Esecuzione penale, tante parole ma nessuna svolta: la rieducazione resta un privilegio di pochi di Riccardo Polidoro Il Riformista, 28 aprile 2022 Esecuzione penale. La necessità di un concreto cambiamento, per una migliore sicurezza sociale. È questo il titolo dell’incontro che si terrà a Santa Maria Capua Vetere il 29 aprile, alle ore 14, presso il Salone degli Specchi del Teatro Garibaldi, a cura della locale Camera penale ed a cui parteciperanno tutte le Camere penali del distretto della Corte di Appello. L’evento conferma il costante impegno dell’avvocatura per il rispetto dei principi costituzionali e delle norme dell’ordinamento penitenziario, in gran parte, da lungo tempo se non da sempre, ignorate. A dicembre scorso l’Unione Camere penali denunciò a Roma, in un convegno nazionale, la mancata applicazione della riforma, chiesta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo ed oggetto di una legge delega del Parlamento al Governo, già scritta e mai tramutata in legge. Anni di lavoro, tra Stati generali dell’esecuzione penale e commissioni ministeriali, che sono rimasti lettera morta, nonostante il “cambio di passo” più volte annunciato dal ministro della Giustizia Marta Cartabia e dallo stesso presidente del Consiglio Mario Draghi. Furono proprio loro, giunti a Santa Maria Capua Vetere dopo la diffusione dei video delle inaudite violenze subite dai detenuti all’interno del carcere da parte del personale della polizia penitenziaria, ad assicurare che presto ci sarebbe stata la dovuta e non più procrastinabile svolta. Risuonano ancora le parole del Capo del Governo: “Oggi non siamo qui a celebrare trionfi o successi, ma piuttosto ad affrontare le conseguenze delle nostre sconfitte. Venire qui oggi significa guardare da vicino, di persona per iniziare a capire…la responsabilità collettiva è di un sistema che va riformato. Il Governo non ha intenzione di dimenticare. La Costituzione italiana sancisce all’art. 27 i principi che devono guidare lo strumento della detenzione: Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. La ministra Cartabia presenterà delle proposte che sosterrò con convinzione, anche a nome di tutto il Governo. A questi principi deve accompagnarsi la tutela dei diritti universali: il diritto all’integrità psicofisica, all’istruzione, al lavoro e alla salute, solo per citarne alcuni…Le carceri devono essere l’inizio di un nuovo percorso di vita. L’Italia, questo Governo, la comunità di Santa Maria Capua Vetere, vogliono accompagnarvi”. Era il 14 luglio 2021. Dopo circa un anno, nulla è stato concretamente fatto. In carcere si soffre, ci si ammala, si muore. La rieducazione, prevista in Costituzione, è un privilegio per pochi. Istituti fondamentali come il consiglio di aiuto sociale, previsto già nel 1975 con l’entrata in vigore dell’ordinamento penitenziario, non trovano alcuna applicazione nonostante la loro particolare importanza: avvicinare i detenuti negli ultimi mesi di carcerazione ed accompagnarli all’uscita per favorire il loro reinserimento sociale. I reclusi sono abbandonati a se stessi dentro e dimenticati una volta usciti. Lo Stato li priva della libertà e si accontenta di questo parziale, cieco e inutile risultato. Ecco perché i penalisti italiani tornano a Santa Maria Capua Vetere e lo fanno con il loro presidente, l’avvocato Gian Domenico Caiazza che introdurrà i lavori, dopo i saluti del presidente della locale Camera penale, avvocato Francesco Petrillo, e dei presidenti delle Camere penali del distretto. Seguiranno gli interventi dei rappresentanti di tutte le componenti sociali che hanno e/o possono avere un ruolo da protagonisti per un’esecuzione penale che finalmente cambi, non solo per essere conforme al dettato costituzionale, ma anche per assicurare all’intera comunità quella sicurezza sociale tanto agognata. Il dibattito vedrà la presenza di Lucia Castellano, provveditore reggente del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria della Campania; di Samuele Ciambriello, garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale; di Raffaella Pignetti, imprenditrice e presidente del Consorzio Asi Caserta, per il progetto “Mi riscatto per il futuro”, sulla formazione e il reinserimento sociale dei detenuti attraverso lavori di pubblica utilità nelle aree industriali del consorzio; di Marco Puglia, magistrato di Sorveglianza; di Catello Vitiello, deputato e componente della Commissione Giustizia. Un incontro, quindi, di voci autorevoli ancora una volta voluto dalle Camere Penali, che, come in passato, continuano a denunciare l’assenza di una seria politica sull’Esecuzione penale. Non ci arrenderemo mai, perché quello che chiediamo è il rispetto della legge, come ben sa chi declama, ma dimentica. Oggi la presentazione del XVIII Rapporto di Antigone sulle carceri askanews.it, 28 aprile 2022 A Roma presso la Sala Ilaria Alpi nella sede dell’Arci nazionale. “Il carcere visto da dentro” è il titolo del XVIII Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione che sarà presentato a Roma il prossimo giovedì 28 aprile, dalle 10, presso la Sala Ilaria Alpi (all’interno della sede dell’Arci nazionale, in via Monti di Pietralata 16). Sono state circa 100 le visite effettuate dall’osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone nel corso del 2021. Un lavoro di monitoraggio capillare, dal Sud al Nord del paese, dalle carceri più grandi a quelle più piccole, che offre il quadro della situazione del sistema penitenziario italiano, delle sue problematiche e delle riforme necessarie. Il rapporto conterrà al suo interno numeri, dati, statistiche, approfondimenti e storie. Alla presentazione parteciperanno: Carlo Renoldi, Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria; Gemma Tuccillo, Capo Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità; Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale; Marco Ruotolo, Presidente della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario; Stefano Anastasia, Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio. Durante l’incontro sarà presentato il podcast “Chiusi dentro”, realizzato in collaborazione da Repubblica e Antigone. Parteciperà Massimo Razzi, giornalista e co-autore. Saranno presentati anche i risultati del progetto Europeo “Arisa 2” finanziato dalla DG Justice sul rapporto tra comunicazione in materia di giustizia criminale e diritti delle persone indagate, sospettate o arrestate. Per accedere non è necessario accreditarsi ma, per ragioni organizzative, si chiede comunque di confermare la propria presenza scrivendo a oleandri@antigone.it. Corso lavori di pubblica utilità: tre esempi di buone pratiche di Marco Belli gnewsonline.it, 28 aprile 2022 Fra gli oltre 80 Protocolli d’intesa sottoscritti dal Ministero della Giustizia - Dap con istituti penitenziari, amministrazioni comunali e aziende a partire dal 2018, diversi si sono trasformati in buone pratiche, per il successo riscosso e l’interesse suscitato sul territorio. Il progetto realizzato nell’area industriale di Caserta, al Parco di Rogoredo a Milano e sull’isola di Favignana: tre testimonianze di eccellenza che sono state illustrate nel corso della seconda giornata del corso avviato ieri che punta a formare i 200 referenti della rete per il lavoro di pubblica utilità. Cinquantasei i detenuti dagli istituti di Carinola, Santa Maria Capua Vetere e Aversa che hanno seguito un corso di formazione professionalizzante, di cui 36 già certificati, e 17 autorizzati dalla magistratura di sorveglianza a lavorare all’esterno. È il biglietto da visita di successo del programma di percorsi di formazione personale e professionale dei soggetti in stato di detenzione e il conseguente avvio di lavori di pubblica utilità nell’ambito della riqualificazione dell’area industriale di Caserta (oltre 5mila ettari per circa 4.500 aziende) grazie al protocollo d’intesa “Mi riscatto per il futuro”, sottoscritto fra Dap e Consorzio Asi nel dicembre 2019, i cui risultati di oltre due anni di lavoro sono stati presentati pochi giorni fa. “Il nostro obiettivo - ha detto la presidente del Consorzio di imprese, Raffaela Pignetti - è di arrivare a formare 200 detenuti, con attestati ad hoc che li abilitano allo svolgimento di un mestiere con l’uso di specifici strumenti per la manutenzione del verde. Ma oltre a questo, anche a conoscere le norme che riguardano la sicurezza sul lavoro, le pratiche di primo soccorso, la prevenzione degli incendi e la gestione delle emergenze. Un bagaglio di conoscenze che potrà essere speso una volta che queste persone saranno uscite dal carcere”. “Una preziosa opportunità per tutti i soggetti coinvolti, agevolata dal prezioso contributo della magistratura di sorveglianza e basata su un patto sulla fiducia fra società e persone detenute”, ha sottolineato Assunta Borzacchiello, direttore dell’Ufficio detenuti e trattamento del Provveditorato regionale per la Campania, che ha ricordato le parole di uno di loro: ‘A me il magistrato, il direttore e la polizia penitenziaria hanno dato fiducia. E io gliene voglio ridare il doppio di fiducia. Quando ho finito di lavorare, ci torno anche a piedi in carcere’. Il modello pubblico-privato realizzato in Campania ha attirato l’attenzione delle Nazioni Unite che vorrebbero approfondirne la conoscenza per poterlo eventualmente esportare come buona pratica nei Paesi dell’America Latina. Molti e diversificati progetti di pubblica utilità per il reinserimento dei detenuti sono stati avviati nella Casa di reclusione di Milano Opera. Sono stati presentati alla platea dei corsisti dal direttore dell’istituto, Silvio Di Gregorio, e dal comandante, Amerigo Fusco, e dal funzionario giuridico pedagogico Maria Luisa Manzi. Partendo dalla bonifica ambientale e alla riqualificazione del Porto di Mare e del Parco di Rogoredo a Milano, frutto di un’intesa sottoscritta con il Comune di Milano nel luglio 2021. Tanti i progetti attualmente in corso, avviati con la costante e proficua collaborazione del tribunale di sorveglianza. Quello più recente è il Museo vinciano nella reclusione, che prevede la formazione storico-artistica di 4 detenuti che si occuperanno dell’accoglienza dei turisti. Il Progetto dell’Abbazia di Mirasole, con un detenuto che accompagna i detenuti nella visita del sito storico. E poi la pulizia dei parchi del Comune di Rozzano, nel quale lavorano 8 detenuti; la pulizia del Museo Diocesano, la formazione per maniscalchi che ha coinvolto i detenuti nella cura degli animali all’interno del Freedom Ranch. E ancora il Progetto Metamorfosi, con i detenuti liutai che recuperano il legno dei barconi dei migranti arrivati a Lampedusa per farne i violini e gli strumenti ad arco che costituiranno l’Orchestra del Mare. “Forse non tutti sanno - ha aggiunto Di Gregorio - che dal 2018, in estate, un gruppo di detenuti autorizzati al lavoro all’esterno ex art. 21 O.P. curano i sentieri e la manutenzione forestale a Madesimo, in provincia di Sondrio, a oltre 100 chilometri da Milano, dove si trattengono per due mesi in una struttura comunale attrezzata per ospitarli. Quest’anno un altro gruppo farà altrettanto anche nel Comune di Predazzo, dove andranno per svolgere lavori di pubblica utilità insieme alle loro famiglie”. Sistemazione e pulizia del verde e realizzazione di aiuole nei giardini pubblici, ma anche pulizia e manutenzione dell’ex stabilimento Florio, del cimitero, del centro anziani. E poi sistemazione del tetto della scuola e perfino la pulizia del tratto di mare della tonnara. Sono i progetti di pubblica utilità avviati dal carcere di Favignana insieme all’Amministrazione comunale dell’isola in applicazione del protocollo d’intesa siglato nel febbraio 2021. I detenuti selezionati hanno ricevuto una specifica formazione di 15 giorni prima di poter lavorare per quattro ore al giorno a beneficio della comunità. E un attestato personale che ha riconosciuto loro l’attività svolta. “Lavori di pubblica utilità a Favignana si svolgevano da oltre dieci anni, anche in virtù del forte connubio che da sempre ha legato l’isola al suo carcere e il carcere all’isola”, ha sottolineato il sindaco ed ex Presidente della Commissione Antimafia, Francesco Forgione. “Ma volevamo rafforzare questo rapporto e l’abbiamo fatto sposando con entusiasmo il modello ‘Mi riscatto per il futuro’. Ora l’attività è ferma, ma ci auguriamo che Ministero e Dipartimento riescano in breve ad attivarsi per far ripartire i tanti progetti in programma in vista dell’estate”. “A Favignana - gli ha fatto eco l’ex direttore della Casa di reclusione, Nunziante Rosania - sono state fatte cose importanti, passate attraverso una fase elaborativa lunga e motivata. Abbiamo messo le basi per le tante attività e i tanti percorsi avviati per favorire il migliore reinserimento delle persone detenute all’interno della società. Che spero presto possano riprendere”. I primi passi (positivi) sulla giustizia di Sabino Cassese Corriere della Sera, 28 aprile 2022 La riforma procede con ritmo spedito. Oggi i processi pendenti sono circa 6 milioni; i tempi per esaurire i tre livelli di giudizio delle procedure civili sono superiori a 7 anni e quelli delle procedure penali superiori a 3. La riforma della giustizia è un grande e operoso cantiere. Alcune parti dell’edificio sono completate, altre in via di realizzazione, altre solo disegnate. Il percorso è lungo (i mali della giustizia sono molti e gravi), ma la direzione è quella giusta. I cosiddetti giustizialisti e i cosiddetti garantisti, ripetizione moderna dei guelfi e dei ghibellini, continuano a strillare in direzioni opposte. Invece governo e Parlamento procedono con passo spedito, in alcuni passaggi importanti senza neppure ricorrere alla questione di fiducia (così ieri alla Camera), tanto da ottenere il plauso della presidente della Commissione europea, che una decina di giorni fa ha manifestato il suo apprezzamento al governo italiano per la semplificazione delle procedure giudiziarie, la riduzione dell’arretrato e l’aumento della efficienza delle corti italiane. Il cantiere è tanto vasto che è persino difficile abbracciare tutte le riforme realizzate, avviate e progettate. La prima è già consacrata in leggi di delega del settembre e del novembre dell’anno scorso e mira alla riduzione del 90 per cento dell’enorme arretrato di processi, del 40 per cento della durata dei processi civili e del 25 per cento di quelli penali. Oggi i processi pendenti sono circa 6 milioni; i tempi per esaurire i tre livelli di giudizio delle procedure civili sono superiori a 7 anni e quelli delle procedure penali superiori a 3. I decreti delegati sono in dirittura d’arrivo e assicurano speditezza e razionalizzazione dei due tipi di processo. Oltre alle riforme delle procedure, cospicui sono gli interventi sull’organizzazione, partendo dall’edilizia giudiziaria, passando all’assunzione di migliaia di assistenti giudiziari, personale amministrativo, operatori giudiziari e di magistrati, regolarizzando la posizione dei magistrati onorari, prevedendo piani gestionali (non basta scrivere la sentenza giusta, bisogna anche che la giustizia sia efficiente), digitalizzando le procedure, prevedendo altri modi di soluzione delle controversie, semplificando e quindi riducendo i tempi, affrontando specificamente singoli capitoli dei due processi (per quello civile, il diritto di famiglia, la crisi d’impresa; per la giustizia penale l’esecuzione penale esterna, le misure alternative, la giustizia riparativa). Alla fine, i due tipi di processi, quello penale e quello civile, saranno riformati e si può sperare che l’arretrato venga rapidamente portato al minimo e i tempi ridotti. L’altro capitolo dell’azione riformatrice del governo riguarda la presunzione di innocenza. Un decreto delegato del dicembre scorso limita fortemente la spettacolarizzazione delle indagini con la diffusione delle informazioni riguardanti i procedimenti penali e le esternazioni su indagini in corso, additando come colpevoli le persone che sono soltanto indagate. La diffusione di notizie è ora possibile solo in quanto strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o per specifiche ragioni di interesse pubblico. Il terzo capitolo - questo “in itinere” perché, appena approvato dalla Camera dei deputati, deve essere ancora approvato dal Senato - riguarda il Csm e i rapporti tra giustizia e politica. Per evitare spartizioni tra correnti, le candidature al Csm possono essere presentate anche individualmente e le nomine ai vertici degli uffici giudiziari vanno fatte una per una, in ordine cronologico, dopo audizione delle persone selezionate, non a pacchetto. Il fascicolo personale di ogni magistrato viene arricchito, in modo che il Csm possa valutare la professionalità sulla base di elementi oggettivi. Vengono fissati limiti alle cosiddette porte girevoli, cioè al passaggio dei magistrati nella politica. Non più magistrati che assumono incarichi elettivi o amministrativi mentre svolgono la loro funzione nell’ordine giudiziario. Dopo le elezioni, è impedita la riassunzione di funzioni giurisdizionali ed altri limiti sono disposti per i magistrati nominati ad incarichi amministrativi. Infine, è prevista una generale riduzione dei fuori ruolo in modo che i giudici possano dedicarsi veramente alla giustizia. Finora, l’attenzione è stata rivolta tutta ai pochi punti contestati di questa riforma. I battibecchi su singoli temi hanno fatto perdere di vista il complessivo nuovo concetto di giustizia che alimenta l’intero disegno riformatore, un’idea di giustizia più sollecita, meno pesante, più efficace e nello stesso tempo più mite; una giustizia che rispetta il precetto costituzionale della ragionevole durata dei processi; una giustizia attenta ai settori più sensibili, quali la giustizia minorile, la gestione delle carceri, il diritto di famiglia; una giustizia davvero al servizio dei cittadini. Si può dire che mai governo abbia dedicato tanta attenzione, risorse e capacità innovativa alla giustizia, nello stesso tempo chiamando a collaborare all’impresa tanti esperti ed addetti ai lavori. Tra breve si terranno i referendum. Dei cinque proposti, tre dovrebbero svolgersi (quello sulla custodia cautelare in carcere, quello sull’incandidabilità e le decadenze e quello sulla valutazione dei magistrati), perché si tratta di materie non regolate dalla riforma. Quello sul sistema elettorale del Csm è superato dalle norme in corso di approvazione. É in forse quello relativo ai passaggi dei magistrati dalle procure agli organi giudicanti e viceversa (la riforma ne riduce il numero da quattro a uno, mentre il referendum propone una completa separazione). Non tutta la riforma della giustizia è stata così realizzata, ma un nuovo disegno è stato proposto e la sua attuazione avviata. Manca la riforma della giustizia tributaria, per cui è pronto il progetto. Ora bisognerà assicurarsi che i processi abbiano davvero una durata più breve e certa, con limiti da non superare. Sulla separazione tra giustizia e politica bisognerà tornare, per assicurare una vera indipendenza dei giudici. I pubblici ministeri dovranno essere inquirenti, non giustizieri. I magistrati dovranno ritornare tutti a fare il loro mestiere, senza occupare posti nel legislativo e nell’esecutivo. Quella minoranza di giudici che continua a strillare dovrebbe rendersi conto che dà prova di autolesionismo, perché contribuisce così a diminuire la fiducia dei cittadini nella giustizia, un bene essenziale, che va invece rapidamente recuperato. Giustizia, la Lega chiede altre modifiche di Francesco Grignetti La Stampa, 28 aprile 2022 Colloquio di un’ora con la ministra Cartabia: tra i temi la riforma del Csm, il taser e nuove assunzioni nelle carceri. Neanche il tempo di godersi un po’ di soddisfazione, dopo che la Camera ha votato la riforma dell’ordinamento giudiziario, e subito la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, deve immergersi in un nuovo tunnel di trattative. L’attende un passaggio complicato. Finora, tutti i suoi appelli a evitare modifiche al Senato sono caduti nel vuoto. E da ieri è iniziato un pressing della Lega che non lascia dubbi su quale sia la loro strategia: forti di una maggioranza diversa rispetto a Montecitorio, i leghisti, in vista anche del referendum del 12 giugno, vogliono rimettere mano al capitolo della legge elettorale per il prossimo Csm. L’ha detto subito e in chiaro la senatrice Giulia Bongiorno, e l’ha ripetuto in diversi colloqui telefonici, come ribadito anche da una nota del partito: “La riforma non riesce a incidere sui nodi cruciali del Csm. Per questo, la Lega proporrà correzioni al Senato”. Ci va giù duro anche il presidente leghista della commissione Giustizia, Andrea Ostellari: “Trovo grave, anzi insopportabile, che si metta il bavaglio a una delle due Aule”. Il concetto viene ripetuto a voce anche da Matteo Salvini in un incontro arrangiato in corsa con la ministra Cartabia. I due parlano un’ora a quattr’occhi. Discutono soprattutto di carceri, di polizia penitenziaria, di dare loro in dotazione anche la pistola elettronica, che è un cavallo di battaglia della Lega, ma su cui Cartabia nutre forti dubbi. E però è il Csm il piatto forte, quello che fa fibrillare la maggioranza. Dirà Salvini al termine: “Sul Csm ci sarà un passaggio in Senato. Quindi se il Senato riterrà di migliorare alcuni passaggi della riforma Cartabia, lo farà”. Sulle modifiche, poi, “ci sta lavorando Bongiorno, sempre sulla linea di quanto previsto dai referendum sulla giustizia e sempre con spirito migliorativo”. Ecco perché alle 19.30, la ministra Cartabia convoca d’urgenza un vertice di maggioranza al Senato assieme al ministro per i rapporti con il Parlamento Federico D’Incà. Per sminare un percorso che rischia di diventare davvero ostico. Sono i tempi che si allungherebbero troppo, l’argomento su cui insiste. Già così, se il Senato accettasse un ruolo notarile, la riforma arriverebbe in grandissimo ritardo. Tra maggio e giugno ci sono i collegi elettorali dei magistrati da ridisegnare e il Csm dovrebbe adeguare le sue procedure. Serve il tempo minimo per le candidature e la campagna elettorale. E poi, a luglio, si vota. Di contro, se il Senato modificasse anche solo una virgola - dove la Lega potrebbe trovare sponde in Forza Italia, FdI, Italia Viva, e opposizioni varie - la riforma tornerebbe alla Camera. E a quel punto i tempi non ci sarebbero più per il rinnovo di luglio. Eventualità, quella di riportare al voto i magistrati con le regole vecchie, che il Quirinale ha sempre dichiarato “inimmaginabile”. Nella peggiore delle ipotesi, non si esclude di prorogare il mandato dell’attuale consiliatura di qualche mese o anche di un anno. Anm, ancora dubbi sullo sciopero “A decidere sarà l’assemblea...” di Valentina Stella Il Dubbio, 28 aprile 2022 Sabato il confronto sulla riforma del Csm, che i gruppi associativi ritengono un “tentativo di condizionarci”. L’Odg dell’Assemblea dell’Anm che si terrà sabato ha solo un punto: ‘ Riforma legislativa dell’ordinamento giudiziario, del funzionamento del Csm e del suo sistema elettorale. Valutazioni e iniziative’. Il dilemma a cui i magistrati dovranno rispondere è semplice: indire uno sciopero, per accontentare così la base che chiede un riscatto dopo lo scandalo Palamara, rischiando però paradossalmente di aumentare quel discredito di fronte ai cittadini generato proprio dalle condotte dell’ex magistrato & Company, oppure puntare ad una riapertura del dialogo con Governo e Parlamento in vista della discussione al Senato? Intanto ieri due ex magistrati di peso come Armando Spataro e Edmondo Bruti Liberati si sono detti contrari all’idea dello sciopero. Su questo “se dovessi rispondere con del facile umorismo - replica Eugenio Albamonte, segretario di AreaDg - direi che si nasce incendiari e si finisce a fare i pompieri. Lasciando da parte la battuta, che non vuole affatto essere irriverente nei confronti di due colleghi di cui ho grande stima, penso che per rendersi conto di quale potrebbe essere l’impatto di questa riforma sulla magistratura di oggi bisogna starci dentro. Come tutti i corpi istituzionali e sociali, anche la magistratura è in costante evoluzione: quella odierna non è la stessa degli anni durante i quali hanno lavorato con grande impegno i colleghi che lei citava. Oggi la magistratura rischia di essere fortemente condizionata sia dalla forte gerarchizzazione anche culturale che dallo spauracchio della valutazione di professionalità basata sugli esiti dei giudizi e del disciplinare. Il pericolo è quello che si adottino orientamenti fortemente conformisti rispetto alla giurisprudenza dei gradi superiori con grave danno per i diritti dei cittadini”. Angelo Piraino, segretario di Magistratura Indipendente, comprende le perplessità che si sono manifestate nei confronti dello sciopero. Anche al nostro interno ne stiamo discutendo, perché esiste il timore che l’iniziativa possa essere fraintesa. Sceglierà l’assemblea, e Magistratura Indipendente non è pregiudizialmente contraria a forme di protesta forti, come lo sciopero. Se vi si dovesse arrivare vogliamo, però, che si comprenda che non sarebbe un modo di bloccare la macchina della giustizia, ma l’arma estrema a cui ricorrere quando ci si rende conto di non essere ascoltati”. Un esempio? Piraino osserva che, benché “il comune denominatore degli scandali che ci hanno investito è il carrierismo legato all’assegnazione dei posti direttivi, la riforma va nella direzione opposta alla soluzione del problema perché li diminuisce di numero, rendendoli più preziosi e attribuendo ai capi degli uffici poteri ancora più forti”. Invece per Stefano Musolino, segretario di Magistratura Democratica, “ci sarebbero le ragioni per fare lo sciopero ma gli errori compiuti dalla Giunta dell’Anm nella sua interlocuzione con il Governo e nella sua comunicazione pubblica lo rende inopportuno”. Musolino si riferisce, ad esempio, al fatto che “la Gec non è stata in grado di rappresentare con forza all’interlocutore politico i risultati del nostro sondaggio interno che ha bocciato il sorteggio e premiato il sistema proporzionale. Inoltre si è dimostrata incapace di proposte idonee a dimostrare l’assunzione di responsabilità per la crisi, avendo privilegiato la conservazione dell’esistente, senza alcuna apertura al nuovo”, tra cui “il rafforzamento del ruolo degli avvocati nei Consigli giudiziari, che non va considerato singolarmente, ma nella più ampia apertura ad ulteriori fonti di conoscenza per le valutazioni dei magistrati”. Andrea Reale, esponente dell’Anm con i 101, rispetto al rischio che lo sciopero possa trasformarsi in un boomerang per la magistratura, ci dice che “in realtà l’astensione dal lavoro sarebbe proprio nell’interesse dei cittadini. Questa riforma nulla ha a che fare con le emergenze che era chiamata a risolvere. Da una parte ha solo intenti punitivi e vendicativi e dall’altra asseconda una parte di magistratura più legata alle dinamiche correntizie e agli ambienti che possono creare altro lobbismo e altro corporativismo tra di noi”. Addirittura “essa peggiora lo status quo perché maggiore sarà il controllo e la gerarchizzazione all’interno degli uffici giudiziari che si riverbererà anche nell’esercizio della giurisdizione. Nulla è cambiato nella nomina dei capi degli uffici. Inoltre la legge elettorale favorirà i gruppi più grandi che si spartiranno le nomine, svilendo ogni possibilità di proposte alternative. L’unica ipotesi per scongiurare questo scenario era il sorteggio degli eleggibili, ma al nostro interno è percepita come una bestemmia per le correnti”. Infine per Reale “un altro dato molto grave è che si sta modificando la legge elettorale in prossimità delle elezioni. Tale metodo è stato fortemente stigmatizzato da un documento del 2002 della Commissione di Venezia del Consiglio Ue”. “La riforma è solo un primo passo, eppure è già contrastata dall’oligarchia delle correnti” di Fausto Mosca Il Dubbio, 28 aprile 2022 Guido Salvini, magistrato protagonista di indagini decisive su terrorismo e la criminalità finanziaria, ora gip al Tribunale di Milano: cosa pensa della nuova legge elettorale del Csm? Apprezzo lo sforzo del ministro ma non credo ci sia alcuna alchimia elettorale che possa scardinare il sistema delle correnti. Un sistema elettorale può essere un po’ migliorativo ma niente è destinato a cambiare. Questo perché, per amore o per forza, la gran maggioranza dei magistrati magari critica il sistema delle correnti nei corridoi ma poi al momento del voto le sostiene, e continuerà a farlo nella speranza di raccogliere prima o poi qualche briciola dei vantaggi che sono in grado di assicurare. Non si può fare nulla, quindi? Qualcosa si potrebbe fare. Ad esempio, per gli incarichi direttivi, sorteggiare il vincitore tra una rosa di candidati valutati come idonei dalla commissione del Csm. Un meccanismo del genere, che non incontra alcun tipo di ostacolo sotto il profilo costituzionale, introducendo una componente di alea, renderebbe di colpo inutili gli intrighi di corridoio, le autopromozioni, gli accordi tra correnti di tipo politico. Poi istituire un’Alta corte di Giustizia, composta anche da professori e avvocati, competente per i giudizi disciplinari e del tutto esterna al Csm. Nella riforma comunque ci sono alcuni passi avanti: la riduzione delle porte girevoli con la politica, ad esempio. E già la fine del sistema delle nomine a pacchetto per i posti direttivi rende un po’ più difficile gli accordi sottobanco. Dell’introduzione di quelle che sono state chiamate “pagelle per i magistrati” cosa pensa? Non è un caso che sia stato subito introdotto nel discorso pubblico un appellativo decisamente dispregiativo, quello appunto di pagelle, che però non mi sembra possa riferirsi alle valutazioni più complete che la riforma vuol consentire e che in buona parte oggi mancano. Non mi sembra uno scandalo prendere in esame il complesso delle attività svolte da un magistrato, comprese le misure cautelari, la tempestività dell’adozione di provvedimenti e l’eventuale esistenza di gravi anomalie: gravi, dice il testo, non il semplice annullamento di qualche provvedimento. Non mi sembra una schedatura dei magistrati, come qualcuno ha scritto, tanto più che sarebbero comunque altri magistrati a verificare il lavoro svolto. E attualmente invece cosa succede? Ho letto tanti pareri, immancabilmente positivi, dei Consigli giudiziari e del Csm. Sono il più delle volte posticci, fondati su formule fasulle che non significano nulla, elogi di cui non si comprende la ragione, e certo non impediscono che si venga valutati in modo molto positivo solo grazie al fatto che si hanno tanti amici e si aderisce con zelo a qualche partito della magistratura. Ho avuto occasione di veder citati, in pareri dei Consigli giudiziari e del Csm, come titolo di merito, indagini che si erano già concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati. Le valutazioni per la progressione in carriera potrebbero essere ridotte di numero, ora sono sette, ma dire qualcosa di più sulla vita di un magistrato. Ad esempio potrebbero prendere in considerazione anche la qualità della trattazione dei processi comuni, non solo di quelli che hanno visibilità mediatica e che tanti fanno molto più volentieri. La magistratura riuscirà a ritrovare la credibilità perduta? L’Anm e il Csm da sempre ambiscono, e spesso ci riescono, a essere una terza camera, quella che decide quali leggi si possono fare e quali no. Ma non riescono a capire che hanno portato la credibilità della magistratura ai livelli più bassi dal dopoguerra, hanno dilapidato un capitale di fiducia, quando proprio la fiducia dei cittadini è la precondizione, più ancora delle leggi e dei mezzi, perché la giustizia in qualsiasi settore possa funzionare, soprattutto in un paese culturalmente diffidente come il nostro. Una ristretta oligarchia di magistrati, compresi alcuni pensionati sempre presenti, ha contrabbandato la propria popolarità con la credibilità dell’insieme della magistratura. Penso ad esempio alle guerre tra magistrati eccellenti, questa è la sostanza del processo in corso a Brescia, che appaiono come duelli autoreferenziali che si svolgono in un mondo a parte e il cui senso sfugge al cittadino comune. In conclusione, le nuove valutazioni introdotte dalla riforma potrebbero servire? Credo di sì. Tutti conosciamo grandi indagini in materia di mafia e di corruzione internazionale che hanno avuto sinora esiti processuali negativi. Se questi esiti fallimentari diventassero definitivi, queste indagini, almeno, non potrebbero essere collocate, nelle valutazioni, tra i titoli di merito. E di un eventuale sciopero cosa pensa? Se la ragione dichiarata dello sciopero è soprattutto rifiutare valutazioni più serie, certamente non aderirò, e vorrei dire ai giovani magistrati di non cadere in una trappola che li farebbe ancor più sottomessi ai capi della magistratura. “La riforma della giustizia ci trasforma in bravi soldati a danno dei cittadini” di Manuela D’Alessandro agi.it, 28 aprile 2022 Lo dice il procuratore dei Minori di Milano, Ciro Cascone, che spiega perché a suo avviso con un sistema così tante conquiste nell’ambito dei diritti civili avrebbero fatto fatica ad arrivare. “Il rischio è che da questa riforma esca una giustizia conformista che non vada più incontro ai diritti che evolvono seguendo i bisogni dei cittadini che cambiano”. È il pericolo che Ciro Cascone, capo della Procura dei Minori di Milano, intravvede in uno dei punti più discussi delle innovazioni passate ieri all’esame della Camera dei Deputati, quello delle valutazioni sulle toghe “che disegnano un modello aziendalista in cui viene premiato il magistrato che non rischia per paura di essere smentito dagli altri gradi di giustizia e, quindi, di essere valutato male”. “Spesso le novità arrivano dal basso” - Un sistema come quello prefigurato da Marta Cartabia, spiega all’AGI Cascone, avrebbe rallentato o impedito l’emergere di cambiamenti in materia di diritti civili, “come quelli sul fine vita, sui diritti dei lavoratori, sulla procreazione assistita”. “Spesso la Cassazione cambia orientamento quando lo fanno i giudici di primo e secondo grado ma chi avrà voglia ora di rischiare di essere bocciato all’ultimo grado di giudizio? Così si rischia di fare dei magistrati dei burocrati, dei bravi soldatini che vogliono essere premiati. Sappiamo poi - aggiunge - che in un procedimento dall’inizio alla fine intervengono una ventina di magistrati. Siamo sicuri che sia proprio l’ultimo ad avere detto la parola giusta? Noi magistrati rendiamo un servizio, non vendiamo un prodotto. La nostra bravura non si misura su come i provvedimenti reggono nei gradi successivi”. “Ecco perché i tribunali sono vuoti al pomeriggio” - Anche per questo, secondo Cascone, “questa è una riforma della magistratura, non della giustizia” che “non risolve i veri problemi a cominciare dalla mancanza del personale. L’Ufficio del Processo? È un pannicello caldo, che non inserisce personale in modo stabile”. Chi ha scritto la riforma, dice il magistrato, “non ha in mente cosa succede nei palazzi di giustizia. Si dice che al pomeriggio sono vuoti ma non è così. Noi magistrati ci siamo, non ci sono invece i cancellieri e, senza di loro, i provvedimenti non possono essere eseguiti”. Cascone è invece d’accordo sul no alle ‘porte girevoli’ tra politica e magistratura: “Difficile pensare che un magistrato possa essere equidistante dopo un’esperienza in politica”. E sulle correnti e il Csm ritiene che sia “una questione di persone più che di modalità di scelta di chi siede nel Csm e le correnti dovrebbero tornare a fare quello per cui sono nate prima di degenerare: promozione e orientamento culturale”. “Riforma modesta, errore lo sciopero. E il testo Bonafede era sgangherato” di Luca Fazzo Il Giornale, 28 aprile 2022 L’ex procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati boccia la protesta delle toghe. E sul referendum in un solo giorno: “Se i quesiti sono chiari la gente vota”. Già procuratore della Repubblica a Milano, già leader indiscusso delle “toghe rosse” di Magistratura democratica, Edmondo Bruti Liberati è stato anche presidente dell’Associazione nazionale magistrati: quella Anm che ora prepara lo sciopero contro la riforma della giustizia firmata dal ministro Marta Cartabia. Tanto rumore per nulla, dice Bruti. La riforma è semplicemente “modesta” e lo sciopero dell’Anm “non ha senso”. Cos’è davvero la riforma Cartabia? Un topolino partorito dalla montagna? O un attentato all’autonomia dei giudici, devastante e punitiva come dice Md, la sua vecchia corrente? “Si partiva dallo sgangherato disegno di legge Bonafede. È stato riscritto dalla Commissione Luciani, ma poi in Commissione giustizia vi sono stati emendamenti ispirati ad un spirito di vendetta e di umiliazione della magistratura. Le punte estreme sono state abbandonate: il risultato è una riforma modesta, ma nulla a che vedere con la riforma Castelli che, quella sì, stravolgeva l’impianto costituzionale. Per questo come presidente dell’Anm ho promosso allora il primo vero sciopero della storia della magistratura. Oggi uno sciopero non ha senso”. I sostenitori dello sciopero sostengono che il fascicolo sulle performance del magistrato bloccherà le sentenze innovative e avanzate. Ma davvero i magistrati sono così pavidi da adeguarsi a sentenze che non condividono per paura di un brutto voto in pagella? “La giustizia si regge sul presupposto che si può sbagliare e che si possono avere diverse interpretazioni. L’attività dei magistrati, giudici e pm, va valutata nel complesso. Vi è il sistema delle impugnazioni perché le valutazioni possono essere diverse. Se poi un pm avesse il 100% dei successi si direbbe non che quel pm è un genio, ma che i giudici successivi si sono appiattiti sulla prospettazione dell’accusa. Allora stabiliamo un numero diverso? 75%, 80% o 60%? Se andiamo ai numeri entriamo nell’assurdo, che tale rimane anche se si pretende di nobilitarlo con l’inutile anglismo delle performance. Bisogna dire che nel testo poi approvato è stata abbandonata la pretesa di parametri numerici”. Lei ha portato il suo saluto al nuovo procuratore di Milano di cui Magistratura democratica aveva cercato di bloccare la nomina citando l’hotel Champagne. Ritiene che sia arrivato il momento di girare pagina e archiviare il caso Palamara? “La vicenda dell’hotel Champagne è penosa, ma la magistratura ha dato il segno di voltare pagina: i magistrati a vario titolo coinvolti si sono subito dimessi dal Csm, prima e indipendentemente da procedimenti disciplinari. Questo in un Paese in cui non si dimette mai nessuno”. Il 12 giugno si voterà per i referendum sulla giustizia. Potrebbero smuovere le cose? “Sì, ma largamente in peggio. Della legge Severino non si abroga solo la sospensione, anche a seguito di una condanna non definitiva (che può essere ragionevole), ma anche tutte le disposizioni sulla incandidabilità di condannati definitivi per reati gravi. Con la limitazione delle misure cautelari capiterà che l’imputato arrestato in flagranza, magari con in tasca un appunto con la programmazione degli obbiettivi successivi, sarà condannato per direttissima e immediatamente scarcerato. Facile immaginare gli attacchi al lassismo della magistratura magari da parte di taluno dei promotori del referendum”. Fissare un solo giorno per il voto non significa puntare al mancato raggiungimento del quorum? Non è interesse anche dei magistrati che il numero più alto possibile di italiani possa dire finalmente come la pensa su questo argomento cruciale? “La storia del referendum ci insegna che quando le scelte proposte dai quesiti erano chiare e toccavano problemi sentiti gli italiani sono andati a votare”. Se fosse ancora presidente dell’Anm inviterebbe a boicottare il referendum? “Darei le mie valutazioni sul contenuto dei referendum ma mi guarderei bene dal dare indicazioni ulteriori. Ciascun cittadino magistrato valuterà con la sua testa”. Verso un Csm a trazione sinistra: Rossomando vicepresidente? di Ermes Antonucci Il Foglio, 28 aprile 2022 La riforma del sistema elettorale del Csm non è ancora stata approvata in via definitiva, ma le correnti togate e le forze politiche già guardano alle elezioni. Per la carica di vicepresidente dell’organo prende quota il nome di Anna Rossomando (Pd). La riforma del sistema elettorale del Csm non è ancora stata approvata in via definitiva (dopo l’ok della Camera, giunto martedì sera, si attende ora il via libera del Senato), ma le correnti togate e le forze politiche già guardano al rinnovo dell’organo di governo autonomo della magistratura, previsto - salvo clamorosi ritardi - per luglio. Su un aspetto, infatti, non ci sono dubbi: la riforma Cartabia, pur prevedendo innovazioni positive su alcuni aspetti dell’ordinamento giudiziario, non ridurrà in alcun modo il peso delle correnti nell’elezione del Csm (i cui componenti, lo ricordiamo, torneranno a essere trentatré, di cui tre di diritto, venti togati e dieci laici). Il testo elaborato dalla Guardasigilli prevede un sistema elettorale maggioritario binominale, con un correttivo proporzionale. Questo correttivo, basato sul meccanismo dello scorporo, avrebbe dovuto introdurre un elemento di imprevedibilità nelle procedure di elezione, attenuando così l’influenza delle correnti. I gruppi togati, tuttavia, hanno già concepito il modo per aggirare questo meccanismo. Tecnicismi a parte, il risultato è fin d’ora già prevedibile: il sistema elettorale premierà le due principali correnti della magistratura, vale a dire quella “di sinistra” di Area (che riunisce Magistratura democratica e Movimento per la giustizia) e quella conservatrice di Magistratura indipendente. Questi due gruppi dovrebbero spartirsi almeno 12-13 seggi togati. I restanti seggi andranno alla corrente centrista Unicost, ad Autonomia e indipendenza e, forse uno, al piccolo gruppo di Articolo 101. Considerato il riavvicinamento di Unicost ad Area, avvenuto dopo lo scandalo Palamara, al prossimo Consiglio superiore della magistratura si prospetta una maggioranza togata di centrosinistra. Sarà questo lo scenario di cui il parlamento dovrà tener conto quando sarà chiamato a votare in seduta comune i dieci membri laici, dai quali il Csm poi sceglierà il proprio vicepresidente. Anche le forze politiche, dunque, come le correnti, hanno cominciato a usare la calcolatrice e il bilancino, per comprendere quali nomi proporre. Molto dipenderà dalla divisione dei seggi che sarà effettuata tra i partiti. Nel luglio 2018, all’epoca del governo gialloverde, su otto membri laici cinque vennero scelti dalla maggioranza (tre dal M5s e due dalla Lega) e tre dalle opposizioni (due da Forza Italia e uno dal Pd, David Ermini, poi eletto vicepresidente). Questa volta la situazione di partenza sarà alquanto anomala, se si considera che solo Fratelli d’Italia si colloca all’opposizione, ma il punto non cambia: le toghe esprimeranno molto probabilmente una maggioranza di centrosinistra e di questo la politica dovrà tener conto. E’ per queste ragioni che, nelle ultime ore, in ambienti qualificati della magistratura, e anche di alcuni partiti, sta prendendo quota il nome di Anna Rossomando come prossima vicepresidente del Csm. Piemontese, avvocato penalista, parlamentare per il Pd dal 2008 (in quota orlandiana), Rossomando oggi ricopre la carica di vicepresidente del Senato e di responsabile giustizia dem. Il suo nome al momento sembra molto gradito all’area di centrosinistra della magistratura associata. Se l’elezione andasse in porto, si tratterebbe della prima donna alla vicepresidenza del Csm dalla sua istituzione nel 1959. Molto dipenderà dalla posizione che deciderà di assumere il Movimento 5 stelle, che dispone della maggioranza relativa in parlamento in seduta comune. Soprattutto, è ancora vivo nei grillini il ricordo di quanto avvenuto quattro anni fa, quando l’elezione di Ermini alla vicepresidenza avvenne soltanto alla terza votazione, in seguito a una profonda spaccatura tra le correnti (Mi e Unicost si schierarono con l’ex deputato renziano, mentre Area ed Autonomia e indipendenza votarono per il laico in quota grillina Alberto Maria Benedetti). Finì tredici a undici per Ermini, con l’allora Guardasigilli Alfonso Bonafede furioso contro “una parte maggioritaria di magistrati” che “all’interno del Csm” aveva deciso di “fare politica”. “In questi anni, da deputato mi sono sempre battuto affinché, a prescindere dallo schieramento politico, il Parlamento individuasse membri laici non esposti politicamente”, dichiarò Bonafede. Da allora molto è cambiato. L’accordo tra Mi e Unicost si è sgretolato. Il peso specifico del M5s nella maggioranza che sostiene il governo Draghi è di gran lunga inferiore a quello dei tempi del governo gialloverde. A ciò deve aggiungersi che nelle ultime settimane, durante l’esame del testo di riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario alla Camera, è stato soprattutto il Pd a opporsi alle proposte più radicali avanzate dalle altre forze politiche e a tutelare alcuni interessi fondamentali della magistratura (ad esempio sulla separazione delle carriere, la responsabilità civile delle toghe, i magistrati fuori ruolo). In questo contesto, non è da escludere che il M5s possa finire per convergere con il Pd per l’elezione di Rossomando alla vicepresidenza del Csm. Campania. Stato delle carceri, la relazione del Garante regionale dei detenuti di Antonio Sabbatino comunicareilsociale.com, 28 aprile 2022 Nei 15 istituti penitenziari campani per adulti e in quello militare di Santa Maria Capua Vetere al 31 dicembre 2021 è stata rilevata la presenza di 6.747 detenuti, 971 in più del previsto e 320 in più rispetto al 2020 quando il numero s’assestava a 6.420. A denunciare questo dato è il Garante regionale delle persone private della libertà, Samuele Ciambriello nella relazione annuale condotta in collaborazione con l’Osservatorio Regionale sulla detenzione e presentata questa mattina nell’aula Siani del consiglio regionale della Campania. Numeri importanti pe il 2021 anche per ciò che concerne la detenzione nei 17 istituti minorili della Campania: 316, di cui 140 stranieri e 8 ragazze. A questi si aggiungono 6 ingressi nei Centri di prima accoglienza, 69 in comunità, 46 presso i Centri Diurni Polifunzionali. Inoltre, in carico dai servizi della Giustizia Minorile in Campania nel 2021 sono finiti 6569 ragazzi sui 13611 di tutt’Italia, ben il 47,6%. Nello stesso report del garante regionale si legge che il 32% è in attesa di giudizio, il 65% deve scontare una condanna definitiva e solo il 3% accede alla semilibertà. Il quadro sulle carceri campane, insomma, resta preoccupante. Nel 2021, ricorda tra le altre cose Ciambriello, “abbiamo avuto 1.189 atti di autolesionismo, 829 scioperi della fame e della sete, 3.425 infrazioni disciplinari, 155 tentativi di suicidio. Non c’è stata una strage grazie al pronto intervento degli agenti di polizia penitenziaria, e purtroppo abbiamo avuto sei suicidi, per la maggior parte giovani in attesa di giudizio”. Rispetto all’epidemia Covid, nel 2021 sono stati 200 i ristretti positivi al carcere di Poggioreale, 193 a Secondigliano. Nelle scorse ore sono arrivate 107 richieste di rinvio a giudizio per funzionari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e agenti e della Polizia Penitenziaria per le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere accaduti nell’aprile 2020. “In quelle immagini abbiamo visto poliziotti con il casco consumare reati di violenza e di tortura e non siamo risaliti agli autori” afferma il garante campano, che sollevò il caso all’epoca e che ancora oggi chiede il numero identificativo sui caschi degli agenti penitenziari. “Mi colpisce il fatto che non ci siano state mai denunce interne” è il commento sui fatti di Santa Maria Capua Vetere del garante nazionale dei detenuti Mauro Palma intervenuto stamattina al consiglio regionale durante la presentazione della relazione. Campania. Le carceri scoppiano, sono circa mille i detenuti in più di Elena Del Mastro Il Riformista, 28 aprile 2022 Sono circa mille i detenuti in più nelle carceri della Campania rispetto alla capienza. Al 31 dicembre del 2021 sono 6747 i detenuti nelle carceri campane a fronte dei 6420 censiti nell’anno precedente. Il dato è stato illustrato in occasione della presentazione del rapporto annuale sullo stato degli Istituti di pena campani realizzato dall’Ufficio del Garante regionale per i diritti delle persone private della libertà personale. Della platea il 32 per cento è in attesa di giudizio, il 65 per cento deve scontare una condanna definitiva e il 3 per cento accede al regime di semilibertà. I numeri riferiti dal garante regionale, Samuele Ciambriello, dicono anche che lo scorso anno sono stati 1189 gli atti di autolesionismo, 829 gli scioperi della fame o della sete, 3425 le infrazioni disciplinari, 6 i suicidi (9 nell’anno precedente) e 155 i tentativi di suicidio. “Non c’è stata una strage - ha affermato Ciambriello - soltanto grazie al pronto intervento degli agenti di polizia penitenziaria e i suicidi che purtroppo si sono verificati hanno riguardato per lo più detenuti giovani in attesa di giudizio”. Nel corso del 2021 all’Ufficio del Garante sono pervenute 696 richieste di intervento. “Nel nostro operato - ha sottolineato il garante - ho sempre ritenuto di fondamentale importanza il dialogo tra il Garante e le Amministrazioni. Il nostro obiettivo è la tutela dei diritti dei detenuti che perseguiamo attraverso progettualità, accordi, protocolli d’intesa, convenzioni con realtà presenti sul territorio che migliorano l’esecuzione penale con l’intento di favorire l’inclusione e il reinserimento sociale delle persone detenute”. Anche le carceri campane sono state ‘segnate’ dal Covid nel 2021. Negli Istituti di pena campani è stato registrato quasi il 90 per cento di vaccinati tra detenuti e personale. A Poggioreale sono stati effettuati 4mila tamponi, 148 su personale. I detenuti risultati positivi al Covid sono stati 200 di cui 30 con sintomi, 4 i ricoveri esterni. Nel carcere di Secondigliano invece sono stati 3mila i tamponi, 193 i detenuti positivi, 5 le visite esterne. “La situazione delle carceri campane non è un caso isolato, un certo malessere c’è in tutte le regioni d’Italia”. Lo ha detto Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, come riportato dall’Ansa, intervenuto alla presentazione del rapporto 2021 sulla situazione delle carceri in Campania. Palma ha riferito che “la Campania e la Lombardia sono le regioni maggiormente produttrici di ingressi in carcere e, quindi, richiedono un notevole numero di strutture. Molte strutture e una vasta platea di popolazione detenuta possono portare a più problemi”. Il Garante ha evidenziato allo stesso tempo che la Campania è una regione “dove c’è moltissimo impegno e vivacità degli operatori a tutti i livelli”. “Chiedo alla Regione Campania un intervento in materia di sanità: siamo la Regione che da 13 anni vive la sanità penitenziaria e allora stabilizziamo gli operatori sanitari affinché chi entra in carcere come sanitario sappia che ha un posto di lavoro in carcere, invece che contratti a tempo”. È la richiesta espressa oggi da Samuele Ciambriello, Garante regionale per i diritti delle persone private della libertà personale, in occasione della presentazione del rapporto annuale sulla condizione delle carceri. Sul fronte sanitario, nella relazione si pone in particolare l’accento sul Trattamento sanitario obbligatorio. Secondo i dati, nel 2021 sono stati 1349 i pazienti, di cui 18 minori, sottoposti a Trattamento sanitario per problematiche di salute mentale: di questi il 21,9 per cento, pari a 296, sono stati sottoposti a Trattamento sanitario obbligatorio (Tso). Dal Garante regionale anche l’invito alle istituzioni a fare di più sul fronte della cultura nelle carceri. “Abbiamo un fiore all’occhiello che è il Polo universitario a Secondigliano - ha sottolineato Ciambriello - con 51 studenti e altri 12 sono studiano in altri Istituti penitenziari, ma allo stesso tempo abbiamo anche il più alto numero di analfabeti: 291. Se la cultura libera, se accanto alla certezza della pena ci deve essere anche la qualità della pena, questa passa attraverso il diritto alla salute, il diritto allo studio e il diritto al lavoro”. Vasto (Ch). Detenuto 46enne colto da malore muore nella Casa lavoro di Federico Cosenza vastoweb.com, 28 aprile 2022 Un detenuto è deceduto nella giornata di oggi presso la Casa Lavoro di Vasto. L’uomo, di origini abruzzesi, è stato colto da un malore improvviso e trovato privo di vita dai compagni di cella. Si tratta di M.D. di 46 anni. Inutili i tentativi di prestare soccorso da parte degli agenti di Polizia Penitenziaria in servizio e dei sanitari. Senza ombra di dubbio di tratta di morte naturale, ma è stata comunque disposta l’autopsia che si svolgerà nei prossimi giorni. Alessandria. Il detenuto malato di SLA dovrà rimanere in carcere di Manuela Zoccola gazzettadalba.it, 28 aprile 2022 Ha fatto discutere, di recente, la vicenda di Maximiliano Cinieri, detenuto astigiano di 44 anni, recluso nel carcere di Alessandria, a cui sono stati negati gli arresti domiciliari, nonostante la malattia che gli ha fatto perdere molte delle sue funzioni, rendendolo gravemente invalido. Cinieri, infatti, soffre di Sclerosi laterale amiotrofica (Sla), per cui la difesa e i familiari avevano chiesto, più volte, la sua scarcerazione, per consentirgli di curarsi a casa. Le sue gravi condizioni di salute erano state confermate da diversi specialisti e dallo stesso medico del carcere alessandrino. Per solidarietà, gli altri compagni detenuti avevano indetto, per alcuni giorni, la battitura delle sbarre. Sulla storia, rimbalzata a livello nazionale, la Procura di Asti ha ritenuto doveroso fornire un contributo informativo con un comunicato stampa. “Anche se la questione centrale è quella della compatibilità salute-carcere, non è superfluo ricordare che Cinieri è stato condannato alla pena di 8 anni di reclusione per gravi reati, quali molteplici usure, autoriciclaggio, estorsione aggravata dall’uso di una pistola, intestazione fittizia di mezzi”. Nel testo, tra l’altro, si sottolinea: “Il Gip aveva disposto un’apposita perizia, nominando un medico legale con esperienza ultradecennale. Basandosi sulla documentazione agli atti, oltre a confermare l’esistenza della Sla, il perito ha espresso, in data 22 marzo, il parere che lo stato di salute di Cinieri fosse assolutamente compatibile con il carcere”. Il 28 marzo, si è tenuta a Torino l’udienza davanti al Tribunale del riesame, “adito dalla difesa dopo il provvedimento di rigetto sulla richiesta di sostituzione della misura cautelare. L’assise, che ha potuto valutare non solo gli accertamenti medico-legali disposti dal Gip, ma anche la documentazione medica prodotta dalla difesa fino al giorno dell’udienza, ha ribadito la correttezza della decisione del Gip di Asti”. Oltre a confermare “la particolare gravità delle esigenze di sicurezza collettiva, che giustificavano l’applicazione della misura coercitiva carceraria, ha convalidato il giudizio già espresso sulla compatibilità tra lo stato di salute di Cinieri e la sua detenzione, basandosi legittimamente sul parere dell’unico “tecnico” da ritenersi super partes, cioè il medico legale nominato dal giudice”. Udine. Morto in carcere a 22 anni, “vogliamo la verità” di Anna Dazzan udinetoday.it, 28 aprile 2022 Dopo la morte di Ziad Dzhihad Krizh, sono la madre Despina e il garante per i diritti dei detenuti Franco Corleone a insistere per sapere cosa è successo in carcere a Udine lo scorso 12 marzo 2020, ma l’ultima perizia del medico legale va verso un’archiviazione del caso. Non trova pace la madre del giovane Ziad Dzhihad Krizh, morto in carcere a Udine lo scorso 12 marzo 2020. Dopo la tragica notizia dell’improvvisa scomparsa del figlio, Despina Krizh ha cercato in tutti i modi di fare chiarezza e un’indagine era stata aperta dalla Procura della Repubblica di Udine. Una nuova perizia del medico legale incaricato della pm Lucia Terzriol, il professor Carlo Moreschi, sta però mettendo fine alla vicenda, nonostante l’interessamento del garante dei diritti dei detenuti Franco Corleone. Muore in carcere a soli 22 anni, la Procura apre un’indagine - Krizh, nato in Bulgaria, viveva in Italia da quando era bambino, con la mamma e un fratello. Negli ultimi anni si era trasferito in Francia e proprio lì il giovane era stato raggiunto da un mandato di arresto europeo nell’agosto del 2019. Già nel febbraio del 2016 il ragazzo era stato arrestato una prima volta a Udine, con l’accusa di detenzione ai fini di spaccio. La madre del giovane ci riferì di aver parlato con lui il giorno prima del decesso, sabato 14 marzo: lo stato di salute era buono e - a quanto pare - stava assumendo del paracetamolo per abbassare una leggera febbre. Krizh è stato poi trovato senza vita la mattina di domenica 15 marzo. Per Corleone, “la morte di Ziad appare assai poco limpida e le sue cause poco chiare, tanto da essere oggetto di una inchiesta ancora aperta. Per questo ho cercato di approfondire, esaminando le relative perizie”. I dubbi - I dubbi su quanto accaduto in carcere sono sollevati sia dalla madre di Ziad che dal garante. “Ho sentito Ziad sia il venerdì che il sabato prima di domenica 15 marzo - ci ha raccontato al tempo la mamma -. Aveva 37,5 di febbre e mi ha detto che gli era stata somministrata della Tachipirina. Sabato la febbre gli era scesa a 37, ma Ziad mi ha riferito che gli avevano fatto comunque le analisi del sangue e delle urine, ma nessuno mi hai mai dato i risultati di questi esami. Da quel che so in carcere era da una quindicina di giorni che mancavano i sanitari e potrebbe essere che gli sia stata somministrata una cura sbagliata”. “Chi è dentro sa cos’è successo e appena ci saranno i risultati ci sarà anche un motivo per una morte così. A 22 anni non si può morire in questo modo e io so dentro di me che mio figlio era sano come un pesce”. Le perizie - Su richiesta della pm Lucia Terzariol, il professor Carlo Moreschi ha preso visione della memoria difensiva dell’avv. Marco Cavallini al fine di “esprimere le proprie osservazioni tecniche”. “In riferimento alle critiche mosse sulle conclusioni delle consulenze tecniche si deve partire da due presupposti: il primo è quello della causa della morte. In assenza di alterazioni anatomo-patologiche in grado di giustificare il decesso e la presenza di Metadone e suo metabolita nel sangue e nelle urine, ho potuto concludere per un decesso dovuto a intossicazione acuta da metadone, in assenza di altre sostanze che potessero svolgere ruolo concausale nel decesso”, scrive il medico legale nel suo documento. Per quanto riguarda gli altri farmaci ipotizzati dall’avvocato ?”negli esami del medico non ne sono stati rinvenuti né nel sangue né nelle urine, se non tracce di benzodiazepine nelle urine. Il secondo presupposto è che nella memoria non si propongono ipotesi alternative motivate; di fatto non viene portato alcun nuovo elemento che possa giustificare il decesso”. “Per quanto riguarda, poi, l’assistenza, il detenuto era stato visitato il 1 marzo 2020 con correzione della terapia e poi il 14 marzo per un modesto rialzo febbrile. Anche qui non si comprende cosa avrebbero dovuto far i medici di diverso da quanto posto in essere. Infine, per quanto riguarda la mancata somministrazione di Naloxone si ricorda che il ragazzo era stato rinvenuto privo di coscienza e senza segni vitali (polso e respirazione), come risulta dal verbale del 118, e in questa situazione la somministrazione di Naloxone sarebbe stata del tutto superflua in quanto il farmaco non avrebbe potuto andare in circolo”, conclude la perizia di Moreschi. Gli interrogativi - A porsi ancora delle domande in merito al supplemento di consulenza tecnica sulle cause della morte, è ancora una volta il garante Corleone. Il primo dubbio riguarda il fatto che la “dottoressa Terzariol, pubblico ministero, ha ritenuto di affidare il supplemento di perizia allo stesso autore delle due precedenti, il prof. Carlo Moreschi”. Per il garante, il risultato è “desolante: una scarna paginetta per ribadire le proprie sicure conclusioni. Si potrebbe osservare che siamo di fronte a un rifiuto di approfondimento e a una manifestazione di altezzosità, davvero incomprensibili”. Osservazioni - Di seguito le perplessità avanzate da Corleone sulla perizia di Moreschi. “Come si fa ad affermare con assoluta certezza che la morte sia legata alla assunzione di metadone se non si è in grado di stabilire la dose, ma solo la presenza del metabolita?”, è la prima osservazione dle garante, che continua. “Come si giustifica una intossicazione e una overdose collegata, in una persona che è ufficialmente in trattamento con il metadone e quindi ha una tolleranza che lo protegge dalle intossicazioni?”. Per Corleone, inoltre, risulta incomprensibile che non si sia potuto verificare quanto metadone sia stato ingerito, perché una dose così massiccia da superare la tolleranza di un giovane di 22 anni, “è un’evenienza rarissima anche tra le persone libere che sono in trattamento”. Inoltre risulta sospetto, agli occhi di Corleone e della madre del giovane, che sia stato proprio il metadone assunto con dosaggi terapeutici prescritti - e protettivi proprio di una intossicazione - a essere ritenuto sufficiente per stabilire una relazione di causa-effetto per la morte e non le lesioni rilevate sul corpo. Altresì la perplessità riguarda la mancanza di una ricerca sulla combinazione degli effetti sedativi e di depressione sul sistema nervoso “visto che le benzodiazepine compaiono nelle urine e che risultano prescrizioni di psicofarmaci vari, non tutti presumibilmente ricercati”. Un ulteriore dubbio emerge rispetto alla somministrazione di Naloxone. “L’affermazione ai limiti della sicumera che la somministrazione di Naloxone sarebbe stata del tutto superflua contrasta con esperienze accadute in strada in diversi casi, in cui persone date per spacciate si sono risvegliate”, dichiara Corleone. Che aggiunge: “Si deve ricordare infine che Krizh manifestava da alcuni giorni diversi sintomi fisici e psicologici di malessere riportati nella precedente perizia. Come fa lo stesso perito ora ad affermare che a parte la febbre non vi erano altri problemi? Sintomi di sofferenza c’erano e anche di un certo rilievo. Se il giovane fosse stato tenuto sotto osservazione avendo cura della sofferenza, forse la situazione non sarebbe precipitata e un intervento tempestivo sarebbe stato efficace”. Il diritto alla salute - Per fare un punto sull’attuazione della grande riforma del passaggio della medicina in carcere al Servizio sanitario pubblico, l’Ufficio del Garante, d’accordo con la Asl, organizza nel mese di giugno un seminario per affrontare tutte le criticità e le soluzioni indispensabili. “Che fare? Non vorrei essere nei panni della dr.ssa Terzariol che ha di fronte a sé due strade antitetiche: prendere atto dei contenuti delle perizie e archiviare una brutta storia oppure non arrendersi e andare fino in fondo per capire quello che è successo. La scelta è tra la rassegnazione al destino incomprensibile e la ricerca, senza fanatismi, della verità e trasparenza che chiede la madre di Krizh”, conclude Corleone. Agrigento. Il Comune di Sciacca avrà il Garante dei diritti dei detenuti grandangoloagrigento.it, 28 aprile 2022 La sua istituzione è stata prevista all’interno di un apposito regolamento varato dal commissario straordinario con i poteri sostitutivi del Consiglio comunale (organismo sciolto perché’ inadempiente sul Bilancio) Pietro Valenti e dal sindaco Francesca Valenti. Si tratta del secondo comune siciliano (dopo Siracusa) che approva questo adempimento, in una regione dove ci sono 23 istituti di pena dislocati in un centinaio di comuni con, in totale, circa 6.000 detenuti. La figura del Garante dei detenuti (che opererà senza alcun compenso) sarà nominata tra i partecipanti ad un bando già pubblicato e che prevede la presentazione di apposite manifestazioni di interesse. Al momento al comune di Sciacca sono già state presentate 2 domande. L’iniziativa è stata presentata oggi nel corso di una conferenza stampa alla presenza del professore emerito di Diritto privato dell’Università di Palermo Giovanni Fiandaca, Garante dei diritti dei detenuti tuttora in carica alla Regione: “Nel dibattito sulle carceri - ha detto - a causa della ventata di populismo politico in atto, è diventata predominante una cultura repressiva e punitiva, e questo è in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione, nella parte in cui si sottolinea come le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e debbano tendere alla rieducazione del condannato. La figura del Garante - ha concluso Fiandaca - punta invece alla salvaguardia dei diritti in materia di sanità, istruzione, lavoro e in prospettiva anche affettività, e non solo di chi si trova in carcere ma anche per chi è sottoposto a trattamenti sanitari obbligatori e agli stessi migranti”. “Istituiamo la figura del Garante dei diritti dei detenuti - ha detto il sindaco Francesca Valenti - anche come segnale di civiltà”. Trieste. Un incontro letterario presso la sezione femminile della Casa circondariale di Elisabetta Burla* Ristretti Orizzonti, 28 aprile 2022 Il 21 aprile 2022 Odri Koglot ha presentato, presso la sezione femminile della casa circondariale di Trieste il libro “Non potevo scegliere”, una presentazione rinviata di due anni a causa della pandemia e delle restrizioni ad essa conseguenti. Una presentazione commovente e appassionata. Nella mansarda, l’ampio spazio dedicato alla socialità, si sono ritrovate una decina di persone private della libertà assieme all’Autrice, e ad alcune donne impegnate in vari campi professionali e del volontariato tra le quali è sorto, immediatamente, un dialogo e un confronto sulle tematiche proposte dalla trama del libro. I temi affrontati sono stati quelli della malattia, il cancro: le cure e l’importanza della prevenzione, ma non solo. Odri Koglot ha accennato anche alla sua infanzia, alle difficoltà legate alla figura paterna dipendente dall’alcool e alle conseguenze di questa problematica nelle relazioni familiari; le scelte coraggiose e ancora “inusuali” di una madre che ha deciso di allontanarsi da una relazione complicata e insana; le difficoltà adolescenziali e i problemi alimentari, la bulimia, la difficoltà ad accettare il proprio corpo “troppo grassa, troppo bassa, troppo.”. Il voler compiacere gli altri e dimenticarsi di avere cura di sé. E in questo vortice la diagnosi della malattia, una doccia fredda, ma allo stesso tempo un “tragico” momento per capire l’importanza di volersi bene, di vivere la vita al meglio, di dare le giuste priorità, di aprire gli occhi sulle relazioni importanti e quelle invece nocive, un momento di riflessione sulla vita, per ricominciare con una nuova consapevolezza. Il dialogo è stato intenso, molti i volti rigati dalle lacrime: sono emersi i vissuti dolorosi di tante persone presenti e vi è stata condivisione di esperienze simili ma sempre uniche; riconoscersi in accadimenti dell’altro, vedere le conseguenze di riflessioni o di dinamiche diverse, valutare le possibili scelte alternative, è questo lo scambio che vi è stato. E un rapporto dialettico improntato sulla fiducia, il rispetto e la serietà tra il “dentro” e il “fuori” è fondamentale. *Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Verbania. Carcere, dall’omaggio al Papa alla cena solidale di Roberto Bioglio Eco Risveglio, 28 aprile 2022 Parla la nuova direttrice Stefania Mussio. Da appena quattro mesi (e dopo almeno 10 anni con direttori a scavalco) la casa circondariale di Verbania ha finalmente un direttore impegnato a tempo pieno nella struttura verbanese. Si tratta di Stefania Mussio, lombarda, dirigente carcerario da quasi 30 anni. Il suo incarico precedente è stato a Voghera, ma Mussio ha nel suo curriculum altre esperienze di spessore (tra cui Sondrio, Lodi e il carcere milanese di Opera, dove ha trascorso quasi otto anni). Non si sa per quanto tempo la dottoressa Mussio sarà a Verbania, ma è certo che per la struttura carceraria verbanese è importante avere una presenza fissa e impiegata a tempo pieno: ciò ha consentito un’attenzione maggiore sui progetti in corso. “Qui a Verbania - racconta Mussio - ho incontrato un territorio sensibile e attento, molto ricettivo; lo staff con cui lavoro permette di operare in una piccola realtà rendendo il lavoro più autentico, forse più vicino a come lo concepisco io, mentre nelle grandi strutture - ammette - c’è sempre l’impressione di fare un lavoro talvolta spersonalizzato e più condizionato dall’emergenza”. “Verbania è una realtà virtuosa -aggiunge la dottoressa Mussio -all’avanguardia per molte cose. Sono nell’amministrazione penitenziaria da quasi 30 anni e già sentivo parlare della “Banda biscotti”, sono esperimenti che hanno fatto scuola, che abbiamo studiato e ripreso”. Molti sono i progetti che la dottoressa Mussio sta portando avanti, alcuni ereditati delle passate amministrazioni. Ad esempio il completamento del campo da calcetto dei detenuti, nato in un’area completamente risistemata dal loro lavoro e il progetto di un laboratorio artigianale dove si svolge anche attività di ricamo, che consentirà ad una delegazione del carcere comprensiva di due detenuti, Lorenzo e Michele, di andare ad un’udienza generale con Papa Francesco, per portargli in omaggio un grande arazzo con lo stemma pontificio che i due detenuti stanno ultimando. Il laboratorio seguito anche dalla professoressa Silvia Magistrini, garante dei detenuti, si è avvalso pure del sostegno delle suore benedettine di Oria San Giulio. “Il progetto è cresciuto - spiega Mussio - grazie all’organizzazione che ha incoraggiato la creatività e la passione dei detenuti”. Tutto il personale ha dato il suo apporto, a partire dall’educatrice Franca Facciabene, della psicologa Monica Chiovini e dal comandante della Polizia penitenziaria Domenico La Gala e di tutti i poliziotti penitenziari della sezione che, spiega Mussio, “cercano di favorire l’accesso al laboratorio consentendo ai detenuti di lavorare anche fino a tarda sera sul loro ricamo”. Questi progetti sono incoraggiati dal Provveditorato di Torino, il garante regionale dei detenuti e ai giudici di sorveglianza di Novara. In attesa di andare a Roma il 25 maggio, ci sarà un importante appuntamento locale. Ci sarà la consegna alla città dello stemma del Comune ricamato dai detenuti durante una serata benefica che la casa circondariale sta organizzando per migliorare le attività sportive del carcere. “Il lavoro dei detenuti - spiegano Simone Paolucci, ispettore superiore della Polizia penitenziaria e Salvatore Dorè, coordinatore per la Polizia penitenziaria delle attività lavorative dei detenuti - ha consentito il recupero dell’area sportiva estema: a parte la pavimentazione in moquette, posata da una ditta specializzata, tutto è stato fatto da quattro detenuti, che, in attività lavorativa alla dipendenze dell’amministrazione carceraria, hanno rasato i muri, ripulito l’area e dipinto le pareti”. Ora però servirebbe dell’attrezzatura sportiva per rendere l’area più funzionale: porte da calcetto, due canestri e una rete da pallavolo, per trasformare il Campetto in area sportiva polivalente. I fondi per farlo non ci sono e così la dirigente ha pensato di chiedere aiuto alla comunità; da un colloquio con la sindaca Silvia Marchionini è nata l’idea di coinvolgere la Fondazione comunitaria e il suo presidente Maurizio De Paoli, che sta per lanciare una raccolta fondi, che sarà discusso oggi nel consiglio di amministrazione. In più si sta pensando di organizzare con la Gattabuia e la cooperativa guidata da Erika Bardi, una cena a tema il 19 maggio e destinare il ricavato allo scopo. Una parte dei fondi servirà anche a completare la ristrutturazione degli spazi interni delle palestre e delle biblioteche nei due piani dell’area detentiva. Un esempio di come è possibile alimentare un circolo “virtuoso” per far sì che il carcere non sia solo un luogo di pena ma soprattutto di reinserimento sociale. Firenze. Libri in carcere, “esperienza indelebile” di Niccolò Gramigni La Nazione, 28 aprile 2022 Si è conclusa la campagna “Nel frattempo...un libro”, promossa dalla curatrice Silvia Bruni (del sistema bibliotecario di Ateneo) per arricchire le collezioni delle biblioteche delle carceri. Libri a studenti detenuti e la lettura di brani scritti proprio dai detenuti (prendendo spunto dai volumi donati). Si è conclusa, con un incontro nell’Aula Magna dell’Università la campagna “Nel frattempo...un libro”, promossa dalla curatrice Silvia Bruni (del sistema bibliotecario di Ateneo) per arricchire le collezioni delle biblioteche delle carceri, attraverso l’acquisto di volumi presso un gruppo di librerie indipendenti di Firenze, Prato e Scandicci. L’iniziativa fa capo alle attività del polo universitario penitenziario ed è stata realizzata in collaborazione con l’Associazione Volontariato Penitenziario e l’Associazione Scioglilibro. Durante la mattinata il rettore Alessandra Petrucci ha consegnato i libri destinati agli studenti detenuti, alla presenza anche dell’assessore all’educazione e welfare del Comune di Firenze Sara Funaro. Petrucci ha parlato del polo universitario toscano come “una realtà ben consolidata che si rinnova attraverso le iniziative che l’Ateneo porta in carcere ricevendo un dono di esperienza umana profonda che, a detta dei docenti impegnati nella didattica, resta indelebile”. E ha ricordato quella che è stata la sua esperienza: “Io ho fatto questo percorso e vi assicuro che rimane indelebile in una persona”, ha aggiunto. Il rettore ha raccontato poi delle “tante persone detenute che si sono laureate, trovando motivazioni forti per ricostruire la loro personalità”. L’assessore Funaro ha parlato di presenza “doverosa” da parte dell’amministrazione comunale, anche perché la sinergia con l’Università “è fortissima”. “Quando si parla delle carceri e delle azioni che devono essere intraprese i temi culturali, educativi e formativi non possono essere interventi di serie B ma devono essere tenuti da parte delle istituzioni come le priorità assolute - ha aggiunto -. Se vogliamo generare un cambiamento e inclusione, bisogna partire da quelli che sono gli aspetti formativi”. Funaro ha ricordato anche l’esperienza del sindaco Dario Nardella: “Lui ricorda sempre quando ha avuto la fortuna di insegnare al carcere: ha sempre parlato di una delle esperienze che più lo hanno segnato dal punto di ista professionale, identitario, formativo”. Brindisi. “A scuola di legalità”: progetto sulla giustizia riparativa al Morvillo Falcone brindisireport.it, 28 aprile 2022 Si svolgerà venerdì 29 aprile, alle ore 9.00 presso l’Ipsss Morvillo Falcone di Brindisi, la presentazione di un progetto di informazione e sensibilizzazione sul senso della pena in un’ottica di giustizia riparativa e coesione sociale. “A scuola di legalità”, questo il titolo del progetto realizzato in collaborazione con Uepe di Brindisi, Ussm di Brindisi-Lecce, Ambito territoriale sociale Br/1, Servizio di mediazione penale, Ordine degli avvocati di Brindisi, Csv Brindisi-Lecce, Arma dei Carabinieri e Polizia di Stato, un progetto che riguarderà alcune classi di Brindisi e della sede di San Vito dei Normanni. Alla presentazione di venerdì 29 aprile, prenderanno parte diversi ospiti. Dopo i saluti istituzionali a cura della Dirigente scolastica dell’Ipsss Morvillo Falcone di Brindisi Irene Esposito, della sindaca di San Vito dei Normanni Silvana Errico e dell’assessore ai Servizi sociali di Brindisi Isabella Lettori, ci saranno gli interventi di Fabio Di Bello (avvocato penalista del Foro di Brindisi), dei rappresentanti dell’Arma dei Carabinieri e della Polizia di Stato, della dott.ssa Giovanna Longo (direttrice Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Brindisi), della dott.ssa Cecilia Caforio (responsabile coordinatore Ufficio Servizio Sociale Minori di Brindisi, sezione distaccata di Lecce), della dott.ssa Tiziana Recchia (coordinatore servizio “Centro per la famiglia - Servizio di mediazione” dell’Ambito Br/1), della dott.ssa Raffaella Dario (mediatore penale), del dott. Alessandro Laresca (Centro Servizi per il Volontariato). Obiettivo dell’iniziativa non è solo informativo rispetto alla diversità dei servizi operanti sul territorio in ambito penale, ma soprattutto migliorare la comprensione nei giovani partecipanti circa la complessità del sistema giustizia e rafforzare la comprensione che il reato non è solo una violazione di norme ma anche una violazione della relazione tra i soggetti di una società civile. Roma. Presentato report del progetto “Storie di vita dal carcere” dire.it, 28 aprile 2022 Presso la sala teatro della Casa Circondariale Femminile di Rebibbia, alla presenza di rappresentanti del Dipartimento della Pubblica Sicurezza del ministero dell’Interno e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del ministero della Giustizia, è stato presentato il report “La funzione rieducativa della pena tra sicurezza e trattamento - Storie di vita dal carcere”. La realizzazione del progetto - frutto di una inedita collaborazione tra i due dipartimenti e fortemente voluto dal vice direttore generale della Pubblica sicurezza, prefetto Vittorio Rizzi - è stata accolta con interesse dai vertici del Dap. Il lavoro è stato predisposto dal Servizio Analisi Criminale, articolazione interforze della Direzione Centrale della Polizia Criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza nella quale è presente la Polizia Penitenziaria e ha proseguito il percorso iniziato nel giugno 2021 con l’elaborato ‘Donne e Criminalità - Analisi dei reati commessi dalle donne e della detenzione femminile negli Istituti Penitenziari’. Lo studio ha offerto uno spaccato del sistema penitenziario, da sempre inestimabile fonte informativa. Il fenomeno criminale è stato così osservato da un diverso angolo prospettico, che ha permesso di guardare il livello successivo all’azione di contrasto dei reati sulla quale, solitamente, è diretta l’attenzione operativa delle Forze di polizia. È stata, pertanto, realizzata un’analisi dei contributi forniti dai principali attori che operano all’interno dell’istituto penitenziario femminile di Roma Rebibbia: il direttore, il comandante del Reparto, l’ispettore di Polizia Penitenziaria, il funzionario della professionalità giuridico-pedagogica e le Psicologhe. Le detenute hanno raccontato le proprie esperienze di vita, soffermandosi in particolare sul contesto sociale di provenienza, sui motivi che le hanno spinte a delinquere e spesso hanno manifestato un profondo desiderio di ‘normalità’ da realizzare dopo la detenzione. Dalle testimonianze di tutte le figure professionali è emerso quanto sia importante per queste donne poter svolgere una attività lavorativa, sia ai fini del reinserimento sociale richiesto dall’art. 27 della Costituzione sia per la riduzione della recidiva. Il connubio tra sicurezza e trattamento a Rebibbia femminile si realizza grazie ad un incessante lavoro di squadra che coinvolge tutti gli operatori delle diverse aree operanti in carcere. Pesaro. Il teatro in carcere porta al Sanzio “I sopravvissuti” ilducato.it, 28 aprile 2022 “Quanto mi dai per questa storia?”. Inizia così lo spettacolo I sopravvissuti, con gli attori che sorprendono il pubblico alle spalle. Alcuni tengono in mano un cd, altri una chiavetta usb: dentro, la loro storia. “Troppo poco” rispondono ad ogni offerta divertita degli spettatori. La loro storia vale di più, sempre di più, perché “se anche parlassimo - dice un attore - non ci ascoltereste. E se ci ascoltaste, non ci capireste”. Sul palco del Teatro Sanzio, a interpretare i racconti ispirati al racconto di Primo Levi, ci sono gli attori della compagnia Lo Spacco, cinque ragazzi che vengono dalla Casa circondariale di Villa Fastiggi a Pesaro. Dal 2002 è attivo nell’istituto il laboratorio permanente “Teatro in carcere”, coordinato da Vito Minoia e Romina Mascioli dell’associazione universitaria Teatro Aenigma. Una storia che non si racconta - “Non posso raccontare questa storia se non sento la cadenza di quei passi” dice Bib Saka dal palco, mentre Denis Shehaj gira convulsamente in cerchio pestando il ritmo con il piede. Sono prigionieri in balia di loro stessi, non ricordano quanti anni hanno e non riescono a distinguere l’ieri dall’oggi. “Non cadere o ti calpesteranno”, “abbiamo già scavato qui”. Sono alcune delle frasi che gli attori ripetono tra loro, mentre vagano senza una meta come in balia di un pensiero che non riescono ad afferrare. Vorrebbero raccontare cos’hanno visto, cos’hanno vissuto, ma non riescono. Questa è una storia che in realtà non può essere raccontata. “È proprio Primo Levi che racconta e insieme non racconta - spiega il regista Francesco Gigliotti -. Per i nostri ragazzi questo è qualcosa che ha a che fare anche con il loro vissuto. Tra di loro c’è chi è più sopravvissuto di altri, perché si porta dietro delle ferite”. L’incomunicabilità del trauma, propria di Primo Levi così come dei ragazzi detenuti, viene risolta da un narratore esterno. È un angelo. Nessuno lo vede, ma entra in scena per raccogliere dai capelli degli attori dei fili immaginari, che sono che le fila delle loro storie. Quegli stessi fili diventano le corde della sua chitarra, quella con cui, attraverso la musica, riesce infine a fare ciò che i sopravvissuti non riescono a fare: raccontare il loro vissuto. Il teatro: un gioco diventato speranza - “Questo spettacolo rappresenta un po’ anche noi - dice Bib al Ducato. Non possiamo paragonarci ai prigionieri dei lager, però la difficoltà nel raccontarsi è la stessa”. Bib è il veterano del gruppo, ha iniziato a fare teatro tre anni e mezzo fa. “In carcere non ci sono tante cose da fare - scherza -. Ho iniziato per caso e poi mi sono appassionato”. Nelle sue parole anche un pensiero per la situazione in Ucraina: “Speriamo che quello che raccontiamo qui sul palco non si ripeta più”. “Non mi aspettavo di fare teatro - ammette Denis, che da un anno e mezzo frequenta il laboratorio - e inizialmente non lo volevo fare. Poi lo spettacolo di Roma dell’anno scorso è stata un’esperienza meravigliosa”. I ragazzi hanno infatti messo in scena la pièce al Teatro Palladio dell’Università di Roma Tre, di fronte ad un vasto pubblico di studenti, “che - racconta Minoia - ha addirittura seguito i nostri attori fin dentro i camerini per complimentarsi con loro”. Per Said Aboubkar sono stati i compagni a convincerlo a provare, mentre per Aatiff El Houssaine tutto è partito come un gioco, “ma poi è diventata una cosa bellissima”. “Per me è stato d’aiuto - afferma emozionato - e spero che sia utile per il mio futuro”. Tutti i ragazzi, infatti, sono sicuri che sarebbero contenti di continuare a fare teatro anche una volta usciti dal carcere. Solo Alban Ramadani è incerto: “L’ansia prima di salire sul palco è troppa”. L’angelo silenzioso che permette ai protagonisti di ritrovarsi, abbandonare i propri fardelli e unirsi in un gesto di solidarietà collettiva è Francesco Scaramuzzino, giovane musicista urbinate: “La mia collaborazione con i ragazzi è iniziata quando sono andato in carcere a fare un paio di concerti per loro - spiega al Ducato - e da subito mi sono sembrati simpaticissimi”. Un’unica strada - Al termine della rappresentazione viene aperta una sessione di dibattito in cui il pubblico interviene per fare domande ad attori e regista. “È una cosa che non avevamo mai fatto”, dice Minoia, “e siamo stati contenti della risposta dell’auditorio”. In sala, tanti studenti che, poche ore prima, avevano seguito un seminario sul dialogo tra pedagogia e teatro. Ma la collaborazione con l’università non si ferma alla teoria. Fino al 3 maggio è infatti aperto un bando per cinque giovani interessati a partecipare al “terzo studio” de I sopravvissuti, in un progetto del teatro universitario Aenigma di Urbino che si concluderà con una performance collegata allo spettacolo. Il Governo si faccia garante della dignità degli anziani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 aprile 2022 Per le persone anziane, il domicilio e la loro famiglia devono essere considerati il luogo privilegiato per la “presa in carico” attraverso i servizi sanitari. Nello stesso tempo, le Residenze sanitarie assistenziali (Rsa), devono essere aperte ai territori, alle famiglie, al volontariato. Ma soprattutto devono essere potenziati i meccanismi di vigilanza per garantire l’implementazione degli standard previsti e quindi anche reprimere eventuali abusi nei confronti degli ospiti. Parliamo della risoluzione sulle Rsa approvate dalla Commissione per la tutela e la promozione dei diritti umani al Senato, che impegna il governo ad adottare politiche in favore delle persone anziane. Le Rsa sono state colpite duramente dalla pandemia - La commissione premette che le Rsa e i presidi residenziali sociosanitari e socioassistenziali per persone anziane sono stati colpiti duramente dall’emergenza sanitaria legata alla diffusione del Covid sin dalla sua prima apparizione in Italia nel febbraio 2020. In tali strutture, nei mesi successivi, è stato registrato un numero altissimo di decessi da Covid e molto pesante è stato l’impatto della pandemia sui diritti alla vita privata e familiare degli ospiti delle strutture che sono sopravvissuti. Tuttavia, l’assenza di dati pubblici essenziali e informazioni relative alla diffusione del contagio nelle strutture residenziali sociosanitarie non ha permesso di svolgere un’analisi complessiva a livello nazionale di quanto accaduto. La Commissione sottolinea che più in generale, la presenza di cronicità e di multimorbilità ha esposto la popolazione anziana a un maggiore rischio di morte, di ospedalizzazione e di ricovero in terapia. Anche a seguito delle problematiche emerse in coincidenza con l’emergenza sanitaria, il 21 settembre 2020 il ministro della Salute ha istituito la ‘ Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria della popolazione anziana’. A un anno di distanza tale Commissione ha consegnato al presidente del Consiglio dei ministri la ‘‘ Carta dei diritti degli anziani e dei doveri della società’’. Sono 2,7 milioni gli anziani con difficoltà motorie e autonomia ridotta - Non solo. Il 16 giugno 2021 l’Istat e la Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria per la popolazione anziana, hanno presentato il Rapporto ‘ Gli anziani e la loro domanda sociale e sanitaria anno 2019’. Da tale rapporto emerge una popolazione di over 75 pari a circa 6,9 milioni di individui, con oltre 2,7 milioni di persone con difficoltà motorie e autonomia ridotta, di cui 1,2 milioni prive di aiuto adeguato e 1 milione che abita da sola oppure con altri familiari anziani; mentre ben 100mila anziani sono privi di risorse economiche e si trovano nella impossibilità di accedere a servizi a pagamento per avere assistenza. Un quadro disastroso che va a scontrarsi con i principi umanitari. Il testo della commissione ricorda che la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani delle Nazioni Unite del 1948 sancisce principi inderogabili di uguaglianza e dignità come fondamento di ogni civile convivenza. La Carta delle Nazioni Unite, la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, il Patto internazionale sui diritti economici, sociale e culturali, la Convenzione per i diritti delle persone con disabilità sono tra gli atti principali adottati dall’Onu che ribadiscono i principi di rispetto e tutela delle persone anziane, specie se affetti da patologie. Allo stesso modo la Convenzione europea per i diritti umani sancisce il diritto alla vita, il diritto a non essere sottoposti a tortura e a trattamenti inumani o degradanti, il diritto al rispetto della propria vita privata e familiare e il diritto alla protezione contro la discriminazione nel godimento dei diritti e libertà riconosciuti. Inoltre l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha avallato con la risoluzione 37/ 51 del 3 dicembre 1982 il ‘ Piano di Azione per l’invecchiamento’, confermato e rafforzato in occasione della Seconda assemblea mondiale sull’invecchiamento di Madrid, nell’aprile 2002. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato la Risoluzione 46 del 16 dicembre 1991 che sancisce i principi Onu sulle persone anziane tra i quali particolare attenzione va dedicata a indipendenza, partecipazione, cura, dignità. La Ue riconosce il diritto degli anziani di condurre una vita dignitosa - Viene anche rivelato che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, all’articolo 25 riconosce e rispetta il diritto degli anziani di condurre una vita dignitosa e indipendente e di partecipare alla vita sociale e culturale. Con il sostegno del Programma Europeo DAPHNE III, è stata elaborata nel 2010 la Carta Europea dei diritti e delle responsabilità degli anziani bisognosi di assistenza e di cure a lungo termine; il Consiglio d’Europa, sulla base del lavoro condotto dal Comitato esecutivo per i diritti umani e di numerosi atti approvati dall’Assemblea parlamentare, ha adottato la Raccomandazione del 2014 per promuovere i diritti delle persone anziane in dignità e indipendenza. In particolare la Commissione Affari Sociali, Salute, Sviluppo sostenibile dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha approvato nel 2017 il Rapporto ‘ Human rights of older persons and their comprehensive care’. Da ricordare, inoltre, che il Parlamento italiano ha dato vita nel 2020 all’intergruppo ‘ Longevità. Prospettive socio- economiche’ che vede la partecipazione di senatori e deputati, nonché di esperti e rappresentanti del mondo delle associazioni. La Commissione straordinaria per la tutela e promozione dei diritti umani del Senato ha dedicato parte dell’indagine conoscitiva sui livelli e i meccanismi di tutela dei diritti umani vigenti in Italia alla situazione delle residenze sanitarie assistenziali e alla condizione delle persone anziane. Si chiede un approccio innovativo fondato sul rafforzamento delle relazioni - Per questo motivo, all’unanimità, la Commissione impegna il governo ad adottare politiche in favore delle persone anziane con approccio innovativo, fondate sul rafforzamento del loro patrimonio relazionale quale principale veicolo di tutela e di rispetto della dignità; a favorire, in concerto con gli enti locali, l’attivazione di servizi di prossimità che permettano alle persone anziane di continuare a vivere nelle loro abitazioni, valorizzando il mondo dell’associazionismo e favorendo l’assistenza domiciliare come forma prioritaria di vicinanza della società; a promuovere in forma capillare sul territorio, d’intesa con gli enti locali, centri diurni per l’assistenza agli anziani, al contempo attivando servizi di accompagnamento costanti ed efficienti con l’ausilio delle espressioni di maggiore esperienza del volontariato; ad adottare misure di incentivazione del co-housing attraverso agevolazioni riguardanti la ristrutturazione interna degli immobili finalizzati a razionalizzare gli spazi in funzione della coabitazione di persone anziane; a incentivare per le persone con familiari in età avanzata forme di lavoro a distanza che consentano di conciliare prestazione professionale e lavoro di cura e assistenza. Viene impegnato il governo ad adottare anche misure fiscali di vantaggio rispetto alle figure professionali che assistono in casa, spesso in coabitazione, le persone anziane; a rafforzare, d’intesa con le Regioni, il monitoraggio costante delle Rsa in relazione alle condizioni delle infrastrutture e alla qualità dei servizi forniti, potenziando i meccanismi di vigilanza per garantire l’implementazione degli standard previsti; a favorire la formazione del personale attivo in tali strutture che consenta la migliore opera di assistenza sul piano professionale e in termini di empatia e dignità della persona anziana; a promuovere nelle residenze sanitarie assistenziali condizioni tali da garantire frequenza e intensità delle visite di familiari, agevolando, al contempo, l’acquisizione in forma diffusa da parte degli ospiti di supporti tecnologici per consentire maggiori contatti con l’esterno. Inoltre, si impegna il governo a realizzare una ricognizione delle iniziative pubbliche e private con denominazione diversa come ‘case di riposo’, ‘case alloggio’ o altro, e - ove riscontrati - reprimere abusi e maltrattamenti ai danni degli ospiti. Stop all’automatismo: i figli potranno portare il cognome sia del padre che della madre di Giulia Merlo Il Domani, 28 aprile 2022 La Corte ha ritenuto discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio la regola che attribuisce automaticamente il cognome del padre: la regola diventa che il figlio assume il cognome di entrambi i genitori nell’ordine dai medesimi concordato, salvo che essi decidano, di comune accordo, di attribuire soltanto il cognome di uno dei due. Basta con l’automatismo dei figli che prendono il cognome del padre. La piccola rivoluzione arriva dalla Corte costituzionale, che ha esaminato le questioni di legittimità costituzionale sulle norme che regolano, nell’ordinamento italiano, l’attribuzione del cognome ai figli. La sentenza verrà depositata nelle prossime settimane, ma in un comunicato stampa la Consulta anticipa la decisione: “La Corte ha ritenuto discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio la regola che attribuisce automaticamente il cognome del padre. Nel solco del principio di eguaglianza e nell’interesse del figlio, entrambi i genitori devono poter condividere la scelta sul suo cognome”. Questo fa sì che la regola diventa che il figlio assumerà il cognome di entrambi i genitori nell’ordine concordato da loro, salvo che loro non siano d’accordo di attribuire solo il cognome di uno dei due. In mancanza di accordo sull’ordine di attribuzione del cognome di entrambi i genitori. Il caso - Gli avvocati Giampaolo Birenza e Domenico Pittella, che hanno portato il caso davanti alla Consulta, hanno parlato di “Storico risultato”, perché “la pronuncia della Corte Costituzionale sul cognome del nato rappresenta una piccola rivoluzione”. La vicenda è nata da un ricorso presentato a Potenza: due coniugi chiedevano di disapplicare la consuetudine dell’assegnazione del cognome paterno in modo che il terzo figlio assumesse esclusivamente il cognome materno, poiché le due sorelle - riconosciute per prima dalla madre e nate fuori dal matrimonio - portavano solo quello. Il tribunale aveva rigettato il ricorso, ritenendo che la norma consuetudinaria del cognome paterno per figlio nato in costanza di matrimonio fosse superabile solo con un intervento legislativo. Con il ricorso in appello, i legali dei coniugi hanno sostenuto che l’automatismo del cognome paterno fosse da disapplicare, “perché in contrasto con numerose disposizioni, poste a tutela dell’identità dei minorenni, del principio di autonomia dei genitori nell’esercizio della responsabilità e del principio di eguaglianza tra i coniugi” e chiesto di sollevare questione di costituzionalità. La corte d’appello di Potenza ha accolto la richiesta, ritenendola rilevante e non manifestamente infondata, e ha inoltrato gli atti alla Consulta, che ha dato ragione ai genitori. Migranti italiani. L’esodo che non vediamo di Carlo Bonini e Isaia Sales La Repubblica, 28 aprile 2022 Quello che nell’indifferenza sta svuotando il nostro Mezzogiorno dei suoi giovani. Nelle famiglie meridionali che si ritrovano a Pasqua o a Natale c’è quasi sempre un figlio o una figlia emigranti che tornano da una città del Centro-Nord o dall’estero, o genitori che li raggiungono nei luoghi dove svolgono la loro attività lavorativa. I treni ad alta velocità e i voli low cost permettono di incontrarsi più spesso rispetto a ciò che avveniva anche nel recente passato, quando poteva capitare di rivedere un familiare emigrato a distanza di anni. In ogni famiglia meridionale c’è un parente, un bisnonno, un padre, un figlio, una zia, una nipote, una cugina, un amico che sono stati o sono emigranti. Dal 1861 in poi la partenza “per terre assai lontane” è una esperienza di vita che ha segnato quasi ogni famiglia del Sud d’Italia. Fa parte del nostro vissuto, passato e presente, della nostra storia, un’esperienza mai interrottasi nelle nostre comunità. Da almeno sei generazioni nessun territorio, nessuna città, nessun paese, e quasi nessuna famiglia al di sotto del Garigliano, ne sono rimasti esclusi. Questa lunga consuetudine con il partire per lunghe distanze e anelare al ritorno, o costituire una nuova vita stabilmente lontana dai luoghi in cui si è nati e cresciuti, è sicuramente un tratto distintivo dell’essere meridionali in Italia, comune sia alla generazione di analfabeti che partì negli anni Ottanta dell’Ottocento, sia a quella di semianalfabeti partiti tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento, sia ai diplomati e laureati che sono partiti all’inizio degli anni Duemila e continuano ad andare via. Diverse generazioni, anche se hanno avuto differenti percorsi di lavoro e di studio, sono stati accomunati dalla stessa necessità di andarsene per “diventare qualcuno”. All’interno del popolo italiano, quello meridionale è stato errante per eccellenza. In Europa, i meridionali d’Italia condividono con gli irlandesi il primato di popolo più segnato dall’emigrazione. Essa è in effetti non solo la spia della tormentata costruzione delle basi economiche della nostra nazione e della complessa costruzione dell’edificio statuale ma anche del manifestarsi nel tempo di differenze territoriali sempre più marcate tra le varie parti dell’Italia. La prima Italia unitaria - Eppure non sempre è stato così nella nostra storia nazionale, che cioè l’emigrazione in Italia e dall’Italia fosse un problema quasi esclusivamente delle famiglie meridionali. Anzi. Fino agli anni settanta del Novecento almeno una regione del Nord, il Veneto, è stata terra di emigrazione per eccellenza in almeno tre delle quattro ondate emigratorie che hanno riguardato l’Italia dopo la sua unione, e cioè quella tra fine Ottocento e inizio del Novecento, quella del periodo fascista, quella apertasi nel secondo dopoguerra tra gli anni Cinquanta e Settanta (quando comincia nettamente a meridionalizzarsi l’emigrazione italiana) mentre quella cominciata a ridosso degli anni Duemila è quasi esclusivamente composta da meridionali, con una componente anche di laureati del Nord che si indirizzano all’estero. Fino agli anni Quaranta del Novecento è il Veneto la regione in testa alle statistiche dell’emigrazione, seguita da Sicilia, Campania e Calabria. Dal 1876 al 1913 dal Veneto partono 1.822.000 persone, ed è il Piemonte - cosa a prima vista sorprendente - al secondo posto di questa classifica del primo cinquantennio unitario con 1.540.000 partenti (tra cui il papà e i nonni di papa Bergoglio) seguiti dalla Campania (1.475.000), dalla Venezia Giulia (1.407.000), dalla Sicilia (1.352.000) e dalla Lombardia (1.342.000). Dalle altre regioni italiane del Nord (la Liguria, il Friuli, il Trentino) e di quelle del Centro e del Sud (Marche, Calabria, Basilicata, Abruzzo e Puglia) vanno via un altro milione di persone. Tra il 1875 e il 1925 un terzo della popolazione del Molise emigra. E in rapporto al numero di abitanti, l’emigrazione calabrese, abruzzese e lucana è davvero impressionante. Lo spopolamento cronico dei comuni diventa così una costante nell’appennino meridionale da un secolo e mezzo. Una poesia di Franco Arminio rende l’idea perfettamente. “Nel 1901 Miche Fede partì per gli Stati Uniti/ con un abito impeccabile che lui stesso aveva cucito./ Nel 1929 Florindo Fede partì per il Brasile/con un abito impeccabile che lui stesso aveva cucito./Nel 1947 Agostino Fede partì per la Francia/ con un abito impeccabile che lui stesso aveva cucito./ Nel 1960 Salvatore Fede partì per la Svizzera/ con un abito impeccabile che lui stesso aveva cucito./ Oggi al paese nessuno sa più cucire/ e l’emigrazione dei sarti è finita.” Dell’emigrazione calabrese ha parlato in alcuni suoi romanzi Mimmo Gangemi (come nello splendido La Signora di Ellis Island). Singolare la diversità tra le due grandi isole italiane, con la Sicilia che nel corso di un secolo e mezzo è in testa alla classifica italiana dell’emigrazione all’estero, mentre la Sardegna è l’ultima. Se fino alla metà dell’Ottocento pochissimi emigravano dalla Sicilia, si verifica un cambiamento radicale alla fine dell’Ottocento. Saranno in gran parte i siciliani tra il 1880 e il 1910 a sostituire temporaneamente la manodopera africana e asiatica nelle piantagioni della Louisiana, del Brasile e dell’Australia. E molti provenienti dalle solfatare siciliane in crisi andranno a lavorare nelle miniere dell’Alabama e nel West Virginia. È molto probabile che questo esodo di massa sia una conseguenza della sconfitta dei Fasci siciliani, di quel movimento di radicale contestazione dei feudali rapporti nelle campagne che l’Unità d’Italia non aveva affatto scalfito come invece si era illuso il mondo contadino dell’isola. Una influenza avrà anche la riduzione del costo del viaggio nelle Americhe grazie ai bastimenti a vapore che partivano dal porto di Palermo. Così come era forte la spinta a sottrarsi alla coscrizione militare obbligatoria. Invece l’emigrazione degli anni Cinquanta segue la sconfitta della occupazione delle terre e i massacri di capi lega contadini e bracciantili da parte della mafia. Nello stimolare la partenza dal Nord Italia per le Americhe, oltre alle condizioni di disagio economico nelle campagne, inciderà anche la vicinanza con il porto di Genova. Se poi si analizzano anche i dati di una regione che è poco citata nelle ricostruzioni storiche sull’emigrazione quale l’Emilia Romagna, si scopre che dal 1876 al 1976, cioè nel giro di un secolo, ben 1.200.000 persone sono partite da quei territori. Dunque, nel primo cinquantennio della storia unitaria l’emigrazione ha avuto connotati fortemente settentrionali, mentre nel cinquantennio successivo essenzialmente meridionali. E tra le due guerre le cifre ripartite tra regioni sono ancora più sbalorditive: primo è il Piemonte con 533.000 partenze, segue la Lombardia con 498.000, poi la Sicilia con 449.000, il Veneto con 392.000, il Friuli Venezia Giulia con 378.000 e la Campania con 319.000. Tra le regioni dell’Italia centrale spicca il ruolo delle Marche per un numero consistente di partenze nelle prime delle due ondate. I marchigiani sono oggi ben l’11% della presenza italiana in Argentina; e da Recanati partì nel 1883 il trisavolo di Leo Messi. All’epoca l’Argentina era uno dei paesi più ricchi al mondo. Una migrazione diffusa - Ma non solo nei primi 50 anni della nostra storia unitaria l’emigrazione è stata un’esperienza diffusa dalle Alpi alla Sicilia, lo era già prima del 1861. L’emigrazione italiana è stato un problema plurisecolare che è esploso in maniera dirompente solo dopo l’Unità d’Italia. La presenza di ben sette Stati all’interno di un territorio abbastanza ristretto imponeva lo spostamento di manodopera tra una parte all’altra, lungo l’arco alpino e appenninico, lungo le pianure, lungo le coste, lungo il corso dei fiumi, e ciò obbligava a passare da uno Stato all’altro, di oltrepassare dei confini anche se le distanze geografiche erano tutto sommato limitate. Non va sottovalutata anche l’emigrazione per ragioni politiche a causa delle guerre permanenti tra le città-Stato e quella per cause religiose, che non assunse comunque la tragicità dello scontro tra cattolici e protestanti e della persecuzione degli ebrei, causa di diaspore di massa in altri territori europei. Nel Regno delle Due Sicilie gli spostamenti si limitavano all’interno dello stesso Stato data la sua maggiore estensione geografica (era il più grande tra quelli preunitari) ed erano caratterizzati dalla transumanza dei pastori dalle montagne alle pianure, dai lavori stagionali soprattutto nelle piane e dalla grande attrazione che esercitava in tutto il Regno la sua capitale, Napoli, la città di gran lunga più popolata d’Italia fino al 1931 e per diversi secoli terza città d’Europa dopo Londra e Parigi. Gli spostamenti erano anche più lunghi e si indirizzavano verso nazioni più grandi: per i liguri e i piemontesi l’attrazione si rivolgeva verso la Francia e il Belgio, per i lombardi verso la Svizzera e il Centro-Europa, per i veneti, i trentini e i friulani verso l’impero austro-ungarico e i territori tedeschi, con i porti di Genova, Venezia, Napoli e Palermo che già si erano aperti agli spostamenti transoceanici da alcuni decenni prima dell’Unità d’Italia. Poi arriverà, appena dopo l’unificazione, la grande attrazione di massa verso le Americhe del Nord e del Sud (all’indomani dell’abolizione della schiavitù e della fine della guerra civile americana) seguita da quella per l’Australia e il Canada, e negli ultimi decenni verso l’Inghilterra (prima della Brexit). Le quattro fasi dell’emigrazione italiana - Nelle quattro grandi ondate di emigrazione della storia italiana, uno specifico luogo geografico di volta in volta ha fatto da magnete, con condizioni, aspettative e motivazioni di chi partiva del tutto diverse. Gli italiani nel mondo erano conosciuti soprattutto come abili braccianti e come ottimi manovali nell’edilizia, e nel secondo dopoguerra soprattutto come esperti minatori e come bravi operai alle catene di montaggio, mentre le italiane erano considerate abili tessitrici. A fine Ottocento e fino agli anni venti del Novecento furono le Americhe la grande calamita dell’emigrazione italiana, mentre prima del 1870 erano stati gli irlandesi e i tedeschi a monopolizzare le partenze dall’Europa verso gli Usa. Dal 1820 al 1860 solo 12.700 italiani erano emigrati negli Usa, in particolare siciliani e liguri, mentre i liguri furono i primi ad essere presenti in America latina a partire dalle città portuali sui fiumi. Durante il fascismo furono le colonie all’estero e le zone bonificate all’interno della penisola a fare da attrazione, mentre tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento fu il triangolo industriale del Nord-Italia insieme alla Germania occidentale e alla Svizzera (e in misura minore, ma con cifre di tutto rispetto, la Francia e il Belgio). Dopo un calo tra gli anni Ottanta e Novanta l’emigrazione è ripresa tornando a cifre di nuovo statisticamente interessanti anche senza raggiungere quelle delle ondate precedenti. Insomma, i cicli migratori dall’Italia verso altre nazioni e continenti (e gli spostamenti al suo interno) sono anche una fotografia economica e sociale delle varie fasi del suo sviluppo. La settentrionalizzazione dell’emigrazione del primo cinquantennio post-unitario verrà superata appena si apre e si consolida lo sviluppo industriale nel triangolo Torino-Genova-Milano, mentre per il decollo economico del Veneto (e la conseguente riduzione drastica dei suoi flussi in uscita) bisognerà aspettare gli anni sessanta-settanta del Novecento. Il Sud invece rappresenta l’elemento di continuità nei quattro cicli dell’emigrazione italiana, con una riduzione solo dal 1975 alla fine definitiva dell’Intervento straordinario del 1992. Ed è proprio con il consolidarsi delle Regioni e con l’accantonamento delle politiche nazionali verso il Sud (sostituite dai fondi comunitari) che si riapre una nuova fase di emigrazione meridionale dalle caratteristiche del tutto nuove, come vedremo. I meridionali saranno il 13% degli espatri nel 1876-1880, il 27% nel periodo 1881-1890, il 33% tra il 1891 e il 1900 e ben il 47% nel decennio 1901-1910. Dal 1876 al 1900 è il Nord a detenere il primato dell’emigrazione all’estero (veneti, piemontesi e friulani soprattutto) dal 1901 in poi saranno le regioni del Sud (siciliani, campani e calabresi soprattutto). E se in linea di massima si può dire che i settentrionali puntavano più verso le altre nazioni europee, i meridionali più verso le Americhe. Quella meridionale, quindi, rappresenta l’elemento di continuità di questa rapida storia dell’emigrazione italiana, perché non succederà niente di così strutturale nella sua economia da annullare il bisogno di partire per chi non trova occasioni per realizzare le proprie aspirazioni lavorative e di vita. 35 milioni di emigrati dall’Italia e in Italia - In questa ricostruzione delle cifre dell’emigrazione italiana all’estero e al suo interno ho consultato gli scritti di Michele Colucci, in particolare la Guida allo studio della emigrazione italiana scritto con Matteo Sanfilippo e da L’emigrazione italiana. Storia e documenti scritto con Stefano Gallo. Tra il 1871 e il 1914 circa 14 milioni di italiani sono emigrati all’estero. L’80% di chi partiva era di sesso maschile, più della metà aveva tra i 15 e i 34 anni, i tre quarti viaggiavano da soli e senza essere accompagnati dalla famiglia. Il soggiorno durava dai 3 ai 4 anni, a volte si protraeva per 8-10 anni e spesso si tramutava in emigrazione senza ritorno. Si è trattato, dunque, di una lunga rivoluzione silenziosa, che ha visto in gran parte protagonisti i contadini, forse dell’unica rivoluzione contadina riuscita in Italia, o come scrisse giustamente Gioacchino Volpe del “Risorgimento dal basso e spontaneo dei ceti popolari”. Un fenomeno, quello dell’emigrazione italiana, di lungo periodo se è vero che durante il fascismo altri milioni si spostano (interessante il fatto che in questo periodo storico, dal 1919 al 1939, emigrano o si spostano più centro-settentrionali che meridionali, rispettivamente 2 milioni e mezzo dal Centro-Nord e un milione e mezzo dal Sud). Dal 1955 al 1970 altri 9 milioni di abitanti si trasferiranno dal Sud al Nord e nel quindicennio 2002/2017 emigrano dal Mezzogiorno due milioni di persone per la stragrande parte giovani sotto i 35 anni e per un terzo laureati o altamente qualificati. Il decennio 1970-1980 sancirà la fine dell’emigrazione di massa con il 1973 a fare da spartiacque in quanto in quell’anno per la prima volta dopo decenni e decenni ci sarà un saldo positivo nel movimento migratorio, con i rientri dai luoghi di espatrio che superano le partenze. Dunque, se calcoliamo solo quelli che si recano all’estero nel corso di un secolo (1870-1970) si può parlare di 25 milioni di persone che hanno lasciato il nostro Paese per lavorare in altri continenti o in altre nazioni europee facendo dell’Italia il Paese occidentale che ha il primato assoluto nell’aver “esportato” il maggior numero dei suoi concittadini. È un dato sorprendente perché corrisponde esattamente al numero complessivo che l’Italia aveva all’atto della sua unificazione nel 1861, come ricorda Donna R. Gabaccia. Tra questi 25 milioni di partenti si debbono considerare quelli che rientravano e poi ripartivano e ciò poteva avvenire più volte nel corso della vita. Dietro l’Italia c’è la Gran Bretagna con 11 milioni di emigranti, ma in questo dato incide l’emigrazione di massa degli irlandesi (ben 4 milioni) e le possibilità offerte dalle colonie per gli inglesi. In ogni caso gli inglesi non hanno subito discriminazioni dai paesi in cui emigravano. Se poi aggiungiamo gli spostamenti all’interno dell’Italia, in particolare quelli lungo l’asse Nord -Sud, si può parlare tranquillamente di una popolazione di 35 milioni che complessivamente si è trasferita in luoghi diversi da dove è nata e cresciuta, con una maggioranza schiacciante di meridionali. La peculiarità dell’Italia nella storia dell’emigrazione europea è il primato degli spostamenti all’estero o interni, la graduale meridionalizzazione di quelli esteri e poi l’esclusività della direzione Sud-Nord tra quelli interni, cosa diversa dalle caratteristiche assunte in altre nazioni dove non si è verificata una così massiccia partenza da una specifica e ampia zona geografica e dove negli spostamenti interni le direzioni di marcia sono multidirezionali e non unidirezionali come in Italia. I Paesi dove oggi si concentra la maggiore presenza di italiani all’estero sono nell’ordine l’Argentina (884.187) la Germania (801.082) la Svizzera (639.508) il Brasile (501.482) la Francia (444.113), il Regno Unito (412.382) Gli Stati Uniti (289.685) il Belgio (275.948) la Spagna (203.268) l’Australia (154.532) il Canada (142.980) il Venezuela (106.447) e l’Uruguay (106.460) su di un totale di 5.652.089, comprese altre nazione qui non segnalate. Mentre le regioni italiane dove ci si sposta di più da parte dei meridionali negli ultimi anni sono l’Emilia-Romagna, il Lazio (soprattutto Roma), la Lombardia, il Veneto. Nel Sud l’emigrazione supera l’immigrazione - Ma la cosa più significativa della quarta ondata migratoria è il fatto che essa si è svolta e si sta svolgendo mentre la nostra è diventata nazione di immigrazione dall’estero, in particolare di quella proveniente dall’Est Europa (dopo la fine dei regimi comunisti) dall’Africa, dalla Cina e dall’America latina. Ed è assurdo che in una nazione segnata profondamente da chi partiva e da chi parte ancora oggi, abbia assunto centralità politica solo il tema di chi arriva da altre parti del mondo, come se ci fosse stata un’opera di totale rimozione storica. È un fenomeno questo da studiare, che ci può dire dell’Italia degli ultimi anni molto più di tanti saggi politici. Gian Antonio Stella ha dedicato due libri all’argomento (L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi e Odissee), altri autori vi hanno scritto romanzi e saggi e la cinematografia ha prodotto bellissimi film, ma il tema non riesce ad imporsi rispetto alla centralità che ha assunto l’immigrazione. Ma, è noto, ciò che avviene al Sud fa poca opinione se non riguarda la criminalità. Eppure si tratta di cifre complessive preoccupanti. Le rimesse - Nell’emigrazione si mischia il dolore dell’abbandono con l’aspettativa di migliorare la propria vita e quella dei propri cari lasciati nei luoghi natii. E l’offesa delle discriminazioni che gli italiani. hanno conosciuto nelle loro peregrinazioni, negli Usa più che in America latina, Canada e Australia, in Svizzera e Germania più che in Francia, alla pari degli africani e degli asiatici. Discriminazioni che poi i meridionali conosceranno nell’emigrazione nel Nord Italia. L’emigrante è un addolorato speranzoso e motivato, ha una grande voglia di cambiare radicalmente la propria vita e questa sua carica emotiva e fisica si riflette sia nell’economia del Paese dove emigra sia in quello che lascia attraverso le rimesse. Chi è disposto a tutto per uscire dalla miseria (e per diventare qualcuno attraverso il lavoro) si trasforma in un capitale prezioso per le società che lo sanno ben utilizzare. L’enorme peso che le rimesse degli emigranti hanno svolto per le famiglie rimaste nei paesi (e in genere per l’economia italiana) è stata anch’essa sottovalutata. Nell’emigrazione accanto alle motivazioni personali di chi parte, bisogna valutare anche quelle di coloro che all’epoca governavano l’Italia, che si riassumevano in una essenzialmente: alleggerire la pressione del mondo del lavoro che non trovava sbocchi e allentare le tensioni sociali. Grazie a queste due esigenze (personali e politico-sociali) l’Italia è potuta crescere nei due momenti decisivi della sua storia, a fine Ottocento e dopo la Seconda guerra mondiale. Se la nostra è diventata economicamente una delle nazioni più sviluppate in Occidente lo deve anche ai suoi emigranti. Solo nel 1970 le loro rimesse (cioè i soldi che essi trasferivano nelle banche o direttamente ai loro familiari) ammontavano a un miliardo di dollari, una cifra enorme, fondamentale per la nostra bilancia dei pagamenti e indispensabile per la tenuta economica dei territori da cui erano partiti. Nel 1980 solo in Sicilia le rimesse furono di 213.027 milioni di lire. E non va dimenticato che tra il 1896 e il 1912 le riserve auree si triplicarono grazie alle rimesse soprattutto degli “americani”. Si può dire tranquillamente che l’emigrazione è stata alla base del decollo economico di fine Ottocento/inizio Novecento del triangolo industriale del Nord ed è stato alla base del miracolo economico italiano tra gli anni Cinquanta/Settanta del Novecento. Secondo diversi storici ed economisti furono le rimesse degli emigranti a fornire i mezzi finanziari per l’avvio della industrializzazione italiana. Franco Barbagallo lo ha ricordato nel suo libro La questione italiana. Il Nord e il Sud dal 1860. Riportando studi di Franco Bonelli lo storico napoletano ricorda come il salvataggio della Fiat nel 1907, colpita da una crisi di liquidità, fu operata dalla Banca d’Italia utilizzando le rimesse spedite tramite il Banco di Napoli dagli emigrati meridionali delle Americhe. Senza quelle risorse la Fiat forse non avrebbe poi assunto un ruolo centrale nell’economia italiana. La Fiat salvata dagli emigranti meridionali è un pezzo di storia che andrebbe ricordato per ribadire le interconnessioni che ci sono sempre state tra la crescita del Nord e il contributo del Sud. Ma l’emigrazione fu importante anche dal punto di vista culturale e del cambiamento di costumi di vita in molti luoghi d’Italia, in particolare nel Sud. La “mentalità” dei diritti e dei doveri che i lavoratori avevano acquisito all’estero ruppe la subordinazione feudale e creò un clima di autonomia personale e familiare e soprattutto un’apertura di orizzonti che quelle società chiuse non conoscevano da secoli. Un proverbio della Basilicata dice molto di questa novità economica/sociale/culturale: “Li mugliere dell’americane nun mangiane cchiù patane” (le mogli degli americani non mangiano più patate). Questione meridionale ed emigrazione - L’emigrazione è la vicenda umana che ha più ha segnato la storia “civile” dell’Italia; nel Sud ancora più marcatamente perché si è trattato di un elemento di assoluta continuità, non un’eccezione di un periodo economico difficile, non un fatto limitato nel tempo, ma dato strutturale, un metodo di sopravvivenza e al tempo stesso di riuscita sociale dalla seconda metà dell’Ottocento ad oggi. La questione meridionale si è manifestata e resa evidente nella storia italiana grazie all’emigrazione permanente dei suoi abitanti. Secondo un dato recente, metà degli italiani all’estero sono meridionali, un terzo del Nord e un decimo del Centro. Su 10 italiani all’estero 2 sono di origine siciliana, 1 campana, 1 pugliese, e 1 calabrese con una discreta presenza di abruzzesi, molisani e lucani. Dei settentrionali, la maggior parte sono veneti, trentini e friulani, mentre elevati sono stati i rientri di piemontesi, lombardi e liguri; tra le regioni dell’Italia centrale, i marchigiani sono i più numerosi all’estero. E in una nazione in cui da decenni la questione dell’immigrazione ha accantonato o rimosso il lungo passato di emigrazione dei suoi abitanti, in particolare nel Sud i numeri degli emigranti (quelli che partono) continua a superare il numero degli immigrati stranieri che vengono a risiedervi. Cioè, chi se ne va non è sostituito da flussi migratori di stranieri negli stessi territori che si spopolano, in quanto, com’è noto e facilmente comprensibile, gli immigrati stranieri scelgono le regioni del Centro-Nord per insediarsi stabilmente perché attratti dalle maggiori possibilità di lavoro. Lo spopolamento del Sud - Secondo la Svimez, il Sud nel 2065 perderà nel complesso 5 milioni di abitanti, cioè per la prima volta nella sua storia l’emigrazione non sarà compensata né da un alto tasso di natività, come è avvenuto nei cicli emigratori precedenti, né da afflussi di popolazione proveniente dall’esterno. Se a questi dati aggiungiamo quelli relativi al graduale spopolamento delle università meridionali dovuto al fatto che ci sposta verso quelle sedi collocate in territori in grado di dare possibilità lavorative immediate a chi vi si laurea, il quadro è completo. Su 685.000 studenti universitari meridionali in Italia (dati del 2020) ben il 25,6% studia nelle università del Centro-Nord. In numeri assoluti, parliamo di 175.000 ragazzi. Dal Sud ci si sposta sia per lavorare sia per studiare, cioè va via “la meglio gioventù” con un costo sociale, economico, civile incalcolabile. Sempre secondo la Svimez, questo spostamento di popolazione universitaria dal Sud al Centro-Nord nel periodo 2007-2018 ha comportato una riduzione del tasso di crescita del Pil meridionale di quasi 2 punti e mezzo, pari a una media annuale dello 0,20%. Tenendo conto che in tale periodo nel Sud si è registrata una caduta del Pil di quasi il 10%, appare chiaro che se tutti gli studenti meridionali studiassero in università del posto ciò avrebbe dimezzato la perdita di Pil. Ecco cosa vuol dire l’emigrazione universitaria, che è l’ultima aggiornata e inedita versione della tradizionale emigrazione meridionale. Insomma, se vanno via i laureati vuol dire che ci si priva di una parte della potenziale classe dirigente di domani, una sottrazione di possibilità e uno spreco di futuro davvero grave. Dal Sud sta andando via ora una parte della sua élite professionale e culturale. Mobilità unidirezionale - Si dirà: ma è normale nelle società sviluppate un processo di mobilità così ampio sia per gli studi sia per il lavoro; ciò è tipico delle società aperte e delle economie dinamiche. Certo, sarebbe normale se ci si spostasse in tutta la nazione allo stesso modo, da una parte e dall’altra, dal Sud verso il Nord e dal Nord verso il Sud, dall’Adriatico al Tirreno e viceversa, dalla pianura padana al Tavoliere delle Puglie, dai paesi alpini alla Piana di Gioia Tauro, dal Trentino in Sicilia. Ma purtroppo il problema italiano è la monodirezionalità dei percorsi di mobilità e dei processi di insediamento delle migrazioni interne e non la reciprocità. Si emigra all’interno dell’Italia in senso unico sia se si studia, sia se si è laureati, sia se si cerca lavoro. L’ultimo spostamento dal Nord verso il Sud ha riguardato i veneti nel periodo fascista e nell’immediato secondo dopoguerra verso le paludi pontine e verso la Sardegna, e poi l’attrazione che Roma ha esercitato per gli abruzzesi, i molisani e alcune frange di settentrionali per gli impieghi ministeriali. Migrare in Italia da ormai troppo tempo è un processo unidirezionale. Negli ultimi decenni è stato segnalato anche uno spostamento di laureati di origine settentrionale verso l’estero, che non ha però la stessa intensità dei meridionali che si spostano nel centro-Nord dell’Italia. È un fenomeno interessante e da non sottovalutare, ma che esprime una chance di realizzazione all’estero per chi già potrebbe farlo nel proprio territorio ed è sicuramente motivata dalle possibilità di guadagnare di più; invece, per i meridionali che si spostano, o da laureati o da lavoratori specializzati, la scelta è quasi obbligata in quanto non avrebbero possibilità di avviarsi al lavoro se restassero nei luoghi dove sono nati e cresciuti. L’Italia ha conosciuto l’emigrazione nei periodi di miseria successivi alla sua unificazione, ha poi conosciuto l’emigrazione anche nel periodo di boom economico che l’ha proiettata tra le prime nazioni più industrializzate del mondo. Con la differenza che quando c’è stato il boom economico esso ha riguardato solo una sua parte, il Centro-Nord, trovando al suo interno, nel Sud, il suo serbatoio di manodopera, così come l’America l’aveva trovato a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento negli europei. Il Sud ha contribuito a rendere l’Italia un paese competitivo nell’economia globalizzata, ma non è ancora venuto il suo momento storico, quel momento in cui tutta l’esperienza migratoria accumulata nel passato da diverse generazioni possa trasformarsi in capitale per il suo autonomo sviluppo come è avvenuto ultimamente per i veneti, i trentini e i friulani e prima ancora per i piemontesi, i liguri, i lombardi, gli emiliani e di tutti gli altri abitanti dell’Italia che, dopo una esperienza di emigrazione all’estero o all’interno, hanno poi conosciuto uno sviluppo economico notevole. Solo per il Sud l’emigrazione è un’esperienza costante e non una premessa per un radicale cambiamento della sua economia. L’emigrazione asimmetrica - Come abbiamo visto prima, mentre nel resto d’Italia già gli anni Sessanta vedono diminuire le emigrazioni dalle regioni del Centro-Nord, per poi quasi arrestarsi alla fine degli anni Ottanta del Novecento, quella del Sud ha conosciuto sì un forte rallentamento per un decennio, salvo poi riprendersi tra la fine del Novecento e l’inizio degli anni Duemila. E a proposito di questa ultima fase dell’emigrazione meridionale va segnalato il suo carattere “asimmetrico”. Per emigrazione asimmetrica intendo il fatto che questa è la prima emigrazione che impoverisce i posti da cui si parte, perché non ci sono rimesse che arrivano dagli emigranti ma, al contrario, le famiglie debbono integrare con i loro risparmi il mantenimento dei figli o dei parenti. Una emigrazione, dunque, che diversamente da quelle precedenti non è fonte di “ricchezza compensativa” per il Mezzogiorno. A causa dei livelli retributivi per lo più bassi che normalmente si percepiscono nelle regioni di arrivo, e a causa della precarietà dei lavori in cui si è impegnati, questa emigrazione ha un costo economico per chi resta, spesso pesante. Le famiglie sono costrette a finanziarla, almeno in parte. Si determina così un triplice impoverimento per il Sud: quello demografico, quello delle famiglie, e quello della bilancia delle partite correnti. È una emorragia che avviene senza prospettive. A differenza della prima emigrazione di massa, quando chi tornava nei paesi di origine era anche in qualche modo portatore di una civiltà “diversa”, straordinariamente diversa da quella di partenza (e portava con sé anche soldi) oggi non ci sono le stesse ricadute economiche né sociali, né culturali. Stiamo assistendo alla quarta ondata migratoria di massa dal Mezzogiorno d’Italia nel giro di quasi un secolo e mezzo dalla prima. A fine Ottocento partivano i bisnonni, negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento i nonni e i padri, oggi partono i figli e i nipoti. Vanno via le risorse umane più fresche, più giovani, più acculturate e formate del Mezzogiorno. Va via “la meglio gioventù”. Una emigrazione essenzialmente giovanile, scolarizzata che però trova davanti a sé una precarietà dell’occupazione anche laddove si trasferisce e retribuzioni non adeguate a far fronte alle spese e meno che mai a inviare dei soldi a casa. Con un netto prevalere di lavoro a tempo parziale rispetto a quello a tempo indeterminato. Per dirla in breve: i costi di questa emigrazione superano i ricavi sia per chi parte sia per chi resta. Ieri chi emigrava era caratterizzato da una aspettativa di grandi cambiamenti per sé, per la sua famiglia e in prospettiva per i luoghi che lasciava, in cui sperava di tornare più ricco e più utile per trasformarli secondo le conoscenze e le esperienze acquisite. Oggi non c’è minimamente questa speranza di arricchimento, né la certezza di poter tornare per migliorare i luoghi da cui si è partiti. Un disincanto caratterizza l’emigrazione di oggi. E per di più, questa emigrazione non fa opinione, è senza pathos e umana partecipazione, accompagnata dall’indifferenza della politica, della stampa e delle forze artistiche e culturali. Il senso dell’epopea questa quarta ondata non ce l’ha, e quindi non ha neanche quella stessa capacità di emozionare. In fondo non partono i diseredati, non partono con le valigie di cartone, non incontrano un mondo che non conoscono e da cui sono spaventati e attratti al tempo stesso. Quelli di oggi parlano un perfetto italiano e non il dialetto, non hanno costumi e abitudini diversi dai loro coetanei centro-settentrionali. E viaggiano non su navi o ferrovie che impiegano una vita per trasferirli. Si tratta di una vera e propria spoliazione senza compensazione. Perché questa emigrazione si colloca in un cambiamento epocale di alcuni tratti degli stili di vita dei meridionali. I giovani si sposano tardissimo, fanno pochissimi figli, uno, uno e mezzo in media rispetto ai quattro della generazione precedente. È una generazione spaventata dall’idea di fare figli per non trasmettere loro la precarietà da cui si sentono circondati. Si può dare loro torto? Siamo di fronte a un vero e proprio cambio culturale, a una concezione della vita molto distante da quella dei padri e dei nonni. Insomma, c’è una crisi di natalità che ha interrotto storicamente una delle caratteristiche dell’identità meridionale, cioè fare più figli e vivere in famiglie numerose. L’emigrazione meridionale di oggi, dunque, si inserisce in un processo di radicale modifica della struttura demografica e non è compensato da un parallelo flusso di immigrati. Oggi più emigrazione e meno nascite, nel futuro più disoccupati, più vecchi e meno giovani nelle piazze e nelle case del Sud. Resta, insomma, a chi emigra oggi il doppio rammarico di non potersi rendere totalmente autonomo né di fare qualcosa per migliorare i luoghi da cui si va via. Avvertono di poter essere più utili restando, ma non se lo possono permettere. Per tutti questi motivi, l’ultima fase della storia della emigrazione meridionale la possiamo definire “emigrazione a perdere” rispetto a tutte quelle del passato. A meno che non succeda qualcosa negli orientamenti delle classi dirigenti della nazione da ribaltare radicalmente questo impotente disincanto. Lo Ius scholae salta dal calendario di maggio della Camera, la Lega festeggia di Lisa Di Giuseppe Il Domani, 28 aprile 2022 Il provvedimento è stato rimosso dal calendario dei lavori di maggio di Montecitorio. Salta così anche la possibilità di contingentare gli emendamenti: ora la commissione competente dovrà occuparsi singolarmente di tutte e 500 le proposte di modifica. La Lega esulta. Lo Ius scholae salta dal calendario dell’aula della Camera e la Lega festeggia. I partiti che sostengono il provvedimento, il Pd in testa, aveva spinto per calendarizzare il provvedimento per i lavori d’aula del mese prossimo, ma grazie all’opposizione del suo capogruppo Riccardo Molinari la Lega ha mandato all’aria i piani della parte di maggioranza che sostiene il provvedimento. La commissione Affari costituzionali aveva ripreso i lavori sul testo Brescia per il riconoscimento della cittadinanza a chi ha completato un ciclo di studi di cinque anni in Italia nelle ultime settimane, raccogliendo fin da subito l’opposizione della Lega e di Fratelli d’Italia. Cosa succede ora - Senza la calendarizzazione a maggio, il provvedimento slitta a giugno. Con lei, il presidente di commissione perde la possibilità di chiedere il contingentamento del tempo di discussione degli emendamenti, quasi 500, la maggior parte presentati dalla Lega, che adesso esulta. “Vittoria della Lega. Il cosiddetto Ius Scholae è l’ennesimo tentativo della sinistra di allargare le maglie del riconoscimento della cittadinanza italiana. Pensiamo ai problemi veri degli italiani” dice il deputato Igor Iezzi, membro della commissione. Ora i lavori procederanno molto a rilento e la commissione dovrà analizzare gli emendamenti presentati uno alla volta: finora ne sono stati valutati soltanto 6. Lo stop mette a serio rischio l’avanzamento del testo: per giugno sono in programma anche le elezioni amministrative e il provvedimento potrebbe scivolare verso la fine della lista delle priorità anche dei partiti che più sostengono la modifica costituzionale. Se anche ci dovesse essere una discussione alla Camera in piena estate, subito dopo la pausa è in programma la sessione di bilancio e la campagna elettorale, che saranno verosimilmente la pietra tombale sul provvedimento. Difficile infatti che il Senato riesca a ricevere la norma approvata dalla Camera prima della fine della legislatura. Solo ieri è stata comunicata la scelta di quattro relatori per il provvedimento sul fine vita, incardinato al Senato dopo l’approvazione alla Camera, di cui uno è il senatore leghista pro vita Simone Pillon. Assieme al rallentamento dello Ius scholae è l’ennesimo successo della linea della Lega contro i testi che riguardano i diritti civili in discussione al parlamento. Le democrazie e l’ondata dei regimi di Maurizio Ferrera Corriere della Sera, 28 aprile 2022 Le guerre possono finire in tanti modi, ma solo alcuni consentono la sopravvivenza della democrazia. È questo tipo di pace che dobbiamo costruire oggi in Ucraina. E che dobbiamo imparare a difendere attivamente anche a casa nostra. Il confronto fra democrazie e autoritarismi è la sfida di questo secolo. Purtroppo il bilancio dell’ultimo quindicennio è negativo. La quota di popolazione mondiale che vive in regimi liberi è passata dal 46% al 20%, quella in regimi autoritari dal 36% al 39% (dati Freedom House). Il resto abita in Paesi solo parzialmente liberi. Il 2021 è iniziato con l’assalto al Congresso americano da parte dei seguaci di Trump, è proseguito con colpi di stato militari in Myanmar, Sudan, Mali e Guinea; la democrazia è stata sospesa di fatto in Nicaragua e Tunisia. Il 24 febbraio scorso l’ondata autoritaria ha investito l’Europa: anche per questo è importante aiutare l’Ucraina di Zelensky a resistere all’aggressione di Putin. Dobbiamo prendere atto che nel mondo la democrazia è in fase di recessione e accettare due spiacevoli dati di fatto. Primo: il connubio fra Stato di diritto e governo rappresentativo è un composto fragile, soprattutto nel suo momento formativo. Il seme della democrazia liberale germoglia con fatica. Secondo: i regimi autoritari hanno una paura nera di questo seme, i loro leader non hanno remore a ricorrere alla violenza (anche bruta) per impedire che attecchisca (come è successo in Ucraina). La guerra è il più terribile strumento per soffocare la democrazia, ma non è l’unico. I regimi autoritari hanno anche armi più insidiose: attacchi terroristici e sabotaggi cibernetici, manipolazione delle informazioni, finanziamenti occulti a favore di forze anti-sistema (come i prestiti a Le Pen), persino migranti usati come “bombe umane”, come ha cercato di fare la Bielorussia a danno della Polonia. L’ombrello della Nato protegge l’Europa dal punto di vista militare. Ma le società aperte restano vulnerabili agli altri tipi di aggressione. Nei “vecchi” Paesi dell’Unione europea, un settantennio di pace e stabilità ha quasi azzerato la percezione del rischio bellico, ossia la possibilità di aggressioni armate ai propri confini. A parte gli atti terroristici, le altre forme di minaccia sono poco visibili, così come tendono ad esserlo anche le contro-misure. Ciò che a volte trapela (un attacco sventato, una corrente di fake news orchestrata da una potenza straniera e smascherata) è solo la punta di un iceberg, pochi sanno che c’è una enorme parte sommersa. Inoltre le opinioni pubbliche democratiche sono impazienti, facili alla distrazione. All’inizio della guerra, nei confronti degli ucraini prevaleva la simpatia, la disponibilità all’aiuto. Col passare del tempo, è sorta una certa insofferenza per un conflitto che rischia di essere lungo e per le richieste di armi da parte di Zelensky. Secondo un sondaggio Ipsos dei primi di aprile, fra il 20% e il 30% dei cittadini europei pensa che i problemi dell’Ucraina non siano affar loro (il dato per l’Italia è 35%), la maggioranza non è disposta a sopportare aumenti delle bollette per sottrarre risorse alla Russia. Per molti il pacifismo è una scelta convinta, basata su principi. Per altri (più numerosi) è una risposta irriflessa, un modo apparentemente “nobile” per non affrontare le responsabilità, per salvaguardare il quieto vivere. Vi è anche un eccesso di fiducia e aspettativa nei confronti delle parole, delle “trattative”. Le società pacificate e democratiche risolvono i disaccordi con la discussione libera e con il voto. Una conquista impareggiabile, ma che può offuscare le lenti con cui guardiamo e giudichiamo le relazioni internazionali e ciò che accade nei regimi autoritari. I guerrafondai sono poco interessati a trattare: oggi l’ostacolo è questo, non la fiacchezza o l’incapacità dei governi europei. Per contrastare la vulnerabilità interna delle democrazie, gli esperti propongono di adottare strategie di sicurezza nazionale che coinvolgano e sensibilizzino tutti i cittadini, a partire da quelli più giovani (il cosiddetto “whole society approach»). Il governo francese ha ad esempio avviato un programma rivolto agli studenti: quattro settimane di tirocinio per acquisire competenze su come rispondere alle situazioni di crisi. La Germania ha istituito una forma di servizio civile chiamata “un anno dedicato al tuo Paese”: un misto tra volontariato sociale e addestramento alle tecniche di base di difesa civile. Lo scorso febbraio in Svezia ha aperto i battenti una Agenzia nazionale per la difesa psicologica, con una duplice funzione: identificare i flussi di disinformazione pubblica e manipolazione delle opinioni; allenare i cittadini a riconoscere le fake news e le varie forme di minaccia alla sicurezza del Paese. Nel suo discorso del 25 aprile ad Acerra, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ricordato che in Italia la libertà fu conquistata con la resistenza armata. E ha invitato gli italiani a non dimenticarsi dell’Ucraina. Le guerre possono finire in tanti modi, ma solo alcuni consentono la sopravvivenza della democrazia. È questo tipo di pace che dobbiamo costruire oggi in Ucraina. E che dobbiamo imparare a difendere attivamente anche a casa nostra. Singapore. Giustiziato detenuto con problemi mentali. Amnesty: “Atto vergognoso” rainews.it, 28 aprile 2022 Shock nella città-Stato: il detenuto con problemi mentali era stato condannato per droga. Ora si teme una escalation delle esecuzioni. All’uomo era stata diagnosticata una disabilità intellettiva. Non sono serviti a nulla anni di battaglie legali e di proteste mediatiche. È stato giustiziato a Singapore Nagaenthran K. Dharmalingam, l’uomo di nazionalità malese condannato alla pena di morte il 22 novembre 2010 per essere stato trovato in possesso di poco più di 42 grammi di eroina nell’aprile 2009. A Singapore infatti vige una legge severissima contro il traffico di droga e a nulla è valso il fatto che all’uomo fosse stata diagnosticata una disabilità mentale, condizione per la quale le esecuzioni sono vietate dalle convenzioni internazionali per i diritti umani. Così né la lunga battaglia legale, durata un decennio e impugnata dai suoi avvocati e dalla madre, né gli appelli internazionali alla clemenza sono valsi a salvarlo dal braccio della morte. L’ultimo tentativo lunedì 25 aprile, quando la madre, Panchalai Supermaniam, si è vista rifiutare l’ennesimo ricorso dove sosteneva che il figlio non avesse ricevuto un giusto processo per via del conflitto di interessi del giudice della Corte d’appello, lo stesso che aveva emesso la condanna nel 2010. Nella prigione di Changi l’uomo è stato quindi impiccato. Un atto definito da Amnesty International “vergognoso e senza pietà”. Negli anni la vicenda aveva provocato proteste senza precedenti in Malaysia e ricevuto ampia attenzione anche a livello internazionale. Era riuscita a interessare istituzioni come l’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, i rappresentanti dell’Unione europea, oltre che il primo ministro malese, Ismail Sabri Yaakob. Singapore aveva sospeso le esecuzioni per due anni a causa della pandemia da Covid-19 prima di riprenderle con l’esecuzione di un trafficante di droga avvenuta a marzo. Ora la preoccupazione più grande è che si verifichi un’escalation. “Le autorità di Singapore - ha affermato Erwin van der Borgt, direttore regionale Asia-Pacifico di Amnesty International - devono fermare immediatamente l’attuale ondata di esecuzioni e rivedere urgentemente la legislazione sull’uso della pena di morte, in vista dell’abolizione, alla luce di questo caso scioccante”. Il corpo di Nagaenthran, ha fatto sapere la famiglia, sarà riportato nella sua città natale, a Ipoh, capitale dello stato di Perak, dove si terrà il suo funerale. Amnesty: “Atto vergognoso” - “L’esecuzione di Nagaenthran è un atto vergognoso da parte del governo di Singapore, compiuto senza pietà nonostante le estese proteste a Singapore, in Malaysia e in tutto il mondo”. Così il direttore regionale Asia-Pacifico di Amnesty International, Erwin van der Borgt, in risposta all’esecuzione di Nagaenthran Dharmalingam, avvenuta nonostante gli fosse stata diagnosticata una disabilità intellettiva. Israele. 579 palestinesi in carcere senza prove né processo di Michele Giorgio Il Manifesto, 28 aprile 2022 Il numero più alto di detenzioni amministrative da quasi 6 anni. E si allunga la striscia di sangue in Cisgiordania: 3 uccisi in 3 giorni. Si allunga la striscia di sangue in Cisgiordania dove ieri, in un campo profughi alle porte di Gerico, poco prima dell’alba, un palestinese di 20 anni, Ahmed Oweidat, è stato ucciso da militari israeliani durante l’ultimo dei raid lanciati dall’esercito nella Cisgiordania occupata dopo gli attentati che tra marzo e aprile hanno fatto 14 morti in Israele. Oweidat, colpito alla testa, è morto all’arrivo all’ospedale. Venerdì un altro giovane palestinese è spirato dopo quattro giorni di coma. Era stato ferito mortalmente durante un’incursione militare a Yamoun (Jenin), sorte toccata qualche giorno prima a una studentessa mentre tornava a casa da scuola. Cresce anche il numero di palestinesi in detenzione amministrativa - il carcere senza processo - che in questi giorni ha raggiunto il massimo da cinque anni e mezzo da questa parte. Secondo i dati forniti dall’Israel Prison Service, al momento 579 palestinesi sono sottoposti a questa sorta di custodia cautelare a tempo indeterminato. I giudici militari, senza avere in mano alcuna prova e solo sulla base di una richiesta dei servizi di intelligence, possono far incarcerare un palestinese per 3-6 mesi e rinnovare il provvedimento più volte alla sua scadenza, per presunte ragioni di sicurezza. Si tratta del numero di prigionieri senza processo più alto da ottobre 2016, quando la cifra era di 610. Tra marzo e aprile di quest’anno il numero dei detenuti amministrativi è aumentato di 109. Nell’ultimo mese sono stati emessi 19 ordini di detenzione amministrativa anche contro cittadini israeliani: 17 arabi e due ebrei. Le Ong per i diritti umani puntano l’indice contro la doppia giustizia che Israele applica in Cisgiordania: una per i coloni ebrei e un’altra per i palestinesi sotto occupazione militare. Inoltre, un’inchiesta del quotidiano Haaretz denuncia che mentre in Israele c’è differenza tra i reati contro la sicurezza e quelli comuni, nei Territori occupati i reati contestati sono quasi sempre alla sicurezza. Dal 2018 al 2021, oltre il 65% dei casi (escluse le violazioni del codice stradale) nei tribunali militari di Ofer e Salem, erano reati contro la sicurezza. La maggior parte delle indagini in Cisgiordania, aggiunge Haaretz, sono di competenza del servizio di sicurezza Shin Bet e le prove si basano molto spesso su informazioni fornite da collaborazionisti. Grave è la condizione dei minori palestinesi. Le famiglie scelgono quasi sempre il patteggiamento per evitare una lunga detenzione ai figli, anche se negano con forza di aver commesso reati. Nel 2020 le condanne sono state per l’83% il risultato di un patteggiamento. Le differenze tra i tribunali in Cisgiordania e quelli in Israele sono evidenti, scrive Haaretz. Gli arrestati in Israele vedono un giudice entro 24 ore; un sospetto palestinese invece potrebbe aspettare 48 ore, anche 96 se fa parte delle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale. Un altro esempio riguarda il diritto di un minore di avere un genitore presente durante l’interrogatorio. In Israele è garantito. In Cisgiordania no. In Israele si raggiunge la maggiore età a 18 anni e si viene considerati giovani adulti. In Cisgiordania un ragazzo palestinese tra i 14 e i 16 anni è definito un giovane adulto dalle autorità militari e, al contrario della legge israeliana, quella militare consente pene fino a sei mesi per i ragazzini. Carceri sovraffollate, la Danimarca manda i detenuti in Kosovo (ma solo i migranti) di Alfonso Bianchi today.it, 28 aprile 2022 Prese in affitto 300 celle per un costo di 15 milioni di euro l’anno. Al termine della pena il Paese balcanico espellerà i carcerati. Per risolvere la crisi sovraffollamento delle carceri la Danimarca manderà centinaia di detenuti in Kosovo. Il governo della socialista Mette Frederiksen ha firmato un accordo con Pristina per l’invio di 300 carcerati nel Paese balcanico, siglando ufficialmente un patto concordato a dicembre. Il Paese scandinavo affitterà 300 celle per un canone annuo di 15 milioni di euro. “Abbiamo firmato un accordo rivoluzionario che garantirà una migliore capacità nelle nostre carceri sovraffollate e allenterà la pressione sui nostri agenti penitenziari”, ha rivendicato il ministro della Giustizia Nick Haekkerup. Il provvedimento fa parte di un piano da 538 milioni di euro per ampliare la capacità carceraria danese, che dovrebbe aumentare di 326 celle tra il 2022 e il 2025. Come spiega la France Presse i detenuti, tutti migranti, saranno inviati in una prigione nella città di Gjilan, a circa 50 chilometri dalla capitale Pristina, a partire dall’inizio del 2023, e poi saranno espulsi dal Paese una volta che avranno scontato la pena. “Con questo accordo, la Danimarca invia anche un chiaro segnale agli stranieri di Paesi terzi che sono stati condannati all’espulsione: il vostro futuro non è in Danimarca e quindi non sconterete la pena qui”, ha affermato Haekkerup. I migranti sarebbero stati espulsi comunque a fine pena, visto che le leggi prevedono che i migranti incarcerati siano cacciati dal territorio nazionale al termine della loro permanenza in prigione. Nel 2021 i detenuti che aspettavano il trasferimento erano 350. Stando ai dati ufficiali forniti da Copenaghen, la popolazione carceraria in Danimarca è aumentata di quasi il 20% dal 2015 per raggiungere più di 4mila persone all’inizio del 2021 (su una popolazione nazionale di circa 5,8 milioni di abitanti), portando il tasso di occupazione al di sopra del 100%. Dal 2015, la popolazione carceraria è aumentata del 19% mentre, contemporaneamente, il numero di guardie penitenziarie è diminuito del 18%. Attualmente, la maggior parte dei detenuti nel Paese sconta la propria condanna in cosiddette “prigioni aperte”: destinate a chi ha ottenuto una pena non superiore ai 5 anni queste prigioni sono meno pesanti nel trattamento dei loro ospiti, i quali sono ad esempio sono autorizzati a indossare i propri vestiti, a cucinarsi i pasti autonomamente e persino a prendersi dei permessi d’uscita temporanei. Il perimetro di questi istituti non è delimitato da barriere fisiche sorvegliate da personale armato, com’è invece il caso per i centri di massima sicurezza.