Bambini dentro. Crescere dietro le sbarre di Matteo Guidelli Ansa Magazine, 24 aprile 2022 Lo scuolabus arriva puntuale alle 7.35. Maria attraversa il portone blindato senza voltarsi, stringe la mano della mamma e si incammina con il suo zaino rosa sulle spalle. Prima di salire le stampa un bacio sulla guancia. È sola, sul pulmino: gli altri bambini non devono sapere dove vive Maria. Perché la casa di Maria è diversa. Maria vive in carcere. Non è l’unica, Maria. Ci sono anche Raayn e Armando, Mariam e Gabriele, Miriam e Michael. Ventuno, sono. In tutta Italia. Sono “i” ventuno: bambini che hanno meno di sei anni e vivono con le mamme detenute che stanno pagando per gli sbagli che hanno fatto. Innocenti. Tutti quanti. Incolpevoli. Tutti quanti. Indifesi. Tutti quanti. Eppure: la prima cosa che vedono quando aprono gli occhi sono le sbarre alle finestre e la prima cosa che capiscono è che la mamma non giocherà con loro al parco e non li accompagnerà alle feste degli amichetti. Questo è il racconto dei 21. Di chi sono questi bambini e di come vivono con le loro madri. Ma è anche la storia di chi ogni giorno, nel carcere e fuori, con fatica, impegno e professionalità, prova a cancellare quelle sbarre dalla loro vita Gli Icam, le case famiglia e la promessa della ministra “Mai più bambini in carcere. Anche un solo bambino costretto a vivere ristretto è troppo”. Davanti al Parlamento, lo scorso 17 febbraio, il ministro della Giustizia Marta Cartabia ha ribadito quello che è il primo obiettivo del governo. Ma, come dimostrano proprio i 21 che ancora vivono dietro le sbarre, riuscirci è compito molto più arduo. In realtà, dei ventuno bambini, quelli che ad oggi si trovano in un carcere vero e proprio sono 6 e sono tutti nella sezione femminile di Rebibbia, insieme a 4 madri, due delle quali hanno condanne definitive. A gennaio non ce ne era nessuno e a fine febbraio c’era un solo bambino: sono numeri che cambiano ogni mese e in ogni caso si cerca di ridurre al massimo il numero dei piccoli nei penitenziari. Per tutti gli altri, invece, la loro casa si chiama Istituto a custodia attenuata per madri detenute, Icam. Introdotti con la legge 62 del 2011, sono strutture dedicate esclusivamente a donne con figli fino a 6 anni, età che sale a 10 se la pena è definitiva. La legge di 11 anni fa ha previsto anche le case di famiglia protette, senza però indicare alcun onere per lo Stato. Il risultato è che le case famiglia, in tutta Italia, sono soltanto due, la casa di Leda a Roma e l’associazione Ciao a Milano. La strada per cambiare la situazione, però, è aperta. Dal 2019 è ferma in commissione Giustizia una proposta di legge del deputato del Pd Paolo Siani che individua nelle case famiglia protette l’unico luogo dove possano vivere i bambini figli delle madri condannate, prevedendo l’obbligo per lo Stato a finanziarle, e introduce alcune modifiche al codice di procedura penale finalizzate a rendere possibile la detenzione negli Icam solo in presenza di “esigenze cautelari di eccezionale rilevanza”. Con la legge di bilancio 2020, inoltre, il governo ha stanziato 4,5 milioni per il triennio 2021-2023 proprio con l’obiettivo di potenziare le case famiglia. “Con questa disponibilità finanziaria - ha detto la ministra in Commissione Infanzia - si apre dunque una possibilità in più: spetta ora alle Regioni e agli Enti locali farsi carico di concrete iniziative nel settore dell’accoglienza delle detenute-madri”. Saranno i prossimi mesi a dire se, finalmente, si riuscirà a portare a zero quel numero. Nel frattempo, i bambini continuano a vivere in carcere e negli Icam. Di questi ultimi ce ne sono cinque in Italia ma uno, a Cagliari, è vuoto. A Venezia c’è un solo bimbo, nove piccoli vivono invece nell’Icam di Lauro, in provincia di Avellino: il più grande ha nove anni, il più piccolo quasi 2; altri tre bimbi sono nell’Icam di Torino, associato al carcere de Le Vallette e altri due in quello di Milano, che dipende dal carcere di San Vittore ma è esterno alla struttura penitenziaria. Quale sia la differenza fondamentale con un carcere, lo spiega il direttore dell’Icam di Avellino Paolo Pastena. Sono strutture “pensate dall’inizio con determinate principi che rispondono ad un’esigenza fondamentale, quella di non far sentire o comunque attenuare al massimo grado l’impatto del minore con una struttura di tipo penitenziario. Il personale svolge servizio in borghese, c’è un ampio ricorso alla videosorveglianza, si cerca di tenere gli spazi quanto più aperti possibile”. Tre anni fa, nel 2019, i piccoli in carcere erano molti di più: 48, più del doppio di quelli di oggi. Ed erano saliti a 59 all’inizio del 2020. Poi però è arrivato il Covid. Ed è triste constatare che il virus sia riuscito laddove le norme e la società, finora, hanno fallito. Ma è solo il primo paradosso di questa storia in cui la realtà è molto più complessa di quello che sembra. Dove la volontà deve fare i conti con i pregiudizi. Ci sono le responsabilità dei magistrati di sorveglianza, che hanno un’ampia discrezionalità sulla concessione delle misure alternative. Ci sono le condizioni oggettive di queste madri: la mancanza, per molte, di un domicilio vero e contesti familiari di assoluta indigenza che renderebbero l’alternativa dei domiciliari peggiore del carcere. E c’è un rifiuto generalizzato della società a ‘proteggere’ queste donne, e dunque a reinserirle in un contesto sociale e lavorativo adeguato, una volta concluso il percorso carcerario. Bianca e le altre, storie di possibilità negate Sul comodino di Bianca c’è un libro, in copertina c’è la famosa bambina con il palloncino di Banksy. Il titolo è “La sfortuna dietro l’angolo” e lo ha scritto lei. Perché quel titolo Bianca? “C’è chi nasce fortunato e benestante, con una famiglia che ha tutto, e chi nasce con meno. Io purtroppo non ho avuto questa fortuna, sono cresciuta in una famiglia povera, senza un padre, con una madre che era malata. Ero già responsabile a 10 anni, dovevo prendermi cura della casa, dei miei fratelli e di tutto il resto. E tutta sta sfortuna mi sta perseguitando”. Quasi sempre, dietro una madre in carcere, c’è un passato di sofferenza. Bianca come Patrizia, Refko come Alina. Donne che non hanno mai avuto davvero la possibilità di scegliere, schiacciate da uomini e famiglie che, invece, avrebbero dovuto proteggerle. Un discorso che non vale per tutte, dicono gli operatori e i volontari che lavorano ogni giorno con loro, ma per la maggior parte sì. Un passato che molto spesso è anche il loro presente visti i contesti familiari da cui provengono e l’assenza totale di una rete di protezione. Ed è per questo che, paradossalmente, fuori dal circuito carcerario avrebbero meno occasioni per farcela. Ognuna di loro si porta dentro traumi e paure. Patrizia ha 40 anni e 10 figli. Si è sposata giovanissima. Cinque glieli hanno tolti, il primo marito aveva problemi d’alcol e lei non era in grado di occuparsene. Non sa neanche dove siano. La sesta, una ragazzina che oggi ha 13 anni, avuta con un secondo uomo per colpa del quale oggi è in carcere, è in comunità. Poi è arrivato un altro compagno, un egiziano con il quale ha avuto altri quattro figli. Tre sono in Egitto con lui e anche questi non li abbraccia da anni. L’ultima, Mariam, che ha quasi sei anni, è con lei nell’Icam di Lauro. “Io lo voglio dimenticare tutto il passato - dice con gli occhi che le si velano di lacrime - quando uscirò di qui non voglio portarmi tutte le sofferenze sulle spalle, no. Voglio solo la felicità dei miei bambini. Continuerò a fare la mamma come ho sempre fatto, solo questo per i miei bambini” Anche Refko dice di aver fatto tutto per i suoi figli. Lei è nell’Icam di Torino, dove vive con Raayn, cinque anni, il più piccolo dei suoi 4 figli. Il più grande, 21 anni, è in carcere, gli altri due di 14 e 17 sono in una comunità in Liguria. “Sono stata sempre una buona mamma e non ho mai fatto mancare niente ai miei figli - ci dice - Ho fatto quello che ho fatto, ho rischiato, sono andata a rubare e l’ho fatto per i miei figli che non hanno avuto un padre. Io ero viva, presente, Non li dovevo far soffrire. Non lo accettavo”. Ma ti penti di quello che hai fatto? “No - risponde - non mi pento di quello che ho fatto per i miei figli”. Refko sta pagando per i suoi sbagli. E qualche rimorso in realtà ce l’ha. “Mi pento perché se mi miei figli si sono allontanati è colpa mia”. Si ferma un attimo, poi riprende: “Ho fatto tanta galera nella vita mia, non avevo mai capito, ma questa galera e questa lontananza dai miei figli mi ha fatto capire tante cose. Certe volte dico che se non ero entrata in carcere non avrei capito”. Le bugie e la normalizzazione del carcere, i rischi per i bambini Raayn lascia la mano della volontaria che lo riporta in carcere da scuola, salta in braccio alla mamma con gli occhi che ridono e corre in giardino a giocare a pallone. Gabriele si mette in testa un elmetto giallo e finge di essere un operaio, mentre con Tracy litiga per un pezzo di Lego. Maria, invece, scoppia in un pianto senza fine che neanche l’abbraccio della mamma riesce a fermare, quando è il momento di salutare la cagnolina Mirta e la sua accompagnatrice. A vederli così, i sedici che vivono dietro le sbarre, sembrano bambini come tutti gli altri. Ed è l’ennesimo paradosso di questa storia. Perché a questi piccoli è permesso in carcere di essere bambini davvero, cosa che molto spesso per non dire sempre, fuori, non gli sarebbe concessa. Vanno a scuola, tutti i giorni, sono seguiti costantemente dal punto di vista educativo, psicologico, sociale. Fanno visite mediche ogni volta che ne hanno bisogno e hanno giochi di ogni tipo, che molti altri bambini liberi non hanno mai visto nelle loro case. Poi però c’è il rovescio della medaglia. Perché un carcere resta un carcere, anche se si fa di tutto per cercare di renderlo più umano possibile. Il rapporto madre-figlio è una delle prime questioni, una delle più spinose. Perché le madri quasi sempre non raccontano ai figli la verità. “Se io dico al bambino una bugia, mino dall’inizio il rapporto fiduciario che c’è tra me e mio figlio - spiega la criminologa del carcere delle Vallette di Torino Marisa Brigantini - Io devo dire la verità al bambino, utilizzando parole che lui possa capire, e devo utilizzare situazioni reali perché non posso dire sono in carcere perché ho rotto un vetro, perché faccio crescere un bambino con il trauma che se rompo un vetro finisco in carcere”. I bambini devono sapere la verità con parole che capiscono, ma spesso questo non basta. “Bisogna anche usare il senso che lui capisca. Ma la verità va detta perché il bambino prima o poi verrà a sapere cosa è successo e a quel punto la madre sarà una persona di cui non si può fidare”. Un concetto ribadito anche dal direttore dell’Icam di Lauro Paolo Pastena. “Il bambino conserva il suo contatto con la madre però esce per andare a scuola, per la passeggiata con i volontari, per le attività. E ad un certo punto la domanda alla mamma viene quasi spontanea, mamma perché non puoi venire con me? Queste limitazioni creano nel bambino un sentimento di particolare difficoltà ma creano anche nella mamma dei sensi di colpa”. L’altro grande problema per questi piccoli è la ‘normalizzazione’ del carcere. Ancora Brigantini. “Se un bambino rimane in carcere per tanto tempo c’è l’interiorizzazione di tutte una serie di situazioni penitenziarie. Il bambino che mi dice ah tu non ti rendi conto ma io sto crescendo dietro le sbarre, magari non si rende conto oggi di cosa mi sta dicendo ma domani questa roba lui la ricorderà”. Va trovato, quindi, un punto di equilibrio. E soprattutto, va evitato che il bambino torni nell’ambiente che lo ha portato in carcere. “Se torniamo in quel contesto per lui essere stato in carcere sarà stata la normalità. Ho avuto una persona in un altro carcere che quando gli ho detto ma scusi ma lei sarebbe contento che i suoi figli venissero in carcere, lui mi ha guardato con aria stranita e mi ha detto ‘ma certo e normale, c’è stato mio nonno, c’è stato mio padre e ci verranno anche loro”. E qui si arriva al terzo nodo, forse il più difficile da affrontare perché richiede un cambio culturale. Ce ne parla Simona Massola, educatrice all’Icam di Torino. Succede infatti che nel circuito carcerario i bambini sperimentano diverse possibilità che poi si interrompono quando la madre ha finito di scontare la pena. “Diciamo sempre che il carcere non funziona. Ma se poi fuori non ci sono i servizi che possano rafforzare il lavoro che si cerca faticosamente di fare qui a tutti i livelli, se la società non ti sostiene e ti continua a bollare come ex detenuto, come madre che si è portata addirittura il figlio in carcere, è ovvio che poi queste persone non ce la fanno”. “E non è solo colpa del carcere che non ha funzionato - conclude con amarezza - ma della società che non ha saputo” sostenere il loro sforzo. Milano, il primo Icam e il libro per non mentire Lungo le pareti sono appesi 380 quadri, uno per ogni madre che ha lasciato un pezzo di vita in queste stanze dalle grandi finestre, dove le sbarre ci sono ma sembrano quelle di un palazzo qualsiasi di fine ottocento. Nel giardino c’è un piccolo orto urbano e la recinzione alta 6 metri è camuffata con pannelli di plexiglass, per cercare di rendere un po’ più umani i simboli del carcere. L’Icam di Milano è stato il primo ad aprire, nel 2006, cinque anni prima della legge che ha formalmente aperto gli Istituti per le madri. Un progetto pilota che ha fatto da apripista per tutti gli altri. La palazzina a due piani che lo ospita si trova in una strada tranquilla nella zona est e quelle mura ne hanno visti passare di bambini: in un’altra epoca era il brefotrofio di Milano, l’istituto che accoglieva i piccoli abbandonati o illegittimi. E’ l’unico in Italia fuori dal perimetro carcerario ma proprio questa caratteristica fa sì che sia anche l’unico in cui le detenute sono sempre chiuse dentro. Possono chiedere di uscire in giardino quando vogliono, ma la porta che le mette in contatto con l’esterno è sempre chiusa. All’interno la struttura è una grande L con un primo corridoio in cui c’è la sala colloqui, la biblioteca, la lavanderia e un altro con la cucina, le stanze e la ludoteca, che si riconosce dal cartello ‘E’ qui la festa’ appeso sopra l’ingresso. Lo visitiamo un sabato mattina durante la pet terapy con Mirta, una cagnolina meticcia che i due bimbi ospitati prendono subito in simpatia. “Il nostro progetto è duplice - racconta la responsabile Marianna Grimaldi - preservare la tutela del minore e sostenere la genitorialità”. Garantire da un lato che i bambini frequentino la scuola, facciano le attività di tutti gli altri bimbi e stiano fuori dalla struttura più tempo possibile e dall’altro lavorare sulle madri il tempo necessario a costruire quel percorso di alfabetizzazione e formazione che consenta poi di proseguire il lavoro in una casa famiglia protetta. Insomma, un progetto ‘circolare’ in cui tutte le istituzioni sono coinvolte, a partire dal Comune, che mira a dare un futuro a madre e bambino e non solo a gestire il periodo di detenzione. E il motivo è chiaro. “Si dice nessun bambino in carcere. Benissimo - spiega Grimaldi - Ma l’alternativa sono i domiciliari, se le mamme continuano a commettere dei reati. Se noi le mandiamo ai domiciliari, le nostre coscienze sono tranquille, ma dove vanno e cosa fanno davvero questi bambini? Cosa succede a questi invisibili? Non importa a nessuno. Il carcere non risolve certo i problemi, ma vogliamo chiederci dove è la società? Perché se fuori non c’è una società che si fa carico di queste persone, che tradimento facciamo ai bambini?”. Proprio nell’ottica di lavorare sulle madri, all’Icam di Milano hanno messo in piedi un progetto dal quale è nato un libro. Si chiama ‘Mamma, dove siamo?’ Molto spesso, infatti, queste donne non hanno il coraggio di spiegare ai propri figli dove si trovano e perché sono in carcere. E così dicono bugie. Più sono reiterate e più si rischia di minare il rapporto con il proprio figlio. Nel libro le figure che ogni giorno ruotano attorno ai bambini diventano così personaggi della fiaba: la casetta nel bosco è l’Icam, i folletti sono gli agenti della polizia penitenziaria, le fatine del bosco sono le educatrici. E poi c’è il tasso, che rappresenta la Giustizia. “ma perché mamma tu non verrai con me?” “Sai piccola, non sempre si può fare quello che si vuole. Esiste nel bosco un essere molto saggio, il Tasso, che decide quando le mamme dell’Icam possono uscire dalla porta magica”. La bambina confusa chiese: “perché mamma è lui che decide?” “Anche noi adulti, come i bambini, possiamo commettere degli errori. Quando questi errori sono troppo grandi il vecchio tasso decide che dobbiamo trascorrere del tempo nella casetta nel bosco. Per me la porta si aprirà solo quando il saggio tasso me lo consentirà”. Educatori e volontari. L’esercito al servizio dei bambini Li accompagnano a scuola. Parlano con le maestre. Li portano al parco e in piscina. Giocano con loro. Cercano di capire i loro problemi. Soprattutto, non smettono mai di lavorare per farli sentire come tutti gli altri bambini. Sono gli educatori, i volontari, gli agenti della polizia penitenziaria, gli psicologi e i medici che lavorano negli Icam, un esercito di donne e uomini fondamentali in realtà come queste dove, non va dimenticato mai, i piccoli sono liberi e hanno gli stessi, identici diritti di tutti gli altri loro coetanei. “Noi - spiega Federica Barile, educatrice all’Icam di Milano - siamo quella figura che rappresenta un ponte con l’esterno. Siamo noi che a livello pratico ci occupiamo dell’accompagnamento dei bimbi a scuola, delle uscite sul territorio, della socializzazione con l’esterno e allo stesso tempo siamo noi che restituiamo alle mamme ciò che accade all’esterno e che portiamo all’esterno quello che vorrebbero dire le mamme più da un punto di vista quotidiano”. In realtà sono molto di più: sono zii e zie che hanno con questi bambini legami molto più forti e profondi dei loro parenti veri, quelli che molto spesso spariscono o non ci sono mai stati. Le parole del sostituto commissario Felice Galeotalanza, che sovrintende l’Icam di Avellino, sono inequivocabili. “Questi bambini sono eccezionali. Molte volte entrano qui con un aspetto quasi tendente al severo ma il rapporto, la sinergia, l’empatia che si crea tra noi operatori e loro, perché i bambini sono esseri puri e legano facilmente con chiunque si mostri loro amico, fa sì che alla fine l’agente di sezione diventa la zia e il comandante lo zio”. Per tutti loro non esistono fine settimana e non esistono feste. Con i bambini ci sono anche a Pasqua e Natale, perché i piccoli non possono e non devono essere lasciati soli, non devono sentire l’assenza di affetto. Nunzia questo legame fortissimo lo conosce bene visto che uno dei piccoli di Lauro ha deciso che lei è la sua fidanzata: così ogni volta che lei si allontana comincia a piangere e battere i piedi. “Il nostro obiettivo principale - dice la ragazza - è quello di dare al bambino un’opportunità di uguaglianza, siamo tutti uguali e non vi è nessuna differenza. Noi cerchiamo di far vivere loro la quotidianità e di rendere possibile qualsiasi cosa”. Nunzia racconta che a Carnevale lei e le sue amiche si sono travestite e hanno organizzato una festa, a Natale si sono dati da fare per costruire il cartone con il presepe. E poi ci sono le feste di compleanno. Perché molto spesso questi piccoli una festa tutta loro non l’hanno mai avuta. L’Icam di Avellino, due sezioni per nove piccoli Dall’esterno è solo l’ex carcere per i tossicodipendenti: una recinzione alta 10 metri circonda il grande muro di cinta verde all’interno del quale c’è la struttura vera e propria dove alloggiano le detenute. Ma dentro, l’Icam di Lauro è tutt’altra cosa. Innanzitutto, è il luogo dove vive la maggior parte delle madri che si trovano in carcere con i propri figli: ce ne sono 9 delle 15 che ancora sono dietro le sbarre, con 9 bambini, quattro femmine e cinque maschi. “Se noi consideriamo l’Icam dal punto di vista dell’istituto penitenziario, probabilmente non riconosciamo in questa struttura le caratteristiche tipiche di un carcere - sottolinea il direttore Paolo Pastena - ma se lo raffrontiamo ad una casa familiare, quella a cui noi siamo abituati, è chiaro che siamo molto distanti anche da questo modello. È una soluzione di compromesso”. Che la trentina di uomini e donne della polizia penitenziaria, gli psicologi, i medici, i volontari e gli educatori cercano di rendere quanto più possibile una casa accogliente. Sulle pareti delle due sezioni, l’Azzurra e l’Arancione, sono dipinti i personaggi delle favole: Mary Poppins, Biancaneve. Le stanze sono venti in tutto: 4 sono singole, un letto più la culla e il bagno, mentre le altre 16 sono in realtà veri e propri miniappartamenti. C’è la stanza da letto, una zona giorno con angolo cottura, un bagno. Durante il giorno le porte sono sempre aperte, si fa un ampio utilizzo della videosorveglianza, che però non è attiva all’interno delle stanze, e le detenute possono andare dove vogliono all’interno della struttura: c’è l’infermeria, la ludoteca, una grande cucina, la sala sociale per vedere la televisione, un grande cortile all’aperto con gli scivoli, il calcio balilla e i giochi per i bambini, un teatro. C’è anche una biblioteca con i computer dove durante il Covid i piccoli hanno potuto seguire le lezioni in Dad e dove ora, grazie all’impegno di cinque docenti che si alternano, sono le madri a seguire i corsi di alfabetizzazione. “Pensieri sparsi per immergersi nelle nostre emozioni” è la traccia sulla lavagna che le donne devono sviluppare su un cartellone. Ogni iniziativa, ogni attività è pensata per tutelare il bambino. Anche nei dettagli: i piccoli che vivono nell’Icam sono i primi ad esser presi e gli ultimi ad essere accompagnati dallo scuolabus. “Abbiamo chiesto e ottenuto massima collaborazione dal Comune e dal sindaco di Lauro - dice il sostituto commissario Felice Galeotalanza - Si tratta di una scelta fatta per garantire una forma di tutela e di privacy sul luogo di provenienza”. La giornata si divide tra le attività all’esterno per i bambini e quelle all’interno per le madri. Molte di loro lavorano nell’Istituto come cuoche, scopine o si occupano dell’orto. Poi ci sono i corsi di pasticceria e cucina, di decoupage, di cucito. Sforzi che riescono solo in parte a smussare le discussioni tra madri, le piccole invidie e gelosie come in ogni comunità, le difficoltà ad affrontare una realtà che resta comunque pesante: quella di donne, alcune con condanne anche pesanti e per reati gravi, che hanno davanti a sé ancora anni di carcere. E vedono i loro figli crescere dietro quelle sbarre che il personale fa di tutto per far dimenticare, almeno ai più piccoli. La casa-famiglia Ciao e la discrezionalità dei magistrati La cosa più bella è il grande corridoio inondato dalla luce che entra dalle tre grandi finestre: i bambini giocano, corrono tra le gambe degli adulti e le loro voci rimbombano negli spazi vuoti. Benvenuti nella casa famiglia protetta dell’Associazione Ciao a Milano, una delle uniche due strutture in Italia previste dalla legge del 2011 in cui sono ospitate le madri detenute e i loro bambini. Attualmente ci sono 4 donne e 4 piccoli, divisi nei tre appartamenti a disposizione. Qui non ci sono sbarre alle finestre né personale della polizia penitenziaria, si possono tenere i cellulari e ognuno apre e chiude la porta quando vuole. Andrea Tollis è il direttore. Ogni giorno ha a che fare con storie di emarginazione, con donne che hanno subito violenze e maltrattamenti, persone che non hanno nessuno che possa prendersi davvero cura di loro. “La tutela dei bambini e delle mamme sembra senza soluzione, perché è un argomento che suscita scandalo e vergogna e perché ha tante implicazioni tecnico-giuridiche che bisogna conoscere, a partire dal tema dell’esecuzione penale. Ma una soluzione c’è - rivendica spiegando il lavoro che dal 1995 viene fatto al Ciao - è mettere in atto misure concrete, capire quali progetti fare con le madri e soprattutto come proseguirli una volta finito il percorso ‘carcerario’. Serve dare una continuità ai progetti: non si tratta di spostare madre e figlio da un luogo all’altro e dargli un letto ma costruire un progetto intorno a loro, seguire la sua capacità genitoriale, mettere in campo progetti lavorativi, di formazione e di alfabetizzazione”. Dalla casa famiglia le detenute possono anche uscire con i propri bambini. Due ore al giorno. Ci sono però delle regole: le forze di polizia possono entrare in ogni momento ed effettuare dei controlli, le donne ogni volta che escono ed entrano devono chiamare la polizia e dire che stanno uscendo o sono rientrare. Un altro piccolo passo in avanti rispetto agli Icam, un altro passaggio di quel percorso che, dice Tollis, si basa su un lavoro specifico: insistere sul “concetto di persona” e non dare a queste donne “l’etichetta di criminale o detenuto, capro espiatorio delle nostre coscienze”. I numeri, d’altronde, parlano chiaro: la percentuale di recidiva tra chi esce dal carcere è del 68%, in coloro che godono delle misure alternative è del 16%. Ma è, purtroppo, un concetto che non passa nella nostra società. E qualche responsabilità ce l’hanno anche i magistrati, se è vero che tutte le leggi negli ultimi 20 anni non sono riuscite a cambiare le statistiche e il numero di madri in carcere, finché non è arrivato il Covid, si è assestato sulle 50 all’anno. “C’è una dimensione che è ancora attuale ed evidente dal punto di vista del diritto - sottolinea Tollis - e cioè che la discrezionalità del magistrato a considerare misure cautelari di eccezionale rilevanza può porre un freno alla possibilità di una maggiore apertura sulle misure alternative. È un dato di fatto che per adesso la legge non è di per sé garanzia assoluta per evitare l’ingresso in carcere delle mamme e dei bambini”. Ed infatti fino ad oggi, conclude il direttore, non è accaduto: “perché come sappiamo le migliori intenzioni possono scontrarsi con la realtà”. La storia di Marina, il carcere era la vita di prima Marina era una ladra. Ha fatto del male a tanti, portando via ricordi e pezzi di vita. Ha pagato. Marina ora è libera. E si è lasciata alle spalle il suo passato. La storia di Marina è l’esempio concreto di come i percorsi alternativi al carcere possano funzionare; di come i soldi stanziati dallo Stato e le energie spese da centinaia di persone che ogni giorno si dedicano ai detenuti non siano stati buttati. Marina ha 4 figli, è stata arrestata nel 2011 e portata a San Vittore, da dove è poi stata trasferita all’Icam con il bimbo più piccolo. C’è rimasta un anno e mezzo e quando il bimbo ha compiuto tre anni si sono dovuti separare: lui in comunità, lei in carcere, a Bollate, poiché il regolamento attuativo della legge del 2011 non era ancora entrato in vigore. Ma nella sua testa era già scattato qualcosa e così, d’intesa con il magistrato e gli assistenti sociali, è iniziato un percorso che nel 2015 l’ha portata a riunirsi con il suo bambino, nella casa famiglia Ciao. Dove vive ancora con Antony, il più piccolo dei quattro. “Prima che io entrassi in carcere la mia vita era in un campo, facevo la vita di un rom, andavo a fare i furti negli appartamenti, per noi era come un lavoro lì, pensavo fosse una cosa giusta” racconta guardandoti dritto negli occhi. Mentre era in carcere, il padre dei suoi figli ha avuto una storia con un’altra donna, che è rimasta incinta. E’ stata l’ultima goccia che ha spinto Marina a fare il salto. “In tanti dicono che è pesante passare dal carcere. A me invece mi ha fatto crescere. Perché alla fine i reati che io commettevo facevano del male alle persone e quella non è vita, perché sono delle persone che soffrono. Ho capito che quando prendevo un oggetto io non conoscevo il valore che aveva per quella persona, non so cosa fosse, se era qualcosa di un caro che era morto o di una persona a cui tieni. Poi piano piano lo scopri e l’ho capito anche io quando mi hanno derubato. Ho capito che alla fine si fa solo del male alle persone”. Così questa ragazza ha scelto di non fare più quella vita, di ripudiare la sua cultura, “perché alla fine nella cultura rom sei obbligato ad andare a rubare perché è l’unico modo per vivere”. Marina queste scelte le ha pagate. I due figli più grandi hanno deciso di non seguirla e sono rimasti con il padre. La terza, una ragazza 13enne, vive in una comunità e il percorso per portarla con lei è appena iniziato ed è ancora lungo. Ma non ha alcuna intenzione di tornare indietro. E le sue parole sono pietre. “È tutta un’altra vita fare questa vita che ho scelto e non quell’altra. Il mio vero carcere era lì dove ero, non era il carcere quando ero dentro, io ero più libera in carcere che da mio marito, che sarebbe il padre dei miei figli. Io non conoscevo il mondo, ora sono libera di uscire, di fare quello che voglio, soprattutto ho imparato il mondo del lavoro, io lavoro. Tornare a casa e avere la soddisfazione che i soldi che io guadagno sono sudati ma non sono soldi facili”. Non tutte le donne che passano per il carcere riescono a fare il percorso di Marina. “Purtroppo - racconta lei stessa - ci sono tante persone che quando vengono messe dentro dicono che vogliono cambiare vita però una volta che mettono fuori il piede non ce la fanno, anche tante mamme là dentro mi dicevano di volerlo fare ma hanno paura di farlo perché io sono una un po’ raro che ho fatto questa scelta. Penso che alla fine devi avere il coraggio di farlo”. Lei l’ha trovato, perché non è stata lasciata sola. “Io ho scelto questa strada giusta - ripete orgogliosa - e non ritorno più indietro”. Riforma del Csm, Ermini: “Non ci sarà un muro contro muro” di Davide Varì Il Dubbio, 24 aprile 2022 Il vicepresidente del Csm: “Una magistratura autonoma e indipendente lo è se anche l’avvocatura è autonoma e indipendente. Nei Paesi dove oggi la giurisdizione è in difficoltà, ugualmente sono messi in difficoltà magistrati e avvocati. Allora penso che queste siano occasioni nelle quali vada rilanciata la forte difesa dell’autonomia della giurisdizione”. “Muro contro muro sulla riforma? No, io ho molta fiducia nel fatto che non ci sarà un muro contro muro. Ci saranno delle discussioni come è giusto che sia”. A dirlo è il vicepresidente del Csm David Ermini, a Napoli per una cerimonia nel Salone dei Busti di Castel Capuano, interpellato sulle posizioni di parte della magistratura sulla riforma del Csm. “D’altra parte - ha aggiunto Ermini - il potere legislativo è quello che fa le leggi e il potere giudiziario è quello che le applica. Che ci siano delle discussioni è assolutamente naturale. Non sono mai favorevole al muro contro muro. Credo, penso e spero che le cose in qualche modo si sistemino”. “Quello che conta sarà l’applicazione delle norme, quindi per far funzionare la riforma c’è bisogno di tutti”, ha aggiunto a margine della cerimonia di svelamento del busto di Giuseppe Abbamonte. Ermini si dice sicuro che ci sarà il coinvolgimento di tutte le parti chiamate in causa dalla riforma: “Ci sarà il Csm, l’avvocatura su cui mi sono sempre speso e che penso sia un elemento importante della riforma. Lavorare insieme credo che sia la cosa più bella, in fondo la nostra Costituzione permette una serie di equilibri e una serie di possibilità di lavorare insieme tra le varie componenti, e questo è quello che è utile per l’Italia”. “La riforma della giustizia che va adesso al voto definitivo martedì in prima lettura non è l’intera riforma della giustizia. È una parte, quella che riguarda l’ordinamento giudiziario, che è importante, ma dobbiamo considerare le riforme della giustizia insieme a tutti gli altri settori: il civile e il penale sono stati già approvati, ma non ci scordiamo che c’è bisogno di una riforma importante sull’ordinamento penitenziario, c’è bisogno di una riforma importante sul tributario. Ci sono tanti aspetti su cui bisognerà lavorare”., ha sottolineato. “Queste sono occasioni nelle quali va rilanciata la forte difesa dell’autonomia della giurisdizione - ha evidenziato -. La cerimonia di oggi è importante perché rinnova ancora una volta l’ideale della giurisdizione intesa come insieme di operatori della giurisdizione, avvocati e magistrati. Una magistratura autonoma e indipendente lo è se anche l’avvocatura è autonoma e indipendente. Nei Paesi dove oggi la giurisdizione è in difficoltà, ugualmente sono messi in difficoltà magistrati e avvocati. Allora penso che queste siano occasioni nelle quali vada rilanciata la forte difesa dell’autonomia della giurisdizione”. La TV di Stato censura i referendum di Renato Farina Libero, 24 aprile 2022 Si voterà tra meno di due mesi, ma non c’è un programma che ne parli. Non abbiamo messo la data nel titolo apposta. È una piccola provocazione. Quanti di voi sanno qual è il giorno in cui si voterà per i cinque referendum per la “giustizia giusta”, voluti dai Radicali e dalla Lega? Chi scrive, e non è un vanto ma causa di costernazione, non lo sapeva neppure lui (lui, che poi sarei io). Eppure guardo regolarmente il Tg, seguo i talk non per piacere ma per mestiere. Ma quella data non la so, sì, è stata deliberata dal ministro Luciana Lamorgese, l’ho anche letta e sentita una volta, ma poi chi l’ha vista più? Sparita. Mi consola Maurizio Turco, segretario del Partito radicale nonché esponente del Comitato per il sì, a cui confesso la mia ignoranza: “Non creda di essere il solo, non si batta il petto, non è colpa sua né della grandissima maggioranza degli italiani che ne sono all’oscuro”. Non mi assolvo però, i giornalisti non hanno il diritto di non sapere: mi pento, e come dicono quelli dell’Agenzia delle Entrate, mi impegno per “il ravvedimento operoso” mettendo in funzione la sirena dell’allarme: qui ci stanno turlupinando, blocchiamo la manovra in corso. Rubando il concetto caro a papa Francesco, impediamo che vinca la “cultura dello scarto”, l’espulsione dall’agenda delle notizie del referendum, del quando, del come, e dei suoi contenuti rivoluzionari. È in atto un abracadabra ipnotico teso a provocare, attraverso la non-informazione sistematica, l’idea della futilità dei quesiti affidati al popolo, la loro venialità presuntuosa, così da determinarne alla fin fine il fallimento peggiore che ci sia: non la vittoria dei “no”, ma il mancato quorum. Che sarebbe un modo per dire: fate voi, mettetevi d’accordo tra le varie caste che ci stanno sulla testa (e un po’ anche sulle balle). Spiega Turco: “Da due mesi e mezzo si sa che ci saranno i referendum, ma il cosiddetto servizio pubblico, la Rai, si è ben guardato di informarne i cittadini e tanto meno di organizzare dibattiti sul tema. Se una società demoscopica facesse un sondaggio, sarebbe irrilevante il dato degli elettori a conoscenza della scadenza del 12 giugno. Mentre sappiamo benissimo che la stragrande maggioranza è per la riforma radicale della giustizia”. Eccola la data: il 12 giugno. Manca poco e l’appuntamento è importante, ma nessuno lo sa, non si impostano programmi e dibattiti, che sarebbero persino interessanti, perché ne va della libertà e della serenità di 60 milioni di italiani. Invece si gioca a nascondino. A mandare in malora il diritto degli italiani di intervenire direttamente quando le forze parlamentari sono bloccate da un colpo della strega che sul tema della giustizia dura da decenni e appare inguaribile, e anche il balsamo generosamente spalmato dal ministro Marta Cartabia, pare ormai, dopo essere stato piallato da M55 e Pd, una volonterosa aspirina per battere il cancro. Accidenti, la discussione su quella proposta di riforma era perfetta per incastrarsi con i temi referendari del 12 giugno. Niente. Disperso. Il 12 giugno! Sparito. E come aver fissato la data delle nozze, e non aver messo fuori le dovute carte, essersi preoccupati degli inviti, del prete o del sindaco, non aver disdetto impegni e ferie. Una tecnica disonesta. Che però può contare sulla distrazione, tra i politici sostenitori del referendum, di questioni importanti ma che non dovrebbero impedire di occuparsi oltre che dell’Ucraina e del gas, anche dei Tribunali. Intanto, guerra sì guerra no, funziona, per lo sconforto della democrazia, l’asse peloso, tra il potere più forte che ci sia in Italia, quello della magistratura, in piena convergenza non solo con il M55, ma soprattutto con il Partito democratico che oggi controlla la Rai, e la sua linea editoriale, e trova eco perfetta in tutti i giornaloni. Tutto questo per indurre la moria di quei benedetti quesiti. Invece di informare, infatti la Rai che fa? Insiste sul chiodo fisso dell’inno Bella ciao, che, almeno in Italia, ha un significato coincidente con le bandiere rosse e la rivendicazione di una resistenza comunista incompiuta. Nessuno che abbia fatto caso come da una settimana l’invasione dell’Ucraina da russa si è fatta sovietica, con tanto di statue di Lenin e garrire di bandiere rosse. Venerdì sera la Rai ha proposto, quale anticipazione del 25 aprile, la glorificazione del celebre brano con una prima serata speciale con “Bella Ciao. Per la libertà”, in onda alle 21.20 su Rai 3. Una coproduzione Rai Documentari, Palomar Doc e Luce Cinecittà per la regia di Giulia Giapponesi, con il sostegno della Regione Emilia-Romagna ed il contributo di Bper Banca”. Gran battage pubblicitario. Un fiasco. Il docu-film è stato seguito da 906.000 telespettatori pari al 4.2% di share. All’ultimo posto tra le sei reti più importanti. Ma la linea è quella del Pd, indottrinamento sui suoi cardini propagandistici, cioè Bella ciao e bandiere rosse. La prova di chi comanda sta anche nel contratto immediatamente procurato a Marco Damilano, dopo le sue dimissioni melodrammatiche, dalla direzione dell’Espresso. Si parla di circa 50mila euro al mese per una striscia quotidiana su Rai3. Non c’è nessuno più organico al cattocomunismo dem di Damilano, un prezzemolino rosso pallido su tutte le tivù. Questo silenzio e queste faccende sono un insulto per chi ha firmato i quesiti con diligenza: 1.235.000 cittadini, non proprio un gruppuscolo. Meritano rispetto, pagano pure il canone. Purtroppo, il più bello di tutti i quesiti, è stato ritenuto inammissibile dalla Corte costituzionale: serviva a ripristinare i risultati del referendum del 1988 sulla responsabilità civile dei magistrati in caso di errore per negligenza. Bocciato. Ma i cinque che restano non sono male. Li ricordiamo in sintesi: - la riforma del Csm; - l’abolizione della legge Severino; - freno agli abusi della custodia cautelare; - la separazione delle funzioni dei magistrati; - il voto degli avvocati nei consigli giudiziari sulla valutazione dei magistrati. Polizie e uso della forza: il rapporto tra cittadini e potere di Roberto Cornelli* fondazionefeltrinelli.it, 24 aprile 2022 La vicenda giudiziaria sul caso Cucchi indica a chi studia le polizie una cosa molto semplice: quando capita qualcosa che non dovrebbe accadere, in strada come in una caserma, in una stazione di polizia, in un carcere o in un centro per stranieri, le forze dell’ordine italiane non hanno procedure interne efficaci che assicurino trasparenza e consentano di dare conto di ciò che è accaduto. Tutto è rimesso alla magistratura e, quando ci sono, ai familiari della vittima, che devono fare i salti mortali per ricostruire la verità. Certamente in Italia le morti in operazioni di polizia sono di gran lunga inferiori rispetto a quelle di altri Paesi democratici (si pensi alle circa mille morti all’anno negli Stati Uniti) e questo dovrebbe rassicurare, ma anche indurre a riflettere su come attrezzarci al meglio imparando proprio da vicende come quella di Cucchi. Se di fronte a un corpo malmenato, per il solo fatto che quel corpo mostrava lesioni, si fosse attivato un intervento immediato di accertamento amministrativo dell’accaduto, una sorta d’indagine interna da attivare obbligatoriamente e con la presenza di rappresentanti indipendenti (i garanti per le persone private della libertà, per esempio), forse non solo la verità si sarebbe conosciuta prima, ma quel giovane uomo avrebbe potuto ricevere le cure adeguate per salvarsi, al di fuori del circuito istituzionale che lo ha continuato a vedere, per 6 giorni, come un criminale. Di sicuro la spinta auto-conservativa che ha portato a depistaggi e falsità e che ancora resiste in chi ha una visione autoritaria e autoreferenziale delle istituzioni di polizia, avrebbe faticato a emergere. Misure efficaci di accountability volte a chiedere conto di una situazione sospetta di abuso non devono riguardare il solo intervento della magistratura, comunque fondamentale per qualificare l’esistenza o meno di uno stato di diritto, ma vanno previste anche all’interno delle stesse organizzazioni di polizia, a cui è delegato il delicato compito di garantire la tranquillità sociale anche con la forza se la situazione lo richiede. Non si tratta di un fatto tecnico, ma di un aspetto cruciale del più ampio processo di democratizzazione delle istituzioni pubbliche. Provo a spiegare perché. L’uso della forza da parte delle polizie a volte è necessario, ma in ogni democrazia rimane problematico per il rischio che si ecceda. Ed è bene che rimanga un aspetto critico, da monitorare attentamente: non dimentichiamoci mai che la libertà che tanto ci sta a cuore ha origine dalla limitazione del potere delle istituzioni di polizia di disporre del corpo delle persone arrestate senza doverne rendere conto. Il riferimento storico è all’habeas corpus, all’ordine emesso dalla corte reale inglese di esibire il corpo della persona che si trova in custodia presso prigioni o stazioni di polizia per verificare che la persona sia ancora viva, non sia stata torturata e quali siano state le condizioni del suo arresto. Ma anche all’art. 13 della Costituzione sull’inviolabilità della libertà personale e sull’inammissibilità di qualsiasi restrizione della libertà personale se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge, le cui radici vanno cercate nelle storie di chi subì l’arbitrarietà dell’esercizio del potere di polizia sotto il fascismo. Tanto l’habeas corpus quanto la Costituzione hanno a che fare con la limitazione della discrezionalità amministrativa (tanto in prigione quanto per strada) a tutela di diritti e libertà delle persone e, in definitiva, con la democrazia. Non a caso il primo elemento che osserviamo per definire un regime come autoritario o democratico è proprio il modo di agire (e in particolare i limiti d’azione) delle polizie: in Russia come in Cina, in Birmania e in molti altri luoghi del mondo, sono le polizie a segnare in concreto il rapporto tra cittadini e potere, sacrificando le libertà dei primi per rafforzare la presa del secondo sulla comunità. Ma non basta considerare la distanza dei nostri sistemi politici dalle esperienze autoritarie di altre parti del mondo. Se è vero che la democrazia, come sostiene Slavoj Žižek, innalza a condizione essenziale del proprio funzionamento ciò che altri sistemi politici percepiscono come minaccia e cioè “la mancanza di un pretendente naturale al potere”, occorre allora essere coscienti del rischio sempre attuale per le democrazie che questa “vacuità del potere”, così importante per garantire che chiunque possa ambire a rappresentare e affermare la propria idea di società, possa essere riempita in modo esclusivo e definitivo da chi esercita il potere. Lo scivolamento delle democrazie in regimi autoritari o perfino totalitari starebbe proprio nell’indebolimento di dispositivi giuridici e culturali capaci di frenare la spinta di una parte a occupare stabilmente il potere imponendosi come il tutto. Affermare la democrazia richiede dunque l’impegno quotidiano di promuovere un sentire collettivo che trova nell’apertura e nell’inclusione degli ancoraggi saldi e di rafforzare regole e procedure istituzionali che impediscano a chiunque eserciti il potere, a qualsiasi livello e per qualsiasi scopo, di percepirsi senza vincoli nell’agire e al di sopra della legge. In queste coordinate generali, anche il rischio che si eccedano i limiti di legittimità nell’azione di polizia necessita di uno sforzo quotidiano che non può essere lasciato nelle mani dei soli agenti che gestiscono situazioni più o meno critiche, contando esclusivamente sul loro equilibrio, sul loro senso etico, sul loro autocontrollo. La questione è culturale, organizzativa e politica e richiede che si attuino delle riforme utili a contenere al massimo quel rischio. Nel 1981, in pieno terrorismo, il Parlamento italiano approvò una legge importante di riordino del comparto della Pubblica Sicurezza, che prevedeva, tra l’altro la smilitarizzazione della Polizia di Stato. Vent’anni dopo, nel 2001, Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha approvato il “Codice europeo di etica per la polizia”: una raccomandazione che costituisce il primo strumento sovranazionale in materia di sicurezza emanato da una istituzione europea. In questi ultimi decenni non sembra esserci stato un grande impegno nel prendere la strada delle riforme in un ambito così importante e cruciale per la democrazia. Spesso ci si concentra sull’adozione di nuovi equipaggiamenti come se si fosse di fronte a interventi epocali. Mi sembra che la posta in gioco sia invece molto più alta e valga la pena prenderla sul serio. Spesso sono le conquiste sociali e civili a segnare i progressi democratici di un Paese; ma i progressi sono segnati anche da come le istituzioni accompagnano i cambiamenti sociali e civili, dalla loro capacità di organizzarsi in modo coerente con quei progressi e, qualche volta, di renderli possibili. Le polizie non fanno eccezione ed è bene prestare loro la giusta attenzione. *Professore Associato nell’Università di Milano-Bicocca Franco La Torre: “La lotta di mio padre per liberare la Sicilia” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 24 aprile 2022 Quarant’anni fa la mafia uccise il segretario regionale del Pci. Il figlio racconta: “Aveva visto in faccia i boss a Palermo”. “Mi ricordo un pomeriggio, nel giardino della nostra casa del quartiere Matteotti, a Palermo: papà discuteva con Girolamo Li Causi, e io intanto giocherellavo attorno. Avrò avuto quattro anni. Fu la prima volta che sentii parlare di politica, la nostra casa era sempre aperta”. Franco La Torre è tornato in città per le riprese del documentario di Walter Veltroni su suo padre Pio, il segretario regionale del Partito comunista ucciso da un commando di mafia il 30 aprile 1982, quarant’anni fa, assieme all’amico e collaboratore Rosario Di Salvo. Si guarda attorno e dice: “Quella Palermo degli anni Sessanta mi sembrava una città felice. Il volto di papà era intenso e sorridente, le sue parole diventavano appassionate quando si occupava dei problemi degli altri. Questo voleva dire per lui fare politica”. Che papà è stato Pio La Torre? “L’educazione che abbiamo ricevuto io e mio fratello era impostata su due valori: libertà e responsabilità. Avevamo grande spazio per le nostre uscite, ma se tornavamo con il ginocchio sbucciato oppure in ritardo al pranzo della domenica dovevamo farci carico di tutte le conseguenze. Una domenica ci scappò pure un ceffone”. Come raccontava suo padre gli anni giovanili? “Frequentando l’istituto tecnico industriale Vittorio Emanuele aveva scoperto l’impegno politico: un professore gli aveva aperto gli orizzonti. E col suo amico Pippo Fuschi aveva iniziato ad andare ai comizi dei comunisti. Poi si mise a diffondere l’Unità nel suo quartiere, Altarello di Baida, una zona ad alta densità mafiosa. E la cosa non piacque affatto a certi personaggi, che finirono per bruciare la porta della stalla di suo padre”. Andavate qualche volta a trovare i parenti ad Altarello di Baida? “Fra quelle strade tortuose papà suonava sempre il clacson. E mamma diceva: “Perché?”. Lui sussurrava: “Così mi riconoscono”. I mafiosi avevano imparato di certo a riconoscerlo. Nella sentenza di condanna della Cupola, i giudici scrivono che anche altri soggetti - esterni a Cosa nostra - erano interessati alla morte di Pio La Torre. Chi secondo lei? “Il vertice mafioso si teneva aggiornato sull’andamento dei lavori parlamentari per l’approvazione della legge sulla confisca dei beni. Ma a tenere sotto controllo mio padre c’erano anche i servizi segreti, da lungo tempo; proseguirono fino a quindici giorni prima del suo omicidio. Il giudice Giovanni Falcone, deponendo in commissione Antimafia, disse che fra i delitti politici quello di Pio La Torre era il più denso di significati e motivazioni. Un delitto eseguito da killer mafiosi, su ordine della Cupola. Ma devono esserci state altre cointeressenze, legate agli scenari più diversi. Con la battaglia per la pace, contro i missili di Comiso, mio padre si era messo di certo in una posizione difficile”. Quando lo vide per l’ultima volta era preoccupato? “Ci siamo incontrati cinque giorni prima, a Roma, dove la famiglia si era ormai trasferita dal 1969, lui veniva ogni settimana. Mi raccontò che aveva preso il porto d’armi, parlammo della grande marcia di Comiso, che lo aveva entusiasmato”. Il lunedì di Pasqua aveva detto a Emanuele Macaluso: “Dopo Mattarella e Reina, adesso tocca a noi”. Nonostante fosse un obiettivo ormai prevedibile, Pio La Torre non aveva la scorta. “A volte, per esorcizzare la paura ci si scherzava anche su. Mimì Bacchi diceva che mio padre non sapeva tenere in mano la pistola, e che avrebbe finito per spararsi ai piedi”. C’è una costante negli omicidi eccellenti di Palermo, la consapevolezza delle vittime di andare incontro a un destino già scritto, spesso in solitudine. Eppure, nonostante questo, continuavano a immaginare un futuro possibile. C’era un progetto che stava particolarmente a cuore a suo padre? “Aveva comprato un pezzetto di terra ad Altavilla Milicia, nel 1981, e sognava di costruirci una casetta, accanto a quella realizzata dal fratello. Un pezzetto di terra da dove si vede il mare, che amava tanto. Camminava sempre con il costume in macchina, papà era un grande nuotatore”. Quanto è difficoltoso percorrere la strada per arrivare alla verità? “Noi figli abbiamo raccolto il testimone di mamma, che si è impegnata davvero tanto, è stata anche parlamentare regionale, in un periodo in cui fare l’antimafia vera non era davvero facile”. Il nonno materno è un’altra figura importante nella vita di suo padre... “Nonno Zacco faceva il medico, era un aristocratico anomalo. Era repubblicano e comunista. A casa sua si riuniva la Palermo democratica di ispirazione comunista. Papà raccontava che quando chiese la mano di mamma al nonno, lui prima lo visitò, poi gli chiese: “Compagno La Torre, dove andrete a vivere?”. E lui rispose: “Compagno Zacco, a casa tua”. All’epoca, papà era un funzionario della Camera del lavoro, non poteva certo permettersi una casa con il suo stipendio. Così, andarono a vivere in quella casa col giardinetto del quartiere Matteotti, in cui ho tanti ricordi. A Palermo la famiglia restò fino al 1969, quando io avevo 13 anni”. Ci racconti un altro ricordo a cui è legato... “Un giorno, avrò avuto cinque anni, mamma mi aveva rimproverato non ricordo per cosa, e io avevo deciso che sarei andato in ufficio da papà, alla Federazione comunista, in via Caltanissetta. Sapevo che sarei dovuto arrivare a piazza Croci. Ma sotto l’arco di largo dell’Esedra mi fermai a parlare col fruttivendolo. Mi disse: “Dove stai andando?”. Risposi: “Da mio padre”. Aggiunse: “Ti ci porta Gaetano”, che era il garzone. In realtà, Gaetano mi portò in giro a fare le consegne di quella mattina. Intanto, mamma aveva chiamato papà, e pure i carabinieri: quando tornai a casa, ricordo l’abbraccio dei miei genitori”. Il progetto di legge sulla confisca preoccupava tanto i mafiosi, ma suo padre denunciava anche le collusioni fra esponenti della Dc e Cosa nostra. Cosa ha fatto scattare la condanna a morte? “Credo che restino ancora valide le parole pronunciate dal prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, nel corso dell’ultima intervista. Quando Giorgio Bocca gli chiese: “Perché fu ucciso il comunista La Torre?”, lui rispose: “Per tutta la sua vita”. Papà aveva imparato a riconoscere i mafiosi ad Altarello di Baida, li aveva visti in faccia. E loro avevano visto lui”. Quarant’anni dopo, quanto è viva la memoria di Pio La Torre nella politica e nell’antimafia? “La sua è un’eredità che andrebbe coltivata un po’ di più. Non solo nel giorno dell’anniversario della morte, è la vita che deve essere ricordata. Per quell’impegno che è stato una costante nella sua esistenza. Impegno per le battaglie concrete, mai per slogan vuoti, come quelli di certa antimafia. Mio padre era finito in carcere per aver sostenuto la battaglia dei braccianti che occupavano le terre. Le sue battaglie sono state sempre concrete, per i problemi reali della gente. Questo dovrebbe essere oggi la politica”. Neonati in overdose e baby pusher: il welfare mafioso di Palermo miete vittime tra gli indifesi di Sabrina Pisu L’Espresso, 24 aprile 2022 La droga torna a scorrere a fiumi nei quartieri alimentando l’economia di famiglie senza altri redditi. Tra case-laboratori con i piccoli che finiscono in coma e ragazzini reclutati come spacciatori e vedette. “In una città lontana venne al mondo un bambino trasparente”: potrebbe iniziare con le parole di Gianni Rodari la storia di tanti bambini a Palermo. Ma questa una favola non è. È la cronaca di un’infanzia sacrificata dal bisogno che nutre la mafia, travolta dal fiume di droga tornato a scorrere a Palermo. Con i più piccoli reclutati in numero sempre maggiore nello spaccio, consumatori inconsapevoli fin da neonati quando finiscono in ospedale, in fin di vita, per overdose, oltre dieci i casi a Palermo negli ultimi tre mesi. Nell’ultimo anno, inoltre, quattro bambini sono nati con la Sindrome di astinenza neonatale, il quarto è ancora ricoverato: da quando è nato, due mesi fa, assume morfina, ogni giorno. Il degrado economico, culturale e sociale, aggravato dalla pandemia, affama la gente e, come sempre, ingrassa la mafia, con lo spaccio come unica fonte di sostentamento per molte famiglie. La droga è di casa: è sul tavolo della cucina, nascosta nei cassetti o negli armadi dei bambini. Bambini traditi da madri e padri che dovrebbero proteggerli, dentro una vita che a quell’età non scelgono mentre spacciano su loro ordine, mentre ingeriscono polvere bianca o pezzi di hashish gattonando, muovendo i primi passi, nell’età in cui si esplora il mondo mettendolo in bocca. E quel mondo è la droga. “Sono fenomeni in preoccupante crescita”, spiega Claudia Caramanna, procuratrice dei minori di Palermo. “I piccoli si sentono male a casa e i genitori chiamano l’ambulanza, quando arrivano in ospedale sono già in coma. L’ospedale allerta subito le forze dell’ordine perché si capisce dai primi accertamenti medici che hanno ingerito sostanze stupefacenti, i minori sono affidati al direttore sanitario in modo da predisporre tutti gli accertamenti”. Spaccio e consumo vanno spesso a triste braccetto: “Ci sono bambini nati con la Sindrome di astinenza neonatale perché le madri hanno continuato ad assumere droghe durante tutta la gravidanza, donne che in alcuni casi non riconoscono il figlio alla nascita, lo abbandonato in ospedale. Nel caso in cui la mamma voglia tenere il bambino, si supporta portando avanti un progetto a lungo termine per verificare se le sue competenze sono recuperabili oppure no”, continua Caramanna. Dalle ultime indagini è anche emerso il ruolo di primo piano rivestito dalle donne, dalle madri, in prima linea nelle attività criminali, pronte a prendere il posto di mariti o conviventi in caso di arresto: “Per queste famiglie lo spaccio di droga è un’attività lavorativa a tutti gli effetti”, dice ancora Caramanna: “Le donne non si rendono conto dei danni, per questo stiamo cercando di fare un’operazione di sensibilizzazione e prevenzione”. Per tutelare questi minori, si sta valutando l’allontanamento dalle famiglie, un provvedimento senza precedenti: “Le famiglie coinvolte nelle ultime indagini sono sotto osservazione da parte dei servizi sociali, alcuni bambini sono stati già affidati ad altri parenti, come quelli i cui genitori sono stati entrambi arrestati. L’obiettivo è tutelare i minori all’interno delle loro famiglie, l’allontanamento è doloroso e resta l’ultima ratio”. Palermo è la città con uno degli indici più alti di reati minorili: oltre duemila i procedimenti penali in un anno. Tra il 2020 e il 2021 sono stati 170 i fascicoli aperti per reati legati allo spaccio di droga che hanno coinvolto minorenni. Nell’età in cui si dovrebbe studiare, fare sport e giocare, questi bambini sono usati come vedette o pusher, aiutano a casa i genitori a tagliare e confezionare sacchetti con la droga, a contare i soldi. Sono state le operazioni Nemesi e Pandora eseguite nel novembre e dicembre scorso, frutto delle indagini condotte per due anni dai carabinieri di Palermo coordinati dalla Direzione distrettuale antimafia, a scattare l’inquietante fotografia dello spaccio che coinvolge minori in aree come Sperone, Brancaccio, Borgo Vecchio, Borgo Nuovo e Passo di Rigano. “Abbiamo arrestato su ordinanza di custodia cautelare 112 persone, è emerso il coinvolgimento di 27 nuclei familiari con 55 minori”, spiega il generale Giuseppe De Liso, comandante provinciale dei carabinieri di Palermo. Cocaina, crack, hashish, marijuana disponibili giorno e notte, consegnati agli acquirenti dai minorenni in bicicletta, dosi nascoste negli zaini, vendute non lontano dalle scuole, quelle scuole che, in molti casi, i ragazzini non frequentano. E così, mentre loro perdono l’età dell’innocenza, Cosa Nostra mette in tasca nel solo Sperone, periferia sud-est di Palermo, un milione e mezzo di euro all’anno, un giro d’affari complessivo ingente che si evince dai tanti arresti eseguiti ogni settimana in tutta la città. “La mafia dopo la pandemia ha cambiato il suo modo di operare”, spiega De Liso: “Si è spostata dall’attività estorsiva allo spaccio di sostanze stupefacenti perché le attività commerciali sono entrate in crisi, una disperazione che ha portato molti commercianti a denunciare, l’attività di estorsione era diventata rischiosa”. Con i proventi della droga, Cosa Nostra sostiene anche i detenuti, pagando le spese legali, e le loro famiglie: “Usa oggi lo spaccio come ammortizzatore sociale di quelle famiglie che prima sosteneva con le estorsioni, i nomi e le famiglie mafiose ricorrono sempre, sono sempre gli stessi mandamenti”, continua De Liso. I canali di approvvigionamento degli stupefacenti sono cambiati: “La cocaina arriva dal Sud America tramite la ‘ndrangheta mentre altre droghe, come hashish e marijuana, attraverso la camorra napoletana che la prende in Spagna e Nord Africa. Le nostre indagini mirano in questo momento a capire se Cosa Nostra farà ora il salto di qualità e tornerà ai vecchi fasti, quando si approvvigionava da sola degli stupefacenti”. I bambini coinvolti hanno dai tredici ai diciassette anni, impiegati perché per i minori l’ordinamento prevede che la carcerazione sia l’ultima misura, consentendo strumenti alternativi per garantire l’educazione e tutelare una personalità in formazione. “Sono i genitori, dediti all’attività dello spaccio, che incaricano i figli di fare da corrieri, vedette o spacciare. Usano le bici per portare la droga da una parte all’altra perché sono meno soggetti a controlli”, continua De Liso: “È più difficile, infatti, che le forze dell’ordine fermino un ragazzino in bici, magari elettrica, che gira per il quartiere. Questi bambini sono vittime, crescono con il malaffare sotto gli occhi, alcuni hanno i genitori agli arresti domiciliari”. Sono bambini, solo bambini innocenti come quello gigante che accoglie chi arriva allo Sperone, una delle piazze di spaccio più imponenti del sud Italia. Ha le braccia alzate e dietro c’è la sua ombra, nera come la croce che porta sulle spalle. Questa l’immagine del murale, il secondo, dipinto da Igor Scalisi Palminteri e inaugurato il 14 settembre 2020 sullo stabile popolare di 18 metri in via XXVII maggio. Braccia alzate per dire: “Io esisto”, “Io sono te”. Braccia alzate per chiedere un abbraccio, per toccare il cielo. Uno sguardo alto per vedere il futuro. Ma cos’è il futuro qui? È come il mare: “Non è balneabile per un collettore fognario che non funziona ed è paradigmatico del quartiere, simbolo di una bellezza e speranza negata, tranciata”, dice Antonella Di Bartolo, da quasi dieci anni combattiva e, come lei stessa dice, “visionaria” preside dell’Istituto comprensivo statale Sperone-Pertini, sette plessi per 1.300 alunni, dalla materna alla media. Lei non si arrende: “È compito di tutte le istituzioni fare alzare la testa a questi bambini senza voce, chi vive qui non deve rassegnarsi a camminare a testa bassa”. È lei che ha voluto che questi murales, a partire dal primo “Sangu e latti” (“Sangue e latte”) che ritrae una madre che allatta il figlio, fossero realizzati sui muri delle case popolari e non dentro la scuola. Gli arresti, le immagini dei bambini che spacciano sono stati un pugno nello stomaco: “Non immaginavo che fossero così coinvolti. Il contrario della cura che racconta l’immagine della madre che allatta il figlio. Quei bambini avevano frequentato la nostra scuola ma non erano in situazione di dispersione scolastica, la scuola da sola non basta”. Un’area senza negozi, marciapiedi calpestabili, parchi, aree gioco per bambini, senza un asilo, a fronte di tremila che ne avrebbero bisogno, con molte strade trasformate in discariche. “Lo Sperone è abbandonato, negletto e marginalizzato con un’economia malata e una normalità distorta dove il diritto è percepito come favore. Su questo si basa la mafia, su questo vince. Non assolvo chi si dedica ad attività illecite, ma questo quartiere al momento non offre altro”, racconta la preside. La presenza è potenza, la mafia lo sa: “A mancare sono le istituzioni. Basta visite una volta ogni tanto, in auto blu, e basta guardare a questi quartieri con il perbenismo di chi si sente lontano”. Serve una presa di coscienza e un intervento nazionale: “La devianza non un problema locale, perché la criminalità si irradia e dove c’è illegalità non c’è democrazia”. Antonella Di Bartolo ha scelto questa scuola seguendo l’esempio di padre Pino Puglisi, il prete di Brancaccio ucciso dalla mafia nel 1993: “Un bagno doloroso di realtà che mi ha aperto gli occhi sulla vita, cambiandomi profondamente”, racconta. Da quando è arrivata, la dispersione scolastica è scesa dal 27 per cento (“un dato grave vissuto come normale”) al 3 per cento ed è stata aperta una scuola materna, l’Istituto è passato da 4 a 31 classi. “Un asilo e un parco dove far volare gli aquiloni”: i piccoli cittadini dello Sperone sanno cosa vogliono e lo hanno espresso con alcuni disegni che sono diventati un progetto grazie al workshop Lab Sperone Children promosso dall’Istituto Sperone-Pertini, dall’Ordine degli architetti e dal Comune di Palermo. Un progetto per far rinascere la “casa degli orrori”, come la chiamavano i ragazzi, il rudere di un asilo costruito negli anni Settanta e mai entrato in funzione, un luogo di spaccio e prostituzione, abbattuto tre anni fa. Il progetto è stato consegnato al Comune il 6 maggio del 2019, cosa ne è stato? “Abbiamo realizzato un progetto esecutivo e partecipato a un bando della Regione che finanziava asili nido”, risponde il sindaco di Palermo Leoluca Orlando: “Per farlo realizzare in tempi veloci abbiamo ideato un prefabbricato ecosostenibile e innovativo ma la Regione ha considerato il prefabbricato un elemento negativo”. Non resta che l’Europa: “Vogliamo fare l’asilo e sistemare l’area circostante con i fondi previsti dal Pnrr. Serviranno, credo, due anni”. I piccoli cittadini aspettano: una fiducia preziosa, da non tradire. Lo Sperone può salvarsi, ne è convinta Di Bartolo: “Ma per farlo questi bambini devono graffiarci dentro, come se fossero figli nostri”. Foggia. Detenuto 36enne suicida in cella, avrebbe terminato la pena a giugno La Repubblica, 24 aprile 2022 Un detenuto di 36 anni, P.S., di origini lucane, si è suicidato nel carcere di Foggia impiccandosi con i lacci delle sue scarpe mentre gli altri detenuti erano usciti dalla cella per l’ora d’aria. Ne dà notizia una nota del Sappe, il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria. L’uomo, detenuto a Foggia da qualche mese e forse con problemi psichiatrici, riferiscono sempre dal Sappe, avrebbe finito di scontare la sua pena a giugno prossimo. Il sindacato denuncia, oltre al sovraffollamento del carcere e alla mancanza di agenti, “una carente assistenza ai detenuti con problemi psichiatrici”. Frosinone. Impiccava i compagni di cella: “Ergastolo per il serial killer delle carceri” di Clemente Pistilli La Repubblica, 24 aprile 2022 La procura ha chiesto il carcere a vita per Daniele Cestra, 44enne di Sabaudia. È accusato di aver ucciso due detenuti e sospettato di altri due omicidi avvenuti sempre dietro le sbarre. Per mesi, all’interno del carcere di Frosinone, si è aggirato un serial killer. Un detenuto, che stava scontando una pena proprio per omicidio, si è trasformatosi dietro le sbarre in un assassino seriale, uccidendo i compagni di cella e poi simulandone il suicidio. Dopo un’istruttoria durata due anni e mezzo il pm Vittorio Misiti si è convinto sempre di più della sua ipotesi e per Daniele Cestra, 44enne di Sabaudia, ha chiesto alla Corte d’Assise del Tribunale di Frosinone la condanna all’ergastolo. L’imputato, dopo una vita randagia costellata di qualche piccolo reato, durante un furtarello in un’abitazione a Borgo Montenero, nel Comune di San Felice Circeo, nel 2013 uccise la proprietaria della casa, Anna Vastola, di 81 anni. L’anziana sentì dei rumori e all’improvviso si trovò davanti Cestra, che stava rovistando tra armadi e cassetti. La 81enne iniziò ad urlare e il ladro la colpì a morte con una pala, scappando con un bottino misero. I carabinieri lo arrestarono e per quell’omicidio il 44enne venne condannato a 18 anni di reclusione. In carcere però si sarebbe trasformato in un vero e proprio serial killer. Il 17 agosto 2016, a Frosinone, venne trovato impiccato il compagno di cella dell’imputato, l’anziano Giuseppe Mari, di Sgurgola, piccolo centro della Ciociaria, e il 24 marzo dell’anno precedente era stato trovato nelle stesse condizioni un altro detenuto, il 60enne Pietropaolo Bassi, che ugualmente divideva la cella con il pontino. Per il sostituto Misiti, che inizialmente aveva sospettato che Cestra fosse responsabile anche di altri due morti e di un tentativo di avvelenamento, a uccidere i due detenuti fu l’imputato. Una convinzione maturata soprattutto alla luce della consulenza medico-legale compiuta dalla dottoressa Daniela Lucidi e dalla testimonianza di un detenuto, a cui il 44enne avrebbe confessato: “Tanto ne ho ammazzati tre e faccio anche questo che è il quarto”. Il prossimo 13 giugno parleranno i difensori di Cestra, gli avvocati Angelo Palmieri e Sinuhe Luccone, e poi verrà emessa la sentenza. Viterbo. Detenuto trovato impiccato in cella, al via il processo al dirigente sanitario tusciaweb.eu, 24 aprile 2022 Morte in carcere di Andrea Di Nino, al via il processo col rito abbreviato al dirigente di Mammagialla che ha chiesto di essere giudicato col rito alternativo che in caso di condanna prevede lo sconto di un terzo della pena. Quattro gli indagati per omicidio colposo finiti davanti al gup, dopo la richiesta di rinvio a giudizio da parte della procura della repubblica di Viterbo. Parti civili i familiari del detenuto 36enne romano trovato cadavere nella sua cella, dove si è impiccato la sera del 21 maggio 2018, che ha lasciato una compagna e 5 figli. L’unico degli imputati ricorso a un giudizio alterativo, difeso dall’avvocato Marco Russo, è comparso giovedì davanti al giudice Giacomo Autizi. La discussione è stata invece rinviata al 9 maggio, quando, salvo imprevisti, sarà decisa la sorte giudiziaria di tutti e quattro. I pm Stefano D’Arma e Michele Adragna in quella data avanzeranno le loro richieste, dopo di che toccherà ai legali di parte civile e alle difese. Di Nino, al momento in cui fu rinvenuto cadavere, verso le 22 del 21 maggio di quattro anni fa, era in carcere da due anni per possesso di stupefacenti. Si è suicidato in cella di isolamento del penitenziario da dove sarebbe uscito di lì a un anno. I familiari sono convinti che non si sarebbe mai potuto suicidare. In primis perché gli mancava un anno alla fine della pena ed era convinto che sarebbe uscito anche prima. E poi perché dalle lettere che scriveva ai suoi cari, era evidente il desiderio di viversi appieno la famiglia una volta uscito dal carcere. “Ho voglia di spaccare il mondo” scriveva il 36enne. Due mesi dopo stessa sorte è toccata ad Hassan Sharaf, il 21enne egiziano per il quale è in corso un procedimento a carico di due agenti della polizia penitenziaria e c’è un’inchiesta ancora aperta per istigazione al suicidio, avocata a dicembre dalla procura generale di Roma dopo la richiesta di archiviazione della procura della repubblica di Viterbo. Trento. Carcere, un’altra perdita: lascia la direttrice sanitaria di Marzia Zamattio Corriere del Trentino, 24 aprile 2022 Carcere, Zanella (Futura): quando la nuova nomina? Ferro: rientra nella riorganizzazione dell’Azienda. Carcere di Spini, si è dimessa la direttrice sanitaria. Con la carenza di organico e una direzione a scavalco con Bolzano, Zanella (Futura) chiede lumi alla Provincia. Sindacati preoccupati. Non c’è pace per il carcere di tempo. Da qualche settimana, ma la notizia arriva solo ora con l’interrogazione di Paolo Zanella consigliere provinciale di Futura che ha raccolto le preoccupazioni del personale sanitario del carcere di Spini, manca un responsabile alla direzione sanitaria dell’istituto. Il ruolo coperto dal 2016 dalla dottoressa Chiara Mazzetti, responsabile di struttura semplice per la medicina penitenziaria, resta vuoto per le sue dimissioni. “Per un clima non sereno” dice Zanella. “Per un progetto diverso nel quale è impegnata” secondo l’Azienda sanitaria. Che, a fronte della mancanza di una figura così importante, oltre alla carenza di medici e educatori (che si sommano a quella delle guardie, oltre il 30% in meno in un carcere con la direzione a scavalco con Bolzano), assicura: “La situazione è gestita dall’Azienda nell’ambito della riorganizzazione - spiega il direttore Antonio Ferro - abbiamo affidato la fase di transizione, anche con l’individuazione di una nuova direzione, a Simona Sforzin”, direttrice Area cure primarie. Ma c’è preoccupazione da parte dell’Uspp, l’Unione sindacati di polizia penitenziaria: “Le dimissioni non sono mai belle e destabilizzano il sistema interno organizzativo - spiega il segretario del Triveneto, Leonardo Angiulli - non entriamo nel merito della decisione ma auspichiamo che ci sia al più presto la nomina di una figura così importante”. Ed esprime apprensione per il già precario equilibrio dovuto alla carenza di organico e il conseguente surplus di lavoro per la polizia penitenziaria. Nota positiva, l’arrivo entro l’anno di 30 guardie “ringraziando Fugatti”. Numeri che si aggiungono ma non raggiungono le richieste e mantengono la casa circondariale di Trento in una situazione gestionale difficile. Come ricorda anche Zanella, nella sua interrogazione al governatore Maurizio Fugatti e all’assessora alla salute Stefania Segnana, “nel carcere di Spini esiste un quadro di carenza di personale preoccupante”. Oltre alle guardie, 150 anziché 227, tarate sui 240 detenuti che invece sono oggi 330 (il 10% con disturbi psichiatrici), vi sono 3 educatori anziché 6, e se sono 14 gli infermieri operanti, mancano i medici, dei quali uno si è già dimesso e un altro non rinnova il contratto. A fronte di queste carenze, Zanella ricorda il ruolo importante della responsabile della Struttura semplice di medicina carceraria, “coperto dalla dottoressa Mazzetti figura storica del carcere che ha contribuito alla riorganizzazione e al potenziamento del servizio sanitario carcerario, il cui operato - sottolinea - si è contraddistinto per un’elevata tensione di ruolo nella presa in carico dei detenuti con problemi di salute”. Con il rischio, riflette Zanella,”che in questa società dove tutti devono sopravvivere a rimetterci ci siano sempre le persone più fragili”. Nell’interrogazione chiede: il motivo delle dimissioni e i tempi per la sostituzione della responsabile, quanti medici operano nel carcere rispetto al numero richiesto e se garantiscono la copertura h24, poi per i detenuti psichiatrici i tempi per l’avvio del centro diurno per la presa in carico di queste persone e il direttore. “Che non sia più a scavalco, vista la situazione complessa”. Rovigo. Carcere più grande con una nuova ala per 120 detenuti di Francesco Campi Il Gazzettino, 24 aprile 2022 Va avanti il progetto per la realizzazione della nuova ala da 120 posti del carcere, che attualmente ha una capienza regolamentare di 208 posti. A sottolinearlo, una nota diffusa dal ministero delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili nella quale si dà conto della “costruzione di un padiglione modello per detenuti adulti, in ampliamento dell’esistente casa circondariale di Rovigo per la quale è stata affidata la progettazione di fattibilità tecnico-economica”. Una nota analoga, lo stesso giorno, è comparsa anche sul sito del ministero della Giustizia. “Nel Veneto è prevista, fra gli altri interventi, la costruzione di un padiglione modello per detenuti adulti, in ampliamento della casa circondariale di Rovigo, per un importo di circa 15 milioni”. In realtà, la spesa prevista è di circa 10 milioni perché si tratta, come si legge nell’apposita scheda del Senato, di un investimento complessivo da 84 milioni “per la costruzione di otto padiglioni di detenzione, tra cui sale e spazi di riabilitazione”, entro il 2026, con l’obiettivo “di ampliare il patrimonio immobiliare penitenziario al fine di migliorare la qualità dell’esecuzione della pena nel trattamento dei detenuti, favorendo le attività lavorative, contrastando sovraffollamento e recidiva, garantendo una ricettività che garantisca le condizioni di sicurezza e salute di tutti i settori della vita di detenzione all’interno di strutture a vocazione riabilitativa e a costo energetico quasi zero”, il tutto finanziato con i fondi del Pnrr. Per il momento, quindi, l’unico investimento certo al 100 per cento in Polesine del Piano nazionale di ripresa resilienza sembra essere proprio l’ampliamento della casa circondariale inaugurata il 29 febbraio 2016. Fra l’altro, dal 2019, due sezioni detentive per un totale di circa cento posti sono state destinate al circuito dell’Alta sorveglianza, As3, ovvero alla reclusione di persone che hanno commesso reati legati alla criminalità organizzata. L’ampliamento è stato inserito nel programma di edilizia penitenziaria relativo al triennio 2020-2022, con un quadro economico di 10,122 milioni. E già il 2 settembre 2020 è stato appaltato il “Servizio di verifica preventiva finalizzata alla validazione dei progetti definitivi ed esecutivi. Primo lotto funzionale Padiglione 1 ovest” alla ditta di certificazioni e controlli per le costruzioni di Milano Icmq., per l’importo di 38.125 euro al netto dell’Iva, corrispondente a un ribasso del 72,20% sulla base di gara. Come ha spiegato lo scorso giugno il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto in audizione alla Commissione Bilancio del Senato, “il fondo complementare del Pnrr, alla lettera G, prevede 132,9 milioni di euro, dal 2022 al 2026, per la costruzione e il miglioramento di padiglioni e spazi per le strutture penitenziarie per adulti e minori, una prospettazione complessiva che tiene conto anche dei fondi per i lavori di ristrutturazione di quattro istituti per minori. Il soggetto attuatore dei progetti sarà il Mit”. Per quanto riguarda gli istituti per minori, si tratta di quelli di Roma, Torino, Benevento e Bologna, con una spesa complessiva di 48,9 milioni. Curiosamente Rovigo ospiterà a sua volta anche un carcere minorile, per il quale sono già in corso i lavori nell’ex sede del carcere di via Verdi, a fianco del Palazzo di Giustizia. Per quanto riguarda i nuovi padiglioni per adulti, nel gennaio 2020 è stata nominata una Commissione per l’architettura penitenziaria, presieduta dall’architetto Luca Zevi, con il compito di realizzare predisporre un progetto da utilizzare come “modello architettonico” per riqualificare le strutture penitenziarie. Il “format” presentato ha un costo complessivo stimato in 10,5 milioni, dei quali 7,5 per i lavori, 225mila euro per gli oneri di sicurezza, 600mila per gli oneri di progettazione e 2,25 milioni per altre voci. Gli otto siti individuati oltre a Rovigo, sono quelli di Vigevano, Viterbo, Civitavecchia, Perugia, Santa Maria Capua Vetere, Asti e Napoli Secondigliano. Catania. Il primo accordo per la tutela dei minori ucraini fuggiti dalla guerra di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 aprile 2022 Protocollo d’intesa tra il Tribunale dei minori e Save the Children. È il primo del genere in Italia. Parliamo del protocollo d’intesa tra il tribunale per i minorenni di Catania e Save the Children, volto a proteggere, tutelare e sostenere bambini, bambine e adolescenti che scappano dal conflitto in Ucraina, così come tutti i minori migranti soli e quelli a rischio di esclusione sociale e marginalità. L’accordo, siglato dal presidente del Tribunale per i minorenni di Catania, Roberto Di Bella, e dalla direttrice dei Programmi Italia Europa di Save the Children, Raffaela Milano, avrà durata biennale e si svilupperà attraverso l’implementazione dell’orientamento socio legale e dell’assistenza alle persone in difficoltà, con particolare attenzione ai minori stranieri non accompagnati e a quelli a rischio di sfruttamento, abuso ed esclusione sociale. Il supporto informativo e l’orientamento socio legale saranno rivolti anche a tutori volontari, operatori di comunità e alle altre figure adulte di riferimento. L’ong supporterà inoltre il Tribunale, su richiesta, nella mediazione culturale attraverso il servizio Helpline multilingue di Save the Children stesso, gratuito, e verrà garantito un servizio online con una mail dedicata, attraverso il quale potranno essere raccolte le richieste di assistenza e di aiuto. “La collaborazione con Save the Children, che rappresenta una precedente assoluto nella tutela dei minorenni stranieri non accompagnati, soprattutto per quelli provenienti dalle zone di guerra dell’Ucraina, rafforza l’azione del tribunale per i minorenni a tutela dei minori in condizioni di disagio e consentirà di apprestare forme di tutela sempre più efficaci e rispondenti alle esigenze di chi si trova in difficoltà. Peraltro, le sinergie previste dal protocollo si pongono in linea con la direttrice operativa fissata dal Tribunale per i minorenni di Catania e dalla Prefettura di Catania, nell’ambito dell’accordo tra pubbliche amministrazioni che istituisce l’Osservatorio prefettizio sulla condizione minorile nella città metropolitana. Il contrasto alla povertà educativa e al fenomeno della dispersione scolastica, con l’ausilio delle strutture operative e delle professionalità di Save the Children nei quartieri a rischio della città, diventerà più incisivo. Un altro tassello importante è stato aggiunto. La sinergia tra il settore pubblico e il privato sociale qualificato è la strategia vincente”, ha dichiarato il presidente del Tribunale per i minorenni, Roberto Di Bella. Questo accordo prevede anche la realizzazione di un intervento sperimentale di prevenzione e contrasto alla povertà educativa e alla dispersione scolastica nel quartiere di San Giovanni Galermo, in collaborazione con la rete territoriale dell’ong relativa ai progetti sul campo. “È uno dei punti innovativi dell’intesa. Di fatto Save the Children si impegna a facilitare e supportare la presa in carico integrata dei bambini, bambine e adolescenti in collaborazione con i servizi sociali e le altre agenzie educative, in primis la scuola, contribuendo alla definizione di piani educativi personalizzati, all’accompagnamento in percorsi che promuovano l’accesso a opportunità educative e sociali, favorendo azioni di orientamento e riorientamento consapevole ai fini della prosecuzione dei piani formativi e prevedendo l’erogazione di doti educative. In una situazione così complessa è fondamentale unire gli sforzi e rafforzare la collaborazione, tra istituzioni e organizzazioni civiche, per affermare i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza”, ha dichiarato Raffaela Milano. L’accordo stipulato prevederà anche delle azioni di supporto alle famiglie, ai cittadini e cittadine individuati dalle Autorità competenti, che si impegnino a supportare bambini, bambine ed adolescenti che vivono particolari situazioni di disagio e marginalità, finalizzate alla loro inclusione sociale e crescita culturale, attraverso attività educative. Sono 110 i minori ucraini non accompagnati arrivati nel territorio etneo, 1 su 16 di tutti i bambini e gli adolescenti in fuga dalla guerra arrivati soli in Italia (1.764 al 13 aprile secondo dati del Ministero dell’Interno). Ampliando lo sguardo, la Sicilia si conferma la prima regione per accoglienza dei minori migranti soli, ospitando 2.712 bambini e adolescenti, il 22,7%, poco meno di un quarto del totale presente nel nostro Paese (erano 11.937 al 31 marzo nel sistema di accoglienza italiano). L’accordo tra il tribunale per i minorenni catanese e Save the Children, serve per tutelarli. Mondovì (Cn). Storie dal carcere per gli studenti del Liceo delle Scienze Umane targatocn.it, 24 aprile 2022 Uno spettacolo teatrale andato in scena in Sala Ghisleri ha concluso il progetto realizzato in collaborazione con la Casa di reclusione di Saluzzo. Una sala Ghislieri gremita di studenti e studentesse, all’occorrenza silenziosi e all’occorrenza travolti da risate irrefrenabili. Perché, parafrasando, “una risata ci seppellirà” e ci metterà di fronte alla cruda realtà, alle debolezze della società e delle nostre esistenze, ricordando l’importanza della dignità di ogni singolo essere umano. È questo insieme a molto altro che rimane dopo il progetto “Carceri”, curato dal Liceo delle Scienze Umane di Mondovì, coordinato dalla professoressa Monica Daziano e concluso questa mattina (23 aprile) con uno spettacolo teatrale, dal titolo “La scuola”, realizzato da detenuti ed ex-detenuti della Casa di Reclusione di Saluzzo, in collaborazione con la compagnia teatrale “Voci erranti”. La prima attività del progetto ha preso avvio in classe dal commento del contenuto del libro “Il bosco, buonanotte” redatto da padri detenuti a Saluzzo con l’educatrice Grazia Isoardi, la quale con empatia ed entusiasmo ha accompagnato tutte le iniziative che il Liceo delle Scienze Umane ha voluto proporre ai suoi allievi. La seconda fase del progetto ha previsto la visita alla Casa di reclusione di Saluzzo. La proposta finale è avvenuta in sala Ghislieri, a Mondovì. Lo spettacolo, in parte ispirato al celeberrimo scritto di Don Milani, “Lettera a una professoressa”, ha raccontato la storia e le storie di chi il carcere lo conosce, lo ha conosciuto e nonostante tutto è riuscito a trarne un’esperienza di crescita e soprattutto di riscatto umano e sociale, grazie all’istruzione, grazie al saper fare, grazie al teatro. Il tutto condito da una comicità travolgente, ironica e proprio per questo antifrastica: in grado cioè di rappresentare in modo “leggero”, ma non superficiale, cosa vogliano dire pregiudizi, etichette e quanto sia importante parlare di scuola, di complessità, di recupero, nel nostro che fortunatamente è uno stato di diritto. Ancora più emozionante, forse, la seconda parte della mattinata, durante la quale alcuni dei protagonisti hanno deciso di raccontarsi con trasparenza e umiltà, senza alcun tentativo di vittimizzazione, ma con la voglia di dire “ce l’ho fatta”. Perché tutti gli uomini hanno la possibilità di trovare quella luce dentro di loro, che possa consentirgli di essere persone migliori. Il punto è fare in modo che quante più persone abbiano questa possibilità. “I racconti, unici e profondi - commenta la professoressa Daziano - hanno svelato in modo progressivo vissuti personali atti non solo a soddisfare la curiosità, ma a sostenere la forza della responsabilità personale per il benessere e il riscatto sociale proprio e degli altri”. Volterra (Pi). Tornano le “Cene Galeotte”, preparate e servite dai detenuti Il Tirreno, 24 aprile 2022 Il progetto è stato ideato dalla direzione della Casa di Reclusione di Volterra e dalla parrocchia di Bibbona, il ricavato sarà devoluto in beneficenza. È partito il conto alla rovescia per il prossimo appuntamento con le Cene Galeotte, dopo una pausa di 2 anni legata all’emergenza sanitaria da Covid-19. Sabato 30 aprile, infatti, l’area dell’antico frantoio nelle Fonti di Bacco sarà teatro, sulle note della Filarmonica G. Pucini di Bibbona, dell’iniziativa solidale nata dalla collaborazione tra l’amministrazione comunale, la Casa circondariale di Volterra e la parrocchia di Bibbona. L’intero ricavato della cena sarà, infatti, devoluto alle associazioni di volontariato La Rocca di Bibbona e Mondo Nuovo di Volterra, come per il 2017 e il 2018, quando furono donati un defibrillatore all’amministrazione comunale e una serie di strumenti didattici all’asilo nido “Il Grillo parlante”. I detenuti della casa circondariale hanno già reso noto il menù della cena: aperitivo con cartoccio di verdure fritte e selezione di formaggi con confettura, paccheri primavera con carciofi e baccelli, grigliata mista con contorno e dolce a sorpresa. Le Cene Galeotte sono il risultato di un progetto di reinserimento sociale, un momento importante per i detenuti, in particolare per quelli in semilibertà, i quali avranno modo di stabilire un contatto con il territorio non solo dal punto di vista lavorativo ma anche e soprattutto sociale poiché molti di loro hanno instaurato amicizie e relazioni sociali, un’opportunità importante per ripartire con le loro vite. Restano, dunque, ancora pochi giorni per prenotare un posto al numero 0586.677581: l’Ufficio turistico risponderà dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 13. Quello delle ‘Cene Galeotte’ non è l’unico appuntamento in programma con la Casa circondariale di Volterra: il 10 agosto, in occasione della notte di San Lorenzo, i detenuti accoglieranno i loro ospiti in una notte suggestiva all’interno del Parco naturale della Macchia della Magona. L’esperienza è legata al carcere come luogo in cui incontrarsi, stare insieme e parlare di cultura, di una cultura legata alla riscoperta di antichi sapori dal gusto vagamente esotico e speziato. Così è nata l’idea, poi tradotta in un apposito progetto, di avviare, all’interno della Fortezza, una stabile collaborazione con Slow Food, organizzando delle serate a tema ove gli ospiti della casa di reclusione preparavano le singole portate, utilizzando i prodotti portati da Slow Food, e illustravano agli invitati le ricette legate alle più antiche tradizioni regionali e dei paesi di provenienza dei cuochi. “Falcone fu chiamato Batman, lo sceriffo, il giustiziere. Anche così cominciò la sua fine” di Teresa Ciabatti Corriere della Sera, 24 aprile 2022 Il nuovo romanzo di Roberto Saviano “Solo è il coraggio” (Bompiani) riesce di nuovo - come “Gomorra”, come “La paranza dei bambini” - a spostare l’immaginario collettivo. Restituisce una realtà complessa, molto più complessa di come l’abbiamo creduta fin qui. Nel caso specifico: Falcone, il pool antimafia, e il Maxiprocesso. Saviano lo fa mettendo in fila fatti (che a oggi nessuno aveva allineato con tanta precisione, eliminando gli intervalli di tempo che hanno sfumato sentimenti e colpe). Attraverso il montaggio dunque, e attraverso la letteratura lo scrittore racconta una storia nuova. Indaga il privato, ovvero “lo spazio intimo dove ci si muove al riparo dai pubblici sguardi”. Lì “dove maturano le scelte cruciali, si prova il dolore più profondo, si gioisce dell’ebbrezza più piena”. E ancora: “Ciò che la letteratura può fare per testimoniare la solitudine e il coraggio”. Quanti anni aveva lei il 23 maggio 1992? “Tredici”. Cosa ricorda di quel giorno? “Il silenzio. Davanti alla televisione che dava la notizia della strage, ricordo che nessuno parlava: mio padre, mia madre, le zie. Fuori la stessa cosa, uscendo dal portone si sentivano solo le tv, nessuna voce”. Insolito? “Qualcosa del genere, il palazzo che produce un unico suono, era successo per il Mondiale di calcio. In seguito, per la faida di Secondigliano, quando le persone - sintonizzate sulle radio locali che davano Napul’è di Pino Daniele - aprirono le finestre. Il modo per dire alla faida di fermarsi”. Perché un romanzo su Falcone? “La sua figura mi ha insegnato a leggere il potere, la semantica del potere, quanto Max Weber”. Corleone 1942... “Il libro inizia e finisce con una bomba. Lungo la storia ci sono tante esplosioni, l’idea è quella di una guerra civile costante. La bomba iniziale riguarda Totò Riina che vede morire il padre e un fratello nell’esplosione di un residuo bellico che stanno disinnescando per rivenderne i pezzi. Un altro fratello rimane gravemente ferito. Totò ha dodici anni: fra quelli presenti è l’unico rimasto illeso, insieme alle donne della famiglia Riina che sono in giro per il paese”. Lei fa dire a Buscetta: “Che gli vuoi insegnare la diplomazia, a uno che gli è saltata in aria la famiglia davanti agli occhi”. È davvero Riina il più feroce? “Riina non risparmia nessuno. Casomai ammazza uno in più, mai uno in meno. Con Bontate, Badalamenti e Liggio al vertice della cupola ancora era possibile qualche forma di mediazione. Le guerre andavano evitate, ai mafiosi come allo Stato. La mafia doveva esistere all’interno dello Stato, aiutarlo, se c’era una reciproca convenienza. Viceversa con Riina e Provenzano il mondo intero è in pericolo: mafiosi, magistrati, poliziotti, testimoni, politici”. Il passaggio dai palermitani ai corleonesi? “Riina si estende con la violenza, non rispetta le regole degli omicidi, uccide chiunque”. Un esempio? “Totuccio Contorno, guardaspalle del boss Stefano Bontate, sapendo che è sotto tiro dei corleonesi, decide di portarsi in macchina un amichetto di suo figlio”. Motivo? “La legge della vecchia mafia voleva che con un bambino al seguito nessuno potesse essere ucciso”. Invece? “I corleonesi se ne fregano. Ma Contorno capisce l’agguato in anticipo, vedendo un uomo affacciato al bancone, come in attesa di qualcosa, e poi un altro ancora. Allora spinge il bambino fuori dalla macchina, esce, spara e fugge. A quel punto la guerra è di tutti contro tutti”. Dall’altro lato, a cercare di fermarli? “Un gruppo di magistrati, prima sotto Rocco Chinnici, poi sotto Nino Caponnetto - la nascita del pool vero e proprio”. Il metodo d’inchiesta di Giovanni Falcone? “Falcone lo impara da Rocco Chinnici e lo migliora. La regola di seguire i soldi, follow the money, è un esempio del metodo Falcone. Chinnici desume le verità, Falcone trova le prove”. Nel libro è ribadita l’importanza del lavoro di gruppo, quel “più persone sanno meglio è”... “Prima di Falcone indagini e processi erano separati per territori. La teoria che andava per la maggiore era che la mafia non esistesse, che non ci fosse un’organizzazione vera e propria e che si trattasse piuttosto di quattro contadini impegnati a farsi giustizia tra loro”. Altro principio di Falcone: il senso della staffetta... “Più che un principio era una maledizione. Non si faceva in tempo a finire un’indagine, che si veniva ammazzati: questo mi ha suggerito l’immagine di un uomo che corre e che riesce a consegnare il testimone a quello che sta davanti a lui appena prima di cadere. All’altro, purtroppo, toccherà la stessa sorte, e così via. Quella di Chinnici, Falcone, Borsellino è una scelta individuale che nasce anche dal dovere nei confronti dei colleghi e amici che li hanno preceduti. Nessuno voleva essere un eroe. Falcone parlava di compito. Considerava la sua una consegna”. La vera svolta è l’arresto di Buscetta? “Senza Buscetta non si sarebbe saputo neanche che la mafia si chiamava Cosa Nostra”. Il significato di Cosa Nostra? ““Occupati di ciò che è tuo”, concetto che implica un giudizio sugli altri considerati in base a come si sono comportati con te. Non valgono le voci, la giustizia. L’unica domanda di fronte a una persona è: cosa ha fatto per noi? È stato cosa nostra?”. 10 febbraio 1986: Maxiprocesso... “Subito i boss negano l’esistenza di un’organizzazione. Sostengono che sia colpa dei film se la gente pensa che esiste la mafia, la mafia non esiste. Il boss Michele Greco dice: “Sono i film di violenza e di pornografia”, citando Il Padrino, colpa de Il Padrino” . Il Padrino? “Per loro è un punto di non ritorno, non per un problema d’inchiesta, ma per un problema di immagine: la mafia non era mai stata raccontata così, come una famiglia, come l’insieme di regole di famiglia. C’erano stati film sui gangster, sì, che tuttavia non svelavano niente. Difatti il giorno in cui Coppola va a fare i sopralluoghi a Little Italy gli bruciano le camere, provano in ogni modo a fermare il film”. Tornando al Maxiprocesso... “Riina si presenta così: “Io sono un terza elementare”. Contorno parla in siciliano stretto tanto che sono costretti a chiamare un traduttore. Eppure dialetto non significa ignoranza, cosa che Falcone sa bene. Nelle case di ogni mafioso, a cominciare da Riina, c’è il romanzo I Beati Paoli (di William Galt, pseudonimo del palermitano Luigi Natoli, ndr) che ciascuno di loro ha letto e riletto. Gli uomini d’onore chiamano Contorno col nome del protagonista: Coriolano della Floresta. Lui stesso, storpiandone il nome in “Curiano della Foresta” e dimostrando così di non aver letto il libro, ammette di essere chiamato in quel modo”. Durante il Maxiprocesso gli imputati negano ogni accusa? “Dagli avvocati difensori agli imputati, chiunque cerca di mettersi di traverso. Turi Ercolano, cugino del boss Nitto Santapaola, si presenta con la bocca cucita a colpi di spillatrice. Vincenzo Sinagra fa scattare il metal detector dichiarando di aver ingoiato due chiodi”. Vincenzo Sinagra, colui che fa il racconto più cruento... “Parla della “camera della morte”, un deposito in apparenza abbandonato nella zona sud est di Palermo dove venivano torturate le persone, e poi gettate nell’acido, nella vasca piena d’acido, “diventavano liquidi” racconta”. Intanto sui giornali prende avvio la delegittimazione di Falcone? “Dicono che è un carrierista, che dà spettacolo. Scrivono che il Maxiprocesso è utile ai fini spettacolari, ma dannoso ai fini giudiziari. Sul Corriere della Sera Leonardo Sciascia scrive: “Nulla vale più in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”. Parlano di “un gruppo di giudici presenzialisti che vogliono vedere la propria foto sul giornale”. Falcone resiste? “Da anni, da quando ha iniziato l’indagine, in tribunale viene deriso: “Batman”, “il giustiziere della notte”, “lo sceriffo”. Se va in un ristorante, se esce di casa, il pensiero comune è che sia osceno che uno come lui si diverta. Non è per questo che i cittadini pagano la sua scorta, ma perché patisca e incarni la sofferenza”. Il momento peggiore? “Dopo l’attentato all’Addaura definito poco credibile. Fanno girare la voce che la bomba se la sia fabbricata lui stesso con l’aiuto della scorta. In un’intervista a Corrado Augias, Falcone dice: “Questa è l’Italia: se ti mettono una bomba sotto casa e non muori, sei responsabile”. Al suo fianco, in ogni momento, Francesca Morvillo? “Magistrato a sua volta, e dei migliori, Francesca sapeva bene cosa rischiava Giovanni. Decide di condividerne il destino”. Nel libro emerge la figura di Giulio Andreotti, il suo ruolo apparentemente ambiguo... “Io riporto i fatti, come la telefonata a Falcone dopo l’Addaura. Non si conoscevano, non si erano mai parlati. Andreotti lo chiama per congratularsi dello scampato pericolo”. Andreotti perciò? “Nella ricostruzione tengo aperta la complessità. Di sicuro era in stretti rapporti con Salvo Lima e i cugini Salvo. È pur vero però che fosse contro i corleonesi. Ayala fa notare che Capaci avviene nel momento in cui Andreotti sta per essere rieletto. L’attentato ha il valore di un avvertimento”. Quando decidono di uccidere Falcone? “Ci provano nuovamente nel periodo romano. Un giorno in un bar vedono Renzo Arbore e pensano: peccato che non sia nella lista delle celebrities da ammazzare. Avevano preso di mira anche Pippo Baudo, Maurizio Costanzo, Enzo Biagi, Andrea Barbato, Michele Santoro...”. Il senso? “Ammazzare uno famoso per farsi notare. Per fare rumore e far capire che tutti sono esposti. Poi capiscono che un attentato in Sicilia è maggiormente tutelato”. I mafiosi costruiscono narrazioni parallele ai loro omicidi? “Per l’omicidio di Don Puglisi fanno sapere che raccoglieva droga, sottintendendo che molta se la teneva per sé. Quindi inventano la storia del tossico bruciato in una macchina, facendo credere che sia stato lui a uccidere il sacerdote. Su Ninni Cassarà c’è l’invenzione dei debiti di gioco. In generale la risposta consueta agli omicidi di mafia è che “era un femminaro”. Perché? “L’ossessione dei mafiosi per la monogamia. Riina ha avuto un’unica donna nella vita, la moglie. Così il padre, così il nonno. L’adulterio è una prova: se tradisci tua moglie, puoi tradire anche gli altri. Fino agli anni Settanta c’erano condizioni precise per poter diventare affiliato: non essere iscritto al partito comunista, non essere iscritto al partito socialista, non essere gay, non avere i genitori divorziati, non tradire, non andare a prostitute”. Buscetta è diverso? “Amavo troppo la vita per stare a queste regole” si giustifica. Ha avuto tre mogli, nove figli di cui due uccisi su ordine di Riina. Durante una festa in Brasile, l’ultima moglie lo vede flirtare con un’altra donna, e gli spacca una bottiglia in testa”. Esiste un’estetica criminale? “Anche questa ha le sue leggi. Prendiamo l’unghia del mignolo lunghissima, a triangolo: quella comunica che in carcere non rassetti, non cucini, non ti fai la barba, ma qualcuno lo fa per te”. Altro? “I pantaloncini sono malvisti. Nel momento in cui Liggio prova ad attaccare Buscetta dice: “Io non vorrei scoprire il culetto a nessuno, ma Buscetta venne in pantaloncini corti a dirmi...” e lo accusa di avergli detto del famoso Golpe Borghese di cui racconto nel libro. Il dettaglio dei pantaloncini è fondamentale per screditarlo”. Ulteriori oggetti o comportamenti giudicati male? “Niente ombrello, niente trolley, il trolley ti rovina la reputazione. Devi bagnarti, e avere il borsone a tracolla. Il capitano dei carabinieri settentrionale che a Casal di Principe va in caserma in bicicletta, viene richiamato. Gli chiedono di non usare la bicicletta, lui pensa per una questione di sicurezza, invece: “La gente vi vede che siete venuto a prendere Sandokan in bici” spiegano. Costituiva un segno di debolezza, qualcosa da femmina”. I film su camorra e mafia possono sviare qualcuno (come sosteneva Michele Greco per Il Padrino)? “Nessuno, che non fosse già in un mondo criminale, ha preso le armi e sparato per aver visto un film. Diverso è il discorso mediatico. Se sui giornali trovi titoli come “rapina alla Gomorra”, significa che prima non la vedevi, e ora, dopo aver visto la rappresentazione, la vedi”. Gomorra, al pari de Il Padrino, ha dato fastidio? “Sui muri di Scampia non troverai scritte contro i boss e le famiglie mafiose, ma sempre: “Saviano merda”. La corrispondenza tra Falcone e Saviano nella dimensione intima? “Con i miei anni di scorta so che significa la gestione del proprio corpo quando tutto è vietato”. Cos’è la solitudine? “Falcone sente che la sua è una vita mancata, ha scelto di non avere figli: “Non si mettono al mondo orfani”, dice. Sono poche le persone di cui può fidarsi, molti amici si trasformano in nemici. Un’esistenza di rinuncia, che comunque attira dubbio, sospetto”. Il peso della delegittimazione continua? “Lo capisce Falcone, lo capisce Pasolini: dalla maldicenza, dal fango, solo la morte dà pace”. Nient’altro? “Nient’altro”. Non possiamo non dirci disumani di Flavia Perina La Stampa, 24 aprile 2022 Non voglio vederlo, troppa disumanità, troppa angoscia”. “Non posso crederci, stanno inventando, non può essere vero”. Le due simmetriche reazioni del pubblico della tv e dei social all’incrudelirsi della guerra hanno un dato in comune: la fuga psicologica dalle immagini dei profughi, dei morti, dei torturati, dalle interviste alle stuprate, dalle foto delle bambine mutilate, dai racconti delle mine nascoste nei cadaveri per straziare chi vorrebbe seppellirli, dalle voci degli spauriti soldatini russi che chiamano la mamma piangendo. I Tg perdono spettatori in quote tra l’8 e il 15 per cento, i trend di ricerca su Google su “Guerra Ucraina” sono scesi in un mese da cento a zero: sono quelli del “Non voglio vederlo”, tantissimi. Un’indagine di Ilvo Diamanti quota addirittura al cinquanta per cento gli altri, quelli del “Non può essere vero”, cioè gli italiani convinti che l’informazione sul conflitto sia distorta e pilotata. Tra di loro, uno su quattro va oltre: è sicuro che le immagini e notizie più choccanti siano false o falsificate, che i morti siano attori, che le fosse comuni siano buche piene di manichini, che gli asili bombardati siano un film. Lo specchio deformante - La disumanità ci atterrisce. La rifiutiamo. Non vogliamo vedere il suo effetto sui corpi, soprattutto quando quei corpi assomigliano ai nostri: portano i nostri stessi vestiti, sneakers simili a quelle dei nostri figli, sono bianchi ed europei, siamo noi visti nello specchio deformante dell’inaudito che diventa possibile. Noi, convinti dalla nostra intera educazione e dalla nostra solida cultura post-novecentesca che la disumanità resistesse appena come tara personale e perversione dei singoli, la disumanità quotidiana degli uomini che ammazzano le mogli e i figli, dei caporali che puniscono a bastonate i braccianti pigri, dei papponi che marchiano col ferro da stiro le loro schiave disobbedienti e via scendendo fino gli orrori commessi contro gli animali, fino al gattino o al cagnolino lanciato dal balcone. Noi, che avevamo dichiarata estinta dal nostro orizzonte psicologico la disumanità su larga scala, la ferocia sull’inerme esercitata massivamente. Buoni e buonisti - Quel tipo di disumanità era da tempo roba da celebrazioni a scadenza fissa - la Giornata della Memoria della Shoah, il Giorno del Ricordo delle foibe - largamente metabolizzate perché nessuno sotto gli ottant’anni ne conservava un’esperienza diretta. Addirittura, secondo una parte considerevole della pubblica opinione, il problema dell’Occidente era il contrario: dopo aver domato la disumanità si era arreso a una visione troppo larga del concetto di umanità. Eravamo diventati - si diceva - troppo buoni, buonisti, succubi di un eccesso di attenzione ai principi universalistici, tanto che la stessa natura di quei principi-cardine cominciava a sfuggirci: eroi o indegni, umani o disumani Abram Lincoln o Theodore Roosvelt, statisti-simbolo ma anche interpreti di un’America “troppo bianca”? Umano o disumano il salvataggio in mare dei migranti, che domani incoraggerà altri disperati ad avventure mortali? Umano o disumano, esercizio di coscienza o espediente dell’ipocrisia, l’uso delle “parole proibite” dell’apharteid e della discriminazione? Senza contrappesi - Ci siamo appassionati a quei dibattiti, li abbiamo costruiti e coccolati immaginando che lì si collocasse la nuova frontiera della discussione pubblica sull’umanità e i suoi diritti. Una questione di linguaggio, di revisione storica, di opportunità politica e sociale. Avevamo dimenticato la dimensione autentica della disumanità che poco c’entra con la crudeltà dei singoli o dei gruppi e moltissimo, tutto, con l’esistenza e l’esercizio di un potere assoluto che non teme contraccolpi dagli inermi. Quel tipo di disumanità percorre la storia come un ciclone e ovunque esiste un potere privo di limiti apre un’enorme finestra di rischio per i popoli e per le persone. E’ il generale che crocifigge schiavi da Roma a Capua, uno ogni trecento metri, perché ha il potere di farlo e quel potere è assoluto, non ha confini nella legge né contrappesi nelle istituzioni. E’ la tortura nelle segrete medievali. E’ il diritto di stupro collettivo e di bottino che può arrogarsi ogni esercito invasore. E’ lo schiavista che getta a mare le donne per alleggerire la barca. Sono i bambini deportati. E’ la guerra casa per casa, dove ogni civile diventa preda nella consapevolezza che non ci saranno tribunali, giudici, sanzioni, e se pure ci saranno risulteranno irrilevanti. Il danno della disconnessione - Se cambiamo canale davanti alle immagini dell’ecatombe ucraina, se guardiamo ma rifiutiamo di crederci, succede solo in parte perché il nostro stomaco si è fatto delicato: è il nostro cervello ad aver perso connessione con l’idea del disumano. Non solo davamo per scontato l’umano come valore di riferimento planetario, ma ci eravamo da tempo incamminati oltre le sue colonne d’Ercole, verso il transumano e il post-umano: versioni di noi arricchite dalla tecnologia e dalla scienza, che avrebbero realizzato potenzialità inimmaginabili attraverso la crionica, l’ingegneria genetica, l’intelligenza artificiale, la cibernetica. I corpi erano il nostro bellissimo giardino, l’altare del nostro culto quotidiano, allenati dalla palestra e dalle diete, coltivati dalla chirurgia estetica e dai filler, resi fluidi, modificabili, persino rinnegabili, comunque e sempre nella nostra piena ed esclusiva disponibilità: come immaginarli violati da una scheggia di granata, dalla brutalità di un soldato, o anche solo riarsi dalla fame e dalla sete? Come sopportare il pensiero che siano involucri senza valore, sacrificabili all’avanzata di un esercito? L’exit strategy democratica - Scappiamo dalla tv o la guardiamo pensando “tutte balle” perché questo pensiero è poco sopportabile, e al tempo stesso enormemente impegnativo. Ci dice che la frontiera tra l’umano e il disumano è il solo confine che è obbligatorio difendere, perché se crolla quell’argine cade non solo un sistema sociale, un’economia, un modo d’essere, ma la nostra stessa vita diventa niente: nel migliore dei casi un danno collaterale da registrare nei bollettini. Ci dice anche che il potere assoluto è una bestia, e ogni volta che qualcuno invoca qualcosa di simile - i pieni poteri, poteri senza lacci e lacciuoli, per citare espressioni che sono entrate nella nostra vicenda recente - apre uno spiraglio alla bestia. Tenerla in gabbia, e più lontano possibile dalle nostre case, dai nostri figli, dai nostri corpi, è il compito principale della democrazia e dovrebbe essere lo sforzo quotidiano di ciascuno di noi. La poetessa Candiani: “La pace non è niente senza la giustizia” di Francesca Angeleri Corriere della Sera, 24 aprile 2022 “Non sottovalutiamo le vie sottili. I tibetani dicono che il mondo si tiene in equilibrio perché, nascosti tra le montagne del Tibet, vi sono degli eremiti che recitano preghiere e mantra. Inviare il bene, pregare, sono atti che possono ristabilire gli equilibri. Non dovremmo mai stancarci di fare queste azioni né sminuirle”. Chandra Livia Candiani sarà oggi la protagonista, dalle 14.30 alle 16, della sezione L’anello forte sul palcoscenico della prima edizione delle quattro giornate dal titolo Per le Resistenze organizzate dalla Fondazione Nuto Revelli nella Borgata Paraloup, villaggio della Valle Stura in cui si costituì la banda Italia Libera e che ora ospita un centro culturale a 1.400 metri di quota. Volontà della Fondazione è quella di riflettere sulle nuove Resistenze attraverso i tre temi cui Revelli dedicò la vita dopo la guerra e l’esperienza partigiana: il mondo dei vinti, l’anello forte, i giovani. Candiani, lei non partecipa a molti eventi in pubblico. Che differenza c’è con Paraloup? “Solitamente mi stanco molto. Credo di dire tutto ciò che è per me importante nei miei libri. A Paraloup mi trovo volentieri perché sento la storia di questo posto, la fatica del lavoro e lo sforzo per farlo tornare vivo. Sento anche l’attenzione verso l’ambiente che mi tocca molto. Mentre infuria la guerra, il pianeta continua a scaldarsi ed è un’altra distruzione, quella delle piante, degli animali”. La poesia è Resistenza? “Spero proprio di si. La poesia in sé mantiene viva la vita. Tenere viva la memoria è poesia, saper cucire la propria storia e quella del mondo è poesia. Mantenere acceso il pensiero che non fa addormentare e risveglia gli esseri umani è essenza sia della poesia che della resistenza che della ribellione”. Oggi cos’è Resistenza? “Nel caso di questa guerra tanto vicina, la resistenza è salvare la democrazia con tutte le ambiguità e le ombre che si porta dietro. Non permettere che venga stravolta la propria identità di popolo. Il fatto che un Paese conservi ancora il concetto di popolo è una cosa grande e non so se noi ce l’abbiamo ancora”. Ribellione e resistenza. Che differenza c’è? “La ribellione si trova su un piano individuale. Per me è un compito quotidiano quello di non sottostare a convinzioni che ci tengono addormentati. La prima cosa che muore in guerra è la verità”. Mentre la resistenza? “Si organizza tra tanti che decidono di resistere ai tiranni, ai soprusi, al venire sterminati in quanto considerati diversi. Secondo me si parla pochissimo di giustizia e troppo di pace. Pace è un concetto astratto che non vale niente di per sé se non vi è giustizia. È come una sorta di anestesia”. In che posizione si può porre oggi il pacifismo e come si ritrova lei? “Non lo so, sono in un momento in cui sono vacillante. Certamente sono per la pace, questa è la mia posizione ma sento che non riesco a stare a guardare il massacro di un popolo. Lo dico a titolo personale perché non rappresento nulla in questo momento né la poesia né il buddismo. I miei valori sono quelli della non violenza. Dove si può. Altrimenti diventa passività”. Ci si può sentire dalla parte giusta? “Non so veramente quale sia, il mondo sta crollando da tempo: quante guerre c’erano e fingevamo non stesse accadendo niente? Rispondo a ciò che accade momento per momento, anche l’ambivalenza è una posizione. Vorrei che si fermasse l’eccidio, anche quello dei russi. Ma come? Sono una cittadina qualunque di questo mondo smarrito”. Questo turbamento stimola la scrittura? “Io attendo le parole. Non mi occupo dell’attualità, lascio che diventi storia, almeno dentro di me. Permetto che ciò che accade risuoni, rimbombi in me. Sono nate un paio di poesie sulla guerra. Mi auguro che possano alzarsi e confondere i tiranni”. L’Occidente fa bene a isolare la Russia? Il “partito della pace” contro il “partito della giustizia” di Enrico Franceschini La Repubblica, 24 aprile 2022 Il politologo Ivan Krastev ha scritto sul “Financial Times” che è un errore perché così legittima la crociata antioccidentale di Putin e lo spinge alla creazione di un blocco autoritario con la Cina. Ma è una questione anche di valori, non solo economica. E le sanzioni vogliono fare pressioni sul regime, non criminalizzare i russi. “L’Occidente non ha il potere di isolare la Russia e non è neanche nel suo interesse farlo”. Il monito proviene da Ivan Krastev, noto politologo bulgaro, uno dei fondatori dello European Council of Foreign Relations, autore di libri sull’ascesa del populismo antioccidentale nei Paesi dell’Europa orientale e il fallimento del liberalismo nell’affrontare questo fenomeno. In un lungo articolo pubblicato oggi dal Financial Times, ora il professor Krastev sostiene che, nella loro reazione alla guerra in Ucraina, Stati Uniti ed Europa stanno facendo coincidere l’intera Russia con Putin e sognano di isolarla politicamente, economicamente, culturalmente dal resto del mondo. Un doppio errore, secondo il politologo di Sofia, perché in questo modo si fa un favore a Putin, legittimando la sua crociata antioccidentale, e perché molti Paesi continuano comunque ad avere rapporti con Mosca. Ma è vero che l’Occidente vuole criminalizzare tutta la Russia? Il punto di partenza della tesi di Krastev appare discutibile: le sanzioni economiche occidentali, o l’indagine aperta dalla Corte Penale Internazionale contro Putin per crimini di guerra, non hanno lo scopo di punire o condannare l’intera popolazione russa, bensì di colpire i clan politici ed economici legati al Cremlino per creare dissenso nei confronti della guerra. Nessuno in Occidente vuole fare “scomparire la Russia”, come scrive il politologo sul quotidiano britannico: l’intento è casomai fare scomparire o almeno indietreggiare Putin e il putinismo. Si possono accusare i russi di passività davanti agli orrori dell’invasione? Né sembra convincente l’argomentazione di Krastev che l’Occidente sia rimasto deluso dal “silenzio della società russa” dopo i massacri di cui sono state accusate le forze russe a Bucha e in altre località ucraine. Nessun politico occidentale ha accusato il popolo russo di passività di fronte alle atrocità del conflitto. Al contrario, i media occidentali hanno riportato come la rigida censura di Mosca abbia impedito alla maggior parte della popolazione russa di conoscere la verità sulla guerra, che non può nemmeno essere definita tale, pena 15 anni di carcere. E non è vero che la società russa sia rimasta silenziosa. Il leader dell’opposizione russa Aleksej Navalny, dal carcere in cui deve scontare una pena di 13 anni per le pretestuose accuse di frode che hanno fatto seguito al tentativo di avvelenarlo, ha incitato a proteste quotidiane contro l’invasione dell’Ucraina. Più di 15mila persone sono state arrestate in dimostrazioni di protesta in numerose città. Perfino qualche oligarca legato al Cremlino e la governatrice della Banca centrale russa Elvira Nabiullina hanno criticato la guerra o ammesso che ha conseguenze negative, sia pure con prudenza per evitare di venire anche loro stritolati dall’apparato repressivo del regime. Diversamente da quanto afferma Krastev, nessuno in Occidente ha finora giudicato la Russia come una nazione nel suo complesso “moralmente irreparabile”. Cosa rappresentano in questo contesto il “partito della pace” e il “partito della giustizia”? Il suo intervento mette tuttavia a fuoco un dilemma che con il prolungarsi della guerra diventa sempre più evidente nell’opinione pubblica occidentale: tra quello che il politologo bulgaro chiama “il partito della pace”, definendolo come “coloro che insistono che la priorità per l’Occidente sia fermare le ostilità il più presto possibile, anche a costo di grosse concessioni alla Russia da parte dell’Ucraina”, e “il partito della giustizia”, da lui definito come “coloro per i quali la priorità sia espellere le truppe russe dal territorio ucraino anche a costo di una guerra prolungata”. Un dibattito che si coglie ovunque, anche in Italia, sulle pagine dei giornali, nei talk-show televisivi e sui social media. Si può isolare economicamente la Russia? Anche altri commentatori sottolineano che, nonostante il voto di 143 a 5 con cui l’Assemblea Generale dell’Onu ha condannato la Russia per l’invasione, numerose nazioni, tra cui Cina e India che da sole rappresentano quasi metà dell’umanità, sono rimaste formalmente neutrali e continuano ad avere buone relazioni con Mosca: nei giorni scorsi un’analisi sull’efficacia delle sanzioni economiche occidentali, anch’essa pubblicata sul quotidiano della City, citava il rischio dell’emergere di due sistemi economici e finanziari separati, uno centrato sull’asse Russia-Cina, l’altro sull’asse occidentale. Proprio oggi, a questo proposito, un editoriale del New York Times si chiede se le sanzioni servono, o bastano, a fermare Putin. La guerra mette a rischio gli interessi dell’Occidente? È vero, in sostanza, come dice Krastev, che l’Occidente non è in grado di isolare completamente la Russia e che tentare di farlo comporta un danno anche per gli interessi occidentali. Ma l’Occidente - inteso come il mondo libero e democratico - non ha soltanto degli interessi: ha anche dei valori. Degli ideali, nel nome dei quali è stata combattuta la Guerra fredda, anche in quel caso senza riuscire a isolare completamente la Russia (allora chiamata Urss) e anche in quel caso pagando un prezzo. Se a prevalere nella mentalità occidentale odierna sarà quello che il politologo di Sofia chiama “il partito della giustizia”, lo scontro con Mosca potrebbe diventare altrettanto lungo della Guerra fredda: decenni, a meno che Putin e il putinismo non tramontino prima. Se a prevalere sarà quello che egli chiama “il partito della pace”, una pace in Ucraina da raggiungere in fretta e ad ogni costo, il rischio sarà di avere sacrificato gli ideali della libertà e della democrazia sull’altare della convenienza a breve termine, dando in sostanza una vittoria politica e militare alla dittatura di Putin. In Occidente c’è già stato un dibattito analogo? Sì. L’Europa ha già vissuto un dilemma del genere, alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Durante il cosiddetto “appeasement”, Francia e Gran Bretagna lasciarono che Hitler si prendesse una parte della Cecoslovacchia nella speranza di tenere buona la Germania nazista e di mantenere la pace nel continente: in quella fase vinse per l’appunto il “partito della pace”. Poi Hitler mostrò le sue vere intenzioni e si prese tutta la Cecoslovacchia, facendo cambiare atteggiamento ai Paesi democratici: allora prevalse il “partito della giustizia”, scoppiò la guerra, durò cinque anni e alla fine vinse la democrazia. Con l’invasione russa dell’Ucraina, l’Occidente ha oggi di fronte un dilemma simile. Da un lato chi dice, in nome della pace, che l’Ucraina deve cedere, arrendersi e non mettere a rischio i nostri comfort e le nostre vite. Dall’altro chi crede, in nome della giustizia, che davanti a un’aggressione la pace non significa arrendersi, come ha detto nel suo discorso sul 25 aprile il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.