Voto ai detenuti, Antigone: “L’Italia guardi l’esempio francese, si utilizzi la posta” di Viviana Lanza Il Riformista, 23 aprile 2022 Tra meno di un anno si dovrebbe tornare al voto per le politiche. Il momento delle elezioni è sempre un momento particolarmente delicato quando si riferisce al diritto di voto per chi si trova recluso in carcere. Il tema riapre un antico dibattito, quello sull’interdizione dai pubblici uffici come pena accessoria. Partendo infatti dal presupposto che i diritti civili e politici sono diritti universali e che il diritto al voto sia uno di questi, escludere chi è in esecuzione penale, talvolta anche a distanza di diversi anni dal proprio fine pena, può rappresentare una preclusione all’esercizio di un diritto fondamentale che non trova giustificazioni. Proprio Antigone è stata tra i promotori di una proposta di legge per eliminare dall’elenco delle pene accessorie la privazione del diritto di elettorato attivo. Anche perché, vietare a una persona l’esercizio di un diritto fondamentale non sembra allinearsi con la finalità rieducativa e riabilitativa della pena. La questione poi si allarga se si considera chi è in carcere, senza una condanna all’interdizione e quindi con la possibilità di esercitare il proprio diritto all’elettorato attivo. In questi casi il problema si pone sotto altre prospettive, perché non è sempre semplice garantire l’esercizio del diritto di voto al detenuto coniugandolo con la gestione del detenuto stesso in quanto tale, con tutte le restrizioni e le limitazioni che lo status di recluso comporta. Il discorso è antico ma la questione nuova la pone l’associazione Antigone lanciando una proposta. In sintesi, seguire in Italia l’esempio francese. Quale? Quello del voto via posta. In Francia, in questo periodo, si sta votando per il nuovo presidente della Repubblica. Domenica prossima si terrà il secondo turno delle elezioni. Al primo turno hanno votato circa 10mila detenuti, pari a circa il 15% dei reclusi. Questa ampia affluenza alle urne è stata possibile grazie alla novità del voto via posta. “Una novità - spiegano dall’associazione Antigone - che ha sostituito le precedenti modalità per procura o attraverso la richiesta di uno specifico permesso e che ha incentivato la partecipazione (in passato a votare solo il 2% dei detenuti)”. Di qui la proposta: “Anche in Italia bisognerebbe trovare modalità per incentivare e garantire il diritto al voto delle persone detenute. E sarebbe utile se si riuscisse a farlo per le elezioni politiche del 2023”. Giornata della salute delle donne. Fiume rosa anche in carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 23 aprile 2022 È rivolta anche alle donne detenute l’attenzione di Atena Donna, la Fondazione promotrice dal 2015, insieme al ministero della Salute e in collaborazione con la Fondazione Severino, della Giornata della salute delle Donne, al via oggi in 300 ospedali italiani con un denso programma di incontri e iniziative di prevenzione, come screening e consulti gratuiti. In apertura dell’edizione di quest’anno - che ha come testimonial il tennista Andrea Berrettini e l’attrice Roco Munoz Morales - la presidente della onlus, Carla Vittoria Maira, ha lanciato il progetto ‘Together’ che si svilupperà nei prossimi due anni negli istituti penitenziari italiani, proseguendo quanto già avviato da un protocollo d’intesa, siglato nell’ottobre 2021 dalla presidente Maira e dal provveditore dell’Amministrazione penitenziaria di Lazio, Abruzzo, Molise e Campania Carmelo Cantone. DAP- Carere e salute femminile - Un percorso fortemente sostenuto dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, per mettere al centro, senza barriere, la salute di tutte le donne presenti nelle strutture, sia quante prestano servizio sia le detenute che scontano la loro pena. In attuazione dell’accordo, all’interno degli istituti e delle sezioni femminili si tengono incontri mensili con medici e specialisti su temi riguardanti la prevenzione di varie patologie femminili e, in generale, percorsi di attenzione per favorire il benessere personale e la salute. Il progetto ‘Together’ estende tali opportunità con l’obiettivo di consentire, anche a chi non può recarsi negli ospedali per sottoporsi agli screening durante la Giornata Nazionale, di aderire a iniziative di prevenzione e diagnosi. La ministra Cartabia è anche tra i componenti del comitato promotore per l’istituzione di un Women Hospital, specializzato nella medicina di genere e con uno spazio dedicato alle donne vittime di violenza. Consiglio dei ministri: 1.092 assunzioni per l’esecuzione penale esterna di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 aprile 2022 Le assunzioni sono previste a decorrere dal 2023 e serviranno a potenziare l’Uepe strategico per la riforma del processo. Su proposta della Ministra, Marta Cartabia, sono stati approvati anche interventi riguardanti il comparto giustizia all’interno del decreto legge recante misure attuative del Pnrr, approvato ieri dal Consiglio dei Ministri. Dopo i plurimi interventi per il personale dell’amministrazione penitenziaria - che proseguono in più direzioni, compresa un’accelerazione delle procedure di immissione in ruolo - il Cdm ha autorizzato uno stanziamento di 47 milioni di euro (Giustizia e Funzione Pubblica), per rafforzare la dotazione organica del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del Ministero della Giustizia. Un impegno assunto dal Governo con l’ordine del giorno 9/3424/217, votato dal Senato in sede di approvazione del disegno di legge di Bilancio: rientra tra gli interventi per il conseguimento degli obiettivi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. In particolare, si stabilisce l’incremento di 11 unità della dotazione organica dei dirigenti penitenziari e l’assunzione a tempo indeterminato di 1.092 unità di personale amministrativo non dirigenziale, per rafforzare l’Uepe, Ufficio esecuzione penale esterna, la cui attività è destinata ad aumentare in modo significativo in vista dell’entrata in vigore della riforma del processo e del sistema sanzionatorio penale, che valorizza le pene sostitutive delle pene detentive brevi, compreso il lavoro di pubblica utilità, oltre alla sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato. Le assunzioni sono previste a decorrere dal 2023. Al 31 marzo, risultavano in carico all’Uepe complessivamente 118.012 procedimenti: 71.501 per misure e sanzioni di comunità, a cui si aggiungono 46.511 per procedimenti di indagine richiesti da magistratura di sorveglianza e ordinaria e per le attività di collaborazione al trattamento penitenziario. Alla stessa data, la pianta organica dell’intero Dipartimento prevedeva 1.701 unità di personale. Si prevedono inoltre nel dl disposizioni riguardanti la formazione di dirigenti penitenziari, con l’obiettivo di accelerarne l’immissione in ruolo. Legge elettorale del Csm: nessun sorteggio, nemmeno quello dei collegi di Giulia Merlo Il Domani, 23 aprile 2022 La riforma dell’ordinamento giudiziario è arrivata in aula alla Camera e, dopo qualche minaccia, il suo iter di approvazione sembra destinato a concludersi senza problemi. Il timore era che il fragile equilibrio costruito in commissione fosse di nuovo sul punto di saltare - con nuovi emendamenti presentati dai partiti di maggioranza - invece dall’aula sono arrivati segnali distensivi. Pochi gli emendamenti (da parte della maggioranza, solo un paio della Lega e una quarantina di Italia Viva), il più importante arriva dalla commissione Giustizia: si è tornati, infatti, al testo iniziale approvato dal Consiglio dei ministri sul sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura, abbandonando così il compromesso del sorteggio dei collegi raggiunto dalla maggioranza in sede di commissione. Secondo il nuovo testo, modificato attraverso un emendamento della commissione presentato ieri sera, i collegi verranno scelti con decreto del ministro della Giustizia, sentito il Csm, almeno quattro mesi prima delle elezioni, “tenendo conto dell’esigenza di garantire che tutti i magistrati del singolo distretto di Corte d’Appello siano inclusi nel medesimo collegio e che vi sia continuità territoriale tra i distretti inclusi nei singoli collegi, salva la possibilità, al fine di garantire la composizione numericamente equivalente del corpo elettorale dei diversi collegi, di sottrarre dai singoli distretti uno o più uffici per aggregarli al collegio territorialmente più vicino”. La modifica è stata accolta con favore dalla magistratura associata. Aria di sciopero in Anm - Parallelamente all’iter parlamentare, l’Associazione nazionale magistrati sta ancora ragionando sulla possibilità dello sciopero. Formalmente, la decisione verrà presa il 30 aprile, in occasione di una assemblea straordinaria. La Giunta, però, ha tenuto una conferenza stampa in cui ha spiegato le “buone ragioni” della contrarietà delle toghe alla riforma dell’ordinamento giudiziario. In sintesi, l’opposizione riguarda principalmente il fascicolo delle performance dei magistrati; la riduzione a solo una volta per il passaggio da una funzione all’altra; la gerarchizzazione. Ragioni che sarebbero su due livelli: da un lato c’è il no a norme che “introducono una organizzazione gerarchica che contrasta coi valori costituzionali” e all’utilizzo “della leva del disciplinare per inibire i magistrati”; dall’altro c’è la critica più complessiva a un pacchetto di riforme della giustizia che non risolverebbero il problema della lentezza dei processi. La sensazione finale è che l’Anm sia stata colta alla sprovvista dalle modifiche apportate al testo in commissione. “Credevamo che il testo finale fosse quello emendato dal ministero. Le criticità della riforma sono state enfatizzate dagli emendamenti al testo ministeriale”, ha detto riferendosi in particolare al fascicolo delle performance e alla riduzione a uno dei passaggi possibili dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti. Perchè lo sciopero non venga proclamato, l’unica mediazione possibile dovrebbe venire dal ministero, ma da via Arenula non arriva alcun segnale. La lotta interna ai gruppi associativi - In realtà, anche tra le toghe c’è qualche perplessità rispetto alla gestione da parte dell’Anm. Il gruppo di Magistratura democratica, pur confermando il giudizio negativo sulla riforma, in una lettera indirizzata al presidente Giuseppe Santalucia ha sollevato dubbi sull’azione dei rappresentanti del sindacato delle toghe. “L’azione dell’Anm nel contesto della riforma, ci è apparsa intempestiva, timida e incapace di proposte idonee a dimostrare l’assunzione di responsabilità per la crisi”, si legge. “l’Anm deve recuperare in fretta la sua autorevolezza nei rapporti con il governo e il parlamento”. Tradotto: secondo Md l’Anm non sarebbe stata capace di fare da argine alla riforma perché troppo impegnata a tutelare posizioni corporative invece di svolgere, anche all’esterno, l’autocritica necessaria al rinnovamento della categoria. Basta critiche: era impossibile liberare il Csm dalle correnti di Errico Novi Il Dubbio, 23 aprile 2022 Pochi seggi, collegi enormi: ecco perché non c’è l’antidoto. A parte il sorteggio, escluso da Cartabia, non esiste un sistema di voto in grado di indebolire il monopolio elettorale dei gruppi Anm. A volte la politica sa gettare via con straordinaria abilità il proprio tempo. È riuscita a farlo anche con la riforma del Csm, ovvio, e in particolare con il sistema di voto per eleggere i togati. Ne ha discusso per due anni, coadiuvata dall’Anm: fiumi di polemiche, anche da settori della maggioranza, da ultima Italia Viva, sui vizi della soluzione trovata dal governo, bollata come un “regalo alle correnti”. Sì, è vero: la legge elettorale incistata nel ddl che martedì otterrà il primo sospirato sì in Aula non eliminerà affatto il monopolio delle correnti nella selezione dei consiglieri magistrati, ma è inevitabile che vada così. E il motivo è banale, semplicissimo: i togati da eleggere restano pochi, col passaggio da 16 a 20 consiglieri cambia nulla o quasi, resta dunque una chimera lo sbandierato obiettivo di avvicinare elettori ed eletti, e stemperare così il peso dei gruppi associativi. Una mission impossible, e tra un attimo ve ne parleremo in dettaglio. C’era in effetti una e una sola possibilità di aggirare lo strapotere correntizio: il sorteggio degli eleggibili, il famoso sorteggio temperato. Data la quota di 20 consiglieri magistrati da eleggere, si selezionavano a caso 200 potenziali candidati. Ma l’obiezione di Cartabia sul contrasto con l’articolo 104 della Costituzione si è rivelata insuperabile. Non c’era uno schieramento disposto a morire per il sorteggio, e ci si è dovuti accontentare di un sistema prevalentemente maggioritario con un recupero proporzionale. Che appunto, continuerà a veder regnare le correnti. E ci vuol poco a dimostrare che non esistevano alternative praticabili. Innanzitutto, una quota di consiglieri togati è riservata a due categorie particolari: la magistratura di Cassazione, a cui anche il ddl Cartabia riserva 2 posti, e la magistratura requirente, che passa da 4 a 5 rappresentanti. Detto per inciso: il testo base depositato nel 2020 da Bonafede aveva provato a cambiare il quadro, e non prevedeva la tradizionale distinzione fra pm e giudici. Una scelta subito contestata dall’avvocatura, in particolare dall’Unione Camere penali, perché avrebbe spalancato le porte a un ancora più assoluto predominio politico della magistratura requirente visto che, in una competizione senza quote protette, l’assai maggiore notorietà dei pm avrebbe potuto sbilanciare le proporzioni, che nella realtà della giustizia vedono i giudicanti in netta maggioranza numerica. Marta Cartabia non poteva far altro che ripristinare la tradizionale doppia corsia: col risultato, intanto, che i 5 consiglieri- pm previsti dovranno essere eletti in due macro collegi. Cosicché la possibilità di passare a collegi territoriali più ristretti non poteva che riguardare solo la quota dei giudici. Cioè i rimanenti 13 seggi da assegnare. Pochi, a maggior ragione se si considera che in ciascun collegio si è dovuto prevedere di eleggere due consiglieri, uno per genere. Era l’unica strada per assicurarsi che nel nuovo Csm le consigliere donne non si trovassero di nuovo in netta minoranza (nell’attuale sono appena 7 su 26, eppure sul totale dei quasi 9.000 magistrati italiani superano gli uomini). E allora: i 13 posti della quota più folta, quella dei giudici, dovevano comunque essere assegnati a 2 per collegio. Ma neppure si è potuto optare per 6 macrocollegi, che sarebbero stati già enormi e inadeguati ad assicurare l’agognato localismo anticorrentizio. Si fosse seguita una strada del genere, l’effetto maggioritario sarebbe stato troppo accentuato. Altro che pluralismo e candidature libere: avremmo assistito a un quasi assoluto bipolarismo, con Magistratura indipendente e Area a farla da padrone e gli altri gruppi (Unicost, Autonomia e indipendenza, Articolo 101) ridotti ai minimi termini. Si è perciò scelto di riservare, nella quota dei giudicanti, la bellezza di 5 seggi a un collegio unico nazionale per il recupero proporzionale proprio a vantaggio delle liste minori. A disposizione del sogno localista sono sopravvissuti alla fine 8 seggi dividere per forza in 4 collegi binominali, per garantire appunto la parità di genere. A parte l’ipotesi sorteggio, qual era l’alternativa? Albamonte: “Nessuna retromarcia, se la riforma è questa noi siamo pronti allo sciopero” di Valentina Stella Il Dubbio, 23 aprile 2022 “Sullo sciopero nessuna marcia indietro. Sicuramente nelle ultime settimane, dopo un iniziale disinteresse, il corpo della magistratura ha preso consapevolezza della gravità della situazione”. Parole di Eugenio Albamonte, magistrato, segretario AreaDg ed ex presidente dell’Anm: “Si devono assolutamente creare i presupposti per un ripensamento di alcuni passaggi della riforma”. Dottor Albamonte, ci aiuti a capire: è il momento del dialogo o dello sciopero? Si devono assolutamente creare i presupposti per un ripensamento di alcuni passaggi della riforma, e in particolare di quelli emersi dopo il Consiglio dei ministri dell’11 febbraio. La riforma che la ministra Cartabia aveva portato al tavolo dei partiti della maggioranza racchiudeva degli aspetti di criticità, che abbiamo evidenziato in numerosi documenti e dichiarazioni pubbliche; tuttavia, quella proposta allora non ci sembrava animata da intenti punitivi. Quando poi la discussione tra i partiti si è riaperta, e in quel progetto iniziale di riforma sono state inserite proposte emendative, l’impianto complessivo è stato modificato in modo devastante per l’aspettativa di giustizia dei cittadini e per l’indipendenza e l’autonomia della magistratura. Queste modifiche hanno destato una diffusa e forte preoccupazione al nostro interno. E quindi avete deciso di alzare il livello di scontro? Abbiamo dimostrato nei confronti delle istituzioni il massimo rispetto, ricercando il confronto e motivando le nostre critiche; ma queste sono rimaste del tutto inascoltate, mentre in pochi giorni sono state introdotte ulteriori modifiche sulle quali non ci sono state interlocuzioni né confronti con la magistratura. Per questo l’Anm ha messo in campo una serie di iniziative finalizzate a spiegare ai cittadini che alcune scelte sono inutili e dannose. Ci auguriamo di non dover arrivare allo sciopero, il nostro senso di responsabilità nell’esercitare una delle funzioni più delicate dello Stato ci spinge a percorrere tutte le strade alternative, ma siamo da subito pronti a utilizzare questa forma estrema di protesta nell’ipotesi in cui non arrivasse alcun segnale di riapertura al confronto ed all’ascolto. Ma quindi vorreste un incontro della ministra Cartabia con l’Anm? Auspichiamo che ci siano degli spazi di ascolto reali in relazione ai problemi che noi poniamo. Perché si è passati dal dire che lo sciopero era inevitabile per poi ritornare al dialogo? Secondo alcune nostre fonti si è prima deciso di ascoltare la base, poi, vedendo le critiche piovute sull’opzione dello sciopero, si è fatta marcia indietro... Non so quali siano queste fonti. Io sono abituato a parlare senza nascondermi nell’anonimato e questa ricostruzione mi sembra infondata. Nessuna marcia indietro. Sicuramente nelle ultime settimane, dopo un iniziale disinteresse, il corpo della magistratura ha preso consapevolezza della gravità della situazione, determinata dagli ultimi emendamenti al testo della ministra. Ed è sicuramente apprezzabile che molti magistrati giovani e fuori dalle correnti si stiano rendendo protagonisti di questa mobilitazione, che è generalizzata. I recenti fatti hanno certamente indebolito il senso dell’associazionismo; fa piacere constatare che tornino ad esserci interesse e partecipazione, seppur in un momento così difficile. Alberto Cisterna proprio sul Dubbio ha scritto che forse un errore è stato quello di fare affidamento sul fatto che ‘le solite interlocuzioni con i soliti ambienti politici avrebbero garantito, anche questa volta, un ombrello protettivo alle toghe’... Non ho mai contato sul fatto che ci potessero essere soggetti politici più amici di altri. All’opposto registro da tempo una diffusa insofferenza della politica, ma anche di alcuni settori della società civile del mondo imprenditoriale, nei confronti dell’azione della magistratura: da quando si sono verificati i fatti dell’Hotel Champagne questa diffusa insofferenza ha preso a pretesto quei gravi fatti per intraprendere una strada che non risolve quei problemi e tende invece a ridimensionare l’azione giudiziaria. Passiamo al pomo della discordia: il cosiddetto fascicolo di performance... Una misura concepita pensando a specifiche indagini, soprattutto di alcune procure del sud, rispetto alle quali, a fronte della prima ondata di misure cautelari, il Riesame e la Cassazione possono averne in parte ridimensionato l’iniziale portata. Ma questo è del tutto fisiologico e quand’anche non lo fosse ci sono già gli strumenti di tutela del processo e di valutazione sul piano professionale. Ma qual è il problema? Il fascicolo raccoglierà l’esito delle decisioni che vengono prese nei gradi successivi di giudizio, fondandosi sull’idea di verificare ex post se gli assunti iniziali erano corretti. Dalla conferma delle decisioni nei gradi successivi si farà discendere la valutazione della professionalità del magistrato. È una operazione che tradisce la stessa funzione del diritto e della giurisprudenza; strumenti che si evolvono nel tempo in relazione all’evolversi della società. Ci faccia qualche esempio... Se oggi i rider hanno una tutela non è grazie alle multinazionali che li utilizzano ma ai giudici del lavoro che hanno intrapreso orientamenti giurisprudenziali innovativi e coraggiosi. Se quegli stessi giudici si fossero dovuti preoccupare del fatto che forse la Corte di Appello li avrebbe smentiti, avrebbero comunque assunto le stesse decisioni? Se fosse stato già in vigore questo nuovo fascicolo, tutti gli orientamenti sul consumo di gruppo delle sostanze stupefacenti e sulla coltivazione per uso personale, che hanno restituito spazi di libertà, non ci sarebbero stati. Ma pensiamo anche alle indagini: se un magistrato si fosse dovuto sentire intimorito dal rischio di smentita, non avremmo avuto i risultati pregevoli conseguiti dalla procura di Milano, che ha recuperato alla fiscalità legale i proventi delle multinazionali del web. In questi giorni il Codacons si è detto contrario allo sciopero dei magistrati senza rendersi conto che la maggior parte dei suoi successi nell’affermazione dei diritti dei consumatori è dovuta al fatto che le tesi dei loro avvocati sono state recepite dai giudici di primo grado, che non hanno avuto paura di essere smentiti nei gradi successivi. In ultimo la vicenda Cucchi: dopo una decisione passata in giudicato che aveva escluso ogni responsabilità, quale Procura avrebbe avuto il coraggio di riaprire le indagini sapendo che il Procuratore o il sostituto sarebbero stati valutati negativamente se quella inchiesta non fosse arrivata a delle condanne? Tuttavia Md ha scritto che ‘sulle valutazioni di professionalità le proposte sono state tutte orientate ad una chiusura corporativa, incapace di una sana autocritica, ma anche di spiegare le ragioni di senso del sistema di valutazione dei magistrati’... In quel documento non vedo una proposta alternativa. E concentrarsi solo sull’inserimento degli avvocati nei Consigli giudiziari a me non sembra una risposta soddisfacente. Quel presidio non rappresenta in sé garanzia di nulla. Anzi, soprattutto in alcune zone d’Italia, dove la tensione che c’è nei processi si trasferisce anche nei rapporti tra la magistratura e il foro, creerebbe un ulteriore momento di conflitto sul piano della valutazione di professionalità. Servirebbero almeno norme di contenimento finalizzate a scongiurare conflitti di interesse. Se vogliamo fare un ragionamento serio sulla partecipazione dell’avvocatura nei Consigli giudiziari dobbiamo creare dei meccanismi simili a quelli che disciplinano la presenza di professori e avvocati nel Csm, neutralizzando il portato di conflittualità legate ai processi ed il rischio di condizionamento della serenità del giudizio. Però un parere del Coa, che è l’istituzione dell’avvocatura, non potrebbe essere la soluzione? Dipende. Torno sempre alla Calabria: se uno o più avvocati sono coinvolti in un’inchiesta giudiziaria in quel contesto, si crea una contrapposizione del mondo dell’avvocatura rispetto a quello della magistratura che ha natura devastante e che con le nuove norme, in assenza di correttivi adeguati, passerebbe dai giornali e dalle aule di Tribunale sin dentro il Consiglio Giudiziario. Referendum, vera arma per riformare la giustizia. “Ma si voti su due giorni” di Pasquale Napolitano Il Giornale, 23 aprile 2022 L’appuntamento del 12 giugno più incisivo del testo Cartabia. Pressing del centrodestra. Il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese prende tempo. Forza Italia e Lega incalzano per chiedere che l’election day del 12 giugno (referendum e amministrative) sia spalmato su due giorni (12 e 13 giugno). Il titolare del Viminale diserta il Consiglio dei ministri che avrebbe dovuto sciogliere il nodo e varare il decreto che fissa le norme per l’espletamento delle operazioni di voto. Ma le delegazioni di Lega e Forza Italia sono pronte a riproporre, nel prossimo Consiglio dei ministri, la questione. I ministri Mariastella Gelmini e Giancarlo Giorgetti, rispettivamente capidelegazione di Fi e Lega, non arretrano: “Si voti in due giorni”. La prossima settimana il Cdm scioglierà il quesito. È una partita che si gioca anche sul “fattore tempo”: il decreto Elezioni dovrà essere convertito in legge entro 60 giorni. Lega e Fi si preparano a depositare un emendamento per votare anche nella giornata del 13 giugno. Un emendamento che potrebbe raccogliere i voti di Azione, Fdi e Italia Viva. Però il Parlamento potrebbe decidere di calendarizzare la conversione in legge del decreto Elezioni oltre il 12 giugno. Beffando i partiti. È su questo punto che ora si sposta la partita Giustizia. Anche perché, dopo il compromesso sulla riforma del Csm, l’appuntamento del referendum resta l’unica arma per scardinare un sistema giudiziario piegato alle correnti. La spallata non c’è stata. Il testo, che ora attende l’ok definitivo dalla Camera (martedì) prima di passare al Senato, è un compromesso. E dunque si aspetta il referendum per dare un colpo a quello che Luciano Violante - in un’intervista al Giornale - ha definito “il conservatorismo della magistratura”. Ma va centrato il quorum. “La Lega non può tarparsi le ali sui referendum unica arma per un autentico cambiamento” - avverte Giulia Bongiorno, responsabile Giustizia della Lega. E dunque se il referendum diventa il vero terreno su cui piantare una nuova era per il sistema giudiziario italiano, la battaglia per i due giorni è fondamentale per consentire la più ampia partecipazione. Una battaglia a cui guarda anche Italia Viva: “La riforma della giustizia deve essere una priorità. Bisogna andare a votare e votare sì. I referendum sono un grande appuntamento di mobilitazione” - spiega al Giornale Ettore Rosato, coordinatore nazionale di Iv che però evidenzia: “Sulla riforma del Csm è stato compiuto un passo falso”. Sulla volontà di Forza Italia di porre il tema dei due giorni al prossimo Consiglio dei ministri, il senatore Maurizio Gasparri conferma al Giornale: “È nostra intenzione insistere con la richiesta di far svolgere referendum e comunali in due giorni. Però al momento questa richiesta non fa breccia. Noi insistiamo. Senza alcun dubbio il referendum è una tappa fondamentale per riformare la giustizia. Ma dobbiamo guardare anche all’appuntamento delle politiche del prossimo anno. Solo con un centrodestra al governo del Paese possiamo dare all’Italia quella riforma che attende da anni. Con sincero realismo le dico che la riforma Cartabia era il minimo sindacale”. La partita non è ancora chiusa. Non basta essere un pm antimafia per meritare una carriera fulminante di Oreste Romeo* Il Dubbio, 23 aprile 2022 Assolti i medici dell’Asp di Reggio Calabria che a marzo 2021 erano stati arrestati per concorso esterno in associazione mafiosa. Ora la riforma della Giustizia contenga l’incontrollabile furia moralizzatrice di alcune frange della magistratura. Si era prodigato pure il Comandante Generale dei Ros nel dare l’annuncio urbi et orbi che il 23 marzo 2021 alcuni medici dell’Asp di Reggio Calabria, oggi pienamente assolti, erano stati mandati agli arresti domiciliari con le gravissime accuse di concorso esterno in associazione mafiosa e traffico di influenze illecite con l’aggravante della finalità di agevolazione mafiosa, l’una e l’altra, a distanza di pochi giorni, significativamente vanificate dal Tribunale del Riesame per assoluta mancanza di gravità indiziaria. In altri termini, l’Organo di Garanzia aveva statuito che non esistevano ab initio elementi in grado di giustificare la privazione della libertà per i dottori Salvatore Barillaro, Domenico Forte e Antonino Coco, evidentemente ritenuti, con gravissima superficialità, concorrenti esterni ed agevolatori della ‘ndrangheta. Eppure, nonostante l’impianto accusatorio fosse imploso già in occasione della sua prima, immediata verifica procedimentale, il pubblico ministero che aveva condotto le indagini preliminari, lungi dal prestare attenzione al “giudicato cautelare” che aveva frantumato i suggestivi postulati della tesi accusatoria, ha esercitato l’azione penale ed avanzato, di conseguenza, la richiesta di rinvio a giudizio dei professionisti. L’esercizio dell’azione penale, come è noto, determina la transizione dallo status di indagati a quello di imputati, ed è superfluo soffermarsi sugli effetti devastanti destinati ad abbattersi su qualsiasi cittadino a causa di un “carico pendente” per pretesi “fatti” connessi alla “ndrangheta”, trattandosi di uno stigma indelebile, in grado di resistere all’esito conclusivo del processo. Oggi che è intervenuto un verdetto ampiamente assolutorio, quei medici hanno pieno titolo per lamentare che tutto ciò si sarebbe potuto e dovuto evitare se solo si fosse preso atto del giudicato cautelare, di segno opposto a quello inseguito dal pubblico ministero. Vero è che, con la requisitoria in sede di giudizio abbreviato, l’Ufficio di Procura ha correttamente chiesto l’assoluzione dei professionisti dall’accusa di concorso esterno, non senza avere rinunciato anche alla contestata aggravante ad effetto speciale della agevolazione mafiosa. Ma è del pari vero che, nell’ambito del controllo sociale da esercitare senza timore e/o omertà su vicende che avevano generato allarme nell’opinione pubblica, oggi va puntualizzato che il mutato atteggiamento della Pubblica Accusa lo si deve ad un giovane magistrato che non si era occupato delle indagini preliminari. Il giovane Pm ha semplicemente “ereditato” il fascicolo dai colleghi, e lo ha studiato, prendendo diligentemente nota delle verifiche giurisdizionali che avevano già da tempo messo la sordina ai roboanti annunci della esecuzione dei provvedimenti restrittivi. Ancora: l’esercizio del controllo sociale sulla vicenda giudiziaria impone che adesso la pubblica opinione sappia anche della assegnazione di un incarico semi-direttivo al pubblico ministero che aveva richiesto la misura cautelare e il rinvio a giudizio dei professionisti, pur nella significativa assenza di progressione probatoria successiva alla assoluta insussistenza di gravità indiziaria affermata dall’Organo di Garanzia. La realtà, dunque, pone il cittadino comune davanti ad un quadro, anzi una crosta che conferma l’importanza della funzione del Giudice; ribadisce la necessità di una sostanziale riforma della Giustizia che sappia contenere l’incontrollabile furia moralizzatrice di frange estreme della magistratura requirente; colloca al centro della scena, una volta di più, l’esperienza fallimentare del “concorso esterno in associazione mafiosa”, fattispecie di reato di impropria creazione giurisprudenziale, con l’aggravante della assegnazione a essa di una missione salvifica che ha solo prodotto l’effetto di farne l’icona di una vera e propria emergenza nazionale. Quanto basta per esigere l’immediato abbandono della corsia preferenziale sin qui fideisticamente riservata a pubblici ministeri che aspirano ad avanzamenti di carriera grazie al declamato e narrato impegno profuso sul versante della criminalità organizzata guardandosi bene dallo specificare se tale impegno, in concreto, si sia poi tradotto nel rispetto o nell’allontanamento dalla cultura della giurisdizione. *Avvocato “Processato 24 volte e sempre assolto. Vi racconto il mio inferno” di Valentina Stella Il Dubbio, 23 aprile 2022 L’ex governatore del Molise, Michele Iorio, venne accusato di aver creato un sistema. Insieme a lui sono state assolte altre 11 persone. “Quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra”: è citando Piero Calamandrei che al Dubbio l’ex Presidente della Regione Molise Michele Iorio commenta l’assoluzione ottenuta in prima grado in quello che definisce il primo maxi processo imbastito in questa regione dal nome altisonante “Il Sistema Iorio”. Insieme a lui sono state assolte altre 11 persone. I giudici hanno inflitto invece due condanne nei confronti dell’ex editore Ignazio Annunziata, 12 anni di reclusione, e dell’ex direttore dell’Azienda sanitaria regione Angelo Percopo, 4 anni. Erano una quindicina i reati contestati a vario titolo agli imputati: corruzione, concussione, abuso d’ufficio, peculato, falsità materiale e ideologica, estorsione, violenza privata bancarotta e ricettazione. Per Iorio la Procura aveva chiesto 6 anni: gli contestavano, tra l’altro, di aver elargito contributi pubblici a varie testate in cambio di una linea editoriale favorevole. La vicenda balzò altresì agli onori della cronaca nazionale. Nel 2014 il solito Fatto Quotidiano non ci andò affatto leggero contro Iorio: “Se volete fare un tuffo nel disgusto e vedere da vicino di quali aberrazioni sia capace la politica quando viene piegata gli interessi di pochi ras di provincia, dovete fare una vacanza in Molise. Ne vale la pena, perché oltre all’aria buona e all’ottimo cibo, qui è possibile ammirare le gesta di Iorio, Angelo Michele, padrone della vita e della morte dei molisani. E allora scoprirete come la libertà di stampa non vale un tubo, saprete di editori pluripregiudicati e falliti che obbediscono alle direttive del ras, di concorsi truccati per far vincere i soliti amici”. E invece a dieci anni esatti dall’apertura dell’inchiesta e a 6 anni dall’inizio del processo, tre giorni fa è arrivata l’assoluzione che certifica anche un quasi totale flop del lavoro della Procura di Campobasso. “Quello contro di me è stato un processo politico - aggiunge Iorio, ex FI ora consigliere regionale con Fratelli d’Italia - , con tante interferenze extragiudiziarie che hanno spinto affinché l’indagine andasse in un certo verso. Per qualcuno, a cui davo fastidio, andavo eliminato politicamente per via giudiziaria. Dopo così tanti anni e 44 mila pagine di incartamenti giudiziari e teorie mai divenute prove, vedersi assolto è una grande soddisfazione. Ma c’è l’evidente rammarico che la politica è entrata nelle aule di giustizia”. Iorio in tutto ha subìto 24 processi, tutti terminati con assoluzione e uno con la prescrizione: “nei miei riguardi c’è stata una vera e propria tortura giudiziaria. Mi auguro che questo accanimento finisca qui”. Accanto a lui in questi 15 anni di processi c’è stato sempre l’avvocato Arturo Messere, decano del foro di Campobasso (in questo ultimo processo è stato affiancato dall’avvocato Alessandro Sammarco del Foro di Roma), a cui chiediamo che idea si sia fatta di questa grande attenzione nei confronti del suo assistito da parte della magistratura: “me lo spiego con un uso politico della giustizia da parte della magistratura, anzi della Questura di Campobasso che ha indagato sul mio assistito e dove, però, il capo di gabinetto era Giuliana Frattura, sorella del presidente della Regione” Paolo Di Laura Frattura, sfidante del Pd di Iorio alle regionali del 2012. Sono pesanti le accuse mosse dall’avvocato Messere: “me ne assumo le responsabilità”, ci dice. Messere pur dichiarandosi “vecchio socialista senza partito e cristiano senza chiesa” ammette che Iorio “è stato uno dei migliori amministratori della regione Molise e qualcuno ha usato la giustizia per annientarlo”. Ora bisognerà capire se la Procura farà appello contro le assoluzioni: “sono avvocato da 50 anni e da sempre lotto per la giustizia giusta che significa abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, responsabilità civile diretta dei magistrati, inappellabilità da parte dell’accusa delle sentenze di assoluzione”. Il caso di Michele Iorio ci riporta alla memoria quelli di altri amministratori finiti nel mirino delle Procure e poi prosciolti. Pensiamo solo ad Antonio Bassolino che l’anno scorso è stato assolto per la 19esima volta. Vasco Errani si dimise nel 2014 dalla guida della regione Emilia Romagna dopo essere stato condannato in appello per falso ideologico. Ottenne poi, dopo quella di primo grado, una nuova assoluzione nell’appello bis. L’ex Governatore della Calabria Mario Oliverio era stato indagato dalla Dda di Catanzaro e poi mandato a processo con accuse di corruzione e abuso d’ufficio. Anche lui assolto in primo grado: la sentenza di assoluzione è diventata definitiva, in virtù della mancata impugnazione entro i termini da parte della procura. Sarà così anche per Michele Iorio? Transgender vuole restare in carcere in Italia. “Se torno in Perù sarò discriminato” di Andrea Priante Corriere del Veneto, 23 aprile 2022 Il giudice aveva disposto l’espulsione del detenuto. La Cassazione ribalta la decisione. Un transgender peruviano recluso a Belluno, ha chiesto rimanere in galera in Italia piuttosto che essere rispedito nel Paese d’origine. Il caso è finito davanti alla Corte di cassazione, che gli ha dato ragione annullando la precedente sentenza che l’avrebbe costretto al rimpatrio, e la dice lunga sulle condizioni in cui sono costretti a vivere i transessuali in alcune aree del mondo. Il 52enne sta scontando un cumulo di pena per diversi reati compiuti negli ultimi anni in Toscana: furti, rapina e per aver dichiarato false generalità. Tre condanne per un totale di due anni e sette mesi, che sta trascorrendo nel carcere di Belluno, uno dei pochi in Italia a essere dotato di una sezione protetta per omosessuali, e che nel 2007 era finito alla ribalta per essere stato il primo istituto penitenziario a dare la possibilità a coloro che già assumono i farmaci per il cambio di sesso, di continuare la cura anche in cella. Ma proprio dalla prigione di Belluno, con il suo avvocato Mario Mazzoccoli, il 52enne ha combattuto contro la decisione del magistrato di sorveglianza di Venezia che lo scorso anno aveva disposto la sua immediata espulsione “quale sanzione alternativa alla detenzione”. Si tratta di un provvedimento previsto dalla legge per ridurre il sovraffollamento delle carceri. La decisione era stata confermata l’8 giugno del 2021 dal Tribunale di sorveglianza, al quale si era rivolto sostenendo che, quando ancora viveva in Perù, era stato perseguitato per il proprio orientamento sessuale, e che rimpatriarlo avrebbe significato consegnarlo a uno Stato “incapace di fornire adeguata tutela alle vittime di violenti atti discriminatori”. Preferisce finire di scontare la sua pena in prigione, piuttosto che rischiare la vita in Perù. Il 52enne peruviano sta scontando due anni e sette mesi. I magistrati veneziani avevano respinto la sua istanza. “I fatti narrati dal detenuto avevano sentenziato - relativi alle violenze subite (...) nel paese di origine che gli hanno provocato lesioni anche permanenti, non sono posti in dubbio”, come non contestavano il fatto che quelle vessazioni “sono l’esito di condotte individuali che hanno fondamento in una cultura omofoba certamente diffusa”. Ma timori era la tesi del tribunale di sorveglianza di Venezia - quelle discriminazioni “non sono l’esito di previsioni legislative collegate all’orientamento sessuale”. Tradotto: il Perù non può essere definito un Paese che, con le proprie leggi, penalizza un transgender. Semmai a farlo sono solo “alcuni settori della popolazione”. Il detenuto ha ricorso in Cassazione, ribadendo i suoi in caso di rimpatrio. E stavolta gli è stata data ragione: la Suprema corte sostiene che il Tribunale di sorveglianza si è “limitato a rilevare che non vi è prova della provenienza istituzionale della persecuzione” senza però accertare quale sia la situazione di fatto, anche alla luce di quanto sostengono le associazioni internazionali di tutela dei diritti umani in merito alle difficoltà di vita delle persone transgender in Perù. La Cassazione ha quindi rispedito il caso a Venezia per un nuovo giudizio. “Si crede che in Sudamerica la transessualità sia accettata - spiega l’avvocato Mazzoccoli - in realtà la legislazione non riesce a contrastare le persecuzioni. Questa vicenda rivela la disperazione di chi preferisce il carcere pur di non rinunciare alla speranza di un futuro migliore e lontano dalle discriminazioni”. Alessandria. Ha una grave sclerosi, pochi anni di vita: ma resta in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 aprile 2022 Detenuto ad Alessandria, gli hanno respinto le istanze di differimento della pena nonostante l’incompatibilità carceraria, accertata dai medici. L’appello dell’associazione Yairaiha al Dap e al ministero della Giustizia. È un detenuto affetto da una grave sclerosi che, nella maggior parte dei casi, porta alla morte a distanza di 3-5 anni dall’esordio. Si trova ristretto presso il carcere “Cantiello e Gaeta” di Alessandria, ma gli hanno respinto le istanze di differimento della pena nonostante l’incompatibilità carceraria. Una vicenda segnalata dall’associazione Yairaiha onlus e riguarda Maximiliano Cinieri, classe 1977, che dai medici risulta assolutamente incompatibile con il carcere. Dai referti emerge chiaramente che si ritrova con le mani e lingua atrofizzate, dislalia, problemi nella deglutizione che comporta una dieta liquida e un addensante per poter bere e problemi alla gamba che ad oggi gli fa male, motivo per cui cammina a fatica con una stampella. Come risulta dalla documentazione medica, Cinieri è affetto da malattia del primo e del secondo motoneurone a prevalente interessamento bulbare (altresì conosciuta come Sclerosi Laterale Amiotrofica). Maximiliano Cinieri soffre anche di altri disturbi - Come sottolineano i referti, si tratta di una gravissima malattia neurodegenerativa che, nella maggior parte dei casi, porta alla morte a distanza di 3-5 anni dall’esordio e che, a parere del personale medico che ha visitato il detenuto, equivale a una condanna a morte. Oltre a tale patologia, il detenuto soffre anche di altri disturbi: diabete in terapia orale ed insulinica; cardiopatia ischemica post infartuale, con posizionamento di stent coronarici presso O.C. di Asti; ipertensione arteriosa in trattamento farmacologico e dislipidemia in trattamento farmacologico. Per i medici il suo stato di salute sia attualmente incompatibile con il regime carcerario - Per queste ragioni, il personale medico che lo ha visitato ha ritenuto che il suo stato di salute sia attualmente incompatibile con il regime carcerario. Più volte il signor Cinieri ha sollevato istanza di differimento della pena, senza alcun esito favorevole. L’associazione Yairaiha onlus, rivolgendosi al Dap e al ministero della Giustizia, esprime la preoccupazione, così come quella dei familiari, che “nei confronti del detenuto Cinieri, le istanze repressive abbiano irrimediabilmente la meglio sul principio di umanità della pena, tutelato dall’art. 27 comma 3 della Costituzione e, a livello sovranazionale, dall’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Di fatti, nonostante la prognosi infausta della malattia e il breve lasso di tempo che gli rimane da vivere, egli continua ad essere rinchiuso in una cella senza alcuna attuale prospettiva di riavvicinamento ai propri cari”. L’appello dei familiari e dell’associazione Yairaiha - La speranza è che le condizioni di salute del detenuto Cinieri, attualmente recluso al carcere di Alessandria, ricevano le adeguate attenzioni dalle competenti autorità, con preghiera - da parte dei famigliari e dell’associazione Yairaiha che ha segnalato il caso - di immediato intervento. “Facciamo presente che il signor Cinieri sconterà nelle opportune sedi la pena alla quale è stato condannato, ma chiediamo a gran voce che ciò avvenga nel rispetto del dettato costituzionale e della dignità della persona”, conclude l’associazione. Frosinone. Accusato di due omicidi in carcere, il pm chiede condanna all’ergastolo h24notizie.com, 23 aprile 2022 Per Daniele Cestra, 44enne di Sabaudia, accusato di due omicidi all’interno del carcere di Frosinone, il pm Vittorio Misiti ha chiesto la condanna all’ergastolo. A decidere, dopo le arringhe degli avvocati Angelo Palmieri e Sinuhe Luccone previste nell’udienza del prossimo 13 giugno, sarà la Corte d’Assise del Tribunale di Frosinone. L’imputato venne arrestato per l’omicidio, nel dicembre 2013, di Anna Vastola, di 81 anni, assassinata nella sua casa di Borgo Montenero, a San Felice Circeo, dopo essersi trovata di fronte Cestra intento a fare razzia nell’appartamento. Un delitto per cui il pontino venne condannato a 18 anni di reclusione. Una volta in carcere, però, secondo la pubblica accusa Cestra avrebbe continuato a uccidere, simulando poi il suicidio delle sue vittime. Il 17 agosto 2016, a Frosinone, venne trovato impiccato il compagno di cella dell’imputato, l’anziano Giuseppe Mari, di Sgurgola, e il 24 marzo dell’anno precedente era stato trovato impiccato un altro detenuto, il 60enne Pietropaolo Bassi, che a sua volta divideva la cella con il 44enne. Alla luce soprattutto delle indagini medico-legali svolte dalla dottoressa Daniela Lucidi e delle testimonianze di altri detenuti, il pm Misiti si è convinto che Mari e Bassi siano stati uccisi da Cestra, che li avrebbe aggrediti, strangolati e poi avrebbe simulato i suicidi. Una tesi che, per il pubblico ministero, ha trovato conferma nel corso dell’istruttoria. Rovigo. Pnrr, carcere più grande di Antonio Andreotti Corriere del Veneto, 23 aprile 2022 Nuovo padiglione grazie al “Piano nazionale di ripresa e resilienza”. Nella Casa circondariale altri 120 detenuti. Costo 15 milioni di euro. C’è anche l’ampliamento del carcere rodigino, che oggi può ospitare circa 300 detenuti, tra i 58 interventi di edilizia giudiziaria e penitenziaria in Italia finanziati con i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). A Rovigo prevista la costruzione di un padiglione-modello per ulteriori circa 120 detenuti e per un costo di circa 15 milioni di euro. Paola (Cs). Il Comune apre in carcere Sportello per i detenuti gnewsonline.it, 23 aprile 2022 Uno Sportello per assistere i detenuti nel disbrigo di pratiche anagrafiche e di stato civile è stato aperto nella casa circondariale di Paola (CS) grazie a un protocollo d’intesa tra il Comune e la direzione dell’Istituto. I richiedenti potranno incontrare, in un locale messo a disposizione all’interno del carcere, dipendenti dei servizi demografici che forniranno informazioni e consulenza su pratiche, servizi e prestazioni erogate. L’accordo, di durata triennale, è stato siglato per andare incontro alle tante richieste di rinnovo documenti, cambi di residenza nonché per gestire le procedure sull’esercizio dei diritti elettorali da parte dei detenuti che li hanno conservati. Torino. “Il sistema carcerario è parte della comunità” di Claudio Raffaelli comune.torino.it, 23 aprile 2022 Confronto tra Consiglio e Garante dei detenuti. I diritti delle persone private della libertà personale, un tema sul quale la Città di Torino aveva già anni fa istituito la figura della propria Garante, sono oggi più che mai all’attenzione dell’istituzione comunale nel suo insieme. Ieri mattina, infatti, insieme alla Garante, Monica Cristina Gallo, in Sala Carpanini si sono ritrovate la commissione Diritti e Pari opportunità (presieduta da Elena Apollonio), la commissione Legalità (presieduta da Luca Pidello, che ha coordinato l’incontro), la vicesindaca Michela Favaro, la quale ha tra le proprie deleghe anche quella alla legalità e la presidente del Consiglio comunale Maria Grippo. Proprio quest’ultima, in apertura della seduta, ha rievocato il percorso che ha portato la già esistente Commissione Legalità ad inserire nella propria denominazione ufficiale il tema dei diritti dei detenuti e delle persone soggette a restrizioni della propria libertà. Un atto non formale, ha sottolineato Grippo, che prelude a una più sistematica e articolata collaborazione tra gli organi comunali e l’ufficio della Garante, su temi delicati come quello del carcere (Torino ospita il “Lorusso e Cutugno”, uno dei più affollati penitenziari italiani), dell’istituto per minori “Ferrante Aporti” e del Centro di Permanenza per il rimpatrio (CPR) di via Santa Maria Mazzarello 31. Presidente del Consiglio comunale e Garante, nei giorni scorsi, si sono recate insieme presso il carcere, per la presentazione di una guida ai diritti dei reclusi, così come al CPR per un incontro con i nuovi gestori (Grippo ha tra l’altro ribadito l’intenzione di giungere all’intitolazione alla memoria di Moussa Balde, tragicamente scomparso mentre era rinchiuso nel CPR, di un’area verde nei suoi pressi). Monica Cristina Gallo, che nei prossimi giorni presenterà la sua relazione di attività annuale, ha riassunto per sommi capi la situazione attuale dell’universo carcerario torinese. Un villaggio città nella città, dove ai circa 1400 detenuti presso il Carcere “Lorusso e Cutugno” e alle decine di minori del “Ferrante Aporti (in gran parte giunti dalla Lombardia per ristrutturazione in corso al “Cesare Beccaria”, si aggiungono centinaia di agenti di custodia, amministrativi, educatori, operatori sanitari, mediatori culturali (il 50% circa dei detenuti hanno nazionalità diversa da quella italiana). Il carcere è sovraffollato, infatti la capienza prevista è inferiore alle 1100 persone, ha problemi di fatiscenza degli edifici ed è al centro di una vicenda giudiziaria tuttora in corso per presunte violenze su detenuti da parte di alcuni agenti di custodia, in anni recenti. Preoccupante è poi la presenza in cella di persone giovanissime. E non parliamo dell’istituto per minori, ma del carcere, il quale vede il 13% dei detenuti compresi tra i 18 e i 24 anni d’età, molti dei quali stranieri. Proprio questi ultimi, ha spiegato la garante, sono stati al centro di un’indagine condotta in collaborazione con l’Università di Torino, che ha tra l’altro rilevato varie situazioni di dipendenza da psicofarmaci. Ma i temi affrontati nel corso della relazione della Garante, così come negli interventi che l’hanno seguita (oltre alla vicesindaca Favaro, i presidenti di commissione Pidello e Apollonio, con le consigliere e i consiglieri Garione, Diena, Firrao, Greco, Crema, Borasi, Saluzzo, Damilano e Viale) sono stati molteplici. L’istruzione e il lavoro in carcere - fondamentali per una prospettiva di reinserimento sociale a fine pena - le carenze di personale negli istituti di pena (un educatore ogni 100 detenuti, al “Lorusso e Cutugno”), l’organizzazione di servizio di anagrafe e di orientamento verso il ritorno in libertà e l’incidenza delle disabilità riconosciute tra i detenuti, sulle quali non si riescono ad avere dati. Dopo numerosi avvicendamenti al vertice, l’attuale direttrice del carcere, ha sottolineato Gallo, è aperta e disponibile alle sinergie, forte anche dall’esperienza alla direzione del carcere di Bollate, presso Milano, considerato all’avanguardia tra gli istituti di pena. Insomma, molti problemi da affrontare ma anche molta disponibilità ad affrontarli, in una virtuosa spirale di collaborazione tra istituzioni pubbliche (e nel caso del tema lavoro, anche aziende e cooperative) nella quale le diverse articolazioni della Città di Torino, il Consiglio comunale, la Giunta e l’ufficio della Garante, possono svolgere un ruolo determinante. Milano. Don Gino Rigoldi festeggia i 50 anni di servizio per i ragazzi detenuti informazioneonline.it, 23 aprile 2022 Don Gino Rigoldi compie 50 anni di servizio all’Istituto per Minori “Beccaria” di Milano. Così, la cooperativa La Valle di Ezechiele, tramite don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio, ha pensato di invitarlo domenica 24 aprile a celebrare una Santa Messa in cooperativa (via Colombo 90 a Fagnano Olona) alle ore 17. Non è necessaria alcuna iscrizione: basta esserci, con la mascherina. “La cooperativa non è una chiesa - dice don Riboldi - ma in via eccezionale lo diventerà, nella domenica dedicata da San Giovanni Paolo II alla festa della Divina Misericordia, che invocheremo, abbondante, per tutti i carcerati, nella luce della Pasqua di Cristo. In molte diocesi, in Italia, è questa la giornata di preghiera per le persone recluse negli istituti di pena. Don Gino dice sempre di non dimenticarsi che la croce è l’atto penultimo della vita di Gesù... noi ci chiamiamo “La Valle di Ezechiele”, proprio perché vorremmo essere strumento di resurrezione per molti, come nella profezia del capitolo 37 dell’omonimo libro della Bibbia. Saranno presenti esponenti della Magistratura, del Corpo dell’Arma dei Carabinieri, dell’Amministrazione Penitenziaria... e speriamo tanta gente che voglia pregare con noi”. Chieti. “La parola agli imputati”, film con attori-detenuti Il Centro, 23 aprile 2022 La proiezione sabato 23 aprile alle 16 al Mediamuseum, in via straordinaria sono presenti anche i protagonisti della pellicola. I detenuti del carcere teatino di Madonna del Freddo diventano attori e, in un significativo ribaltamento di ruoli, interpretano la parte dei giurati in un film. L’iniziativa viene organizzata a Pescara nell’ambito del progetto Fenice Felice grazie al contributo della Regione, con la proiezione del film “La parola agli imputati” che si tiene sabato 23 aprile alle 16 nei locali del Mediamuseum alla presenza delle istituzioni e, in via assolutamente straordinaria, anche dei i detenuti attori. I detenuti protagonisti del film vengono accompagnati con presidio di sicurezza al Mediamuseum, per assistere alla proiezione e confrontarsi con gli invitati in un dopo-spettacolo di dibattito durante il quale racconteranno l’esperienza di partecipazione al corso di teatro in carcere durante il difficile periodo dell’espiazione della pena. II progetto teatrale realizzato in collaborazione con la casa circondariale di Chieti e, in particolare, con l’Area trattamentale, ha avuto tra gli obiettivi fondamentali quello di stimolare la capacità di riflessione critica delle persone detenute coinvolte e la disponibilità alla rivalutazione delle proprie esperienze, per approfondire quotidianamente il senso della rieducazione come finalità costituzionale della pena. ll film li vede interpretare la parte dei giurati, in uno straordinario scambio di ruolo in cui sono chiamati a giudicare la condotta del reo dal punto di vista della società, riflettendo sull’importanza del proprio percorso educativo e riabilitativo, l’unica strada in grado di condurli al riscatto morale. Lo spettacolo, strutturato inizialmente in forma teatrale, è stato rielaborato in versione filmica con apposita regia cinematografica, al fine di consentire la visione in più repliche di una pièce davvero unica. Intervengono Franco Pettinelli, direttore della casa circondariale di Chieti, Maria Rosaria Parruti, presidente del Tribunale di sorveglianza dell’Aquila, Gianmarco Cifaldi, garante regionale dei detenuti, l’assessore regionale Pietro Quaresimale. A introdurre lo spettacolo c’è Stefania Basilisco, capo area giuridico-pedagogica del carcere di Madonna del Freddo. Modera Serenella Di Michele, responsabile del progetto “Fenice Felice”. Una prigione vista mare di Giancarlo De Cataldo La Repubblica, 23 aprile 2022 Valerio Calzolaio, politico e saggista, analizza le isole diventate carceri. Da Ventotene a Robben Island. Nessuna isola è nata per essere un carcere. Molte, però, lo sono diventate nel corso del tempo. Si è così generato, per una sorta di insano connubio fra disposizione naturale e volontà umana, il “doppio isolamento”: un’isola evoca di per sé il senso di separazione, in chiave geografica e territoriale, il carcere rimanda al concetto di segregazione in senso giudiziario, repressivo, ma in definitiva umano. Sulle isole esiste una letteratura sterminata, e sul carcere molti e ampi studi. Ma trattare in un unico contesto l’isola e il carcere sotto la particolare prospettiva geografica e storica del “doppio isolamento” è una novità assoluta. Dobbiamo la felice intuizione a Valerio Calzolaio, già politico di sinistra (fu sottosegretario all’Ambiente), autore di saggi su Moro e Berlinguer e di un’illuminante riflessione sul tema delle migrazioni (“Libertà di migrare”, con Telmo Plevani). Nella sua lucidissima introduzione, Calzolaio inquadra immediatamente il tema della ricerca: l’isola è generatrice di un ecosistema produttore di biodiversità - lo sviluppo delle specie si articola in un ambito circoscritto, differente, per intenderci, da quello garantito dagli interscambi continui dei territori più vasti - così come il carcere acquista progressivamente le connotazioni di territorio dell’isolamento, dando vita, a sua volta, a un ecosistema interno storicamente determinato. L’isola è tale perché così è definita dal suo essere ontologico, il carcere è una costruzione umana. I romani impiegarono le isole come terre di deportazione o relegazione, per togliere di mezzo oppositori politici, eredi scomodi di grandi dinastie, voci dissonanti, prigionieri di guerra. Ma la loro idea di carcere non era sovrapponibile all’attuale: non si deteneva per sorvegliare e punire, secondo la nota definizione di Foucault, ma per assicurare integrità al corpo del custodito, che andava preservato in vista del giudizio e tutelato dalla vendetta di chi si era ritenuto danneggiato dalla sua condotta. Il carcere come luogo di espiazione è idea relativamente recente; l’abbinamento fra carcere e isola un’evoluzione - sovente tragica - dell’antica deportazione romana. L’ecosistema isola e quello penitenziario si mutuano e compenetrano, ci spiega Calzolaio, ma ciò non cancella l’anomalia animata dalla più angosciosa contraddizione di fondo: un’isola è per sua vocazione finestra sul mare, e dunque metafora di un orizzonte senza confini, il carcere è brutale privazione della libertà. Calzolaio ha censito migliaia di isole-carcere, molte le ha visitate, e una cinquantina le racconta, con un intento di obbiettività scientifica opportunamente percorso da una calda vena di pietas. E le pietre di quegli antichi - o purtroppo ancora attuali - luoghi di sofferenza, paradossalmente calati nel contesto di una natura che non tollera di lasciarsi imprigionare - ci parlano attraverso vicende esemplari di dolore, prevaricazione, atrocità, ma anche riscatto e persino trionfo: la Santo Stefano - ora in via di recupero e riconsegna ad una nuova vocazione di polo culturale - dove languirono i patrioti del Risorgimento e Sandro Pertini; la Ventotene del Manifesto per l’Europa di Altiero Spinelli e Ernesto Rossi; l’Asinara, oggi parco naturale di incomparabile e struggente bellezza; Goli Otok, l’isola calva perché senz’acqua, dove Tito confinò gli ortodossi dopo la rottura con Stalin; la Gorgona di memoria dantesca, oggi avanzato esperimento di carcere aperto; Chateau d’If, rocca-prigione a vista di Marsiglia, nota più per “Il Conte di Montecristo” che per i veri prigionieri che vi erano rinchiusi; l’Isola del Diavolo, dove l’innocente Dreyfus fu relegato, vittima sacrificale dell’antisemitismo della società francese di fine Ottocento e, tanti anni dopo, il forzato Papillon ambientò le sue più o meno credibili imprese; Imrali, dove da vent’anni tengono Apo Ocalan, leader dei curdi oppressi, in un regime di isolamento che mira a colpire il corpo come la mente; Robben Island, che Nelson Mandela, nella sua lunga prigionia, trasformò nell’università della futura liberazione del Sudafrica. E, naturalmente, Lampedusa, dove ancora una volta la contraddizione fra l’isola come avamposto verso l’infinito e le mura di contenimento esplode con il trattenimento dei migranti. Da tutto questo materiale discende una delle più profonde e convincenti riflessioni scritte negli ultimi anni sul rapporto fra natura, natura umana, istituzioni e pena. “Falcone fu chiamato Batman, lo sceriffo, il giustiziere. Anche così cominciò la sua fine” di Teresa Ciabatti Corriere della Sera, 23 aprile 2022 Il nuovo romanzo di Roberto Saviano “Solo è il coraggio” (Bompiani) riesce di nuovo - come “Gomorra”, come “La paranza dei bambini” - a spostare l’immaginario collettivo. Restituisce una realtà complessa, molto più complessa di come l’abbiamo creduta fin qui. Nel caso specifico: Falcone, il pool antimafia, e il Maxiprocesso. Saviano lo fa mettendo in fila fatti (che a oggi nessuno aveva allineato con tanta precisione, eliminando gli intervalli di tempo che hanno sfumato sentimenti e colpe). Attraverso il montaggio dunque, e attraverso la letteratura lo scrittore racconta una storia nuova. Indaga il privato, ovvero “lo spazio intimo dove ci si muove al riparo dai pubblici sguardi”. Lì “dove maturano le scelte cruciali, si prova il dolore più profondo, si gioisce dell’ebbrezza più piena”. E ancora: “Ciò che la letteratura può fare per testimoniare la solitudine e il coraggio”. Quanti anni aveva lei il 23 maggio 1992? “Tredici”. Cosa ricorda di quel giorno? “Il silenzio. Davanti alla televisione che dava la notizia della strage, ricordo che nessuno parlava: mio padre, mia madre, le zie. Fuori la stessa cosa, uscendo dal portone si sentivano solo le tv, nessuna voce”. Insolito? “Qualcosa del genere, il palazzo che produce un unico suono, era successo per il Mondiale di calcio. In seguito, per la faida di Secondigliano, quando le persone - sintonizzate sulle radio locali che davano Napul’è di Pino Daniele - aprirono le finestre. Il modo per dire alla faida di fermarsi”. Perché un romanzo su Falcone? “La sua figura mi ha insegnato a leggere il potere, la semantica del potere, quanto Max Weber”. Corleone 1942... “Il libro inizia e finisce con una bomba. Lungo la storia ci sono tante esplosioni, l’idea è quella di una guerra civile costante. La bomba iniziale riguarda Totò Riina che vede morire il padre e un fratello nell’esplosione di un residuo bellico che stanno disinnescando per rivenderne i pezzi. Un altro fratello rimane gravemente ferito. Totò ha dodici anni: fra quelli presenti è l’unico rimasto illeso, insieme alle donne della famiglia Riina che sono in giro per il paese”. Lei fa dire a Buscetta: “Che gli vuoi insegnare la diplomazia, a uno che gli è saltata in aria la famiglia davanti agli occhi”. È davvero Riina il più feroce? “Riina non risparmia nessuno. Casomai ammazza uno in più, mai uno in meno. Con Bontate, Badalamenti e Liggio al vertice della cupola ancora era possibile qualche forma di mediazione. Le guerre andavano evitate, ai mafiosi come allo Stato. La mafia doveva esistere all’interno dello Stato, aiutarlo, se c’era una reciproca convenienza. Viceversa con Riina e Provenzano il mondo intero è in pericolo: mafiosi, magistrati, poliziotti, testimoni, politici”. Il passaggio dai palermitani ai corleonesi? “Riina si estende con la violenza, non rispetta le regole degli omicidi, uccide chiunque”. Un esempio? “Totuccio Contorno, guardaspalle del boss Stefano Bontate, sapendo che è sotto tiro dei corleonesi, decide di portarsi in macchina un amichetto di suo figlio”. Motivo? “La legge della vecchia mafia voleva che con un bambino al seguito nessuno potesse essere ucciso”. Invece? “I corleonesi se ne fregano. Ma Contorno capisce l’agguato in anticipo, vedendo un uomo affacciato al bancone, come in attesa di qualcosa, e poi un altro ancora. Allora spinge il bambino fuori dalla macchina, esce, spara e fugge. A quel punto la guerra è di tutti contro tutti”. Dall’altro lato, a cercare di fermarli? “Un gruppo di magistrati, prima sotto Rocco Chinnici, poi sotto Nino Caponnetto - la nascita del pool vero e proprio”. Il metodo d’inchiesta di Giovanni Falcone? “Falcone lo impara da Rocco Chinnici e lo migliora. La regola di seguire i soldi, follow the money, è un esempio del metodo Falcone. Chinnici desume le verità, Falcone trova le prove”. Nel libro è ribadita l’importanza del lavoro di gruppo, quel “più persone sanno meglio è”... “Prima di Falcone indagini e processi erano separati per territori. La teoria che andava per la maggiore era che la mafia non esistesse, che non ci fosse un’organizzazione vera e propria e che si trattasse piuttosto di quattro contadini impegnati a farsi giustizia tra loro”. Altro principio di Falcone: il senso della staffetta... “Più che un principio era una maledizione. Non si faceva in tempo a finire un’indagine, che si veniva ammazzati: questo mi ha suggerito l’immagine di un uomo che corre e che riesce a consegnare il testimone a quello che sta davanti a lui appena prima di cadere. All’altro, purtroppo, toccherà la stessa sorte, e così via. Quella di Chinnici, Falcone, Borsellino è una scelta individuale che nasce anche dal dovere nei confronti dei colleghi e amici che li hanno preceduti. Nessuno voleva essere un eroe. Falcone parlava di compito. Considerava la sua una consegna”. La vera svolta è l’arresto di Buscetta? “Senza Buscetta non si sarebbe saputo neanche che la mafia si chiamava Cosa Nostra”. Il significato di Cosa Nostra? ““Occupati di ciò che è tuo”, concetto che implica un giudizio sugli altri considerati in base a come si sono comportati con te. Non valgono le voci, la giustizia. L’unica domanda di fronte a una persona è: cosa ha fatto per noi? È stato cosa nostra?”. 10 febbraio 1986: Maxiprocesso... “Subito i boss negano l’esistenza di un’organizzazione. Sostengono che sia colpa dei film se la gente pensa che esiste la mafia, la mafia non esiste. Il boss Michele Greco dice: “Sono i film di violenza e di pornografia”, citando Il Padrino, colpa de Il Padrino” . Il Padrino? “Per loro è un punto di non ritorno, non per un problema d’inchiesta, ma per un problema di immagine: la mafia non era mai stata raccontata così, come una famiglia, come l’insieme di regole di famiglia. C’erano stati film sui gangster, sì, che tuttavia non svelavano niente. Difatti il giorno in cui Coppola va a fare i sopralluoghi a Little Italy gli bruciano le camere, provano in ogni modo a fermare il film”. Tornando al Maxiprocesso... “Riina si presenta così: “Io sono un terza elementare”. Contorno parla in siciliano stretto tanto che sono costretti a chiamare un traduttore. Eppure dialetto non significa ignoranza, cosa che Falcone sa bene. Nelle case di ogni mafioso, a cominciare da Riina, c’è il romanzo I Beati Paoli (di William Galt, pseudonimo del palermitano Luigi Natoli, ndr) che ciascuno di loro ha letto e riletto. Gli uomini d’onore chiamano Contorno col nome del protagonista: Coriolano della Floresta. Lui stesso, storpiandone il nome in “Curiano della Foresta” e dimostrando così di non aver letto il libro, ammette di essere chiamato in quel modo”. Durante il Maxiprocesso gli imputati negano ogni accusa? “Dagli avvocati difensori agli imputati, chiunque cerca di mettersi di traverso. Turi Ercolano, cugino del boss Nitto Santapaola, si presenta con la bocca cucita a colpi di spillatrice. Vincenzo Sinagra fa scattare il metal detector dichiarando di aver ingoiato due chiodi”. Vincenzo Sinagra, colui che fa il racconto più cruento... “Parla della “camera della morte”, un deposito in apparenza abbandonato nella zona sud est di Palermo dove venivano torturate le persone, e poi gettate nell’acido, nella vasca piena d’acido, “diventavano liquidi” racconta”. Intanto sui giornali prende avvio la delegittimazione di Falcone? “Dicono che è un carrierista, che dà spettacolo. Scrivono che il Maxiprocesso è utile ai fini spettacolari, ma dannoso ai fini giudiziari. Sul Corriere della Sera Leonardo Sciascia scrive: “Nulla vale più in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”. Parlano di “un gruppo di giudici presenzialisti che vogliono vedere la propria foto sul giornale”. Falcone resiste? “Da anni, da quando ha iniziato l’indagine, in tribunale viene deriso: “Batman”, “il giustiziere della notte”, “lo sceriffo”. Se va in un ristorante, se esce di casa, il pensiero comune è che sia osceno che uno come lui si diverta. Non è per questo che i cittadini pagano la sua scorta, ma perché patisca e incarni la sofferenza”. Il momento peggiore? “Dopo l’attentato all’Addaura definito poco credibile. Fanno girare la voce che la bomba se la sia fabbricata lui stesso con l’aiuto della scorta. In un’intervista a Corrado Augias, Falcone dice: “Questa è l’Italia: se ti mettono una bomba sotto casa e non muori, sei responsabile”. Al suo fianco, in ogni momento, Francesca Morvillo? “Magistrato a sua volta, e dei migliori, Francesca sapeva bene cosa rischiava Giovanni. Decide di condividerne il destino”. Nel libro emerge la figura di Giulio Andreotti, il suo ruolo apparentemente ambiguo... “Io riporto i fatti, come la telefonata a Falcone dopo l’Addaura. Non si conoscevano, non si erano mai parlati. Andreotti lo chiama per congratularsi dello scampato pericolo”. Andreotti perciò? “Nella ricostruzione tengo aperta la complessità. Di sicuro era in stretti rapporti con Salvo Lima e i cugini Salvo. È pur vero però che fosse contro i corleonesi. Ayala fa notare che Capaci avviene nel momento in cui Andreotti sta per essere rieletto. L’attentato ha il valore di un avvertimento”. Quando decidono di uccidere Falcone? “Ci provano nuovamente nel periodo romano. Un giorno in un bar vedono Renzo Arbore e pensano: peccato che non sia nella lista delle celebrities da ammazzare. Avevano preso di mira anche Pippo Baudo, Maurizio Costanzo, Enzo Biagi, Andrea Barbato, Michele Santoro...”. Il senso? “Ammazzare uno famoso per farsi notare. Per fare rumore e far capire che tutti sono esposti. Poi capiscono che un attentato in Sicilia è maggiormente tutelato”. I mafiosi costruiscono narrazioni parallele ai loro omicidi? “Per l’omicidio di Don Puglisi fanno sapere che raccoglieva droga, sottintendendo che molta se la teneva per sé. Quindi inventano la storia del tossico bruciato in una macchina, facendo credere che sia stato lui a uccidere il sacerdote. Su Ninni Cassarà c’è l’invenzione dei debiti di gioco. In generale la risposta consueta agli omicidi di mafia è che “era un femminaro”. Perché? “L’ossessione dei mafiosi per la monogamia. Riina ha avuto un’unica donna nella vita, la moglie. Così il padre, così il nonno. L’adulterio è una prova: se tradisci tua moglie, puoi tradire anche gli altri. Fino agli anni Settanta c’erano condizioni precise per poter diventare affiliato: non essere iscritto al partito comunista, non essere iscritto al partito socialista, non essere gay, non avere i genitori divorziati, non tradire, non andare a prostitute”. Buscetta è diverso? “Amavo troppo la vita per stare a queste regole” si giustifica. Ha avuto tre mogli, nove figli di cui due uccisi su ordine di Riina. Durante una festa in Brasile, l’ultima moglie lo vede flirtare con un’altra donna, e gli spacca una bottiglia in testa”. Esiste un’estetica criminale? “Anche questa ha le sue leggi. Prendiamo l’unghia del mignolo lunghissima, a triangolo: quella comunica che in carcere non rassetti, non cucini, non ti fai la barba, ma qualcuno lo fa per te”. Altro? “I pantaloncini sono malvisti. Nel momento in cui Liggio prova ad attaccare Buscetta dice: “Io non vorrei scoprire il culetto a nessuno, ma Buscetta venne in pantaloncini corti a dirmi...” e lo accusa di avergli detto del famoso Golpe Borghese di cui racconto nel libro. Il dettaglio dei pantaloncini è fondamentale per screditarlo”. Ulteriori oggetti o comportamenti giudicati male? “Niente ombrello, niente trolley, il trolley ti rovina la reputazione. Devi bagnarti, e avere il borsone a tracolla. Il capitano dei carabinieri settentrionale che a Casal di Principe va in caserma in bicicletta, viene richiamato. Gli chiedono di non usare la bicicletta, lui pensa per una questione di sicurezza, invece: “La gente vi vede che siete venuto a prendere Sandokan in bici” spiegano. Costituiva un segno di debolezza, qualcosa da femmina”. I film su camorra e mafia possono sviare qualcuno (come sosteneva Michele Greco per Il Padrino)? “Nessuno, che non fosse già in un mondo criminale, ha preso le armi e sparato per aver visto un film. Diverso è il discorso mediatico. Se sui giornali trovi titoli come “rapina alla Gomorra”, significa che prima non la vedevi, e ora, dopo aver visto la rappresentazione, la vedi”. Gomorra, al pari de Il Padrino, ha dato fastidio? “Sui muri di Scampia non troverai scritte contro i boss e le famiglie mafiose, ma sempre: “Saviano merda”. La corrispondenza tra Falcone e Saviano nella dimensione intima? “Con i miei anni di scorta so che significa la gestione del proprio corpo quando tutto è vietato”. Cos’è la solitudine? “Falcone sente che la sua è una vita mancata, ha scelto di non avere figli: “Non si mettono al mondo orfani”, dice. Sono poche le persone di cui può fidarsi, molti amici si trasformano in nemici. Un’esistenza di rinuncia, che comunque attira dubbio, sospetto”. Il peso della delegittimazione continua? “Lo capisce Falcone, lo capisce Pasolini: dalla maldicenza, dal fango, solo la morte dà pace”. Nient’altro? “Nient’altro”. Dal Covid alla guerra, che cosa succede se lo stato di emergenza diventa permanente di Michele Ainis La Repubblica, 23 aprile 2022 Uno strumento eccezionale per tempi eccezionali è divenuto una routine, il nuovo abito delle nostre istituzioni. Con quali conseguenze? L’emergenza è per sua natura temporanea, come la fiamma d’un cerino. Noi invece stiamo sperimentando l’emergenza permanente: dopo il Covid, la guerra. E lo stato d’emergenza - strumento eccezionale per tempi eccezionali - è divenuto una routine, il nuovo abito delle nostre istituzioni. Con quali conseguenze? Primo: la rottura degli argini temporali eretti dall’ordinamento. Dice il codice della protezione civile (articolo 24): “La durata dello stato di emergenza di rilievo nazionale non può superare i 12 mesi, ed è prorogabile per non più di ulteriori 12 mesi”. Quindi massimo due anni, e una sola proroga, a leggere la norma parola per parola. Sennonché la dichiarazione dello stato d’emergenza, in nome della pandemia, fu decisa dal secondo governo Conte il 31 gennaio 2020; venne poi prorogata per 6 volte; si è estesa per 26 mesi (fino al 31 marzo 2022). Quanto alla guerra in Ucraina, il governo Draghi ha dichiarato lo stato d’emergenza “per intervento all’estero” il 25 febbraio scorso, con una durata di tre mesi; ma il 28 febbraio, dopo tre giorni appena, lo ha già prorogato al 31 dicembre 2022. Secondo: la stagione del disordine, nelle regole e nelle competenze. Durante il lockdown, ne offrì prova l’imponente conflitto tra poteri centrali e locali, con quella pioggia di provvedimenti contrastanti di ministri, governatori, sindaci. Tuttavia la confusione s’iscrive nello stesso Dna dello stato d’emergenza. Difatti il codice della protezione civile (articolo 25) permette che le ordinanze adottate per fronteggiare la situazione di pericolo dispongano “in deroga ad ogni disposizione vigente”, sovvertendo perciò la gerarchia delle fonti normative. Ma l’esperienza fin qui maturata ha messo in crisi pure la certezza del diritto. Con l’abuso dei Dpcm, atti individuali del presidente del Consiglio, sottratti al controllo della Consulta e del capo dello Stato. E con l’eclissi delle assemblee legislative, benché la Costituzione (articolo 78) ne faccia il perno del sistema durante la massima emergenza, ossia in caso di guerra. Invece il Parlamento ha approvato soltanto 14 provvedimenti emergenziali sotto il governo Conte, 18 con Draghi; e si è trattato di altrettante conversioni di decreti, eccetto una legge del marzo 2021 che istituiva la Giornata in memoria delle vittime da coronavirus. Insomma, l’emergenza riflette uno stato di disordine, ma a sua volta lo alimenta. Terzo: l’emorragia di regole e precetti. In Italia, un vecchio male, su cui però l’emergenza ha agito come una lente d’ingrandimento, moltiplicandone gli effetti. E i dati raccolti da Openpolis sono fin troppo eloquenti. Difatti la gestione della pandemia ha stimolato l’adozione di 929 atti normativi dalle sole istituzioni nazionali, con una media di 34 al mese, equamente suddivisi fra il secondo governo Conte (507) e il gabinetto Draghi (422). Quasi sempre decisioni individuali, firmate da un commissario o da un ministro: quello della Salute (374 atti), il capo della Protezione civile (125), ma perfino il ministro dell’Agricoltura (3 atti). Da qui un ulteriore corollario dello stato d’emergenza: l’accentramento del potere, che relega sotto un cono d’ombra qualsiasi organismo collegiale, dal Parlamento ai Consigli comunali. E il potere solitario ordina, sanziona, dispone per decreto. Quarto: la paura. Un sentimento collettivo, che contagia e plasma le stesse istituzioni. C’è un pericolo, dunque un nemico; e allora ti difendi con dispositivi di protezione individuale (ieri le mascherine, oggi l’acquisto di bunker antiatomici: 700 richieste in Lombardia) ma al contempo offendi, diventi più aggressivo. Contro i cinesi ritenuti responsabili del virus, ciò che a suo tempo propagò un’ondata d’odio, costringendo alla chiusura decine di ristoranti orientali. Contro i russi per le colpe di Putin, sicché - per dirne una - i tennisti russi vengono esclusi dai tornei. Da qui la militarizzazione del dibattito pubblico, da qui l’antico riflesso d’affidare la salvezza a un dictator, a un capo militare. Accadde già nella storia romana, quando Cincinnato ne fu un celebre esponente. E accade pure adesso, anche se né Conte né Draghi avrebbero il physique du rôle. La guerra e l’informazione: una bussola di valori per il futuro di Giovanni Lo Storto Corriere della Sera, 23 aprile 2022 L’allarme per il conflitto in Ucraina è tanto forte da indurre impotenza: da una parte il ritorno della violenza ancestrale e reale, dall’altra i fuochi fatui dell’opinionismo televisivo riconvertito in un click. “Pure battono alla porta, questo è positivo. Un messaggero forse, uno spirito, un’anima, venuta ad avvertire. È una casa di signori, questa. Ci usano dei riguardi, alle volte, quelli dell’altro mondo” con queste parole si chiude un bellissimo racconto di Dino Buzzati dove i signori Gron non vogliono accorgersi, malgrado i tanti allarmi avuti, che il fiume sta portando via la loro casa e, forse, le loro vite. Oggi l’allarme “Guerra in Ucraina” è tanto forte da indurre impotenza: da una parte il ritorno della violenza ancestrale e reale, dall’altra i fuochi fatui dell’opinionismo televisivo riconvertito in un click, dalla pandemia alla strategia militare, da Pasteur a von Clausewitz. Il filosofo Bertrand Russell ci ricordava che l’umanità, per gli educatori, “è una sola famiglia con interessi comuni…la collaborazione più importante della competizione”. Lo studioso Edgard Morin aggiungeva “Nella Storia l’inaspettato accade e si ripeterà. Pensavamo di vivere certezze, statistiche, previsioni e con l’idea che tutto fosse stabile, mentre tutto entra in crisi. Non ce ne siamo accorti. Dobbiamo imparare a convivere con l’incertezza, cioè avere il coraggio di… resistere alle forze negative. La crisi ci rende più pazzi e più saggi”. Davanti a città rase al suolo in Europa, stampate ancora nella memoria dei nostri nonni, è cruciale delineare un percorso educativo e di comunità che riparta dai valori fondamentali che ci guidano sempre nei momenti bui in cui l’etica ci impone di scegliere da che parte stare nello spazio di un attimo. Abbiamo visto padri accompagnare alla frontiera Ucraina-Polonia mogli e figli, abbracciarli, tornare al fronte, immagini che ci resteranno nei cuori. Abbiamo visto i cadaveri carbonizzati di donne e bambini, legati e abbandonati nelle strade di Bucha o di Makariv, che rimandano alle pagine dell’Omero che narra la ferocia della battaglia “e di cani e di augelli orrido pasto lor salme abbandonò…”. La riprovazione non serve da sola, servono fatti, reazioni che partano proprio dalle università che preparano i ceti dirigenti: il conflitto bellico, nelle sue diverse e crudeli sfaccettature, induce una riflessione profonda e seria su come si costruisce il Sapere composto da una conoscenza di base essenziale e fondativa sulla quale sviluppare la pur necessaria formazione specialistica. Ha colpito l’immaginario popolare il recente restauro del tetto della chiesa di San Tommaso a Pesaro, che ha riportato alla luce decine di palloni finiti lassù dai ragazzini che giocavano sul piazzale antistante. Mi sono chiesto quanto spazio della loro giornata e quante possibilità abbiano i bambini oggi di perdersi dietro il rimbalzo di un pallone con i loro amici e non dietro ad un click sul cellulare. E allora, in quei palloni dimenticati dalle marche più disparate Santos, Tango, Supertela, provo a ritrovare i “fondamentali”: Pensiero critico, spingersi a capire le ragioni degli altri, ma senza giustificare aggressione e crimini di guerra; Consapevolezza che la libertà può perdersi, va coltivata, da parte delle istituzioni come custodi e difensori della democrazia e dei valori democratici; Partecipazione alla vita pubblica e al confronto, pur acceso, nel rispetto della legittimità delle posizioni rivali; Politica, nel senso nobile nella responsabilità delle scelte di un Paese, elidendo demagogia e populismi; Informazione, per evitare di sapere di più e capire di meno, come ammoniva Jean Monnet ben prima di Google. Ci servono studio, preparazione, competenza, passione civile. I leader del futuro, oggi ragazze e ragazzi, devono possedere tecniche di consapevolezza, responsabilità, senso della comunità e del proprio ruolo tra passato e futuro. Quando la Storia cambia passo, come in questo 2022, decidere in base all’emotività induce a errori di prospettiva, perché la sovranità di un paese è fatta da volontà e determinazione degli abitanti, ma anche da risorse concrete che le sostanziano e le rendono possibili, come l’indipendenza energetica. Saremmo capaci di ripensare al nucleare, frettolosamente abbandonato per comprare tuttavia elettricità “nucleare” dalla Francia, con un costo superiore del 30% per imprese e famiglie sulla media europea e immutati rischi in caso di incidente oltre le Alpi? L’Ambiente resta un “fondamentale”, abbiamo un solo pianeta, ma le priorità vanno riviste senza demagogia (slogan). Si apre una stagione di Doveri, davanti e dietro le cattedre. Dobbiamo progettare nuove mappe o meglio gps per orientarci, capaci di modulare la direzione giusta sui valori delineati: una formazione fast food, buona per tutti in tutto il mondo non ci serve più, sempre che sia mai servita a qualcosa di buono. Quando i rifugiati diventano un’arma: perché la guerra in Ucraina è (finora) diversa dalle altre di Arianna Farinelli La Repubblica, 23 aprile 2022 L’Occidente è stato molto accogliente con i profughi del conflitto ucraino, ma le cose potrebbero cambiare. L’empatia, purtroppo, rimane un sentimento transitorio e selettivo. In guerra i profughi diventano armi, strumenti di coercizione, attentati alla stabilità politica dei Paesi confinanti. L’invasione dell’Ucraina ha prodotto cinque milioni di profughi e sei milioni di sfollati all’interno del Paese, quasi un quarto della popolazione. L’obiettivo del regime di Putin era quello di far pressione sui Paesi europei affinché convincessero gli ucraini alla resa. Per quanto terribile, l’arma dei profughi è tutt’altro che originale. Gli eventi di oggi, infatti, sembrano pagine strappate alla Storia di decenni passati. Altre volte i richiedenti asilo sono stati trasformati in proiettili da utilizzare contro Paesi democratici. In piena Guerra Fredda la Germania comunista promise ai migranti provenienti dal Medio Oriente l’accesso in Europa attraverso Berlino Est. Nel 1980 il regime di Castro fece partire alla volta della Florida decine di migliaia di migranti cubani mettendo in difficoltà l’amministrazione Carter. Nel 1998 il dittatore serbo Milosevic costrinse i kosovari musulmani ad ammassarsi al confine con l’Albania per sfuggire alla pulizia etnica. Erdogan, invece, ha preteso dall’Unione Europea il pagamento di sei miliardi di euro per frenare i milioni di profughi siriani in fuga dalle armi chimiche di Assad. Infine, nel 2021, il dittatore bielorusso Lukashenko ha invitato a Minsk migliaia di migranti curdi, afghani e siriani promettendo loro di entrare in Europa attraverso la frontiera polacca e lituana - una vendetta per le sanzioni imposte al suo regime dopo la repressione del 2020. Il risultato è stato che i Paesi confinanti, violando i trattati internazionali, hanno respinto i richiedenti asilo verso la Bielorussia abbandonandoli nei boschi in inverno. In questo conflitto, però, l’arma dei rifugiati utilizzata da Putin non sortisce l’effetto previsto. La Polonia ha accolto due milioni e mezzo di migranti pur avendo un governo nazionalista contrario all’immigrazione. L’Ungheria ne ha accolti 340 mila anche se il suo primo ministro, Viktor Orbán, nel 2015 fece costruire una recinzione al confine per tenere lontani i profughi. Con una decisione senza precedenti l’Unione Europea ha concesso agli ucraini la possibilità di richiedere asilo politico per un anno, dando loro il diritto di vivere, lavorare e ricevere assistenza medica nei Paesi dell’Unione. L’Italia ha offerto rifugio a 80 mila profughi, la Germania a 300 mila (con il beneplacito di partiti di estrema destra come Afd). Il Regno Unito mette a disposizione 350 sterline per ogni famiglia ucraina mentre il primo ministro Boris Johnson dichiara che i richiedenti asilo provenienti da altri Paesi dovranno aspettare in Ruanda che la loro richiesta venga esaminata. Infine, gli Stati Uniti sono pronti ad accogliere 100 mila ucraini e a contribuire con un miliardo di dollari all’assistenza dei rifugiati in Europa. L’Economist ha pubblicato alcuni dati interessanti sull’atteggiamento degli americani. Il 61 per cento degli intervistati si dice favorevole ad accogliere i profughi ucraini, mentre per afghani, siriani e sudamericani solo il 40 per cento è disponibile. Purtroppo, questi dati confermano che l’empatia è influenzata da fattori etnici e culturali: le persone sono più propense a prendersi cura di chi ha simili tratti somatici e professa la stessa religione. Inoltre, il diverso atteggiamento del governo americano si riverbera sul sentire dell’opinione pubblica: il 76 per cento degli americani considera l’Ucraina un Paese alleato, mentre gli afghani e i siriani provengono da Paesi considerati nemici. Infine, mentre i migranti che arrivano dal Medio Oriente sono spesso uomini, quelli che giungono dall’Ucraina sono in prevalenza donne e bambini (gli uomini sono coscritti). Il diverso atteggiamento del governo americano rispetto agli ucraini è testimoniato anche dal reportage del Wall Street Journal: il confine tra gli Stati Uniti e il Messico, chiuso dallo scoppio della pandemia, è aperto a chi fugge dalla guerra in Ucraina e dal regime di Putin. Da Tijuana, solo nei mesi di febbraio e marzo, sono passati 13 mila ucraini e 30 mila russi (possono entrare solo i russi con parenti americani). A Tijuana gli ucraini ricevono asilo in una o due settimane (l’attesa per i sudamericani è di mesi invece). Anche gli ucraini devono aspettare in Messico che la loro domanda venga esaminata - una disposizione introdotta dall’amministrazione Trump e adottata anche da quella Biden. Per i minori ucraini non accompagnati dai genitori - ma da parenti o amici perché i genitori sono morti o combattono i russi - torna in vigore l’odiosa pratica di separare i bambini dagli adulti (anche questa già sperimentata durante gli anni di Trump per scoraggiare l’immigrazione). In questo caso i minori ucraini vengono posti sotto tutela del governo finché i documenti per entrare negli Stati Uniti non sono pronti. Secondo il New York Times, i minori dormono per terra con coperte di stagnola, in celle che condividono con almeno 20 altri bambini - una pratica disumana già criticata da molti. In conclusione, l’Occidente è stato molto accogliente finora con i profughi del conflitto ucraino ma le cose potrebbero cambiare. L’accoglienza nel tempo potrebbe vacillare ed esaurirsi. In fondo è già accaduto nei confronti di chi scappava dalla guerra civile in Venezuela e in Siria, di rumeni e bulgari dopo l’ingresso nell’Ue nel 2007, dei polacchi (ricorderete la paventata minaccia dell’invasione degli “idraulici polacchi” in Francia) e degli immigrati in generale ai tempi della Brexit. L’empatia, purtroppo, rimane un sentimento transitorio e selettivo. Unicef: nel mondo 261.000 minori detenuti Avvenire, 23 aprile 2022 “Estimating the number of children deprived of their liberty in the administration of justice”: si intitola così il rapporto pubblicato dall’Unicef nel novembre 2021 e dedicato ai bambini che, in tutto il mondo, vengano tenuti in detenzione. Dall’analisi, emerge il dato allarmante di 261.000 minori finiti dietro le sbarre, ma si tratta di dati parziali, poiché in molti Paesi la registrazione dei detenuti risulta incompleta. Per porre fine in sicurezza alla carcerazione dei bambini, l’Unicef chiede ai governi e alla società civile di investire nelle attività per la consapevolezza dei loro diritti legali nei sistemi di giustizia e di welfare, specialmente per i minori più emarginati; espandere l’assistenza legale gratuita, la rappresentanza e i servizi per tutti i bambini; dare priorità alla prevenzione e all’intervento precoce nei reati minorili e al dirottamento verso alternative appropriate; porre fine alla detenzione dei bambini, anche attraverso riforme legali per aumentare l’età della responsabilità penale; garantire la giustizia per i minori sopravvissuti alla violenza sessuale, all’abuso o allo sfruttamento; stabilire tribunali specializzati a misura di bambino. “Ogni minore detenuto è la prova del fallimento dei sistemi - dichiara Henrietta Fore, direttore generale del Fondo Onu per l’infanzia -. Dobbiamo lavorare insieme per porre fine alla reclusione dei bambini”. Sette sindacalisti bielorussi scomparsi dopo l’arresto: dove sono? di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 aprile 2022 Il 18 e il 19 aprile le forze di sicurezza della Bielorussia hanno perquisito gli uffici e le abitazioni di un gruppo di sindacalisti indipendenti, appartenenti al Congresso bielorusso dei sindacati democratici. Al termine delle operazioni, 16 di loro sono stati arrestati: Yana Malash, Vital Chychmarau, Hanna Dus, Alyaksandr Bukhvastau, Vasil Berasneu, Henadz Fyadynich, Alyaksandr Yarashuk, Siarhei Antusevich, Mikalai Sharakh, Alyaskandr Yeudakimchyk, Iryna But-Husaim, Mikhail Hromau, Vadzim Payvin, Yury Beliakou, Dmitry Baradko e Ihar Lednik. Secondo il gruppo per i diritti umani “Viasna”, quattro di loro si trovano in un centro per la detenzione preventiva gestito dai servizi di sicurezza e altri cinque sono detenuti altrove. Degli altri sette, non si è saputo più nulla. Prima di quest’ennesima azione repressiva, l’11 aprile le autorità avevano dichiarato “estremista” e messo al bando il Sindacato indipendente bielorusso dei lavoratori dell’industria radiofonica ed elettronica.