giovani adulti (il 2,6% dei 13.699 ragazzi in carico complessivamente agli Uffici di servizio sociale per i minorenni)”. E “di questi 161 erano stranieri, ovvero oltre il 45 per cento del totale, nonostante costituiscano solo il 22,5 per cento dei ragazzi presi in carico dagli Uffici di servizio sociale per i minorenni in questo primo periodo dell’anno. Le ragazze in carcere erano solo 13, di cui 8 straniere. I minorenni erano 162, ovvero meno della metà del totale dei ragazzi reclusi”. I braccialetti elettronici - Dal 2014 al 2021 sono stati 5.625 i provvedimenti di detenzione domiciliare con controllo elettronico. Una vera impennata si registra nel 2020 (quando si passa a 2.605 provvedimenti dai 251 del 2019), anno nel quale il decreto cosiddetto Cura Italia per far fronte all’emergenza sanitaria ha ampliato - seppur con molte cautele - la possibilità di accesso alla detenzione domiciliare con l’ausilio del controllo elettronico. Già in calo i numeri del 2021, che vedono 1.897 applicazioni. Gli agenti di polizia penitenziaria - Gli agenti di polizia penitenziaria sono davvero pochi? “L’ultima edizione delle statistiche penali annuali del Consiglio d’Europa conferma quanto da noi osservato: in Italia c’è 1 agente ogni 1,6 detenuti”, ribadisce. “Nell’Ue hanno più personale di polizia dell’Italia solo le carceri dell’Irlanda, mentre ne hanno quanto noi la Svezia ed i Paesi Bassi. Tutti gli altri ne hanno meno”. “Ma Irlanda, Svezia e Paesi Bassi - spiega Antigone - hanno molto più personale in generale ed in proporzione il personale di polizia è meno che da noi. Da questo punto di vista l’Italia è un caso quasi unico: abbiamo più agenti di polizia penitenziaria degli altri sia in rapporto ai detenuti, sia in rapporto al resto del personale. Parlare di carenza di personale di polizia penitenziaria con questi numeri appare a questo punto davvero complicato”. I fondi per il Dap - La bozza del bilancio del ministero della Giustizia per il 2022 aumenta di 124,4 milioni i fondi a disposizione per l’Amministrazione Penitenziaria, che passano da 3,1 a 3,2 miliardi. Ciò rappresenta un aumento di quasi il 4% rispetto all’anno scorso e del 23% rispetto al 2017, quando il bilancio del Dap ammontava a 2,6 miliardi. Di questi 3,2 miliardi, 2 (63% del totale) sono destinati al corpo di polizia penitenziaria, figura professionale numericamente più presente. “Per la prima volta - spiega l’associazione - dal 2017 assistiamo a una diminuzione di questo capitolo di bilancio che diminuisce di 76,5 milioni (-3,5%) rispetto al 2021. Aumentano di quasi 30 milioni (+14,5%) i fondi destinati al personale amministrativo e magistrati che arrivano a raggiungere i 234 milioni in vista di nuove assunzioni”. Sovraffollate e violente: le carceri che non cambiano mai di Nello Trocchia Il Domani, 29 aprile 2022 Il tasso di sovraffollamento delle carceri italiane è al 107 per cento, oltre il 115 considerando i posti realmente disponibili. La recidiva è alta, con quasi il 20 per cento dei detenuti che è già stato in cella 5 o più volte, mentre sono diversi i procedimenti per tortura aperti. I dati, contenuti nel rapporto dell’associazione Antigone, confermano che il sistema penitenziario italiano presenta gli stessi problemi di sempre e aspetta riforme annunciate ma mai attuate. A fine marzo nelle nostre carceri c’erano 54.609 reclusi. Al 31 dicembre 2021 quasi 20mila di loro (poco meno del 40 per cento del totale), dovevano scontare una pena residua pari o inferiore a 3 anni. Anche per questo Antigone chiede di allargare la platea dei detenuti che possono accedere alle misure alternative. Una soluzione che, nei fatti, potrebbe quasi “svuotare” gli istituti penitenziari. Il carcere della morte - Quello fotografato dal rapporto è un carcere che ancora ospita madri con bambini, precisamente 19, nonostante annunci e impegni governativi. Un dato in diminuzione rispetto agli anni scorsi anche grazie alla pandemia che ha obbligato il sistema ad attuare norme emergenziali che hanno inciso positivamente anche su altri aspetti. “Tale calo dimostra quindi come sia possibile ricorrere a soluzioni alternative, tramite percorsi di esecuzione penale che limitino l’ingresso di bambini in carcere e al contempo evitino la separazione dalle loro madri”, si legge. Ma i pochi numeri positivi scompaiono davanti a quelli che descrivono il carcere come un luogo di morte e violenze. In Italia cinque detenuti al mese si tolgono la vita in cella. Nel 2021 sono stati 57 quelli che si sono suicidati e il loro numero è in aumento. “Guardando all’andamento del dato nell’ultimo decennio, osserviamo come nei due anni passati il tasso di suicidi in carcere sia particolarmente alto. Purtroppo tale crescita sembra confermarsi anche nel 2022, essendo già numerosi i casi di suicidi avvenuti nei primi mesi dell’anno”, sotto linea Antigone. Da gennaio sono già 21 e un istituto in particolare preoccupa: cinque di loro sono morti nel carcere di Regina Coeli a Roma. Tre suicidi e due per cause ancora da accertare. Numeri che sono anzitutto storie, molte delle quali raccolte nel rapporto “Morire di carcere”, elaborato da Ristretti Orizzonti. Come quella di un sedicenne che si è suicidato all’interno di una casa alloggio, in provincia di Caserta, dove era ospitato da qualche mese dopo aver compiuto una rapina. Tortura e violenze - Ci sono i suicidi, ma anche le violenze. Alcuni processi sono in corso e la pubblica accusa contesta il reato di tortura. Nel rapporto vengono menzionati i procedimenti nei quali Antigone si è costituita parte civile. A partire da quello in corso a Santa Maria Capua Vetere, nell’aula bunker del tribunale, dove il giudice Pasquale D’Angelo non ha ancora chiuso l’udienza preliminare, iniziata lo scorso dicembre, che vede imputati 107 tra agenti, funzionari e dirigenti del dipartimento. L’inchiesta riguarda l’orribile mattanza compiuta il 6 aprile 2020 quando, muniti di caschi e manganelli, circa 300 agenti hanno fatto ingresso nel reparto Nilo del carcere Francesco Uccella massacrando per oltre 4 ore i detenuti inermi. Ma non c’è solo il caso campano, che resta per agenti coinvolti e dinamica il più grave. Un altro processo riguarda le violenze nel carcere di San Gimignano, in Toscana, con cinque agenti imputati e altri dieci già condannati con rito abbreviato per tortura e lesioni aggravate. Il caso Torino - C’è poi quello che vede a giudizio 25 agenti e funzionari del carcere di Torino (13 le persone offese). Tre degli imputati, il direttore del carcere, il comandante del reparto di polizia penitenziaria e un agente, hanno scelto il rito abbreviato che, in caso di condanna, riduce la pena di un terzo. Dei 29 capi che compongono la richiesta di rinvio a giudizio, dodici riguardano proprio il reato di tortura. Nel rapporto vengono descritte alcune delle accuse contestate agli imputati. “L’atto configura un vero e proprio sistema di gestione penitenziaria fondato sull’uso della violenza e dell’intimidazione. Moltissimi gli episodi riportati. In uno si riporta come due agenti di polizia penitenziaria, dopo aver condotto in infermeria un detenuto, gli sputassero addosso mentre uno di loro pronunciava la frase “figlio di puttana, ti devi impiccare”, e lo colpissero con violenti pugni al volto a seguito dei quali l’uomo perderà un dente incisivo superiore. In un altro episodio dove si rinviene un trattamento inumano e degradante, si riportano schiaffi, pugni e calci inferti ancora al momento dell’ingresso in carcere a un detenuto, che poi veniva lasciato a dormire per alcuni giorni sulla lastra di metallo della branda senza materasso, impedendogli inoltre di partecipare all’ora d’aria nonché di andare dal medico”, si legge nel dossier. Alla presentazione del rapporto di Antigone ha partecipato anche il nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. “Mi piacerebbe mettere allo stesso tavolo mondi e realtà apparentemente distanti ma animati dalla voglia di risolvere i problemi attraverso una collaborazione proficua”, ha detto Carlo Renoldi. Il carcere, in realtà, non necessita di tavoli, ma solo di risposte e riforme, auspicate anche dal presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, e attese da decenni. L’istituzione totale che non rieduca ma fa tornare bambini di Isabella De Silvestro e Luigi Mastrodonato Il Domani, 29 aprile 2022 Si sa dei grandi scandali ma non della apatica quotidianità che tortura i detenuti con una serie ininterrotta di piccoli soprusi e drammatici disagi. L’8 marzo 2020 nel carcere di Modena si è consumata quella che un detenuto ha descritto come “la più grande macelleria della mia vita”. Durante una sommossa carceraria e nei momenti successivi sono morti in nove per overdose da metadone ed è stata la peggiore strage del dopoguerra in un penitenziario italiano. Nelle stesse ore altre quattro persone hanno perso la vita in circostanze simili nelle prigioni di Rieti e Bologna. Qualche mese dopo Domani ha rivelato che il 6 aprile 2020 nel carcere casertano di Santa Maria Capua Vetere era avvenuta quella che il gip Sergio Enea ha definito “un’orribile mattanza” nei confronti dei detenuti, in risposta a una rivolta del giorno prima. Decine di agenti sono finiti a processo con l’accusa di tortura, un fatto senza precedenti in Italia. Nel gennaio 2021 a Ferrara c’è stata la prima condanna definitiva per tortura in Italia nei confronti di un agente, ritenuto colpevole di aver agito con crudeltà e violenza grave contro un detenuto. Un mese dopo la stessa pena in primo grado ha riguardato altri agenti per fatti simili nel penitenziario di San Gimignano. Nel 2020 le carceri italiane hanno fatto registrare il record di suicidi dell’ultimo decennio: secondo i dati dell’associazione Antigone, 61 detenuti si sono tolti la vita in cella. Bisogna tornare al 2009 per trovare numeri simili. Nel gennaio 2022 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) ha condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti, per aver trattenuto nel carcere di Rebibbia un 28 enne affetto da disturbi psichici negandogli le cure di cui aveva bisogno. Punto di non ritorno - Violenze, torture, suicidi, privazione del diritto alla salute, condanne nazionali e internazionali. Quelli citati sono alcuni degli episodi avvenuti nelle carceri italiane nell’ultimo biennio e raccontano bene le criticità che sta vivendo il sistema penitenziario. “Io un punto così basso per le carceri italiane non l’avevo mai registrato”, ha detto Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale e presidente di Nessuno Tocchi Caino. Sicuramente la pandemia ha avuto un ruolo in questo deterioramento ma non è che prima andasse tutto bene. Problemi storici a cui ci si era drammaticamente abituati sono solo tornati di attualità. Per esempio il sovraffollamento. Nel 2013 l’Italia è stata condannata dalla Cedu nella sentenza Torreggiani perché non garantiva ai detenuti uno spazio dignitoso, ma negli anni successivi il numero dei carcerati ha continuato ad aumentare. Quando è arrivato il Covid-19 e certe precauzioni come il distanziamento sociale e l’areazione degli ambienti si sono imposte nella quotidianità del mondo esterno, è apparso evidente che lo stesso non potesse accadere in un luogo come il carcere, in quel momento popolato da 61.230 detenuti contro una capienza di 50.931. Con il passare dei mesi si è riusciti ad alleggerire la densità penitenziaria, ma ora che la fase emergenziale più dura è passata le carceri italiane sono tornate ad accogliere ben più persone di quante potrebbero, con istituti come quello di Taranto o Brescia che fanno registrare tassi di riempimento vicini al 200 per cento. La pandemia ha anche sconvolto la quotidianità già precaria dei detenuti. Per ridurre al minimo i contatti con l’esterno sono stati sospesi i colloqui, interrotte le lezioni universitarie e scolastiche, annullati i laboratori. La quasi totalità delle attività interne, fondamentali per i detenuti dal punto di vista psicologico, si sono dissolte da un giorno all’altro. E la popolazione carceraria si è trovata ancora più sola di quanto già non fosse. Il malessere crescente ha fatto scoppiare nuove rivolte che sono state anche l’occasione per ricordarsi di come in Italia ci sia un problema di abuso di potere, lo stesso che sporcava di sangue le strade di Genova nel 2001 e che poi è passato dalla Ferrara di Federico Aldrovandi e dalla Roma di Stefano Cucchi. Troppi silenzi - Per quanto di tutte queste problematiche carcerarie legate al malessere e agli abusi si stia finalmente iniziando a parlare, intorno a esse rimane un grande silenzio. Si sa dei grandi scandali che riguardano il sistema penitenziario italiano e non si sa di tutto il resto, del modo in cui scorre la quotidianità dei detenuti anche quando le cose vanno, più o meno, come dovrebbero andare. Ed è invece proprio qui, in questa apatica normalità, che si ritrova il livello di disagio maggiore quando si osserva il carcere in Italia. Gli effetti della detenzione - Il carcere non ha smesso di essere una pena corporale, nonostante il passaggio da pena come supplizio a pena come rieducazione sia avvenuto, teoricamente, da ormai due secoli. La detenzione abbrutisce, il corpo decade, l’incarcerazione provoca un’involuzione precipitosa di tutta la sensorialità. Si abbassano le difese immunitarie e la vista cala perché lo sguardo del detenuto è tagliato dalla vicinanza delle mura esterne e delle pareti divisorie. La messa a fuoco è corta, si perde la distanza, la linea dell’orizzonte, svaniscono i colori. Anche l’olfatto è anestetizzato dall’aria stagnante. L’udito in un primo momento si acutizza - la prigione è un luogo di rumori incessanti tra porte blindate che sbattono, chiavi che girano, urla, lamenti - ma in alcuni casi può sopraggiungere la sordità come difesa. Del corpo si perde presto la percezione totale: gli specchi a disposizione di un carcerato bastano appena a vedersi il viso, quando mancano anche quelli ci si rade con il retro dei cd, uno degli strumenti di svago che insieme alle radioline, ai dvd e alle lettere con francobolli sempre più difficili da trovare sul mercato, relegano la popolazione carceraria a un tempo irreale, fermo agli anni ‘90. Da qui anche il senso di vertigine e spaesamento che spesso segue la scarcerazione. Quotidianità malsana - Il carcere non è solo un luogo dove si tenta il suicidio o ci si dedica all’autolesionismo. È più spesso un luogo dove il dolore assume forme opache, simili a un sonno cosciente. La vita quotidiana di un detenuto è fatta di piccoli sforzi di resistenza al tempo che scorre vuoto e sempre uguale: la televisione è il più potente anestetico insieme alla “terapia”, ovvero gli psicofarmaci che vengono distribuiti la sera, prima della chiusura delle celle. Un detenuto su due in Italia ne fa uso, non solo per tenere a bada disturbi psichici, ansia e depressione, ma anche per far scorrere le giornate. Il fine settimana e l’estate sono i periodi in cui se ne assumono di più perché l’isolamento si acuisce, i volontari non entrano, le attività vengono sospese. E allora si dorme, si resta a letto per giorni interi, ci si ribella così alla formula, ripetitiva e presto soffocante pronunciata dagli agenti tre volte al giorno al detenuto che vuole lasciare la cella: “Aria, saletta o doccia?” - i tre vettori della fuga dagli spazi angusti di quelle celle spesso sovraffollate. E aria vuol dire “passeggio”, che a sua volta indica un cortile claustrofobico in cui girare in tondo, ogni giorno, per anni. Il lessico carcerario è fatto di “domandine”, le richieste interne dei detenuti agli agenti, frequenti e totalizzanti come quelle di un bambino alla maestra. Il detenuto è infantilizzato, deresponsabilizzato, riportato allo stadio infantile della vita. Deve aspettare che si aprano le porte, che venga accolta o negata una richiesta, non ottiene spiegazioni sui dinieghi. In carcere si sente spesso dire che meno chiedi e meglio è, più accondiscendi alle rodate logiche di spoliazione della personalità e più simpatico risulterai a chi può decidere se farti avere o meno ciò che ti spetterebbe di diritto. È difficile immaginare cosa voglia dire poter parlare al telefono con i figli solo dieci minuti a settimana, dover scegliere le parole da dire, che cosa omettere e che cosa raccontare o come spartire un tempo così limitato tra le persone care. Più facile forse è immaginare il fastidio di mangiare con le posate di plastica, come in un picnic al parco quando inizia la primavera, e la tortura di dover mangiare sempre così per anni, per decenni, colazione, pranzo e cena. Il carcere è, insomma, un luogo di piccoli soprusi quotidiani. L’espropriazione di ogni riservatezza ed intimità, l’azzeramento della sfera sessuale e le continue privazioni e umiliazioni fanno crescere nei detenuti rabbia e frustrazione, a discapito del fine rieducativo. Sembra che alla pena definita dal dettato costituzionale si aggiunga la pena supplementare inflitta quotidianamente per mezzo di piccole torture spesso legalizzate, altre volte fuori da ogni regola. Il fatto che oggi il tasso di recidiva sia al 70 per cento racconta il fallimento di un’istituzione che reclude e non reinserisce. Un’istituzione caratterizzata da piccoli abusi, ripicche, complicazioni burocratiche, imposizioni securitarie che fanno meno rumore delle storie di Santa Maria Capua Vetere e di Modena ma sono parte dello stesso racconto e forse aiutano a comprenderlo meglio. Drammi che esistono da sempre e che la pandemia ha solo aggravato. Carcere, le persone con disagio psichico rimangono dietro le sbarre di Natalie Sclippa lavialibera.it, 29 aprile 2022 Invece di essere accolto in strutture apposite, chi è affetto da disturbi psichici rimane in cella. Le liste d’attesa sono lunghe e manca un monitoraggio effettivo della situazione. Le persone con disagio psichico rimangono in carcere anziché essere accolte in strutture apposite. È uno dei dati più gravi tra quelli contenuti nel 18esimo rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, che monitora la situazione all’interno degli istituti penitenziari italiani. Nelle sezioni attive dedicate alla tutela della salute mentale (Atsm) sono seguite 300 persone, tra cui 21 donne. Nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) sono 572 gli internati, 300 con misura di sicurezza definitiva. Un numero piccolo rispetto all’effettiva necessità, tanto che nelle liste d’attesa ci sono 204 persone. Di queste, 49 in carcere. Una situazione di instabilità accentuata dalla mancanza di un sistema di monitoraggio nazionale - in concreto non sappiamo quanto sono lunghe le liste d’attesa e dove vivono attualmente le persone che vi sono iscritte - su cui è intervenuta anche la Corte costituzionale, sottolineando criticità da superare al più presto. I problemi che si riscontrano all’interno degli istituti di pena sono molti: dalla scarsità di servizi ai diritti negati, come testimoniano i processi in corso. Così in cella si continua a morire. Le Rems sono state attivate per superare gli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), chiusi dopo la riforma penitenziaria del 1975. A potenziarne i servizi sono nate delle Articolazioni per la tutela della salute mentale (Atsm). Nel nostro Paese quelle attive sono 34, in 32 istituti penitenziari, e accolgono circa 300 persone. Un’altra modalità utilizzata per la rieducazione del condannato è quella nelle case di lavoro e nelle colonie agricole, inserito dal Codice Rocco. Il numero di internati soggetti a questo tipo di detenzione perché ritenuti di “pericolosità sociale” si attesta a fine febbraio a 280. Mancano però le informazioni riguardo alla loro dislocazione geografica. Emblematico il caso di Vasto (Abruzzo) dove ha sede l’unica casa di lavoro interamente qualificata come tale, ma in cui, su 108 persone presenti, 90 hanno problemi psichiatrici e sono dichiarati formalmente inabili alle mansioni. Monitorare la situazione all’interno dei penitenziari vuol dire anche chiarire chi viva dietro le sbarre. Nella popolazione carceraria, infatti, vanno inseriti 19 bambini che abitano con le loro mamme nelle sezioni nido o negli Istituti di custodia attenuata per detenute madri (gli Icam, di cui lavialibera si è occupata nello scorso numero). Un numero inferiore rispetto ai picchi raggiunti nei primi anni 2000, anche grazie all’attenzione verso percorsi mirati alla tutela dei minori. Altro fronte è quello che riguarda le persone lgbt+. 12 sono le carceri che accolgono 63 donne transgender, 55 delle quali sono state assegnate a sezioni protette. La necessità di allocare i detenuti in condizioni di sicurezza, è tracciata anche la presenza degli omosessuali bianchi, visibili o dichiarati, posto che l’orientamento sessuale mantenga il suo carattere intimo nell’identità. I circa 54mila detenuti vivono spesso in condizioni inumane e degradanti, tanto da portare a gesti estremi. Al 23 aprile 2022 si contano, infatti, 21 suicidi dall’inizio dell’anno e 45 persone morte complessivamente. I casi in cui ci si toglie la vita sono 13 volte superiori rispetto alla popolazione libera. Nel 2020, l’Italia con un tasso di 11.4 casi ogni 10.000 persone si attestava ben sopra la media europea annuale, che si fermava a 7.2. Pecora nera il carcere di Regina Coeli, dove si contano cinque decessi da gennaio, a cui se ne aggiungono altri due negli ultimi mesi dello scorso anno. Altro numero in crescita è quello che riguarda l’autolesionismo. Stando ai dati dell’ultima relazione al Parlamento del Garante nazionale, sono stati riscontrati, nell’anno 2020, 11.315 episodi. Tra gli istituti più colpiti nel 2021, la casa circondariale di Sollicciano a Firenze che, nello stesso periodo, registrava un tasso di sovraffollamento del 145,9%. La situazione esplosiva viene testimoniata dai numeri processi in corso contro le violenze - come nei casi di Viterbo, Monza, Torino, Modena, Santa Maria Capua Vetere, Pavia, Ascoli Piceno e San Gimignano - e le morti nei penitenziari, come accade nei provvedimenti aperti a Siracusa, Pordenone e Modena. “C’è ancora molto da fare per migliorare l’esistenza compressa della popolazione detenuta, eliminando afflizioni aggiuntive e non più in linea con i dettami della Corte costituzionale” ha commentato Bernardo Petralia, magistrato ed ex capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria intervistato da lavialibera. Un bilancio amaro, ma che apre a una riflessione, tanto che “prendere coscienza di cosa sia la vita carceraria servirebbe in verità a ogni magistrato per essere più attento e consapevole nei giudizi”. A dimostrarlo, anche delle proposte di Antigone, riguardo la salute mentale, la sorveglianza e la protezione delle minoranze. Pochi direttori ed educatori, ma per il numero di agenti siamo secondi solo all’Irlanda redattoresociale.it, 29 aprile 2022 Pochi direttori e distribuiti male, pochi anche gli educatori e in media 1,6 agenti per detenuto, quest’ultimo un dato in controtendenza rispetto alla media europea. È questa la fotografia dello staff penitenziario contenuta nel diciottesimo rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia presentato oggi. Secondo Antigone, solo nel 49% degli istituti penitenziari visitati era presente un Direttore responsabile solo di quell’istituto. “Come sempre si tratta di un dato medio, ed in Lombardia ad esempio avevano un proprio direttore a tempo pieno 5 istituti visitati su 6 mentre in Sardegna in nessuno dei 7 istituti visitati c’era un direttore incaricato in via esclusiva”. A non avere un direttore a tempo pieno, ad esempio, è il carcere di Firenze “Sollicciano”, “con 655 presenze al momento della visita dell’associazione; Cagliari, con 557 presenti, o Biella, con 462. Mentre lo si trova nel carcere di Massa Marittima, con 38 presenze, in quello di Vallo della Lucania, con 44, o in quello di Pistoia, con 48 presenti”. “Troppo pochi” anche gli educatori. Dalle visite che l’osservatorio di Antigone ha svolto nel 2021 è emerso che in media c’è un educatore ogni 83 detenuti. “Con un organico previsto di 896 unità, sono ad oggi 733 i funzionari effettivamente presenti negli istituti penitenziari - si legge nella nota di Antigone -. A Treviso abbiamo trovato un solo educatore in servizio per 188 detenuti, aiutato da un collega presente in istituto per due giorni alla settimana, mentre a Busto Arsizio c’era un solo educatore assegnato ed effettivamente in servizio per i 360 detenuti presenti, da poco tempo coadiuvato da un collega distaccato da Santa Maria Capua Vetere. Ma la situazione non è molto migliore nel carcere di Firenze “Sollicciano”, dove c’era un educatore ogni 164 detenuti, e ancora peggio a Bari, dove i 2 educatori in servizio avevano in carico 220 detenuti ciascuno”. Per quanto riguarda il personale di polizia penitenziaria, secondo Antigone, è “davvero complicato parlare di carenza”. I dati raccolti dall’associazione mostrano che in media c’è un agente ogni 1,6 detenuti. “Nei 20 istituti con più personale di polizia c’era in media un agente ogni 1,1 detenuti - spiega Antigone. Nei 20 con meno personale un agente ogni 2,3 detenuti. Ma al di là del tema della distribuzione, resta quello dei numeri assoluti del personale. Gli agenti di polizia penitenziaria sono davvero pochi? L’ultima edizione delle Statistiche penali annuali del Consiglio d’Europa conferma quanto da noi osservato: in Italia c’è 1 agente ogni 1,6 detenuti. Nell’Ue hanno più personale di polizia dell’Italia solo le carceri dell’Irlanda, mentre ne hanno quanto noi la Svezia ed i Paesi Bassi. Tutti gli altri ne hanno meno. Ma Irlanda, Svezia e Paesi Bassi hanno molto più personale in generale ed in proporzione il personale di polizia è meno che da noi. Da questo punto di vista l’Italia è un caso quasi unico: abbiamo più agenti di polizia penitenziaria degli altri sia in rapporto ai detenuti, sia in rapporto al resto del personale”. Ergastolo ostativo: in Senato è corsa contro il tempo per l’approvazione di Valentina Stella Il Dubbio, 29 aprile 2022 Al Senato è corsa contro il tempo per approvare la normativa sulla revisione dell’ergastolo ostativo, passata già alla Camera lo scorso 31 marzo. Incombe infatti la data del 10 maggio, giorno in cui la Corte Costituzionale si riunirà o per riesaminare la questione di legittimità costituzionale qualora il Parlamento non abbia emanato una legge o per ‘verificare ex post la conformità a Costituzione delle decisioni effettivamente assunte’ dai due rami. Intanto la discussione è iniziata in Commissione giustizia dove si sta procedendo, a rilento, all’esame congiunto del testo approvato alla Camera con il disegno di legge a prima firma del senatore Pietro Grasso di Liberi e Uguali. Relatori il dem Franco Mirabelli e il leghista Pasquale Pepe. Al momento solo tre sedute, delle quali c’è da registrare il lungo intervento proprio dell’ex magistrato che ha espresso diverse perplessità sul testo arrivato da Montecitorio: ‘ Non si può non rilevare che il testo approvato presenta contraddizioni e sovrapposizioni di norme’ si legge nel resoconto di seduta. Ma è lui stesso a chiarirci il problema: ‘ per una stessa tipologia di reati sono stati previsti requisiti e procedure differenti per accedere ai benefici, con il grave e inaccettabile rischio che sia il condannato che il giudice non saprebbero quale strada seguire. Non si può approvare un testo contraddittorio destinato nelle intenzioni a risolvere i problemi posti dalla Corte Costituzionale su una materia così delicata, con l’aggravante che ciò potrebbe comportare un reiterato giudizio di incostituzionalità’. Queste criticità sarebbero superate invece dal disegno di legge presentato dallo stesso Grasso: ‘io ho distinto due tipologie di reati - ci spiega : quelli di prima fascia, ossia quelli associativi di criminalità organizzata che prevedono una procedura aggravata (acquisizione di elementi che escludono non solo la permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata, ma anche “il pericolo di un loro ripristino”) per fare richiesta di accesso ai benefici, in cui spetta al condannato l’onere di provare che non è più mafioso; e quelli monosoggettivi, individuali, come ad esempio quelli contro la Pubblica Amministrazione, omicidio, deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, violenza sessuale, e altri. Per questi ultimi reati ciò che dovrebbe essere valutato ai fini della concessione dei benefici non sarebbe la sussistenza di collegamenti ma la prova dell’assenza dell’attuale pericolosità sociale del condannato e dei rischi connessi al suo reinserimento nel contesto sociale’. Se dovessero essere fatte le modifiche richieste da Grasso e/ o anche da altri senatori il testo dovrebbe tornare alla Camera e il 10 maggio sarebbe superato. Ma il senatore Grasso ci spiega che non percepisce come ‘una tagliola’ quella data: ‘La Corte, vedendo che il Parlamento è in dirittura di arrivo, potrebbe concedere un altro paio di mesi per completare il nostro lavoro atto a superare l’incidente di percorso che si è verificato nella prima fase di approvazione del testo’. Il lavoro in cella rifletta i criteri del lavoro fuori. O perde il suo scopo di Oscar La Rosa* Il Dubbio, 29 aprile 2022 Solo così si può favorire il reinserimento sociale. Il 1975 è sicuramente l’anno più importante dopo la nascita della Repubblica per quanto concerne l’evoluzione legislativa del sistema penitenziario: viene promulgata la legge n. 354 sull’ordinamento del sistema penitenziario. Regolamento tutt’ora valido dopo quasi 50 anni, seppur con qualche lieve modifica, anche e soprattutto nell’aspetto del lavoro. Il primo articolo che cita il lavoro è l’art. 15 e lo classifica come uno degli strumenti fondamentali per il trattamento del condannato e dell’internato. Il comma 2, aggiunge che il lavoro debba essere assicurato ad ogni detenuto, con l’inciso “salvo casi di impossibilità”; senza però chiarire se tale impossibilità riguarda la persona detenuta o l’organizzazione dell’istituto penitenziario. Infine, il terzo comma cerca di dare risalto all’importanza della scelta individuale della persona nell’assegnazione del lavoro o ai corsi di professionalizzazione. Gli articoli 20 e 21 vanno a disciplinare ancora meglio e più specificamente l’accesso al lavoro. La prima formulazione del comma 1 art. 20, rimasta tutt’ora vigente, indica in maniera più perentoria che la destinazione dei detenuti al lavoro e la partecipazione ai corsi di formazione debbano essere “favorite in ogni modo possibile” dall’amministrazione penitenziaria; il lavoro, quindi, non deve essere considerato un privilegio o un premio, bensì un diritto di cui ogni detenuto può godere e, d’altra parte, impegna le direzioni penitenziarie affinché questo sia fruibile. Fino al 2018 inoltre fu in vigore l’obbligatorietà al lavoro per i condannati e i sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro. Sin da subito si è ritenuto importante fissare per legge che il lavoro fosse remunerato e in nessuna maniera presentare caratteri di afflittività. Nel 1975 non era previsto che aziende private potessero avere lavorazioni all’interno delle mura carcerarie e assumere internamente detenuti, questi erano assunti direttamente dall’amministrazione penitenziaria per i lavori cosiddetti d’istituto (spesino, portavitto, piantone, scrivano) o come impiegati in lavorazioni gestite dalla direzione. Gli unici criteri per l’assegnazione del lavoro riguardavano desideri e attitudini delle persone detenute considerando le loro precedenti attività e una loro occupazione futura da liberi. L’unica possibilità per una ditta esterna di impiegare detenuti era disciplinata dall’articolo 21 che prevede la possibilità di lavorare all’esterno per imprese pubbliche o private. Purtroppo, questa possibilità inizialmente fu molto difficile da attuare in quanto la legge imponeva che i detenuti ammessi al lavoro esterno fossero scortati per tutto il tempo del lavoro, implicando costi ed ulteriori sforzi organizzativi per l’amministrazione del carcere. Il comma più importante, tutt’ora vigente, nonostante le varie innovazioni susseguite, è sicuramente il quinto. Si tratta di un comma fondamentale in quanto specifica che l’attività lavorativa non deve rispondere solamente ad un diritto del detenuto a lavorare ma “l’organizzazione e i metodi del lavoro devono riflettere quelli del lavoro nella società libera”. Solamente rispettando questo comma il lavoro in carcere può diventare uno strumento per favorire la futura risocializzazione del detenuto e l’inserimento nel mondo lavorativo. *Founder Economia Carceraria Doppio ostacolo sulla riforma del Csm: sciopero dei magistrati e insidie del passaggio al Senato di Conchita Sannino La Repubblica, 29 aprile 2022 Se leghisti e renziani non rinunciassero alle modifiche, il testo rimaneggiato dovrebbe tornare alla Camera per l’ultimo voto. E il Consiglio, in scadenza a luglio, non potrebbe essere votato con il nuovo sistema elettorale. Sabato l’assemblea Anm: si valuta l’ipotesi dell’astensione. Bocciata dai magistrati, che rilanciano l’idea dello sciopero. Rimessa in discussione e attesa al varco - per ora, da Lega e Iv - in Senato. Com’era previsto, è accidentata la strada della riforma sul Csm e l’ordinamento giudiziario, approvata martedì scorso alla Camera (con 328 sì, 41 no e l’astensione dei renziani). Il giorno dopo, Matteo Salvini e la senatrice Giulia Bongiorno ribadiscono di voler “cambiare la riforma in aula”. Un punto su cui anche Italia Viva sembra non voglia mollare. Tanto che si chiude con un nulla di fatto e un rinvio, quasi alle dieci di mercoledì sera, il vertice di maggioranza - con i ministri della Giustizia, Marta Cartabia, e dei rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà - che avrebbe dovuto trovare una soluzione. Dal tavolo si esce senza apparenti aut aut, ma anche senza spiragli. Perché se Lega e Iv insistono nel voler “proporre correttivi”, il governo mantiene la promessa di non porre la fiducia, ma non apre neanche alle modifiche: sottolineando che bisognerebbe stare entro la dead line del 20 maggio per l’approvazione finale, per poter avviare le nuove elezioni del Consiglio Superiore con le regole appena approntate. Parallela, intanto, monta l’agitazione delle toghe. Per sabato è attesa l’assemblea straordinaria dell’Anm in cui si valuterà l’ipotesi dell’astensione: su cui frenano un po’ le correnti, ma picchiano molto i giovani, o le aree periferiche. “Come ai tempi di Berlusconi: chi l’avrebbe mai detto”, uno dei tanti commenti. E proteste, dissenso e mal di pancia per quelle norme appena passate a Montecitorio affiorano, in presenza o dal videcollegamento, alle giunte distrettuali riunite: da magistrati di Milano e da Bari, passando per Napoli. Meno di tre settimane per portare a casa la riforma. “Ma non si può rimettere tutto in discussione, proprio adesso”. Sono partiti da questa posizione la Guardasigilli Cartabia e il ministro D’Incà, di fronte alla determinazione con cui per tutto il giorno la responsabile Giustizia del Carroccio e il leader Salvini avevano ribadito: “Al Senato si possono apportare correttivi alla riforma”. Invece non c’è tempo, è stata l’indicazione del governo. Il testo dovrebbe approdare la settimana prossima alla commissione di Palazzo Madama, poi il voto in aula. Così, nella riunione con i capigruppo di maggioranza, ieri, i toni erano bassi, ma gli ostacoli chiari: se leghisti e renziani non rinunciassero alle modifiche, il testo rimaneggiato dovrebbe poi tornare alla Camera per l’ultimo voto. E il nuovo Csm, in scadenza a luglio, non potrebbe essere votato con il nuovo sistema elettorale. Il pressing arriva anche da Iv. “Al Senato cercheremo di migliorare la riforma ma appare evidente a chiunque che, senza che si intervenga in modo adeguato sull’elezione dei membri del Csm e sulla responsabilità civile dei magistrati, il potere delle correnti non viene in alcun modo spezzato e anzi, per certi versi, rischia di essere rafforzato”, sostiene il senatore renziano Luigi Cucca. A sostegno del governo, invece, il Pd ricorda che il merito della riforma è stato già sviscerato e discusso negli ultimi sessanta giorni, anche da parte di renziani e leghisti: rimettervi mano significherebbe far saltare l’intero accordo con tutte le altre forze. Ecco perché la responsabile Giustizia dem, Anna Rossomando, aveva messo in chiaro già martedì, subito dopo il primo ok della Camera: “Ci aspettiamo un rapido avvio dell’iter al Senato, sulla base delle intese già raggiunte dalle forze politiche di maggioranza”. “Una riforma punitiva”, la definiscono i magistrati. “Di un oscurantismo impressionante”. Un pacchetto di norme che “tratta i diritti come merce, e spinge i magistrati a rispondere del prodotto”. Ma noi, si accalorano pm e giudici collegati ieri in chat o in riunione, “non vendiamo un prodotto. Noi svolgiamo un servizio”. La sintesi di una toga dice tutto in quattro parole: “Fine del potere giudiziario”. È un clima da day after, a sentire la base della magistratura che attende, sabato 30, l’assemblea straordinaria dell’Anm. Sul tavolo, l’opzione dello sciopero. Definito “inaccettabile”, l’altro giorno, in particolare dagli esponenti di Fi, Lega e di Azione, durante il dibattito parlamentare alla Camera. E invece rilanciato come risposta estrema, da un consistente settore di magistrati più giovani e impegnati, estranei in larga parte alle dinamiche delle correnti. Ma le correnti aspettano il dibattito in assemblea. A sinistra, per Magistratura democratica, l’idea forte dell’astensione non è un tabù, così come per Autonomia e Indipendenza, la componente cui appartiene Nino Di Matteo; più dubbi pesano su Area, che confessa di temere le strumentalizzazioni della politica a fronte di un malessere fondato. E molte perplessità attraversano anche i moderati di Unicost e di Mi. Intanto dalla giunta distrettuale di Bari si leva pressoché unanime la richiesta dell’astensione. A Napoli e Milano voci a favore e altre più prudenti. Ma le critiche alla riforma sono forti, come la scintilla partita un mese fa dagli uffici più periferici: da Busto Arstizio a Nola. Una toga dal capoluogo Milano dice ieri: “Dobbiamo fare qualcosa, dobbiamo essere noi i primi, magistrati senza alcuna appartenenza correntizia (visto che giustamente le correnti sono viste con diffidenza dopo i recenti scandali) a sensibilizzare i colleghi e a fare sentire che siamo tutti uniti contro questa riforma. Non c’è la questione solo della separazione. C’è anche la pagellina dei magistrati che serve solo a intimidirci”. E Francesco, un magistrato di Napoli: “Se le correnti non sono in grado di percepire il pericolo, allora saremo noi a farci carico di quel pericolo, tentando di arginarlo. Insomma, andiamo avanti con coraggio e per lo sciopero”. E Luca: “Dobbiamo scioperare, correndo anche il rischio che i cittadini non capiscano”. Interviene un collega da Genova: “È anche nel loro interesse. Dobbiamo chiedere ai nostri concittadini: volete che ci sia ancora un giudice a Berlino?”. Tra le voci più severe, emerge ieri anche quella del procuratore per i minori di Milano, Ciro Cascone, secondo cui “il rischio è che queste norme producano una giustizia conformista di bravi soldatini, che non vada più incontro ai diritti che evolvono, seguendo i bisogni dei cittadini che cambiano”. Per Cascone, da sei anni al vertice dei pm minorili, “questa è infatti una riforma della magistratura, non della giustizia” che “non risolve i veri problemi, a cominciare dalla mancanza del personale. E che disegna un modello aziendalista in cui viene premiato il magistrato che non rischia, per paura di essere smentito dagli altri gradi di giustizia”. Vinceranno i falchi o le colombe, nell’adozione delle iniziative di protesta della magistratura italiana? L’unica certezza: il malcontento, tra le toghe, è a un livello di guardia. Solo i referendum possono cambiare la giustizia: gli avvocati si schierino di Vinicio Nardo Il Dubbio, 29 aprile 2022 Di fronte a una riforma che non “disarma” la forza del correntismo, rimangono solo i cinque quesiti del 12 giugno per provare a dare una sferzata al “Sistema”. La riforma dell’ordinamento giudiziario, passata alla Camera ed avviata ad una veloce conferma del Senato, va letta in chiaro e in scuro. Da un lato possiamo di certo dire che del buono lo contiene, per esempio cerca di incidere sulle valutazioni dei magistrati attraverso elementi nuovi e diversi, come il fascicolo personale ed il contributo degli avvocati. D’altro canto, però, sul profilo dei cambiamenti al sistema di voto per i componenti togati del CSM la riforma non toglie peso alle correnti, anzi rafforza quelle maggiori, rendendole ancor più protagoniste e, se vogliamo, penalizzando le correnti di minor peso, con l’effetto di tradire la reale rappresentanza dei magistrati in Consiglio. Le reazioni di protesta della magistratura associata, con minacce di sciopero, suonano di più come un segnale di timore nei confronti dei referendum che come reale dissenso verso una riforma che in fondo scoraggia adesso più di prima le candidature di magistrati non sostenuti da una corrente. Lo stesso fascicolo personale, così tanto avversato, disegnando scenari apocalittici che raffigurano i magistrati privati della propria libertà e soffocati dalle gerarchie, senza più autonomia di pensiero, in realtà rimane affidato ad un CSM ancora saldamente in mano alle correnti, sicché si dovrà vedere come sarà gestito nella prassi, se sarà valorizzato o, secondo tradizione, neutralizzato. L’avvocatura, non vuole magistrati burocrati, perché ha a cuore la qualità della giustizia e, per di più, questo svaluterebbe in primo luogo il lavoro dei difensori. Ma non è possibile che ogni minima riforma che non sia “autoriforma” della magistratura debba essere a priori osteggiata. L’ingerenza nell’attività legislativa è un dato patologico della nostra democrazia. Oggi la politica azzarda uno slancio di autonomia, ma dimostra ancora una volta la propria intrinseca debolezza per il vortice interno dei veti e controveti paralizzanti che da diversi anni la rende incapace di riformare davvero l’ordinamento giudiziario e la giustizia in generale. Questo dato di fatto rende ancora più strategici e decisivi i referendum sulla giustizia del 12 giugno, perché solo lo strumento referendario può portare uno stimolo di fronte alla sostanziale difficoltà in cui versano le forze politiche in Parlamento, al fine di cambiare quel che altrimenti è destinato a rimanere immutato. Noi avvocati adesso abbiamo la grande responsabilità di avviare un’azione di forte pressione sull’opinione pubblica e sul nostro mondo per cambiare il clima che oggi si respira intorno a questi referendum, sui quali è calato il silenzio dei partiti e degli operatori di giustizia. Silenzio che rischia di portare il 12 giugno ad una partecipazione talmente bassa dei cittadini da farli fallire, anche a causa delle poche elezioni amministrative per le quali si vota nello stesso giorno. Da domani abbiamo un mese e mezzo e dobbiamo usarlo bene. Mi rivolgo a tutta l’avvocatura milanese e non solo. Possiamo essere protagonisti di un cambiamento che la riforma non porta da sola. Non deve farci velo il timore di schierarci: il referendum, una volta ammesso, non è più delle forze politiche che lo hanno promosso, ma appartiene ai cittadini e anche a noi avvocati che ne difendiamo i diritti. Boicottarlo per estraneità alle forze proponenti sarebbe, questa sì, una presa di posizione partitica. Ennesima condanna della Cedu all’Italia per i processi infiniti di Errico Novi Il Dubbio, 29 aprile 2022 Arriva in un momento topico. La sentenza, l’ennesima, con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per l’eccessiva durata dei processi (e l’inadeguatezza dei relativi rimedi) si abbatte mentre il Parlamento è chiamato all’ultimo sforzo sulla riforma del Csm. La coincidenza non è irrilevante: in una riunione di maggioranza tenuta mercoledì serra, infatti, sono riaffiorati i malumori di due partiti dell’alleanza di governo: Lega e Italia viva. Entrambi chiedono che “la discussione a Palazzo Madama non sia mortificata”. E, dal fronte renziano, il vicecapogruppo Giuseppe Cucca parla addirittura di “ricatto” per la richiesta, avanzata dal governo, di approvare “senza discussione una modifica strutturale ed essenziale”. Da una parte dunque le ritrosie di alcuni partiti sul via libera a una legge sollecitata anche dall’Europa come condizione per erogare i fondi del Pnrr. Dall’altra l’ennesima bacchettata che proprio da una Corte europea l’Italia si vede infliggere per le debolezze del proprio sistema giudiziario. La pronuncia sui vecchi vizi della legge Pinto - Riguardo alla pronuncia di Strasburgo depositata ieri (relativa al ricorso capofila numero 15566/ 13 e ad altri cinque che appunto sono stati accorpati), va detto che a essere colpito è un vulnus della legge Pinto superato nel 2018 da una sentenza, la numero 88 di quell’anno, della nostra Corte costituzionale: il punto è che, fino a quella pronuncia di illegittimità, la disciplina sulla riparazione per irragionevole durata del processo era viziata dall’impossibilità di chiedere ristori fino a che non si fossero chiusi tutti i gradi di giudizio. Così come aveva fatto all’epoca la Consulta in Italia, la Corte europea ha rilevato come vada sempre consentito, al cittadino “ostaggio di un processo” di chiedere il risarcimento già a partire dal momento in cui è acclarato lo sforamento rispetto alle soglie per la durata ragionevole fissate dalla legge. La sentenza di Strasburgo, emessa dalla prima sezione (presidente Marko Bošnjak, rubricata come “Causa Verrascina e altri contro Italia”) dà ragione a cittadini coinvolti in vicende giudiziarie precedenti la sentenza costituzionale del 2018 e che si erano rivolti alla Cedu tra il 2013 e il 2015. Con la decisione depositata ieri (anch’essa per la verità tardiva rispetto alle ingiustizie sofferte dai ricorrenti, ma in linea coi tempi ordinari della Corte) Strasburgo condanna l’Italia a riconoscere ulteriori ristori, dal più alto che è quantificato in 22mila euro ai 17mila del più basso. La sentenza fa riferimento anche a un ulteriore limite della legge Pinto: l’impossibilità di poter efficacemente reclamare l’accelerazione del processo una volta raggiunta la soglia massima tollerabile di durata. A risultarne, in generale, è un quadro in cui l’Italia mostra dunque di affrancarsi sempre con molta fatica da un paradigma poco coerente con lo Stato di diritto, in cui l’utente della giustizia è tendenzialmente trattato da suddito, o è comunque costretto ad arrendersi davanti agli autocratici dinieghi della burocrazia giudiziaria. Altri ostacoli per il ddl reclamato dall’Europa - E una riforma che vorrebbe provare a scalfire l’intangibilità dell’assetto, quale dovrebbe essere il ddl sul Csm appena licenziato in prima lettura alla Camera, dovrà fare i conti come detto con il dissenso di parte della maggioranza. Nella riunione di mercoledì sera Lega e Italia viva hanno ribadito alla guardasigilli Marta Cartabia e al ministro per i Rapporti col Parlamento Federico D’Incà che non intendono rinunciare a proporre modifiche dell’articolato uscito da Montecitorio. La responsabile della Giustizia ha ricordato che se si vogliono celebrare a luglio le elezioni per il nuovo Csm con le nuove regole, la legge dovrà essere definitivamente approvata a Palazzo Madama per il 20 maggio. Ipotesi non semplicissima, anche considerato che a presiedere la commissione Giustizia, dove il ddl Cartabia è incardinato, è un leghista come Andrea Ostellari, il quale ha già chiesto che chi vorrebbe impedire l’effettivo esame del testo “se ne assuma la responsabilità”. E d è comunque molto netta, come detto, la posizione di Italia Viva, evidentemente pronta a dare battaglia ancor più di quanto avvenuto a Montecitorio: “La pretesa che uno dei due rami del Parlamento resti silente di fronte a un provvedimento delicato come quello della riforma del Csm, dopo l’approvazione a Montecitorio, è fuori dal dettato costituzionale”, ha detto ieri Cucca, che nel partito renziano, oltre a essere vicecapogruppo al Senato, è anche rappresentante in commissione Giustizia. Definisce appunto “un ricatto” l’allarme del governo relativo all’approssimarsi del voto per il nuovo Csm: la scadenza, per il parlamentare, “era nota da sempre, e da sempre Italia Viva chiedeva inutilmente di passare dalle parole ai fatti. Allora è lecito pensare che qualcuno abbia voluto tergiversare per fare in modo che le cose restassero immutate”, ha insinuato il senatore, e ha ribadito come di fronte a una riforma che, “fatti salvi alcuni aspetti marginali”, giudica “insignificante”, il suo partito ha “intenzione di lavorare ancora” per migliorarla. Campania. Carceri senza acqua calda, bidet, volontari e con un detenuto su tre senza sentenza di Viviana Lanza Il Riformista, 29 aprile 2022 Anno 2022. Campania. Ci sono ancora carceri dove l’acqua calda manca o viene erogata a intermittenza e dove usufruire di docce e bidet non è poi così scontato, sebbene nell’ultimo anno circa il 43% degli spazi detentivi sia stato oggetto di lavori come manutenzione delle celle, installazione di sistemi di riscaldamento, riparazione di impianti idraulici. E ciò, qualora ve ne fosse bisogno, conferma il livello della fatiscenza delle strutture e della inadeguatezza degli spazi della pena. A questo dato vanno poi sommati i numeri della detenzione. Ieri il garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, con la collaborazione dell’Osservatorio regionale sulla detenzione, ha fornito quelli più attuali. Sono numeri che raccontano casi e vite umane, drammi, solitudini, malattie, criticità, vuoti culturali e istituzionali. Un inferno sul quale ancora prevalgono indifferenza e populismo giustizialista, inerzia della politica, proclami a cui non seguono azioni concrete. “È sotto gli occhi di tutti che, anche a causa dell’emergenza Covid, la situazione in cui versano gli istituti penitenziari italiani, salvo poche eccezioni, si discosti in maniera rilevante dai principi che regolano l’ordinamento penitenziario e da quella che viene considerata la “normalità istituzionale”. Esordisce così il garante regionale Ciambriello nel presentare la relazione annuale sullo stato del sistema penitenziario in Campania. “Alle ataviche problematiche - sottolinea - come il sovraffollamento e la carenza di personale, si è aggiunta negli ultimi due anni l’emergenza dettata dalla pandemia compromettendo la funzione rieducativa e risocializzante che si pone alla base del trattamento penitenziario”. Il garante nazionale Mauro Palma, arrivato a Napoli per la presentazione del report sulla Campania, spiega che “la situazione delle carceri campane non è un caso isolato, un certo malessere c’è in tutte le regioni d’Italia, Campania e Lombardia sono le due regioni maggiormente produttrici di ingressi in carcere e, quindi, richiedono un notevole numero di strutture”. E questo non per dire che mal comune mezzo gaudio, ma per attirare l’attenzione sulle emergenze più grandi. “Farò in modo che una seduta del consiglio sia dedicata a questo tema”, promette quindi il presidente del Consiglio regionale della Campania, Gennaro Oliviero, aggiungendo che “la relazione annuale del garante è molto dettagliata ed è uno strumento utile e necessario alla politica per compiere scelte inderogabili per migliorare le condizioni di detenuti e agenti penitenziari, e anche uno strumento che mette in risalto quali sono le competenze della Regione: sanità e formazione”. Due nodi cruciali. La sanità in carcere vive molte criticità, una delle più annose riguarda i detenuti con problemi psichici, molti dei quali continuano a essere reclusi in carceri ordinarie perché in Campania sono attive soltanto due delle cinque Rems previste dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Quanto alla formazione è limitata: le attività culturali e rieducative risentono della carenza di spazi e soprattutto di educatori. Basti pensare che il numero di volontari del terzo settore nelle carceri della Campania è passato dai 1.161 del 2019 ai 330 del 2021. Per il resto, la situazione della detenzione nella nostra regione è l’inferno di sempre. Il sovraffollamento continua a essere il principale problema, un terzo dei detenuti in cella è in attesa di giudizio e tra i detenuti definitivi soltanto il 3% è ammesso al regime di semilibertà. Al 31 marzo scorso la popolazione detenuta nella regione ha toccato quota 6.708 detenuti a fronte di una capienza di 6.113 posti: ci sono quindi circa 600 reclusi in più, costretti a stare in otto in celle nate magari per ospitare quattro persone. È una popolazione composta per lo più da diplomati e cinquantenni, e con una forte componente di detenuti stranieri che sono in aumento (891 in Campania secondo il bilancio più attuale) a fronte di mediatori linguistici e culturali che invece sono in numero sempre più ridotto (i ministri di culto, per esempio, erano 70 nel 2019 e solo 29 nel 2021). Se nell’ultimo anno, poi, i suicidi sono calati lievemente (6 casi a fronte dei 9 del 2020), gli eventi critici sono sempre troppi: 1.189 atti di autolesionismo, 829 scioperi della fame o della sete, 3.425 infrazioni disciplinari, 155 tentativi di suicidio. Capitolo a parte quello relativo ai minori, in una regione come la Campania dove povertà educativa e disagio sociale sono sempre più diffusi tra bambini e adolescenti. Nel 2021 sono stati 6.569 i ragazzi presi in carico dalla giustizia minorile (il 47,6% del dato nazionale) e si sono registrati 6 ingressi in centri di prima accoglienza, 69 in comunità (5 ministeriali e 65 private), 17 nel carcere minorile di Nisida, 29 a Santa Maria Capua Vetere. “Nel corso di questi anni - afferma Ciambriello a corredo della sua relazione annuale - mi sono convinto sempre di più che quella dei garanti è prioritariamente una battaglia culturale e che, in quanto tale, occorre insistere su un punto importante: la pena è un diritto della società che però presuppone un diritto delle persone detenute a essere trattate senza discriminazione”. Castrovillari (Cs). Formazione e avviamento al lavoro per 20 detenuti di Marco Belli gnewsonline.it, 29 aprile 2022 Presentazione del protocollo d’intesa per la formazione di 20 detenuti a Castrovillari. Venti detenuti della Casa Circondariale “Rosetta Sisca” di Castrovillari riceveranno a breve una formazione come ‘operatore per la realizzazione di opere murarie e impermeabilizzazione’ che li porterà successivamente a svolgere attività lavorative come muratori specializzati per alcune imprese del territorio. Il progetto è stato presentato oggi presso il Jolly Hotel di Castrovillari nel corso di una conferenza stampa durante la quale è stato sottoscritto il protocollo d’intesa che coinvolge il carcere, la Federazione Nazionale Imprenditori e Liberi Professionisti operanti nel settore edile (FeNaILP Costruttori), l’ente di formazione professionale Form Retail e l’Associazione Lions Club di Castrovillari. Grazie all’accordo il gruppo di detenuti, selezionati tra quelli con fine pena breve e già in possesso di esperienze nel campo dell’edilizia, seguirà un percorso formativo di 240 ore, fra formazione teorica e laboratoriale, che prenderà il via il 16 maggio prossimo. Al termine riceverà una attestazione professionalizzante che sarà spendibile sia nell’ambito intramurario, sia alle dipendenze di aziende con lo strumento del lavoro all’esterno o la possibilità di fruire di misure alternative finalizzate all’impiego - grazie all’impegno sinergico con la magistratura di sorveglianza - e sia, infine, una volta tornati liberi. L’intesa prevede inoltre che i 20 detenuti destinatari del progetto vengano assunti nella percentuale del 35% da imprese del territorio associate della FeNaILP. “Il superamento della concezione retributiva della pena si ha nella dimensione rieducativa e risocializzante”, ha affermato il direttore della Casa circondariale Giuseppe Carrà, che ha sottolineato come “il lavoro, ed ancor più la formazione come volano per l’accesso ad esso, costituisce un prezioso elemento per restituire alla società uomini liberi e reintegrati”. Soddisfatto anche il presidente dei Lions di Castrovillari, Luigi Postorivo: “La nostra associazione si è fatta portatrice di quelle esigenze che il carcere ha espresso ed esprime mettendo in campo tutto quelle energie umani e sociali che hanno consentito la nascita del protocollo con la FeNaILP costruttori, per il bene dell’istituzione penitenziaria e degli uomini che l’istituzione custodisce”. Insieme a loro, sono intervenuti alla presentazione il presidente nazionale di FeNaILP Costruttori Vincenzo Zaccaro, il general manager di Forma Retail Bruno Laudati, il governatore dei Lions Nicola Clausi Past, il presidente della IX Circoscrizione Lions Francesco Calà, l’assessore del Comune di Castrovillari Ernesto Bello e il comandante del reparto di Polizia Penitenziaria dell’istituto Pietro Davide Romano. Roma. A Rebibbia presentato il report sulla funzione rieducativa della pena di Antonella Barone gnewsonline.it, 29 aprile 2022 A 9 anni L. non è mai andata a scuola e borseggia turisti in metro, a 14 ha il primo di 6 figli che mantiene continuando a rubare finché non le arriva una condanna a 15 anni di carcere. Entra analfabeta e capace solo di sottrarre portafogli, oggi ha un diploma di liceo artistico, lavora nelle serre del carcere e ha dei soldi da parte. L. è una delle tante storie raccontate nel report “La funzione rieducativa della pena tra sicurezza e trattamento - Storie di vita dal carcere” realizzato da Dipartimento della Pubblica sicurezza del Ministero dell’Interno e del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia, presentato nella casa circondariale di Roma Rebibbia “ Germana Stefanelli” nel corso di un evento in cui sono intervenuti , oltre alla direttrice e al comandante dell’Istituto, il vice capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Roberto Tartaglia, il vice direttore della pubblica sicurezza Vittorio Rizzi e il direttore del Servizio analisi criminale della direzione centrale di polizia criminale Stefano Delfini. L. oggi dice che il carcere le ha salvato la vita. E, anche se in un mondo migliore prima che vi finisse, qualcuno avrebbe dovuto offrire a lei e alla sua famiglia un posto dove vivere, diverso di una baracca di lamiere costruita sull’argine dell’Aniene, è innegabile che oggi la sua storia, raccontata dalla psicologa che l’ha seguita per anni, sia un percorso di successo grazie anche all’impegno degli operatori che l’hanno presa in carico. Il lavoro, elaborato dal Servizio Analisi Criminale, articolazione interforze della Direzione Centrale della Polizia Criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza nella quale è presente la Polizia Penitenziaria, è stato realizzato per cercare di conoscere quello che succede oltre l’azione di contrasto dei reati sulla quale, solitamente, è diretta l’attenzione operativa delle Forze di polizia e che termina quando la persona che ha commesso il reato è “assicurata alla giustizia”. Il metodo utilizzato è stata l’analisi dei contributi forniti dai principali attori che operano all’interno dell’istituto penitenziario femminile di Roma Rebibbia: la direttrice, il comandante di reparto, la polizia penitenziaria, il funzionario della professionalità giuridico-pedagogica e le psicologhe. Il documento prosegue quanto avviato con il report Donne e Criminalità - Analisi dei reati commessi dalle donne e della detenzione femminile negli Istituti Penitenziari” pubblicato nel giugno 2021. Dalle testimonianze delle detenute italiane e straniere, condannate per reati di diversa entità, compresi quelli associativi emerge l’importanza di un’attività lavorativa per recuperare o, in molti casi conquistare per la prima volta un’autonomia nella vita, gravata spesso da dipendenze di vario genere (droga, relazioni con partner violenti o famiglie condizionanti). Nell’istituto di Rebibbia oltre il 40 % delle detenute, percentuale notevole rispetto alla media nazionale, è occupata non solo in mansioni a turnazione ma anche in attività professionalizzanti come in quella di rigenerazione di dispositivi elettronici avviata dalla società Linkem. “Le donne che imparano a lavorare difficilmente tornano in carcere” sottolinea il comandante Dario Pulsinelli, promotore di una ricerca sulla recidiva tramite l’Ufficio Matricola. “Abbiamo analizzato tutte le donne che sono state recluse da noi negli ultimi due anni e verificato se sono rientrate, nel nostro o in altre carceri. La recidiva è di circa il 50%, importante ma inferiore ai dati disponibili sulla media nazionale. Quello che riteniamo interessante è che non rientra quasi nessuna delle donne che hanno iniziato a lavorare in carcere e che sono riuscite anche a trovare una nuova occupazione una volta tornate in libertà”. Un’emancipazione strettamente connessa, però, anche alla crescita culturale, strumento che si rivela per molte donne fondamentale per costruire un proprio sistema valoriale e sottrarsi a frequenti condizionamenti dei contesti da cui provengono. Ne è la prova ancora la storia di L, una delle prime della comunità rom a conseguire il diploma, orgoglio dei suoi tanti figli, tutti ben inseriti e a loro volta genitori di bambini che possono vivere finalmente un’infanzia ancora negata a molti loro coetanei. Padova. MoMArt, in piazza le creazioni dell’arte in carcere padovanet.it, 29 aprile 2022 Domenica 1 maggio in piazza Capitaniato torna MoMArt, l’appuntamento della prima domenica del mese con la tradizionale vetrina dell’arte a Padova. Un ritorno, dopo il lungo stop dovuto all’emergenza sanitaria, segnato da una novità: la rinascita dell’associazione con il progetto “MoMArt per il sociale”: divertimento e passione, arte e cultura, insieme, come occasione di riscatto sociale, di incontro, come percorso di arteterapia. Obiettivo della galleria a cielo aperto è promuovere l’arte urbana instaurando un contatto diretto con il pubblico e quest’anno con un impegno in più: una finestra dedicata alle creazioni dei laboratori di pittura e scultura attivati al carcere Due Palazzi. Saranno, infatti, esposti in mostra una quindicina tra sculture e quadri frutto dell’arte in carcere. “Si tratta di una edizione veramente speciale dell’appuntamento con Momart in piazza Capitaniato - afferma l’Assessore al commercio del Comune di Padova - perché sposerà la tradizionale vocazione culturale e commerciale con un’attenzione importante anche ai temi sociali. Per questo abbiamo direttamente sostenuto come Assessorato i progetti che proprio domenica verranno presentati, con l’idea di rendere le nostre piazze vive ma anche di fare sì che queste manifestazioni siano realmente occasioni per fare rete e sviluppare la nostra comunità”. “Arte in carcere” - Il progetto si è articolato in un laboratorio di scultura e uno di pittura. Quello di Scultura, nato nel 2018 col nome di “ScolpiAmo”, e tenuto dagli insegnanti Claudia Chiggio e Roberto Tonon, ha visto la partecipazione di cinque detenuti che avevano dimostrato abilità artistiche e ottime qualità di condotta. I risultati sono stati ampiamente sopra le aspettative, tanto che due opere sono state richieste come dono personale a papa Francesco. Altri sei detenuti hanno quindi partecipato al laboratorio di pittura, tenuto dall’artista Alessandra Andreose in collaborazione con la psicologa del penitenziario dottoressa Orazi. Anche in questo caso l’insegnamento degli elementi di base del disegno, dell’utilizzo dei colori e così via, sono divenuti per i detenuti strumenti per recuperare un’immagine positiva di loro stessi e aprirsi a nuovi studi, come ha fatto uno di essi iniziando a frequentare il Liceo Artistico in carcere. Un’altra artista del MoMart, Emanuela Colbertaldo, ha quindi attuato un percorso simile conducendo, come volontaria all’interno del Due Palazzi, un laboratorio di acquerello teso a creare un clima di serenità pure in una struttura di contenzione. “Quando prevenire è peggio che punire”. Dagli stati di emergenza allo Stato di Diritto di Vladimir Rosario Condarcuri Il Riformista, 29 aprile 2022 Siamo al giorno dopo di una storica, e molto partecipata, tre giorni nella Locride con Nessuno tocchi Caino per la presentazione del libro “Quando prevenire è peggio che punire”. Insieme anche all’associazione “22 Ottobre” e al “Comitato Zaleuco”, abbiamo programmato e organizzato la presentazione del libro in tre luoghi simbolici della Locride. Il 23 aprile siamo stati ad Africo in una palestra che viene usata come sala del consiglio comunale perché - ha spiegato il sindaco Domenico Modaffari - i commissari prefettizi, una volta insediatisi, hanno smantellato l’aula all’interno del municipio per fare spazio a due nuovi uffici. Come se il consiglio non si dovesse più riunire dopo di loro. Misteri dei commissariamenti, ma anche la nostra prima denuncia di questo nostro viaggio. Africo per noi è un simbolo, è la terra degli ultimi, un paese che dopo essere stato per interessi economici strappato al suo luogo originario, l’Aspromonte, è stato portato in basso alla marina. Così, gli è stata strappata anche l’anima. L’incontro, moderato dal giornalista Luigi Longo, ha visto i saluti del sindaco Modaffari, un intervento introduttivo di Sergio D’Elia e, soprattutto, una riflessione di Gioacchino Criaco, a cui questa terra ha dato i natali e l’ispirazione poetica della scrittura. Hanno preso la parola l’avvocato Pasquale Simari, lo scrittore Rosario Rocca, il sindaco di Bova Marina Saverio Zavettieri e Ilario Ammendolia, un altro grande narratore figlio di questa terra. Ha concluso la prima giornata, da par suo, Rita Bernardini, da Giulio Einaudi ispirata in materia di prefetti. I124, domenica, siamo stati nel borgo antico di Moschetta, contrada di Locri, per noi Epizefiri. Qui visse e concepì il suo lavoro Paolo Orsi, archeologo a cui dobbiamo molta della ricostruzione della nostra storia. È anche la terra di Zaleuco, un grande politico considerato il primo legislatore del mondo. Il sindaco era fuori sede e ha introdotto i lavori l’avvocato Pino Mammoliti. L’incontro è stato moderato dal giornalista Pasquale Motta. Tutti gli interventi meritano di essere riascoltati: a partire da quello dello scrittore Minimo Gangemi che le storie le canta, del giornalista Paride Leporace, dell’ex sindaco di Marina di Gioiosa Domenico Vestito, degli avvocati Mario Mazza, Pasquale roti e Antonino Napoli. Nell’ultima tappa, quella a Siderno, abbiamo ricordato Sergio Malgeri, un giovane magistrato del territorio morto in questi giorni. Siderno, capitale economica della Locride, più volte sciolta per mafia, è il simbolo del tormento e della repressione imposti a un’intera regione. Qui, abbiamo commemorato il 25 aprile, coi suoi significati e lotte, la Resistenza che deve continuare nel passaggio liberatorio dagli stati di emergenza allo Stato di Diritto. L’incontro è stato moderato dal giornalista Gianluca Albanese. Dopo i saluti del sindaco della città Mariateresa Fragomeni e il mio intervento come direttore editoriale della Riviera, hanno parlato Elisabetta Zamparutti, Ilario Ammendolia, Federica Roccisano, Eugenio Minniti, Alessandro Figliomeni, Pietro Sergi, Vincenzo Belcastro. Animati da grande passione, sono intervenuti due ex sindaci: quello di Marina di Gioiosa Rocco Femia vittima di una plateale ingiustizia e quello di Siderno Pietro Fuda, una persona per bene umiliata nella sua persona e con lui l’intera comunità dall’ingiuria infame dello scioglimento del comune per mafia. Sergio D’Elia e Rita Bernardini hanno concluso questo viaggio nella vita e in un mondo, quello descritto dal libro “Quando prevenire è peggio che punire”, fatto di prevenzione sbagliata e di punizioni a sorteggio. Nella speranza che - dopo la lettura - la gente si renderà conto di quante vittime innocenti ha fatto la santa inquisizione antimafia in nome di una lotta contro il Male che è solo sulla carta e costituisce il più grosso alibi a copertura di crimini veri e propri. Siamo partiti con questo intento, invece, abbiamo visto molte facce, molti sguardi di gente che ancora spera in un destino diverso per questa terra, nonostante siano passati trent’anni dall’inizio dello stato di emergenza e di una legislazione speciale che tante vittime hanno mietuto. Non per caso, ho voluto riportare i nomi di tutte le persone intervenute in questi tre giorni. Sono quelle che ci hanno messo la faccia, ad altre invece gli avvocati hanno sconsigliato di intervenire... “per evitare problemi”. Grazie, quindi a Nessuno tocchi Caino, grazie a coloro che hanno voluto partecipare perché, con il loro coraggio, un nuovo giorno, quello della liberazione della Locride, forse, è iniziato. Giustizia universale, un valore mai superfluo di Luigi Manconi La Repubblica, 29 aprile 2022 Evocare il diritto internazionale proprio mentre il diritto internazionale viene sistematicamente mortificato in territorio ucraino (e, va da sé, in mezzo mondo) può apparire esercizio da anime belle. Eppure, il richiamo a sistemi di giustizia universale, mentre si consumano devastazioni e stragi, un suo significato comunque lo ha: esile, incerto, precario. E, tuttavia, tangibile. Segni, indubbiamente piccoli segni, ma di cui non è impossibile immaginare uno sviluppo futuro e persino - e nonostante tutto - una imprevedibile potenza. Il primo segno è rappresentato dal fatto che già ora, e da quasi due mesi, funzionari e investigatori della Corte Penale Internazionale dell’Aja siano attivi in Ucraina per raccogliere testimonianze, indizi e prove dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità che vi sarebbero in corso. Certo, la domanda delle domande è: ma si arriverà mai a processare Vladimir Putin per quei delitti? È un grave errore immaginare che questo sia il solo interrogativo che davvero conti. Non è così, qualsiasi passo avanti nel percorso tanto arduo per costruire una giustizia internazionale è comunque un progresso estremamente positivo: al fine di sottrarre alla barbarie un qualche spazio e affermarvi il diritto. Seconda notizia: alcune settimane fa il Tribunale penale di Coblenza, in Renania-Palatinato, ha condannato all’ergastolo l’ex colonnello dell’esercito siriano Anwar Raslan, dopo averlo riconosciuto colpevole di crimini contro l’umanità per aver inflitto torture a circa 4mila persone nella prigione di Al-Khatib, in territorio siriano. Il tribunale di Coblenza ha ricostruito le decine di casi di violenza sessuale e omicidi perpetrati tra il 2011 e il 2012, periodo in cui Raslan era dirigente degli apparati di sicurezza del governo di Bashar al-Assad. La Corte, appellandosi al principio della giurisdizione universale, ha avviato il processo nell’aprile del 2020, ascoltando almeno 80 testimonianze durante 180 udienze. Anwar Raslan, arrivato in Germania come rifugiato, era stato riconosciuto da una delle sue vittime che lo aveva denunciato alle autorità. L’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, Michelle Bachelet, commentando la sentenza, ha affermato che si tratta di “un chiaro esempio di come i tribunali nazionali possano e debbano colmare le lacune di responsabilità per crimini come questi, ovunque siano stati commessi”. Si dirà: una goccia nel mare di una gigantesca impunità. Eppure valorizzarla, forse, non è superfluo. Il web non è libertà d’odio di Milena Santerini* La Repubblica, 29 aprile 2022 Di fronte agli enormi danni causati dall’odio che invade il web non ci sono risposte semplici. Ma è semplice la domanda da farsi: perché nessuno interviene? Nonostante la diffusione di inquinamento online, che comprende disinformazione, hate speech verso gruppi bersaglio, manipolazione tossica, si assiste a una sorta di paralisi della volontà. Una prima obiezione ha riguardato finora l’idea - forte in tutti i noi -di Internet come “paradiso della libertà”. In effetti lo è, e rappresenta una delle opportunità più straordinarie che l’umanità ha avuto per aprirsi al mondo, connettersi, scoprire. Ma la comunicazione via social media non coincide con Internet, è una forma di business che si colloca al suo interno. Quindi, non si tratta di “censurare la Rete” quando si dice che l’odio crea profitto, e che occorre regolare le Big Tech (Meta-Facebook, Twitter, Instagram, YouTube, Google, TikTok e altre). È strumentale invocare la totale libertà d’espressione che deve essere bilanciata, come chiede la nostra Costituzione, con il rispetto dei diritti e della dignità di tutti. Qualcuno dirà che Internet è solo lo specchio della realtà e di un odio sempre esistito tra gli esseri umani, senza bisogno che emergesse il digitale. La fin troppo reale e concreta guerra di invasione dell’Ucraina, con le bombe, le macerie, i morti e i feriti che ci riportano a un passato bellicoso e primitivo, lo conferma. Ma gli scambi e la comunicazione online, ormai è provato, sono di qualità diversa, perché per loro natura tendono ad amplificare l’odio. La stessa propaganda di guerra viene dal passato, ma oggi trova un terreno fertile nell’evoluzione della tecnica, l’uso di immagini attraenti o sconvolgenti, la manipolazione digitale dei discorsi, l’habitat adatto alle spiegazioni cospiratorie e così via. Le fake news uccidono. Il problema principale è il mercato economico o il vantaggio politico che si è costruito sugli scambi dei social media. Questo aspetto viene messo in evidenza solo timidamente nonostante le denunce crescenti dei “pentiti” che hanno lavorato nelle Big Tech. Ne ha parlato recentemente Barack Obama all’Università di Stanford, richiamando anche le ingerenze russe nelle elezioni americane. Il meccanismo consiste nell’occupazione del mercato dell’attenzione, merce rara e contesa. Chi ha più attenzione, followers, utenti e clic, ha più profitto, soprattutto in pubblicità. Ma per avere attenzione occorre stimolare la dimensione emozionale e non solo quella riflessiva. Tra tutte le emozioni, la rabbia e l’indignazione attraggono di più. C’è da stupirsi se i social media continuano ad utilizzare questi meccanismi senza valutare del tutto le conseguenze a cui si può arrivare? La struttura stessa della comunicazione online deve sfruttare almeno tre meccanismi. Il primo è il bisogno di ricompensa che segue il circuito stimolo-soddisfazione. Ogni clic risponde a un bisogno della nostra mente di avere una risposta a un’azione, processo che rischia di creare dipendenza. Il secondo riguarda la dissonanza, il messaggio che contrasta con quello che già pensiamo o sappiamo. Tutta l’impalcatura dei filtri creati dagli algoritmi ci fa trovare quello che corrisponde ai nostri gusti o desideri e ci chiude nelle “bolle”. Non stiamo però traendo le debite conseguenze da questa consapevolezza, su cui da tempo insistono Cass Sunstein, Jean-Louis Missika e Henri Verdier: tutto ciò indebolisce la democrazia, ci imprigiona in polarizzazioni estreme e alla fine ci spinge a non dialogare più con chi la pensa diversamente da noi. Il terzo meccanismo, quindi, è il senso di impotenza civica e il disimpegno morale che può derivare dall’idea di un mondo troppo grande per poterlo influenzare. Uno dei pericoli più grandi deriva poi dagli attacchi ai gruppi bersaglio, non protetti dall’odio razzista o antisemita. Nel 2021, secondo ricerche europee, solo il 15% circa delle segnalazioni di grave antisemitismo, anche quando contrastano apertamente con le policy delle piattaforme, è stato rimosso. Non è quindi da idealisti o da utopisti chiedere subito interventi, non solo a livello degli Stati nazionali, ma soprattutto dell’Unione Europea, la sola istituzione abbastanza grande per dialogare con Usa e le Big Tech. Il Digital Service Act di prossima approvazione potrà darci importanti orientamenti per controllare i meccanismi di moderazione e rimozione dei contenuti di odio. In Italia, il problema è stato posto a proposito della lotta all’antisemitismo e da parte dell’Unar a livello della Presidenza del Consiglio. La Commissione Jo Cox contro l’odio e l’intolleranza della Camera dei deputati aveva chiesto con forza, nella XVII Legislatura, interventi che ancora tardano ad arrivare. Ora, le possibilità di un’azione sistemica sono nelle mani della Commissione per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza istituita al Senato su proposta di Liliana Segre. Il tema dell’hate speech online è al centro del suo lavoro e potrà convincere le istituzioni, i media e l’opinione pubblica che è tempo di intervenire. *Coordinatrice Nazionale per la lotta contro l’antisemitismo - Presidenza del Consiglio Suicidio assistito. “Ho il diritto di morire. La politica perde tempo invece di pensare a noi” di Maria Novella De Luca La Repubblica, 29 aprile 2022 Antonio, tetraplegico a 43 anni dopo un incidente di moto è il secondo paziente ad aver fatto causa per ottenere il fine vita, previsto dalla sentenza Dj Fabo, mentre la norma arranca in Parlamento. “Ero libero come l’aria, ora sono paralizzato. Chi fa le leggi esca dal suo egoismo e pensi ai tanti come me”. Filomena Gallo: “Adesso non venga stravolto il pensiero della Consulta”. Antonio ha il dono della leggerezza, nonostante tutto. “Mi piace guardare fuori verso i monti Sibillini, farmi portare sulla terrazza e respirare. Ricordare quanto era bella e libera la mia vita di ieri”. Otto anni fa, prima dell’incidente di moto, prima della carrozzina, tetraplegico e quasi immobile dal tronco in giù. “Il mio corpo è puro dolore, non ho speranza di miglioramento. Sono prigioniero di una non esistenza. Per questo voglio morire”. Snowboard, parapendio, una vita al massimo. Gli amici, le serate, la chitarra. Antonio, il secondo paziente italiano ad aver intrapreso la via giudiziaria per ottenere il suicidio assistito, dopo il caso di “Mario”, ci ha aperto le porte della sua casa nelle Marche, in una intervista via video. Una grande barba, il sorriso aperto, la voce forte, diritto sulla sua carrozzina, gli occhi limpidi e pronti all’ironia. Antonio, nome di fantasia, 43 anni, oggi è in attesa che l’Asur Marche si pronunci sul suo diritto - o meno - di mettere fine alla propria vita, secondo i parametri fissati dalla Consulta con la sentenza su Dj Fabo. “Noi stiamo per notificare all’Asur una nuova diffida, perché da ottobre del 2020 c’è stato un pronunciamento a gennaio, da un mese si sono concluse le visite di verifica, ma non è arrivato il parere del Comitato Etico. Intanto Antonio soffre ogni giorno di più”, spiega Filomena Gallo, Associazione Coscioni, nel team dei legali di Antonio. Il cui destino oggi incrocia quello della legge sul suicidio assistito. “Il testo della Camera si è già discostato molto dalla sentenza della Consulta. Il timore è che al Senato venga totalmente stravolto”. E Gallo fa degli esempi concreti. “Sono esclusi i malati privi di sostegno vitale anche se con prognosi infausta e sono escluse le persone che non possono autosomministrasi il farmaco perché completamente immobili. Impone il passaggio per le cure palliative, cure che ad esempio Antonio rifiuta”. Antonio, la sua voce, il suo sguardo fermo. Antonio, come sono le sue giornate? “Aspetto. Faccio fisioterapia, ginnastica. Riesco a restare seduto per qualche ora in carrozzina, quando i dolori diventano insopportabili devono rimettermi a letto. Ogni giorno pranzo con i miei genitori. Vedo film, documentari di ciò che amavo. Correre in moto, fare snowboard, lanciarmi con il parapendio, il rombo dei motori. Partire, sempre. Per risentire il sapore di quei giorni metto le cuffie e ascolto hard rock”. Lei sembra sereno, addirittura allegro. Antonio ride. “Non ho rimpianti. Amavo il rischio. Quando mi sono risvegliato dopo l’incidente di moto, era il 14 giugno del 2014, ce l’ho messa tutta per sopravvivere. Così, com’ero. Con l’aiuto della mia famiglia abbiamo costruito questa casa senza barriere, con una palestra, una terrazza per respirare l’aria dei monti. Oggi non basta più”. La sua condizione è peggiorata? “Soffro in modo indicibile. La mia vita non ha più dignità. Dipendo dagli altri per ogni singolo gesto, per tutte funzioni quotidiane, sono legato a farmaci salvavita. Dipendere è ciò che mi fa soffrire di più, anche per un sorso d’acqua, io che ero libero come il vento. Quando ho capito che non sarei più migliorato ho deciso di morire. Due anni fa”. Voleva andare in Svizzera? “Sì, era tutto pronto. Dopo la sentenza su Dj Fabo ho scoperto che avrei potuto ottenere il suicidio assistito in Italia e ho chiesto assistenza all’Associazione Coscioni. Voglio morire qui perchè è il mio paese, così altri sapranno che possono farlo in Italia e non soli in Svizzera”. La Consulta però ha bocciato il referendum sull’eutanasia, la legge sul suicidio assistito va a passi lenti. “Ai politici vorrei dire: soffro in modo indicibile, il mio corpo è solo tormento e voi in Parlamento perdete tempo. Vi chiedo una cosa soltanto: uscite dal vostro egoismo, pensate a me e ai tanti come me, aiutateci a morire”. Non ha paura? “No. Non ne posso più. Sono già distaccato. Ho tanto affetto intorno, gli amici, i miei genitori, i miei fratelli. Saranno tristi, lo so, ma vedermi soffrire è ancora più dura”. Lei dice che il dolore più grande è quello della mente... “Per il corpo ci sono gli antidolorifici. Leniscono, almeno un po’. La mia mente, invece, è sempre la stessa, per fortuna, ma nulla placa la sofferenza per questa non vita. Però voglio essere lucido fino all’ultimo istante, per questo ho rifiutato le cure palliative che annebbiano il pensiero”. Quindi lei si sta preparando all’addio... “Prima di morire vorrei fare un viaggio nei i luoghi che amavo, riprendere la patente per guidare l’auto speciale che mi ero costruito. Salutare uno ad uno tutti gli amici. Sentirmi, ancora una volta, libero come il vento”. La globalizzazione “solo tra amici”, rischi e opportunità per la nuova era di Federico Rampini Corriere della Sera, 29 aprile 2022 Possiamo dipendere dalle nazioni ostili ai valori dell’Occidente? Per ragioni di sicurezza è il momento di ri-localizzare molte produzioni nei Paesi alleati. Il mondo del futuro vedrà una globalizzazione “riservata agli amici”, cioè ai Paesi che condividono i nostri stessi valori? Le sanzioni economiche alla Russia potrebbero essere un passo decisivo in quella direzione, suggerisce la segretaria al Tesoro degli Stati Uniti, Janet Yellen. All’ultimo vertice G20, dove gli alleati occidentali hanno disertato l’intervento russo, la Yellen ha lanciato il neologismo “friend-shoring”. È calcato sul verbo “off-shoring” con cui si indicano le delocalizzazioni in Paesi d’oltremare. Secondo la Yellen e altri esponenti dell’Amministrazione Biden, per ragioni di sicurezza è il momento di ri-localizzare molte produzioni nei Paesi alleati. Tanto più che le sanzioni possono usarle gli altri contro di noi, come il taglio delle forniture di gas russo a Polonia e Bulgaria. E il problema non è solo la Russia. Abbiamo visto quanto è rischioso per la nostra salute dipendere dalla Cina per medicinali e apparecchi biomedici; ora Pechino limita anche le sue esportazioni di acciaio e di fertilizzanti per dare la priorità ai propri bisogni interni. Le nostre economie possono dipendere da una nazione ostile ai valori dell’Occidente? I nuovi confini geopolitici della globalizzazione potrebbero dunque restringersi alle liberaldemocrazie di cui ci fidiamo: Stati Uniti, Canada, Unione europea, Svizzera, Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Australia e alcuni altri. Ma è possibile? È realistico? Quali ne sarebbero le conseguenze? “Friend-shoring” non è un obiettivo nuovo. Ci riporta alle giornate di Seattle del dicembre 1999. In quella città della West Coast si celebrò un summit della World Trade Organization (Wto), l’organizzazione mondiale del commercio che doveva essere l’arbitro della globalizzazione. Due anni dopo sarebbe entrata a farne parte la Cina. Ma nel ‘99 a Seattle ci furono contestazioni poderose, manifestazioni oceaniche videro confluire sindacati, operai e ambientalisti. Uno dei temi che univa quel fronte composito era la concorrenza al ribasso su diritti umani, diritti dei lavoratori, ambiente: le delocalizzazioni venivano denunciate come lo strumento per aggirare tutte le conquiste dei Paesi occidentali. Quelle resistenze furono travolte anche perché la sponda politica dei sindacati e degli ambientalisti, cioè la sinistra di governo, divenne globalista con i vari Bill Clinton, Tony Blair, Gerhard Schröder, e lo rimase fino a Barack Obama. Il protezionismo divenne una bandiera dei sovranisti, e con scarso successo almeno fino al 2016 (Brexit-Trump). Ora il partito democratico Usa fa dietrofront. Le parole della Yellen riscoprono lo spirito dei contestatori di Seattle. Nel frattempo però decenni di delocalizzazioni ci hanno reso così dipendenti dai Paesi autoritari, che la nostra emancipazione è problematica. Dopo due anni di pandemia, e nonostante tutti i proclami sulla necessità di liberarci dalla dipendenza cinese, in America se entro in una farmacia a comprare una mascherina trovo sempre prodotti made in China. I dazi imposti da Donald Trump sulle importazioni cinesi vengono aggirati per 67 miliardi di dollari di importazioni annue usando un cavillo giuridico che esenta la “modica quantità”: basta sparpagliare gli acquisti del made in China su una miriade di consumatori con ordini individuali su Amazon e altri siti. In quanto alle materie prime, l’America ne è ricca ma Europa e Giappone no. Per liberarsi dal gas russo Mario Draghi deve cercarlo in Algeria, Libia, Egitto, regimi liberticidi. Per accelerare la transizione verso un’economia con zero emissioni carboniche, stiamo spingendo sul solare e l’auto elettrica: due settori dove la Cina ha un semi-monopolio di apparecchi, componenti, metalli. “Friend-shoring” significa rivedere gli equilibri economici su cui si regge il sistema occidentale. Trent’anni di globalizzazione hanno abituato molte imprese multinazionali ad avere un costo del lavoro basso e profitti conseguenti. Riportare produzioni in Occidente significa accettare costi del lavoro superiori, più i costi delle tante regole, ambientali e non solo. L’America, per aver semi-chiuso le frontiere all’immigrazione, ha visto salire i salari operai come non accadeva dagli anni Ottanta: era ora, però adesso le imprese protestano, alzano i prezzi, l’inflazione galoppa. Come negli anni Settanta - quando ancora l’Occidente produceva in casa buona parte dei beni industriali - rischia di ripartire una spirale prezzi-salari-profitti, alimentata da un’implicita lotta fra capitale e lavoro sulla ripartizione del reddito nazionale. La Cina ci aveva offerto un mondo lowcost a cui dovremo dire addio se vogliamo proteggerci. Non bisogna trascurare i benefici: così come le delocalizzazioni hanno sventrato la classe operaia occidentale, le rilocalizzazioni possono far rinascere milioni di posti di lavoro. Non sarà un processo spontaneo, però. Per creare il clima favorevole agli investimenti “fra amici” ci vorranno grandi riforme. Quali? Visto da sinistra: lo Stato dovrà pianificare questo smantellamento-ridimensionamento della globalizzazione, il che significa che per certi aspetti dovremo assomigliare un po’ di più a quei sistemi dirigisti che governano i nostri avversari. Visto da destra: lo Stato deve ritirarsi, smantellare la burocrazia e alleggerire le tasse, affinché l’Occidente torni ad essere una terra accogliente per le tante imprese che fuggirono a investire in terre lontane. Il “friend-shoring” se perseguito seriamente è una rivoluzione, o una contro-rivoluzione, con l’inevitabile corredo di vincitori e perdenti. L’America ci chiede la guerra totale di Domenico Quirico La Stampa, 29 aprile 2022 La guerra è un continente misterioso. Aperto alle svolte e alle sorprese, i fatti gli passano sopra, di minuto in minuto entusiasmi, equivoci, ferocie la ispirano e la commuovono, e lasciano stratificazioni e sedimenti pari a quelli che segnano i grandi fiumi nel corso del tempo e ne deviano progressivamente il corso. Ogni suo giorno è complesso, pieno di molteplici sensi, ogni parola del suo linguaggio è intriso di bugie o di fulminanti dichiarazioni di sincerità. Al di sotto della sua superficie si muovono realtà più nascoste oscure e misteriose che sembrano fuori dalla storia, invisibili nella loro gigantesca passività, all’occhio minuzioso che cerca, armato di un metodo e della lezione dei casi precedenti, di darle una logica. Ebbene: da ieri tutto è più chiaro, la guerra si è resa visibile, si è fatta palese nella meta finale. Gli americani infatti hanno chiarito qual è il loro scopo, a cosa muovono le attuali e prossime mosse. Washington ritiene che la presenza di Putin e della sua Russia, dopo l’invasione all’Ucraina, sia incompatibile con un minimo di giusto ordine internazionale: da autocrate che gioca a fare lo zar e con cui si poteva convivere nonostante il cattivo odore di galere, repressione e imperialismo spicciolo, è ora il pericolo pubblico numero uno per il mondo, fino al punto di compiere il gesto “genocida” nei confronti delle sue ultime vittime, gli ucraini. Lo scopo della guerra dunque ora è annientare le sue possibilità, presenti e future, di nuocere al mondo, di schiacciare i suoi vicini geografici, di usare la forza per imporre la sua versione brutale della storia e innalzare la zoologia di Darwin a religione. Biden ieri l’ha finanziata con altri 33 miliardi di aiuti di cui ben venti in armi a Kiev. Con un diavolo così implacabile, bugiardo e manipolatore, applicando una logica dell’esorcista che è difficile contrastare se non con argomenti illogici, fideistici, l’unica via possibile è tagliare la testa con il veleno, non concedergli mai più un’altra occasione. Non ci devono essere altre Ucraine dicono gli americani, perché se si tratta con lui una via di uscita ci riproverà. È la guerra totale e esplicita che hanno sempre chiesto all’occidente, quasi ossessivamente, gli ucraini i baltici i polacchi. Ora che è stata messa sul tavolo dagli americani, senza cui non esiste nessun aiuto vero alla Ucraina, sappiamo a cosa dobbiamo dire sì. A meno che non l’abbiamo già detto, il sì. Non al gas più o meno, alla sanzione più o meno, all’isolamento più o meno e alle chiacchiere più o meno. La guerra riparte dalla convocazione degli alleati a Ramstein, capitale militare americana d’Europa. Come al tempo della analoga grande coalizione che venne riunita per la prima guerra del Golfo da Bush padre, con chiarezza si chiede di scegliere: con noi, Stati Uniti, fino in fondo o seduti vicino al telefono aspettando che il Tiranno risponda. I leader e gli intellettuali europei (e italiani soprattutto) descrivono ogni giorno, con cura e metodo, l’efferatezza e la mostruosità di Putin, la proclamano e poi si fermano, non tirano le conseguenze. Anzi, si salvano l’anima pacifista eccetera eccetera e cominciano a evocare negoziati, le vie della trattativa “da non dimenticare mai”, citano Francesco e Agostino, Kant e John Lennon, stigmatizzano la lentezza di “indispensabili” tregue e cessate il fuoco. Ma firmate con chi? Si evita sempre il nome dell’interlocutore a cui tender la mano. Non osano pronunciare il nome di Putin perché con le premesse questa conclusione è incompatibile. Si viaggia su vaghezze metafisiche come se Vladimir a un certo punto, a furia di esorcismi a base di gas non pagato e armi difensive, potesse smaterializzarsi come un incubo; e dall’altra parte del telefono o del tavolo comparisse, miracolo! un russo buono, un russo pacifista, meglio se pentito e pronto a raccogliere i cocci, pagare i danni e non farlo più. In fondo fino a ieri la guerra ucraina appariva indecifrabile: gli scopi di Putin che vagavano da un minimo indicato in un pezzo di Donbass al dominio del mondo che molti gli attribuiscono; la resistenza ucraina così sorprendente da apparire, dopo l’emozionante stupefazione iniziale, assai più organizzata e accuratamente potenziata nel corso degli anni e non ottocentesco impeto di popolo sferzato da una invasione così infame da sembrare un fratricidio; l’attendismo tortuoso dei cinesi anche loro, forse, alla ricerca di una occasione o un pretesto per imitare Putin nel Mar Cinese. E la unità degli europei descritta volenterosamente come il raggiunto azimut della solidarietà politica del continente ma, ahi noi!, così simile alla vecchia furbizia volpina del guadagnar tempo, sperando che una occasione che salvi la faccia del no all’autocrate goloso e i buoni affari da cui dipende come sempre tutto il nostro Tutto. Non risulta che nessuno dei quaranta di Ramstein si sia opposto alla indicazione americana degli scopi di guerra. Salvo poi, una volta tornato a casa, soprattutto ad uso interno, riprendere la tiritera del “non è cambiato nulla”, fingendo ingenua sorpresa a chi chiede di spiegare cosa vuol dire dal punto di vista militare: eliminare la possibilità di nuocere dell’esercito russo. Come se bastasse all’opera complessa e definitiva mescolare la vecchia ricetta dei toni duri e delle sanzioni per far tornare la ragione al diavolo dell’est. Ecco alcune domande a cui gli americani, immagino, hanno certamente risposto. Poiché la distruzione della capacità militare russa è al di fuori delle possibilità operative dell’esercito ucraino anche armato di nuove meraviglie per la differenza incolmabile di peso specifico tra le due armate, senza tener conto delle armi atomiche, alla opera di distruzione devono provvedere gli americani e la loro Coalizione. Sul modello di quanto è accaduto nel primo Iraq. Con la superiorità netta nell’aviazione, il controllo del cielo, bombardamenti a tappeto sull’esercito russo e sulle sue basi fino a ridurlo ai minimi termini operativi. Ma la Russia non è l’Iraq di Saddam. È stata prevista la possibilità che Putin ricorra, come ha già annunciato, per difendersi all’arma nucleare? O forse gli americani hanno tranquillizzato tutti svelando che hanno modo di azzerare il suo micidiale arsenale prima ancora che venga utilizzato? Ancora: è stata indicato agli alleati che, oltre alle forniture militari, potrebbero essere richiesti anche contingenti di truppe necessari per dare la caccia al criminale oltre cortina prima che allestisca un fortilizio asiatico insieme al suo complice mellifluo di Pechino? Inutili farsi illusioni. Con la prossima onda si può esser trascinati in mare. Forse non c’è altra via. Ma bisogna dirlo. E questo non è balordo putinismo, vocazione capitolarda e neppure paura: solo consapevole accettazione della responsabilità della giustizia. Che non è compatibile con ipocrisia e sotterfugio. Don Ciotti: “L’industria delle armi non vuole la pace, nel loro nome tradiamo la Costituzione” di Luca Monticelli La Stampa, 29 aprile 2022 Il fondatore dell’associazione Libera: “Non si può essere neutrali, l’oppressore è la Russia ma serve insistere per una mediazione”. “Questa è la vittoria delle industrie delle armi, sono i più grandi vincitori. Loro non vogliono la pace, vivono delle guerre. E noi stiamo tradendo la nostra costituzione”. Don Luigi Ciotti, fondatore e presidente di Libera, religioso, pacifista, da una vita accanto agli ultimi della terra, non è d’accordo con la decisione dell’Italia di spedire l’artiglieria in Ucraina. Don Ciotti, anche lei equidistante? “Non si può essere neutrali, la Russia è l’oppressore e gli ucraini sono un popolo oppresso. Possiamo dare una mano e aiutare i partigiani, gli uomini e le donne che lottano come abbiamo lottato noi per la nostra libertà”. E come li aiutiamo se non diamo loro le armi che chiedono? “Mi piacerebbe che l’Europa e le Nazioni Unite tentassero altre strade, insistendo con una mediazione. Dov’è questa Europa? Sono passati due mesi e Putin ha già distrutto città intere”. Difficile fare la pace se la Russia non si siede al tavolo del negoziato... “Il nostro impegno però deve spingere sulla soluzione diplomatica, dobbiamo trovare dei modi, ma mancano interlocutori forti e autorevoli che invece sarebbero fondamentali”. Il Papa ci sta provando... “Il Papa è la figura che vive la dimensione spirituale, vive l’intransigenza etica ma anche una dimensione politica a servizio del bene comune. E lui alza la sua voce per stimolare le coscienze. Perché se c’è un conflitto che io auguro a tutti è il conflitto delle nostre coscienze, dobbiamo renderle inquiete, mentre spesso sono assopite”. Cosa intende? “Faccio un esempio. Durante la pandemia, quando siamo stati travolti dal virus, abbiamo visto gesti di generosità, accoglienza, il sacrificio di tanti. Ebbene, in quei momenti di sofferenza, guarda caso nel mondo erano diminuiti gli investimenti sul sociale, sulla scuola ed erano aumentate le risorse da destinare alle armi. C’era già una pace armata. Tutti a parlare di pace durante la pandemia, ma in realtà la spesa militare si era già notevolmente alzata. C’era “un movimento”, non si può dire che certi organismi non sapevano, non avevano intuito quello che stava succedendo, ci sono delle responsabilità”. Gli Stati Uniti avevano avvisato tutta la comunità internazionale che la Russia stava ammassando le truppe al confine con l’Ucraina per prepararsi a sferrare un attacco. Fu Putin a rispondere che si trattava delle fake news dell’Occidente. Poco dopo ha iniziato a lanciare i missili... “Sto dicendo che siamo stati troppo superficiali, abbiamo dato tante cose per scontate. E la risposta di fronte all’invasione russa è stata subito “allora prendiamo le armi”“. Il decreto del governo che stabilisce l’invio di armi all’Ucraina è stato approvato a larghissima maggioranza dal Parlamento italiano... “È stato votato in fretta e furia, vorrei vedere questa velocità anche su altri temi. Io ero già preoccupato quando il governo aveva annunciato di voler aumentare le spese militari fino al 2 per cento del Pil, e continuo ad esserlo. Il riarmo è una scelta immorale”. L’Italia che cosa dovrebbe fare allora? “C’è una riflessione più ampia che deve essere fatta: la pace ha bisogno di verità, di giustizia sociale, noi abbiamo tradito la dichiarazione universale dei diritti umani e abbiamo anche tradito un po’ la nostra Costituzione. È il momento di fare una grande riflessione e di vivere un conflitto, anche in modo acceso, ma con la nostra coscienza, chiederci che cosa fare di più, essere responsabili e consapevoli, non essere cittadini a intermittenza”. L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, recita la Costituzione. Ma c’è anche scritto che la difesa della patria è un dovere sacro. Lei dice che l’abbiamo tradita, ma riconosce la resistenza degli ucraini. Non è una contraddizione? “Gli uomini e le donne hanno il diritto di difendere la loro libertà, ma perché non parliamo pure di tutti gli altri conflitti che sono nati e continuano a nascere, che fanno migliaia di persone sfollate, mutilate, costrette a scappare? Certo, è giusto parlare di questa guerra che è praticamente a casa nostra, ben venga l’accoglienza per gli ucraini, ma perché non c’è la stessa attenzione nei confronti di altri migranti che continuano a morire in fondo al mare e che noi respingiamo alle frontiere?”. Danimarca. Carceri affollate? Celle in Kosovo per gli stranieri di Michele Pignatelli Il Sole 24 Ore, 29 aprile 2022 Formalizzata un’intesa che riguarderà i detenuti di Paesi non Ue. Intanto il governo valuta l’invio in Ruanda dei richiedenti asilo. Il ministro della Giustizia danese, Nick Hækkerup, lo ha definito “rivoluzionario”. Ma l’accordo firmato mercoledì da Copenaghen e Pristina per il trasferimento di 300 carcerati di Paesi extra-Ue in un penitenziario kosovaro solleva nuove perplessità sulla linea dura intrapresa da anni dai governi danesi nei confronti dei migranti. Le politiche migratorie, va subito chiarito, in questo caso non c’entrano direttamente. L’intesa - che formalizza una dichiarazione di intenti dei due governi del dicembre scorso e che ripropone esperimenti già fatti da Norvegia e Belgio appoggiandosi a prigioni olandesi - ha l’obiettivo di ridurre il sovraffollamento delle carceri danesi, la cui popolazione è cresciuta del 19% tra il 2015 e il 2021, mentre le guardie carcerarie diminuivano di una percentuale pressoché analoga. Il Kosovo al contrario vanta 7-800 posti disponibili negli istituti di pena. La soddisfazione di Copenaghen e Pristina Una volta che l’intesa sarà ratificata dai parlamenti, la Danimarca pagherà dunque 15 milioni di euro all’anno (per dieci anni) per “affittare” il penitenziario di Gjilan, a 50 chilometri da Pristina, e altri 6 milioni in aiuti per la transizione energetica e allo sviluppo. Copenaghen, che conta di poter iniziare il trasferimento nel 2023, precisa che si tratta di detenuti di Paesi terzi (terroristi esclusi) che sarebbero comunque stati espulsi dalla Danimarca una volta scontata la pena e che a loro sarà garantito lo stesso trattamento che ricevono nelle carceri danesi. Il Kosovo, da parte sua, esprime soddisfazione per un’iniziativa “che rafforzerà la cooperazione con il Regno di Danimarca e dimostrerà che la Repubblica del Kosovo è un partner serio nel mondo democratico e risponderà sempre agli alleati”. Non mancano però associazioni e attivisti danesi che già hanno fatto notare come l’accordo violi, per esempio, i diritti di vista dei detenuti, i cui parenti difficilmente potranno continuare ad andare a trovarli in Kosovo. A dare poi al provvedimento una connotazione non solo pratica ma anche velatamente ideologica contribuiscono i toni del ministro della Giustizia Hækkerup, che ha sottolineato come “con questo accordo la Danimarca stia mandando un chiaro segnale agli stranieri di Paesi terzi condannati alla deportazione: il vostro futuro non è in Danimarca, dunque non dovreste scontare la vostra pena qui”. Anche perché a questa decisione si aggiunge un’altra misura allo studio, relativa in questo caso non ai carcerati ma ai richiedenti asilo. Copenaghen infatti, dopo aver approvato l’anno scorso una controversa legge che permette di trasferire i migranti che arrivano in territorio danese in un Paese partner, sta ora discutendo con il Ruanda l’attuazione di una procedura di questo tipo, sulla scia di quanto annunciato dal Regno Unito la settimana scorsa. La Commissione europea ha affermato che ricollocare i rifugiati fuori dall’Europa non è possibile in base alle attuali regole Ue, ma la Danimarca è esentata da alcune, incluse le norme in materia di asilo, in virtù della clausola opt-out che caratterizza la sua appartenenza all’Unione europea. La linea dura in materia di immigrazione ha caratterizzato i governi danesi dell’ultimo ventennio:?basti pensare alla legge del 2016 che autorizzava la confisca di gioielli e beni superiori alle 10mila corone (1350 euro) dei migranti, per coprire le spese di accoglienza. Sorprende un po’ la continuità nell’attuare questa linea adottata dall’attuale esecutivo socialdemocratico di Mette Fredriksen, un governo dunque di centrosinistra. Che però ha fatto bene i suoi conti, se è vero che l’ultimo sondaggio assegna al partito della premier il 29% dei consensi contro il 5% del Partito del popolo, la destra populista. Australia. In cella d’isolamento a dieci anni di Esther Linder Internazionale, 29 aprile 2022 Nello stato australiano del Territorio del Nord i detenuti minorenni ricevono un trattamento crudele. Con la pandemia di covid-19 la situazione è perfino peggiorata. Al telefono Donna Hunter è concisa. La sua voce trema un po’ solo quando invoca la fine di un sistema che ha fatto del male a suo nipote. “Cosa abbiamo in testa?”, chiede. “Stiamo forse aspettando che succeda l’impensabile prima di fare qualcosa?”. Suo nipote è finito in prigione tre volte nell’ultimo anno e mezzo, sempre al centro di detenzione minorile Don Dale di Berrimah, nel Territorio del Nord. È stato arrestato la prima volta per furto quando aveva dieci anni, ma Hunter sottolinea che lui capisce solo i danni fatti ad altre persone, non capisce il concetto di danno alla comunità sanzionato da un giudice. Gli è stato negato il rilascio su cauzione perché alla stazione di polizia di Palmerston non c’erano dispositivi per la sorveglianza elettronica, e così è stato mandato a Don Dale per tre settimane. Ha passato sette giorni in totale isolamento, come previsto dai protocolli per il contenimento del covid-19. Assistenza terapeutica - Ormai questa è diventata una pratica comune. L’assistenza terapeutica era limitata, e spesso il bambino restava in cella per 23 ore al giorno. Le strutture del Don Dale sono vecchie, insalubri e fatiscenti. “Quei ragazzi hanno problemi, traumi”, dice Hunter. “Hanno bisogno di terapie, di un po’ d’amore e d’attenzione, non di restare chiusi da soli per ore”. Racconta che in isolamento i pasti arrivavano al nipote attraverso uno sportello. “Non sono in un campo di concentramento. Per quei bambini dovrebbero esserci dei percorsi di reinserimento”. Secondo molti esperti, il sovraffollamento, i lunghi periodi d’isolamento, i requisiti molto rigidi per il rilascio su cauzione e la carenza di personale specializzato creano le condizioni per incidenti potenzialmente mortali. La maggior parte di questi problemi, se non tutti, sono stati evidenziati dai lavori della commissione per la protezione e la detenzione di minorenni nel Territorio del Nord, istituita nel 2016. Una delle prime questioni emerse dall’inchiesta è che i centri di detenzione di Darwin e Alice Springs non erano adeguati allo scopo a causa di condizioni descritte come “severe, simili a quelle di un carcere per adulti e insalubri”. Spesso le strutture non rispettavano né le linee guida internazionali né quelle australiane in materia di detenzione dei minori e costituivano ambienti di lavoro poco sicuri per il personale. Gli attivisti locali, l’ufficio del commissario per l’infanzia del Territorio del Nord e le famiglie denunciano la sospensione del dovere di cura da parte del governo, che ha avuto effetti traumatici su centinaia di bambini. Con il covid-19 le cose sono peggiorate. L’anno scorso i confini del Territorio del Nord sono rimasti sostanzialmente chiusi al resto dell’Australia per tutta la durata dell’ondata della variante delta del virus. Solo dopo il 20 dicembre 2021 le persone provenienti da altri stati non hanno dovuto più fare un periodo di quarantena e alla fine è stato abolito anche l’obbligo di sottoporsi al test del Covid. Ma a gennaio il numero di contagi è esploso con la variante omicron. Di conseguenza l’isolamento forzato in cella fino a 23 ore al giorno nei centri di detenzione per minori di Don Dale e di Alice Springs è diventato di fatto un modo per gestire l’epidemia, anche perché la mancanza di personale rende impossibile l’assistenza sanitaria. Nonostante questi protocolli a febbraio quasi un terzo dei detenuti a Don Dale è risultato positivo al covid-19, afferma il dipartimento territoriale per le famiglie, gli alloggi e le comunità. Da allora, a causa dei continui lockdown, i familiari non possono fare visita ai ragazzi, i servizi sono sospesi e restano in vigore rigide misure d’isolamento. Le ispezioni dell’ufficio del commissario per l’infanzia hanno rilevato che a Don Dale e Alice Springs mancavano le strutture per l’assistenza terapeutica e che le continue carenze di personale avevano ridotto i servizi medici ed educativi di base. Dal rapporto del commissario emerge che alcuni ragazzi sono stati lasciati in isolamento per quasi ventiquattr’ore in attesa di una valutazione medica. I più colpiti - I problemi del sistema giudiziario minorile australiano ricadono in modo particolare sulle popolazioni aborigene e sugli abitanti delle isole dello stretto di Torres. Più del 96 per cento dei detenuti a Don Dale e Alice Springs sono aborigeni, la maggior parte maschi. Molti addetti ai lavori descrivono una profonda indifferenza nei confronti delle comunità indigene, nel Territorio del Nord ma anche nel resto dell’Australia, soprattutto quando si parla di detenzione di minori. Il legale di un ragazzo detenuto a Don Dale ha parlato di razzismo istituzionale. John B. Lawrence, avvocato che ha rappresentato due ex detenuti di Don Dale davanti alla commissione, ha dichiarato al Saturday Paper: “È successo solo perché si trattava di aborigeni. Non sarebbe mai potuto succedere se fossero stati bambini bianchi”. Il dipartimento territoriale per le famiglie, gli alloggi e le comunità ha dichiarato che “tutti i ragazzi ricevono i servizi più adatti alle loro esigenze e sono assistiti secondo modalità culturalmente rispettose”. Nella dichiarazione scritta si precisa che le visite dei servizi di supporto esterni erano state interrotte durante le ondate di covid-19, ma erano comunque consentite le valutazioni in teleconferenza. Molte famiglie, compresa quella di Hunter, sostengono però che i servizi disponibili non erano in grado di offrire neanche l’assistenza di base. Maschere e cappucci - Dopo la pubblicazione nel 2016 di immagini in cui si vedevano bambini con delle maschere per impedire di sputare e manette ai polsi e dopo un’inchiesta della tv pubblica australiana Abc, il primo ministro dell’epoca Malcolm Turnbull annunciò l’apertura di un’inchiesta. La successiva commissione per la protezione e la detenzione dei minori nel Territorio del Nord produsse 147 conclusioni e 227 raccomandazioni. Una di queste affermava che nelle strutture di detenzione per minorenni doveva essere vietato l’uso di cappucci per impedire ai ragazzi di sputare. Ma una recente inchiesta del quotidiano Nt News ha scoperto che la polizia continua a usare le maschere nei commissariati, che sono spesso la prima tappa per un minore arrestato e non sono incluse nel divieto. Gli attivisti per i diritti civili hanno protestato con il governo del Territorio del Nord e con la polizia, accusandoli di approfittare di questa scappatoia legale. Un’altra raccomandazione importante della commissione riguardava la chiusura di Don Dale. Non è stata accolta dal governo, che negli ultimi cinque anni ha speso circa tre milioni di dollari per potenziare il centro con nuovi sistemi di telecamere a circuito chiuso e altre migliorie. L’avvocato Lawrence osserva che in precedenza questa struttura ospitava un carcere per adulti, e che quindi non è adatta alla detenzione di minori. La commissione proponeva inoltre di portare l’età per l’imputabilità penale dai dieci ai dodici anni nel Territorio del Nord e di escludere dalla detenzione chi ha meno di 14 anni se non ricorrono gravi circostanze. Se questa raccomandazione fosse stata accolta, il nipote di Hunter non sarebbe mai finito in carcere. A maggio del 2021, inoltre, il governo laburista del Territorio del Nord ha approvato una riforma che revoca automaticamente il rilascio su cauzione per casi di gravi infrazioni ed elimina la concessione della cauzione per gli incensurati. David Woodroffe, della North australian aboriginal justice agency, ha definito la situazione di Don Dale “un ininterrotto disastro di ingiustizie” legato alla mancata azione del governo dopo i lavori della commissione. Ha osservato che i bambini aborigeni sono spediti nei centri di detenzione a un’età sempre più bassa, secondo lui una conseguenza delle leggi “punitive” che regolano la cauzione. Senza aspettare - Per fare pressione contro le inefficienze del sistema della giustizia minorile, Hunter è entrata in un gruppo d’azione comunitario che chiede la chiusura di Don Dale. Afferma che le raccomandazioni della commissione sono state ignorate. Hunter ricorda una telefonata di suo nipote durante le tre settimane di reclusione nel penitenziario, quando non poteva fargli visita a causa dei lockdown. “Ciao nonna. Mi sei mancata. Sto bene, nonna, non ti preoccupare. Non ti preoccupare”, le ha detto. “Ti si spezza il cuore”, conclude Hunter. “Non possiamo aspettare che muoia un bambino”.