Togliere le carceri dal controllo della magistratura? È una buona idea di Guido Germano Pettarin* Il Dubbio, 27 aprile 2022 Quella di Sbriglia non è una provocazione. Lo conosco da anni e credo che sia tra i maggiori esperti, non solo in Italia, di sistemi penitenziari e di carceri che lui afferma essere, ancora oggi, in assenza di altre soluzioni, un male necessario, un’ultima chance per chi abbia violato le leggi penali, una sorta di ciambella di salvataggio dopo che altre agenzie pubbliche e private abbiano fallito (i corpi di intermediazione sociale e la scuola, soprattutto). E anche il suo sodalizio, quello del CESP, Centro Europeo di Studi Penitenziari, mi risulta essere particolarmente ricco di un vasto ventaglio di esperti in cose non solo penitenziarie e giuridiche, ma anche in altre discipline interconnesse, ivi compresa la neuroscienza. Sbriglia mi ha parlato dell’ipotesi progettuale di far migrare il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dal Ministero della Giustizia alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e, in verità, seppure ancora in forma embrionale, non è assurdo, anzi, appare rivolto a dare maggior peso proprio alle realtà degli enti locali e delle stesse regioni, perché anch’esse devono sentirsi partecipi di un bisogno di sicurezza per le collettività e di risocializzazione per le persone detenute. Tale complesso compito non può essere di esclusivo appannaggio del ministero della Giustizia, il quale, in questa partita, dovrebbe invece, semmai, recitare il ruolo rigoroso di arbitro e non di gestore, verificando se tutto venga realizzato nel rispetto della nostra Costituzione e delle leggi. Non dovrò certamente essere io a ricordare le grandi criticità che, ad oggi, l’attuale sistema penitenziario, così com’è organizzato sul piano amministrativo, mantenendo un suo vertice stabilmente incardinato nel potere giudiziario, ancorché il Capo del DAP sia un magistrato collocato fuori ruolo per il tempo dell’incarico di natura politica, ha palesemente dimostrato. Ancora tutte da chiarire sono, in verità, le responsabilità del ministero su quanto di terribile si è verificato nel marzo del 2020, con i detenuti in rivolta, con i reparti detentivi distrutti e dati alle fiamme, con i ristretti che inscenavano proteste sui tetti, appaiati a loro, qualche mese dopo, gli stessi agenti che facevano altrettanto, come la triste ed opaca storia di Santa Maria Capua Vetere ci ricorda, e poi i suicidi, tanti, tra detenuti e gli stessi operatori penitenziari. Le immagini di carceri apparentemente moderne dove mancava perfino l’acqua corrente potabile, carceri senza luoghi di culto attrezzati, anche nella mia regione (penso alla casa circondariale di Udine in particolare) ma rimediati di volta in volta, senza spazi verdi o un campo di terra battuta dove svolgere un minimo di attività sportive, necessarie, ove non si volesse trasformare i reclusi in statue di pietra, oppure ai servizi sanitari descritti spesso dalle cronache come indecenti, capaci essi di tradursi in altra malattia e stress psicologico non solo per le persone ristrette ma anche per gli stessi agenti della polizia penitenziaria e per gli altri operatori. Sappiamo di carceri che hanno strutture spesso fatiscenti o inadeguate (sempre per la mia regione, il Friuli Venezia Giulia, penso al carcere di Pordenone), oppure dove al proprio interno si costruivano, e si costruiranno, altre carceri, sopprimendo quei pochi spazi verdi, quei polmoni di area aperta che fanno il bene non solo delle persone detenute, ma anche di quello di quanti in quei posti vi lavorino. Ecco perché, allora, sarebbe per davvero utile e necessario cambiare angolo visuale, immaginare soluzioni davvero alternative, fare appello a veri esperti di vita comunitaria e di gestione di grandi organizzazioni, perfino “pescando” nel mondo delle imprese, sia pubbliche che private; d’altronde, una volta che anche un grande manager privato fosse ingaggiato, per il solo fatto di essere investito di responsabilità gestionali in un settore pubblico così delicato e sensibile per lo Stato, diverrebbe esso stesso un pubblico dirigente e ne risponderebbe difronte alle leggi, così recuperando e salvandone il profilo pubblicistico. Ma, e spero che la Ministra Cartabia ci rifletta, almeno si avrebbe a che fare con manager esperti e, seguendo le idee di Sbriglia, non sarebbe assolutamente impossibile anche per chi avesse maturato esperienze importanti, ad esempio, come Sindaco di una città, quello di svolgere un incarico di capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, idem ove fosse un manager che provenisse da importanti organizzazioni non governative (penso alla Comunità di San Egidio, per fare un esempio facilmente comprensibile, una organizzazione privata capace di sfamare migliaia di persone, di aiutarle sul piano della fragilità socio-economica, di accompagnarle verso percorsi di reinserimento, ma potrebbero essere in tante altre, si pensi ad esempio, in tema di tossicodipendenza, a quelle realtà come San Patrignano o la Comunità la Collina di Don Ettore Cannavera), forse che i loro migliori amministratori farebbero più danni di quelli che potrebbe causare un magistrato che fino al giorno del suo insediamento nel DAP, semmai, sosteneva le accuse o produceva sentenze nei tribunali? Attendo, perciò, con interesse il progetto del CESP, come il contributo della società civile per realizzare una seria riforma penitenziaria, consentendo a noi legislatori di tradurlo, con la doverosa libertà di cui disponiamo e con il supporto tecnico dei nostri uffici parlamentari, in una fattibile proposta o disegno di legge. Ciò gioverebbe anche a migliorare la stessa immagine della Magistratura, rafforzandone l’autonoma ed indipendenza, e tutto alla luce del sole, quel sole oggi negato a persone detenute ed a operatori penitenziari. *Coraggio Italia Da Roma a Torino arte e teatro in carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 27 aprile 2022 Continueranno anche nel mese di maggio eventi artistici per celebrare la IX Giornata del Teatro in carcere, organizzata dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere in occasione del 60° World Theatre Day (Giornata Mondiale del Teatro) con i patrocini di Ministero della Giustizia, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità, Università Roma Tre e International Theatre Institute (ITI-Unesco). A Urbino, presso la Scuola di scienze motorie dell’Università “Carlo Bo” si discuterà della valenza pedagogica del teatro all’interno del contesto penitenziario, nel corso del seminario “Dialoghi tra Pedagogia. Interverranno Rosella Persi (Docente di Pedagogia generale e Sociale), Enrichetta Vilella (Coordinatrice area educativa Casa Circondariale di Pesaro), Vito Minoia (Presidente Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere ed Emiliano Poddi (Scrittore, docente alla Scuola Holden Contempary Humanities di Torino) che interpreterà un estratto da “Vanadio, l’ultimo racconto del Sistema periodico di Primo Levi”. Alle 21,45, al Teatro Raffaello Sanzio con il Patrocinio della Città di Urbino sarà rappresentato il Secondo studio scenico della performance “I sopravvissuti”. Sempre oggi, nella casa circondariale di Potenza, inaugurazione di Extra Moenia - Spazio di connessione territoriale, progetto di rigenerazione urbana a cura della Compagnia Teatrale Petra di Satriano di Lucania vincitore dell’avviso pubblico Creative Living Lab promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. Domani, 27 aprile, nella sala teatro della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino andrà in scena Modafferi, di e con Claudio Montagna. La performance, realizzata nell’ambito del progetto “Per Aspera ad Astra” coinvolgerà il pubblico presente, composto da operatori dell’Istituto e detenuti del padiglione C. Nella casa di reclusione “F. Saporito” di Aversa, la Giornata sarà celebrata domani con letture di frammenti storici dalle quattro giornate di Napoli e di alcuni versi di Raffaele Chiurazzi, a cura del regista Antonio del Prete. Il ciclo di eventi di aprile si concluderà con due iniziative in programma per sabato 30. Nella sala comunale di Arienzo laboratorio teatrale partecipato della Compagnia La Flotta Nella casa circondariale di Arienzo di Arienzo 30 aprile Sala comunale Laboratorio teatrale partecipato con la Compagnia teatrale della casa circondariale “La Flotta” della casa circondariale “G. De Angelis”, a cura dell’Associazione Polluce A Roma si terrà la “Passeggiata culturale”: dal complesso del San Michele a Regina Coeli con partenza alle ore 15,00 da Piazza Santa Cecilia. L’itinerario, organizzato dall’Associazione Tevereterno onlus e dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, dopo i saluti della Presidente del Municipio I Lorenza Bonaccorsi, si articolerà tra il complesso monumentale di San Michele a Ripa Grande, illustrato da Maurizio Caperna, docente di restauro architettonico presso la Facoltà di Architettura della “Sapienza” - Università di Roma e il carcere di Regina Coeli. La partecipazione è gratuita (per info scrivere a info@tevereterno.org, teatrocarcereitalia@libero.it.) Al pubblico verrà presentato il Protocollo d’Intesa sulla Promozione del Teatro in Carcere tra il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, il Ministero della Giustizia (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - DAP e Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità - Dgmc) e l’Università Roma Tre. Sì della Camera alla riforma del Csm, ignorate le proteste dei magistrati di Giulia Merlo Il Domani, 27 aprile 2022 La riforma dell’ordinamento giudiziario è stata approvata alla Camera con 328 voti favorevoli: la maggioranza ha tenuto fede agli accordi e la prossima settimana il testo arriverà in Senato per il via libera finale. “Tutto è perfettibile, ma questa è la riforma migliore possibile”, ha detto la ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Il governo spera che non ci sia bisogno della fiducia, come ha auspicato il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto che si è detto “convinto della lealtà delle forze di maggioranza”. Tuttavia, non è detto non possano sorgere nuove tensioni: la senatrice Giulia Bongiorno ha sempre detto che il testo potrebbe essere migliorato e la Lega, al momento della dichiarazione favorevole di voto, ha detto che alcune modifiche verranno riproposte al Senato. In questo caso - anche se dal ministero della Giustizia l’ipotesi viene assolutamente esclusa - l’unica strada sarebbe quella della fiducia. Anche perché la riforma è a tutti gli effetti una corsa contro il tempo: a luglio si dovrà eleggere il nuovo Consiglio superiore della magistratura e, per farlo con la nuova legge elettorale, il testo deve essere approvato (anche con il decreto che ridisegna i collegi elettorali) entro maggio. Intanto, però, la ministra Marta Cartabia incassa il successo della Camera dopo un difficile iter di limatura del testo per venire incontro ai fastidi della maggioranza. A Montecitorio tutto è andato secondo pronostico: gli unici a muoversi contro le indicazioni di maggioranza sono stati di deputati di Italia Viva, che hanno votato a favore di tutti gli ordini del giorno presentati contro il parere del governo, compresi quelli di Fratelli d’Italia. Al momento del voto finale, invece, si sono astenuti definendola, per bocca di Cosimo Ferri, una “riforma inutile, una scorciatoia”. Se tutto andrà come previsto, quindi, la guardasigilli avrà rispettato le promesse del Pnrr, che prevedevano l’approvazione delle tre riforme: penale, civile e ordinamento giudiziario, di cui ora andranno redatti i decreti attuativi. Il ddl interviene in modo sostanziale su alcuni dei temi più delicati nel rapporto tra magistratura e politica e dovrebbe risolvere il problema del cosiddetto “correntismo” - l’interferenza dei gruppi associativi nel condizionare le elezioni del Csm e delle nomine ai vertici degli uffici direttivi - esploso con il caso Palamara. I punti salienti riguardano lo stop alle porte girevoli tra magistratura e politica: i magistrati che si candidano in politica, una volta eletti e svolto il loro mandato, non potranno più tornare ad esercitare funzioni giurisdizionali ma lavoreranno presso i ministeri; i magistrati non eletti non potranno svolgere la professione nel territorio in cui si sono candidati; i magistrati chiamati in ruoli tecnici (come i gabinetti dei ministeri) rimarranno invece fuori ruolo un anno e non potranno candidarsi a ruoli dirigenziali per tre. Per limitare il correntismo, vengono previste una serie di regole per il Csm: basta con le nomine “a pacchetto” (salvo alcune eccezioni), ma gli uffici vacanti andranno coperti in ordine cronologico; maggiore pubblicità sul vaglio dei candidati che devono essere tutti ascoltati in commissione; i criteri per le nomine vengono riordinati in via legislativa mentre ora vengono elencati in circolari interne del Csm. Inoltre, i membri della commissione Incarichi direttivi saranno incompatibili con la presenza anche nella sezione disciplinare. Inoltre, la nuova legge elettorale del Csm dovrebbe limitare l’influsso dei gruppi associativi attraverso un meccanismo di tipo maggioritario binominale con correttivo proporzionale e il ridisegno dei collegi elettorali. Inizialmente, su proposta della Lega, era stato inserito il sorteggio delle corti d’appello da comprendere nei collegi ma la norma è poi stata eliminata dal testo finale. Inoltre, il Csm passa dai 27 membri attuali a 33: 20 togati, 10 laici e 3 membri di diritto (presidente della Repubblica, procuratore generale e primo presidente di Cassazione). Tra le norme più contestate dai magistrati ci sono l’introduzione del voto agli avvocati (unitario e solo sulla base delle segnalazioni degli iscritti al consiglio dell’ordine) nei consigli giudiziari che valutano la professionalità delle toghe; il passaggio di funzioni da requirente a giudicante ridotto a una sola volta nella carriera ed entro i dieci anni dall’inizio della professione e l’introduzione del fascicolo personale del magistrato che viene implementato ogni anno (invece che ogni quattro) seguendo anche l’iter dei vari provvedimenti. Alla riforma si è fortemente opposta l’Associazione nazionale magistrati, che sta valutando di indire uno sciopero, proprio come era già stato fatto anche per la precedente riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006 targata governo Berlusconi. La decisione definitiva verrà presa in una assemblea straordinaria indetta per il 30 aprile: le critiche principali, indicate dal presidente Giuseppe Santalucia, sono “una organizzazione gerarchica che contrasta coi valori costituzionali” e l’utilizzo “della leva del disciplinare per inibire i magistrati”. La volontà di sciopero è molto forte a livello territoriale ed è stata promossa da molte articolazioni locali dell’Anm - da Nola a Busto Arsizio - mentre dubbi maggiori sembrano essere sorti a livello centrale. La riforma viene unanimemente considerata vessatoria e controproducente, ma le critiche riguardano la strategia del sindacato delle toghe. Dopo le pesanti critiche di Magistratura democratica alla gestione dell’Anm da parte di Santalucia, definita “timida e intempestiva”, anche Nino Di Matteo ha espresso dubbi. “I cittadini non capirebbero lo sciopero: i magistrati devono avere il coraggio di spiegare i profili pericolosi della riforma. Non possiamo scaricare sui cittadini un ulteriore fattore di disservizio”, ha detto al Gr Rai nei giorni scorsi. L’effetto di uno sciopero, infatti, sarebbe per lo più inutile: l’accordo politico sul testo sembra blindato e da via Arenula non trapelano aperture sulla possibilità di rimettere mano al ddl per venire incontro alle istanze delle toghe. Il problema riguarda anche i tempi dell’iniziativa: lo sciopero, infatti, rischia di essere indetto dopo il via libera definitivo alla riforma. Riforma giustizia al giro di boa di Dario Ferrara Italia Oggi, 27 aprile 2022 Giro di boa per la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio superiore della magistratura: approvato alla Camera, il ddl passa al Senato. Con alcune novità introdotte dall’aula rispetto alla commissione Giustizia. Giro di boa per la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio superiore della magistratura: approvato ieri alla Camera (328 voti a favore, 41 contrari e 25 astenuti), il ddl passa al Senato. Con alcune novità introdotte dall’aula rispetto alla commissione Giustizia: addio sorteggio dei collegi per l’elezione del Csm; per i componenti laici la parità di genere va garantita fra i candidati e non fra gli eletti; salta il collocamento in ruolo separato presso l’avvocatura generale dello Stato per i magistrati che hanno ricoperto incarichi elettivi o di Governo o apicali come capo di gabinetto di un ministro. Confermati invece: fascicolo performance di giudici e pm; voto unitario della componente-avvocati sulla valutazione dei magistrati; stop nomine a pacchetto per gli incarichi di vertice; poteri al procuratore nell’organizzazione dell’ufficio; addio alle porte girevoli con la politica; separazione più netta tra funzione requirente e giudicante. Estinzione e riabilitazione. Rientrano nella delega le modifiche all’ordinamento della magistratura. Immediatamente precettive, invece, le norme sugli illeciti disciplinari: punito il pm che induce l’emissione di un provvedimento restrittivo della libertà non trasmettendo al giudice elementi rilevanti “per negligenza grave e inescusabile”. Ma scatta l’estinzione dell’illecito per la toga-lumaca che rispetta il piano di smaltimento dell’arretrato adottato dal capo dell’ufficio, mentre può ottenere la riabilitazione il giudice o il pm sanzionato con ammonimento o censura. Criteri di priorità. Delegata a Palazzo Chigi la riduzione degli incarichi direttivi e semidirettivi. Possibile diventare consigliere di Cassazione dopo dieci anni e non più sedici di esercizio delle funzioni di merito; quanto al massimario, metà dei componenti dell’ufficio può essere destinata a svolgere funzioni giurisdizionali. Per gli uffici giudicanti di tutta Italia, poi, le tabelle organizzative valgono per quattro anni invece di tre; in quelli requirenti il procuratore deve predisporre un “progetto organizzativo dell’ufficio” con “le misure” necessarie a garantire “l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale”. Il tutto indicando “criteri di priorità” le notizie di reato da trattare con precedenza: pesano i criteri generali deliberati dal Parlamento, il numero degli affari da trattare, la specificità del territorio e le risorse disponibili. Passaggio di funzioni. Il magistrato può cambiare di funzione - tra giudicante e requirente - una sola volta entro il nono anno di attività. Il paletto non vale se si passa dal penale al civile e viceversa. Nessuna limitazione per il conferimento delle funzioni di legittimità. Al Csm i togati salgono da sedici a venti e i laici da otto a dieci. E il sistema elettorale dei primi diventa un misto di proporzionale e maggioritario: i collegi sono determinati con decreto del ministero della Giustizia almeno quattro mesi prima del voto. Chi fa parte della commissione disciplinare non può entrare in quella che conferisce incarichi di vertice. Per i magistrati fuori ruolo il tetto è su numero complessivo e durata degli incarichi extra-giurisdizione. Addio funzioni. Arriva il divieto di esercitare contestualmente funzioni giurisdizionali e ricoprire incarichi elettivi e governativi, sia per cariche elettive nazionali e locali, sia per gli incarichi di governo nazionali, regionali e locali. A fine mandato le toghe che hanno assunto cariche elettive non possono più tornare a svolgere alcuna funzione: i magistrati ordinari sono collocati fuori ruolo. Chi si è candidato senza essere stato eletto non potrà tornare a lavorare nella regione per tre anni. Dal fascicolo sui flop alla fine delle porte girevoli: il ddl in pillole di Errico Novi Il Dubbio, 27 aprile 2022 Tra i punti forti della riforma, il voto del Foro nei Consigli giudiziari e l’ingresso di avvocati e professori nell’Ufficio studi del Csm. Dopo mesi di discussioni estenuanti, prima in sede “politica” coi vertici tra ministra e partiti, poi anche in commissione, la Camera ha dato dunque ieri il via libera, senza fiducia, alla riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm. Si tratta di un provvedimento, a detta di tutti, frutto di un compromesso nella maggioranza. Ma considerate le diverse sensibilità sul tema, è il massimo che si potesse ottenere. Vediamo in sintesi i punti principali e le novità maggiormente significative. Sistema elettorale del Csm - Archiviato il collegio unico nazionale, si tenta di articolare il voto, almeno per la quota dei magistrati giudicanti, su basi territoriali più ristrette, con 4 collegi che eleggeranno 2 togati ciascuno (con parità di genere). Gli altri 5 consiglieri giudici saranno eletti con recupero proporzionale, per garantire rappresentanza ai gruppi minori. A questi primi 13 togati, si aggiungono i 5 scelti tra i pm e i 2 consiglieri eletti tra i magistrati di legittimità. In tutto i componenti magistrati da eleggere passano dunque da 16 a 20, ai quali si aggiungono non più 8 ma 10 laici, per un totale di 30 consiglieri, Completano il plenum, come sempre, i vertici della Suprema corte. Nomine - L’assegnazione degli incarichi direttivi e semidirettivi sarà decisa in base all’ordine cronologico delle scoperture degli uffici, per evitare le famigerate “nomine a pacchetto”, quindi i preventivi accordi tra le varie correnti. Le procedure di selezione saranno improntate alla massima trasparenza, con pubblicazione sul sito del Csm di tutti i dati del procedimento e i curricula degli aspiranti. Diventerà obbligatoria la preventiva audizione del candidato. Una volta deliberato nell’incarico, il neo dirigente dovrà frequentare un apposito corso di formazione. Grande attenzione è riposta nelle capacità organizzative dell’ufficio da parte del magistrato. Voto del Foro nei Consigli giudiziari - Nei Consigli giudiziari, i “mini Csm locali”, è introdotta la facoltà per gli avvocati ed i professori universitari che ne fanno parte di partecipare alle discussioni sulle valutazioni di professionalità delle toghe. I soli componenti avvocati potranno anche esprimere un voto, unitario, se c’è stata una preventiva segnalazione (anche positiva) sul magistrato deliberata da parte del locale Consiglio dell’ordine. Nel caso in cui i rappresentanti del Foro intendano discostarsi dalla segnalazione, sarà necessaria una nuova determinazione del Coa. “Porte girevoli” - È introdotto il divieto di esercitare in contemporanea funzioni giurisdizionali e ricoprire incarichi elettivi e governativi. Il divieto vale per le cariche elettive nazionali e locali e per gli incarichi di governo nazionali, regionali e locali. Viene previsto l’obbligo di collocarsi in aspettativa (senza assegni in caso di incarichi locali) prima di assumere l’incarico. Attualmente c’è la possibilità di cumulo di indennità con lo stipendio del magistrato. Non è più possibile essere candidati nella regione in cui è compreso in tutto o in parte l’ufficio giudiziario in cui il magistrato ha prestato servizio negli ultimi tre anni. Terminato il mandato, il magistrato che ha ricoperto una carica elettiva di qualunque tipo non potrà più tornare a svolgere alcuna funzione giurisdizionale. Verrà collocato fuori ruolo presso il ministero della Giustizia, conservando comunque lo stipendio percepito al momento della candidatura a prescindere dalla funzione che andrà a svolgere. Il magistrato che si è candidato e non è stato eletto, per i tre anni successivi non potrà tornare a lavorare nella regione che ricomprendeva la circoscrizione elettorale, né potrà assumere incarichi direttivi e svolgere le funzioni penali più delicate (pm e gip/gup). Se proveniva da un ufficio con competenza nazionale (ad esempio la Cassazione), non potrà svolgere funzioni giurisdizionali per tre anni. Ricollocamento al termine di incarichi non elettivi - Particolarmente articolata la disciplina per il “rientro” di quelle toghe che assumono incarichi di governo, anche locale (dai ministri e sottosegretari agli assessori regionali) o incarichi “apicali” (dai capi di gabinetto in un dicastero ai capi dipartimento in una giunta locale). Nel primo caso si potrà scegliere tra il “cuscinetto” di un anno da fuori ruolo (al ministero di appartenenza o a Palazzo Chigi) e la definitiva rinuncia a funzioni direttamente giurisdizionali. Nel secondo caso, l’opzione per l’anno fuori ruolo prevede una “decantazione” di ulteriori tre anni in cui il rientro nella giurisdizione avverrà senza che si possano assumere incarichi direttivi o semidirettivi. Il tutto vale solo per le nomine successive all’entrata in vigore della legge, ma in prospettiva limiterà molto l’appetibilità degli incarichi apicali di cui oggi fanno incetta, ad esempio, i presidenti di sezione del Consiglio di Stato. “Fuori ruolo” - Si prevede di ridurre il numero massimo dei magistrati fuori ruolo, attualmente fissato in 200 unità. La disposizione sarà precisata con i decreti attuativi. Dopo un mandato di almeno un anno, i magistrati resteranno per ancora un anno fuori ruolo, ma non in posizioni apicali, poi rientreranno; per i successivi 3 anni non potranno ricoprire incarichi direttivi. “Chi giudica non nomina” - I componenti della sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli non potranno far parte anche delle commissioni che decidono su incarichi direttivi, trasferimenti d’ufficio e valutazioni di professionalità delle toghe. Avvocati e professori nella “stanza dei bottoni” del Csm - Nella segreteria e nell’Ufficio Studi e documentazione del Csm, semaforo verde per gli “esterni alla magistratura” (avvocati, professori universitari, dirigenti amministrativi) previo superamento di un concorso. Ai laici sarà riservata una quota minima garantita, seppur non maggioritaria. Al momento i due uffici sono composti solo da magistrati, spesso con logiche di spartizione correntizia. Accesso in magistratura - Si torna al passato, con la possibilità di partecipare al concorso direttamente dopo la laurea in Giurisprudenza. Finisce l’obbligo di frequentare le scuole di specializzazione o di aver già conseguito l’abilitazione alla professione forense. Vengono valorizzati, ai fini dei titoli per il concorso, i tirocini formativi e l’aver prestato servizio presso il nuovo Ufficio per il processo. L’esame sarà incentrato sulle prove scritte, tre, con la conseguente riduzione delle materie orali. Passaggi di funzione. Sarà possibile un solo passaggio tra le funzioni requirente e giudicante penale entro 10 anni dall’assegnazione della prima sede. Tale limite non varrà per il passaggio al settore civile o dal settore civile alle funzioni requirenti, nonché per il passaggio alla Procura generale presso la Cassazione. Fascicolo di valutazione del magistrato - Si tratta della novità che sembra suscitare i maggiori allarmi nell’Anm. Dovrà raccogliere ogni anno le statistiche relative agli esiti delle decisioni (per i giudici, inclusi i civili) e delle richieste, di rinvio a giudizio o di misure cautelari (per i pm), nelle fasi successive del procedimento, con particolare riguardo a “eventuali gravi anomalie”. Via Arenula ricorda che non saranno inserite valutazioni di merito, dunque giudizi sui singoli provvedimenti, ma solo dati statici aggiornati, e che non si tratterà dunque di “pagelle”. In ogni caso, tali riscontri su eventuali troppo frequenti “insuccessi processuali” degli atti del singolo magistrato peseranno sia sulle valutazioni di professionalità quadriennali che nella corsa a incarichi direttivi o semidirettivi. Fascicolo del magistrato: sulle valutazioni tensione tra Anm e governo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 aprile 2022 Costa: nessuna schedatura. I magistrati: logica aziendalistica impropria. Che sia una novità storica oppure esempio di logica aziendalistica impropriamente tradotta nel contesto della giurisdizione, il fascicolo del magistrato costituisce uno dei principali punti di tensione tra magistratura e politica. Ne rivendica la paternità Enrico Costa di Azione per il quale si tratta di “un documento che permetterà finalmente di monitorare le attività del singolo giudice o Pm, le loro performance e i loro meriti, ma anche gli errori, le inchieste flop, le sentenze ribaltate e gli arresti ingiusti. Nessuna schedatura, ma una vera e propria fotografia della carriera di ciascuno. Un’innovazione storica che consentirà a chi è più bravo, a chi lavora silenziosamente senza essere organico alle correnti, di poter fare carriera”. Ma per l’Anm, il fascicolo per la valutazione “travasa le logiche aziendalistiche all’interno dei palazzi di giustizia, raccoglie a campione gli esiti dei successivi gradi di giudizio, affastella elementi inutili, o al più neutri, con l’intento di colorarli incongruamente come indice univoco di cadute di professionalità”. Ma così, nella lettura dell’Associazione magistrati emerge un vizio di fondo, quello di pensare che “la riforma di una sentenza o il rigetto di un’istanza cautelare del pm riveli l’errore commesso dal magistrato che è stato “sconfessato”. Una posizione culturale di retroguardia: così si dimentica che la verità processuale si costruisce in un percorso graduale alimentato nella dialettica e nell’acquisizione della prova in ossequio alle regole del giusto processo e non è elemento già precostituito”. Di certo un bisogno di valutazioni di professionalità meno burocratiche e più aderenti alla realtà è testimoniato tuttavia dai dati, quelli fronti dalla ministra della Giustizia Maria Cartabia in risposta a interrogazione parlamentare nell’autunno scorso sono eloquenti, con il 99% e oltre di giudizi positivi il periodico test sul lavoro svolto è anche al di sotto della semplice routine, piuttosto un passaggio dall’esito scontato. Dove può essere allora che il fascicolo del magistrato rappresenti una risposta sbagliata a una domanda corretta, sia pure nel campo assolutamente opinabile dei criteri di valutazione delle attività umane. La riforma prevede testualmente l’istituzione del fascicolo per la valutazione magistrato, contenente, per ogni anno di attività, i dati statistici e la documentazione necessaria per valutare il complesso dell’attività svolta, compresa quella cautelare, sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo, la tempestività nell’adozione dei provvedimenti, l’esistenza di caratteri di grave anomalia in rapporto all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi o nei gradi del procedimento e del giudizio e “ogni altro elemento richiesto ai fini della valutazione”. Il ministero però prova a ridimensionare l’impatto della novità, sottolineando come il fascicolo esiste già adesso, con i provvedimenti a campione prodotti ogni 4 anni (a ogni valutazione) dal magistrato sull’attività svolta e con le statistiche della propria attività confrontata a quella dell’ufficio. La novità ora starebbe soprattutto nell’alimentazione annuale del fascicolo con la storia complessiva delle attività svolte. Csm, Cartabia esulta: “La migliore riforma possibile” di Simona Musco Il Dubbio, 27 aprile 2022 Il ddl passa a Montecitorio, la guardasigilli ringrazia i partiti. Ora tocca al Senato, governo ottimista. C’è chi l’ha definita “riformetta”, chi ha precisato che l’avrebbe voluta diversa, chi, invece, ne ha rivendicato la paternità definendola una grande vittoria. E alla fine, l’Aula della Camera ha approvato la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm, con 328 favorevoli, 41 contrari e 25 astensioni, ovvero il gruppo di Italia Viva, che ha mantenuto fede alle promesse della vigilia. “Siamo ad un passaggio importante. In questo passaggio abbiamo proposto la riforma migliore possibile, ben consapevoli che come ogni riforma sempre tutto è perfettibile”, ha detto la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, poco prima del voto finale. E ora la parola passerà al Senato, dove, ha assicurato il sottosegretario Francesco Paolo Sisto, “sono convinto che la lealtà delle forze di maggioranza porterà ad una rapida conclusione”. Ed è stato proprio Sisto uno dei “protagonisti” della discussione di ieri a Montecitorio, dopo la decisione di dare parere sfavorevole all’ordine del giorno che impegnava il governo a ragionare sul “privilegio” della doppia indennità ai fuori ruolo. Un passo indietro che rappresenterebbe una “presa in giro”, secondo la deputata-magistrata Giusi Bartolozzi, del gruppo Misto, che ha ricordato le parole pronunciate dal sottosegretario solo pochi giorni fa, quando aveva ammesso che la questione richiederebbe “un intervento ad ampio respiro con una trattazione complessiva dell’intero sistema”. “Ma non c’eravamo detti, al termine dei lavori, che avreste ripensato, in un ulteriore provvedimento, di introdurre la modifica normativa? Perché dà parere contrario?”, ha chiesto Bartolozzi. Domanda alla quale si sono associati anche Fratelli d’Italia e Italia Viva, ma rimasta senza risposta. E Italia Viva, sin dall’apertura dei lavori, ha annunciato il voto favorevole a tutti gli ordini del giorno relativi a separazione delle carriere e porte girevoli, presentate in particolare da Fratelli d’Italia e Lega. Ma sui temi “espunti” dalla riforma il governo è rimasto compatto. Dall’Aula diverse sono state le frecciatine rivolte all’Associazione nazionale magistrati, che sabato deciderà se proclamare lo sciopero come forma di protesta contro una riforma ritenuta “punitiva”. “Mi auguro che non dobbiamo assistere al triste e vergognoso spettacolo di un potere dello Stato che sciopera contro un altro potere dello Stato - ha affermato Maurizio Lupi, di Noi con l’Italia -. Uno sciopero ingiustificabile già nel fatto di essere stato minacciato anche perché quanto stiamo per votare in quest’Aula è un atto quasi dovuto”. Ad esultare è soprattutto il vicesegretario di Azione Enrico Costa, secondo cui la riforma rappresenta “un’inversione a U” rispetto ad una legislatura aperta con “la spazza-corrotti e il fine processo mai”. Una vittoria, considerando che “le correnti della magistratura con queste norme perderanno potere”, motivo per cui “oggi si scatenano contro questo provvedimento e parlano di stravolgimento del modello costituzionale della magistratura”. Ma per il deputato si tratta, piuttosto, dello “stravolgimento della prassi per cui molto spesso coloro che sono più vicini alle correnti sorpassano i più bravi, i più meritevoli”. Da qui il ringraziamento alla ministra Cartabia, non condiviso da Cosimo Ferri, che pure ha ribadito la fedeltà di Italia Viva al governo, ma non senza parlare di una rinuncia della politica sul tema giustizia. “Le riforme soprattutto in tema di giustizia non devono essere mai punitive, devono essere di confronto, di dialogo, però la politica nel confronto con l’altro potere dello Stato non può inchinarsi o arretrare”. E ciò perché “questa riforma agevola il carrierismo dei magistrati”, in quanto anche le pagelle sarebbero “in mano alle correnti”. Insomma, una “mini-riforma” che “crea dei privilegi e delle eccezioni e l’eccezione diventa la regola. La ministra ha scelto una scorciatoia, ha scelto la strada di una politica che si arrende, che rinuncia e ha paura”. Per Matilde Siracusano, di Forza Italia, “questa non è la nostra riforma”, ma si tratta comunque della “migliore legge sull’ordinamento giudiziaria che si è prodotta”. Per poi attaccare l’Anm, che minaccerebbe lo sciopero “per impedire al legislatore di esercitare la propria funzione”. E che non si tratta di una riforma che rispecchia l’idea di giustizia del proprio partito lo ha affermato anche la grillina Valentina D’Orso, rivendicando il testo dell’ex ministro Alfonso Bonafede. Ma trattandosi di una mediazione tra forze politiche distantissime, per la deputata qualche vittoria c’è, come il “definitivo stop alle cosiddette “porte girevoli”“ e lo stop alle nomine a pacchetto, “una prassi consolidatasi presso il Consiglio superiore della magistratura che ha consentito alle correnti di stringere accordi per spartirsi i vertici degli uffici giudiziari più influenti”. Soddisfatto, invece, il deputato dem Alfredo Bazoli, che ha rivendicato la volontà di non colpire le toghe: “Abbiamo sempre agito all’insegna di due stelle polari: la salvaguardia dei principi costituzionali, e l’interesse dei cittadini italiani a una giustizia efficiente. In nome dei primi, abbiamo fatto da argine a scelte che avrebbero compromesso l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati, come la responsabilità civile diretta o il sorteggio per l’elezione dei componenti togati del Csm. In nome invece dell’interesse dei cittadini italiani, abbiamo lavorato per introdurre principi volti ad aumentare l’efficienza, facendo emergere le qualità e i meriti dei magistrati”. Riforma del Csm, più ombre che luci di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 27 aprile 2022 Il voto alla Camera chiude la prima fase della vicenda del Ddl 2681 sulla riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm presentato il 28 settembre 2020 dal ministro Bonafede: una proposta piuttosto sgangherata ispirata a un ridimensionamento del Csm, con ampie concessioni alla demagogia del sorteggio. La Commissione, nominata dalla nuova ministra Cartabia, presieduta dal professor Massimo Luciani ha elaborato una organica riscrittura della riforma Bonafede, con l’abbandono del ridimensionamento del Csm e ha proposto un innovativo sistema elettorale. Dopo una lunga gestazione il Consiglio dei ministri ha varato un maxiemendamento che ha raccolto la logica della commissione Luciani, ma ha introdotto discutibili nuove disposizioni. Su questo testo si è poi sviluppato un fuoco di fila da parte di esponenti delle stesse forze politiche di governo con emendamenti che ne avrebbero stravolto l’impianto. La filosofia di questi emendamenti e, ancor più, il battage di dichiarazioni che li accompagnava sembravano ispirati ad uno spirito di vendetta e di umiliazione della magistratura, più che alla costruzione di una organizzazione idonea a perseguire l’efficienza del sistema di giustizia. Il tutto in un clima surreale in cui si dimenticava che gli ambiziosi obiettivi di riduzione dei tempi del processo civile e penale perseguiti con il Pnrr sostanzialmente si reggono sulle spalle della magistratura. Ardite giravolte poi sul sistema elettorale del Csm. Se il sonno della ragione produce mostri, il sacrificio sull’altare della demagogia genera assurdità. Gettato nel cestino il Voto Singolo Trasferibile, proposto dalla Commissione Luciani, si passa a un sistema maggioritario binominale. Fino a ieri andava di moda lo slogan “piccoli collegi per avvicinare candidati ed elettori”. Poi contrordine: sorteggio dei grandi collegi. L’assurdità del metodo ha infine indotto gli stessi presentatori a fare marcia indietro. Le richieste più demagogiche nel dibattito parlamentare in Commissione hanno creato un clima di attacco alla magistratura che ha provocato giuste reazioni, ma insieme chiusure corporative nell’Anm fino a evocare lo sciopero. Il testo infine approvato ha ridimensionato le punte estreme, ma rimangono sgrammaticature e irrazionalità e soprattutto il sapore di uno spirito se non di vendetta, certo di umiliazione della magistratura. Un recente scritto di Luciano Violante è intitolato “Senza vendette. Ricostruire la fiducia tra magistrati, politici e cittadini”. La magistratura non può ignorare il discredito derivato dalla penosa vicenda dell’Hotel Champagne e ha il dovere di impegnarsi per riconquistare la fiducia dei cittadini, ma ciò e possibile fuori di un clima di “vendette”. Vediamo luci e ombre del testo approvato che se passerà rapidamente al Senato consentirà il rinnovo del Csm, nei tempi previsti o almeno con un minimo ritardo. Le ombre: occhiuto sistema di controllo della produttività del singolo magistrato, a prescindere dalla organizzazione complessiva dell’ufficio, valutazione dell’esito dei procedimenti attraverso la rilevazione delle “performance” evocando impraticabili parametri numerici, introduzione di nuove figure disciplinari su presupposti del tutto vaghi, accentuazione della gerarchia interna, limitazione drastica dei passaggi tra giudici e pm. Le luci: riconoscimento delle cosiddette “circolari” del Csm di attuazione dei principi generali fissati per legge, eliminazione del sistema di punteggi per il conferimento degli incarichi direttivi, lasciando spazio a un ineludibile e necessario margine di discrezionalità, valorizzazione del ruolo dell’avvocatura nei Consigli giudiziari, controllo del Csm sui progetti organizzativi delle Procure da raccordare alle tabelle del Tribunale, ringiovanimento della magistratura con la possibilità di accesso al concorso subito dopo la laurea. Il chiaroscuro. Di fronte alla demagogia dominante che pretenderebbe, nella “lotta” alle correnti, di ignorare che i magistrati hanno idee diverse e intendono votare i candidati più vicini alle loro posizioni sulla organizzazione della giustizia, i correttivi introdotti al sistema elettorale del Csm consentiranno comunque uno spazio alle posizioni minoritarie. Svoltata questa pagina, più male che bene, ci si dovrà ora impegnare per misure utili a una giustizia migliore e più efficiente. Un tema ad esempio ignorato: con il ritorno all’accesso al concorso subito dopo la laurea occorre un deciso impegno sul tirocinio iniziale dotando la Scuola Superiore della Magistratura del personale docente necessario. L’Associazione Nazionale Magistrati ha tutte le ragioni per raccogliere la protesta dei magistrati, che si vedono attaccati e umiliati proprio quando lavorano a far ripartire la macchina della giustizia dopo l’emergenza Covid. Ma l’Anm sarà all’altezza della sua migliore tradizione se, in luogo dell’evocato sciopero, si impegnerà a indirizzare la protesta in una critica costruttiva e nell’impegno per un migliore servizio di giustizia. Questo lo scatto di orgoglio che ci si aspetta come risposta della magistratura italiana per ricostruire la fiducia dei cittadini. “Le toghe non scioperino. Non è una legge ad personam ma non risolve il caso Palamara” di Liana Milella La Repubblica, 27 aprile 2022 Intervista all’ex procuratore di Torino Armando Spataro: “Inaccettabile che per Italia Viva abbia trattato il giudice Ferri. No al fascicolo per valutare i magistrati”. No allo sciopero. La legge Cartabia “non è” quella di Berlusconi. “Inaccettabile” Ferri che tratta proprio sul Csm. No al fascicolo per valutare una toga. Ma la riforma non è “devastante”. Parola dell’ex procuratore di Torino, Armando Spataro. Partiamo dallo sciopero, perché è soprattutto di questo, adesso, che si parla nella magistratura. Se è opportuno farlo contro la riforma Cartabia oppure no. È la reazione giusta oppure l’Anm rischia di rompersi l’osso del collo? “Una premessa è d’obbligo: non sono più in magistratura da più di tre anni e corro il rischio di aver perso la conoscenza piena dei problemi degli uffici giudiziari. Ciononostante, in accordo con molti colleghi che stimo, non condivido l’idea di uno sciopero: la riforma Cartabia non ha nulla a che fare con quelle contro cui abbiamo in passato duramente protestato. Serve un confronto forte, ma ragionato, anche perché molte disposizioni, quelle che contengono i principi di delega per i decreti attuativi, possono essere ancora oggetto di intervento del governo. Ma per favore non parliamo di rischi di rompersi il collo!”. La magistratura non è unita sullo sciopero, molte toghe sono preoccupate che gli italiani non lo comprendano, soprattutto in un momento di grave crisi economica e di rincari a ridosso della guerra in Ucraina... “È giusto preoccuparsi della reazione dei cittadini, ma penso che sia soprattutto utile battersi per un’interlocuzione leale e corretta tra i tre separati poteri su cui si regge ogni democrazia, pur se non possiamo trascurare che alcune criticabili scelte appaiono frutto di una vera e propria volontà punitiva nei confronti della magistratura da parte di alcune forze politiche”. Lei ha girato l’Italia più volte contro leggi sbagliate come la riforma costituzionale di Renzi, questa volta lo farebbe contro questa legge? “L’ho fatto e lo rifarei contro altre pessime riforme di quel tipo. E lo sto facendo, ad esempio, a sostegno del no ai quesiti referendari proposti da Lega e radicali. Ma questa riforma non mi suggerisce la necessità di impegni “contro”, ma di impegni “per far capire” quanto inutili e dannose siano certe norme ipotizzate”. Subito dopo l’esplosione del caso Palamara - quindi stiamo parlando del maggio 2019 - Mattarella ha subito chiesto la riforma, e l’ha poi sollecitata più volte. Ma la legge arriva adesso, a ben tre anni di distanza. Il compromesso raggiunto da Cartabia, con una maggioranza che certo non la pensa allo stesso modo sulla giustizia, è accettabile? “Parliamoci chiaro: la storia politica e giudiziaria di questi ultimi decenni consente di affermare che in occasione dell’insediamento di ogni nuovo governo, indipendentemente dalla composizione della maggioranza di turno, la riforma della giustizia costituisce uno dei punti centrali del programma che si intende attuare. Lo è anche per il governo Draghi. Inevitabilmente, dunque, i compromessi tra opposti schieramenti politici, specie in caso di maggioranze fluttuanti, fanno parte del gioco. Ma non tutto si può accettare e credo che, per i partiti, la coerenza rispetto ai principi dichiarati sia la virtù primaria, anche a costo di perdere pezzi di consenso popolare e populista”. Ma soprattutto questa riforma è la risposta giusta al caso Palamara? “Credo che non risolva tutti i problemi emersi con quel caso che ha duramente intaccato la credibilità della magistratura. Ma, al di là delle responsabilità e del coinvolgimento di alcuni magistrati, ciò è avvenuto anche per effetto di modalità d’informazione spesso strumentali e gridate (e non mi riferisco solo ai talk show) che disegnano la magistratura tutta come un’associazione criminale, il Csm come la sua Cupola e i soli Pubblici Ministeri quali “grandi vecchi” e “demoni” che tutto comandano”. E come giudica la presenza assidua di Cosimo Maria Ferri, protagonista altresì del caso Palamara, alla trattativa sulla giustizia? Lui è stato la “voce” di Renzi... “La giudico inaccettabile sul piano politico e dei possibili risultati. Ma aggiungo che sono anche stupito dal fatto che, mentre i magistrati coinvolti nella nota vicenda dell’Hotel Champagne, sono stati - al di là dei procedimenti penali ancora in corso - sottoposti a procedure disciplinari ed alcuni già sanzionati, ciò non è avvenuto per i politici pure presenti a certi incontri. Eppure anche i partiti conoscono codici etici e disciplinari interni”. Tra il 1998 e il 2002 lei è stato componente del Csm. Quindi può valutare la legge “dall’interno”. Che cosa c’è di giusto, oppure di sbagliato, in questa riforma? “Impossibile, per ragioni di spazio, una risposta completa e motivata. Posso dire che trovo del tutto inaccettabili alcuni punti: la possibilità di un solo trasferimento, nel corso della carriera di un magistrato, dalla funzione requirente a quella giudicante e viceversa, nonché un sistema di valutazione della professionalità dei magistrati assurdo, burocratico e impossibile da realizzare. Ancora, il perdurante riferimento alle competenze del Parlamento per la definizione dei criteri generali di priorità nella trattazione dei reati e infine la penalizzazione dei magistrati posti fuori ruolo per incarichi tecnici e non perché candidati a ruoli politici, eletti o non eletti. Sono senz’altro favorevole rispetto ad altre scelte, tra cui il coinvolgimento degli avvocati nelle valutazioni di professionalità. Mi dichiaro indifferente rispetto al sistema elettorale per il Csm”. C’è una corrente - la sinistra di Area - che definisce la riforma “devastante e punitiva”. Lei sottoscriverebbe questi aggettivi? Oppure è un’esagerazione? “Esagerata e generalizzante, spero non frutto della fase elettorale per il Csm in avvicinamento. Bisogna distinguere e selezionare norme criticabili e non, distinguendo - sulla scorta delle parole di Calvino - ciò che è inferno e ciò che non lo è”. In molte reazioni ricorre il paragone con le leggi di Berlusconi sulla giustizia. Certo Cartabia non è il Cavaliere e il governo Draghi non è l’Esecutivo dell’allora capo del Partito delle libertà. Tuttavia, è un paragone che storicamente può reggere? “Assolutamente no, e non vale la pena di motivare la risposta”. Nel merito, la legge elettorale maggioritaria binominale con uno spruzzo di proporzionale eviterà alle correnti di polarizzare il voto sui favoriti? “Ho detto prima che sono abbastanza indifferente rispetto a una possibile simile disciplina. È positivo essere stati capaci di pensare un sistema a due facce, con spazio al proporzionale. Ma è un sistema davvero complicato. Inoltre, le leggi elettorali per il Csm continuano a succedersi sempre motivate dal fine di disarticolare il potere delle correnti. Ma nessuna legge potrà riuscirvi. Quella attuale, ad esempio, non prevede liste di candidati, ma solo candidature individuali, eppure ha determinato il peggior accordo correntizio immaginabile: solo quattro candidati pm, uno per ogni corrente, per i quattro posti da assegnare. Sarebbe bastato un solo voto per essere eletti. È evidente, insomma, che ciascun magistrato che voglia votare con coscienza sosterrà il candidato nelle cui idee si riconosce oltre che in quelle del gruppo che lo sostiene. È la bellezza della democrazia. Ecco perché sono sempre stato favorevole a un sistema proporzionale a liste contrapposte e collegio unico nazionale. Poi toccherà ai magistrati elettori e a correnti e candidati saper esercitare i loro diritti con dignità, senza pensare a vantaggi personali. Sarebbe stato meglio il sorteggio temperato che voleva la Lega e che 2 mila magistrati hanno pur indicato nel referendum promosso dall’Anm? “Sarebbe stata solo una vergogna incostituzionale, da chiunque sostenuta. La ministra Cartabia e alcune forze politiche, infatti, non hanno accettato dialogo sul punto. Bravi!”. Ha fatto molto discutere il cosiddetto fascicolo delle performance di ogni magistrato. Costa di Azione lo considera un’innovazione rivoluzionaria, e ogni giorno twitta vantandosi di averlo sostenuto, ma in via Arenula, e anche alcune toghe, sostengono che esisteva già. Il presidente dell’Anm Santalucia parla di “schedatura”... “Con tutto il rispetto, forse l’onorevole Costa, e chi ne condivide l’iniziativa, non conoscono a fondo le dinamiche processuali e l’organizzazione giudiziaria. Il dissenso e la pluralità di opinioni possibili sono la regola nel nostro sistema processuale, che non a caso prevede tre gradi di giudizio. Prevedere per la valutazione di professionalità l’inserimento ordinario nel fascicolo del pm di decisioni dissenzienti dalle sue richieste non ha senso. Lo stesso si dovrebbe fare per quelle che eventualmente accolgono l’appello. Idem per giudici di primo grado smentiti da quelli di appello e per questi ultimi da quelli della Cassazione? E chi giudica questi ultimi per le loro decisioni? E comunque si ignora che un sistema di questo tipo sarebbe assolutamente ingestibile anche se informaticamente supportato. E rallenterebbe progressioni in carriera e nomine di dirigenti, moltiplicando le impugnazioni dinanzi a Tar e Consiglio di Stato. Niente efficienza e maggior rapidità del sistema, dunque”. È giusto valutare un magistrato anche per le decisioni che ha preso? Un pm che arresta molto, ma poi viene smentito dai giudici, non merita di essere promosso? “Può egualmente meritarlo, al di là delle statistiche che vengono spesso diffuse senza approfondimenti e citazione delle fonti. E poi non è il pm che arresta, ma semmai il giudice che lo ordina su sua richiesta. Anche al Csm, peraltro, è precluso l’esame degli orientamenti giurisprudenziali dei magistrati, frutto della loro indipendenza. Solo chi redige il parere, come il dirigente di un ufficio, conoscendo lavoro e professionalità dei singoli magistrati, può esprimere un motivato giudizio contrario, ma solo in presenza di palesi errori giudiziari (ad esempio, la richiesta di un provvedimento restrittivo per un reato che non lo consente) e gravi difformità da orientamenti giurisprudenziali consolidati”. Questo fascicolo, anziché bloccare il carrierismo, non rischia di alimentarlo, danneggiando le decisioni giudiziarie? Per intenderci, una toga potrebbe non fare un arresto o potrebbe assolvere un imputato pensando più alla carriera che al merito del caso che ha davanti... “Se qualche magistrato si orientasse in tal modo non meriterebbe rispetto, almeno il mio. Tuttavia è vero che esisterebbero un grave rischio di burocratizzazione del lavoro giudiziario e la tendenza alla sottoposizione a una struttura gerarchica degli uffici, contro cui si batte da decenni gran parte della magistratura. Neppure il Procuratore è il capo che tutto decide e dispone”. Il voto concesso agli avvocati nei consigli giudiziari (anche se espresso dal consiglio dell’ordine e quindi non individuale) accentua il rischio di intimidire la toga? Gli avvocati rappresentano pur sempre gli imputati... “Condivido assolutamente il coinvolgimento degli avvocati nelle valutazioni di professionalità dei Consigli giudiziari. Non sono comprensibili in proposito le resistenze di settori della magistratura, motivate dal rischio di conflitti personali tra avvocati e pubblici ministeri e/o giudici con i quali si siano confrontati in sede processuale. In realtà, a parte l’inaccettabile sfiducia nella correttezza della classe forense che è alla base di simili resistenze, si dimentica che è prevista per la componente degli avvocati la facoltà di esprimere solo un voto unitario e solo se il Consiglio dell’ordine degli avvocati abbia effettuato le segnalazioni previste dalla legge. In un quadro di reciproca collaborazione, sarebbe stata opportuna, però, la previsione di pareri e interlocuzioni della componente togata del Consiglio giudiziario per decisioni di tipo organizzativo di competenza del Consiglio forense”. La separazione delle funzioni, un solo passaggio da pm a giudice e viceversa, nei primi dieci anni di carriera. È già una separazione delle funzioni? Ma soprattutto, è davvero necessario oppure serve solo in chiave anti referendum radical-leghista? “Il limite di un solo passaggio finirebbe con l’introdurre una sostanziale separazione delle carriere, peraltro inutile e irrilevante: esaminando i dati ufficiali relativi al triennio giugno 2016 - giugno 2019, si verificherebbe che in quel periodo sono intervenuti solo 80 trasferimenti da pm a giudici (media annua di 26,66 unità su 2.770 pm in servizio) e 41 da giudici a pm (con media annua di 13,66 unità su 6.754 giudici in servizio). Tendenza immutata nel triennio successivo ancora non concluso”. E le conseguenze per i referendum sulla separazione delle funzioni? “Forse l’approvazione della norma potrebbe ragionevolmente impedire questo referendum abrogativo, peraltro dal testo difficilmente comprensibile, ma il punto è un altro: la separazione delle carriere, culturalmente e giuridicamente inaccettabile, è anche contraria alle deliberazioni sovranazionali europee che guardano al modello italiano come quello cui gli ordinamenti europei dovrebbero conformarsi per assicurare maggiori garanzie ai cittadini. Infatti, già con una Raccomandazione del 2000 sul “Ruolo del Pubblico Ministero nell’ordinamento penale”, mai superata da quelle successive, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa affermò che: “...se l’ordinamento giuridico lo consente, gli Stati devono prendere provvedimenti concreti al fine di consentire a una stessa persona di svolgere successivamente le funzioni di pubblico ministero e quelle di giudice, o viceversa” e che “...la possibilità di ‘passerelle’ tra le funzioni di giudice e quelle di pubblico ministero si basa sulla constatazione della complementarità dei mandati degli uni e degli altri, ma anche sulla similitudine della garanzie che devono essere offerte in termini di qualifica, di competenza, di statuto”. E Francesco Saverio Borrelli, nel 2003, a proposito del sospetto artificioso di “gratuita proclività” del giudice a simpatizzare con le tesi dell’accusatore, parlò di “diffidenze plebee che scorgono ovunque collusioni”“. Le cosiddette “porte girevoli”. Non torna più in carriera chi si candida con un partito. Siamo sul filo della costituzionalità? “È una soluzione rigorosa, ma accettabile, quella per cui chi ha svolto incarichi elettivi non perde il posto di lavoro, come prevede l’articolo 51 della Costituzione prevede, ma viene destinato a compiti fuori ruolo, o comunque allo svolgimento di attività non direttamente giurisdizionali, né giudicanti o requirenti. Va evitato in tal modo un danno di immagine - quanto a indipendenza e imparzialità - per l’intera categoria. Perciò, al di là del numero esiguo di magistrati eletti a cariche politiche, è accettabile una disciplina rigorosa. Non credo che queste nuove disposizioni siano idonee a ledere le prerogative della magistratura e il diritto di elettorato passivo dei magistrati. Non è però un problema soltanto per i magistrati: è normale, ad esempio, che per prefetti e questori non vi siano limiti per il ritorno a svolgere i loro compiti dopo avere esercitato un mandato politico?”. La stretta sui magistrati fuori ruolo. D’ora in avanti chi vorrà più andare in via Arenula? O anche a palazzo Chigi? “Non condivido la previsione di un periodo di “decantazione” per i magistrati che abbiano svolto incarichi tecnici fuori ruolo di questo tipo, cioè non elettivi. Per questi incarichi non riesco a individuare rischi di lesione della credibilità della magistratura, tanto più che - pur nel caso di quelli fiduciari - si tratta di incarichi per i quali le istituzioni utilizzano competenza e professionalità dei magistrati. Si potrebbe, tutt’al più, prevedere una delibera del Csm, che così potrebbe valutare anche le modalità con cui l’incarico è stato assolto, in base alla quale autorizzare o meno la possibilità di rientro immediato in ruolo”. Presunzione d’innocenza, giusto un illecito disciplinare? “In tema di pubbliche dichiarazioni e rapporti con l’informazione, ho una rigida concezione dei doveri di riserbo dei magistrati e ho sostanzialmente condiviso quasi tutto il contenuto del cosiddetto provvedimento sulla presunzione di innocenza. Credo anche al dovere del magistrato di rapportarsi correttamente con gli avvocati, protagonisti paritari della giustizia, rendendo loro noto ogni passo delle indagini. Condivido dunque la possibilità di sanzioni nei confronti di chi violi tali doveri”. Dalla Spazzacorrotti alla riforma Cartabia: così il M5S auto-rottama il proprio giustizialismo di Ermes Antonucci Il Foglio, 27 aprile 2022 Dalla Camera primo via libera alla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, grazie anche ai voti dei grillini. La riforma contiene norme garantiste che i pentastellati, fino a un anno fa, non avrebbero mai pensato di votare. Il voto favorevole espresso martedì sera alla Camera dal Movimento 5 Stelle alla riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario (il testo passerà ora al Senato) aggiunge un nuovo tassello all’abiura del metodo Bonafede e del giustizialismo da parte dei grillini. Praticamente un’autorottamazione. La legislatura che si è aperta con l’approvazione della legge Spazzacorrotti, gli show in piazza in nome delle manette e l’abolizione della prescrizione si avvia infatti a concludersi con la sconfessione totale delle tesi forcaiole portate avanti dal M5s e con l’adozione di riforme di segno garantista. Miracoli del governo Draghi e della ministra Cartabia, ma anche della tenacia dei pentastellati, che pur di restare vivi ormai non si pongono problemi a rinnegare la propria natura (un tempo anche no Vax, no Tav, no Tap, no Ilva, no Nato). La riforma approvata ieri alla Camera contiene disposizioni che il M5s, cioè il partito delle procure d’assalto, quattro anni fa non avrebbe mai immaginato di accettare: la quasi totale separazione delle funzioni tra giudici e pubblici ministeri (il passaggio di funzioni sarà ora possibile solo una volta entro i nove anni dalla prima assegnazione); l’istituzione di un fascicolo delle performance per monitorare l’attività svolta dai magistrati (e gli eventuali flop) e per rendere effettive le valutazioni di professionalità, oggi di fatto inesistenti; il coinvolgimento dell’avvocatura nelle valutazioni di professionalità dei magistrati nei consigli giudiziari; l’introduzione, inoltre, di sanzioni disciplinari per i magistrati che violano le norme sulla tutela della presunzione di innocenza degli indagati e per i pm che inducono l’emissione di misure cautelari in assenza dei presupposti previsti dalla legge e omettendo elementi rilevanti per la difesa; e infine l’attribuzione al parlamento del compito di stabilire i criteri generali di cui le procure dovranno tener conto per stabilire le priorità per l’esercizio dell’azione penale. Novità importanti, alle quali si affiancano misure molto più timide, in particolare sul fronte del meccanismo elettorale del Csm: un sistema maggioritario con correttivo proporzionale che non attenuerà in alcun modo l’influenza delle correnti. I grillini possono rivendicare il mantenimento di alcune norme da tempo invocate per limitare la commistione tra magistratura e politica, come lo stop alle porte girevoli, con il divieto per le toghe elette di tornare a svolgere la funzione giudiziaria, e il divieto di esercitare in contemporanea funzioni giurisdizionali e ricoprire incarichi elettivi e governativi. Ma il punto centrale resta: la riforma Cartabia votata dai grillini contiene norme garantiste che i grillini, fino a un anno fa, non avrebbero mai pensato di votare, tanto più a fronte della minaccia di sciopero lanciata contro quelle stesse norme dall’Associazione nazionale magistrati. “Mentre nel resto della legislatura i Cinque stelle hanno contagiato con il loro giustizialismo prima la Lega, facendo approvare la Spazzacorrotti e il fine processo mai, e poi il Pd, costringendolo a difendere l’impianto della Spazzacorrotti, con la minaccia di far cadere il governo, oggi finalmente sono loro a dover subire l’influenza delle altre forze politiche, perché in questa maggioranza hanno un peso certamente minore”, dichiara al Foglio Enrico Costa, deputato e vicesegretario di Azione, che rivendica i passi in avanti in senso garantista contenuti nella riforma. “Si poteva fare di più - aggiunge - ma, vista la situazione politica, meglio di così non si poteva fare”. Ormai siamo di fronte alla rottamazione-ter del giustizialismo grillino, come con le cartelle esattoriali. Con una tranquillità disarmante, negli ultimi dodici mesi il M5s ha liquidato il proprio credo forcaiolo ben tre volte. La prima volta con l’approvazione del meccanismo dell’improcedibilità, elaborato dalla ministra Cartabia per disinnescare l’abolizione della prescrizione. La seconda volta con il recepimento della direttiva europea sul rafforzamento della presunzione di innocenza. La terza rottamazione arriva oggi, con il voto favorevole alla riforma Cartabia. “Tutto cambia perché nulla cambi: le correnti detteranno ancora legge” di Valentina Stella Il Dubbio, 27 aprile 2022 Italia Viva ieri alla Camera, durante il voto finale sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, si è astenuta. Il perché ce lo spiega il membro della Commissione Giustizia, l’onorevole Catello Vitiello. Onorevole che giudizio complessivo dare della riforma approvata alla Camera? A me sembra che sia una riforma solo di etichette più che di contenuti. Il sistema utilizzato per legiferare è stato quello di stabilire dei principi per poi trovarne la deroga. Alla fine tutto cambia perché nulla cambi. Quali sono i punti più deboli di questa riforma? Se davvero si fosse voluto risolvere il problema delle correnti, non volendo aderire alla nostra proposta di sorteggio temperato, si sarebbe dovuto adottare un sistema di voto proporzionale per eleggere il nuovo Csm. In quel caso avrebbe prevalso il singolo, la qualità del magistrato e non l’appartenenza. Con il sistema maggioritario invece non si privano i gruppi associativi della possibilità di mettere in atto quei comportamenti distorsivi che abbiamo imparato a conoscere. Saranno le correnti a pilotare candidature e voti. Poi si doveva fare di più in tema di porte girevoli: si è stabilito che chi è eletto oppure è nominato ministro o sottosegretario non potrà più rientrare in magistratura... Il principio può essere condivisibile; tuttavia il problema è che questi soggetti rimarranno fuori ruolo a vita e continueranno quindi a ricoprire incarichi nei ministeri e quindi ai piani alti della Pubblica amministrazione. Insomma, appare quasi come una premiazione. Così, poi, si crea anche una disparità di trattamento perché tutti gli altri potranno tornare in magistratura, come i Capi di Gabinetto, benché abbiano svolto ruoli politici. Infine, non credo che si possa cantar vittoria per il risultato ottenuto riguardo la separazione delle funzioni, perché la vera riforma per cui essere davvero soddisfatti sarebbe stata la separazione delle carriere, l’unica che garantisce la terzietà e l’imparzialità del giudice rispetto al pm e alla difesa, come stabilito dall’articolo 111 della Costituzione. Ora la partita si sposta al Senato. Come si comporterà Italia Viva? Come abbiamo fatto alla Camera. Guarderemo alla riforma con spirito critico. Ciononostante, se dovesse essere posta la questione di fiducia da parte del Governo, noi la daremo perché la fiducia presuppone tante altre valutazioni che non possono limitarsi a questo provvedimento. Al Senato non credo si riapriranno dei tavoli di discussione altrimenti non si farebbe in tempo ad eleggere il Csm con la nuova legge elettorale. Però se fosse posta la questione di fiducia, Draghi non manterrebbe la sua promessa... Lei ha ragione, ma di necessità virtù. Sabato l’Assemblea generale dell’Anm deciderà se fare o meno lo sciopero contro la riforma. Che ne pensa? Che idea si è fatto? Nessuno è contento di questa riforma, né l’avvocatura, né la magistratura, né gli altri addetti ai lavori. Condivido in parte la preoccupazione dei magistrati perché questa riforma ha mantenuto quella differenza tra toghe di serie A e toghe di serie B, svilendo la meritocrazia. Per il resto, credo si tratti di battaglie di categoria che capisco ma non condivido. Sull’opportunità dello sciopero, ritengo che occorra una attenta riflessione, in un momento molto delicato per il Paese. Che cosa non ha funzionato a livello metodologico? Quasi tutti convergevano, ad esempio, sul voto singolo trasferibile proposto dalla Commissione Luciani. Misteriosamente quella scelta è stata accantonata... La sua domanda ce la siamo posta anche noi molte volte, senza trovare una risposta. Abbiamo proposto diversi emendamenti di sintesi delle proposte della Luciani, ma ci è stato risposto di no dal Governo. Anche nella prima riunione di maggioranza con la ministra Cartabia abbiamo chiesto che fine avessero fatti i lavori di quella Commissione, ma non ci è stata fornita alcuna spiegazione. Via D’Amelio, l’accusa dei pm: “Sulla strage il depistaggio dei poliziotti” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 27 aprile 2022 Fiammetta Borsellino: “Omertà di Stato”. La requisitoria del processo ai tre poliziotti accusati di avere costruito ad arte il falso pentito Scarantino. La figlia del giudice Paolo: “Inaccettabile che non siano stati presi provvedimenti disciplinari per i magistrati coinvolti nel caso”. “Vincenzo Scarantino subì un pressing asfissiante - ripete il pubblico ministero Stefano Luciani - venne anche torturato nel carcere di Pianosa. Era sfinito quando disse che voleva collaborare con la giustizia”. Nell’aula bunker dove sono stati processati i boss delle stragi, oggi sotto accusa ci sono alcuni uomini delle istituzioni, la procura di Caltanissetta li chiama in causa per la più infamante delle imputazioni: “concorso in calunnia”, per aver tenuto lontana la verità sulla bomba che il 19 luglio 1992 travolse Paolo Borsellino e gli agenti della scorta, attraverso la costruzione di un falso pentito che ha accusato degli innocenti. Sul banco degli imputati siedono tre investigatori della polizia: il dirigente Mario Bò e due ispettori in pensione, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, erano i principali collaboratori dell’ex capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera, morto nel 2002. Il pm Luciani chiama in causa non solo i suggeritori, quelli che fecero studiare con degli appunti - mostrati in aula - il balordo della Guadagna trasformato in provetto Buscetta. “In questo processo - dice il magistrato - ci sono stati pure testimoni convocati dalla procura, ex appartenenti al gruppo d’indagine Falcone-Borsellino, che non hanno fatto onore alla divisa che indossano: si sono trasformati in testi della difesa in maniera grossolana”. È pesante l’atto d’accusa che segna l’inizio della requisitoria contro chi avrebbe depistato e chi continua a nascondere la verità. “Spero che questi comportamenti siano segnalati a chi di dovere”, dice il pm rivolgendosi al rappresentante dell’avvocatura dello Stato. “In questo processo c’è stato un muro da parte di alcuni uomini delle istituzioni”. Le parole del pubblico ministero sono un crescendo. A rilanciarle è Fiammetta Borsellino, che ha seguito tutte le udienze come parte civile. Dice a Repubblica: “In questo processo, abbiamo visto magistrati e poliziotti che non ricordavano passaggi fondamentali delle loro indagini. Abbiamo assistito a una vera e propria omertà istituzionale che ha reso difficile il lavoro importante dei magistrati di Caltanissetta”. Non usa mezzi termini la figlia del giudice Paolo: “Dai mafiosi te l’aspetti l’omertà, dagli uomini delle istituzioni no. Sono inaccettabili i silenzi, le reticenze, i pianti e i non ricordo”. Fiammetta Borsellino racconta di avere ricevuto nei giorni scorsi una telefonata del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi: “Quando il centralino mi ha annunciato la chiamata confesso di avere provato una certa emozione, ero convinta che mi sarebbero state comunicate notizie sui procedimenti disciplinari riguardanti alcuni ex pm di Caltanissetta che hanno gestito il falso pentito. Invece, il dottore Salvi mi invitava a un convegno. Ho risposto - prosegue Fiammetta - che la famiglia Borsellino non parteciperà ad alcuna iniziativa istituzionale fino a quando non sarà fatta luce su questa incresciosa vicenda”. Dice ancora Fiammetta Borsellino: “Quando ho chiesto notizie dei procedimenti disciplinari, mi è stato risposto che ci sono delle problematiche relative alla prescrizione. Cosa che ritengo inaccettabile. A questo punto, bisognerebbe avere l’onestà morale di comunicarlo al Paese che nessun magistrato pagherà per quello che è ormai definito dalle sentenze il più colossale depistaggio della storia d’Italia”. Borsellino, depistaggio per la strage: tutto iniziò con le torture a Pianosa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 aprile 2022 Il pm Luciani nella requisitoria: “Facevano spogliare nudo Scarantino, gli dicevano che lo volevano impiccare”. Battute finali del processo contro i 3 poliziotti. Ecco come sono state deviate le indagini. Iniziata la requisitoria da parte del pubblico ministero Stefano Luciani nel processo di Caltanissetta contro i tre poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra perché avrebbero indotto Vincenzo Scarantino a dichiarare il falso, sviando così le indagini sull’attentato di Via D’Amelio nel quale morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. Anche Vincenzo Scarantino subì delle torture - Secondo il pm Luciani, tutto è iniziato nell’allora supercarcere di Pianosa, chiuso in seguito alle denunce da parte degli organismi internazionale in merito alle indicibili torture che avvenivano nei confronti dei detenuti. Anche Scarantino subì delle torture, e secondo il pm fu quello l’inizio - come sentenzierà il Borsellino Quater - del più grande depistaggio della Storia giudiziaria. “Come si arriva all’interrogatorio del 24 giugno 1994? Quindici giorni dopo l’arresto di Vincenzo Scarantino - ricostruisce Luciani -, avvenuto il 29 settembre 1992, atterra sul tavolo del procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra una nota del Sisde veicolata attraverso la Squadra Mobile di Caltanissetta nella quale incredibilmente, il Servizio segreto civile anziché dire che Scarantino è un piccolo delinquente di borgata, lo definisce un boss mafioso. Da quel momento Vincenzo Scarantino subisce un pressing asfissiante. A Venezia, a Busto Arsizio, viene sottoposto a interrogatori costanti e ripetuti. Viene sottoposto a plurimi procedimenti penali a condanne per traffico di droga, rinviato a giudizio per la strage. Il 24 giugno 1994, quando disse di volere parlare della strage Scarantino era un uomo, disperato, sfiancato”. La moglie di Scarantino: “La Barbera non lo lasciava in pace” - Ed ecco che arriviamo a Pianosa. “La moglie di Scarantino - prosegue il pm Luciani durante la requisitoria - fece mettere a verbale che il marito le diceva: “Non mi lasciano in pace sono sempre qua”. Scarantino, come diceva la moglie, veniva malmenato, gli mettevano i vermi nella minestra, gli hanno instillato il dubbio di essere affetto da Hiv. Lo facevano spogliare nudo, gli dicevano che lo volevano impiccare”. Il pm ripercorre la testimonianza della moglie del falso pentito, la quale disse che Arnaldo La Barbera (l’uomo che fu messo alla guida del gruppo Falcone - Borsellino) non lo lasciava in pace, capendo che era un soggetto fragile. Scarantino riferiva alla moglie che non c’entrava nulla con la strage ma che gli avevano promesso la libertà e denaro. “Scarantino aveva raccontato alla moglie - riferisce sempre il pm Luciani - che aveva incontrato a Pianosa Arnaldo La Barbera. Scarantino veniva minacciato di morte, gli veniva detto che gli facevano fare la fine di un ragazzo che era morto in carcere. Erano loro i poliziotti di La Barbera”. L’iniziativa di indagare sul falso pentito non è certamente proveniente dal Sisde - Per verità di cronaca, in merito alla nota del Sisde, va precisato che l’allora capo Bruno Contrada ha sempre riferito - e in effetti lo si evince dalla prima informativa - di aver consigliato di indirizzare le indagini proprio sui Madonia (coloro che effettivamente furono tra i mandanti), in merito alla strage di Via D’Amelio. La nota che fu inviata su Scarantino era su richiesta di Arnaldo La Barbera stesso. In sostanza l’iniziativa di indagare sul falso pentito, non è certamente proveniente dal Sisde. Contrada verrà tratto in arresto a dicembre del 1992 e quindi non ha potuto incidere sulle indagini. Di fatto, non ha mai potuto interrogare Scarantino. A detta di Contrada, se l’avesse fatto, si sarebbe accorto che era uno che raccontava cose non vere. Ecco tutte le tappe del depistaggio - A questo punto, ripercorriamo la vicenda depistaggio. È oramai storia nota che erano state condannate - con tanto di conferma in Cassazione - delle persone innocenti, accusate di essere stati gli esecutori della strage di Via D’Amelio. Tesi che si è retta esclusivamente sulle accuse da parte di Salvatore Candura, Francesco Andriotta e soprattutto da Vincenzo Scarantino, il quale (pur attraverso un percorso dichiarativo disseminato di contraddizioni e ritrattazioni) aveva accusato di partecipazione alla strage di Via D’Amelio, oltre che sé stesso, numerose persone, alcune delle quali appartenenti alla famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù (uomini di Pietro Aglieri). La svolta su Via D’amelio nel 2008 con le rivelazioni di Gaspare Spatuzza - La svolta si ebbe nel 2008, con un lavoro iniziato dalla “nuova” procura di Caltanissetta sulla scorta delle dichiarazioni sconvolgenti di Gaspare Spatuzza, il quale nel giugno dello stesso anno aveva manifestato tale intendimento al Procuratore Nazionale antimafia, spiegando che la propria decisione era frutto di un sincero pentimento basato su una autentica conversione religiosa e morale, oltre che sul desiderio di riscatto. Spatuzza, soprannominato negli ambienti di cosa nostra “u tignusu”, già condannato all’ergastolo per le stragi del 1993 e per altri numerosi e gravissimi delitti, ha iniziato a rendere le sue dichiarazioni il 26 giugno 2008 alle Procure di Caltanissetta, Firenze e Palermo che, successivamente, hanno proseguito gli interrogatori e le indagini autonomamente (nell’ambito delle rispettive competenze), pur rimanendo in collegamento investigativo e pertanto curando lo scambio di atti informazioni e notizie, anche nell’ambito di apposite riunioni di coordinamento svolte presso la Procura nazionale antimafia. Spatuzza si è attribuito la responsabilità - unitamente ad altri soggetti inseriti in Cosa nostra - di un importante segmento della fase esecutiva della strage di Via D’Amelio. In particolare ha confessato di avere eseguito in concorso con altri, su incarico del capo mandamento di Brancaccio, Giuseppe Graviano, il furto della autovettura Fiat 126 utilizzata come autobomba, il furto delle targhe di un’altra autovettura della stessa tipologia e marca custodita presso l’autofficina di Orofino Giuseppe, nonché di aver reperito il materiale necessario ad innescare l’ordigno e di essere l’artefice del reperimento di notevoli quantità di sostanze esplosive utilizzate per le stragi mafiose degli anni ‘92 e ‘93. Nel Borsellino quater è stato accertato il depistaggio - Spatuzza ha quindi messo in discussione l’esito di processi consacrati in sentenze passate in giudicato (soprattutto Borsellino uno e bis) con le quali erano stati inflitti numerosi ergastoli e centinaia di anni di reclusione per gravissimi delitti. Fu fatta la revisione, assolvendo quindi le persone innocenti e iniziò il famoso processo Borsellino Quater che accertò il depistaggio, sottolineando anche le irritualità processuali. Da lì scaturì l’indagine nei confronti dei poliziotti, il quale ha prodotto il processo attuale. Un altro troncone di indagine è nato anche nei confronti dei magistrati di allora, coloro che gestirono lo pseudo pentito Scarantino. Ma nei loro confronti si concluse con una archiviazione. Rimangono soltanto i poliziotti che ovviamente si professano innocenti. Se dovessero essere condannati, rimane però l’interrogativo: agirono in completa autonomia? La ex pm Ilda Boccassini ha sempre sottolineato che erano i magistrati i dominus di quelle indagini e doveva essere sempre il pm che doveva coordinare l’attività della polizia giudiziaria. Santa Maria Capua Vetere (Ce): Violenze in carcere, richiesto il giudizio per 107 imputati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 aprile 2022 Sono agenti penitenziari e funzionari del Dap, accusati a vario titolo di tortura, lesioni e falso per gli episodi di violenza avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile del 2020. Richiesto il rinvio a giudizio per 107 persone per le violenze avvenute il 6 aprile del 2020 nel carcere casertano di Santa Maria Capua Vetere, nello specifico parliamo degli agenti della polizia penitenziaria e funzionari del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap). La richiesta è avvenuta nel corso dell’udienza preliminare davanti al gup Pasquale D’Angelo. Per un altro agente coinvolto è stato richiesto poi il proscioglimento, che si aggiunge ad altre dodici analoghe richieste avanzate dalla Procura alcuni mesi fa (in totale erano 120 gli indagati). Ricordiamo che per 12 agenti era contestato il reato di cooperazione in omicidio colposo relativo alla morte del detenuto algerino Lakimi Hamine, deceduto il 4 maggio 2020 dopo essere stato tenuto per giorni in isolamento. Proprio per quest’ultimo caso inizialmente la Procura aveva scelto di contestare il reato di “morte come conseguenza di altro reato”, bocciato dal Gip Sergio Enea che la classificò come suicidio. La decisione del Gip è stata però impugnata dalla Procura che ha provveduto a integrare il quadro accusatorio. Sono accusati di tortura, lesioni e falso - Per gli agenti e funzionai ai quali la procura sammaritana ha chiesto il rinvio a giudizio, le accuse sono a vario titolo di tortura, lesioni, reati di falso. Ricordiamo che, secondo quanto accertato sulla base delle immagini acquisite dal sistema di videosorveglianza del carcere, nonché dalle chat tra gli agenti di polizia penitenziaria e dalle dichiarazioni dei detenuti, il pomeriggio del 6 aprile 2020, tra ore 15.30 e le 19.30, all’interno del reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere, numerosi agenti di Polizia penitenziaria - giunti anche dalle carceri di Secondigliano e di Avellino - hanno esercitato una violenza cieca ai danni di detenuti che, in piccoli gruppi o singolarmente, si muovevano in esecuzione degli ordini di spostarsi, di inginocchiarsi, di mettersi con la faccia al muro. I detenuti, costretti ad attraversare il cosiddetto corridoio umano (la fila di agenti che impone ai detenuti il passaggio e nel contempo li picchia), venivano colpiti violentemente con i manganelli, o con calci, schiaffi e pugni; violenza che veniva esercitata addirittura su uomini immobilizzati, o affetti da patologie ed aiutati negli spostamenti da altri detenuti, e addirittura non deambulanti. Tra le immagini più crude fecero scandalo quelle del detenuto sulla sedia a rotelle picchiato con il manganello, e dei detenuti fatti passare in un corridoio formato da agenti che li prendevano a manganellate, o a calci e pugni. Nelle quattro ore di mattanza umiliazioni degradanti - Oltre alle violenze, venivano imposte umiliazioni degradanti - far bere l’acqua prelevata dal water, sputi, ecc. -, che inducevano nei detenuti reazioni emotive particolarmente intense, come il pianto, il tremore, lo svenimento, l’incontinenza urinaria. Dopo le quattro ore di “mattanza”, le sofferenze fisiche e psicologiche venivano perpetrate anche nei giorni immediatamente successivi, in particolare nei confronti dei quattordici detenuti trasferiti dal reparto Nilo al reparto Danubio - perché ritenuti ispiratori della protesta del 5 aprile - costretti senza cibo, e, per 5 giorni, senza biancheria da letto e da bagno, senza ricambio di biancheria personale, senza possibilità di fare colloqui con i familiari; tant’è che alcuni detenuti indossavano ancora la maglietta sporca di sangue, e, per il freddo patito di notte, per la mancanza di coperte e di indumenti, erano stati costretti a dormire abbracciati; anche ai detenuti rimasti al reparto Nilo veniva riservato un trattamento degradante, addirittura con l’imposizione, volutamente mortificante della capacità di autodeterminazione, del taglio della barba, secondo quanto orgogliosamente rivendicato in uno dei messaggi inviati sulla chat del gruppo di agenti di Polizia penitenziaria. Arrivarono agenti da altri istituti che non sono stati ancora identificati - Quel giorno, ribadiamo, arrivarono anche oltre cento agenti da altri istituti di pena come Secondigliano, inviati dal direttore del Dap Antonio Fullone, i quali non sono stati ancora identificati a causa dei caschi e delle mascherine che indossavano in quella circostanza. In totale i detenuti vittime dei pestaggi sono stati 177, tanto che la Procura, per avvisare tutte le parti offese, ha deciso di ricorrere alla notificazione per pubblici annunci, con deposito dell’avviso di conclusione indagini presso il Comune di Santa Maria Capua Vetere e con la pubblicazione di un estratto sulla Gazzetta Ufficiale. “È nostro dovere riflettere sulla contingenza ma anche sulle cause profonde che hanno portato un anno fa ad un uso così insensato e smisurato della forza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Fatti di questa portata richiedono da un lato una risposta immediata da parte dell’autorità giudiziaria, ma ai miei occhi sono spia di qualcosa che non va e dobbiamo indagare e intervenire con azioni ampie e di lungo periodo perché non accada più”. A dirlo è stata la ministra della Giustizia Marta Cartabia a luglio del 2021, nel corso dell’informativa urgente alla Camera sui fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. “Fatti di quella portata reclamano un’indagine ampia perché si conosca quanto è successo in tutti gli istituti penitenziari nell’ultimo drammatico anno, dove la pandemia ha esasperato tutti, perché le carceri italiane già vivono in condizioni difficili per il sovraffollamento, per la fatiscenza delle strutture, per la carenza del personale e per tante altre ragioni - ha proseguito -. Dunque occorre guardare in faccia i problemi cronici dei nostri istituti penitenziari affinché non si ripetano più atti di violenza né contro i detenuti né contro gli agenti della polizia penitenziaria e tutto il resto del personale. Il carcere è specchio della nostra società ed è un pezzo di Repubblica che non possiamo rimuovere dal nostro sguardo e dalle nostre coscienze”, aveva affermato sempre la guardasigilli tra gli applausi dell’aula. È aperto un fascicolo per le violenze nel carcere di Modena - In quell’occasione, la ministra Cartabia ha annunciato di avere “costituito al Dap una commissione ispettiva che visiterà tutte le carceri interessate dalle proteste”. Va infatti ribadito che non è solo il carcere di Santa Maria Capua Vetere ad essere attenzionato. Come ha riportato Il Dubbio, ci sono altre carceri dove sarebbero avvenuti dei pestaggi. Attualmente è aperto un fascicolo che riguarda il carcere di Modena. Dalle testimonianze raccolte dalla procura, emerge che diversi detenuti sarebbero stati ammassati in una stanza vengono obbligati con lo sguardo a terra, alcuni sarebbero stati denudati con la scusa della perquisizione, e via a una violenta scarica di manganellate e ceffoni. Emerge un vero e proprio massacro che ha luogo in un locale situato in un casermone attiguo al carcere di Modena, prosegue durante il viaggio notturno in pullman e non si esaurisce quando i detenuti giungono al penitenziario di Ascoli Piceno. Tanti di quei reclusi denudati e picchiati nel casermone dell’istituto carcerario Sant’Anna di Modena erano già in stato di alterazione dovuto da mega dosi di metadone assunte durante la rivolta dell’8 marzo 2020. Sono soprattutto reclusi stranieri a essere stati picchiati, tanti di loro - com’è detto -, in stato di incoscienza dovuto dall’assunzione elevata dose di droga e psicofarmaci. Ma tra loro c’era anche Salvatore Piscitelli, l’uomo che in seguito - trasferito nella notte al carcere di Ascoli Piceno assieme agli altri - morirà dopo essere stato trasportato di urgenza in ospedale con un oggettivo ritardo rispetto alla richiesta di aiuto da parte dei suoi compagni di cella. Come già riportato da Il Dubbio, la procura di Ascoli Piceno ha presentato la richiesta di archiviazione. L’associazione Antigone, tramite l’avvocata Simona Filippi, ha avanzato opposizione. Firenze. Carcere, 300 libri per i detenuti dalle librerie indipendenti redattoresociale.it, 27 aprile 2022 Si conclude con un incontro nell’Aula Magna dell’Università di Firenze (mercoledì 27 aprile, ore 11 - diretta streaming dal sito www.unifi.it) la campagna “Nel frattempo… un libro”, promossa per arricchire le collezioni delle biblioteche delle carceri, attraverso l’acquisto di 300 volumi presso un gruppo di librerie indipendenti di Firenze, Prato e Scandicci. Questa iniziativa fa capo alle attività del Polo Universitario Penitenziario ed è stata realizzata in collaborazione con l’Associazione Volontariato Penitenziario e l’Associazione Scioglilibro. Nell’occasione la rettrice Alessandra Petrucci consegnerà i libri destinati agli studenti detenuti, presente l’assessora all’educazione e welfare del Comune di Firenze Sara Funaro. Nel corso dell’incontro saranno letti alcuni brani scritti dagli stessi detenuti, prendendo spunto dai libri donati: partecipa la compagnia teatrale universitaria “Binario di scambio” e l’Orchestra dell’Università di Firenze. L’iniziativa “Nel frattempo … un libro” sarà presentata dalla curatrice del progetto Silvia Bruni del Sistema Bibliotecario di Ateneo insieme a Elisa Lippi, in rappresentanza delle librerie indipendenti della città metropolitana di Firenze e Prato. Lanciano (Ch). Concorso “Lettere d’Amore dal Carcere”: domani la premiazione al Fenaroli chiaroquotidiano.it, 27 aprile 2022 La Direzione della Casa Circondariale di Lanciano e l’Associazione culturale “Nuova Gutemberg”, con il patrocinio del Comune di Lanciano, organizzano la premiazione della nona edizione del Concorso Nazionale “Lettere d’Amore dal carcere”. Questa iniziativa tende a valorizzare l’affettività dei detenuti, espressa ancora tramite le lettere cartacee - ormai residuale strumento di espressione e comunicazione nel terzo millennio -, a invogliare i detenuti a fare una riflessione rispetto a “soggetti e oggetti d’amore” che li hanno coinvolti affettivamente, sentimentalmente, emotivamente, nel corso della loro esistenza e a suscitare turbolenze emotive soprattutto nell’ampio pubblico che intercetterà l’evento e/o il suo prodotto. Il concorso ideato nel 2013 avviato in maniera spontanea, con pochi mezzi a disposizione, ha suscitato nei detenuti un grande interesse, tant’è vero che nelle edizioni precedenti ha raccolto oltre 2.000 opere/lettere dagli istituti di pena di tutt’Italia. Esso coinvolge direttamente i detenuti, ma investe, anche, un movimento di persone che hanno accolto con entusiasmo la nostra iniziativa, nuova e unica nel suo genere (operatori penitenziari e territoriali, come insegnanti e docenti dei vari corsi scolastici, componenti di redazioni giornalistiche, animatori di laboratori di scrittura creativa o di lettura). Nel 2014, il concorso, è stato insignito dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano della “Medaglia per alto valore dell’iniziativa”. Roma. Lezioni di cucina ai detenuti, Gambero rosso e S. Egidio insieme ansa.it, 27 aprile 2022 A Regina Coeli, formazione anche per reinserimento lavoro. Lezioni di cucina per incentivare il lavoro di squadra e i momenti di aggregazione, ma anche competenze che possano servire al reinserimento nel mondo del lavoro dei detenuti. È l’obiettivo del ciclo di quattro incontri formativi coordinati dagli chef di Gambero Rosso Mirko Iemma, Igles Corelli, Giorgio Barchiesi (in arte “Giorgione”) e Laura Marciani che hanno visto ai fornelli 13 detenuti, gli addetti al servizio mensa e i responsabili della sorveglianza. All’iniziativa i detenuti hanno risposto con entusiasmo. Una brigata che ha lavorato fianco a fianco con l’obiettivo sia di dare benessere ai detenuti attraverso il cibo ma anche di indirizzarli in una prospettiva di reinserimento nella società. “Nel corso degli appuntamenti abbiamo sfruttato tutte le attrezzature e insegnato ai partecipanti come maneggiare al meglio le materie prime a disposizione - ha raccontato Mirko Iemma, resident chef di Gambero Rosso Academy Roma, che ha assistito i partecipanti durante tutti gli incontri - Gli abbiamo mostrato come realizzare un pangrattato aromatico, come preparare uno spaghetto alle vongole cremoso e come rendere più gustosa una bieta aggiungendo semplicemente del pomodoro e pecorino”. “Le competenze culinarie rappresentano oggi una preziosa risorsa nel mondo del lavoro, e ci auguriamo che quelle acquisite in questa sede possano essere utilizzate dalle persone detenute anche in futuro, quando la loro condizione non sarà più quella attuale - ha auspicato Claudia Clementi, Direttrice Regina Coeli. “Siamo per l’inclusione, convinti che bisogna dare la possibilità di ricominciare a tutti, nessuno escluso è per questo che consideriamo questo progetto un grande valore”, ha aggiunto Stefania Tallei, Coordinatrice Nazionale del Servizio in carcere della Comunità di Sant’Egidio. “Con la Comunità di Sant’Egidio c’è un rapporto storico e la nostra riflessione è andata al mondo delle Carceri, un mondo dove ci sono persone che per vari motivi sono costrette alla reclusione”, ha concluso Paolo Cuccia, Vicepresidente Esecutivo di Fondazione Gambero Rosso. La sofferenza dei malati psichiatrici di Luigi Labruna La Repubblica, 27 aprile 2022 “Un paziente si rifiutava di uscire dal bagno dove stava spaccando la doccia e si era tirato addosso le tubature tagliandosi la testa. Le guardie dovevano intervenire. Ci ricordavano che quella era una prigione e noi, i clinicians, dicevamo che era un ospedale psichiatrico. Quelli erano condannati a morte, esseri umani disperati, sofferenti e afflitti da malattie serie. A volte, mi sembrava di provare quello che sentivano loro e altre avrei voluto mandare tutti a quel paese. Non l’ho mai fatto”. Cito da Francesca Biffi, “Il cordone” (2020), libro crudo e possente, la cui narrazione, innervata da straordinaria intensità di sentimenti, va indietro, al 1928. Quando, in un paesello del Sud, sua nonna, appena nata, stava per esser fatta a pezzi con un’accetta, perché femmina, dal padre ubriaco. Una trama che si dilata in rivoli dolenti, talvolta teneri, come quelli dell’indigenza del Sud, del trasferirsi dei Biffi da lì nelle periferie romane, delle “vedove bianche” degli antenati emigrati in Argentina e del suo “fuggire”, da laureata in psicologia, negli Usa. E del patriarcato, con la nonna “rapita” a 14 anni, stuprata, costretta a nozze infelici. E dell’angoscia per la perdita del primo figlio, intrecciata con la nostalgia per la madre, la nonna amatissima, le origini e l’orrore dell’attesa per i tempi indefiniti dell’esecuzione della pena capitale dei suoi carcerati malati di mente. “Il cordone” me lo ha segnalato un lettore della Refola su “Carceri e patologie psichiatriche”, relativa all’“orrore” di Napolitano e alla condanna dell’Italia di Strasburgo per i “trattamenti inumani e degradanti” inflitti a malati psichiatrici negli ex manicomi giudiziari come quello d’Aversa. Rose e fiori rispetto a San Quintino, dove, per dire, il “paziente” è costretto, durante la visita terapeutica, a star seduto “come fosse uno scimmione o un animale selvaggio” in una gabbia, che ha una lastra di plastica al centro per evitare possa far passare tra la rete sputi, feci e urine. Ogni carcerato reagisce a modo suo. Ne do solo un esempio. “Il signor Wyatt spesso chiude gli occhi e si addormenta. A volte racconta un po’ di sé: ha ucciso tutta la sua famiglia, moglie, figli, nipoti, per salvarli dal male del mondo. Si sente Dio e sta in pace con sé stesso”. Un libro che “deve” esser letto. Credetemi. Gianrico Carofiglio: “Un talk show per fare esercizio di civiltà” di Silvia Fumarola La Repubblica, 27 aprile 2022 È stato senatore e magistrato “che è un abito mentale, anche se si lascia la professione”, è uno scrittore di successo, il suo ultimo libro Rancore (Einaudi Stile libero) è in vetta alle classifiche. Ora Gianrico Carofiglio diventa conduttore: il 2 maggio debutta su Rai 3 in seconda serata con Dilemmi, sei puntate per affrontare questioni controverse. L’impegno è un dovere? Bisogna dire sempre la verità? È etico continuare a mangiare carne? E poi la legge sull’eutanasia, la legalizzazione della cannabis, l’assuefazione da social network (tema della prima puntata in cui si confrontano Marco Travaglio e Ester Viola). In questo talk all’insegna della civiltà si seguono le regole, enunciate da Carofiglio all’inizio: vietato attaccare la persona, manipolare gli argomenti altrui, obbligatorio fornire le prove delle proprie affermazioni. In chiusura Lella Costa propone un monologo legato al dilemma di puntata. Da ospite a conduttore: come è nato “Dilemmi”? “Mi suona bizzarro essere definito “conduttore” però obiettivamente è così. È andata come tante cose della mia vita, apparentemente casuali, e invece scorrevano come fiumi carsici. Mesi fa per caso mi sono trovato a chiacchierare con l’amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes, mio amico dai tempi in cui era stato commissario straordinario del Petruzzelli a Bari. “Non avresti qualche idea? Qualcosa di innovativo?”. Non era una richiesta tipo “facciamola”, ma un pourparler”. Però lei qualche idea l’aveva... “Da tempo pensavo a un progetto televisivo, o anche radiofonico, per affrontare in modo rigoroso alcuni dilemmi morali, trattati in modo civilissimo. Fuortes ne ha parlato col direttore di Rai 3 Franco Di Mare e con la sua vice, Rosanna Pastore. Dilemmi è nato così”. Che temi ha scelto? “Alcuni li ho anche affrontati nei saggi e nei romanzi, centrale è quello della verità: bisogna dire sempre la verità? Altro dilemma è legato al mangiare o meno la carne. Anche in Rancore, ci pensavo, c’è un dialogo sui “maialini intelligenti e affettuosi”. Sul dilemma del carnivoro si confrontano Oscar Farinetti e Giulia Innocenzi. La novità sono le regole”. Ne ha scelte tre, precise... “La prima è il divieto di attacco alla persona per demolire la sua tesi, bandito l’argomentum ad hominen con cui si contesta non l’affermazione dell’avversario ma l’interlocutore stesso. Seconda: divieto di manipolazione degli argomenti, non puoi attribuire all’altro qualcosa che non ha detto. Terza, onere della prova. Tradotto: “Non puoi spararla grossa”“. Nei talk show il tempo è tiranno: chiedono riflessioni “in un telegramma”, ragionamenti sintetici. Da voi come funziona? “Ognuno degli ospiti ha un cronometro e un tempo a disposizione, che si ferma quando non interviene. Quindi deve regolarsi indirizzato dal conduttore. Gli ospiti che finora abbiamo accolto erano contenti della civiltà del dibattito”. Qualcuno cambia idea? “Capita che i contendenti si avvicinino alla fine perché quando la conversazione non sfocia in rissa si può arrivare a essere d’accordo. Nello studio di Napoli abbiamo un pubblico di studenti che fa domande”. A chi vi siete ispirati? “Lo schema riproduce un vecchio bellissimo programma di Alberto Arbasino, Match, in onda su Rai 2”. I dilemmi nella sua vita? “Tanti. Ho fatto il magistrato, per chi fa quel lavoro il dilemma della scelta della forma conforme a giustizia è fondamentale. Le regole definiscono la giustizia. Nella mia vita mi sono trovato di fronte al dilemma se lasciare o no la magistratura”. In effetti è come per i medici: si smette di esercitare ma si resta medici, come si resta magistrati... “Essere magistrato è un abito mentale, un modo di vivere le cose, e per fortuna rimane. Dopo cinque anni da parlamentare mi sono reso conto che fare il magistrato sarebbe stato il secondo lavoro, non il primo, e mi è sembrato inevitabile ma doloroso lasciare. Alcuni dicevano: “Perché hai abbandonato la magistratura?”. Penso che l’avrei abbandonata se avessi continuato a fare il magistrato”. Si può consigliare qualcuno che ha un dilemma? “A volte diamo consigli per placare la nostra ansia. In passato davo un sacco di consigli non richiesti. Ci sono poche cose apparentemente innocue e invece violente, come i consigli non richiesti. Sa quelle frasi: “Se avessi fatto come dico io”. Ecco, io non do più consigli, e dopo che qualcuno me li richiede domando: “Sei proprio sicuro che li vuoi?”“. Cosa guarda in tv? “Un po’ i talk show. Ora francamente sono a disagio. Un conto è una tribuna per offrire opinioni diverse, altro portare personaggi che giocano una parte in commedia e in tragedia. E il confronto si riduce in scene che non mi piacciono. A volte faccio un esperimento e tolgo il volume. I talenti sono rarissimi”. Non pensa che i social siano diventati tribunali? “Sui social si confrontano Travaglio e Ester Viola. Bisogna trovare il modo di far venire il buono cercando di togliere gli schizzi di sangue. Sono su Twitter dove tendo a parlare di politica e società, quando capita la shitstorm non rispondo. Non si deve dare eco a fenomeni da baraccone ma i social offrono opportunità”. Il suo libro “Rancore” sarebbe un film perfetto: lo diventerà? “Sono felice che abbia messo in moto il passaparola, è il modo in cui si vendono i libri. Dopo il podcast ci stiamo ragionando. L’idea c’è”. Arrivano i profughi del clima: “Scappano dal caldo e dalla sete” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 27 aprile 2022 Non solo i 100.000 in fuga dall’Ucraina. L’allarme dalla nuova mappa delle nazionalità: i migranti sbarcati in Italia nel 2022 provengono soprattutto dal Corno d’Africa e dal Sahel. Le organizzazioni umanitarie: “Si rischiano migliaia di morti come per la carestia del 2011”. E ora manca il grano che arrivava dall’Est. Aprile è stato il mese del sorpasso sul 2021, ma più che i numeri (9.597 arrivi dall’inizio dell’anno, ancora assolutamente gestibili) sono le nazionalità dei migranti sbarcati a far scattare il campanello d’allarme. Gli egiziani su tutti (per l’improvviso schizzare in alto del costo della vita nel Paese maggior importatore di grano da Russia e Ucraina) e poi, tra i primi dieci Paesi di provenienza, Afghanistan, Eritrea, Guinea, Sudan, Nigeria, Congo allo stremo dopo la quarta stagione di siccità intervallata da alluvioni, l’innalzamento delle temperature oltre la media del resto del mondo e le conseguenti carestie che stanno affamando decine di milioni di persone. L’Unhcr riaccende l’attenzione sulla relazione tra le emergenze climatiche e le migrazioni forzate. “La maggior parte delle persone a cui assicuriamo sostegno proviene dai Paesi più esposti all’emergenza climatica, esposte a catastrofi correlate ai cambiamenti climatici, alluvioni, siccità, desertificazioni, eventi che distruggono mezzi di sussistenza e alimentano conflitti costringendo alla fuga”, dice Filippo Grandi. Nel Sahel, la temperatura media è aumentata di 1,5 gradi rispetto al resto del pianeta con conseguenze devastanti, solo nel Corno d’Africa - secondo le ultime stime di Oim e Save the children - dopo quattro anni senza piogge, sono 15-16 milioni le persone che hanno già un estremo bisogno di aiuti alimentari. “Una situazione disperata - dice Save the children - che fa temere che si ripeta quanto avvenuto nel 2011 quando la carestia causò la morte di 260.000 persone: metà erano bambini sotto i 5 anni”. Situazioni estreme che - ipotizzano gli analisti di settore - potrebbero spingere nuovi flussi migratori verso l’Europa. E l’Italia, Paese di primo approdo dall’Africa, potrebbe già nelle prossime settimane trovarsi stretta in una triplice morsa e dover affrontare un lavoro impegnativo sull’accoglienza: ai profughi ucraini in arrivo via terra da Nord (più di 101.000, 70.000 dei quali hanno già chiesto asilo), si aggiungono quelli in partenza dal Nord Africa (Libia e Tunisia) ma anche quelli che sbarcano sulle coste ioniche provenienti dalla Turchia e dalla Grecia. Una rotta, quest’ultima, che si prevede in costante aumento per la grande fuga degli afghani, e non solo quelli riusciti a riparare nei Paesi confinanti dopo la vittoria dei talebani. “L’Afghanistan - spiega Save the children - sta affrontando la sua peggiore crisi alimentare. La metà della popolazione, 23 milioni di persone tra cui 14 milioni di bambini, fa i conti con la fame e sopravvive a pane e acqua. Il costo della vita è raddoppiato”. Nel Corno d’Africa, Somalia, Etiopia, Kenya, Eritrea, dove il 90 per cento della farina e del grano vengono importati da Russia e Ucraina, è già carestia. E i trafficanti di uomini hanno vita facile a rallestrare le loro prede villaggio per villaggio. Le carovane battono le piste che dall’Africa occidentale portano su verso il Marocco puntando poi alla rotta spagnola attraverso le Canarie (ieri l’ultimo naufragio con 24 dispersi) o si spingono verso la Libia, dove i migranti passano di mano e restano per mesi in cerca di lavoro o nei campi di detenzione, sottoposti a ogni tipo di violenza e ricatto. Decine di migliaia di persone in fuga che potrebbero essere destinate all’illegalità visto che in Italia e in Europa ai migranti climatici in quanto tali non viene riconosciuto lo status di rifugiato. “È davvero difficile sapere quanti sono i migranti che arrivano perché fuggono da clima e carestie - spiega Flavio Di Giacomo, portavoce di Oim Italia - ma almeno quelli che passano dalla Libia subiscono tutti tali atrocità in violazione dei più elementari diritti umani che quando arrivano hanno diritto per questo alla protezione internazionale”. Migranti. Caso Baobab, il presidente rischia una condanna pesantissima di Erasmo Palazzotto* Il Fatto Quotidiano, 27 aprile 2022 Così si criminalizza la solidarietà. Favoreggiamento dell’immigrazione clandestina è l’accusa pesante che pende sul presidente del Baobab, Andrea Costa. Il reato non è cosa da poco e le eventuali pene vanno dai 6 ai 18 anni di reclusione. La ragione sembra incredibile ed è legata a un episodio accaduto nell’ottobre del 2016 quando Costa, insieme ad alcuni volontari del Baobab, avrebbe aiutato 8 ragazzi sudanesi e uno ciadiano ad acquistare i biglietti per raggiungere il campo della Croce Rossa a Ventimiglia. Il tutto accadeva all’indomani dell’ennesimo sgombero della tendopoli adiacente al centro di prima accoglienza di via Cupa a Roma il cui risultato era oltre 300 persone senza un rifugio in cui passare la notte e per le quali Costa e i volontari immediatamente si attivarono. Un reato di solidarietà gravissimo. Un atto criminale, insomma. Baobab nasce nel 2015 e, sostanzialmente per strada, senza il supporto delle istituzioni locali, in questi anni ha offerto soccorso e assistenza a donne, uomini e bambini che nel corso dei loro lunghi viaggi transitano a Roma peraltro spesso diretti verso il nord Europa. L’organizzazione umanitaria in questi anni ha cercato, nonostante i ripetuti sgomberi, di sopperire ai gravi deficit strutturali e organizzativi delle politiche sociali locali fornendo supporto a tutti coloro che giunti nella capitale si trovano senza alcuna accoglienza, assistenza né luogo sicuro dove dormire o anche solo riprendere fiato. In questi anni Baobab ha assistito diverse centinaia di persone fornendo cibo, vestiti e medicine, contando sulle forze di una rete di volontari e attivisti che si sono impegnati nel quotidiano nel tentativo di colmare mancanze strutturali gravi. Eppure accade di nuovo. Ancora una volta, in questi anni di principi capovolti e di messa in discussione di valori fondamentali che dovrebbero essere indiscutibili, siamo costretti ad assistere all’ennesimo episodio di criminalizzazione della solidarietà, all’attacco pretestuoso che mira a smontare modelli di approccio umanitario non allineati a quelli governativi, dimostratisi peraltro ad oggi deficitari e fallimentari. E così coloro che s’impegnano nella difesa dei diritti umani e si schierano dalla parte dei più vulnerabili, si trovano attaccati, considerati alla stregua di criminali. Il caso che coinvolge il Baobab è stato attribuito alla DIA, Direzione Distrettuale Antimafia, come spesso è accaduto per alcune inchieste che hanno visto coinvolte le ong che operano soccorso in mare. E quindi via libera a intercettazioni, pedinamenti, indagini fiume - finite in un nulla di fatto - con i migliori strumenti di cui disponiamo per scovare i peggiori criminali, coloro che si occupano di chi nessuno si preoccupa, nemmeno lo Stato. Un’abitudine grave e, diciamocelo, ormai inaccettabile. Tanto più ora, che la straordinaria gestione di arrivi dei profughi ucraini in fuga dal conflitto ci sta dimostrando quanto si sia in grado di realizzare, anche in tempi brevissimi, un’accoglienza sostenibile e dignitosa, seppur numericamente significativa. C’è da chiedersi allora se non abbia più senso, e non sia più giusto, trovare una modalità non di contrasto ma di collaborazione virtuosa con le realtà che si occupano di solidarietà e che hanno il coraggio di esplorare nuovi modelli di inclusione. Diversamente questi attacchi infondati fanno parecchio pensare oltre che scatenare un profondo senso di tristezza per la nostra inadeguatezza rispetto all’accoglienza delle persone che arrivano nel nostro Paese. *Deputato Pd, presidente Commissione d’inchiesta Regeni Mediatore cercasi. E nelle scuole pugliesi si rimane stranieri di Giancarlo Visitilli Corriere del Mezzogiorno, 27 aprile 2022 Sono centinaia i ragazzi di molte nazionalità che faticano a inserirsi nelle classi di tutta la Puglia. Come provare a indossare dei tappi di silicone negli orecchi. Guardare il labiale di chi parla e non poter sentire. Provare a stare così per cinque, sei ore. È la condizione di centinaia di bambine, bambini e adolescenti, studenti in Puglia, stranieri. I numeri ufficiali, quelli reali, non è dato saperli, neanche se ci si affaccia nei blindati uffici ministeriali. Sono i numeri degli studenti nelle classi, nella costrizione di esiliati, perché non conoscono una sola parola di italiano, restano in classe per lunghe e interminabili ore, senza comprendere nulla di quanto si dice e si svolge. Perno, per loro, da qualche anno, non è più prevista la figura del mediatore linguistico e culturale. O meglio, le linee guida del Ministero, legge 170, prevedono che la figura del mediatore sia a carico dell’ente locale. “È così - spiega un funzionario dell’Ufficio scolastico regionale, che preferisce non apparire con il suo nome - dal momento in cui è stata cambiata la legge di bilancio con il governo Berlusconi: gli uffici periferici del ministero non sono nodi che erogano risorse finanziare. Quindi, ogni tre mesi vengono assegnate dei soldi direttamente alle scuole, ma non per la mediazione, perché questa figura e questo ambito del sociale, secondo la legge 328 del 2000, è di competenza dell’ente locale”. La mediazione culturale, quindi, è una mediazione a tutto campo come quella della sanità, della giustizia e di vari settori della vita civile, in quanto tali a carico dell’ente locale. Con la legge 170, quella che sarebbe stata relativa alla “buona scuola”, i bisogni speciali si è cercato di medicalizzarli. Per togliersi un problema, cercando di estorcere da altri settori ciò che sarebbe un dovere proprio della scuola. “C’è stata una rimozione della questione” sostiene anche il funzionario. C’è una volontà del legislatore, che viene dalla Bossi-Fini, che ha portato a un restringimento a favore degli stranieri e la storia di Zhao, preadolescente cinese, che è in classe dall’inizio di settembre e senza un’insegnante per insegnargli la lingua italiana, dovrebbe interpellare un Paese civile. Gli occhi arrossati di Zebrha, bambina afghana di otto anni, in classe, con accanto un’insegnante che sta con lei tre ore alla settimana, e che durante le restanti ore resta sempre seduta al suo posto, senza che possa comprendere nulla di quello che si svolge intorno a lei, sa di carcere, di ghetto. Di un qualcosa che dovrebbe far saltare un paese civile, cristiano, per giunta cattolico, e come si dice, con la migliore Costituzione del mondo. Quale? Perché si stenta a crederlo, se ci sono tante bambine, bambini e adolescenti che, se trovano la sensibilità, come ce n’è e per fortuna tanta, fra i presidi e molti insegnanti, di dedicarsi a loro, preparandosi allo studio dell’insegnamento della lingua per stranieri, è bene. Altrimenti, nella maggior parte dei casi, questi studenti vengono affidati a insegnanti che hanno ore di potenziamento, e magari insegnano Diritto, Scienze motorie, e gli si affidano questi studenti. Perché li tengano. Non si sa, molte volte, a fare che. Sergio Nisi, insegnante di matematica racconta di aver avuto uno studente cinese, Han, “che non conosceva neanche una parola d’italiano. L’unico modo che ho trovato per comunicare era l’inglese. Anche in questo caso non era affatto semplice, ma siamo comunque riusciti a fare qualcosa di accettabile”. Accettabile? Nella scuola? E se il professor Nisi non avesse la padronanza della lingua inglese, sarebbe successo come a Luca, studente di un liceo del barese, di cui racconta la professoressa Elisa Martielli: “Luca ha 17 anni, è in Italia da pochi mesi e frequenta una classe seconda. Prima del viaggio, risiedeva in Albania, dove frequentava anche lì una scuola con risultati, a suo dire, abbastanza soddisfacenti. Lui parla poco l’italiano e riferisce di avere difficoltà nel comprendere la nuova lingua, pertanto in classe spesso si estranea dal contesto, rifugiandosi nel suo cellulare, che pare rappresentare l’unico ponte con il suo mondo, quello lasciato fuori dalle mura scolastiche. I suoi interessi, infatti, sembrano essere rivolti solo all’esterno della scuola e questo si evince dalla sua scarsa partecipazione, nonostante i numerosi tentativi realizzati dai docenti”. Perché dovrebbe rispondere alle sollecitazioni? E a quali sollecitazioni, poi, se non saprebbe come interloquire con gli altri? E allora ci si arrangia con quello che Luca, da sé riesce a organizzarsi, mediante la relazione con i compagni “che è abbastanza buona, sembra aver stretto amicizia con alcuni di loro nonostante ci sia un gap di circa tre anni”. E chissà se con i suoi compagni di classe Luca parla come gli italiani all’estero. Coi gesti. Come i primitivi. Perché in una scuola dove accade questo, non si può parlare che di primitività. Di uno stato (magari anche con la lettera maiuscola) bestiale. È quello che si dovrebbe insegnare a scuola. Non altro. La professoressa Angela Rita De Canio racconta di una sua alunna, “arrivata con un carico di aspettative, bisogni educativi e relazionali, limiti e timori. Un fardello così grande per un’adolescente che alle prime domande rivolte agli studenti per fare conoscenza, ha risposto con un pianto ininterrotto. La difficoltà era, in effetti, enorme: la comunicazione era limitata dalla scarsa conoscenza della lingua italiana. Il percorso di crescita della ragazza, del resto della classe e dei docenti insieme a loro, è stato scandito da momenti anche complessi e che si sono acuiti grazie anche a causa della didattica a cui abbiamo dovuto abituarci in seguito all’emergenza sanitaria”. Sono questi le studentesse e gli studenti che si sono dispersi, non i nostri figli. Quelli che già vivevano ghettizzati, e che non hanno trovato una parola per loro comprensibile, per riportarli in quella che sarebbe dovuta rimanere la loro casa. Quella che accoglie e integra e non tiene. Adatta e convince. Dalla scuola San Nicola di Bari, nel borgo antico della città, l’insegnante Adalisa Colucci, insieme al preside, Giuseppe Capozza, raccontano di come “in due anni abbiamo avuto modo di conoscere ben sette famiglie arrivate nella nostra scuola da ogni parte del mondo. Ragazzini e genitori che avevano negli occhi un senso di timore (il timore di aver sbagliato ancora una volta, di aver sbagliato porta a cui chiedere aiuto per sé e per i propri familiari). I ragazzi osservano le espressioni del viso, difficilmente capiscono qualcosa ma avvertono lo stato d’animo. Quando, nel precedente anno scolastico, ormai a quadrimestre quasi concluso, arrivarono due adolescenti, un fratello e una sorella dall’Iraq, era subito parso evidente che l’accoglienza era ancora una volta la doverosa parola d’ordine. La loro storia ci aveva lasciati con un nodo alla gola: una famiglia scappata nottetempo dalle minacce di morte e da un attentato alla loro unica dimora. Rifugiati politici che chiedevano asilo nel nostro Paese e due adolescenti in cerca di un modo per proseguire, in terra chiaramente straniera, gli studi. Come li abbiamo accolti? Con un progetto sulla cura del cortile della scuola, con tutto ciò che potesse aiutarli ad aprirsi al mondo ed ai loro coetanei che parlavano una lingua incomprensibile. La matematica, il cui codice universale si applica a tutti e prescinde dalla provenienza geografica di ognuno, era il loro momento di didattica disciplinare. Non una parola in lingua italiana, poco inglese e frammentario, gesti e Google translate per comunicare. Siamo andati avanti così da marzo fino a giugno. Con alfabetizzazione affidata alla docente di potenziamento che li avrebbe condotti ad un apprendimento base della lingua italiana per affrontare gli esami di Stato”. Senza vergogna. Quella che in uno Stato simile, si dovrebbe avvertire, se non è previsto d’obbligo un insegnante preposto. Al modo di come tale diritto è garantito ai nostri figli e per almeno una dozzina di docenti, ognuno, preparato nella propria disciplina. Perché, chi insegna italiano agli stranieri, deve, necessariamente, aver fatto una preparazione diversa da chi si accontenta di prepararsi da solo, sul libro che la scuola ha acquistato, coi molti soldi dell’emergenza sanitaria affidati alle scuole, per barcamenarsi con gli studenti stranieri. Intanto chi insegnerà a Luca, a Zebrha, a Chloe, a Zaho, come si dice al primo amico/ a, ti vuoi mettere con me? Mi dai un bacio? Vuoi essere il mio fidanzato/a? Giochiamo insieme? Tu come ti chiami? Come stai? Io meglio, perché ti comprendo e ti sento. Ma non ti sento solo con le orecchie. Guarda, tocca, forse mi sono innamorato di te. Lo sai che fra me, afghano e te italiana/o, può essere che si riesca a crescere dei figli, come noi ora. Qui, a scuola. Ci si prende cura di noi. Al modo di quel geniaccio italiano, che in inglese si inventò l’I care. Per farsi comprendere da tutti. Come maestro di Scuola. “Putin non resterà impunito per i crimini di guerra. Non potrà sfuggire al mandato di cattura” di Giovanna Casadio La Repubblica, 27 aprile 2022 L’ex ministra degli Esteri Emma Bonino ha contribuito a scrivere lo statuto della Corte penale internazionale dell’Aja. “Putin sarà processato, non resterà impunito, come non lo è stato Milosevic. E la Corte penale internazionale si sta già muovendo”. Emma Bonino, ex ministra degli Esteri e commissaria Ue, ha contribuito a scrivere lo statuto della Corte dell’Aja. Indica le tappe del diritto internazionale per arrivare a “spiccare un mandato di cattura, che sarà l’altro passo nell’isolamento del capo del Cremlino, come le sanzioni dal punto di vista economico”. Bonino, ci sono strumenti di diritto internazionale per agire su Putin? “Putin è il responsabile unico di questa aggressione violenta, non provocata ed ingiustificabile. Gli sforzi diplomatici ci sono stati e ci sono, l’ultimo è la visita del segretario generale dell’Onu prima a Mosca e poi a Kiev. Il punto è che Putin non sente ragioni e prosegue il suo tentativo di occupazione militare del territorio ucraino in nome della fantomatica ‘de-nazificazione’ e della ‘de-ucrainizzazione’ della Repubblica guidata da Zelensky. L’Onu è paralizzata dal diritto di veto nel Consiglio di sicurezza. La Corte penale internazionale può avere un ruolo decisivo, accertando i crimini di guerra e contro l’umanità. Diciamo che il fatto di subire un processo internazionale indipendente dovrebbe scoraggiare Putin, di certo lo isola”. Ma come si fa a processare Putin? “La prima competenza è della magistratura ucraina, soprattutto se supportata dall’invio di esperti di Paesi amici. E la procuratrice generale, Iryna Venediktova, non ha perso tempo. La Corte penale internazionale (la cui giurisdizione l’Ucraina ha volontariamente accettato nonostante non ne sia parte) opera in base al principio di complementarietà, vale a dire nel caso in cui lo Stato in questione sia inabile o riluttante. Qualora i russi dovessero prendere il totale controllo del territorio impedendo alla magistratura ucraina di procedere, entra in gioco la Corte penale internazionale. In questo senso agisce come una polizza assicurativa. Quindi Putin sarà processato in ogni caso”. Un mandato di cattura internazionale, Putin come Milosevic, da parte della Corte dell’Aja, sembra oggi complicato... “Lo sembrava anche per l’onnipotente Milosevic ai tempi del tribunale ad hoc per l’ex Jugoslavia, e per i suoi complici Karadzic e Mladic. Il primo è morto in carcere all’Aja, i secondi sono all’ergastolo. Il problema non è spiccare il mandato di cattura quanto la sua messa in esecuzione. Putin può sfuggirvi, ma non per sempre”. Lei ha contribuito a scrivere lo statuto della Corte penale internazionale, che però ha giurisdizione solo su genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità: va superata o rifondata? “Non va superata o rifondata ma maggiormente sostenuta e legittimata. Arrivarci è stato un lungo cammino, anche attraverso passaggi intermedi come i tribunali ad hoc. La strada maestra per l’affermazione della giustizia penale internazionale è, e rimane, la Corte dell’Aja”. Tuttavia non crede che la Corte sia già in ritardo? “A dire la verità penso che la Corte dell’Aja abbia reagito prontamente, aprendo un’inchiesta e cominciando a raccogliere prove dei crimini per giudicare chi li abbia commessi”. Quello che sta accadendo a Bucha, a Mariupol, in altre città ucraine le ricorda Srebrenica? “Come livello di orrore senz’altro, ma a Srebrenica la dinamica fu diversa. Nonostante si trattasse di un ‘safe haven’, una zona sotto la protezione delle Nazioni Unite, Mladic e i suoi uomini agirono in totale impunità. Ci vollero mesi per raccogliere le prove del massacro, che furono subito occultate. Il vantaggio oggi è che le nuove tecnologie ci consentono di documentare i crimini quasi in tempo reale”. L’Europa ha un ruolo gregario rispetto agli Usa? “L’Ue sta giocando al meglio il suo ruolo: sulle sanzioni, sull’isolamento politico diplomatico di Putin, sull’invio di armi perché Kiev possa difendersi e sull’accoglienza di milioni di rifugiati ucraini. Per avere un ruolo pienamente confacente alla nostra dimensione economica e strategica dovremmo dare all’Ue quello che gli stati non hanno ancora voluto, cioè una politica europea comune su politica estera e di difesa”. Stati Uniti. Melissa Lucio, sospesa la condanna a morte di Elena Del Mastro Il Riformista, 27 aprile 2022 Alla fine il “miracolo” è avvenuto: è stata sospesa la condanna a morte in Texas di Melissa Lucio, madre di 14 figli, accusata della morte di una di loro. Lo ha deciso la Corte d’appello secondo quanto riferiscono i suoi avvocati. Il giorno della condanna a morte era fissato per il 27 aprile ma la donna, 53 anni, di origine messicana, ha avuto la “clemenza”. La donna si è sempre detta innocente e negli ultimi giorni la sua famiglia e gli attivisti hanno moltiplicato gli appelli per fermare la sua esecuzione. Lucio è stata condannata con l’accusa di aver ucciso nel 2007 la più piccola delle sue figlie, Mariah, 2 anni, nella contea di Cameron. La bimba, secondo la difesa, è deceduta per le ferite interne riportate due giorni dopo una caduta accidentale, mentre l’accusa sostiene che sarebbe stata picchiata. I difensori sostengono, con validi elementi a riscontro, che un riesame dell’autopsia fatto alla luce delle migliorate conoscenze scientifiche dimostrerebbe che la bambina è plausibilmente morta per una caduta accidentale dalle scale di casa. Le nuove risultanze sembrano anche spiegare i molti lividi trovati sul corpo della bambina, plausibili con una ipersensibilità dovuta a una malattia genetica della coagulazione del sangue. In suo favore nei giorni scorsi si è mobilitato tutto il mondo, è sorto un movimento molto forte. A favore di Melissa si sono schierati alcuni vip, quasi metà dei giurati popolari che pure l’avevano condannata, alcuni pubblici ministeri (quello che aveva gestito il processo nel frattempo è stato condannato a 13 anni di carcere per gravi irregolarità in altri processi) e gruppi di pressione a favore delle minoranze etniche, contro le violenze domestiche, per i diritti dei minori. Una petizione popolare, alla quale ha partecipato anche Nessuno tocchi Caino, ha raccolto oltre 235.000 firme. La cosa abbastanza sorprendente, trattandosi del Texas, ma anche in generale, è che a favore della “clemenza” si sono pronunciati, firmando un appello esplicito, il 60% dei parlamentari texani. E il parlamento texano è a forte maggioranza conservatrice (57%), così conservatrice che un gruppo di parlamentari, per rendere più evidente il supporto a Melissa, è andato in carcere e si è fatto fotografare mentre tutti insieme si erano raccolti in preghiera. Dopo che anche i 13 figli vivi della Lucio hanno testimoniato di non essere mai stati maltrattati, anche il giovane pubblico ministero che ha ereditato il caso dal collega arrestato si è detto favorevole a rivederlo. Il Comitato per gli affari legali e i diritti umani del Consiglio d’Europa, nel 2019, evidenziava per i figli dei condannati a morte come “questi bambini, spesso dimenticati e socialmente svantaggiati, possono subire un trauma in ogni fase del processo che porta all’esecuzione del genitore”: è un “fardello emotivo e psicologico” che “viola i loro diritti”. Il Consiglio raccomandava di dare “massima importanza all’interesse superiore del bambino” nelle sentenze sui genitori e rispettare il divieto della pena di morte per chi aveva meno di 18 anni al momento del presunto reato. Come richiamato anche nella Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia del 20 novembre 1989. Stati Uniti. Nel Texas regno dei boia a volte accadono miracoli di Sergio D’Elia Il Riformista, 27 aprile 2022 Il Texas non è terra di miracoli. Ma nel caso di Melissa Lucio il miracolo è accaduto. Oggi, 27 aprile dell’anno del Signore 2022, doveva essere il giorno dell’Antico Testamento. È divenuto invece quello della Buona Novella. Al di là della solita storia, della consuetudine e di ogni ragionevole certezza, la Corte d’Appello Penale del Texas ha stabilito la sospensione dell’esecuzione di Melissa, proprio alla vigilia dell’ennesimo evento patibolare, dell’ennesimo primato texano. Nel braccio della morte per l’omicidio della figlia Mariah di due anni avvenuto nel 2007, Melissa sarebbe stata la prima donna latina giustiziata negli Stati Uniti dalla ripresa della pena di morte negli anni 70. Il tribunale ha ordinato alla stessa corte che ha emesso la condanna di riesaminare il caso. Non è stato un provvedimento di clemenza contro la sua condanna a morte, ma un provvedimento “intermedio” che prelude però a un pronunciamento esplicito sulla validità della condanna. I miracoli non sono solo prerogativa dei santi, possono essere atti creativi di persone di buona volontà, che si mobilitano, pregano, invocano, si concentrano, vivono nel modo e nel senso in cui vogliono accadano le cose. L’atto di osservare qualcosa è esso stesso un atto creativo. Il modo di pensare, di sentire e di agire crea la realtà. Secondo Giordano Bruno, non è la materia che genera il pensiero, è il pensiero che genera la materia. A ben vedere, fu il motivo vero della sua condanna. Per questo fu bruciato vivo a Campo de’ Fiori: per aver rivelato la comunione diretta tra Dio e l’uomo, per aver celebrato la centralità dell’uomo nuovo che, in virtù del suo cambiamento, può divenire cosciente, responsabile di sé e capace di creare un nuovo mondo. Questa non è filosofia, questa è fisica. Diventa realtà la possibilità che viene osservata. Noi siamo immersi in un campo che contiene tutte le possibili realtà che aspettano solo di essere osservate e che riflette quello che noi crediamo dentro di noi. Allora, anche in Texas, è potuto accadere che coloro che si sono impegnati a “osservare” il caso di Melissa Lucio - avvocati, procuratori, parlamentari, attivisti contro la pena di morte - abbiano costituito un laboratorio straordinario di “spes contra spem”, sono stati speranza contro ogni speranza e, per ciò, hanno determinato un destino diverso per Melissa e, forse, anche per altri destinati a morte certa. Anche in Texas, nella terra delle cose immutabili e dei dannati a morte, irredimibili e indegni del benché minimo atto di clemenza, è potuto accadere che una donna già sulla soglia del patibolo non sia stata messa in croce. Tutto ciò è potuto succedere grazie a una teoria di fatti, di persone e di energie positive. Gli avvocati della importante associazione “The Innocence Project” hanno studiato il caso di Melissa Lucio e hanno osservato che lo Stato per ottenerne la condanna ha utilizzato testimonianze false, che le nuove prove scientifiche minano la condanna, che lo Stato ha nascosto le prove favorevoli all’imputata, in definitiva, che lei è innocente. Lo stesso procuratore, Luis Saenz, sollecitato dai giornalisti, aveva previsto che l’esecuzione sarebbe stata sospesa dalla Corte d’Appello; altrimenti, probabilmente, lo avrebbe fatto lui. Si sono mobilitati per lei e invocato la sua innocenza personalità importanti come Kim Kardashian, giurati popolari che pure l’avevano condannata, alcuni pubblici ministeri, gruppi di pressione a favore delle minoranze etniche e dei diritti dei minori. Una petizione popolare, alla quale ha partecipato anche Nessuno tocchi Caino, ha raccolto oltre 235.000 firme. A favore della “clemenza” si sono pronunciati i parlamentari texani, molti repubblicani. Alcuni di loro si sono raccolti in preghiera nel carcere dove erano andati a trovarla. I 13 fratelli della piccola Mariah Alvarez hanno testimoniato quanto la madre li abbia curati e gli abbia voluto bene e hanno chiesto di non essere “vendicati” in un modo crudele che li avrebbe resi orfani. Nessuno tocchi Caino ha fatto l’esperienza di miracoli di questo genere, che sono avvenuti anche nei bracci della morte e della pena fino alla morte, dove i condannati al supplizio capitale e al “fine pena mai”, mutando sé stessi, incarnando il cambiamento che avrebbero voluto vedere nel mondo, hanno cambiato la realtà della pena di morte e della pena fino alla morte, hanno mutato gli altri e il mondo. La moratoria ONU delle esecuzioni capitali, la sentenza della Corte Europea dei diritti umani contro l’ergastolo ostativo, non sono state causa, ma effetto del cambiamento creatore di chi ha avuto fede sperando contro ogni speranza, così divenendo come Abramo padre di molte discendenze o come Caino costruttore di città. Chi è Osman Kavala, il filantropo condannato all’ergastolo in Turchia today.it, 27 aprile 2022 Attivista per i diritti umani, difensore delle minoranze, oppositore del presidente Recep Tayyip Erdogan, Osman Kavala, sessantaquattrenne editore e filantropo è stato condannato all’ergastolo in Turchia, scatenando forti proteste in tutto il Paese e anche a livello internazionale. L’uomo era già detenuto dall’ottobre 2017 nella prigione di alta sicurezza di Silivri alla periferia di Istanbul, nonostante i ripetuti appelli per il suo rilascio. Era stato inizialmente perseguito per aver sostenuto le proteste nel 2013, conosciute come il movimento Gezi, contro il governo dell’allora primo ministro Erdogan. Da allora, ricorda l’Ap, le accuse nei suoi confronti si sono accumulate, compresa quella di aver tentato di rovesciare il governo nel colpo di Stato del luglio 2016. Nel corso degli anni, la stampa filogovernativa lo ha soprannominato “il miliardario rosso”, paragonandolo al ricco uomo d’affari americano di origine ungherese George Soros. Lo stesso presidente Erdogan lo ha ripetutamente accusato di essere il “rappresentante di Soros in Turchia” e di “finanziare i terroristi”, senza mai fornire prove. Nato nel 1957 a Parigi, Osman Kavala ha studiato economia all’Università di Manchester, Regno Unito, prima di rilevare l’azienda di famiglia dopo la morte del padre nel 1982. Noto per il suo sostegno a progetti culturali come i diritti delle minoranze, la questione curda e la riconciliazione armeno-turca, ha gradualmente rivolto la sua attenzione all’editoria, all’arte e alla cultura, aprendo nel 1982 la casa editrice Iletisim, che è diventata una delle più prestigiose in Turchia. Permettere alla società turca di discutere di questioni difficili, tra cui il genocidio armeno, attraverso progetti culturali è una delle missioni di Anadolu Kültür, una fondazione che ha creato nel 2002. Per ospitare mostre Kavala ha trasformato un ex magazzino di tabacco nel centro di Istanbul, che aveva ereditato, in un centro culturale ora chiamato Depo. Assolto nel febbraio 2020 per le proteste di Gezi - una decisione che è stata poi ribaltata - è stato arrestato poche ore dopo e incarcerato in un’altra indagine legata al tentativo di colpo di Stato del luglio 2016. “È l’ultima persona che potrebbe sostenere un golpe”, ha detto Asena Günal, il direttore di Anadolu Kültür. “È spaventoso vederlo preso di mira in un gioco politico incomprensibile”, ha detto Emma Sinclair-Webb della Ong Human Rights Watch. A febbraio, la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) aveva avviato una “procedura per inadempimento” contro la Turchia, una rara decisione che potrebbe portare a possibili sanzioni contro Ankara nel caso il cui Kavala non venga rilasciato rapidamente. Il mese scorso però i procuratori hanno chiesto che fosse condannato all’ergastolo senza possibilità di rilascio anticipato. L’uomo ha ieri definito un “assassinio giudiziario” quello che sta subendo, parlando prima che i giudici si ritirassero per deliberare. Venerdì, aveva già detto: “L’aver passato quattro anni e mezzo della mia vita in prigione non potrà mai essere compensato. L’unica cosa che mi può consolare è di aver contribuito a rivelare i gravi errori della giustizia turca”. La procedura in corso può condurre alla sospensione del diritto di voto o addirittura della appartenenza della Turchia al blocco dei 47 Paesi firmatari della Convenzione europea per i diritti dell’uomo: un rischio concreto, alla luce delle reazioni che la sentenza ha sollevato non solo in Turchia, ma anche in Europa. Il processo a Kavala era atteso come un vero e proprio test sull’indipendenza del sistema giudiziario turco. Gli avvocati della Difesa hanno sottolineato che non solo il caso Kavala vede Erdogan parte civile, ma uno dei giudici della corte è stato membro del parlamento nel 2018, eletto proprio nella fila dell’Akp del presidente ed è rimasto al suo posto nonostante la richiesta di ricusazione da parte della difesa. Eppure, Ankara insiste nell’affermare l’indipendenza del proprio sistema giudiziario e ha ritenuto non vincolante la decisione della corte con sede a Strasburgo, che aveva accolto le richieste degli avvocati del filantropo e decretato l’illegittimità della misura detentiva. In seguito alla sua condanna, si legge sul quotidiano BirGun, organizzazioni non governative e sindacati hanno organizzato manifestazioni di protesta per chiedere il rilascio dell’attivista. Secondo il giornale sono state organizzate iniziative in 16 province turche, tra cui Istanbul, la capitale Ankara e Smirne, la terza città più grande del Paese. Myanmar. Aung San Suu Kyi condannata a cinque anni per corruzione La Repubblica, 27 aprile 2022 L’ex leader, premio Nobel per la pace, ritenuta colpevole di corruzione. Dal primo febbraio 2021, giorno del golpe militare che rovesciò il suo governo, è detenuta ai domiciliari. Contro di lei pendono altre pesanti accuse. Un tribunale istituito dai militari golpisti del Myanmar ha condannato la leader deposta e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi a cinque anni di carcere per uno dei casi di corruzione per cui è imputata. Suu Kyi, 76 anni, è detenuta dalle prime ore del colpo di stato perpetrato dai militari il primo febbraio 2021 ed era già stata condannata a sei anni di reclusione. In questo processo, svoltosi nella capitale Naypyitaw, era accusata di aver accettato tangenti per 600.000 dollari e 11,4 chili d’oro dall’ex governatore di Rangoon, Phyo Min Thein, che ha testimoniato in ottobre contro la leader eletta. Il dibattimento è stato chiuso al pubblico e agli avvocati della premio Nobel per la pace è stato vietato parlare con i giornalisti e con le organizzazioni internazionali. Contro la vincitrice delle elezioni del 2015 e del 2020 pendono numerose accuse, dalla violazione di una legge sui segreti di Stato che risale all’epoca coloniale alla frode elettorale, dalla sedizione alla corruzione. Al termine dei procedimenti giudiziari che secondo gli osservatori mirano soltanto ad escluderla definitivamente dalla vita politica rischia di essere condannata a decine e decine di anni di carcere. Suu Kyi è isolata nella stessa residenza in cui è rinchiusa dal giorno del golpe militare che ha messo fine a un decennio di transizione democratica. Molti dei suoi collaboratori sono stati condannati in modo pesante: la pena capitale per un ex parlamentare, 75 anni di reclusione per un ex ministro, 20 anni per altri esponenti del governo deposto. Altri sono andati in esilio o sono entrati in clandestinità. Il colpo di stato militare ha fatto piombare Myanmar nel caos. In alcune regioni è stata organizzata la resistenza armata. Secondo osservatori sul posto, circa 1.800 civili sono stati uccisi dall’esercito e più di 13.000 sono stati arrestati.