La notte bianca della giustizia di Francesco Merlo La Repubblica, 25 aprile 2022 L’Anm sceglie una nuova modalità per protestare contro la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario l’Anm. Ma a cosa si ispireranno i magistrati? Ai notturni di Rembrandt o a quelli di Dostoevskij? Per protestare contro la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, l’Associazione nazionale dei magistrati congela lo sciopero e “indice - leggo nel comunicato - una notte bianca” che, trascorsa per esempio con Nino Di Matteo e Giancarlo Caselli - li cito per nobiltà di carriera - rimanderebbe più alle notti bianche di Dostoevskij che alle notti bianche di Veltroni, benché nessuno dei due, né Fëdor né Walter, l’abbia pensata come una notte di protesta. Senza entrare nel merito del progetto di legge Cartabia, che lascio agli esperti di equilibrismo, è sicuro che una notte bianca “contro” la riforma della giustizia non sarebbe allegra e giocosa. E neppure con Nicola Gratteri e Piercamillo Davigo diventerebbe una di quelle pazze notti di idee e di musica, di incontri e di emozioni che, nel lontano 2003, l’allora sindaco Veltroni importò a Roma da Parigi “to look for America”. Invece e comunque, verrebbe in mente il cupo Dostoevskij, innanzitutto per via dell’argomento del delitto e del castigo. Se poi volessimo cercare le notti banche nella pittura, escludendo Goja in preda agli incubi sullo scrittorio, al grappolo di magistrati nottambuli si adatterebbe bene la luce di Rembrandt, la luce notturna dei ritratti di gruppo olandesi, le barocche corporazioni (1662) che allora si chiamavano “gilde” e segnavano il progresso della borghesia e oggi segnano invece la decadenza italiana. E basterebbe, in quei celebri dipinti, sostituire, che so, i capi dei drappieri con i capi dell’Anm, tutti attorno al presidente Giuseppe Santalucia ovviamente, per rispetto del rango associativo. Ci fosse davvero un nuovo Rembrandt oggi alla lezione di anatomia preferirebbe la lezione di diritto, non la teatralità della medicina sul cadavere di un criminale ancora fresco di impiccagione, ma la teatralità della procura che disseziona colpevoli. E sarebbe arte contemporanea degna della Biennale se al posto del dottor Tulp ci fosse il dottor Palamara. Ecco, vuoi vedere che, alla fine, le notti bianche sono molto più insidiose degli scioperi? È, per esempio, sicuro che a una notte bianca contro gli eccessi garantisti parteciperebbe lo stesso Raskol’nikov, visto che contro se stesso puntava anche lui, come molti arrabbiati procuratori, più sull’espiazione che sulla redenzione. Dostoevskij, che pretende di “catturare il lettore nelle prime pagine, altrimenti è perduto”, già nel celebre incipit delle Notti bianche spiega che la magia atmosferica di Pietroburgo è adatta più ai sognatori che ai professionisti delle manette, specie se “irascibili e irosi” per colpa di una riforma che a loro pare la fine del mondo: “Il cielo era così stellato e sfavillante che, dopo averlo contemplato, ci si chiedeva involontariamente se sotto un cielo così potessero starci uomini irascibili e irosi”. Da vittime di violenza a “madri cattive”, quando i giudici puniscono le donne di Maria Novella De Luca La Repubblica, 25 aprile 2022 La Commissione sul femminicidio: “Nel 97% delle separazioni conflittuali ignorati i referti sui maltrattamenti”. Millecinquecento fascicoli esaminati, tre anni di lavoro, ottantanove pagine di relazione. Per testimoniare, sotto forma di numeri, quanto da tempo la cronaca racconta: quando in una separazione conflittuale le donne denunciano per violenza i propri partner, da vittime, spesso, diventano imputate, vengono accusate di essere “madri cattive” e rischiano di perdere la tutela dei figli. Un nome simbolo: Laura Massaro. Un dato emblematico: nel 97% dei casi esaminati, i giudici, nel decidere dell’affido dei bambini, hanno ignorato documenti, referti addirittura sentenze di uomini rinviati a giudizio per maltrattamenti. E’ un documento da cui non si potrà più prescindere la relazione della Commissione d’Inchiesta sul femminicidio: “La vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti di affidamento e responsabilità genitoriale”. Una descrizione implacabile di un segmento distorto della Giustizia civile e minorile, per cui accade che un bambino possa essere affidato a un padre condannato per violenza e tolto alla madre che quell’uomo aveva denunciato. Ecco alcuni passaggi chiave della relazione, in particolare sui tribunali ordinari. Esaminati 1500 fascicoli - La Commissione ha analizzato circa 1460 fascicoli, di cui 569 provenienti dai tribunali ordinari per il trimestre marzo-maggio 2017 e 620 dei tribunali minorili relativi al mese di marzo 2017. A questi vanno aggiunti altri 45 fascicoli inviati direttamente da madri che hanno denunciato la sottrazione dei figli. Il lavoro del pool di magistrate, avvocate e consulenti ha evidenziato, sentenza dopo sentenza, come si arriva a casi clamorosi come quello di Laura Massaro che ha fondato il “Comitato madri unite contro la violenza istituzionale”, e da 10 anni lotta perché suo figlio non venga collocato in casa famiglia, su richiesta del padre, denunciato per violenza e con il quale il bambino non vuole avere rapporti. O alla tragedia di Ginevra Pantasilea Amerighi, il cui fascicolo fa parte dei 45 esaminati dalla commissione, a cui la figlia Arianna venne strappata dalle braccia dai servizi sociali quando aveva soltanto pochi mesi e affidata a un padre condannato per maltrattamenti. Gli allarmi inascoltati - Nel 97,6% dei circa 600 casi di separazione giudiziale esaminati, i giudici dei tribunali ordinari non hanno tenuto conto né di referti e testimonianze di violenza domestica, presentati nell’86,9% dalle donne, né, ed è forse ancora più grave, di “carte” che denunciavano maltrattamenti su figli minori (18,7% dei casi). Non solo. I presidenti dei tribunali, si legge nella relazione, “pur a conoscenza di procedimenti penali pendenti o definiti, nel 95% dei casi non hanno ritenuto di acquisire gli atti”. Dunque può succedere, anzi è successo e l’indagine svela finalmente quale è il meccanismo che porta a questa distorsione, che in una separazione un bambino possa essere affidato a un padre condannato per violenza e tolto ad una madre accudente e presente. Commenta Valeria Valente, presidente della Commissione: “Ciò che emerge dalla relazione è che donne e bambini vittime di violenza domestica possono subire ulteriore vittimizzazione in tribunale. Occorre maggiore formazione da parte di tutti gli operatori per riconoscere la violenza domestica e una più ampia correlazione tra cause civili per separazione e cause penali per maltrattamenti”. L’alienazione parentale - Ma come si arriva ai casi estremi esaminati dalla Commissione sul femminicidio del Senato? Nell’affido dei figli oggi il concetto dominante è la salvaguardia della bigenitorialità al di sopra di tutto, come prevede la legge 54 del 2006 sull’affido condiviso. Un concetto spesso portato all’estremo nelle separazioni conflittuali, dove accade che ai figli vengano imposti incontri con padri maltrattanti, rinviati a giudizio, in carcere. La motivazione (smentita però dalla Cassazione) è che, “un cattivo padre è meglio di nessun padre”, nell’idea, si legge nella relazione, “che una educazione monosessuale” potrebbe incidere (negativamente) sul futuro dei figli. Dunque i servizi sociali impongono incontri ai quali però in moltissimi casi i bambini non vogliono partecipare perché hanno visto quei padri picchiare o sono stati a loro volta abusati. Di questo rifiuto vengono colpevolizzate le madri, definite nelle relazioni dei “Ctu”, discussi consulenti tecnici di ufficio, nel 28% dei casi, madri alienanti, simbiotiche, manipolatrici, malevole, fragili. Inadatte allora a fare le madri, tanto da poter essere sollevate dalla responsabilità genitoriale, tanto da poter strappare loro i figli con la forza. Da ricordare una storia su tutte e il nome di un bambino: Federico Barakat. Fu ucciso a 8 anni a coltellate dal padre durante un incontro protetto nella sede della Asl di San Donato Milanese. La mamma, Antonella Penati, invano aveva avvertito i servizi sociali della pericolosità del suo ex. Era stata definita alienante e ipertutelante e al bambino erano stati imposti quegli incontri con un padre che si sarebbe trasformato in killer. Il silenzio dei bambini - Uno dei dati di accusa più forti di tutta la relazione riguarda il diritto negato dei bambini, e degli adolescenti, a far sentire la propria voce nelle sentenze di affido che li riguardano. Soltanto nel 30,8% dei fascicoli esaminati i minori vengono ascoltati, ma soprattutto soltanto il 7,8% viene ascoltato direttamente dal giudice. Questo fondamentale e delicatissimo momento viene nell’85,4% dei casi delegato ai servizi sociali. Anzi, la voce dei bambini non viene nemmeno registrata durante l’incontro, al giudice dunque - ed è gravissimo - il pensiero dei minori non arriva mai nella sua autenticità. Torino. La vita in carcere e l’affettività negata di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 25 aprile 2022 Rapporto madre-figlio, a Torino un modello di custodia attenuata: ne parla una tesi. La pressoché negazione dell’affettività è come fosse una pena accessoria cui sono condannati i detenuti, nonostante le norme (spesso) nulla dicano sul tema o auspichino addirittura il contrario. Qualche legge ci sarebbe, ma “si rivela di non facile concretizzazione”, conclude Carlotta Genovese, nella tesi in sociologia giuridico-penale con cui s’è appena laureata in giurisprudenza: “Il difficile connubio tra affettività e carcere: un’analisi comparativa” (relatore, il professor Giovanni Torrente). La sessualità, in particolare, è “totalmente negata”, attraverso “un silenzio normativo, soprattutto a causa della previsione di un obbligatorio controllo a vista del personale di custodia durante i colloqui”, dettata dall’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario. Eppure, ricorda Genovese, diversi stati facenti parte del Consiglio d’Europa hanno adeguato le proprie leggi al fine di garantire “una vita affettiva e sessuale attraverso la predisposizione di misure e luoghi appositi”. Capita così che il rapporto affettivo con il partner finisca in confinato alle lettere: “Una penna, un foglio, una busta e un francobollo - scrive un detenuto - pochi oggetti indispensabili per farmi sentire ancora vivo, punti di forza per continuare a sopravvivere e resistere, anziché soccombere”. Morale: “È evidente come l’attuale normativa penitenziaria italiana sia estremamente limitata e, spesso, antitetica rispetto alla continua evoluzione dell’ordinamento comunitario e internazionale”. Va solo un pochino meglio quando l’affettività viene declinata in genitorialità: anche se, fatta eccezione per casi particolari, “tali attimi sono fruibili solo all’interno delle mura del carcere, indubbiamente troppo fredde e asettiche e che, di fatto, limitano l’esercizio del ruolo genitoriale, il quale viene a tutti gli effetti anestetizzato”. Il tutto, dipende anche dai benefici: “Sono passati molti anni, 23, questo Natale ho sognato di venire a casa, ma mi hanno ancora detto di no - annota un altro detenuto - e ora non ho più sogni. Siete solo voi quello che mi resta della mia vita. Perdonatemi se vi lascio soli anche questo Natale e per tutti quelli che verranno”. Negare o rendere complicato il rapporto genitori-figli può avere disastrose conseguenze, secondo uno studio del 2012: “Avere padre o madre in carcere aumenta la probabilità di commettere crimini già durante la minore età”. Di più (purtroppo), dando un’occhiata ai dati dell’associazione Bambinisenzasbarre: “In Italia ci sono 43.000 bambini con genitori detenuti e, di questi, il 30 per cento avrebbe un destino di carcere assicurato, proprio per tale condizione”. Al solito, dall’estero c’è quasi sempre da imparare, fino all’esempio dei colloqui “Pollicino”, istituiti nel Canton Ticino: “Avvengono la domenica in una saletta adibita per accogliere i bambini, fornita di cucina, giochi e tutto il necessario per dotare il luogo di una parvenza di normalità”. Particolare attenzione c’è per il rapporto madre-figlio, per il quale da noi è stato istituito un modello di custodia attenuata (Icam): 4 in Italia, uno di a Torino. Nei casi dove non è concessa la detenzione domiciliare speciale. Dopodiché, spesso il grande ostacolo è costituito dall’edilizia penitenziaria: gli ambienti “avrebbero bisogno di un completo restauro, per rispettare la sensibilità e la fragilità dei minori per i quali, allo stato attuale, un incontro con il genitore può rappresentare un momento tanto desiderato quanto temuto e impressionante”. Busto Arsizio. Don Rigoldi: “Basta denunciare il disagio giovanile senza dare soluzioni” di Simona Carnaghi malpensa24.it, 25 aprile 2022 “Povertà educativa. Povertà culturale. Oggi, come 50 anni fa”. Mancanza di responsabilità da “parte degli adulti incapaci di relazionarsi con i ragazzi. Di comunicare con loro”. L’omelia-lezione di don Gino Rigoldi, che nella sede fagnanese della cooperativa La Valle di Ezechiele oggi, domenica 24 aprile, ha scelto di celebrare i suoi 50 anni di servizio come cappellano nel carcere minorile Beccaria di Milano, è come lui: chiara, diretta, dura, propositiva e molto condivisibile. “Questo continuo denunciare il disagio dei giovani, che delinquono anche, senza poi proporre soluzioni. Si denuncia e poi nulla. Ci si dorme sopra. Serve una scuola, e ci stiamo lavorando, per insegnare agli adulti a relazionarsi con i ragazzi”. Don Gino ha concelebrato con don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto e anima della cooperativa attiva nel reinserimento lavorativo dei detenuti della casa circondariale di via per Cassano, la Santa Messa della Divina Misericordia. “Oggi - ha detto davanti a una sala stracolma di autorità, a cominciare da Prefetto di Varese Salvatore Pasquariello, di fedeli e di ex detenuti tra i quali Stefano Binda, ingiustamente accusato dell’omicidio di Lidia Macchi e per questo detenuto per tre anni prima di essere completamente assolto - preghiamo per i carcerati. Tutti insieme”. L’omelia di don Gino è una energica chiamata alla responsabilità da parte di tutti. “Chiediamo perdono a Dio per i nostri peccati. Chiediamo perdono per il bene che avremmo potuto fare e che non abbiamo fatto. Perché alla fine il Comandamento è uno solo: amore. E l’amore è pratico e molto concreto”. Tornando alla povertà educativa, don Gino, che sino agli anni ‘90 vedeva mille ragazzi all’anno entrare in carcere, spiega: “Oggi lasciamo che siano i social ad educare i ragazzi. Non funziona. Bisogna seguirli, dare loro attenzione. Attenzione vera: il sorriso non deve essere professionale ma sincero. Quando si parla loro, quando si parla con chiunque, prima bisogna avere ben chiaro cosa si vuol dire. Secondo: gli altri hanno un difetto: esistono. Bisogna parlare loro davvero”. E ancora insegnare che non esistono progetti impossibili. “Prendiamo questa cooperativa. Ha un annetto di vita. Due anni fa sembrava impossibile che potesse esistere e invece siamo qui”. E proprio sul punto don Gino, così come don David, indica la via per la “resurrezione” di chi è caduto: “Casa e lavoro”. E rivolto a don David scherza: “Tempo fa venne a trovarmi un mio ex allievo. Matteo Salvini. Discutemmo: io sono in completo disaccordo con lui. Gli regalai una maglietti con la scritta: Dio esiste ma non sei tu. Rilassati. Lo dico oggi a don David: rilassati. Ad ogni persona che arriva qui dai un futuro: anche fossero solo dieci, sono dieci persone in più sulla strada giusta. Se lasciamo soli i più poveri abbiamo fallito come nazione”. La chiosa è andata all’avvocato Filippo Germinetti, presidente della cooperativa: “Oggi tutti abbiamo pregato per i detenuti di tutto il mondo. Ringrazio tutti i presenti, le autorità, e in particolare ringrazio la polizia penitenziaria che ogni giorno svolge un lavoro straordinario non solo dal punto di vista della custodia. Ringrazio don David e don Gino: non testimoni ma esempi. Non parole, ma fatti. Uno specchio attraverso il quale poterci vedere migliori. Loro sono messaggeri della Misericordia di Dio verso i nostri errori. Perché siamo persone e come tali possiamo sbagliare. Siamo essere umani. Tutti umani”. Voghera (Pv). Formazione in carcere vuol dire inclusione di Alessandro Disperati La Provincia Pavese, 25 aprile 2022 Grazie al progetto di inclusione sociale “Calibriamo”, realizzato da Fondazione Clerici di Pavia e Caritas di Vigevano, sono state promosse due iniziative di formazione e inserimento lavorativo destinate ai detenuti della Casa circondariale di Voghera. Sono stati organizzati da Fondazione Clerici 2 corsi di formazione, di addetto di cucina e di addetto al magazzino appena concluso, e avviate 4 borse lavoro. Ai corsi di formazione, entrambi della durata di 80 ore, hanno partecipato in totale 14 detenuti, mentre 4 sono i beneficiari delle borse lavoro delle quali due sono in corso di realizzazione presso le cucine del carcere di Voghera, mentre le restanti due presso la cooperativa Agape della Caritas di Voghera. Il direttore della Casa circondariale di Voghera, Davide Pisapia, sottolinea. “L’elevata valenza della formazione si rileva nelle competenze apprese, spendibili nel mercato del lavoro. L’esperienza delle borse lavoro, in particolare quelle svolte all’esterno dell’Istituto penitenziario, rappresentano un primo approccio del detenuto con le realtà del territorio”. Il romanzo di Falcone (e dell’Italia). Saviano racconta il magistrato di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 25 aprile 2022 A trent’anni dalla strage di Capaci, esce il 27 aprile da Bompiani il volume che fa rivivere eventi pubblici ma anche la paura e il coraggio dell’uomo. Nomi e accadimenti in uno stile che ricorda “American Tabloid” di James Ellroy. Un racconto lungo quasi cinquant’anni, racchiuso tra due esplosioni. La prima nel 1943, in un vicolo di Corleone; la seconda nel 1992, sull’autostrada Punta Raisi-Palermo, poco prima dello svincolo per Capaci. La prima uccise Giovanni Riina, padre di Salvatore detto Totò, all’epoca appena dodicenne; la seconda Giovanni Falcone, dopo una vita spesa a cercare prove per processare e condannare quel Totò diventato un mafioso e un assassino che ordinava e consumava omicidi come fossero caffè. Alla fine c’era riuscito, Falcone, a incastrare Riina, ottenendo l’ergastolo irrevocabile per lui e gli altri capi e sottocapi di Cosa nostra responsabili di centinaia di delitti, anche se restava il problema di arrestarlo e chiuderlo in un carcere. E per quella sentenza il capomafia s’è vendicato del suo giudice con la bomba: la seconda che ha segnato la sua esistenza, dopo quella che gli aveva tolto il padre mezzo secolo prima. Ridotta all’osso, la storia è tutta qui. Ma tra quelle due esplosioni c’è un pezzo consistente di storia d’Italia: della mafia e dell’antimafia, delle collusioni del potere criminale con quello legale, e della resistenza solitaria di chi voleva spezzare i legami occulti; del terrore imposto a colpi di kalashnikov e tritolo, e di chi provava a fermarlo con la sola arma del Diritto; della paura che inevitabilmente assale chi decide di sfidare un avversario apparentemente imbattibile, e del coraggio necessario a superarla. Ritrovandosi ad affrontare le insidie e gli agguati dei nemici e dei finti amici, che dovrebbero combattere dalla stessa parte della barricata e invece ti ostacolano con la scusa che dietro la tua battaglia non ci sia brama di giustizia, ma di successo e di potere. È la storia di Giovanni Falcone, che Roberto Saviano ha voluto raccontare con lo strumento del romanzo. Per dare corpo allo “spazio intimo dove ci si muove al riparo dei pubblici sguardi, dove maturano le scelte cruciali, si prova il dolore più profondo, si gioisce dell’ebbrezza più piena”, spiega. E per “seguire il percorso delle scelte, delle ragioni, fino a dove sono maturate prima di accadere; è ciò che la letteratura può fare per testimoniare la solitudine e il coraggio”. Solo è il coraggio, dunque. Ma dietro la letteratura che esplora dettagli e sentimenti ci sono fatti veri, documentati e riscontrati da fonti e testimonianze accumulate nei trent’anni seguiti alla strage di Capaci e - prima ancora - mentre la storia si dipanava. Nomi, cognomi e accadimenti montati passando da un anno all’altro, da un episodio all’altro con stile e salti temporali che ricordano l’American Tabloid di James Ellroy. Qui però si parla dell’Italia che è stata e che è. Nel 1943 Totò Riina è un sopravvissuto. Poteva morire anche lui con il padre dilaniato nel tentativo di estrarre esplosivo da un residuato bellico, e il fratello più piccolo; invece da lì comincia una nuova vita, che presto si trasforma in rapida scalata all’interno del potere mafioso: prima a Corleone e poi a Palermo, dove i clan tradizionali e dalle salde relazioni politiche, arricchiti dai traffici di droga che transitano fra l’Estremo Oriente e l’America, vengono scalzati dai viddani arrivati dalla campagna, guidati da Totò che non si ferma davanti a niente. Un rovesciamento di posizioni e di regole che rompe i vecchi schemi e richiede nuovi metodi d’indagine: quelli avviati dal giudice istruttore Falcone che, arrivato da Trapani, s’è messo a scavare nelle banche suscitando le preoccupazioni non solo dei mafiosi, ma pure del procuratore generale che chiede al capo dell’ufficio istruzione di fermarlo: “Ti sembra normale che questi devono vedersi arrivare ogni giorno la Finanza nelle loro filiali?”. È il 1982. I boss, prima i palermitani e poi i corleonesi, si sono già sbarazzati di Michele Reina, Boris Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Emanuele Basile, Gaetano Costa, Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa: politici, investigatori e magistrati ribellatisi al quieto vivere con cui mafia e antimafia tirano avanti da decenni. Morti ammazzati come, l’anno successivo, Rocco Chinnici, il capo dell’ufficio istruzione che non aveva fermato Falcone. E che aveva profetizzato tutto: “La mafia è cambiata, Giovanni. Questi qui non si fanno più problemi quando si tratta di… lo sappiamo, no?”. Lo sapevano. Per questo Giovanni guardava l’allegria familiare che circondava Rocco con un misto d’invidia e di cupezza, e non riesce a scalzare l’inquietudine che diventa terrore quando osserva quei ragazzi sorridenti destinati a restare senza padre, fino a convincerlo che lui non può permetterselo: non si mettono al mondo orfani. Non l’ha fatto con la prima moglie, Rita, che poteva garantirgli le relazioni sociali “giuste”, ma non la felicità; e non lo fa con la seconda, Francesca, che sceglie di accompagnarlo in una missione dal finale già scritto. Quando Chinnici salta in aria, nell’estate del 1983, Falcone è in Asia per le indagini sul narcotraffico che approda negli Stati Uniti passando dalla Sicilia; due anni dopo, nell’estate del 1985, quando i killer di Cosa nostra ammazzano i poliziotti Beppe Montana, Ninni Cassarà e Roberto Antiochia, viene prelevato da Palermo e deportato con Francesca e la suocera sull’isola dell’Asinara, insieme a Paolo Borsellino e alla sua famiglia. Due episodi che segnano l’inizio e la fine dell’inchiesta sfociata nel maxi-processo, un’impresa monumentale e mai riuscita prima, grazie alla quale si può finalmente vedere la mafia nel suo complesso, non solo il singolo delitto. È uno dei punti di svolta del romanzo, sottolineato dalle parole del protagonista: “La regola è sempre stata quella di mostrare i dettagli: un albero, una collina, una stradina… Noi qui abbiamo il panorama completo”. Una visione dall’alto che Totò Riina non può tollerare, perché quel panorama rischia di infrangere equilibri e protezioni, politiche e giudiziarie. E quando arrivano le condanne in primo grado, Falcone sa che non è ancora una vittoria. Semplicemente “oggi la giustizia non ha perso”, si limita a commentare, perché la partita non è chiusa. Né quella con la mafia né quella con l’altro potere, rappresentato dai partiti politici e dai suoi colleghi. Il giudice sa che la seconda è più complicata della prima, e decide di giocarla infilandosi nei gangli ministeriali, per provare a costruire lì ciò che prima gli è stato impedito, nella speranza di farla finire in maniera diversa da com’è sempre andata. L’esito è noto: contro i boss il giudice riesce a vincere, e gli ergastoli diventano definitivi; dentro le istituzioni invece continua a faticare fra trappole e offese, ma prima del fischio finale arriva la bomba a chiudere i conti. L’autostrada che si sventra è il mondo che si capovolge, “girato sulla schiena, come una tartaruga in agonia”: Giovanni, muore insieme a tre agenti di scorta - Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo - e a Francesca. Lui sapeva che il destino si sarebbe compiuto, ma non quel giorno: “Se avesse saputo che l’ora era arrivata non avrebbe portato con sé la donna della sua vita. Era convinto di avere ancora qualche scampolo di vita da godersi, e qualche altro da rovinarsi”. Nella breve premessa al romanzo, Saviano avverte il lettore: “Tutto questo è stato”. Ma avrebbe potuto scrivere l’ultima parola con la maiuscola: tutto questo è Stato, perché tutto è avvenuto all’interno delle istituzioni che hanno accolto, utilizzato, celebrato, accantonato, osteggiato e umiliato Giovanni Falcone in vita, prima di onorarlo come un martire da morto. Da trent’anni, questo è stato. Deciderà il lettore se con la minuscola o con la maiuscola. Don Antonio Mazzi: “Io, a 92 anni sono un ragazzino. Mi resta tanto da fare per i giovani” di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 25 aprile 2022 L’appello del sacerdote: “Ripensiamo al ruolo di educatori, oggi l’adolescenza comincia prima”. Il suo ultimo saggio “Gesù uomo vero”. Risponde al cellulare e si sentono voci di giovani in sottofondo: “Alza la voce che qui siamo in tanti”. “Qui dove? Dove sei, don Antonio? Ti sto disturbando?”. “Sono in provincia di Arezzo, a Poppi: stiamo facendo formazione a una sessantina di educatori perché qui bisogna ripartire con le nostre missioni anche all’estero, ho un sacco di lavoro da fare. Qui sta diluviando: com’è a Milano?”. “Ma scusa, non dovevi riposarti un po’?”. “Riposarmi? Sono ancora un ragazzino, sai...”. Eccolo, don Antonio Mazzi, un ragazzino di 92 anni compiuti che da più di 70 si prodiga per i giovani e per loro ha fatto, detto e scritto tantissimo. Eppure ha ancora questo cruccio, questo tormento: “Con i disperati e i casi difficili lavoro da sempre e in qualche modo qualche risposta la so dare. Ma a questi giovani che mettono il suicidio tra le cose possibili, che dalla vita hanno tutto e la odiano, a questi giovani “normali” cosa rispondi?”. E così, continuando a cercare la risposta giusta, don Antonio ha avuto l’idea: ripartire da Gesù uomo vero, come titola il suo ultimo saggio, una sorta di biografia, tra Sacre Scritture e ricostruzione personale, del figlio di Dio negli anni della adolescenza e giovinezza. “Invece di parlare di Dio - spiega don Mazzi - parliamo di un uomo strano, il più folle di tutta la storia. Ho raccontato un bambino, con i suoi giochi e i suoi capricci. Ho cercato di immaginare la sua adolescenza, quali domande può avere fatto ai sacerdoti del tempio, che dubbi aveva, come pensava alla sua vita e al suo futuro”. In poche settimane il saggio, che ha una prefazione di Gian Giacomo Schiavi, ha scalato le classifiche, arrivando al quinto posto fra i più venduti. Don Mazzi ride: “Il mio obiettivo non era vendere, anche se sono contento di pensare che qualcuno sia interessato a quello che penso. Il mio obiettivo è cercare le risposte. E vorrei che tutti gli educatori ripartissero dal giovane Gesù per capire e avvicinare meglio i giovani di oggi”. Che hanno molti ostacoli da superare: “Hanno troppe informazioni, dai social, dalla tivù, da tutte queste immagini che rimandano sempre alla morte e che noi proponiamo loro come fosse un cartone animato. Dal mattino a quando andiamo a dormire, le immagini sono sempre di violenza, di cattiveria, di morte appunto. La morte non va negata, ovviamente, ma va rimessa nel suo giusto senso di un momento della vita, non della vita tutta: va spiegata insieme alla vita e all’amore, mentre noi educatori non sappiamo più farlo”. Giovani più fragili “perché hanno bisogno di educatori veri, di genitori veri, di preti veri”. Veri, come il Gesù di questo libro, nel senso di autentici. Don Mazzi, che una volta ordinato sacerdote aveva approfondito gli studi di Pedagogia e Psicologia dell’età evolutiva, ci propone un esperimento: “Che mondo sarebbe se al suo centro, a dare un sapore diverso a tutto, ci fosse una persona viva, la più viva mai vissuta, la più “vivente” che si possa immaginare (e dunque la più desiderabile?)”. Ed ecco la scoperta di Gesù che, ricorda il Vangelo di Luca, viene dimenticato dai genitori e a 12 anni si ferma nel Tempio a fare domande agli adulti “ma non riceveva risposte soddisfacenti”. Gesù “sottomesso” ai suoi genitori, “ma certamente era anche allievo dell’università della strada, perché era lì che passavano il tempo i suoi coetanei”. Gesù che riceve la sua educazione sentimentale non da film e fiction “ma dal Cantico dei Cantici”. Gesù che sapeva che l’amore dava senso a tutto ma non trovava la propria dimensione: pieno di dubbi, consapevole di un destino più grande di lui e folgorato dall’incontro con Giovanni Battista. Ripercorrendo questo diventare adulto, don Mazzi interroga noi che adulti lo siamo già, ad esempio sulle domande che non facciamo ai nostri giovani: “Sei felice?”. E chiama in causa le istituzioni educative: “Alle università chiederei di proporre corsi speciali per mandare gli insegnanti nelle zone difficili. Quanto alle scuole, beh lì bisognerebbe davvero ripensare tutto e ripartire da don Lorenzo Milani. E poi serve un’accademia dell’adolescenza, perché oggi l’adolescenza comincia a dieci anni”. Ma soprattutto servono tutta questa energia e questa passione. A 92 anni. Animali che salvano l’anima. L’esperienza nel carcere di Gorgona di Alessia La Villa* Ristretti Orizzonti, 25 aprile 2022 Trilly è la gattina di Artur, quella gattina di cui si è preso cura fin da quando era così piccola che poteva stare nel palmo della sua mano. Quella gattina che Artur ha allattato con un biberon svegliandosi nel cuore della notte. Trilly che un giorno non ha più visto “quell’umano” tornare a casa e che oggi lo aspetta chiedendosi cosa sia successo. Artur è a Gorgona, l’ultima isola carcere di Italia. Ed è qui, sul più piccolo pezzo di terra galleggiante dell’arcipelago toscano, che insieme ai suoi compagni prova a trovare le parole per raccontarsi attraverso la relazione con quel piccolo animale arrivato in quello che non stenta a ricordare come “l’anno più bello della mia vita”. Quella di Artur e Trilly è solo una delle preziose storie racchiuse nell’antologia “Animali che salvano l’anima. L’esperienza nel carcere di Gorgona”, edito dalla Carmignani e presentato in esclusiva sabato 23 aprile, giornata mondiale del libro, come evento collaterale nell’ambito della rassegna Lucca di Carta 2022. Storie di affetti non umani lasciati al di là del mare oppure scoperti proprio laddove non sembrava possibile: all’interno di un carcere o più banalmente dentro una cella dove il pappagallino Ciccio impara a parlare tante lingue rallegrando le giornate, non solo del suo proprietario che lo cura con amore ma anche degli agenti di polizia che hanno imparato a conoscerlo. Ricordi e parole portate letteralmente alla luce con cura e delicatezza nell’ambito di un laboratorio di scrittura creativa nato per rispondere ad un’esigenza forte, quella di riuscire a recuperare la narrazione di una parte profonda di sé. Una parte che spesso suo malgrado si perde nei meandri della detenzione, nell’interruzione sofferta della quotidianità quando alcune parole, come per effetto di un sortilegio, spariscono perché smettono semplicemente di essere pronunciate. Ed è ecco allora la sfida del laboratorio portato avanti con autentica passione dalla scrittrice Prita Grassi e da Giovanni De Peppo, ex garante dei diritti dei detenuti di Livorno e oggi insieme alla Lav tra i promotori di innovativi progetti che coinvolgono gli animali sull’isola di Gorgona: far in modo che gli esseri non umani possano diventare a tutti gli effetti veri e propri “operatori del trattamento” ridisegnando un orizzonte di senso capace di andare oltre quelle singole azioni che hanno cambiato il senso di intere esistenze. La pedagogia della narrazione come strumento di cura, di conoscenza di sé e in alcuni casi, come dimostrano queste storie, di vera e propria salvezza dell’anima che, non a caso, ha la stessa radice etimologica del termine animale. Quegli animali reali, perduti, cercati, ritrovati, aspettati o anche semplicemente immaginati perché come ci ricorda Marco, uno degli ospiti di Gorgona, citando Gabriel Garcia Marquez: “La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”. *Funzionario Giuridico Pedagogico CC Livorno e Gorgona. Fine pena con lavoro a “Tg3 - Fuori Tg” rai.it, 25 aprile 2022 Ospiti Susanna Marietti dell’associazione Antigone e Gabriella Stramaccioni, garante dei detenuti del Comune di Roma. La Costituzione parla chiaro: le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e dunque a recuperarlo e a reinserirlo nella società, in modo che possa dare il suo contributo al benessere collettivo. In questa prospettiva, il lavoro in carcere offre al detenuto una seconda possibilità e abbatte drasticamente il rischio di recidiva. Se ne parla lunedì 25 aprile alle 12.25 su Rai 3 a “Tg3 - Fuori Tg” con Susanna Marietti dell’associazione Antigone e con Gabriella Stramaccioni, garante dei detenuti del Comune di Roma. Il lavoro riabilita l’uomo, ma deve essere tutelato e retribuito. Molti imprenditori stanno assumendo detenuti grazie alla legge Smuraglia, che prevede benefici fiscali per chi offra contratti ai carcerati, ma la strada è ancora lunga: dei 54mila detenuti nelle carceri italiane, lavorano in 17mila e solo 2mila sono assunti con contratti regolari da imprese e cooperative sociali. Conduce Maria Rosaria De Medici. Per 24 Km da Perugia ad Assisi, migliaia in marcia per la pace: “Basta con le armi, fermatevi” di Corrado Zunino La Repubblica, 25 aprile 2022 Alla fine di una lunga giornata e una lunga marcia, questa di 24 chilometri, la “Perugia-Assisi” torna al centro. Alla vigilia di un 25 aprile carico di veleni e dopo tre anni di sosta pandemica, la Marcia per la pace riempie le strade di Francesco, il santo, il pacifista ante litteram. Gli organizzatori diranno che erano in cinquantamila a sfilare, la questura di Perugia ne dimezzerà i numeri, ma il comitato promotore della camminata straordinaria, la numero 26 partendo dalla prima del 1961, è riuscito in diversi risultati. Ha tenuto sul retro, poco visto, il disegno-manifesto equidistante (le pallottole bianche e nere, sparate allo stesso modo dall’aggressore russo e l’aggredito ucraino). E ha dato una solidarietà utile, e sufficientemente chiara, al popolo invaso. Flavio Lotti della Tavola della pace, con una grande bandiera gialla e blu alle spalle, ha detto: “Marciamo per gli ucraini”. Poi ha aggiunto: “Per i deboli che non sono riusciti ad andarsene dal Paese, per le vittime di tutte le guerre”. Dalle 9 di ieri mattina, con i pullman arrivati ai Giardini del Frontone di Perugia, fino alle tre del pomeriggio, l’approdo nella Piazza inferiore della Basilica di Assisi, non si sono sentiti cori anti-Nato, ma non si sono viste neppure le annunciate bandiere in favore dell’Alleanza nordatlantica che, oggi, rifornisce di armi l’esercito di Volodymyr Zelensky. In una giornata di vento e di sole intermittente si è potuto assaporare il pacifismo italiano catto-progressista che, tra molti arcobaleni, alcuni cuciti come coperte di lana, ha portato in strada il sindacato civile, dalla Uil alla Fiom passando per la Cgil, qui con il segretario Maurizio Landini. Ha quindi mostrato i cartelli di Amnesty International, gente che lavora tra le mine del Donbass e non ha dubbi sul fatto che gli omicidi dei civili a Bucha non fossero una messinscena: “Giustizia per i crimini di guerra”, si leggeva. Lo striscione che apriva la lunga marcia aveva la scritta - non troppo impegnativa - “Fermatevi”. Intendeva tutti, s’intende la guerra in Ucraina. Ma era affidato a uno stuolo di adolescenti, a segnalare chi sono le vittime più vergognose dell’invasione russa. Sulla strada Tiberina c’erano le casacche rosse dei City Angels e trenta delegazioni universitarie, guidate dall’Ateneo di Padova che dal 1982 organizza, con successo, un corso di Diritti umani. C’erano 156 sindaci e si ascoltavano le canzoni di Lucio Battisti - “la fiamma è spenta o accesa?”. Si è vista Sinistra italiana, poi la vecchia Rifondazione comunista (l’unica a dirsi “contro Putin e contro la Nato”), i Verdi. Non c’era l’ombra, invece, di un vessillo del Pd. Le parole di Padre Enzo Fortunato, per ventott’anni portavoce di tutto questo - “Vladimir Putin è l’aggressore, ma in nome della pace dobbiamo chiamarlo fratello” -, sono semina tra questa gente. Landini ne ha raccolto l’umore e alla partenza ha detto: “Il percolato della guerra è già tra noi, con l’inflazione che cresce, le bollette che aumentano e una dissennata rinuncia a un vivere sostenibile e ambientale. Dobbiamo uscirne al più presto”. Ovviamente il modo, ancora, non c’è. Con Papa Francesco che non riesce a fermare le omelie filorusse del patriarca di Mosca, Kirill, ma davanti ai quarantamila fedeli di Piazza San Pietro vuole salutare l’evento in Umbria: “Ringrazio i partecipanti alla straordinaria marcia per la pace e la fraternità e quanti vi hanno dato vita ad analoghe manifestazioni in altre città d’Italia”. Il modo per fermare questa guerra, no, ancora non c’è quando il presidente zar, Vladimir Putin, porta una mano al cuore durante la celebrazione a Mosca della Pasqua ortodossa e con l’altra autorizza il bombardamento di Odessa. Dice Flavio Lotti: “Noi non abbiamo nemici e c’è un altro modo per aiutare il popolo ucraino: togliere la parola alle armi e darla alla politica”. 25 aprile, piazze piene per la pace: ma le armi sono spuntate di Mario Ajello La Repubblica, 25 aprile 2022 No all’escalation, no alle armi, pace-pace-pace. Lungo e appassionato il corteo della Marcia Perugia-Assisi. E quanta giusta indignazione da parte di tutti, negli slogan, nelle bandiere arcobaleno e in quella enorme gialloblù dell’Ucraina, nelle preghiere in cui si chiede “mai più guerra”. Ma nessuno che si domandi, dentro il popolo pacifista in marcia e mentre si prepara il 25 aprile al grido anti-belligerante “Fermatevi”: qual è l’alternativa al mandare armi di difesa agli ucraini per arrivare a una possibile pace e a uno stop a Putin? L’alternativa è forse quella del ritornello di Luigi De Magistris (che marcia insieme agli altri e aspira come i vari Fratoianni o il né-né Conte a diventare il Melenchon d’Italia) che ripete a tutti lungo il percorso del corteo: “Sì all’amore, no alla violenza”? Come se non fossero tutti d’accordo (ma il Cremlino lo è? Non parrebbe) su questo slogan. O su quest’altro: “Parli la diplomazia”. Ma se la diplomazia russa non vuol parlare che cosa si fa? Le armi spuntate del pacifismo, quelle che vedremo anche oggi nel corteo dell’Anpi (a cui il grillino putinista Petrocelli si rivolge twittando il simbolo Z, quello dei carri armati russi: “Buona festa della LiberaZione”, Conte lo espelle ma lui resta alla presidenza della Commissione Esteri), funzionano così, come s’è visto ieri: ottimi propositi ecumenici e buonisti, anche se talvolta conditi con l’ideologia, e però la crudeltà della situazione sembra bypassarli. Contro “l’escalation militare”, i cartelli del corteo affollato sulle vie di San Francesco prescrivono “Disarmo ora e sempre”, “No war anymore”, “Fuori le bombe atomiche dall’Italia” e via così. E occhio a questo striscione: “No al nucleare”. Senza considerare che se avessimo l’energia nucleare potremmo essere più indipendenti dal gas russo e più forti nell’imporre la pace. Nel festival delle armi spuntate del pacifismo è come se la morale, indicibile e inespressa e spesso perfino inconsapevole, fosse questa: Zelensky (non assurto a martire da venerare da parte dei marciatori che pure hanno ricevuto il saluto e gli auguri del Papa) accetti la pace che Putin detterà con la forza delle sue orribili armi, perché così non cadono più bombe, non partono missili, finiscono gli orrori di Bucha e di Mariupol. Ma ammesso che sia vero questo, di certo si avvererà - ma al pacifismo integrale è un particolare che sfugge - ciò che diceva Churchill dopo il patto pseudo-pacifista di Monaco nel 1938: “Potevano scegliere fra la guerra e il disonore, hanno scelto il disonore e avranno la guerra”. E ancora: ecco i cartelli: “No Putin, No Nato”. Traduzione: noi europei dovremmo dire agli Stati Uniti di pensare ai fatti loro che ai casi nostri ci pensiamo già noi. Funziona così l’armata della pace in un tripudio di buoni sentimenti e di alti valori. Ma la politica ha regole e necessità più terrene e più dure. E Marco Pannella, che pure era un pacifista, lo sapeva bene. Alla manifestazione del 25 aprile alternativo a quello dell’Anpi oggi a Piazza Torre Argentina - favorevole a dotare gli ucraini di armi di difesa - partecipano anche i radicali. E c’è chi vuole un cartello con su scritte vecchie parole pannelliane: “Con Gandhi diciamo mille volte che è meglio chi reagisce che chi subisce”. Cosa prevede il testo della legge sul “fine vita” all’esame del Parlamento di Serenella Ronda agi.it, 25 aprile 2022 Il provvedimento inizierà il suo iter al Senato dopo l’approvazione il 10 marzo scorso da parte dell’Aula di Montecitorio: si riconosce la morte volontaria medicalmente assistita, che viene equiparata alla morte naturale, si prevede l’introduzione dell’obiezione di coscienza. Il testo sul fine vita, approvato lo scorso 10 marzo dalla Camera e che da martedì inizierà il suo iter al Senato, è stato profondamente modificato rispetto alla versione originaria durante l’esame in commissione a Montecitorio, subendo alcune modifiche anche nel corso delle votazioni da parte dell’Aula. Ma l’asse portante del provvedimento è rimasto immutato: si riconosce la morte volontaria medicalmente assistita, che viene equiparata alla morte naturale. Tra le novità apportate al testo base, l’introduzione dell’obiezione di coscienza e una specificazione più stringente delle condizioni per poter accedere al suicidio assistito. Un’altra modifica riguarda l’articolo sulla non punibilità dei medici ed è confermata una sorta di ‘sanatoria’ per i condannati anche con sentenza di terzo grado per aver aiutato una persona a morire. Il suicidio assistito - La legge disciplina la facoltà della persona affetta da una patologia irreversibile e con prognosi infausta o da una condizione clinica irreversibile di richiedere assistenza medica al fine di porre fine volontariamente ed autonomamente alla propria vita. Si intende per morte volontaria medicalmente assistita il decesso cagionato da un atto autonomo con il quale si pone fine alla propria vita in modo volontario, dignitoso e consapevole, con il supporto e sotto il controllo del sistema sanitario nazionale. Chi può farne richiesta e requisiti - Può fare richiesta di morte volontaria medicalmente assistita la persona che, al momento della richiesta, abbia raggiunto la maggiore età, sia capace di intendere e di volere e di prendere decisioni libere, attuali e consapevoli, adeguatamente informata, e che sia stata previamente coinvolta in un percorso di cure palliative al fine di alleviare il suo stato di sofferenza e le abbia esplicitamente rifiutate o le abbia volontariamente interrotte. Tale persona deve trovarsi nelle seguenti concomitanti condizioni: essere affetta da una patologia irreversibile e con prognosi infausta oppure essere portatrice di una condizione clinica irreversibile, che cagioni sofferenze fisiche e psicologiche assolutamente intollerabili; essere tenuta in vita da trattamenti sanitari di sostegno vitale, la cui interruzione provocherebbe il decesso del paziente. La patologia deve essere attestata dal medico. La richiesta può essere revocata in qualsiasi momento. Rapporto del medico e comitati per la valutazione clinica - Il medico deve redigere un rapporto dettagliato e documentato sulle condizioni cliniche e psicologiche del richiedente e sulle motivazioni che hanno determinato la scelta e, se ricorrono i requisiti del suicidio assistito, lo inoltra al Comitato di valutazione clinica, strutture che vanno istituite presso le aziende sanitarie locali. Morte assistita equivale a morte naturale, possibile anche in casa - Una volta che il Comitato per la valutazione clinica ha dato parere favorevole, il medico richiedente lo trasmette alla direzione sanitaria dell’azienda sanitaria territoriale o alla direzione sanitaria dell’azienda sanitaria ospedaliera di riferimento che dovrà attivare le verifiche necessarie a garantire che il decesso avvenga nel rispetto delle disposizioni di legge presso il domicilio del paziente o, laddove ciò non sia possibile, presso una struttura ospedaliera e sia consentito anche alle persone prive di autonomia fisica. Il decesso a seguito di morte volontaria medicalmente assistita è equiparato al decesso per cause naturali a tutti gli effetti. Obiezione di coscienza - Medici e personale sanitario non sono tenuti a prendere parte alle procedure per l’assistenza alla morte volontaria medicalmente assistita quando sollevino obiezione di coscienza con preventiva dichiarazione. Gli enti ospedalieri pubblici autorizzati sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure previste dalla legge. La Regione ne controlla e garantisce l’attuazione. Nessun reato per il medico - È riconosciuta l’esclusione della punibilità per i medici e il personale sanitario. Le disposizioni contenute negli articoli 580 (istigazione o aiuto al suicidio) e 593 (omissione di soccorso) del codice penale non si applicano al medico e al personale sanitario e amministrativo che abbiano dato corso alla procedura di morte volontaria medicalmente assistita. Sanatoria retroattiva per condannati - Non è punibile chiunque sia stato condannato, anche con sentenza passata in giudicato, per aver agevolato in qualsiasi modo la morte volontaria medicalmente assistita di una persona prima dell’entrata in vigore della presente legge, qualora al momento la volontà libera, informata e consapevole della persona richiedente fosse stata inequivocabilmente accertata e ricorressero le condizioni previste dalla legge per poter richiedere il suicidio assistito. La maternità surrogata è un atto di solidarietà che promuove la vita di Filomena Gallo* Il Dubbio, 25 aprile 2022 Nel caso della gravidanza solidale non si tratterebbe di una vera e propria donazione: la gestante non si priva di un proprio organo in modo definitivo. La scorsa settimana, la Commissione Giustizia della Camera ha adottato il testo base della legge che vuole rendere la gravidanza per altri (GPA) reato universale punibile anche se commesso da uno straniero in territorio estero. Sarà fissato ora il termine per gli emendamenti e per diventare legge dovrà seguire l’iter di approvazione nei due rami del parlamento. Ferma restando la difficile applicazione di un reato universale in assenza di alcuni requisiti necessari processuali, come la doppia incriminazione, perseguire l’utero in affitto come reato universale risulta una scelta di politica criminale censurabile sotto molti punti di vista. Il divieto di “surrogazione di maternità” è stato introdotto dalla legge del 2004 n. 40, in materia di procreazione medicalmente assistita (PMA). La legge interveniva colmando un vuoto normativo in materia di PMA disciplinato solo con Decreti ministeriali mentre il Codice deontologico dell’Ordine dei Medici, del 1995, all’articolo 41 vietava l’applicazione di tecniche con maternità surrogata (divieto oggi non più presente). La legge da subito suscitò critiche sia tecnico giuridiche che sui limiti anche nel suo evidente approccio antiscientifico, fu promosso un referendum di abrogazione totale e 4 quesiti di abrogazione parziale, ma non fu raggiunto il quorum sui 4 quesiti ammessi dalla Corte costituzionale. Oltre al divieto di “commercializzazione di utero surrogato”, di sperimentazione sugli embrioni non idonei per una gravidanza, e alle discriminazioni relative all’accesso alle tecniche di procreazione assistita, il legislatore del 2004, nel vietare la fecondazione eterologa aveva anche previsto che comunque il nato da tale tecnica, anche se in violazione di legge, avrebbe avuto lo status di figlio legittimo o riconosciuto dalla coppia. Attualmente la legge n. 40/04 al comma 6 dell’articolo 12 sancisce: “Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600 mila a un milione di euro”. Giuridicamente tale precetto è attaccabile, perché scritto male. Da una parte, infatti, non è chiaro se la surrogazione di maternità sia vietata sempre o solo quando è “commerciale”, dall’altra, la norma non fornisce una definizione della surrogazione, il che non è accettabile per un precetto penale, che non può essere generico, ma deve essere preciso e circostanziato. Inoltre, il divieto prevede la non commercializzazione di gameti ed embrioni, e nel rispetto del divieto, le tecniche eterologhe sono applicate con donazione di gameti ed embrioni, non si comprende pertanto perché la gravidanza solidale non possa essere realizzata nella totale legalità. Le varie aporie della legge 40/04 hanno determinato una serie di azioni giudiziarie, con diversi collegi giuridici, e con coppie che si erano rivolte all’Associazione Luca Coscioni. La Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionali alcuni dei divieti che furono oggetto dei referendum nel 2005. Proprio la sentenza della Corte costituzionale in tema di procreazione eterologa sancisce definitivamente il diritto della coppia sterile o infertile ad accedere alla tecnica di PMA più opportuna. La legge, dunque, dopo gli interventi della Corte costituzionale che l’ha ricondotta nell’alveo della legalità costituzionale, oggi consente la donazione di gameti ed embrioni, ma mantiene il divieto di gravidanza per altri anche se di natura solidale. Tale divieto determina un pregiudizio irragionevole per quelle coppie che, a causa di una patologia, non hanno la possibilità di portare avanti una gravidanza. Nel caso della gravidanza per altri solidale, in presenza di una idonea regolamentazione, il divieto assoluto non troverebbe giustificazione costituzionale in quanto si inquadra nella scelta informata e consapevole di chi decide di donare un proprio organo per un determinato periodo di tempo, che coincide con una gravidanza, a scopi solidaristici. In fondo, già dal 2009 in Italia la legge ha previsto norme per consentire il trapianto parziale di fegato e nel 2002 il Centro Nazionale Trapianti ha predisposto delle Linee guida per il trapianto renale da donatore vivente. Nel 2010 si è regolamentato lo svolgimento delle attività di trapianto di organi da donatore vivente mentre dal 2012 è consentito anche il trapianto parziale di polmone, e altre parti tra persone viventi. Tali donazioni oggi rappresentano una concreta speranza di vita per molti malati. Anche per questo la comunità scientifica lavora per sensibilizzare sul tema delle donazioni in vita attraverso una corretta informazione relativa alla sicurezza del percorso e ai protocolli. La legge consente di donare un organo in vita, purché non ci sia “commercio” e dunque la donazione avvenga è solidale. Esattamente quanto previsto della proposta di legge in tema di gravidanza solidale per altri, depositata il 13 aprile del 2021 tramite l’on. G. Termini e altri. Insieme al contributo di esperti ed il supporto di altre associazioni, con l’Associazione Coscioni abbiamo lavorato a quel testo di legge per regolamentare il percorso di gravidanza solidale, proprio nel rispetto e nella valorizzazione di quanto avviene per la donazione di organi in Italia. Perché nel caso della gravidanza solidale non si tratterebbe di una vera e propria donazione in quanto la gestante non si priva di un proprio organo in modo definitivo come avviene per il fegato o un rene bensì ne consente l’utilizzo a tempo per un fine procreativo, e dunque per promuovere la vita. *Avvocato e Segretario Nazionale Associazione Luca Coscioni “È una pratica degradante per la donna e per il bambino. Deve diventare reato universale” di Valentina Stella Il Dubbio, 25 aprile 2022 L’Accademica Francesca Izzo, già parlamentare del Partito Democratico, è tra le fondatrici della rete femminista “Se non ora quando - Libere” e tra le referenti italiane della Coalizione internazionale contro l’utero in affitto (Ciams). Con lei torniamo a discutere del tema della maternità surrogata, essendosi anche riaperto il dibattito alla Camera dove sono in discussione diverse proposte di legge. Onorevole, in Parlamento sono all’ordine del giorno diverse proposte e disegni di legge (Forza Italia, Lega, Fratelli D’Italia) che mirano, con le dovute differenze, a vietare la maternità surrogata. Che ne pensa? Le proposte in discussione cercano di risolvere una specie di lacuna della legge 40/2004: essa, pur vietando la maternità surrogata in Italia, offre la possibilità alle coppie di recarsi nei Paesi dove la pratica è consentita e di tornare poi qui per tentare di farsi riconoscere il bambino. Quindi le proposte in discussione mirano a rendere effettivo il divieto della pratica della surrogata. Come ha ricordato la Corte Costituzionale nel 2017 l’utero in affitto ‘offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane’. Si tratta di una pratica degradante sia per la donna che per il bambino il quale viene al mondo grazie a un contratto di carattere commerciale. Contro di essa l’associazione di cui faccio parte si è battuta e continua a farlo all’interno di una rete internazionale. La via maestra, secondo noi, è quella di far diventare la maternità surrogata un reato universale: bisognerebbe impegnare i governi affinché intervengano per giungere a questo risultato, per evitare di dover intervenire ogni qualvolta una legge presenti una falla, come nel caso della legge 40. Oppure come in Spagna dove qualche settimana fa il Tribunale Supremo (la nostra Cassazione) ha emesso una netta sentenza contro la maternità surrogata, stabilendo che i contratti di gravidanza per utero in affitto sono nulli a tutti gli effetti, perché violano i diritti fondamentali della donna gestante e del neonato. E che comunque il riconoscimento della relazione materno-filiale della madre non biologica può avvenire solo mediante l’adozione. Lei ha parlato del problema della commercializzazione. Tuttavia esiste un’altra proposta di legge in materia a favore della maternità surrogata. Considerata come pratica ‘solidale e altruistica nel rispetto degli standard internazionali in materia dei diritti umani, infatti, consentirebbe di evitare gli abusi che spesso discendono proprio dalle lacune normative esistenti’. Non sarebbe una buona soluzione che vede quindi la scienza realizzare il diritto alla genitorialità di chi non può? È ridicola la pretesa di definire altruistica la surrogata. Lei davvero crede che qualcuno per un atto di generosità verso estranei o anche conoscenti si sottoporrebbe a una fecondazione assistita, a una gravidanza e poi a un parto? Però nel 1994 Novella Esposito, a Salerno, a seguito di un parto difficoltoso perse l’utero e la bambina appena nata e la sua mamma, poco più che quarantenne, si prestò per portare in grembo l’embrione prodotto con i gameti della figlia e del marito della figlia... Ma per questo basta rivolgersi ad un Tribunale e viene consentito. Il resto sono pure sciocchezze. La questione vera è la commercializzazione, ammessa ad esempio negli Stati Uniti e in Ucraina. Ma la legalizzazione renderebbe tutto più sicuro e scongiurerebbe i viaggi all’estero... Non è detto. Se si leggessero i contratti che vengono stipulati ci si renderebbe conto di quanto siano inquietanti le cose che vi troviamo dentro. Si tratta di una pratica davvero degradante e sempre di più sono convinta che vada abolita. ‘L’utero è mio e lo gestisco io’: così gridava nelle strade degli anni 70 il movimento femminista per la liberazione della donna; non solo più mamme e mogli, ma individui capaci di decidere la propria vita, dal punto di vista lavorativo, sociale e anche sessuale. Quello slogan sembra però in contrasto con il divieto alla maternità surrogata che limita fortemente il diritto alla libertà procreativa... È ignobile chiamare in causa il concetto di autodeterminazione per sostenere la maternità surrogata. Le spiego perché. ‘L’utero è mio e lo gestisco io’ è stato un motto molto forte in quegli anni. Io provengo da quella storia, ho fatto quelle battaglie. Quindi conosco bene il significato di questo slogan. Appunto per questo le dico che, per esempio, la legalizzazione dell’aborto per la quale abbiamo combattuto non prevedeva una libertà assoluta, nel senso di arbitrio. La legge infatti ora introduce dei limiti, disegna una cornice all’interno della quale potersi muovere. E comunque noi abbiamo ottenuto la legalizzazione dell’aborto perché abbiamo sostenuto che la gravidanza e la maternità mettono in gioco la donna nella sua interezza, corpo e personalità. Ricorrendo al concetto del tutto nuovo di autodeterminazione fu possibile allora affermare la libertà femminile senza cadere nella rivendicazione di un diritto individuale all’aborto che avrebbe attivato un corrispondente diritto del concepito, in paradossale conflitto con la madre. Il paradosso è che lo stesso principio di autodeterminazione è stato ora stravolto dall’utero in affitto, un processo generativo spezzettato (l’ovocita, la gravidanza, il neonato sono elementi a sé stanti) in cui la donna-madre sparisce. Tutto si riduce ad un assemblaggio per “fabbricare” bambini. Alla gravidanza si toglie ogni “pregnanza” fisica, emotiva, relazionale e simbolica e alla donna che “affitta” il suo ventre è sottratta la sua personalità. Quindi se mai dovesse passare l’idea di autodeterminazione sostenuta da chi vuole introdurre l’utero in affitto nel nostro Paese, salterebbe immediatamente l’argomentazione che ci ha permesso di ottenere la legge sull’aborto. Questa materia è complessa e non va affrontata con le semplificazioni degli schieramenti partitici, come invece ancora una volta è accaduto giovedì in commissione Giustizia della Camera con la polarizzazione destra/sinistra, a meno che Pd e 5stelle non siano arrivati a condividere l’idea che l’utero in affitto sia una conquista. “Utero in affitto reato universale”. Meloni, perché? di Michela Marzano La Stampa, 25 aprile 2022 È così difficile pronunciare le parole “gestazione per altri”? Perché, quando si parla di questa pratica, non si riesce semplicemente a nominarla per ciò che è, e si deve per forza connotarla negativamente utilizzando espressioni come “utero in affitto” o “maternità surrogata”? Il problema è che c’è chi ha deciso di strumentalizzare questa pratica, mettendo sul ventre delle donne il cartello “affittasi”. C’è chi non sa nemmeno di cosa si stia esattamente parlando, e che però pontifica. Come Giorgia Meloni che, trionfante dopo il voto in Commissione Giustizia sulla propria proposta di legge che prevede di perseguire come reato universale la gestazione per altri, ha dichiarato: “È una pratica che trasforma la vita in merce e umilia la dignità della donna”. Vorrei tanto che l’onorevole Meloni, e tutti coloro che hanno votato questa legge, mi dicessero con chi hanno parlato, con quali donne sono entrate in contatto, con quanti bambini nati per Gpa hanno mai giocato. Conoscono la realtà oppure imbastiscono odio sul nulla? Sanno chi diventa padre o madre utilizzando questa pratica oppure vanno avanti per stereotipi? Conoscono le modalità attraverso cui viene portata avanti la gestazione per altri e vengono tutelate le donne oppure si basano sui “si dice” e generalizzano lo sfruttamento di alcune donne in certi parti del mondo? Se vogliamo dirla tutta, anche pratiche universalmente osannate come il dono degli organi, in alcuni paesi, diventano sfruttamento, aggressione, rapimento e omicidio. Prima di parlare di “battaglia di civiltà”, come hanno fatto alcuni deputati di destra, bisognerebbe forse capire quale civiltà voglia promuovere Giorgia Meloni. Lei che si vanta di essere donna, madre, cattolica, italiana, si è mai chiesta come vivono il proprio essere donne, madri, non-madri, cattoliche o atee, le altre donne? Vorrei raccontare all’onorevole Meloni la storia di C., che ha portato nel proprio grembo J. e O., due bellissimi bambini che vivono oggi con due papà. C. non è un esempio astratto, è una donna in carne e ossa, che vive negli Stati Uniti con il marito e due figlie e ha un ottimo lavoro. Ma C. ha anche deciso di portare avanti alcune gravidanze, e permettere così anche ad altre persone, che non potevano altrimenti avere figli, di diventare genitori. Lo ha fatto per guadagnare più soldi, ma anche per convinzione. Lo ha fatto per pagare l’università negli Usa alle figlie, ma anche perché è convinta che il proprio gesto è altruistico, generoso. Come mi ha detto di recente uno dei due papà di J. e O: “Ciò che C. ha fatto per la nostra famiglia non ha prezzo. Che prezzo potrebbe d’altronde avere la cura con cui C. ha portato avanti la gravidanza dei due nostri figli? Le sarò per sempre grato di avermi dato la possibilità di diventare papà”. Le piace questa storia onorevole Meloni? Oppure sta pensando che è una storia inventata che, con la realtà, non c’entra affatto. Oppure è lei che parla di qualcosa che non conosce? Perché io, che mi occupo di etica e che questa pratica non solo la studio, ma la conosco personalmente, le posso dire che il problema è nelle modalità in cui viene vissuta, e non nella Gpa in sé. E se la legge l’avessi scritta io, invece di parlare della gestazione per altri come di un reato universale, avrei proposto di renderla legale, ma a certe condizioni. Avrei proposto la gratuità, come accade quando si dona un organo. Ma avrei anche chiesto un accompagnamento medico e legale per ogni donna. E se qualcuno pensa che, a queste condizioni, non ci sarebbe nessuna donna disposta a portare avanti una gravidanza per qualcun altro, gli risponderei che sbaglia, che c’è chi dona gratuitamente un rene o un pezzo di fegato, c’è chi dona costantemente tempo e amore, c’è chi dona persino la vita senza chiedere nulla in cambio. Ma per capire il valoro del dono, bisognerebbe essere capaci di guardare in faccia questi uomini e queste donne che diventano papà o mamma grazie a una gestazione per altri, bisognerebbe poter percepire la loro gratitudine per ciò che non considerano un diritto, ma una grazia, bisognerebbe avere il coraggio di passare qualche ora con i loro figli e rendersi conto che loro, sin da piccoli, sanno bene che è grazie alla generosità di una (o un’altra) donna che sono nati. Bambini che non hanno niente di una merce. E che necessitano invece un quadro giuridico capace di proteggerli, così come sono protetti gli altri bambini, compresa la figlia dell’onorevole Meloni. Quanto all’egoismo dei loro genitori, cui si continua a far riferimento, inviterei ancora una volta alla cautela. Visto che la paternità e la maternità sono sempre complesse e, permettetemi di dirlo, quasi mai frutto di un gesto altruistico. Quante sono le persone che hanno figli perché è così che si fa, oppure capita, oppure li vogliono con la stessa forza con cui si può volere un cane o un gatto? La genitorialità vera, d’altronde, ha ben poco a che vedere con il Dna o il sangue, ed è quel legame che si stringe con un figlio (biologico o meno) quando ci si assume la responsabilità di accoglierlo, riconoscerlo, amarlo, accudirlo, talvolta anche sgridarlo. Cara Marzano, ti spiego perché l’utero in affitto non è accettabile di Lucetta Scaraffia La Stampa, 25 aprile 2022 È bastato che i partiti di destra depositassero un progetto di legge, in realtà piuttosto infelice - come può l’Italia da sola definire crimine internazionale l’affitto dell’utero? - che subito scattasse una polemica fondata sulla logica mutilante della polarizzazione, per cui dentro ognuno dei due schieramenti è ammesso solo il più rigido allineamento. Non è facile avanzare critiche libere e non ideologiche sulla pratica dell’utero in affitto. Come succede del resto per tutte le altre circostanze odierne in cui viene prospettato un allargamento dei diritti individuali, un’operazione ritenuta da molti positiva sempre e in ogni caso anche se applicata a diritti come il “diritto a un figlio”: diritti sulla cui vera esistenza come tali è lecito nutrire dubbi fondatissimi. Infatti chi in queste situazioni si dichiara contrario e osa sollevare delle critiche viene subito stigmatizzato come un ottuso conservatore, per giunta “cattivo”, animato da scarsa comprensione per il prossimo. Sicché la complessità morale alla quale egli vorrebbe dare voce, che è nelle cose, finisce per essere derisa e vilipesa da una certezza morale dai toni arroganti nella quale i fatti sono sostituiti dai sentimenti. Il dolore di una donna che non può avere figli, la speranza di un’altra che affittando l’utero può aiutare la famiglia: questi sono i sentimenti “buoni” che dovrebbero cancellare dei fatti che buoni invece non sono. Bisogna cominciare con il dire che il rapporto fra le due mamme (quella che prende in affitto e quella che affitta) - se si possono chiamare così - non è mai diretto. È mediato da agenzie internazionali che forniscono assistenza medica e legale, ovviamente sempre orientata a favore di chi le paga, cioè il committente. Agenzie costose, per cui in generale alla madre surrogata arriva ben poco della cifra spesa dai committenti. Il rapporto presentato al Parlamento europeo nel 2016 da Petra de Sutter denuncia molti degli aspetti coercitivi del contratto di surrogazione: tanto è vero che chiede regole più severe nonché un sostegno psicologico per le madri surrogate. Possiamo allora domandarci: come mai tutto questo sarebbe necessario, se si tratta di libera scelta? Bisogna poi aver presente che per le donne che affittano il proprio utero questa pratica è dannosa, in primo luogo fisicamente. Infatti, anche se la loro “prestazione d’opera” viene sempre presentata come un percorso naturale, non è per nulla così. Dal punto di vista medico infatti non solo il prelievo di ovuli - qualora esso avvenga dalla madre surrogata - ma anche il trasferimento nel suo utero di un embrione altrui richiede cure costanti. La futura madre deve dunque sottoporsi a cure ormonali molto pesanti già settimane prima del trasferimento, cure che continueranno per mesi al fine di evitare aborti spontanei. Abbiamo idea di cosa significa? Tutta l’operazione è nel complesso molto difficile e presenta un tasso di riuscita bassissimo, che non supera il venti per cento. Spesso va ripetuta più volte. Quanti sanno che queste donne arrivano a essere sottoposte anche a dieci iniezioni al giorno? Quanti sanno che la stimolazione ovarica e quella ormonale possono essere causa di tumori? Se poi si dà il caso che attecchisca un numero di embrioni superiore a quello desiderato, allora la madre surrogata dovrà necessariamente essere sottoposta ad aborto selettivo. Infatti, per contratto essa è priva di ogni potere nei confronti di ciò che sta dentro di lei: e dunque se per caso cambiasse idea, e volesse rinunciare alla gravidanza, non potrebbe. L’accordo contrattuale infatti anticipa la proprietà del feto ai committenti anche prima della nascita. Tuttavia, anche se queste donne fossero libere di decidere, anche se avessero deciso davvero nella più completa libertà di vendere l’utero per un proprio progetto, rimarrebbe sempre una grande, inquietante domanda intorno a questa situazione: qual è il travaglio emotivo, il turbamento, di queste donne mentre sentono crescere dentro di sé una vita con la quale dovranno rescindere immediatamente ogni legame? Non a caso si cerca di controllare questo effetto scegliendo sempre donne che hanno già avuto figli, e questo già rivela la consapevolezza che l’abbandono di una creatura tenuta un grembo per nove mesi non è per nulla facile. La gravidanza è un processo complesso. Se da una parte l’epigenetica ci ha reso consapevoli che lo scambio genetico non finisce con il momento del concepimento, ma continua nell’utero, durante i mesi della gravidanza, la psicologia e l’osservazione pediatrica hanno approfondito i vari modi in cui, già durante la gravidanza, il rapporto fra madre e figlio è fonte di impressioni indelebili e importanti. Il corpo delle donne non è come un forno in cui si mette a cuocere una torta. Il distacco dalla madre che porta nel suo ventre il bambino è un trauma, sempre. La cosa che a me pare terribile è che mentre per i casi dei bambini dati in adozione si riconosce senza problemi il trauma che per essi ha rappresentato l’abbandono da parte della madre naturale, e si riconosce senza problemi che anche per la madre costretta ad abbandonarlo si tratti di una scelta dolorosissima, nel caso dell’utero in affitto viceversa ciò non si vuole vedere, anzi si nega che si tratti di un trauma in questo caso addirittura programmato. Di un trauma prodotto appositamente per rendere “felici” due adulti egoisti, che, non volendo adottare un bambino abbandonato, ne vogliono uno che abbia i loro geni, che porti il loro indelebile marchio di fabbrica. In questi casi, cara Michela Marzano, si tratta come vedi precisamente della ricerca a tutti i costi di un legame biologico, anche se tu scrivi che “la genitorialità vera ha ben poco a che vedere con il Dna o con il sangue”. Come se la misura del nostro comportamento, delle nostre scelte, dovesse essere solo l’intensità del desiderio, e tutte le altre pur necessarie componenti di ogni scelta che voglia essere d’amore - cioè il senso di responsabilità, l’attenzione al bene dell’altro prima che al bene proprio, la rinuncia e il sacrificio - non contassero nulla. Ma è bene che si sappia quanto invece passa spesso sotto silenzio: la condanna della pratica dell’utero in affitto non viene solo da vecchie conservatrici bigotte, viene da gran parte del femminismo di tutto il mondo. Da una moltitudine di donne, madri e non, che non hanno dimenticato, non possono dimenticare, cosa sia il dolore, né cosa voglia dire l’amore. Ucraina. Nei bunker di Kiev, i bambini come “La vita è bella” di Bernard-Henri Lévy La Repubblica, 25 aprile 2022 Nei bunker di Kiev, i bambini come “La vita è bella”. Gli allarmi? Le sirene dei pompieri. Le esplosioni? I tuoni. I missili? Fuochi d’artificio. Nell’inferno ucraino, anche i piccoli tenuti nascosti. E accuditi sull’esempio di Benigni. È su un treno da Leopoli che si arriva a Kiev. Su lunghi treni blu, confortevoli, abbastanza veloci, che prima della guerra avevano fama di partire puntuali. Adesso però non c’è nessuno che non abbia negli occhi il bombardamento che il 9 aprile scorso colpì la stazione di Kramatorsk, causando almeno 52 morti. La gente, adesso, fa molta attenzione, evita di assieparsi, accelera il passo se il binario è illuminato. E quando il treno inizia a muoversi tutte le luci rimangono spente; le tendine, in ogni scompartimento, abbassate, e durante la notte si susseguono le soste in aperta campagna e le deviazioni, che fanno accumulare ritardi. Presto si smette di pensarci. Nel vagone ci sono volontari che hanno portato al sicuro le loro famiglie e ora tornano a combattere. Un soldato sonnecchia e tiene il kalashnikov, privo del caricatore, stretto al petto come un neonato. Un inglese si è appena unito alla Brigata internazionale creata da Zelensky. Alcune persone fanno il viaggio contrario, rispetto ai rifugiati: hanno deciso, tra timore e tremore, di tornare nella propria città, nel proprio paesino. Cosa sarà rimasto della mia casa? Avranno distrutto quel soffitto di maiolica gialla e blu che da tre generazioni sopravviveva a qualsiasi catastrofe? E le stoviglie di porcellana che ho dovuto abbandonare per fuggire? E cosa ne sarà stato di mia suocera, di cui non ho notizie dal giorno dell’invasione? Ecco di cosa si parla a bordo del treno diretto Leopoli-Kiev che attraversa, come in un sogno, l’Ucraina aggredita. Ecco, soprattutto, cosa si riesce a comprendere quando si ha la fortuna di essere accompagnati da un buon interprete: lui è Sergei O., perfettamente francofono, appassionato di Albert Camus e di Michel Houellebecq; somiglia vagamente al James Cagney de La furia umana e dice che dopo aver fatto, nella sua prima vita, “tutte le cazzate possibili e immaginabili” ora ha deciso di consacrarsi alla difesa del proprio Paese. A Kiev, sorpresa. I russi avevano tolto l’assedio, almeno temporalmente; speravo in un clima se non proprio festoso almeno di liberazione. E invece no. Strade vuote. Negozi e chiese, chiusi. Il Maidan che avevo conosciuto nel 2014 - insieme a Gilles Hertzog e a Marc Roussel - , quel brulichio vibrante nella sua rivoluzione democratica in corso d’opera, è deserto, pieno solo di barricate disposte a zig-zag e di sistemi anti-carro. E ovunque regna un identico, terribile silenzio, come sui pianeti morti, coperti da coltri di ghiaccio, simili a sfere d’acciaio, come quelle che popolano i romanzi di Philip K. Dick. “Normale”, dice Vitali Klitschko, un tempo pugile e ora sindaco, anzi, a capo della guerra della città. Ci riceve in tuta mimetica, all’ombra di una basilica. “No, non è apparenza” insiste, con uno strano sguardo indurito che non è più quello del gigante buono, del supercampione di un tempo, s’impegnava a trattenere i propri colpi; dell’uomo bonario, amante di Dostoevsky, che nel 2014 avevamo conosciuto come leader del proprio partito e poi accompagnato a Parigi per un incontro con il presidente Hollande. “I russi si sono ritirati, è vero. Li abbiamo sconfitti e, di conseguenza, hanno deciso di tornare a dispiegarsi nel Donbass e nelle città del sud, perché la loro resistenza li fa andare completamente fuori dai gangheri. Ma possono tornare. E sulla frontiera bielorussa dispongono di mezzi bellici in grado di colpirci in qualsiasi momento”. Proprio in quell’instante mugghia l’allarme di una sirena. Lui si mette subito all’ascolto, scruta il cielo da esperto. “No, non è ancora per noi” sentenzia facendo una smorfia. E aggiunge, in tono d’accusa: “Al vostro ritorno, dite senza mezzi termini che ogni missile che lanciano sulla mia città è sponsorizzato dal gas che voi acquistate da loro”. Accenna un sorriso vittorioso ma venato di dispiacere. L’uomo bonario riaffiora e s’immerge all’interno di un’autoblindo. A Bucha, come a Irpin, si è fatta pulizia dei cadaveri lasciati lungo le vie dai russi, ma i racconti dei sopravvissuti gelano il sangue quanto le immagini che tutti abbiamo visto. Una signora anziana a cui hanno ucciso la figlia sotto gli occhi, ci dice che è morta come un animale, raggomitolata, al termine della notte, nell’ultima stanza rimasta in piedi della loro casa. Un’altra donna ricorda il volto grasso, la bocca serrata e piena d’odio del ragazzo che la teneva ferma afferrandole le spalle, mentre gli altri la torturavano; dice che non dimenticherà mai l’odore di quel sudore come zuppa rancida e dell’alcol scadente che l’uomo tracannava tra una bestemmia e l’altra; e nemmeno le parole che osarono scrivere, quando finalmente se ne andarono, sul muro di una casa: “From Russian with love”. Ancora una testimonianza: i russi avevano installato nel minuscolo spazio verde di un vicino gli affusti dei loro cannoni; quando gli ucraini hanno contrattaccato, i russi hanno sospettato che il proprietario del giardinetto avesse trasmesso via GPS la loro posizione, e l’hanno giustiziato con uno sparo alla nuca. E un’altra ancora: i genitori di un figlio che aveva sul cellulare delle foto di carri armati distrutti. Gli hanno fatto saltare le cervella e, come per continuare a punirlo, hanno lasciato che il suo cadavere imputridisse per tre giorni; nel frattempo ci si pulivano sopra gli stivali. E ancora un’altra, di una donna che ha scoperto il corpo del marito gettato in un garage: l’ha appena sepolto quando la incontriamo, e non vuole raccontare oltre, si chiude nelle lacrime e nel silenzio. Di corpi massacrati e oltraggiati; dei sedici bambini uccisi, di cui ci parla il sindaco; dei sopravvissuti che per giorni sono stati costretti a sciaguattare nel sangue dei loro morti: queste sono le storie che abbiamo ascoltato a Bucha. Trascorriamo la notte a Ukrainka, una città dell’Oblast di Kiev, in una delle poche case rimaste in piedi in quella terra un tempo fatta di stagni, roseti e foreste di pini, e che ora sembra una sfilata di devastazioni. Siamo ospiti di pescatori, mi comunica Sergei. Bene, se non fosse perché questa costruzione in legno mi sembra un po’ troppo grande e moderna per essere una casa di pescatori. Non si può aprire una porta senza imbattersi in caschi, pile di giubbotti antiproiettile, carte militari, notebooks e fucili d’assalto. E se in effetti il Dniepr sullo sfondo notturno c’è, non si vedono né barche né reti da pesca. Anzi, con le loro spalle erculee, i capelli scarmigliati, le tute mimetiche, gli stivaloni inzaccherati, bagnati fradici, slacciati, gli sguardi improvvisamente vendicativi quando la discussione tocca il tema dei Buriati della Siberia, gli uomini che ci ospitano hanno tutta l’aria di essere dei duri, o dei commandos, anziché marinai di acqua dolce. Ceniamo anguilla affumicata, carpa e della carne fin troppo bollita. Mandiamo giù d’un fiato diversi bicchierini di horilka, l’acquavite di Taras Bulba, alla salute dell’Ucraina e dei suoi eroi. Le lingue allora si sciolgono e Alexis, il capo, ci informa che siamo vicinissimi a Tripillia, la culla di una civiltà ucraina millenaria la cui esistenza gli storiografi revisionisti russi si ostinano a negare in ogni modo. E anche se non c’è verso di strappargli informazione alcuna sul passato dei suoi uomini, finisce comunque per dirci che il loro vero mestiere è “far regnare la giustizia umana”, nella zona di Bucha, per esempio. Si è fatto tardi. Noi andiamo a dormire. Loro escono, armati fino ai denti, nella notte: “far regnare la giustizia”. Penso a Sarajevo, dove i primi resistenti si chiamavano Caco, Celo, Yuka ed erano al contempo dei mascalzoni e dei prodi. Anche il monastero di Neskeriv è in un luogo completamente isolato, alla fine di un cammino pianeggiante, grigioverde sotto il cielo azzurro, risparmiato dai bombardamenti, 60 chilometri a sud di Kiev. In questo scenario bucolico, dove un corso d’acqua stranamente silenzioso forma un gomito, c’è una cappella dagli stucchi dorati, con angeli, santi, immagini edificanti e variopinte cupole a cipolla, dedicata al profeta Giona. La abitano ventisei monaci con il loro saio nero, la barba magra, lo sguardo di fuoco e il volto da lupi; pregano ventiquattr’ore su ventiquattro, a turno, in coro con la quarantina di rifugiati del Donbass a cui danno ospitalità fin dal primo giorno di guerra. A un certo punto Sergei mi sussurra all’orecchio: “Ho un problema da risolvere. Ci metto cinque minuti”. Siccome un’ora dopo non è ancora tornato, esco anch’io e lo trovo in conversazione con un gruppo di uomini armati, venuti in un 4x4 e visibilmente irritati. Avevano saputo che eravamo lì. Ma, soprattutto, vengo a sapere che il monastero, sebbene sia contro Putin, dipende dal Patriarca di Mosca e quindi agli occhi dei patrioti della Difesa del territorio della zona è un luogo sospetto. Sergei, senza mai scomporsi, mostra loro il cellulare, con una nostra foto insieme al presidente Zelensky. Problema risolto, e noi ce la caviamo con una filippica del capogruppo sulla guerra dei campanili, che oppone i monasteri ancora fedeli al patriarcato di Mosca e quelli che invece hanno aderito all’accordo di indipendenza offerto nel 2018 dal patriarcato di Costantinopoli. L’abate Ioasaf, che da giovane fu campione di atletismo, non ha ancora compiuto quel salto. Per il momento prega per la pace, per la gloria dell’Ucraina e per i sessanta gatti anch’essi rifugiati nel monastero. Della catacomba che sto per descrivere, invece, non fornirò alcuna coordinata. Siamo sempre a sud di Kiev, ma quattro metri sotto terra, in un bunker costruito con pile di mattoni cementati e con letti da dormitorio, dove una dozzina di bambini da oltre cinque settimane trascorre la maggior parte delle notti e, a volte, dei giorni. Tra loro c’è un’adolescente arrivata da Kharkiv: ha perduto tutto e capito tutto. Un’altra, il viso di un angelo che sorride apertamente e le guance carminio, ha perso la mamma a Bucha, falciata da una granata mentre rientrava dalla spesa. Un fratello e una sorella, più piccoli, che con il Lego giocano alla guerra e all’assedio di Mariupol. Ma ci sono altri bambini, più piccoli ancora, che non sanno perché sono lì, stesi su materassi messi insieme alla meno peggio, simili a uccellini in una fredda gabbia, e pensano a nuovi giochi con cui vincere la noia. Così, quando suona un allarme, gli abitanti del paese, che fanno a turno per vegliare su di loro e nutrirli, dicono che è il camion dei pompieri. Quando da lontano echeggia un’esplosione spiegano che è un tuono. E quando i più grandicelli mostrano sui cellulari immagini di missili che striano il cielo notturno, si tratta di fuochi d’artificio. Io non so se il presidente Zelensky abbia ragione quando definisce “genocidio” la distruzione dell’Ucraina decisa da Putin e dai suoi sgherri, ma di quel che son sicuro è di aver trascorso una serata tra ragazzini simili al piccolo Giosuè de La vita è bella di Roberto Benigni, a cui il papà faceva credere che la vita nel campo di concentramento non era altro che un grande allestimento scenico. Chi andrebbe “denazificato”? I nazionalisti ucraini? Davvero? O piuttosto i carnefici di questi bambini dalla nuca scarna, gli occhi cerchiati e la vita spezzata? La Storia rischia di essere ingrata nei confronti di Petro Poroshenko. Bisogna ammettere che non sia stato fortunato: ha tenuto testa a Putin per cinque anni; l’ha obbligato a negoziare a Minsk e, nello stessa serie di azioni, è anche riuscito a mettere insieme l’esercito della nuova Ucraina, ma poi ha dovuto misurarsi con un successore come Zelensky, un giovane uomo stupefacente, che all’inizio della propria carriera era un comico e poi ha dimostrato un tale coraggio, un tale eroismo, una tale intelligenza strategica e politica da ritrovarsi nei panni di un Churchill ucraino. Poroshenko però è un giocatore esperto e siamo andati a incontrarlo di nuovo. Appuntamento in via L., dietro una basilica del centro storico di Kiev; lui, alla guida del battaglione di cui è capo (e specifico “capo” perché la legge in Ucraina vieta ormai a un oligarca di comandare un’unità da combattimento, nonostante si tratti di un ex Presidente del Paese). Partiamo subito, perlustriamo tutto il giorno la zona nord, più in là di Bucha, in direzione della frontiera bielorussa, dove interi paesi sono stati spazzati via dall’esercito russo che si ritirava (dall’esercito russo, sottolineo: non dalle milizie cecene; non dai mercenari siriani). E devo dire di non aver colto una sola parola meschina dell’ex Presidente nei riguardi del suo glorioso successore. Mai, nel corso di quella lunga giornata in cui gli è capitato di imbattersi nei partigiani, felici di saperlo in quelle zone, accanto a loro, nei loro stessi carnai, davvero mai l’ho visto venir meno al patto patriottico stretto fin dal primo giorno di guerra con Volodymyr Zelensky. È bello anche questo. Anche questa unità nazionale rende onore all’Ucraina. Quando i grandi s’innalzano fino a raggiungere la vetta degli umili; quando la fermezza d’animo e di carattere è la stessa tra chi è in testa e i sanculotti, ecco la prova di un popolo che si sta sollevando e che, qualsiasi prova debba ancora affrontare, è destinato alla vittoria. Di Bucha si è parlato ovunque. Di Borodyanka si è parlato meno. Le testimonianze, in questa città, appena trenta chilometri a nord di Bucha, con due ponti distrutti e una strada disseminata di macerie e miserie che gli abitanti chiamano la via della morte, causano un orrore simile a quello di Bucha. C’è un edificio spaccato a metà da un missile. Ce n’è un altro ridotto a un cumulo di calcinacci, dove dei soccorritori col gilet giallo stanno ancora scavando tra le macerie, la mattina in cui arriviamo: sotto c’è il corpo inerte di un bambino, che dal giorno prima ha smesso di dare cenni di vita. C’è un appartamento requisito dalla soldataglia al suo arrivo; alla partenza non hanno voluto lasciare nulla di vivo, e quindi hanno lanciato una granata d’addio. La cantina da dove gli abitanti li sentivano abbuffarsi, cantare, imprecare, suonare la fisarmonica, saccheggiare, violentare, fare bisboccia e alla fine gettare l’ennesima granata, perché “gli ucraini sono dei sorci” e bisogna disinfestare come si fa con i sorci. Le spoglie di un essere umano decapitato, coperte da un lembo di plastica nera. Un asilo improvvisato, dove i figli degli scomparsi dormono ammucchiati gli uni sugli altri perché battono i denti per la paura e il freddo, e dicono che nel sonno ancora sentono le grida dei soldati ubriachi che sparano in aria, di notte. Il rauco latrare dei cani che cercano i loro padroni. Dei bracieri accesi, come a Maidan, dove la gente viene a prendere la zuppa calda cucinata dalle organizzazioni umanitarie. Dappertutto, odore di rifiuti, di benzina e di stracci bruciati. E poi, nel centro della piazza principale, la statua in bronzo del grande scrittore Taras Shevshenko, voce della coscienza ucraina: gli hanno sparato un razzo alla nuca, la testa si è mezzo staccata dal busto, si è inclinata e sta quasi per cadere, ma resiste, si regge, continua a incarnare la forza dello spirito, dirimpetto agli edifici calcinati. Se esistesse una classifica del peggio, c’è un altro luogo ancora a cui spetterebbe il primo posto. Al ritorno, la strada per Kiev era intrisa di una pioggia diventata ormai diluvio e siamo stati costretti a una deviazione verso sud-ovest; per un’ora abbiamo girato senza ben sapere dove eravamo e a fine pomeriggio siamo capitati ad Andrivka. Non è una cittadina, è un villaggio. Non rappresentava alcun obiettivo, non dico militare, ma neppure economico. E nemmeno i suoi dintorni. Una povera frazione, insomma, priva di importanza collettiva o specifica, che quasi non compariva sulle mappe, dimenticata dagli dèi e dagli uomini. Dai racconti degli abitanti pare sia successo questo: una colonna russa passa di lì. Ne fa il proprio quartier generale, in tutta comodità. Poi rimane senza direttive per parecchi giorni e capisce che le cose per il Cremlino si stanno mettendo male e che alle unità sta per essere impartito l’ordine di tornare sul fronte del Donbass. Allora, come accade a qualsiasi esercito sconfitto e vigliacco, una sezione si scatena. Passare a fil di spada. Darci dentro. Giustiziare a bruciapelo. Depredare i morti. Rovistare tra le macerie. Bisogna massacrarli, quei bastardi, bisogna fargliela pagare. Di quel momento di castigo collettivo rimangono il numero di matricola perso da un soldato, qualche razione di rancio abbandonata, lo scambio di un paio di stivali, per portarsi via i più caldi, che appartenevano a un ucraino ucciso. Non si deve certo paragonare ciò che non ha confronto, ma un simile accanimento per aver perso la guerra battendosi lealmente; la follia di cui si è impadronita questa unità che, prima di partire per il nuovo fronte, si vendica con gli ostaggi che le capitano sotto mano, a un francese ricorda qualcosa: ricorda la divisione Das Reich quando fu richiamata sul fronte di Normandia: prima di mettersi in marcia si vendicò sulla popolazione di Oradour-sur-Glane. L’ora del coprifuoco arriva presto. Kiev si trasforma in una città morta. Non una persona per strada, né una sola auto. A ogni angolo, un check-point, dove giovani dal grilletto facile sanno che quello è il momento in cui s’infiltrano i doppi agenti. Noi, per fortuna, ritroviamo i nostri pescatori. Loro conoscono la parola d’ordine e riescono a portarci - prima di arrivare alla stazione, al treno per Leopoli e poi per la Polonia - su quel Maidan dove tutto ebbe inizio e dove avevamo l’ultimo appuntamento di quel viaggio, ai piedi della colonna dell’arcangelo Michele: ci attendeva Tatiana Kucher, ex sindaca di Ukrainka e direttrice di una poderosa ONG che sostiene le persone sfollate; con lei, il figlio di un sopravvissuto di Babi Yar che ci rammenta, considerate le elezioni francesi, che qui l’estrema destra ha dieci volte meno voce in capitolo che a Parigi. Infine, quando ormai siamo sul punto di salire definitivamente in macchina, ecco che nel buio della piazza spunta dal nulla, come un fantasma, un’autentica revenant: la testa scoperta, un cappotto nero lungo fino ai piedi, la treccia sempre biondissima, scortata solamente da una guardia del corpo che le regge l’ombrello, appare l’egeria della Rivoluzione arancione, Julija Tymoshenko. È apparsa per pura coincidenza? O è stato l’amico Sergei a forzare la mano al caso? Insieme ricordiamo il nostro primo colloquio, otto anni fa, all’indomani della sua liberazione dal carcere di Karkiv dove l’aveva rinchiusa il giannizzero ucraino di Putin. E poi l’ultimo, cinque anni dopo, la sera del mio primo incontro con chi l’avrebbe completamente eclissata e che sta mostrando al mondo i colori dell’Ucraina libera: Volodymyr Zelensky. Inizio e fine della storia. Il tempo accelera, quando la guerra segue alla rivoluzione, fa rotolare teste e cambia il vento della Fortuna. Il destino dei singoli, passa. Permangono invece i grandi popoli. E permane la forza di un’Europa il cui teatro più tragico, più crudele e più nobile sto per lasciare. Slava Ukraini! Stati Uniti. In Texas mercoledì l’esecuzione di Melissa Lucio. Ma può essere ancora fermata di Riccardo Noury Corriere della Sera, 25 aprile 2022 Si moltiplicano da ogni parte del mondo (qui la petizione di Amnesty International) gli appelli alle autorità del Texas affinché fermino l’esecuzione di Melissa Lucio, prevista mercoledì 27 aprile. Lucio, cinquantaduenne di origini messicane, è stata giudicata colpevole dell’omicidio della sua ultima figlia, Mariah, di due anni. La sentenza, risalente al 2008, si basò - com’è emerso successivamente - su prove inaffidabili, tra cui le dichiarazioni di un medico legale e quelle rese dalla donna durante un duro interrogatorio cui venne sottoposta subito dopo la morte della piccola Mariah. In favore di Lucio si sono espressi vari esperti. Secondo un patologo forense, l’indagine sulla morte della bambina fu “significativamente pregiudicata, non basata su prove e senza un’adeguata attenzione ad ipotesi alternative”, dato che i referti medici erano “coerenti con una causa di morte correlata a una caduta dalle scale due giorni prima del collasso di Mariah”. Un altro esperto ha scritto che parti della testimonianza del medico legale statale erano risultate “scientificamente indifendibili”. Dopo essere venuti a conoscenza, dopo il processo, di questi sviluppi, diversi giurati hanno messo in dubbio il proprio verdetto di colpevolezza. Stati Uniti. Melissa Lucio, l’ultimo giorno di vita della donna condannata a morte in Texas di Elvira Serra Corriere della Sera, 25 aprile 2022 Il 27 aprile Melissa Lucio, 51enne di origine messicana, potrebbe essere giustiziata con un’iniezione letale in un carcere di Gatesville, in Texas. Il 27 aprile potrebbe essere il suo ultimo giorno di vita. Il condizionale è il tempo della speranza, che con ostinazione vogliamo applicare alla storia di Melissa Lucio, 51enne di origine messicana che attende di essere giustiziata con un’iniezione letale in un carcere di Gatesville, in Texas. Guadagnando, così, l’indesiderabile primato di essere l’unica donna latinoamericana a finire nel braccio della morte nello Stato governato dal repubblicano Greg Abbott. Melissa è stata condannata alla pena capitale per aver ucciso la sua bambina di due anni, Mariah, morta il 17 febbraio 2007 per le complicazioni di una caduta dalle scale, secondo la difesa; per essere stata selvaggiamente picchiata, secondo l’accusa. Lei, del resto, incinta di due gemelli, dopo un interrogatorio notturno durato sette ore senza acqua né cibo né avvocato, dopo aver negato oltre cento volte di averle fatto del male, cedette: “È probabile che io sia responsabile”. Quelle dichiarazioni furono utilizzate durante il processo come una confessione. Il procuratore distrettuale che tanto si diede da fare per la condanna, Armando Villalobos, oggi sta scontando una pena di 13 anni per corruzione ed estorsione. “Credo nella giustizia di Dio, ma non capisco come la mia morte ristabilirebbe quella umana. Causerebbe solo altro dolore a quanti dovrò lasciare”, ha scritto un mese fa Melissa Lucio a Papa Francesco. E ha ragione quando dice che la sua morte “non riporterà indietro la mia Mariah. Darei la mia vita per riabbracciarla un solo istante. Ma non è possibile”. Per Melissa si stanno battendo attivisti e personalità, a partire da Sandra Babcock, della Cornell Law School e fondatrice del Cornell Center sulla pena di morte nel mondo, per la quale l’accusa alla donna è la più debole che le sia mai capitato di studiare in trent’anni. Anche Kim Kardashian si è esposta, condividendo su Twitter la lettera firmata dai tredici figli di Melissa in cui chiedono la grazia al governatore Abbott. I legali e Amnesty International vorrebbero almeno una sospensione della pena di 120 giorni per rivedere le prove. Lei, al Pontefice, ha scritto: “Anche in questa cella provo pace perché so di essere stata perdonata e amata dal mio Signore. Lui conosce ogni cosa e questo mi consola”. Negli ultimi 45 anni sono stati giustiziati nelle carceri Usa 1.544 uomini e donne: 574 soltanto in Texas.