Cpt, sovraffollamento: fissare soglia massima di detenuti per ogni prigione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 aprile 2022 Il Comitato europeo contro la tortura (Cpt), organo del Consiglio d’Europa, raccomanda agli Stati membri con persistente sovraffollamento carcerario di affrontare il problema con determinazione. Bisogna fissare il limite dei detenuti in carcere, per evitare il sovraffollamento. Il Comitato europeo contro la tortura (Cpt), organo del Consiglio d’Europa, raccomanda agli Stati membri con persistente sovraffollamento carcerario di affrontare il problema con determinazione, fissando un numero massimo di detenuti da accogliere in ogni istituto penitenziario, da rispettare scrupolosamente. Lo ha segnalato il Garante nazionale delle persone private della libertà sul suo sito istituzionale. Il Rapporto del Cpt chiede agli Stati di promuovere un più diffuso utilizzo delle misure alternative - A giudizio del Cpt, il sovraffollamento ostacola gli sforzi per rispettare pienamente la proibizione di tortura e di altri trattamenti o pene inumani o degradanti. Il Rapporto chiede inoltre agli Stati di promuovere un più diffuso utilizzo delle misure alternative, come le misure di comunità e i sistemi di monitoraggio elettronico. Sempre nella relazione annuale, il Cpt sottolinea che, sebbene nel corso degli anni alcuni paesi abbiano realizzato progressi tangibili nella lotta al sovraffollamento carcerario, questo problema persiste in molti sistemi penitenziari, specialmente nelle carceri che accolgono i detenuti in custodia cautelare. Inoltre, anche nei paesi in cui il sovraffollamento non costituisce un problema per l’intero sistema, è possibile che alcune carceri, parti di esse o celle siano sovraffollate. I governi dovrebbero garantire che i detenuti abbiano spazio sufficiente per vivere dignitosamente - “Il sovraffollamento carcerario mina ogni tentativo di dare un significato pratico al divieto della tortura e di altre forme di maltrattamento poiché può risultare in una violazione dei diritti umani. Mette a rischio tutti i prigionieri, in particolare i più vulnerabili, e il personale carcerario, minando gli sforzi per reintegrare i detenuti nella società. I governi dovrebbero garantire che i detenuti abbiano spazio sufficiente per vivere dignitosamente in prigione e che le misure non detentive siano utilizzate in modo adeguato, assicurando nel contempo che il sistema di giustizia penale fornisca un’adeguata protezione alla società”, ha affermato il presidente del Cpt, Alan Mitchell. Il rapporto ricorda che il sovraffollamento carcerario è principalmente il risultato di rigide politiche penali, spesso un uso più frequente e più lungo della custodia cautelare, pene detentive più lunghe e un uso ancora limitato di misure alternative alla detenzione. Si dovrebbe effettuare una revisione dettagliata della capacità di ciascuna cella - Come primo passo, le amministrazioni penitenziarie dovrebbero effettuare una revisione dettagliata della capacità di ciascuna cella, carcere e del sistema carcerario, applicando rigorosamente gli standard Cpt relativi allo spazio abitativo minimo offerto a ciascun detenuto: almeno 4 metri quadrati di superficie abitabile in celle condivise e 6 metri quadrati in celle singole (esclusi gli annessi sanitari). Ci dovrebbe essere, sempre secondo il Cpt, un limite massimo assoluto per il numero di detenuti per ciascuna prigione. Esorta quindi i governi a collaborare con legislatori, giudici, pubblici ministeri e dirigenti carcerari per affrontare il sovraffollamento penitenziario con un’azione concertata. Stupri in carcere: se fallisce la rieducazione, falliamo tutti noi di Veronica Manca* Il Dubbio, 26 aprile 2022 “Se parli ti ammazziamo”, quella minaccia sussurrata al collo, con tanto di lenzuola inumidite e la minaccia del coltello, nel terrore più buio il “topolino” immobilizzato, è solo un frammento della denuncia del Sindacato della Polizia Penitenziaria rispetto al fatto, che sarebbe avvenuto nel carcere di Regina Coeli. Un fatto, che ovviamente dovrà essere accertato e definito nella sede più opportuna, che è e rimane sempre quella del processo penale. Anche a tutela di coloro che oggi vengono dipinti come degli “aguzzini”. Tuttavia, la brutalità dell’accaduto impone delle riflessioni sulla direzione che il sistema penitenziario sta prendendo e su quali contenuti il carcere si riduce ad avere, rispetto a quelli tanto decantati, ma mai applicati fino in fondo, della Costituzione. Il punto non è tanto il fatto in sé, ma ciò che il fatto dello stupro è in grado di raccontare sull’educazione carceraria. Nel codice d’onore del carcere, infatti, la violenza sessuale tra uomini, indotta o costretta, non è quasi mai uno strumento legato all’affettività, ma è veicolo di messaggi criminali di sopraffazione, da un lato, e di profonda umiliazione e punizione, dall’altro. È l’indice di quanto l’illegalità e la cultura della violenza dilaghino anche in carcere, e nonostante il carcere. È l’indice di quanto il carcere sia fallimentare per l’affermazione della legalità e che, di per sé, non garantisca nessun tipo di sicurezza sociale, né di custodia, né di rientro in società. È l’indice di quella educazione criminale che prende liberamente il sopravvento, con le luci spente e il blindo chiuso. Quella realtà, che tutti noi operatori, cerchiamo di combattere, a luci accese, a viso scoperto, con sacrifici quotidiani, offrendo una alternativa di legalità e di relazione. Personalmente, rimango convinta che il fatto disveli un problema di dignità di relazione. Quella dignità di relazione, che riguarda tutti noi, di cui anche gli operatori vengono privati dal sistema delle riforme a costo zero, in assenza di formazione e di tutela. La carenza di risorse è il leitmotiv che ricorre sempre, anche in questo caso, ogniqualvolta accade un fatto drammatico in carcere: dai suicidi, agli atti autolesivi, alle violenze, ai morti, alle torture. Un alibi, che non elimina i problemi e non esime da responsabilità. Tuttavia, è possibile operare per la legalità in assenza di personale? La mancanza di personale sanitario rende impossibile intercettare disagi e violenze, che quasi spesso vengono ritenuti “normali”, e che per questo non vengono denunciati. L’assenza di psicologi e di esperti ex art. 80 della legge sull’ordinamento penitenziario, per non parlare delle condizioni di accesso alle graduatorie e della precarietà della durata dei contratti, preclude l’accesso a forme di confidenza tutelata. Stesse conclusioni rispetto al personale educativo, sepolto, anche a supplenza di direzioni vacanti, nella burocrazia, e impossibilitato a quella funzione naturale del contatto con il detenuto, nei colloqui. Così per il personale degli Uffici Esecuzione Penale Esterna, ormai più assorbito nelle indagini socio- familiari per la messa alla prova per il processo penale, che operativi nelle strutture detentive. Tutti aspetti di dignità della relazione, su cui finalmente, rispetto al passato, il ministro della Giustizia Marta Cartabia, sta intervenendo, investendo risorse significative, sia sull’assunzione del personale sia sulla formazione, anche mediante la valorizzazione della giustizia riparativa, che, nei rapporti tra detenuti e con il personale della Polizia Penitenziaria, potrebbe essere un valido strumento di prevenzione e di mediazione. Infatti, la formazione degli operatori è fondamentale per comprendere e per trasmettere il valore di una relazione dignitosa. Il fatto che in carcere permanga la cultura criminale, della violenza e dell’omertà, e che il carcere agevoli queste forme di sopraffazione, anche sessuali, deve darci modo di meditare sul senso delle relazioni e ulteriormente responsabilizzare il mandato di legalità e di rieducazione che assumiamo quando varchiamo la soglia del carcere. Qualsivoglia intervento sul carcere non può infatti prescindere da una riflessione sull’educazione che il carcere produce e di quella, che in alternativa, viene offerta e dei suoi risultati, valorizzando tutti gli strumenti che garantiscano la dignità delle relazioni interpersonali, tra persone ristrette, con gli operatori e tra di essi. Il rischio del fallimento, non è solo per il carcere, ma per tutti noi e per la società. *Avvocata del Foro di Trento e componente Osservatorio Carcere Ucpi Incontro con Marco Puglia. Una vita da Magistrato di Sorveglianza di Gianfranco Falcone L’Espresso, 26 aprile 2022 Chi è Marco Puglia? Marco Puglia è un Magistrato di Sorveglianza napoletano che cerca di fare al meglio questo lavoro, che amo profondamente. È un magistrato che continua, nonostante il passare del tempo, a trovare compassione e motivo per perseguire l’obiettivo costituzionale. Qual è l’obiettivo costituzionale? Quello di dare un’opportunità, un’altra chances anche a chi ha sbagliato. Quindi perseguire una finalità comune che è quella di rimarginare le cicatrici, le ferite, che fatti di reato possono generare all’interno del tessuto sociale. Lei ha anche funzione di coordinamento dei Magistrati di Sorveglianza? Sono coordinatore del mio ufficio. In sostanza mi occupo anche delle relazioni con l’esterno, e poi ovviamente delle questioni attinenti allo staff dell’ufficio di Santa Maria Capua Vetere. Appartengo al Tribunale di Sorveglianza di Napoli, che si struttura anche in alcuni altri uffici periferici, che sono gli Uffici di Sorveglianza. Quindi, c’è l’Ufficio di Sorveglianza di Napoli, l’Ufficio di Sorveglianza di Avellino, e l’Ufficio di Sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere. Questo, in merito agli istituti penitenziari, si occupa delle carceri di Santa Maria Capua Vetere, di quello di Carinola, e di quello di Arienzo. Poi c’è anche il carcere militare di Santa Maria Capua Vetere che peraltro è l’unico in Italia. Quindi Santa Maria Capua Vetere è un carcere comune ma anche carcere militare? Sono due strutture completamente diverse. Però entrambe esistenti nel territorio della città di Santa Maria Capua Vetere. Lei si occupa delle istanze dei detenuti che fanno riferimento alle carceri che mi ha nominato. Che cosa fa un Magistrato di Sorveglianza? Il Magistrato di Sorveglianza è il magistrato che interviene quando la sentenza di condanna diventa definitiva. Quando inizia un altro importante percorso che è quello dell’esecuzione della pena. Percorso che in determinate circostanze può trovare luogo fuori dal carcere, attraverso le misure alternative alla detenzione come l’affidamento in prova, la semilibertà, la detenzione domiciliare. Ma nella maggior parte delle ipotesi il percorso è invece all’interno dell’istituto penitenziario. Quindi, c’è la detenzione in carcere. Ma essere in carcere non significa ovviamente perdere i diritti ma vedere compressi in parte alcuni diritti, come quello della libertà personale. Ci sono comunque degli strumenti come i permessi premio che consentono di riespandere, anche se momentaneamente, la libertà e altri diritti. Il permesso premio viene chiesto al Magistrato di Sorveglianza dal detenuto. È uno strumento importante di sperimentazione all’esterno, perché consente al detenuto di riagganciare quelle dinamiche affettivo-familiari che si sono ovviamente sbiadite, che si sono lacerate a volte a causa della detenzione. Ma consente anche al Magistrato di Sorveglianza di iniziare a conoscere quel detenuto anche all’esterno. Quindi, capire se il percorso sta adeguatamente avanzando o meno. Quindi il compito del Magistrato di Sorveglianza è quello adempiere al dettato costituzionale che intende la pena come un percorso rieducativo, ed è anche quello di porsi come filtro rispetto a spinte giustizialiste che si presentano nel Paese, spesso o ogni tanto, a seconda di come la si voglia intendere? Assolutamente sì. Perché la figura del Magistrato di Sorveglianza è una figura che risponde sostanzialmente alla necessità di presidiare l’esecuzione della pena. L’esecuzione della pena non può, non deve assolutamente, abbandonare i canoni della legalità. E non li deve abbandonare perché c’è un baluardo inespugnato, e speriamo inespugnabile, che è l’articolo 27 della Costituzione. Il quale oltre a dirci che la pena non è unica, ma può essere molteplice, si usa proprio il plurale del termine pena, le pene, ci dice anche che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, e non possono mai essere determinate da dinamiche che siano inumane, o addirittura degradanti. Questo presidio fa sì che il magistrato debba arginare anche le spinte giustizialiste, che non sono sostanzialmente contemplate dalla nostra costituzione. Perché la pena nella mente dei costituenti non è vendetta, ma è strumento di ricomposizione dei conflitti, e di lavoro perenne su quelle che sono le ferite successive alla commissione di un fatto di reato. In che cosa consistono queste spinte giustizialiste all’interno del paese? E perché ci sono? L’espressione più diffusa, e che anche io ho sentito pronunciare come consiglio, è stato letteralmente “Prendiamo la chiave e buttiamola”. Sostanzialmente questa frase così violenta è una frase che dice “Non diamo più nessuna possibilità a queste persone. Lasciamoli marcire negli istituti penitenziari”. Ovviamente c’è dietro una visione della pena intesa come strumento di violenza, di vendetta. È una visione che nega qualsivoglia finalità risocializzante alla pena. E su questo è necessario sensibilizzare la società civile. Questo è un tema a cui tengo particolarmente e sul quale mi impegno. Questa visione che parla di vendetta si sviluppa per quei fatti rispetto ai quali la società civile avverte un turbamento quasi viscerale, che parte dallo stomaco. Quindi, non percorre le strade della ragione. Molto spesso sento anche parlare di certezza della pena. Ed è anche questo un concetto estremamente evanescente. Perché nel nostro Paese la pena assolutamente è certa. Ma bisogna allo stesso tempo accettare che la pena ha un’accezione proteiforme all’interno del nostro sistema, e quindi non sempre può e deve corrispondere all’idea che noi abbiamo di sanzione rispetto a determinati fatti, e a determinate persone. Al di là del problema etico, che pure ha una sua valenza imprescindibile, perché non è utile e non è logico buttare via la chiave? Non è utile e non è assolutamente intelligente come scelta perché, al di là dell’impossibilità normativa implicita nel prendere la chiave e buttarla, è stato dimostrato dai recenti studi di criminologia e da quelli che sono gli studi sui reati in Italia, che coloro che hanno espiato la pena con le misure alternative, quindi fuori dal carcere, hanno un tasso di recidiva assolutamente molto più basso rispetto a quelli che invece hanno espiato la pena in carcere. Quindi se c’è un settore sul quale bisogna investire è quello delle misure alternative. Non è invece strumento del tutto adeguato il carcere. Perché il carcere ci restituisce in molti casi un danno addirittura aggravato. Perché poi, l’assenza di un percorso di risocializzante serio, significa la commissione di nuovi reati. Quindi, la celebrazione di altri processi, l’esistenza di altre vittime, e infine anche una spesa consistente per la reclusione. Quindi, sotto numerosi punti di vista è assolutamente ingiustificabile. Non è neanche logico e sensato dal punto di vista della difesa sociale. Perché è un detenuto incattivito poi tornerà a danneggiare la società... Assolutamente. Le pene alternative sono solo un privilegio per pochi, un privilegio che rimane sulla carta? No, guardi. Le pene alternative sono numerosissime in Italia, veramente numerosissime. Siamo quasi a una parità tra il numero di detenuti negli istituti penitenziari che si aggira attorno ai 57.000, e il numero dei soggetti a cui sono state concesse le misure alternative, che si aggira anche attorno ai 50.000. Quindi, in effetti potremmo dire che allo stato attuale la stessa qualificazione di alternativo della misura ha perso un po’ di smalto, perché sembra appunto che le misure alternative stiano perdendo questo carattere subordinato rispetto al carcere. Questo sostanzialmente anche perché si sta lavorando su quelli che possono essere dei percorsi esterni, da offrire ai soggetti in esecuzione della pena. È ovvio, e questo è bene chiarirlo, che le misure alternative vengono concesse a chi ha un profilo criminologico, a chi ha una possibilità di recidiva, e in generale una pericolosità molto diversa da chi invece espia la pena in carcere. Quindi, non dobbiamo cadere nell’errore che anche gli associati di stampo mafioso possano in automatico arrivare alla misura alternativa. Assolutamente no. Le strade che conducono ai benefici delle misure alternative, sono strade che cambiano, che si specificano rispetto alle peculiarità della tipologia di reato. Quindi, il percorso che potrebbe compiere l’autore del reato di furto è un percorso diverso da quello che invece è previsto per un eventuale condannato per associazione di stampo mafioso. Il legislatore ha organizzato le norme in misura tale da governare le cose in maniera dettagliata e specifica. Ero convinto che le pene alternative facessero fatica a decollare. Lei invece mi fornisce un’immagine diversa... Uno dei problemi è l’esistenza di soggetti che sostanzialmente potrebbero uscire dagli istituti penitenziari con misure alternative ma, che per le ragioni più disparate come ad esempio l’assenza di un riferimento esterno, non riescono a fruirne. Abbiamo una fetta importante di detenuti italiani, con una pena anche inferiore ai tre anni, che non riesce ad accedere alle misure alternative. E questo genera un sovraffollamento, che aimè è diventato sempre più endemico, sempre più consistente. Perché lei sceglie di diventare magistrato? La sua provenienza da Secondigliano, quartiere difficile di Napoli, ha contribuito a questa scelta? Io ho deciso di diventare magistrato perché amò la giustizia, nelle sue sfaccettature più piccole, più concrete, più immediate, forse anche banali. Questo sentimento innato mi ha spinto ad esercitare, a svolgere questo ruolo. La mia provenienza da Secondigliano ha giocato un ruolo fondamentale, assolutamente fondamentale. Perché questo quartiere mi ha saputo fornire non soltanto gli esempi più terribili di illegalità, ma anche gli esempi più luminosi di legalità, di resistenza, di impermeabilità, a quelle che sono le lusinghe criminali. Questo ha fatto sì che io abbia imparato ad amare la giustizia, ad amare la legalità, capendo allo stesso tempo che la legalità è un concetto molto più vicino di quanto si possa pensare. È un concetto che parte, si genera nel quotidiano, nella nostra relazione con gli altri. Fino ad arrivare alle norme della Costituzione. Quali caratteristiche ha il territorio in cui le si occupa dal punto di vista della criminalità? Ci sono degli elementi comuni o ci sono troppe variabili? Ci sono degli elementi di identità. Consideri che il mio ufficio si occupa di una provincia abbastanza complicata, che è quella di Caserta. Che è stata scenario anche delle principali e più terribili azioni anche del clan dei Casalesi, del cosiddetto clan dei Casalesi. Quindi, stiamo parlando di un territorio che è anche quello della terra dei fuochi. Quindi, di un territorio martoriato dalla criminalità organizzata. Questo si riflette anche all’interno della compagine detentiva degli istituti su cui si esercita il mio ufficio. Perché a Santa Maria abbiamo anche una importante e consistente fetta di detenuti condannati per associazione di stampo mafioso o condannati per reati aggravati dal cosiddetto metodo mafioso. Un’altra tipologia di reati estremamente diffusa in questo territorio, del resto è il controcanto alla diffusione di clan di tipo camorristico, è la tipologia di reati legata agli stupefacenti, quindi al traffico di sostanze stupefacenti e allo spaccio di sostanze stupefacenti. Che poi si traduce anche in un numero consistente di soggetti detenuti tossicodipendenti che sostanzialmente accedono alla sostanza stupefacente non soltanto come spacciatori ma anche come consumatori, creando poi una duplice problematica di gestione all’interno degli istituti penitenziari. Lei ha paura? E se ha paura di che cosa ha paura? Ovviamente ho paura come qualsiasi essere umano. Nel mio lavoro no, non ho paura. Non mi permetto di avere paura. Perché ho un compito che mi impone di essere coraggioso. Impone a me e agli altri colleghi di essere coraggiosi. Impone di essere coraggioso non soltanto quando devo dire no a un’istanza di un detenuto. Ma coraggioso anche quando debbo dire sì a quell’istanza. Perché quel “Sì” rappresenta una spendita da parte mia di fiducia nei confronti di un detenuto, di quella persona ristretta. E quindi mi assumo in quel momento il rischio che quella scommessa importantissima, la scommessa della vita per quella persona, possa fallire. Se mi impelagassi nella paura di scommettere, non sarei probabilmente un magistrato all’altezza del ruolo che devo svolgere. Quanta solitudine c’è nel vostro lavoro? Tantissima, tantissima solitudine. Le decisioni del magistrato sono fatte di solitudine, e sono partorite in solitudine. La solitudine c’è anche quando poi quella scelta si concretizza. Ma questo ovviamente è il prezzo da pagare per una funzione che è tanto complicata e tanto necessaria nel nostro sistema. L’unico intervento previsto dal PNNR in ambito penitenziario è la costruzione di otto nuovi padiglioni da inserire all’interno di istituti penali già esistenti. Come valuta questo intervento ai fini di una riforma della Giustizia, o anche semplicemente dal punto di vista di un esercizio della giustizia penale? Io ritengo che gli investimenti principali da compiere nell’esecuzione penale siano investimenti che favoriscano una maggiore residualità del carcere. Per cui, nel complesso, la costruzione di padiglioni, tra l’altro uno di questi sarà a Santa Maria, non ritengo sia la scelta maggiormente vicina a questa esigenza. È pur vero allo stesso tempo che viviamo in un momento ormai eccessivamente lungo, di sistematico sovra affollamento carcerario. Probabilmente è per questo che si è deciso l’ampliamento di questi istituti penitenziari. La strada che però io auspicherei sarebbe quella di investire nell’esecuzione penale. Quindi, rendere sostanzialmente più strutturati, più poderosi, gli uffici non soltanto della magistratura ma anche degli altri interlocutori, come ad esempio l’Ufficio Esecuzione Penale Interna, i cosiddetti assistenti sociali. Quindi, rafforzare queste strutture, per farsi che il fuori dal carcere sia maggiormente pronto a governare e custodire l’esecuzione della pena nel migliore dei modi. Quali provvedimenti saranno presi affinché la costruzione di questi otto padiglioni non cada in mano alla criminalità organizzata? Le faccio questa domanda perché mi risulta che proprio nel carcere in cui lei opera furono pesanti le ingerenze della camorra nella costruzione. Come riferito dal pentito Carmine Schiavone negli anni Novanta fu il clan dei Casalesi a fornire cemento, mezzi e manodopera, controllando l’intera filiera... Quanto alla questione delle mani della camorra sull’edilizia è ovvio che questo è un ruolo, Un problema che vede la centralità della Procura, e quindi il lavoro dei magistrati che presidiano e sorvegliano affinché non si arrivi al paradosso che è un istituto penitenziario venga costruito, o che la costruzione arricchisca chi poi ci finirà, in un modo nell’altro, all’interno. Questo oggi è un tema molto sentito, anche all’interno della stessa regione Campania. Ci sono tantissime associazioni e tantissimi eventi che vengono a realizzarsi appunto per sensibilizzare anche la società, anche i cittadini a non cedere a questi ricatti. A rimanere vigili, solerti, attenti, affinché non si verifichino quei fatti che appunto Schiavone ha raccontato. Possiamo pensare a un sistema giuridico che non abbia come perno la detenzione e la privazione della libertà? Assolutamente sì. L’esperienza penitenziaria italiana ci invita a una riflessione di questo tipo. Quindi, ci invita anche ad abbandonare l’approccio carcero centrico, che ancora è estremamente radicato, nonostante un ampio utilizzo delle misure alternative. È ovvio che pensare oggi a un sistema penitenziario del tutto privo dello strumento carcerario è, allo stato attuale, utopico. Non soltanto perché non avremmo una società pronta a una scelta di questo tipo. Ma anche perché non avremmo forse strumenti esterni al carcere per poter agire nel migliore dei modi. Ma il carcere, così come spesso si presenta nell’esperienza italiana non riesce ad assolvere in maniera sistematica il suo compito. Il carcere spesso diventa luogo di abbandono, di solitudine, luogo fertile per la commissione di nuovi reati. Allora, la strada può essere duplice, o abbandonare progressivamente il carcere e la sua centralità, o rinnovare profondamente il carcere così come oggi lo intendiamo. A che punto siamo nella costruzione di percorsi che vadano in direzione della giustizia riparativa, che tra l’altro conferisce una diversa dignità alla vittima? La ministra Cartabia ha più volte manifestato un significativo desiderio di avviare il sistema penale italiano verso lo strumento della giustizia riparativa. Ma allo stato attuale la giustizia riparativa in Italia è immersa in un brodo primordiale. Perché le esperienze italiane sono assolutamente ridottissime a differenza di quanto si possa dire per altri paesi, che hanno adoperato, che adoperano da molto più tempo lo strumento della giustizia riparativa. Questa ha duplice vantaggio. in primo luogo mette al centro anche dell’esecuzione penale la vittima, che invece ora viene sistematicamente dimenticata. Basti pensare che la vittima del reato riesce ad aver voce all’interno del nostro processo soltanto attraverso la costituzione di parte civile. Per cui soltanto chiedendo un risarcimento economico all’interno del processo penale, la vittima ha un proprio microfono all’interno del processo. Allo stesso tempo la giustizia riparativa offre meccanismi di maggiore responsabilizzazione dell’autore del reato, e anche la possibilità di arrivare in maniera molto più spedita e molto più salda alla riconciliazione, non soltanto con la vittima diretta ma anche con il tessuto sociale, che ne è rimasto altrettanto scosso e lacerato. Sembra che nelle carceri italiane gli episodi di violenza perpetrati dagli agenti della Polizia penitenziaria ai danni dei detenuti non siano così rari. Basti pensare a quello che è avvenuto a Santa Maria Capua Vetere, nel carcere di San Sebastiano di Sassari nell’aprile del 2000, negli istituti penali di Ferrara, Modena, San Gimignano, Sollicciano, Torino, al Sestante. Che cosa si può fare perché questo non avvenga più? Si picchia in carcere perché probabilmente c’è anche un problema culturale della Polizia penitenziaria. C’è un problema forse di formazione nella gestione della popolazione detentiva, ed è ovvio che per superare problemi enormi come quello che lei citava, non soltanto è necessario adottare tutte le cautele tecniche affinché gli istituti penitenziari non siano dei mondi chiusi all’esterno, ma siano trasparenti affinché tutti sappiano ciò che accade all’interno. Ma c’è anche la necessità di formare e responsabilizzare la Polizia penitenziaria, rispetto a un percorso tanto delicato. Evitando momenti tanto drammatici e problematici come sono stati quelli che lei mi ha citato. Espressione anche di un’idea di carcere che probabilmente molti pensano essere la più giusta. Una delle impressioni che si ricavano dagli episodi di violenza che le ho citato è che i reclusi non siano soltanto quelli passati attraverso il processo, ma anche quelli che dovrebbero esercitare una funzione di controllo. Per molti aspetti sembrano entrambi vivere una medesima solitudine, una medesima difficoltà ad attraversare quei luoghi trasformando l’esperienza detentiva in qualcosa di diverso dalla sola pena, intesa come sofferenza. Certo. Assolutamente. Questo effetto di “prigionizzazione” non appartiene ovviamente soltanto ai detenuti. Appartiene anche agli operatori degli istituti penitenziari, che hanno una relazione con l’istituto, con il carcere, non sempre facile, non sempre lineare. E questo genera anche difficoltà nell’attività lavorativa, genera frustrazione, genera paura. Genera anche fenomeni depressivi importanti. Ed è ovvio che rinnovare il carcere, e dare al carcere il volto più umano possibile gioverebbe non soltanto ai detenuti, ma anche a coloro i quali operano all’interno degli istituti penitenziari. Nelle zone in cui lei opera sono presenti carceri minorili? Come si opera per fare prevenzione rispetto alla devianza minorile? Sui territori dei quali mi occupo non ci sono degli istituti minorili. Però in generale è ovvio che la prevenzione inizia assolutamente anche attraverso la scuola, attraverso quella che è la sistematicità della scuola. Lei tenga conto che ci sono dei territori campani in cui ci sono dei tassi di evasione scolastica più alti d’Italia. Questo ce la dice lunga sulla terribile relazione che esiste tra assenza di riferimenti istituzionali come la scuola e criminalità. E allo stesso tempo emerge chiara la necessità di avviare sin dal principio un meccanismo che agganci i bambini, i ragazzini, i soggetti in formazione, e che dia loro una reale alternativa. Poiché, non di rado si tratta di soggetti, di ragazzi che provengono da contesti socio culturali di privazione, di abbandono. Quindi è necessario salvarli in tempo. Quali sono le difficoltà del Magistrato di Sorveglianza rispetto alla carcerazione femminile? Nella mia esperienza ciò che emerge nettamente, ed è in qualche modo un po’ il riflesso della tradizione culturale italiana, è che la sottrazione della madre dalla famiglia significa davvero sottrarre il perno attorno al quale ruota l’intera famiglia. Questo lo dico perché in più occasioni ho constatato che le maggiori difficoltà emergono non tanto quando la figura maschile, il padre, viene ad essere recluso, ma emergono quando la madre viene sostanzialmente sottratta dal contesto familiare. Le difficoltà, per quanto riguarda le scelte del magistrato, ovviamente emergono soprattutto quando si tratta di donne madri. Quindi di donne che hanno fuori dagli istituti penitenziari dei figli, dei bambini, che hanno abbandonato dal momento in cui non è stato più possibile che stessero con loro nell’istituto penitenziario. Tenga conto che la compagine femminile di cui si occupa il mio ufficio è una compagine di alta sicurezza. Quindi, tendenzialmente si tratta di donne condannate per reati di tipo associativo, per associazione di stampo mafioso, quindi condannate al 416 bis. Il problema sorge per queste donne. Perché anche laddove ci siano problemi importanti nella relazione con i figli, spesso figli anche affetti da patologie, sorge poi la necessità di contemperare questa problematica con la caratura criminale spesso molto consistente delle condannate. Quindi, è necessario individuare lo strumento più opportuno affinché non venga ulteriormente leso il diritto del minore, ma allo stesso tempo non vi siano poi meccanismi e possibilità per la commissione di altri reati. Quali sono i bisogni più sentiti dalle donne detenute? Quelli relativi all’igiene? Alla conservazione della femminilità? Al mantenimento dei rapporti affettivi, non solo con i figli? Sicuramente c’è una grande attenzione a questi aspetti, ma c’è anche da dire che sotto questo punto di vista nell’istituto di Santa Maria Capua Vetere c’è una risposta a questi bisogni. Nel senso che nell’istituto penitenziario è stato creato un piccolo laboratorio dove le detenute hanno possibilità di fare dei piccoli trattamenti di bellezza, ovviamente a loro spese. Questo in qualche modo dà loro la possibilità di rimanere in contatto con ciò che erano prima di entrare nell’istituto penitenziario. C’è questo piccolo laboratorio, non è certo una spa o una beauty-farm. È una stanzetta dove le detenute possono prendersi cura le une delle altre. Pensa che la risoluzione del Consiglio d’Europa del 2018, relativa alla questione femminile nelle carceri europee, abbia fornito o possa fornire strumenti validi alla magistratura? Mi riferisco a quelle norme di soft law che prevedevano anche l’istituzione di un ufficio specifico per la gestione della questione femminile in carcere. Queste indicazioni sono state di qualche utilità o sono rimaste solo sulla carta? Sono solo sulla carta. Sarebbero di grande utilità. Consideri che in molti istituti italiani c’è una convivenza tra uomini e donne, ovviamente in regimi assolutamente separati. Questo però che cosa significa? Significa una riduzione delle possibilità trattamentali per le detenute. Il carcere di Santa Maria Capua Vetere su circa 900 persone in detenzione ne conta soltanto meno di 100 di sesso femminile. Questo significa però anche difficoltà a concentrarsi sulle esigenze che una parte così ridotta della popolazione detentiva avanza. Sarebbe interessante individuare una gestione separata, così come per altre minoranze. Pensi anche ai soggetti transessuali che sono all’interno dei penitenziari, e vivono spesso il grande dramma di vedersi collocati nelle sezioni degli istituti penitenziari basandosi su quello che è il sesso di provenienza, e non sul sesso verso il quale sono transitati o stanno transitando. Rispetto a queste minoranze che hanno compiuto o stanno compiendo la transizione come si comporta il carcere? In alcuni istituti ci sono delle sezioni a parte dove vengono ospitate le persone transessuali. Però è ovvio che creare delle sezioni ad hoc significa anche in qualche modo generare un involontario meccanismo di segregazione, di limitazione. Quindi di segregazione nella segregazione? Esattamente. Perché è ovvio che un soggetto transessuale avrà una possibilità di partecipare alle attività trattamentali, destinate all’intera popolazione detentiva, molto più limitata. Per cui sarebbe necessario anche un intervento sulla normativa, che dia la possibilità, là dove ci sia un percorso medico o un percorso generale serio e definito, di vedere eseguita la pena in un istituto penitenziario, all’interno di sezioni appartenenti al sesso che si è individuato quale sesso di appartenenza. Parole liberate: quando la poesia germoglia in carcere di Fabio Ruta* vita.it, 26 aprile 2022 È nato nel 2014 il premio per poeti della canzone riservato alle persone detenute. Si chiama “Parole liberate: oltre il muro del carcere” ed ora è anche un’opera discografica. Michele De Lucia: “Proponiamo ai detenuti non solo di scrivere una poesia, ma di essere co-autori di una canzone, perché la lirica vincitrice viene affidata a un artista già affermato, affinché la metta in musica e la interpreti. Il carcere ha senso se serve a preparare il dopo, altrimenti è solo una palestra del crimine”. “Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri, poiché è da esse che si vede il livello di civiltà di una nazione”, suggeriva Voltaire. E la situazione nelle carceri italiane, come ricordato in un articolo del 5 gennaio 2022 di Luca Cereda su “Vita” è assai allarmante. A situazioni croniche come quelle del sovraffollamento si sono aggiunte le restrizioni dovute alla pandemia, complicando un quadro già di per sé drammatico. Ben vengano dunque tutte quelle iniziative volte creare spazi di comunicazione e speranza che vadano oltre le mura delle carceri e superino una visione meramente punitiva della pena, aprendo le carceri ad un ruolo educativo, di promozione culturale, artistica e di riscatto sociale. Quella che segue è una intervista a Michele De Lucia, tra i promotori di “Parole liberate: oltre il muro del carcere”, che ora è divenuto anche un’opera discografica. Come e quando nasce l’idea del Progetto - Premio “Parole liberate: oltre il muro del carcere”? Parole liberate è un premio per poeti della canzone riservato alle persone detenute nelle carceri italiane, che ho fondato nel 2014 insieme all’autore Duccio Parodi e all’attore Riccardo Monopoli. Ci eravamo conosciuti l’anno prima nel carcere di Marassi, dove portavano in scena, per i detenuti, lo spettacolo “Se fossi Fabrizio”. Io all’epoca ero tesoriere di Radicali italiani. Abbiamo scoperto di avere la stessa sensibilità e la stessa dannata voglia di fare qualcosa. Dopo qualche tempo mi hanno ricontattato, e avevano già chiara quella che sarebbe stata la formula: proporre ai detenuti non solo di scrivere una poesia, ma di essere co-autori di una canzone, perché la lirica vincitrice viene affidata a un artista già affermato, affinché la metta in musica e la interpreti. Nel giro di qualche settimana abbiamo dato il via all’iniziativa, facendolo crescere come potevamo, da brave formichine, cercando di fare il classico millimetro al giorno nella direzione giusta. Il messaggio è: una persona detenuta non è solo il suo reato, non si esaurisce nel suo reato. Deve avere la possibilità di riscattarsi, di ricostruirsi, di tirare fuori altro. Oggi chi ha sbagliato è condannato alla pena aggiuntiva dell’emarginazione a vita. Non può, non deve essere così. Una persona detenuta non è solo il suo reato, non si esaurisce nel suo reato. Deve avere la possibilità di riscattarsi, di ricostruirsi, di tirare fuori altro. Oggi chi ha sbagliato è condannato alla pena aggiuntiva dell’emarginazione a vita. Non può, non deve essere così. Ora il progetto si arricchisce di un nuovo capitolo: un disco realizzato con testi di persone detenute e musicate da artisti noti, il cui progetto grafico è stato curato da Oliviero Toscani. Può raccontarci questa esperienza? È un disco un po’ figlio del lockdown: nel 2020 dovevamo lanciare una nuova edizione di Parole liberate, ma la situazione era incerta e sarebbe stato temerario procedere. Allora abbiamo approfittato dello stop forzato per fare un bilancio di quanto avevamo fatto finora. Ci siamo resi conto che, al di là delle composizioni premiate nelle varie edizioni, c’era molto materiale di qualità che non meritava di restare chiuso in un cassetto. È possibile immaginare oggi una esperienza carceraria che superi la funzione meramente punitiva per concretizzare quella funzione rieducativa di cui parla l’articolo 27 della Costituzione? Non è solo possibile: è doveroso e indispensabile, altrimenti il sistema penitenziario non ha alcun senso e il carcere si esaurisce in una discarica sociale, in un ghetto popolato da ombre di cui la società ignora volentieri l’esistenza. Ritiene che sia importante il ruolo degli educatori e dei pedagogisti in ambito penitenziario? Il ruolo degli educatori e dei pedagogisti è fondamentale: è solo grazie al loro lavoro se il carcere non è esclusivamente un parcheggio in cui il tempo passa inutilmente, in attesa di scontare la pena o di morire. Sono loro che portano materialmente i bandi di iniziative come la nostra ai detenuti e li invitano a partecipare. Più in generale, il carcere ha senso se serve a preparare il dopo, altrimenti è solo una palestra del crimine, in cui entri magari per un reato minore o in forza di leggi criminogene - pensiamo, ad esempio, alle leggi sulla droga e sull’immigrazione - e da cui esci peggio di come sei entrato e senza nessuna prospettiva. Oggi l’ok della Camera alla riforma del Csm. Guai al Senato? di Ermes Antonucci Il Foglio, 26 aprile 2022 Oggi pomeriggio l’aula della Camera darà il via libera alla riforma Cartabia che contiene una delega al governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e norme immediatamente applicabili per quanto riguarda il sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura, il cui rinnovo è previsto per luglio. Dopo i pesanti scossoni delle prime settimane, i partiti della maggioranza (esclusa Italia Viva) hanno raggiunto un accordo sul testo di riforma, rendendo possibile una votazione “tranquilla” degli emendamenti predisposti dalla Guardasigilli e dei vari articoli di cui si compone il disegno di legge. L’unica novità rilevante rispetto a quanto era emerso dall’esame della commissione Giustizia è stato l’abbandono del sistema del sorteggio dei collegi per l’elezione del Csm, con il ritorno al sistema elettorale inizialmente elaborato dalla ministra (maggioritario binominale con correttivo proporzionale). Un miracolo, se si considerano le pesanti divisioni che in principio hanno attraversato la maggioranza. Una volta approvato, il testo approderà in Senato, ed è lì che si teme una riesplosione delle tensioni. “I voti di oggi sono l’inizio del percorso della riforma sul Csm che dovrà essere completato al Senato”, ha dichiarato nei giorni scorsi Giulia Bongiorno, responsabile giustizia della Lega, dando l’idea che nell’altro ramo del parlamento il Carroccio potrebbe non limitarsi a votare il disegno di legge così com’è, ma anche avanzare proposte di modifica. Lo stesso, teme l’esecutivo, potrebbe fare il partito guidato da Matteo Renzi. A quel punto tutto diventerebbe più complicato. Non solo per l’allungamento della discussione, ma anche perché, in caso di modifiche, il testo dovrebbe ritornare alla Camera per il via libera definitivo, con il rischio di concludere l’iter a maggio inoltrato. Si tratterebbe di uno scenario difficile da gestire per il governo, dal momento che la riforma imporrebbe tempi tecnici strettissimi alla ministra della Giustizia Cartabia per la ridefinizione dei collegi elettorali previsti per l’elezione dei membri togati del Csm. Dalla determinazione dei nuovi collegi alle elezioni dovrebbe poi trascorrere almeno un mese. Basti pensare che, in occasione dell’ultimo rinnovo dell’organo di governo autonomo delle toghe, la convocazione dei magistrati alle urne a luglio da parte del capo dello Stato avvenne il 9 aprile 2018. In altre parole, siamo già oltre i tempi massimi. È per queste ragioni che in alcuni ambienti parlamentari si vocifera addirittura che il governo potrebbe porre la fiducia sul testo al Senato, ipotesi tuttavia negata da fonti ministeriali. In effetti, se ciò accadesse, si sarebbe di fronte a una sconfessione della promessa fatta dal premier Draghi a febbraio in Consiglio dei ministri, e poi ribadita agli inizi di aprile, di non mettere la fiducia sulla riforma: “La mia intenzione è mantenere fede alla promessa - ha ripetuto Draghi il 6 aprile - Spero che le forze politiche lo prendano come un segnale di democrazia e si mostrino collaborative”. Anche la magistratura associata attende impaziente l’approdo del testo di riforma al Senato. La decisione dell’Associazione nazionale magistrati di non proclamare immediatamente uno sciopero contro la riforma, bensì di attendere il passaggio in Senato si è basata (almeno a parole) sulla speranza che il testo possa essere modificato. “C’è stata una contrazione dei tempi alla Camera e speriamo sia funzionale a dare al Senato la possibilità di una discussione più ampia” e che possa essere “l’occasione perché alcune delle nostre osservazioni critiche siano prese in considerazione”, ha dichiarato il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia. In realtà, a frenare la proclamazione dello sciopero è stata soprattutto la presenza di diverse voci dissenzienti all’interno della magistratura, preoccupate che l’iniziativa potrebbe rivelarsi un boomerang per le toghe, che già godono di scarsa credibilità nell’opinione pubblica. Non snobbate il ddl Cartabia, sfida tabù che sembravano invincibili di Errico Novi Il Dubbio, 26 aprile 2022 Pochi lo ricordano. Era il 2004. Una settimana a Natale. Il governo Berlusconi più longevo della serie era da poco riuscito a ottenere in Parlamento il sì definitivo alla riforma della giustizia, a prima firma del guardasigilli Roberto Castelli. A Carlo Azeglio Ciampi, presidente della Repubblica, non tornavano però diversi passaggi del testo. Decise di rinviarlo alle Camere. Ciampi si avvalse della facoltà di chiedere una nuova deliberazione al Parlamento in virtù di quattro aspetti del ddl delega da lui ritenuti critici. Il secondo riguardava l’istituzione di un “Ufficio per il monitoraggio dell’esito dei procedimenti”. Una norma del tutto simile a quanto previsto con il “fascicolo di valutazione” all’interno del ddl Cartabia, che oggi a Montecitorio dovrebbe ottenere il primo sospirato sì in Aula. Ebbene, il Capo dello Stato dell’epoca costrinse il governo Berlusconi a rimangiarsi il monitoraggio: dopo il rinvio, fu cancellato. Si trattava di una verifica sull’esito dei procedimenti, relativa solo al penale, finalizzata a “verificare l’eventuale sussistenza di rilevanti livelli di infondatezza giudiziariamente accertata della pretesa punitiva manifestata con l’esercizio dell’azione penale o con mezzi di impugnazione ovvero di annullamento di sentenze per carenze o distorsioni della motivazione, ovvero di altre situazioni inequivocabilmente rivelatrici di carenze professionali”. Era insomma un tentativo di individuare casi di clamoroso abuso dell’azione penale da parte dei pm e delle decisioni assunte dai giudici. Casi clamorosi, non ordinari, visto che la norma evocava appunto “rilevanti livelli di infondatezza”. Niente. Il Quirinale non la fece passare. Obiettò testualmente, nella lettera alle Camere, che uno screening sulle abnormità di pm e giudici penali sarebbe stato in contrasto con più articoli della Costituzione. Soprattutto, secondo Ciampi ne sarebbe derivato “un grave condizionamento dei magistrati nell’esercizio delle loro funzioni”. In particolare “il riferimento alla possibilità di verificare livelli di infondatezza “della pretesa punitiva manifestata con l’esercizio dell’azione penale” avrebbe integrato “una ulteriore violazione” del principio di obbligatorietà sancito all’articolo 112 della Carta. La premessa è lunga, certo, ma necessaria. Serve a misurare il grado di novità contenuto nella riforma del Csm. Parte della politica, e non solo, giudica il testo di Marta Cartabia insufficiente. A dirlo è non solo l’opposizione di Fratelli d’Italia ma anche una forza molto attiva sul fronte giustizia come l’Italia Viva di Renzi. Ieri, in una cruciale intervista al Giornale radio Rai, il togato Nino Di Matteo ha detto che la legge delega oscilla fra l’inutile e il dannoso (oltre a chiarire, con la consueta trasparenza, di non condividere lo sciopero ventilato dall’Anm). Eppure, questa tanto vituperata riforma Cartabia contiene tra le altre cose una norma come quella sul “fascicolo di valutazione” con cui si subordinano progressioni di carriera dei magistrati e incarichi direttivi a un meccanismo di controllo che Ciampi, nel 2004, mandò al macero. Stavolta il testo sembra rivisto in modo da non urtare con la Costituzione. Sergio Mattarella non dovrebbe restituire al mittente un ddl delega che ha sollecitato in tutti i modi possibili. Ora, davvero una scelta politica del genere può essere liquidata come irrilevante, inutile o dannosa, come sostenuto ieri da Di Matteo e per settimane dalla Anm? È uno dei risvolti sui quali si dovrebbe riflettere, prima di dare addosso a Cartabia. Ieri la ministra della Giustizia è stata applaudita a Reggio Emilia, dove ha tenuto il proprio discorso per la Festa della Liberazione. C’è da chiedersi se il consenso che questa presidente emerita della Consulta sembra suscitare tra i cittadini, se la sua immagine di figura super partes e sinceramente devota a un preciso orizzonte di principi, debbano davvero capovolgersi in vituperio, quando se ne valutano le scelte di politica giudiziaria. Vogliamo guardare ad altri contenuti della riforma? Certo, non ci sono alcune modifiche “rivoluzionarie” auspicate da tempo: non c’è, per esempio, l’Alta Corte di giustizia che Luciano Violante invoca da anni, per rendere meno domestiche le valutazioni disciplinari e professionali sulla magistratura. Ma ci sono altri correttivi di cui pure si parla dal tempo del governo Berlusconi e anzi da prima, da quando a via Arenula sedeva Giovanni Maria Flick. Innanzitutto la fine delle nomine a pacchetto, grazie al vincolo, imposto dal ddl Cartabia, secondo cui il Csm dovrà assegnare gli incarichi di procuratore capo o presidente di Tribunale secondo il rigoroso ordine cronologico con cui i posti restano vacanti, e non più con un calendario studiato per bilanciare le scelte tra le correnti. C’è finalmente l’inverarsi del principio “chi giudica non nomina” e viceversa, proclamato solennemente persino da Matteo Renzi (ora super critico con la riforma) nel 2014, quando il guardasigilli del suo governo, Andrea Orlando, pure tentò, senza riuscirci, di riformare il Csm. Non sarà più possibile dunque che un consigliere superiore assegnato alla sezione disciplinare possa far parte contemporaneamente anche della quinta commissione, quella preposta appunto agli incarichi direttivi. C’è il coinvolgimento dell’avvocatura e dell’accademia nelle valutazioni di professionalità delle toghe: anche qui, per capire quanto sia sbrigativa la tesi della riforma impalpabile, va ricordato come si tratti di un riconoscimento che il Cnf, e il Foro in generale, reclamavano da anni. C’è, ancora, il sottovalutato ingresso sempre dei laici, avvocati e professori, nell’Ufficio Studi e documentazione di Palazzo dei Marescialli (con quota minima garantita sui posti, seppur in minoranza): degli “estranei” all’ordine giudiziario, e alle correnti dell’Anm, entrano dunque nelle stanze in cui si compilano i fascicoli per le promozioni. Sono previste sanzioni disciplinari per i magistrati che violano la presunzione d’innocenza e per il pm che, nelle richieste di misure cautelari, “occulti dolosamente” elementi favorevoli alla difesa. Davvero tutto irrilevante? Davvero non cambierà nulla? La verità e che la politica dovrebbe imparare a vestirsi d’autorità nei confronti della magistratura anche per il futuro. Senza accontentarsi del risultato ottenuto con questo ddl atteso oggi al primo via libera. Finita l’era di Mani pulite, lontana ormai anni luce la guerra fredda dell’epoca di Berlusconi, il potere legislativo, come avverte Flick, dovrà riacquisire la propria sovranità (concetto caro anche a Violante). Il che vuol dire che la riforma dovrà compiersi “in progress” anche negli anni futuri, perché le soluzioni non arrivano mai con un solo colpo di bacchetta magica, ma grazie a una presenza costante. Di sicuro però, bollare il testo Cartabia come inutile, insufficiente, vuol dire fermarsi alla superficie, e continuare a usare la giustizia per fare polemica, piuttosto che per rimettere la democrazia in equilibrio. In tempi così duri, e coi 5S al governo, non c’era spazio per una rivoluzione di Francesco Damato Il Dubbio, 26 aprile 2022 Fra i danni collaterali della maledetta guerra di Putin all’Ucraina è da mettere, in Italia, insieme con l’indebolimento della maggioranza di governo, divisa sugli aiuti militari a Kiev ben al di là delle distinzioni parlamentari venute alla luce, una certa distrazione dell’opinione pubblica da temi come la giustizia. Che pure erano stati avvertiti con tanta intensità l’anno scorso da aver fatto raccogliere facilmente le firme richieste per i referendum promossi dalla combinazione politica inedita di radicali e leghisti. Inedita soprattutto per questi ultimi, approdati su sponde garantiste da posizioni ben diverse, rappresentate da quell’osceno cappio sventolato nell’aula di Montecitorio ai tempi di “Mani pulite” contro gli imputati politici, neppure condannati ancora in primo grado, di finanziamento illegale dei partiti, concussione, corruzione e quant’altro. Anche i referendum rischiano di subire i danni collaterali di distrazione dalla guerra in Ucraina, aggravati dal loro abbinamento al primo turno delle elezioni amministrative indette per una data la più lontana possibile per i tentativi di abrogazione di leggi in vigore: il 12 giugno. Grava, in particolare, il rischio della invalidità per mancanza del cosiddetto quorum, cioè per affluenza alle urne inferiore alla metà più uno degli elettori aventi diritto al voto. Persino il passaggio parlamentare della cosiddetta riforma della giustizia, riguardante l’elezione del Consiglio Superiore della Magistratura e alcuni aspetti dell’ordinamento giudiziario, sta avvenendo senza una grande mobilitazione favorevole o contraria tra la Camera, che la licenzia oggi, e il Senato che se ne dovrà occupare non si sa ancora se anche per cambiare o solo per ratificare, come avviene già per tante altre cose, a cominciare dal bilancio dello Stato. È notoria la pratica monocamerale introdotta surrettiziamente negli ultimi anni tra le deboli proteste del presidente dell’assemblea di turno, che viene sacrificata alle esigenze politiche della maggioranza, anch’essa di turno. In verità, un pò di vivacità, e di sale, sulla riforma che mi lascerete chiamare col nome della ministra della Giustizia Marta Cartabia, si è avvertito solo a causa dello sciopero minacciato dall’Associazione nazionale dei magistrati. Che però all’ultimo momento vi ha rinunciato, almeno per il momento, pur confermando un forte stato di agitazione per il tentativo del governo di non farsi dettare per intero dalle toghe le norme da proporre al Parlamento, e di quest’ultimo di non lasciarsene condizionare del tutto esaminandole e votandole. È una vecchia storia, essendosi ripetuta già altre volte, direi anche troppe, nei decenni di progressivo arretramento della politica rispetto a una magistratura peraltro mai soddisfatta abbastanza degli spazi via via acquisiti nelle sue esondazioni. Personalmente, e realisticamente, considerate anche le già ricordate circostanze di guerra in cui tutto sta avvenendo, mi accontento di una certa aria che riconosco cambiata rispetto al passato. E che è già costata parecchio alla ministra Cartabia, e allo stesso presidente del Consiglio Mario Draghi, nella recente corsa al Quirinale, nella quale l’una e l’altro non hanno praticamente potuto toccare palla. Anzi, quando Draghi ha cercato di affaccciarvisi con quella storia del “nonno a disposizione” dello Stato, ha subìto danni dai quali non si è del tutto ripreso, neppure dopo essersi salvato in qualche modo in corner convincendo il presidente della Repubblica uscente a farsi confermare. I sensi o sintomi di una certa aria cambiata li avverto soprattutto nella maggiore partecipazione degli avvocati al sistema giudiziario e nelle cosiddette pagelle dei magistrati, insorti con forza non condivisibile ma comprensibile - considerando i loro interessi e abitudini- contro la prospettiva, finalmente, che risultino più chiaramente per iscritto, diciamo così, i loro errori condizionandone la carriera. Il resto probabilmente toccherà farlo ad altri, e in un’altra legislatura, meno condizionata - per intenderci chiaramente - dai grillini e da quella parte del Pd ancora timorosa di scontrarsi fino in fondo con una magistratura onnipotente. “La riforma Cartabia? Le toghe hanno più paura dei referendum...” di Valentina Stella Il Dubbio, 26 aprile 2022 Si è costituita a Roma l’Associazione “Sì per la libertà, sì per la giustizia”, allo scopo di sostenere i referendum sulla giustizia, promossi da Lega e Partito Radicale, sui quali i cittadini sono chiamati a votare il 12 giugno. Presidente è Carlo Nordio, vice presidente Bartolomeo Romano, tesoriere Andrea Pruiti Ciarello, componenti Giovanni Guzzetta e Gippy Rubinetti. Facciamo il punto sull’iniziativa proprio con il professor Bartolomeo Romano, ordinario di diritto penale dell’Università di Palermo, già consigliere del Csm dal 2010 al 2014. Perché questa associazione? Perché è necessario risvegliare l’attenzione sui temi referendari, purtroppo totalmente messi in ombra dalla guerra in Ucraina. Nonostante l’orrore per quanto sta accadendo, dobbiamo comunque occuparci anche dei nostri affari interni, della giustizia in particolare, questione molto delicata che interessa tutti i cittadini, e non solo gli addetti ai lavori. Sarà difficile portare le persone a votare su quesiti molto tecnici... La bocciatura da parte della Corte costituzionale dei referendum forse più attrattivi - eutanasia, legalizzazione della cannabis, responsabilità diretta dei magistrati - rende più difficile un’ampia partecipazione popolare. Per questo è molto importante spiegare nel modo più semplice e chiaro all’opinione pubblica l’importanza dei quesiti su cui andremo ad esprimerci, facendo capire che la giustizia non è una entità lontana dalle nostre vite quotidiane. Professore, cerchiamo allora di spiegare ad un non esperto l’importanza dei quesiti... Basterebbe dire che, considerata la nota “vicenda Palamara” e tutti gli scandali che hanno colpito l’attuale Csm, che ha perso diversi membri nell’attuale consiliatura, quasi tutti i quesiti sono legati al tema dell’approccio alla giurisdizione e al controllo dell’operato dei magistrati. Partiamo da quello sulla separazione delle funzioni: la questione discende in maniera lineare dall’introduzione, nel 1989, del processo accusatorio e ancora di più dalla successiva riforma dell’articolo 111 della Costituzione. Quest’ultimo chiaramente importa nel nostro ordinamento l’idea del “processo giusto”, in cui il giudice è terzo e dove pm e difensori sono teoricamente sullo stesso piano. Il passaggio, invece, dalla funzione di pm a giudice e viceversa provoca una commistione tra una parte (il pm) e chi non è parte (il giudice), finendo per mettere in un angolo i diritti della difesa. Un quesito molto contestato è quello contro l’abuso della custodia cautelare... La custodia cautelare è una vera vergogna del nostro Paese: è inaccettabile, salvo casi eccezionali, che si finisca in carcere prima che venga pronunciata una sentenza definitiva. La “carcerazione preventiva”, come più crudamente la chiama la Costituzione, in realtà è una mera anticipazione dell’eventuale pena inflitta con la condanna passata in giudicato. È come se lo Stato scommettesse sulla colpevolezza dell’imputato. Tanto è vero che, secondo l’articolo 137 c. p., la carcerazione scontata in custodia cautelare si detrae dalla durata complessiva della pena detentiva eventualmente inflitta. Invece coloro che vengono assolti, come spesso accade, dopo aver sofferto ingiustamente la custodia preventiva vedono la loro vita rovinata, insieme a tutti i legami familiari, professionali e di amicizia. A ciò si aggiunga che lo Stato (e, dunque, noi cittadini) in media spende all’anno circa 30 milioni di euro per ingiuste detenzioni. Un altro quesito che interessa molto i nostri lettori è quello relativo al diritto di voto degli avvocati nei consigli giudiziari anche in relazione alle valutazioni di professionalità... Chi meglio degli avvocati del distretto di Corte d’Appello può ben conoscere l’operato del magistrato? Come ex consigliere del Csm posso affermare che il 99% delle valutazioni sui magistrati che arrivano dai distretti sono totalmente favorevoli, con espressioni elogiative che talvolta sfiorano quasi il ridicolo. Così il Csm non è in grado di valutare nel merito. Quindi cosa succede? Che prevale l’appartenenza correntizia. Ed allora, che ci siano anche gli avvocati a contribuire a giudicare l’operato dei magistrati è assolutamente opportuno. Poi c’è quello che dovrebbe eliminare il peso delle correnti nella selezione delle candidature per il Csm... Il quesito cerca di evitare che si possa essere candidati soltanto se si ha alle spalle una corrente. Eliminando questo vincolo si favorisce la possibilità di candidarsi, per dirla brutalmente, ai “cani sciolti”. Infine c’è il quesito per abolire la Legge Severino... Dal mio punto di vista, questa legge, sotto molti profili, è quasi anticipatoria del percorso forcaiolo che abbiamo vissuto negli ultimi quindici anni. Essa impone un automatismo in materia di incandidabilità che ha travolto non soltanto politici famosi ma anche piccoli operatori sul campo, i quali poi sono stati magari prosciolti, ma con la carriera politica ormai bruciata. Alcuni quesiti si intrecciano con la riforma, chiamiamola così, di mediazione Cartabia. Se quest’ultima fosse approvata in via definitiva prima del 12 giugno i quesiti verrebbero meno? Dipende da due fattori. Il primo: la riforma dovrebbe essere del tutto sovrapponibile al singolo quesito, e a me non sembra che sia così. Il secondo: occorre vedere con quale modalità la riforma viene approvata. Se il tema dei quesiti fosse oggetto di legge delega, in questo caso i referendum non sarebbero stoppati, anzi sarebbe ancor di più necessario votare. Come lei sa, infatti, non è infrequente che la delega non venga esercitata dal Governo, come accaduto - ad esempio - con la riforma Orlando dell’ordinamento penitenziario. Tornando al voto degli avvocati nei consigli giudiziari: è una delle parti della riforma maggiormente avversata dalla magistratura, per il pericolo di un conflitto di interessi... Visto che nei Consigli giudiziari siedono sia magistrati giudicanti che requirenti, mi stupisce che i giudici non temano di subire la pressione dei pm e questi ultimi non temano di subire la prevaricazione degli altri. La loro avversione a questa prospettiva è l’ulteriore prova che non hanno introitato cosa dice l’articolo 111 della Costituzione. Così non va bene, perché la magistratura non è un ordine avulso dalla società. Giusto difendere l’autonomia e l’indipendenza, ma ricordandosi che non vivono su un’isola deserta. A proposito di questo, cosa ne pensa della possibilità che l’Anm possa fare lo sciopero contro la riforma? Sono convinto che, tutto sommato, la riforma Cartabia ai magistrati vada bene, anzi più che bene. Credo che queste minacce di sciopero servano quasi a concedere l’onore delle armi alle forze politiche che non sono state in grado di elaborare progetti riformatori più seri ed incisivi. Dopo tutti gli scandali che hanno interessato la magistratura che ora, purtroppo, in tutti i sondaggi vola molto bassa, ci si sarebbe aspettati una riforma profonda e radicale. Forse la magistratura ha più paura dei referendum. Perché lo considerano una punizione... Non è questo l’intento dei promotori, né certamente il nostro. La magistratura è un bene così prezioso in una democrazia matura che bisogna preservarla anche riformando ciò che non va. E siccome nessuno può dire che le cose vadano bene, come ribadito più volte dal Presidente della Repubblica Mattarella, lo status quo non può essere mantenuto. Mi stupisco nuovamente che non siano gli stessi magistrati, che spesso parlano di “autoriforma”, a proporre un cambiamento molto più spinto e severo di quello legato alla riforma in discussione in Parlamento. Election day, un trappolone contro i referendum di Valter Vecellio Il Riformista, 26 aprile 2022 Il Consiglio dei ministri ha dato il suo via libera al cosiddetto “election day”, che avrà luogo il 12 giugno prossimo. Quella domenica, in un solo giorno, saremo chiamati a votare sia per le amministrative (là dove si dovranno appunto rinnovare), che per i referendum per una giustizia più giusta. “Sono contento perché votando insieme per referendum e sindaci si risparmiano 200 milioni di euro”, commenta il leader della Lega, Matteo Salvini; come spesso gli accade, mostra di non capire che gli hanno teso un trappolone, e lui ci casca dentro: Salvini, sveglia! D’accordo, c’è la guerra in Ucraina che catalizza la nostra attenzione: per la guerra in sé, combattuta praticamente alle porte di casa; e per gli effetti disastrosi non solo umani, ma anche economici, che paghiamo e pagheremo tutti. Prima della guerra c’era un’altra devastazione: quella provocata dal Covid. Anche qui con un prezzo elevatissimo di sofferenza, dolore, morte di persone e pesantissime implicazioni economiche (non che sia finita, peraltro). Fatto è che, tra una cinquantina di giorni appena, saremo chiamati a esprimerci con un “Sì” o con un “No” su una serie di referendum in materia di giustizia; nella pressoché totale assenza di informazione e conoscenza. Nessun dibattito, nessun confronto, neppure una didascalica e asettica “descrizione” dei quesiti. “Conoscere per deliberare” è il fondamentale precetto che ci ha lasciato un grande presidente della Repubblica: Luigi Einaudi, in quella straordinaria raccolta di suoi scritti che sono Le prediche inutili. Sveglia!: questo precetto è clamorosamente disatteso. Si assiste a una pervicace e dolosa volontà di tenere all’oscuro i cittadini. Gli avversari dei referendum puntano e giocano le loro carte su questo: astensione di massa, in modo che venga meno il quorum, e i quesiti “saltano” automaticamente. Fosse una sconfitta del Partito Radicale e della Lega, poco male: si leccheranno le ferite, e poi avanti come si sa, come si può. Il fatto è che sarà soprattutto la sconfitta di chi aspira a una giustizia più giusta; il trionfo del giustizialismo più becero; la vittoria del “troncare e sopire, sopire e troncare”; del “quieta non movere” così caro al Pig, che non vuole rinunciare a una sola oncia di potere; anzi lo vuole accrescere. Dite, per esempio, dove si è mai visto che la magistratura associata minacci uno sciopero per contrastare un preciso diritto-dovere del Parlamento, quello di varare leggi. È quello che accade per la blanda riforma del ministro Marta Cartabia. Vogliono affossare i referendum facendo mancare il quorum. Per questo non vogliono dibattito, confronto, conoscenza, consapevolezza. Così la Giustizia continuerà a (non) essere amministrata come sempre; i processi continueranno a durare come durano, con i loro tempi esasperanti; innocenti dovranno continuare a dannarsi l’anima prima di vedersi riconosciuto che “il fatto non sussiste”; il mercimonio oggi battezzato come “metodo Palamara” proseguirà con altri attori e protagonisti. Appena una manciata di giorni ci separa dal 12 giugno; è in corso uno sfacciato, pervicace attentato al diritto dei cittadini di conoscere; il servizio pubblico radiotelevisivo, con dolo, viene meno al suo dovere di garantire e assicurare conoscenza, il diritto del cittadino di averla. Si consuma sotto i nostri occhi una vera e propria truffa. Mai come in questo caso, l’inerzia, la passività equivale a complicità. Occorre rompere le uova nel paniere, prima che ci servano una letale frittata. L’ho detto prima: non sono bravo nel convincere a iscriversi al Partito che lotta per impedire che tutto ciò accada; so solo gridare: sveglia! L’inutile processo eterno per le vittime dell’amianto di Laura Loguercio Il Domani, 26 aprile 2022 L’iter giudiziario è iniziato nel 2009. Stephan Schmidheiny, proprietario di Eternit, è stato condannato a 18 anni in appello ma la Cassazione ha dichiarato tutto prescritto. Però i procedimenti continuano, in giro per l’Italia. La sentenza più recente è del 6 aprile scorso. Il numero uno della Eternit, Stephan Ernest Schmidheiny, che oggi ha 74 anni, è stato condannato in primo grado dalla Corte d’assise di Napoli a tre anni e sei mesi per omicidio colposo, per aver causato la morte di Antonio Balestrieri, operaio dello stabilimento Eternit di Bagnoli deceduto il 21 ottobre 2009 per mesotelioma pleurico. Continua così la saga dei processi all’amianto, avviati oltre 30 anni fa per dare giustizia a centinaia di vittime degli stabilimenti Eternit sparsi per l’Italia. L’ultima fabbrica ha chiuso nel 1986, ma quasi quarant’anni dopo continuano i processi nei confronti di Schmidheiny, magnate svizzero, rappresentante della quarta generazione dei signori dell’amianto. Quella di Napoli è solo l’ultima di una lunga lista di sentenze in attesa di conferma o, peggio, finite nel nulla. Il fatto che oggi si discuta ancora in processi di primo grado della condotta colposa o dolosa di Schmidheiny conferma le contraddizioni che inceppano il sistema giudiziario italiano, incapace di dare sentenze su fatti avvenuti 30 o 40 anni fa. La giustizia si muove sempre con lentezza, ma in questo caso sembra davvero paralizzata. Il primo processo contro Schmidheiny è iniziato a Torino nel 2009. Il proprietario e amministratore delegato della Eternit era accusato di disastro ambientale doloso e omissione di misure di sicurezza sui luoghi di lavoro in relazione alla morte o alla malattia di quasi tremila persone, sparse tra i quattro impianti gestiti dalla sua azienda in Italia: Casale Monferrato (Alessandria), Cavagnolo (Torino), Rubiera (Reggio Emilia) e Bagnoli (Napoli). Nel 2012 è arrivata la prima condanna: 16 anni, aumentati a 18 l’anno successivo con il processo d’appello. Poi, nel 2014, quando i crimini di Schmidheiny sono arrivati al vaglio della Cassazione, sul processo è calata la scure della prescrizione che ha azzerato tutte le sentenze. Secondo la Cassazione il disastro ambientale di cui era accusato Schmidheiny è cessato nel 1986 con la chiusura della fabbrica, e il reato era quindi già prescritto ancora prima del rinvio a giudizio. La prescrizione ha cancellato anche i risarcimenti disposti dalla Corte d’appello, 30mila euro a favore di ciascuna delle 938 parti offese, mai pagati. “È stata una delusione enorme, una sofferenza rinnovata”, dice oggi Assunta Prato, che nel 1996 a Casale Monferrato ha perso il marito Paolo Ferraris ucciso dal mesotelioma, il tumore ai polmoni causato dall’inalazione delle fibre di amianto. Negli anni del primo processo si è battuta, insieme ad altri cittadini, perché il comune di Casale rifiutasse i 18 milioni di euro offerti da Schmidheiny in cambio del ritiro come parte civile. “Quei soldi per lui erano un’elemosina, c’era da vergognarsi ad accettarli. E siamo riusciti a fare in modo che non accadesse”, dice ricordando la tensione di quei momenti e le manifestazioni pubbliche da lei organizzate. La prescrizione ovviamente non ha fermato la sete di giustizia dei familiari delle vittime, che insistono nonostante l’inappellabile fine dei giochi stabilita a norma di legge. Nel 2015 Schmidheiny è stato nuovamente rinviato a giudizio dalla procura di Torino per l’omicidio volontario aggravato di 258 persone. È l’inizio del cosiddetto processo Eternit bis, subito bloccato perché gli avvocati del magnate sostengono che il procedimento sia viziato all’origine, visto che Schmidheiny era già stato processato per lo stesso reato. La questione è arrivata fino alla Corte costituzionale, che nel 2016 - ormai trent’anni dopo la chiusura dell’ultima fabbrica - ha disposto la divisione del processo in quattro filoni, uno per stabilimento, nei tribunali di Torino, Vercelli, Napoli e Reggio Emilia. Il labirinto giudiziario innescato dalla polvere d’amianto attraversa così l’Italia da nord a sud. Da Torino a Napoli - Dal 2016 a oggi sono partiti tre dei quattro processi in cui è stato smembrato l’Eternit bis. A Torino Schmidheiny è già stato condannato in primo grado a quattro anni di carcere per l’omicidio colposo di due operai dello stabilimento di Cavagnolo, e aspetta ora la sentenza d’appello. A Napoli invece i pm avevano chiesto una pena di 23 anni e 11 mesi per l’omicidio volontario di otto persone, ma la maggior parte sono state già dimenticate dal sistema penale: il 6 aprile scorso per sei casi è scattata la prescrizione, e per il settimo, Franco Evangelista, morto nel 2009 come Balestrieri, Schmidheiny è stato assolto perché la vittima abitava nella zona ma non lavorava alla Eternit. E anche in questo caso siamo solo al primo grado. Il 9 giugno 2021 è iniziato alla Corte d’assise di Novara (visto che a Vercelli la corte d’assise non c’è) il processo per i morti dello stabilimento Eternit di Casale Monferrato, il più grande in Italia e in Europa. Schmidheiny è accusato di omicidio volontario per la morte di 392 persone, la maggior parte delle quali si è ammalata di mesotelioma pur non avendo avuto nulla a che fare con la fabbrica, ma a causa dell’esposizione ambientale, quindi per aver respirato un’aria carica di fibre di amianto. Poche speranze - “Penso di esprimere il sentimento di tanti, non abbiamo molte speranze”, ammette Assunta Prato, la cittadina di Casale che ha perso il marito, commentando il nuovo processo di Novara, “ma c’è la volontà di esserci, di fare la nostra parte, e di vedere fin dove possiamo arrivare”. Anche per questo Prato, insegnante in pensione, gestisce l’Aula amianto/asbesto del liceo Cesare Balbo di Casale Monferrato, uno spazio interattivo dedicato alla storia del territorio e ai danni che ha subito. Per più di ottant’anni infatti la cittadina, che conta poco più di 30mila abitanti, è stata sede del più grande centro di produzione di manufatti in cemento-amianto d’Europa. I dipendenti della Eternit lavoravano il materiale senza che venisse adottata alcuna precauzione, e presto le sue fibre bianche superarono i confini della fabbrica per entrare nelle abitazioni, distanti solo poche centinaia di metri, nei bar, nelle chiese e nelle scuole. A Casale le vittime del mesotelioma sono già migliaia, e secondo gli esperti il picco sarà raggiunto solo nel 2025. “Il primo processo si è basato su un’indagine dell’ispettorato del lavoro del 1985. Oggi siamo nel 2021 e c’è un nuovo processo, ma non abbiamo ancora ottenuto giustizia”, afferma Bruno Pesce, storico segretario della Camera del lavoro di Casale Monferrato e oggi coordinatore dell’Afeva, Associazione familiari vittime amianto. “Vuol dire che in Italia c’è un problema nel sistema giudiziario”. La rivincita delle città - Negli anni, mentre la giustizia coltivava la sua lentezza, la società civile non è rimasta a guardare. Oggi a Casale l’enorme stabilimento Eternit non esiste più e per demolirlo l’amministrazione comunale ha rimosso più di 1.500 metri cubi di cumuli di amianto. Al suo posto, nel 2016 è stato inaugurato un parco commemorativo con il nome simbolico di Eternot, dedicato alle vittime e ai loro famigliari. La cittadina e i 47 comuni limitrofi sono riconosciuti come Siti di interesse nazionale (Sin), e possono quindi usufruire di fondi pubblici per i lavori di bonifica. Dal 1996 al 2021, nel solo comune di Casale sono stati investiti circa 120 milioni di euro, come ha ricordato il governatore del Piemonte Alberto Cirio nella sua deposizione alla Corte d’assise di Novara. Secondo l’ex sindacalista Pesce “si tratta di una cosa unica, perché nessun altro territorio ha portato avanti una bonifica così estesa e radicale”. Ma, nonostante gli sforzi, ancora oggi Casale Monferrato ha il tasso d’incidenza del mesotelioma di gran lunga più alto del Piemonte: una media di più di 60 casi all’anno ogni centomila persone, contro i sei di Alessandria, i quattro di Torino, i tre di Biella. Tra l’inalazione delle fibre di amianto e lo sviluppo dei sintomi, infatti, possono passare anche 40 anni. “Prima che ne veniamo fuori non so quanto tempo passerà”, dice Assunta Prato, “troppo tempo”. La condanna di Schmidheiny non fermerà di certo le diagnosi, ma potrebbe almeno riaccendere la fiducia dei famigliari delle vittime verso un sistema giudiziario inconcludente. Siena. Carcere oltre la pandemia. “Arte e nuovi spazi verdi” di Samantha Ferri La Nazione, 26 aprile 2022 Al Santa Caterina stop alle visite solo col lockdown e Dad per chi studia. La direttrice Stefanelli: “Momento difficile, ma abbiamo girato anche un corto”. “Affrontare la pandemia nel carcere non è stato facile, adesso, con la fine dello stato di emergenza, continuiamo a prestare attenzione per non diffondere il contagio e guardiamo al futuro e ai progetti”. A parlare è Loredana Stefanelli, direttrice del carcere di Santa Caterina in Brana, che racconta a La Nazione le iniziative che la casa circondariale pistoiese conta di realizzare nei prossimi mesi. “Le visite, le attività e i colloqui con i detenuti non si sono mai interrotti tranne che durante il lockdown di marzo 2020, per il resto ci siamo adeguati con le modalità previste, ovvero con protezioni individuali, sanificazione e Dad per i detenuti iscritti ai corsi di alfabetizzazione e per ottenere la licenza media e anche gli altri tipi di trattamenti proseguono”, ha sottolineato la direttrice. Durante la pandemia al carcere di Pistoia è stato perfino girato un cortometraggio, ‘Stabat Mater’, associazione teatrale Electra. “È stata una bella esperienza - aggiunge Stefanelli - ma devo dire che tutte le attività sono molto apprezzate dai detenuti che partecipano con entusiasmo, dal corso di musica e teatro, fino a quello sulla genitorialità e per contenere la rabbia”. Da un anno e mezzo il carcere di Pistoia è riuscito a superare anche temporanei problemi di sovraffollamento. Adesso al Santa Caterina i detenuti sono 47. E il Covid ha pure introdotto le videochiamate giornaliere che i detenuti possono fare ai familiari grazie a dei telefoni cellulari acquistati dal Ministero appositamente per lo scopo. Ora che si iniziano a intravedere i primi spiragli post pandemia la direzione del carcere intende portare a termini tutti i progetti rimasti in sospeso in questi due anni. “Ci stiamo adoperando per ottenere un contributo per far dipingere un murales dall’artista Nico Lopez Bruchi - spiega Stefanelli - lo scopo è quello di far ridipingere tutte le pareti del campo sportivo e alcuni sezioni del carcere con tema scelto dai detenuti. Presto speriamo di riuscire a ultimare l’adozione di un cane del canile di Firenze. Le volontarie Enci hanno già effettuato i sopralluoghi e vorremmo tenerlo all’interno dell’area verde dove si fanno i colloqui con i bambini, così che tutti i detenuti possano interagire con il cane”. Al Santa Caterina potrebbero arrivare anche nuovi spazi verdi. “Con la Fondazione Giorgio Tesi stiamo valutando la possibilità di realizzare un orto verticale - afferma la direttrice -. Purtroppo mancano gli spazi verdi e la soluzione degli orti verticali in cui piantare erbe e fiori da far curare ai detenuti potrebbe essere la soluzione migliore per portare un po’ di verde all’interno della struttura”. Castelfranco Emilia (Mo). “Questo carcere è un luogo di formazione” Il Resto del Carlino, 26 aprile 2022 L’assessore al Welfare racconta l’importanza dell’attività agricola nel terreno circostante. Abbiamo avuto la fortuna di incontrare Nadia Caselgrandi, assessore al Welfare (i servizi che il comune mette a disposizione dei cittadini) del Comune di Castelfranco, che collabora con la direttrice del carcere, Maria Martone, per assicurare a ogni detenuto un percorso efficace di rieducazione. Studiando la situazione delle carceri in Italia abbiamo visto che tra i problemi principali c’è quello del sovraffollamento. Anche a Castelfranco si affronta questa emergenza? “Fortunatamente no. Ci sono celle singole o doppie e non abbiamo mai avuto problemi di sovraffollamento. Per evitare emergenze in futuro sono in corso dei lavori per ampliare l’edificio, raggiungendo così una capienza massima di circa 130 posti”. Quali sono le attività rieducative del carcere? “A Castelfranco la formazione dei detenuti è il primo obiettivo. L’attività agricola è molto sviluppata: oltre a 22 ettari di terreno, e alle stalle, ci sono delle serre per coltivare anche d’inverno. Alcuni carcerati lavorano invece nel call center all’interno della struttura. Le attività si svolgono anche all’esterno del carcere: nella bella Ciclofficina di via Tarozzi si sistemano le biciclette. Inoltre, collaborando con dei volontari, i detenuti hanno saldato e tinto le panchine rosse sparse per Castelfranco che simboleggiano la lotta contro la violenza sulle donne”. Si può comprare ciò che viene prodotto nel carcere? “Certo. Durante le attività rieducative si realizzano anche alcuni prodotti caseari. Questi, e tutto ciò che si ricava dalla coltivazione, viene venduto in un banco al mercato cittadino e allo spaccio presente nel carcere”. Grazie a questo incontro abbiamo capito l’importanza del carcere nel nostro territorio e ci siamo resi conto quanto sia importante per una società dare a chi ha sbagliato una formazione che offra una seconda possibilità per tornare a una vita normale. Potenza. Al via il progetto “Extra Moenia. Spazio di connessione territoriale” ufficiostampabasilicata.it, 26 aprile 2022 Iniziativa promossa da Compagnia Teatrale Petra con la Casa Circondariale “Antonio Santoro”. Martedì 26 aprile l’avvio dell’iniziativa promossa da Compagnia Teatrale Petra con la Casa Circondariale “Antonio Santoro”, ad anticipare la partenza dei laboratori di comunità. Una camminata nel Rione Betlemme con partenza da via San Vincenzo de’ Paoli è in programma martedì 26 aprile a Potenza, alle ore 17:00. Sarà il momento inaugurale del progetto “Extra Moenia - Spazio di connessione territoriale”, risultato tra i vincitori dell’avviso pubblico Creative Living Lab - 3 edizione, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, e ideato da Compagnia teatrale Petra di Satriano di Lucania insieme alla Casa Circondariale “Antonio Santoro” di Potenza e a Officine Officinali APS e con il patrocinio del Comune di Potenza. Previsti in apertura gli interventi di tutti i partner di progetto, compresi i referenti istituzionali della Casa Circondariale e del Comune di Potenza, oltre ai mediatori culturali del progetto Antonella Iallorenzi, Daniele Gioia, Angelo Piccinni, Lia Teresa Zanda e Giorgia Botonico. La camminata nel quartiere si concluderà con un aperitivo nell’ex Biblioteca Provinciale in via Maestri del Lavoro, luogo dove nelle prossime settimane si svolgeranno le attività laboratoriali previste dal progetto. L’obiettivo di “Extra Moenia. Spazio di connessione territoriale” è un intervento di riqualificazione di un’area verde di circa 800 mq presente nel perimetro della Casa Circondariale di Potenza, a ridosso del quartiere limitrofo di Rione Betlemme. Attraverso un processo di creazione partecipata con i cittadini, uno spazio urbano non utilizzato sarà trasformato in un luogo di idee, dove nuove azioni potranno prendere forma. Secondo l’idea di “rigenerazione di comunità” che la Compagnia teatrale Petra porta avanti da anni, i protagonisti saranno i detenuti della Casa Circondariale insieme all’intera comunità della città di Potenza, in particolare quella del Rione Betlemme: cittadini, studenti, associazioni e chiunque sia interessato a partecipare alle attività del progetto. Nella prima fase di creazione, i laboratori di comunità (27 aprile-14 maggio) con la formatrice teatrale Antonella Iallorenzi e il tecnologo alimentare Daniele Gioia serviranno a stimolare la creatività attraverso il linguaggio teatrale, l’analisi dell’economia circolare e il riciclo delle materie, con l’obiettivo di individuare necessità e bisogni dei fruitori ultimi dell’area oggetto dell’intervento e la sua destinazione d’uso. Nei successivi workshop di comunità (16-27 maggio), coordinati dagli architetti progettisti Giorgia Botonico e Lia Teresa Zanda e dall’illuminotecnico e scenotecnico teatrale Angelo Piccinni, si passerà alla progettazione partecipata dello spazio e dei suoi componenti di arredo, che saranno pensati per recuperare elementi di scarto e inutilizzati in possesso della Casa Circondariale. Infine, durante la fase di autocostruzione (30 maggio-15 giugno), gli schizzi e i disegni prodotti nei workshop di comunità verranno trasformati in manufatti e collocati nello spazio, in un momento di interazione sociale e sperimentazione di nuove forme collaborative e di fruizioni innovative dello spazio. Il progetto si concluderà il 16 giugno con una festa aperta a tutta la cittadinanza all’interno dello spazio rigenerato. Le iscrizioni ai laboratori di comunità sono ancora possibili inviando un’e-mail di richiesta informazioni all’indirizzo progettipetra@gmail.com. “Il cinismo della giustizia influenza ogni giorno le vite dei cittadini” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 26 aprile 2022 Il titolo può far preoccupare, ma le pagine che lo compongono proiettano dei raggi di speranza e lanciano delle proposte concrete, frutto di chi opera nel campo del diritto da decenni. “Giustizia cinica” (ed. Pendragon, pagg. 159, Euro 15, prefazione di Luciano Fontana) è l’ultimo libro di Gerardo Villanacci, avvocato e professore ordinario di Diritto privato nell’Università Politecnica delle Marche. Il sottotitolo è altrettanto eloquente: contraddizioni, stereotipi e problemi del sistema giudiziario italiano. Professor Villanacci, il titolo del suo ultimo libro è un’amara constatazione? Chiunque abbia anche una minima conoscenza degli uffici giudiziari, può verificare l’alto tasso di cinismo che caratterizza l’amministrazione della giustizia nel suo complesso. Attraverso fatti realmente accaduti, anche se sarebbe meglio dire che accadono tutti i giorni, ho provato a evidenziare che prima ancora di parlare di riforma della giustizia, una formula abusata e talmente astratta da risultare imperscrutabile, bisogna effettuare un cambiamento culturale partendo dalle apparenti piccole cose. Ad esempio, il rispetto per un testimone che per adempiere un dovere civico effettua trasferimenti talvolta molto onerosi di centinaia di chilometri, per ritrovarsi di fronte a un avviso affisso sulla porta dell’aula di udienza di un tribunale, con il quale si informa che il processo è stato rinviato, senza che nessuno si sia preoccupato, non dico di chiedere scusa, ma almeno di dare una spiegazione. Un procedimento giudiziario di qualsiasi natura esso sia quindi non soltanto penale, rappresenta per chi lo subisce o anche per chi è stato costretto a promuoverlo per tutelare un proprio sacrosanto diritto, una sofferenza. Talvolta, persino un dramma che, non di rado, coinvolge anche le famiglie del quale qualunque operatore della giustizia, e certamente in primo luogo il giudice, deve tener conto ed impegnarsi per alleviare, per quanto possibile, il disagio. Rinviare di anni un procedimento, che interessa una persona molto anziana, non è accettabile in uno Stato moderno. Il Pnrr ha una funzione salvifica anche per la giustizia? Senza alcun dubbio le maggiori risorse previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza potranno consentire una migliore funzionalità. Molto importanti sono le assunzioni di 16.500 addetti all’ufficio per il processo dei quali vi sono state già 8.171 assegnazioni nei diversi distretti giudiziari. Tuttavia, dobbiamo tener conto almeno di due questioni. Intanto che si tratta di assunzioni a tempo determinato e che le stesse sono finalizzate allo smaltimento degli arretrati. E inoltre, circostanza forse più rilevante, che è improprio addebitare le gravi disfunzioni della giustizia italiana alla mancanza di risorse economiche da destinare alla stessa. Quella che viene rappresentata è una situazione ben diversa dalla realtà. Basti considerare che le sole entrate della giustizia civile, tra le quali il contributo unificato, l’imposta di registro, diritti di copia, e il fondo unico di giustizia e diritto di credito, consentono di coprire tutte le spese per il funzionamento dei tribunali sia nel settore civile che in quello penale. Il problema quindi è principalmente di organizzazione strutturale e funzionale oltre che, prima di tutto, culturale come ho già detto. Lei si sofferma sulla litigiosità degli italiani. Siamo, dopo i russi, la popolazione più litigiosa d’Europa. Come si corre ai ripari? Capisco bene che in questo momento storico essere accostati ai russi in termini di litigiosità non è una bella cosa. Tuttavia è un dato ineludibile che la domanda di giustizia italiana è di gran lunga maggiore rispetto a quella della media degli altri Stati europei. Come ho provato a porre in evidenza, le ragioni di una maggiore litigiosità sono composite. A fronte del seppur apprezzabile ampliamento nel nostro Paese di nuove forme di tutela dei diritti, per esempio nell’ambito della famiglia, non sono stati approntati giusti rimedi per risolvere in modo non giudiziale le controversie anche banali che possono insorgere. Inoltre, elemento più rilevante ai fini di una maggiore tendenza alla litigiosità, è la sostanziale carenza di certezza dell’esito del processo. Il numero indefinito di leggi esistenti, a volte anche contradditorie tra di loro, alimentano i dubbi interpretativi e dunque le incertezze dell’esito del processo. Un giudizio dall’esito prevedibile scoraggia il ricorso ai tribunali e automaticamente promuove soluzioni stragiudiziali delle controversie. Vi è poi un altro aspetto. Quale? Le lungaggini processuali rendono più vantaggioso per qualsiasi debitore resistere in giudizio o comunque incardinare una controversia quantomeno per ritardare, se non per sottrarsi, all’adempimento. A ciò si aggiunga che manca una vera cultura conciliativa, che prescinde dall’imposizione di un obbligo legale, peraltro costoso, di mediazione e che non vi è una giusta applicazione, per quanto riguarda il settore civile, dell’istituto della responsabilità processuale aggravata ai sensi dell’articolo 96 del Codice di procedura civile. L’intelligenza artificiale applicata alla giustizia rappresenterà un supporto utile? L’Italia è pronta per far esordire la giustizia predittiva? Ho partecipato negli ultimi anni a varie iniziative convegnistiche aventi a oggetto la rilevanza e la possibile applicazione nel nostro Paese dell’intelligenza artificiale nel settore della giustizia. Sono convinto che con modalità telematiche potrebbero essere risolte controversie di modesta entità attraverso la creazione di software, esattamente come si sta sperimentando in altri Paesi. Tuttavia, ad essere realisti dobbiamo riconoscere che c’è ancora molta strada da fare anche se l’Unione Europea, già dal 2016, ha assunto varie iniziative per verificare l’efficienza dell’uso dell’intelligenza artificiale come strumento di previsioni di future decisioni giudiziarie. Ciò che preme sottolineare comunque è che la giustizia predittiva in nessun caso può comportare l’azzeramento dell’autonomia del giudice. 25 aprile, quei fischi in piazza non sono folklore di Stefano Folli La Repubblica, 26 aprile 2022 L’eterno ritorno del sempre uguale, lo definiva Nietzsche: ma esprimeva una filosofia esistenziale complessa. Invece l’eterno ritorno dei fischi nei cortei dell’Anpi, il 25 aprile di ogni anno, rivela con la solita puntualità l’intolleranza para-ideologica di gruppi e gruppetti, centri sociali ed estremisti vari uniti dall’odio verso la democrazia che fingono di voler celebrare. Come ogni anno, erano da mettere nel conto gli insulti al vessillo della Brigata Ebraica, gli slogan contro i “servi della Nato” (Draghi, Letta e il Pd), la pretesa che l’Italia debba uscire dall’alleanza senza indugi: richiesta, quest’ultima, peraltro avanzata con tenacia da qualche ospite dei ricorrenti talk show televisivi. Niente di nuovo, si dirà. Lo spirito del 25 aprile non è certo rappresentato da questi episodi tra lo squallido e il patetico. Sono le parole del presidente della Repubblica a ricordare cosa fu davvero la guerra di Liberazione, combattuta insieme dalle formazioni dei partigiani e dagli alleati, senza il cui sostegno, fatto di tanto sangue versato nell’arco di un anno e mezzo, non avremmo alcun 25 aprile da festeggiare o insolentire. Mattarella ha di nuovo rammentato, in modo solenne, che l’invasione dell’Ucraina ci riporta idealmente alla tragedia del ‘44-45, quando gli ucraini eravamo noi e i tedeschi di allora - per quanto sia difficile ammetterlo - erano i russi di oggi. Ma è questo che rende il 25 aprile 2022 diverso dagli altri, benché in tanti rifiutino l’elementare verità, testimoniata anche dalla senatrice Liliana Segre. La giornata di ieri dimostra che qui è il nocciolo della questione. I fischi e le urla contro i simboli della democrazia occidentale - compresa la Nato, sì - non sono più il residuo folkloristico di un passato remoto, ma un segnale inquietante volto a giustificare l’aggressione mossa contro uno Stato sovrano da un autocrate che teorizza con fredda lucidità l’esigenza di superare la liberal-democrazia cogliendola nel suo momento di crisi: economica, sociale o ideale che sia. Allora il rituale dell’intolleranza cessa di essere patetico e pone domande a cui non si può rispondere nel modo burocratico dell’Anpi: “è un errore”. Perché è un errore che si ripete ogni anno e quest’anno, nel pieno del conflitto armato, significa tradire nel profondo lo spirito della Liberazione. È un bene che alcune voci, come quella di Fassina, si siano levate da sinistra per prendere le distanze dalla vergogna ed esprimere solidarietà a Enrico Letta che in piazza c’è andato, ben sapendo cosa lo attendeva. Sarebbero opportune altre condanne, altre parole chiare che non si limitino a ribadire come tutto sommato si sia trattato di “episodi sparuti”, secondo la consueta tendenza a minimizzare. Si tratta invece di fatti gravi proprio perché la comunità occidentale sta forse entrando in una stagione che potrebbe essere lunga e piena di ombre. Una stagione che metterà alla prova la tenuta del patto democratico. Ciò spiega la preoccupazione di Mattarella. È una sfida che chiama in causa la responsabilità di tutti: in particolare, nell’ambito del centrosinistra, interpella il Pd di Letta. Qualcuno pensa che i fischi del 25 aprile abbiano incrinato la prospettiva del “campo largo”. È un’ipotesi intrisa di pessimismo. È vero tuttavia che la guerra all’Est è troppo vicina per non misurarne le conseguenze politiche in casa nostra. Le classi dirigenti nascono o rinascono in frangenti come questi. “Nella Costituzione nata dalla Resistenza il ripudio di conflitti insensati come in Ucraina” di Liana Milella La Repubblica, 26 aprile 2022 La Guardasigilli Marta Carabia parla da Reggio Emilia e cita Papa Francesco quando definisce “sacrilega” la guerra di Putin contro Kiev. “Cosa diremo noi davanti al tribunale della storia, noi uomini e donne del XXI secolo, che stiamo vivendo al tempo di questo cieco e insensato conflitto in terra Ucraina?”. È questo l’interrogativo che la ministra della Giustizia Marta Cartabia si pone, e pone a tutti noi, mentre a Reggio Emilia, città medaglia d’oro della Resistenza, celebra il 25 aprile. E lega assieme i valori della Resistenza, quelli della Costituzione che proprio dalla Resistenza è nata, e la “cieca e insensata” guerra in Ucraina. Cita Papa Francesco quando dice: “Se avessimo memoria sapremmo che la guerra, prima che arrivi al fronte, va fermata nei cuori. L’odio, prima che sia troppo tardi, va estirpato dai cuori”. È netto il giudizio della Guardasigilli - che il 24 marzo all’Aja ha incontrato il suo omologo ucraino Denys Maliuska - sul conflitto. “Ciò che non doveva ripetersi più è invece tornato a insanguinare la nostra terra europea, con i bombardamenti indiscriminati, con le violenze gratuite contro gli inermi, con l’odio dell’uomo all’uomo che rade al suolo quanto era stato costruito”. E ancora: “È la cultura della paura, del risentimento, dell’aggressività, del rapporto con l’altro come nemico, del potere come distruzione il terreno di coltura della guerra che siamo tutti chiamati a bonificare, anzitutto all’interno di noi stessi e delle nostre relazioni più vicine, così che non solo con lo sguardo possiamo abbracciare il nostro mondo”. Resistenza, Costituzione, ripudio della guerra. Ma la guerra è di nuovo tra noi. Alle porte di casa. E allora bisogna tornare proprio alla Costituzione. “Nata dalla Resistenza, la nostra Carta è la prima e più preziosa eredità che il 25 aprile ci ha tramandato - dice Cartabia - ed è la pietra angolare della nostra libera convivenza civile e politica. Riflettere oggi sullo spirito della Resistenza significa interrogarsi sulla necessità di ritrovare quella capacità di ricomposizione dei conflitti e di unione degli opposti, che portò alla nascita della nostra Repubblica”. E all’articolo 11 della nostra Carta - “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” - Cartabia vede “il giudizio netto sul passato, il ripudio della guerra; un obiettivo chiaro per il futuro, pace e giustizia fra le nazioni; un metodo realistico per raggiungerlo, far spazio alla relazione con gli altri Stati anche a costo di limitare ciò che per definizione è una caratteristica assoluta dello Stato, cioè la sua sovranità”. Resistenza allora, e resistenza oggi. Contro una guerra insensata. Dice Cartabia a Reggio Emilia: “In questo nostro drammatico tempo, in cui la guerra è alle porte di casa, comprendiamo bene che lo spirito di libertà che ha animato l’Italia e l’Europa nel secondo dopoguerra non può essere dato per acquisito una volta per sempre.”. Ed è proprio la Costituzione nata dalla Resistenza che fa da fondamento a questi valori: “I principi e i valori della nostra Carta furono scritti con il sangue e la sofferenza dei partigiani, e furono pensati nelle guardie notturne, nelle marce estenuanti sulla neve in montagna, nei ricoveri di fortuna al riparo dalla furia della violenza nazifascista”. Inevitabilmente il pensiero della ministra della Giustizia va ai civili indifesi che pagano il prezzo pesante della guerra, proprio come avvenne nella nostra Resistenza: “Allora, come oggi, la cecità della guerra non colpisce solo al fronte, ma travolge i più fragili, le donne, i bambini, gli anziani, i malati e chi si adopera per loro”. Una guerra “cieca”. E Cartabia cita ancora Papa Francesco e una delle sue parole più forti, una guerra “sacrilega”: “La cecità della guerra è ciò che la rende sacrilega perché sprezzante del valore sacro della vita e di ogni persona. Perché colpisce in modo insensato, annienta anche chi si adopera per alleviare il bisogno altri”. Cartabia chiude sull’immagine drammatica delle fosse comuni: “Quando cancelliamo il volto dell’altro allora non c’è argine alle atrocità: civili massacrati, donne violentate, famiglie in fuga uccise, cadaveri abbandonati o gettati nelle fosse comuni”. “Oggi come allora”. In Ucraina oggi, come nella nostra Resistenza. Migranti. Caso Baobab, il presidente rischia una condanna pesantissima di Erasmo Palazzotto* Il Fatto Quotidiano, 26 aprile 2022 Così si criminalizza la solidarietà. Favoreggiamento dell’immigrazione clandestina è l’accusa pesante che pende sul presidente del Baobab, Andrea Costa. Il reato non è cosa da poco e le eventuali pene vanno dai 6 ai 18 anni di reclusione. La ragione sembra incredibile ed è legata a un episodio accaduto nell’ottobre del 2016 quando Costa, insieme ad alcuni volontari del Baobab, avrebbe aiutato 8 ragazzi sudanesi e uno ciadiano ad acquistare i biglietti per raggiungere il campo della Croce Rossa a Ventimiglia. Il tutto accadeva all’indomani dell’ennesimo sgombero della tendopoli adiacente al centro di prima accoglienza di via Cupa a Roma il cui risultato era oltre 300 persone senza un rifugio in cui passare la notte e per le quali Costa e i volontari immediatamente si attivarono. Un reato di solidarietà gravissimo. Un atto criminale, insomma. Baobab nasce nel 2015 e, sostanzialmente per strada, senza il supporto delle istituzioni locali, in questi anni ha offerto soccorso e assistenza a donne, uomini e bambini che nel corso dei loro lunghi viaggi transitano a Roma peraltro spesso diretti verso il nord Europa. L’organizzazione umanitaria in questi anni ha cercato, nonostante i ripetuti sgomberi, di sopperire ai gravi deficit strutturali e organizzativi delle politiche sociali locali fornendo supporto a tutti coloro che giunti nella capitale si trovano senza alcuna accoglienza, assistenza né luogo sicuro dove dormire o anche solo riprendere fiato. In questi anni Baobab ha assistito diverse centinaia di persone fornendo cibo, vestiti e medicine, contando sulle forze di una rete di volontari e attivisti che si sono impegnati nel quotidiano nel tentativo di colmare mancanze strutturali gravi. Eppure accade di nuovo. Ancora una volta, in questi anni di principi capovolti e di messa in discussione di valori fondamentali che dovrebbero essere indiscutibili, siamo costretti ad assistere all’ennesimo episodio di criminalizzazione della solidarietà, all’attacco pretestuoso che mira a smontare modelli di approccio umanitario non allineati a quelli governativi, dimostratisi peraltro ad oggi deficitari e fallimentari. E così coloro che s’impegnano nella difesa dei diritti umani e si schierano dalla parte dei più vulnerabili, si trovano attaccati, considerati alla stregua di criminali. Il caso che coinvolge il Baobab è stato attribuito alla DIA, Direzione Distrettuale Antimafia, come spesso è accaduto per alcune inchieste che hanno visto coinvolte le ong che operano soccorso in mare. E quindi via libera a intercettazioni, pedinamenti, indagini fiume - finite in un nulla di fatto - con i migliori strumenti di cui disponiamo per scovare i peggiori criminali, coloro che si occupano di chi nessuno si preoccupa, nemmeno lo Stato. Un’abitudine grave e, diciamocelo, ormai inaccettabile. Tanto più ora, che la straordinaria gestione di arrivi dei profughi ucraini in fuga dal conflitto ci sta dimostrando quanto si sia in grado di realizzare, anche in tempi brevissimi, un’accoglienza sostenibile e dignitosa, seppur numericamente significativa. C’è da chiedersi allora se non abbia più senso, e non sia più giusto, trovare una modalità non di contrasto ma di collaborazione virtuosa con le realtà che si occupano di solidarietà e che hanno il coraggio di esplorare nuovi modelli di inclusione. Diversamente questi attacchi infondati fanno parecchio pensare oltre che scatenare un profondo senso di tristezza per la nostra inadeguatezza rispetto all’accoglienza delle persone che arrivano nel nostro Paese. *Deputato Pd, presidente Commissione d’inchiesta Regeni Stati Uniti. Melissa Lucio, sospesa la condanna a morte di Elena Del Mastro Il Riformista, 26 aprile 2022 Alla fine il “miracolo” è avvenuto: è stata sospesa la condanna a morte in Texas di Melissa Lucio, madre di 14 figli, accusata della morte di una di loro. Lo ha deciso la Corte d’appello secondo quanto riferiscono i suoi avvocati. Il giorno della condanna a morte era fissato per il 27 aprile ma la donna, 53 anni, di origine messicana, ha avuto la “clemenza”. La donna si è sempre detta innocente e negli ultimi giorni la sua famiglia e gli attivisti hanno moltiplicato gli appelli per fermare la sua esecuzione. Lucio è stata condannata con l’accusa di aver ucciso nel 2007 la più piccola delle sue figlie, Mariah, 2 anni, nella contea di Cameron. La bimba, secondo la difesa, è deceduta per le ferite interne riportate due giorni dopo una caduta accidentale, mentre l’accusa sostiene che sarebbe stata picchiata. I difensori sostengono, con validi elementi a riscontro, che un riesame dell’autopsia fatto alla luce delle migliorate conoscenze scientifiche dimostrerebbe che la bambina è plausibilmente morta per una caduta accidentale dalle scale di casa. Le nuove risultanze sembrano anche spiegare i molti lividi trovati sul corpo della bambina, plausibili con una ipersensibilità dovuta a una malattia genetica della coagulazione del sangue. In suo favore nei giorni scorsi si è mobilitato tutto il mondo, è sorto un movimento molto forte. A favore di Melissa si sono schierati alcuni vip, quasi metà dei giurati popolari che pure l’avevano condannata, alcuni pubblici ministeri (quello che aveva gestito il processo nel frattempo è stato condannato a 13 anni di carcere per gravi irregolarità in altri processi) e gruppi di pressione a favore delle minoranze etniche, contro le violenze domestiche, per i diritti dei minori. Una petizione popolare, alla quale ha partecipato anche Nessuno tocchi Caino, ha raccolto oltre 235.000 firme. La cosa abbastanza sorprendente, trattandosi del Texas, ma anche in generale, è che a favore della “clemenza” si sono pronunciati, firmando un appello esplicito, il 60% dei parlamentari texani. E il parlamento texano è a forte maggioranza conservatrice (57%), così conservatrice che un gruppo di parlamentari, per rendere più evidente il supporto a Melissa, è andato in carcere e si è fatto fotografare mentre tutti insieme si erano raccolti in preghiera. Dopo che anche i 13 figli vivi della Lucio hanno testimoniato di non essere mai stati maltrattati, anche il giovane pubblico ministero che ha ereditato il caso dal collega arrestato si è detto favorevole a rivederlo. Il Comitato per gli affari legali e i diritti umani del Consiglio d’Europa, nel 2019, evidenziava per i figli dei condannati a morte come “questi bambini, spesso dimenticati e socialmente svantaggiati, possono subire un trauma in ogni fase del processo che porta all’esecuzione del genitore”: è un “fardello emotivo e psicologico” che “viola i loro diritti”. Il Consiglio raccomandava di dare “massima importanza all’interesse superiore del bambino” nelle sentenze sui genitori e rispettare il divieto della pena di morte per chi aveva meno di 18 anni al momento del presunto reato. Come richiamato anche nella Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia del 20 novembre 1989. “Bloccate l’estradizione di Assange”: i parlamentari italiani scrivono alla ministra inglese Il Fatto Quotidiano, 26 aprile 2022 “Rischia di essere un ammonimento alla stampa”. La lettera di esponenti di vari partiti (Pd, M5s, Iv, Leu e misto), ma anche del giornalismo e della cultura, da Beppe Giulietti a Luciana Castellina. Ecco il testo integrale del documento inviato al governo del Regno Unito che dovrà dare l’ok finale al trasferimento del giornalista australiano negli Usa, dove rischia una condanna a oltre 175 anni. Bloccare l’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti. È il centro di una lettera firmata 19 parlamentari di Pd, M5s, Leu e gruppo misto inviata alla ministra dell’Interno britannica Priti Patel. “Ciò che temiamo - si legge tra l’altro nella lettera - è, da un lato, il prolungamento della detenzione di Assange le cui conseguenze potrebbero rivelarsi fatali per l’imputato e, dall’altro, un ammonimento rivolto alla stampa affinché si astenga dal raccogliere e divulgare informazioni anche se diffuse nell’interesse pubblico”. Tra i firmatari della lettera ci sono esponenti del Pd come Gianni Marilotti e Andrea Marcucci, del M5s come Primo Di Nicola e l’europarlamentare Sabrina Pignedoli, di Italia Viva (Elvira Evangelista), del Psi (Riccardo Nencini) e poi di Leu come Sandro Ruotolo e Maurizio Buccarella o esponenti del Misto come il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra. Ad aderire sono stati già anche gli ex sottosegretari Vincenzo Vita e Alberto Maritati, la fondatrice del Manifesto Luciana Castellina, il condirettore del Manifesto Tommaso Di Francesco, il presidente della Federazione della stampa Beppe Giulietti, la portavoce di Articolo 21 Elisa Marincola e Stefania Maurizi, giornalista che collabora con ilfattoquotidiano.it e che più di tutti ha seguito in Italia il caso del giornalista australiano accusato per la vicenda Wikileaks. Attualmente Assange è in attesa della decisione del governo di Londra (su cui sulla carta non sembrano esserci sorprese). Sotto il profilo formale l’ultimo atto burocratico è arrivato alcuni giorni fa dalla Westminster Magistrates’ Court che ha emesso l’ordine formale di estradizione. Negli Stati Uniti Assange rischia una condanna fino a 175 anni di carcere per aver contribuito a diffondere documenti riservati su crimini di guerra commessi dalle forze americane in Iraq e Afghanistan. Il consenso della ministra Patel è previsto entro un termine massimo di 28 giorni. Ad Assange, 51 anni, australiano, sono contestati 17 capi d’accusa: i magistrati americani gli imputano di aver cospirato per ottenere informazioni poi diffuse su Wikileaks. Grazie alle informazioni diffuse sul portale di Assange sono state rivelate molte notizie relative alle guerre in Afghanistan e in Iraq, in particolare - tra le altre tante cose - dell’uccisione di migliaia di civili di cui non si era saputo nulla e di unità segrete delle forze armate segrete (la Task Force 373) per uccidere i talebani senza processo. In precedenza l’organizzazione di Assange aveva pubblicato anche un memorandum della Cia del 2010 in cui si spiegavano le strategie per mantenere l’indifferenza dell’opinione pubblica tedesca e francese sulla guerra in Afghanistan: “Lo scarso rilievo della missione in Afghanistan - si leggeva tra le altre cose - ha permesso ai leader di Francia e Germania di ignorare l’opposizione della gente e di continuare ad aumentare costantemente il numero delle loro truppe nella missione Isaf”. Quello che segue è il testo della lettera degli esponenti della politica, del giornalismo e della cultura inviata alla ministra dell’Interno inglese Priti Patel. *** Noi sottoscritti uomini e donne del mondo della politica, del giornalismo, dell’accademia ci rivolgiamo a lei in vista della cruciale decisione che è chiamata a prendere rispetto alla richiesta di estradizione dell’editore e giornalista Julian Assange, esortandola a non accogliere tale richiesta. Riteniamo che la decisione segnerà una pagina fondamentale del diritto alla conoscenza, oltre che della vita dell’imputato e della condizione dello Stato di Diritto. Da tre anni Julian Assange si trova in detenzione preventiva in un carcere di massima sicurezza senza che nessun tribunale abbia pronunciato alcuna sentenza definitiva nei suoi confronti. Ad essi se ne devono aggiungere altri nove: era il 7 dicembre 2010 quando, spontaneamente, si presentò a Scotland Yard a seguito di un mandato europeo, spiccato dalla magistratura svedese, risoltosi con la sua archiviazione. Da allora, Assange ha continuato a subire ininterrotte forme di detenzione. Il fondatore di Wikileaks ha contribuito alla comprensione delle ragioni per cui una democrazia non può e non deve essere all’origine di gravi violazioni dei diritti umani a danno di centinaia di migliaia di civili già oppressi dalla prepotenza di despoti e dall’assenza di diritti fondamentali. Le principali istituzioni e organizzazioni internazionali dedicate alla difesa e promozione dei diritti umani si sono espresse a favore della liberazione di Julian Assange. Si tratta delle stesse istituzioni democratiche, fondate a seguito della devastazione della Seconda Guerra Mondiale, a cui guardiamo con fiducia e che presentano da tempo una richiesta a cui ci uniamo e che le rinnoviamo: la fine della detenzione di Julian Assange. Il 4 dicembre 2015, il Gruppo di esperti Onu sulla detenzione arbitraria ha affermato che “il rimedio adeguato sarebbe quello di garantire il diritto alla libera circolazione del sig. Assange e di riconoscergli il diritto esecutivo al risarcimento, in conformità con l’articolo 9(5) del Patto internazionale sui diritti civili e politici.” Il 21 dicembre 2018, lo stesso Gruppo ha precisato che “agli Stati che si basano e promuovono lo stato di diritto non piace confrontarsi con le proprie violazioni della legge. Questo è comprensibile. Ma quando riconoscono con onestà queste violazioni, onorano lo spirito stesso dello stato di diritto, guadagnano un maggiore rispetto e costituiscono un esempio lodevole in tutto il mondo”. Il 5 aprile 2019, il Relatore Speciale Onu sulla tortura, Nils Melzer, si è detto allarmato per la possibile estradizione in quanto l’imputato rischierebbe di subire gravi violazioni dei suoi diritti umani, trattamenti o punizioni crudeli, disumani o degradanti, perdita della libertà di espressione e privazione del diritto a un equo processo. Il 9 maggio dello stesso anno, Melzer ha visitato Assange e ha riscontrato sintomi di “esposizione prolungata alla tortura psicologica”. L’11 aprile 2019, la Relatrice Speciale ONU sulle esecuzioni extragiudiziali, Agnes Callamard, ha dichiarato che il Regno Unito ha arrestato arbitrariamente il controverso editore “probabilmente mettendo in pericolo la sua vita”. Questa dichiarazione è condivisa dal Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei difensori dei diritti umani, Michel Forst. Il 20 febbraio 2020, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, ha dichiarato: “la potenziale estradizione di Julian Assange ha implicazioni sui diritti umani che vanno ben oltre il suo caso individuale. L’atto d’accusa solleva importanti interrogativi sulla protezione di coloro che pubblicano informazioni riservate nell’interesse pubblico, comprese quelle che espongono violazioni dei diritti umani. (…) qualsiasi estradizione in cui la persona coinvolta è a rischio reale di tortura o trattamento inumano o degradante è contrario all’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo”. Il 10 dicembre 2021, infine, il Segretario generale di Reporter Without Borders, Christophe Deloire, ha dichiarato: “Crediamo fermamente che Julian Assange sia stato preso di mira per i suoi contributi al giornalismo e difendiamo questo caso a causa delle sue pericolose implicazioni per il futuro del giornalismo e della libertà di stampa nel mondo.” Ciò che temiamo è, da un lato, il prolungamento della detenzione di Assange le cui conseguenze potrebbero rivelarsi fatali per l’imputato e, dall’altro, un ammonimento rivolto alla stampa affinché si astenga dal raccogliere e divulgare informazioni anche se diffuse nell’interesse pubblico. Siamo convinti che sia possibile consentire all’opinione pubblica di conoscere le ragioni alla base di cruciali decisioni politico-militari senza che questo confligga con le esigenze di sicurezza dei cittadini. Per questi motivi ci appelliamo a lei, sig.ra Ministro, affinché non dia il via libera all’estradizione di Julian Assange. Firmatari: Gianni Marilotti, senatore; Andrea Marcucci, senatore; Riccardo Nencini, senatore; Roberto Rampi, senatore; Elvira Evangelista, senatrice; Luciano D’Alfonso, senatore; Tatiana Rojc, senatrice; Sandro Ruotolo, senatore; Maurizio Buccarella, senatore; Luisa Angrisani, senatrice; Danila De Lucia, senatrice; Francesco Verducci, senatore; Mino Taricco, senatore; Monica Cirinnà, senatrice; Andrea Ferrazzi, senatore; Nicola Morra, senatore; Paola Boldrini, senatrice; Primo Di Nicola, senatore; Silvana Giannuzzi, senatrice; Giuseppe Pisani, senatore; Gisella Naturale, senatrice; Francesco Giacobbe, senatore; Luigi Di Marzio, senatore; Elena Botto, senatrice; Fabrizio Ortis, senatore; Margherita Corrado, senatrice; Fabrizio Trentacoste, senatore; Simona Nocerino, senatrice; Marco Croatti, senatore; Nicola Morra, senatore; Mattia Crucioli, senatore; Emma Pavanelli, senatrice; Maria Laura Mantovani, senatrice; Sabrina Pignedoli, deputata europea; Clare Daly, deputata europea; Mick Wallace, deputato europeo; Francesca Donato, deputato europeo; Martin Buschmann, deputato europeo; Dino Giarrusso, deputato europeo; Pierre Larrouturou, deputato europeo; Ivan Vilibor SIN?I?, deputato europeo; Gunnar Günter BECK, deputato europeo; Chiara Maria Gemma, deputata europea; Carles Puigdemont, deputato europeo; Antoni Comín, deputato europeo; Clara Ponsatí, deputata europea; Rosa D’Amato, deputata europea; Joachim Kuhs, deputato europeo; Marcel de Graaff, deputato europeo; Stelios Kouloglou, deputato europeo; José Gusmão, deputato europeo; Daniela Rondinelli, deputata europea; Ignazio Corrao, deputato europeo; Diana RIBA I GINER, deputata europea; Marisa Matias, deputata europea; Gunnar Beck, deputato europeo; Laura Ferrara, deputata europea; Özlem Alev Demirel, deputata europea; Eleonora Evi, deputata europea; Vincenzo Vita, già parlamentare ed ex sottosegretario alle Telecomunicazioni; Alberto Maritati, già senatore ed ex sottosegretario alla Giustizia; Gian Giacomo Migone, già senatore ed ex presidente Comm. Esteri Senato; Luciana Castellina, già deputata; Aldo Tortorella, già deputato; Alfonso Gianni, già deputato; Gianni Tamino già deputato e già deputato europeo; Beppe Giulietti, presidente Fnsi; Tommaso Di Francesco, condirettore Il Manifesto; Giovanni Terzi, giornalista; Elisa Marincola, portavoce Articolo 21; Stefano Corradino, direttore Articolo21; Valerio Cataldi, giornalista; Paolo Barretta, Carta di Roma; Stefania Maurizi, giornalista; Salvatore Cannavò, giornalista; Pier Virgilio Dastoli, docente di diritto dell’Ue; Marino Bisso, giornalista, Rete NoBavaglio; Daniele Lorenzi, presidente Arci; Danilo De Biasio, direttore del Festival dei Diritti Umani; Lorenzo Frigerio, coordinatore Libera Informazione; Paola Slaviero, scrittrice; Nicoletta Bernardi, informatica presso Università degli Studi di Perugia; Francesco Maggiurana. pianista; Gemma Guerrini, già consigliera comunale e ricercatrice, membro Aipd; (Associazione Italiana Paleografi e Diplomatisti); Egitto. Al-Sisi libera 41 detenuti politici. Poi costruisce un mega carcere di Chiara Cruciati Il Manifesto, 26 aprile 2022 Succede ogni anno in occasione del Ramadan, come nella giornata dedicata alle forze armate: in Egitto il presidente concede la grazia a decine di prigionieri. Stavolta, evento piuttosto raro, pena estinta a 41 prigionieri politici, non semplici detenuti. Tutti però dietro le sbarre in detenzione preventiva, dunque in attesa di processo. Lo ha annunciato domenica Mohamed al-Sadat, leader politico e nipote dell’ex presidente Anwar, che dei rilasci è stato ufficioso negoziatore: sono stati rilasciati “41 di coloro che sono in detenzione cautelare per reati politici e accuse legate alla libertà di pensiero e di espressione”. Ha poi parlato di riforme in arrivo per favorire i rilasci, nell’ambito del lavoro del comitato presidenziale per la grazia. Solo il tempo dirà se si tratta di una reale svolta o solo di make-up sul volto brutale del regime. Tra i 41, ha rivelato il noto avvocato Khaled Ali (da sempre difensore di attivisti e giornalisti e lui stesso ex prigioniero), ci sono il giornalista Mohamed Salah, il ricercatore Abdo Fayed, il membro del partito Dostor, Hassan al-Barabari, il sindacalista Haitham al-Banna e l’attivista Walid Shawky, oltre a Rawda Mohamed, arrestata nel 2019 durante una protesta che chiedeva le dimissioni del presidente al-Sisi. Ad accomunarli l’accusa, “appartenenza a organizzazione terroristica e diffusione di notizie false”, reato standard per buona parte dei 60-100mila prigionieri politici stimati, previsto dalla legge anti-terrorismo modificata da al-Sisi nel 2014, appena eletto alla presidenza. E lui che ha apposto la firma sugli ordini di rilascio. Come ha approvato la costruzione di nuove carceri nel paese. Dal golpe del 2013 sono sorte come funghi, dopotutto devono contenere un numero di prigionieri politici dieci volte più grande della media della dittatura Mubarak. Da allora ne sono state costruite già 27, un terzo delle 79 totali. E se quella di Wadi al-Natrun, a Beheria, a centinaia di km dal Cairo (per rendere più tortuose e dunque meno frequenti le visite familiari), ha aperto in sordina con il trasferimento, a marzo, di circa 500 prigioniere all’insaputa di legali e famiglie, l’agenzia Mada Masr dà notizia di un altro progetto in fieri: il ministero degli interni sta costruendo, attraverso una compagnia delle forze armate, un nuovo complesso penitenziario ad al-Jaflafah, nel Sinai devastato dalla lotta ai gruppi islamisti. Conterrà due carceri di massima sicurezza e quattro prigioni normali, per una capacità di 20.064 detenuti. Per realizzarla sono stati confiscati ettari di fattorie. Le inaugurazioni rientrano nel piano annunciato lo scorso settembre dal governo: un nuovo istituto “in stile americano” (Wadi al-Natrun, appunto), a cui ne seguiranno “altri sette e otto”, dove i detenuti godano di migliori condizioni di detenzione. Una farsa, in un paese prigione a cielo aperto, mentre nelle celle reali, di cemento, si vive ammassati, tra condizioni igieniche pessime e una quotidianità di atroci torture. Turchia. Ergastolo per Osman Kavala, difensore dei diritti umani Il Domani, 26 aprile 2022 L’attivista per i diritti umani turco e filantropo Osman Kavala è stato condannato all’ergastolo da un tribunale di Istanbul per aver tentato di rovesciare il governo di Erdogan dando sostegno alle proteste di massa antigovernative del parco Gezi di Istanbul nel 2013. Insieme a Kavala sono stati condannati anche altre sette imputati, per loro la pena stabilita è stata di 18 anni di carcere, con l’accusa di aver fornito il loro aiuto al tentativo di sovversione. Il verdetto è arrivato dopo che il principale organismo europeo per i diritti umani, il Consiglio d’Europa, aveva avviato procedure di infrazione contro la Turchia, perché si era rifiutata di attenersi a una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che chiedeva il rilascio dell’attivista. Kavala, 64 anni, è incarcerato nella prigione di Silivri, alla periferia di Istanbul, da quando è stato arrestato il 18 ottobre 2017, con l’accusa di aver finanziato le proteste. Nel corso degli anni sono state mosse contro di lui diverse nuove accuse, sulla base delle quali è stato mantenuto in carcere, anche dopo essere stato assolto nel febbraio 2020. “Il fatto di aver passato 4,5 anni della mia vita in prigione - ha detto Kavala alla corte in videoconferenza da Silivri - è per me una perdita irreparabile. La mia unica consolazione è la possibilità che la mia esperienza contribuisca a una migliore comprensione dei gravi problemi della magistratura”. Libia. Il generale Haftar controlla la zona di Sirte con arresti e intimidazioni di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 26 aprile 2022 Subito dopo la fine del regime di Gheddafi, la regione della Sirte che del leader libico era stata la roccaforte è stata sconvolta da più conflitti armati, compreso quello contro lo Stato islamico. All’inizio del 2020 le Forze armate arabe libiche (Faal) di Khalifa Haftar e vari gruppi affiliati hanno preso definitivamente il controllo della zona. Sotto la direzione delle Faal opera l’Agenzia per la sicurezza interna, una coalizione di potenti gruppi armati da non confondere con un organismo omonimo che opera nella Libia occidentale sotto l’autorità del Governo di unità nazionale. Il 19 marzo di quest’anno, circa 30 persone hanno preso parte a una protesta pacifica per chiedere, tanto alla comunità internazionale quanto alle autorità locali, risarcimenti per una serie di attacchi portati a termine dalla Nato nel 2011. A promuovere la manifestazione era stata la tribù Gadadfa, il principale gruppo della zona di Sirte. Nei giorni successivi, l’Agenzia per la sicurezza interna ha arrestato 10 manifestanti. Secondo testimoni oculari, le persone arrestate sono state picchiate, incappucciate, fatte salire su veicoli privi di targa e portate in luoghi tuttora sconosciuti. La settimana dopo è stato arrestato anche Ali al-Refawi, giornalista dell’emittente televisiva Canale 218. Anche di lui non si hanno notizie. Dopo gli arresti, uomini delle Faal hanno convocato i capi della tribù Gadadfa intimando loro di cessare le proteste. I fatti di marzo sono solo l’ultimo esempio della brutalità con cui le Faal controllano il territorio. Lo scorso novembre, almeno 13 persone erano state arrestate per aver manifestato in favore della candidatura di Saif al-Islam Gheddafi alle elezioni presidenziali, poi rinviate. Ha rischiato molto anche una rappresentanza di Amnesty International, in visita a Sirte il 20 febbraio. Il sindaco Mokhtar al-Ma’dani ha accolto i delegati dell’organizzazione circondato da uomini dell’Agenzia per la sicurezza interna, avvisandoli che non avrebbero potuto svolgere alcun incontro in privato. Per l’intera durata della visita, i delegati sono stati accompagnati da uomini in borghese che avevano modi di fare estremamente intimidatori. Il 28 marzo la Missione di accertamento dei fatti sulla Libia, istituita dal Consiglio Onu dei diritti umani, ha presentato il suo secondo rapporto in cui è elencata una lunga serie di violazioni dei diritti umani commesse nella totale impunità. *Portavoce di Amnesty International Italia Algeria. Detenuto attivista muore in cella. Era stato condannato per “attentati alle istituzioni” agenpress.it, 26 aprile 2022 Hakim Debazi, 55 anni, attivista pacifico era uno degli attivisti più attivi di Hirak, è morto domenica 24 aprile in custodia. Lo ha annunciato su Facebook Tarek Merah, avvocato e difensore dei diritti umani. Non è stato specificato il motivo esatto della sua morte. Questo ha suscitato molte speculazioni sui social media. Padre di tre figli era stato arrestato per “attentati alle istituzioni”, e condannato dalla giustizia algerina al carcere per le loro pubblicazioni sui social network. “La sua morte farà sicuramente scorrere molto inchiostro. Questa morte rischia di riaccendere il dibattito sulle condizioni di detenzione dei detenuti politici algerini e sui possibili abusi inflitti loro negli istituti penitenziari. Infine, va notato che le autorità algerine non hanno ancora reagito a questo annuncio di morte e nessuna fonte ufficiale ha voluto fare il minimo commento”, ha scritto la Lega algerina per la difesa dei diritti umani ha invitando le autorità giudiziarie ad aprire immediatamente un’indagine, per individuare le responsabilità, rivelare tutta la verità e fare giustizia sulla morte di un detenuto per reati d’opinione in cella in un carcere ad ovest della capitale. “Le piattaforme e i social network hanno ampiamente diffuso l’informazione della morte di un detenuto per reati d’opinione ieri sera nel carcere di Kolea (provincia costiera di Tipaza a ovest della capitale), si legge nel comunicato. La Lega ha aggiunto che L’autorità giudiziaria ha l’obbligo di informare l’opinione pubblica su tutti i dettagli, circostanze e cause di questa tragica scomparsa”.